Destini incrociati

di Cosmopolita
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio della fine ***
Capitolo 2: *** Fuga tempestiva ***
Capitolo 3: *** Un nuovo amico ***
Capitolo 4: *** ombra e luce ***
Capitolo 5: *** Una vendetta difficile ***
Capitolo 6: *** Ricominciare a vivere ***
Capitolo 7: *** Quattro fratelli... ***
Capitolo 8: *** La musicista e il saggio ***
Capitolo 9: *** Di che reggimento siete, fratelli? ***
Capitolo 10: *** è Natale anche in guerra! ***
Capitolo 11: *** Tutto è nero ***
Capitolo 12: *** Dichiarazioni ***
Capitolo 13: *** Nuove conoscenze ***
Capitolo 14: *** Scoperte ***
Capitolo 15: *** Così diversi, così uguali... ***
Capitolo 16: *** Ricordi ***
Capitolo 17: *** Amori vecchi e amori nuovi ***
Capitolo 18: *** Angeli custodi e amici ***
Capitolo 19: *** Il limpido stupore dell'immensità ***
Capitolo 20: *** La speranza non muore mai ***
Capitolo 21: *** Come d'autunno ***
Capitolo 22: *** La fine dell'inizio (epilogo) ***



Capitolo 1
*** L'inizio della fine ***


Londra, 3 settembre 1939
"Due giorni fa, il primo settembre millenovecentotrentanove, è stato consegnato un dispaccio diplomatico a Berlino in cui si dichiarava che se i tedeschi non avessero ritirato le proprie truppe dal territorio polacco, avremmo preso questo affronto come una dichiarazione di guerra. Vi informiamo che il nostro volere non è stato rispettato, per cui oggi, tre settembre, l'Inghilterra è in guerra contro la Germania"


La radio continuò ancora a ciarlare a vuoto sui valori che i tedeschi avevano calpestato e che spettava agli inglesi far rispettare. Ma Arthur non stava a sentire.
Non voleva crederci, sperava che fosse solo un incubo orribile, che lui si sarebbe svegliato e avrebbe trovato sua madre con il sorriso sulle labbra mentre gli dava il buongiorno.
Ma quella era la realtà, non stava dormendo e sua madre , vicino a lui,non sorrideva, ma aveva gli occhi spalancati e la mano sulla bocca, quasi come se anche lei non volesse crederci.
Arthur Kirkland non aveva vissuto la "Grande guerra", lui era nato molto più tardi ed era abituato a non pensare granchè alla guerra "Ne hanno appena fatto una, perchè dovrebbero rifarne un'altra?" si ripeteva sempre. Eppure ora erano in guerra con i tedeschi!
Sua madre cominciò ad accarezzargli i capelli biondi piano e con dolcezza, come se avesse il brutto presentimento di non poterli toccare mai più.
- Non preoccuparti, mamma, andrà tutto bene!-
Andrà tutto bene. Suonavano talmente ridicole quelle parole, che Arthur avrebbe preferito non dirle...






Ciao a tutti! Ci tenevo a dirvi che questo è solo un prologo, che gli altri capitoli saranno più lunghi (ma non troppo!). Mi raccomando, recensite, anche solo per dirmi di lasciar perdere!

E infine, ma non per questo meno importante, vorrei pubblicamente ringraziare historygirl93, Hana Angel e Sokew86, per aver recensito la mia prima fic e Kuro_Renkinjutsushi per averla messa tra le "storie seguite"

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Capitolo 2
*** Fuga tempestiva ***


Campagna francese (vicino Brest), 30 novembre 1942

Francis Bonnefoy era affacciato alla finestra quando vide la macchina nera come la morte avvicinarsi lenta verso casa sua.
Il veicolo parcheggiò e l'uomo che ne uscì era, doveva ammetterlo, molto bello. Sembrava essere giovane, aveva i capelli di un biondo quasi bianco e gli occhi di una tonalità di marrone piuttosto chiara.
Ad un occhiata più approfondita però ,Francis notò che non erano marroni ma rossi. Con quell'aspetto e con quell'uniforme, il soldato sembrava il Nazismo in persona.
Il francese si avvicinò all'ingresso, ripetendo a se stesso di stare calmo, di sembrare sicuro di se ma allo stesso tempo simulare almeno un briciolo di rispetto. Non aspettò nemmeno che quello bussasse.
- Bonjour, monsieur!- salutò aprendo la porta
- Bonjuor monsieur...- il crucco lesse qualcosa da un foglietto - Bonfoy!-
- Bonnefoy, monsieur!- lo corresse, ma il tedesco continuò a parlare imperterrito
- Je suis le lieutenant Gilbert Beilschmidt!- (io sono il tenente Gilbert Beilschmidt!) si presentò
-Je suis tres heureux de connaît- vous, monsieur- (sono molto contento di conoscervi, signore).In realtà disprezzava i tedeschi, odiava il loro accento rigido che deturpava "la romantica lingua francese" per dirla modo suo.
Lo fece accomodare in sala da pranzo e gli chiese il motivo della visita -Mais oui, monsieur Bonnefoy! Sappiamo che circa cinque anni fa ,dalla Spagna, è giunto nel paese qui vicino un certo Antonio Fernandez Carriedo. Ci è giunta voce che lei era in ottimi rapporti con il signore!-
Francis non sapeva cosa doveva fare: mentire? No, i tedeschi a suo parere ne sapevano una più del diavolo ed era meglio non rischiare
- Si, eravamo amici!- ammise. Gilbert rimase colpito da tanta sincerità
- E il signor Carriedo le ha mai detto di essere ebreo?-
- Me lo ha...accennato!- Beilschmidt fece un sorriso mellifluo -Da qualche giorno è sparito! Sa dov'è andato?-
- Mi ha confessato di voler fuggire in America! Forse qualcun'altro dei suoi lo ha già arrestato!- rispose Francis
- Forse si...o forse no...- il tenente rimase zitto per alcuni minuti - Monsieur Bonnefoy, sa perchè sono già tenente a soli ventitrè anni?-
- Non saprei...-
- Perchè oltre ad essere capace nel fare il mio lavoro, anzi,, capace a fare tutto, so che quello che faccio è unicamente per il bene dell'umanità!-
Il francese spalancò gli occhi - B...bene?- balbettò
- Mi scusi ma...- continuò - Ma Antonio che colpa ha nell'essere nato ebreo?-
Era stato impertinente, lo sapeva. Ma Gilbert non mostrò alcuna irritazione - Nessuna...per ora!- poi prese fiato
- La colpa è dei suoi genitori che lo hanno...contagiato, per così dire. Ma, supponiamo che il suo amico dovesse sposarsi. I suoi figli saranno contagiati a loro volta e questo fa di lui un colpevole. Perchè rendere dei bambini insani?- spiegò.
Francis rimase spiazzato e non seppe cosa dire: quel discorso era folle, privo di senso e intriso di un odio inconcepibile. Lui aveva sempre visto gli ebrei come persone oneste e laboriose, per cui non si capacitava dell'odio che i tedeschi avevano nei loro confronti.
- Ha della birra?- chiese il tenente, interrompendo i pensieri del francese
- Oui, monsieur!- prese una bottiglia, riempì un bicchiere e glielo porse. Gilbert la bevve tutta d'un sorso.
- La birra...la cosa più fantastica del mondo...dopo di me!-
Riempì un altro bicchiere, poi riprese a parlare - Se il signor Carriedo è nascosto in casa sua, me lo direbbe monsieur Bonnefoy?-
- Si. Ma purtroppo non nascondo nessuno in casa mia!-
Il sorriso di Beilschmidt si spense - Guardi che se tiene nascosto il signor Carriedo e me lo dice in tempo, questo non farà di lui un colpevole!-
- Mi dispiace per lei, ma Antonio non è qui!-
- La avverto, monsieur Bonnefoy! Le credo, ma domani verrò lo stesso per un ispezione. E se trovo anche solo un capello di quell'ebreo, giuro che gliela farò pagare cara!-
Francis rabbrividì al suono secco e imperioso del tenente, ma riuscì a resistere - La capisco, monsieur! Venga, l'accompagno...-.


Il francese tirò un sospiro di sollievo non appena vide la macchina del crucco ripartire.
- Puoi uscire!- urlò
Un bel ragazzo dalla pelle olivastra e gli occhi verdi, si affacciò e, trovando Francis solo, gli dedicò un sorriso di ringraziamento
- Francisco io...non so davvero come ringraziarti!-
- Un bacino?- lo prese in giro Francis. Antonio rise
- Non farci l'abitudine...- gli rispose, dandogli un bacio appena accennato sulla guancia.
- Quel Gilbert era duro da convincere!- commentò lo spagnolo
- Non così tanto! Se ne è andato subito...-
- Com'è che ha detto.? "Se il suo amico si sposasse e facesse dei figli, loro saranno insani!"- Antonio imitò il tenente
- Qualcosa del genere!- sorrise. Antonio gli piaceva molto anche per il suo modo di prendere tutto alla leggera.
- Già...magari lui da piccolo ci ha anche provato con un ebrea!-
- Magari le ha dato un due di picche, per questo ce l'ha così tanto con voi!- aggiunse Francis.Entrambi risero.
- Però...sul serio,mon petit Antoine, forse dovresti prendere in considerazione l'idea di fuggire in America!- gli consigliò
- E come? La Francia pullula di nazisti!Come potrei raggiungere un porto e imbarcarmi sulla nave?-
- Mon amour, mi sottovaluti! Francis Bonnefoy ha amici ovunque!-
- Sputa il rospo!-
- Ho un amico che lavora su una nave-passeggeri a Brest. Potrei convincerlo a farti salire clandestinamente, senza che i crucchi ti controllino i documenti!- gli spiegò
- Faresti questo...per me?-
- Se vuoi maggiore sicurezza, ti procurerò dei documenti falsi...- .
Antonio lo guardò ammirato. Quando lo aveva pregato di nasconderlo, credeva che alla prima visita di un nazista, Francis avrebbe confessato tutto. Era rimasto impressionato dal comportamento dell'amico. Comunque fosse, entro quella sera, lui doveva sparire, altrimenti lo stesso Francis sarebbe stato in pericolo!
- Avanti, cosa aspettiamo?-
Brest, per fortuna, era vicina. Lì Francis riuscì ad ottenere dei documenti falsi dal suo amico marinaio
- Fabien Martin!- lesse Antonio - Suona abbastanza bene!-
- Per me rimarrai per sempre Antoine!- per Francis gli addi erano sempre stati difficili. Guardò l'amico e si commosse
- Abbi cura di te!- poi lo abbracciò forte, per troppo tempo e Antonio glielo fece notare
- Subito te ne approfitti, eh?- .
Francis ridacchiò appena - Non è un pò troppo poco?- chiese indicando un esiguo bagaglio, l'unico che Antonio aveva
- è abbastanza per me! Francis...io davvero non so come ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me e...-
Il marinaio amico di Francis lo interruppe - Su, o farai tardi!-
Antonio diede un'ultima occhiata al suo amico e poi si voltò verso la nave, verso il suo nuovo futuro.




Ed eccomi con un altro capitolo! Come vedete, questa volta è più lungo! Ringrazio chi ha messo la mia storia tra le seguite, per me è un grande onore!
Infine, mi raccomando, recensite, anche solo per dirmi di lasciar perdere!
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 3
*** Un nuovo amico ***


L'amico di Francis era una persona che andava subito al dunque: disse ad Antonio che avrebbe alloggiato in terza classe e che non doveva lamentarsi perchè era stato già fin troppo fortunato, ma a lui andava bene così: era infatti dell'idea che in terza classe ci fossero le persone migliori.
Benoit (così si chiamava quell'uomo così rude) lo accompagnò fino ad un certo punto, poi lo guardò dritto negli occhi e gli disse
- Devo andare! Cerca la camera 223, è abbastanza facile da trovare!-
- Ti ringrazio...io...-
Ma quello era già andato via e Antonio cominciò a chiedersi come faceva quel tipo ad essere amico di uno come Francis.
La camera non fu difficile da trovare: tre letti su quattro erano stati già occupati da tre ragazzi, tutti con un età complessiva tra i diciannove e i venticinque anni, i capelli mori e la pelle abbronzata. Sembravano spagnoli e Antonio si sentiva come a casa.
-Hola!- salutò allegramente, buttando la valigia a terra. I tre lo guardarono spaesati.
-Cos'è che ha detto?- chiese quello che sembrava il più giovane. Antonio non conosceva la lingua con cui aveva parlato il ragazzo, ma per certi versi gli sembrava che avesse qualche somiglianza con il francese.
-Credo sia spagnolo!- intervenne il più vecchio - Lo sapete parlare?-
-No, decisamente!- rispose un terzo ragazzo
-Io si!- era stato il più giovane a parlare
-Tu? Ma se sai a malapena l'inglese!-
-Idioti! Solo voi non ne siete capaci!-
Il ragazzo si avvicinò ad Antonio e disse - Hola anches a tes! Ios sonos italianos e mi chiamos Lovinos!-
E mentre Antonio lo guardava spaesato, gli altri due cominciarono ad emettere risatine sommesse.
-Lo siento, yo no te entiendo!- (mi dispiace, io non ti capisco)rispose lo spagnolo. L'altro ragazzo si mostrò molto irritato. Si girò verso gli altri due e ringhiò
-Bastardi! Volete forse prendermi in giro? Non è spagnolo!-
- Si invece! Ha detto che non ti sente, quindi non ti capisce!-
- Ah, potevis dirmelos che eris sordos, bastardos!- continuò il ragazzo,ancora convinto di saper parlare bene quella lingua
-IOS SONOS ITALIANOS!- urlò a gran voce. Antonio si tappò le orecchie, ma riuscì a captare la parola "italiano"
- Ah, es italiano!- l'italiano annuì, fiero di essersi fatto capire a meraviglia
-Habla espanol?-
- Ti ha chiesto se parli lo spagnolo, ma ne dubito, Lovi!- intervenne il terzo ragazzo.
-No!- rispose Lovino ad Antonio ,trattenendo la rabbia e l'umiliazione
-ingles?- chiese ancora, sempre con quel sorriso sulle labbra
-Si! cioè...yes!-
Ora, c'è da dire che Lovino Vargas non era un intellettuale: appena ne aveva avuto la possibilità aveva cominciato a lavorare nel ristorante dei genitori e fino ai suoi sedici anni non sapeva nemmeno dire "si" in inglese. Poi il suo fratellino minore Feliciano, più studioso del fratello, si era messo in testa di impararlo, per cui, a furia di stargli vicino, Lovino aveva imparato un inglese sgrammaticato e confuso, ma era pur sempre qualcosa!
-My name is Antonio! And yours?-
-Lovino!- grugnì in risposta. Gli altri due italiani se la ridevano alla grande
-Lovì, lo spagnolo ti ha sopravvalutato!-
-Oppure siamo noi due che sottovalutiamo lui!-
-Basta! Vi faccio vedere io, bastardi!- Lovino si avvicinò ai due con il serio intento di rompergli il naso, ma, sfortunatamente, inciampò nella valigia di Antonio e cadde ai loro piedi. I due ragazzi diedero altri scrosci di risa mentre lo spagnolo era mortificato
-Sorry me, sorry me! Now i help you!- cercò di aiutarlo, ma l'italiano lo aggredì
-Don't touch me, bastard!- si alzò in piedi, si scrollò la polvere di dosso e uscì dalla camera, sbattendo con forza la porta.
Antonio era davvero dispiaciuto: lo incuriosiva molto quel ragazzo ed era irritato da quei due che non si curavano minimamente del loro amico ferito nell'orgoglio
-Idioti!- esclamò, per poi andarsene anche lui
- Ma cosa abbiamo fatto di male?- si chiese uno dei due
-Non lo so, ma una cosa è certa: Tra Lovino e Feliciano preferisco quest'ultimo!-
-Già! Almeno lui ha avuto il fegato di andare in guerra...-


Lovino si affacciò sul pontile della nave ammirando l'acqua azzurra e pulita dell'Oceano. Sentiva che la rabbia stava scemando per lasciar posto a un senso di pace.Quando era solo stava meglio:Nessuno lo poteva paragonare al suo "talentuoso, gentile e simpatico" fratello, nessuno lo prendeva in giro...c'era solo lui e stava meglio così.
Maledetta...maledettissima guerra! Lovino aveva da sempre affermato che il fascismo avrebbe portato male e questo era il risultato! Suo fratello ora era chissà dove, magari morto o ferito. Lui invece aveva preferito fuggire, come un vigliacco, a detta di molti. Invece lui sentiva di aver fatto la cosa giusta: perchè combattere per qualcosa in cui non si crede? Anzi, perchè combattere in generale? Lovino non ne sentiva la necessità per cui, prese la decisione di andare in America, da suo nonno. Suo fratello invece, per non deludere nessuno, aveva preferito partire per l'arruolamento.
-Lovino...eih, Lovino!- era la voce di quello spagnolo che lo stava chiamando.
-Cosa vuoi?- riuscì a biascicare in un inglese accettabile
-Io...mi volevo...scusare!- sussurrò con il fiatone
-Senti, bastardo, scuse accettate, basta che mi lasci in pace!-
-Oh, beh...- lo spagnolo non seppe più cosa rispondere, per cui rimase lì a guardare il mare insieme a lui.
-Puoi andare!-
- Ho detto che puoi andare!- ripetè Lovino
-Ho capito, non preoccuparti! Non credi che io possa fare quello che voglio?-
Lovino si fece ripetere la frase tre volte prima di comprenderla tutta. Irritato capì che aveva perso in partenza, quindi si spostò da un altra parte.Non aveva messo in conto il fatto che Antonio lo avrebbe seguito
-Lo fai a posta?- chiese esasperato
-Che c'è? Mi piace di più questo lato!-
-Maledizione! Tra tanti compagni di stanza mi dovevano per forza capitare tre imbecilli?- sbottò
- Io non sono imbecille! Voglio soltanto capire che tipo sei!- rispose Antonio piuttosto risentito
- Beh...mi chiamo Lovino, sono italiano e non mi piacciono i bastardi impiccioni come te!-
-Quei due sono tuoi parenti?- continuò il ragazzo
- La finisci con questo interrogatorio? Sono dei vecchi vicini di casa, ma a me non sono mai stati molto simpatici!- incredibile: stava parlando con un perfetto sconosciuto! Lovino si chiese perchè lo stesse facendo
- Beh, ti capisco, da come ti hanno trattato...- Antonio sorrise: ma cosa aveva da ridere quel bastardo?
-No, tu non capisci niente!-
- Scusa?-
-Arrivi qui, convinto di tirarmi su il morale, quando invece mi stai facendo arrabbiare ancora di più! Poi ti vanti perfino di capirmi! Non potrai mai capire ciò che sento, bastardo!- disse con disprezzo
-Io...mi dispiace! Dimmi allora come ti senti!-
-Non mi sono mai confidato con nessuno, pretendi forse che lo faccia con un imbecille come te?- gli domandò imbarazzato
-C’è sempre una prima volta, no?- lo spagnolo gli fece un sorriso, come a volerlo incoraggiare. Lovino fece un sospiro e, fissando l’orizzonte, cominciò a raccontare
-Mio fratello è sempre stato migliore di me: gentile, simpatico, studioso, tanti amici…disegna benissimo, si interessa di altre culture…io non ho amici, sono scontroso e mi piace solo l’Italia! Non ce la faccio a cambiare e anche se lo facessi rimarrei il “più cupo e pigro dei Vargas” . Adesso l’eroe è anche partito per la guerra, mentre io ho preferito andarmene. Molti hanno criticato la mia scelta, dicono che sono un vigliacco, che non ho amore per la patria: ma cosa c’è di buono nella guerra?-
-Nulla!- rispose Antonio con fermezza –Assolutamente nulla! E sai una cosa? Il tuo gesto è stato molto più eroico di quello di tuo fratello: hai capito che non serve a niente combattere, che non c’è alcuna necessità di uccidere delle persone. Io ti ammiro già solo per questo!- gli sorrise e Lovino non seppe cosa rispondere.
-Tu…cosa pensi degli ebrei?- gli chiese incerto
-Non mi hanno fatto niente…e tutto quello che ci hanno detto su di loro sono delle balle a mio parere!- rispose l’italiano, senza staccare gli occhi dall’oceano.
-Sono contento che tu pensi questo! Perché io sono fuggito per colpa dei pregiudizi della gente!-
-Sei ebreo?-
Antonio annuì. Pensava a Francis e al sacrificio che aveva fatto per lui: lo avrebbe più rivisto? Avrebbe avuto mai modo di ringraziarlo?
Lovino interruppe i suoi pensieri -Non sei male, dopotutto! Ma rimani sempre un bastardo!-
-Grazie!-
L’italiano se ne andò, ma questa volta Antonio preferì non seguirlo.Rimase a guardare il tramonto, le nuvole dorate che circondavano il cielo il cui colore gli ricordavano gli occhi di Lovino Vargas. Il suo nuovo amico.




Salve a tutti! Ecco il mio nuovo capitolo che spero vi piaccia! Come sempre, vi prego di lasciare una recensione, anche solo per dirmi di lasciar perdere. Inoltre voglio ringraziare tutti quelli che leggono, recensiscono e seguono questa storia!

A presto
Cosmopolita!

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Capitolo 4
*** ombra e luce ***


Russia, 1 dicembre 1942
Guardava la vasta distesa coperta di neve. Se chiudeva gli occhi solo due colori gli balenavano nella mente: il bianco della neve e il rosso del sangue. Ma ormai quella era la sua realtà ed il fucile, che una volta impugnava tremante e intimidito, ora era uno dei suoi pochi compagni fidati. Era un soldato pronto a tutto, un invincibile macchina da guerra. Si sentiva invulnerabile, un patriota…era per questo che la guerra gli dava un brivido di eccitazione: la guerra lo faceva sentire un Dio maestoso.
-F…fa...f... freddo veh?- parlò una voce al proprio fianco. Feliciano Vargas stava battendo i denti, le labbra ormai erano violacee.Ludwing si chiese con quali parametri gli italiani arruolassero i propri soldati: per amor di patria? Perché in quanto a fisicità, Feliciano era piuttosto magrolino e per niente resistente alle rigide temperature russe. Ma in particolar modo era fastidiosamente gentile e goloso. Lo aveva sentito lamentarsi spesso per lo scadente cibo che servivano all’accampamento.
-Non fa molto freddo oggi!- gli rispose noncurante.Per fortuna aveva imparato l’italiano, abilità guadagnata grazie al suo contatto con loro ventiquattro ore su ventiquattro, perché quel ragazzo non sapeva spiccicare una parola in tedesco, a parte “raus”, “ja” e “Auf wiedersehen”.
-Veh! Sei molto resistente, Lud!-
-Non chiamarmi così!- lo rimproverò. Ecco, se c’era una cosa che davvero non capiva di quell’italiano era che per quanto sgarbatamente gli si rivolgesse, lui gli riservava ancora quel sorriso infantile e innocente, un sorriso che si addiceva molto di più ad un bambino davanti alle giostre del Luna Park. Un sorriso che, non molto tempo fa, esibiva anche lui.


Flashback
-Fratellone, fratellone! guarda chi c'è!- indicò un signore, circondato da soldati e acclamato da una folla adorante.
-Il fuhrer!- rispose il fratello, Gilbert con una nota di ammirazione. Era difficile che ammirasse qualcuno: gli unici che Gilbert venerava erano suo padre, Federico terzo di Prussia, se stesso e il fuhrer.
- Ha un aria molto severa…-
-E allora? Da grande voglio essere come lui! Amato e rispettato. Essere acclamato dalle folle, farsi chiamare con un nome altisonante…-
-Hai sempre detto che Gilbert era un nome molto altisonante!-
-Si, ma pensa se mi chiamassero “il fantastico Gilbert Beilschmidt!-


Era ancora un bambino. Si ricordava le giornate passate a costruire castelli con mazzette intere di marchi, perché “ormai sono inutili” gli diceva la madre. La fatica per andare a comprare il pane “400 milioni di marchi? Come ci siamo ridotti…” esordiva ogni volta il padre. E poi…la svolta. Era arrivato il fuhrer, aveva dato alla Germania prosperità…Ludwing non giocava più con le banconote, non sentiva più le lamentele del padre sul costo di un pezzo di pane.
Ora lui era in quella terra ,dove l’inverno governava sovrano, per la sua nazione, la Germania. Perché sperava di non vedere i suoi figli giocare con i marchi, perchè non voleva lamentarsi lui stesso sul prezzo del pane.

Invece Feliciano Vargas era cresciuto in un ambiente molto diverso: la sua famiglia, da sempre economicamente ricca, non gli aveva fatto mancare niente. Si era fatto una buona cultura, ogni sera osservava con soddisfazione il ristorante sempre affollato dei suoi genitori, aveva un fratello a cui voleva molto bene e un nonno che, ogni volta che ritornava dall’America, gli regalava sempre qualcosa di nuovo.
Il fascismo non era mai stato un gran problema per lui: si annoiava nell’ascoltare le differenze tra razze, non sopportava il fatto che ogni sabato dovesse cimentarsi in parate inutili ma, a parte questo,era felice.
La guerra invece aveva cambiato tutto: il ristorante era vuoto ogni sera, salvo pochissime eccezioni, nel suo letto tremava ad ogni rombo di aereo…e poi la chiamata, una per lui e una per suo fratello. Ma mentre Lovino era stato abile nel fuggire, lui era andato, lui aveva affrontato l’arruolamento ed aveva continuato. E ora era lì, in Russia, con quell’imponente tedesco che gli infondeva coraggio ma con la costante paura di veder morire qualcuno proprio sotto i suoi occhi.


Campagna francese (vicino Brest), 1 dicembre 1942
Il tenente Gilbert aveva mantenuto la parola e, di buon mattino, venne a far visita a Francis in compagnia di altri tre soldati. Un pò pochi in realtà, ma in quei giorni il tenente si comportava in maniera strana: prima di tutto, perchè rimandare all'indomani un ispezione che andava fatta al più presto? Così aveva dato il tempo necessario all'ebreo di fuggire.
Comunque sia, Francis era lì ad aspettarlo, con un espressione soddisfatta sul volto: sapeva di aver vinto!Aprì la porta, salutandolo con un gran sorriso, ma d'altra parte il tenente lo salutò a denti stretti per poi cominciare a controllare la casa in lungo in largo, guardando nei posti più improbabili. Si muoveva a scatti, intimava gli altri a seguirlo con voce nervosa e impaziente
-Dov'è andato quell'ebreo?- tuonò quando, dopo un' attenta ispezione non trovò nulla, nemmeno il minimo indizio che potesse incastrare il francese
-Le ho già detto che Antonio non era qui!-
-Impossibile!-
-Allora, monsieur, mi illumini con la sua opinione!- Gilbert diventò rosso di rabbia: quel francese osava rivolgersi in QUEL modo a lui? L'ambizioso e carismatico tenente delle SS?
-Osa rivolgerti a me ancora una volta in questo modo e ti giuro che te la faccio pagare!- lo minacciò. Francis questa volta impallidì un pò, per poi mormorare un "mi scusi" a bassa voce.
-Ad ogni modo, non può essere fuggito in un giorno solo, con la Francia occupata dai nazisti!- riflettè Gilbert -Forse riusciamo ancora a prenderlo!- . Poi si rivolse ai tre soldati che lo accompagnavano, dicendo loro qualcosa in tedesco. Francis vide uscire ad uno ad uno i soldati...tutti e tre, tranne il tenente Gilbert.
-Monsieur...i suoi soldati...-
-Ho detto loro di andare!...signor Bonnefoy, lei deve aiutarmi: dove si nasconde il signor Carriedo?- il suo tono di voce si era ingentilito.
-Tenente. Glielo dico per l'ultima volta: non so dove sia il signor Carriedo!-
Gilbert sospirò. Poi lo guardò dritto negli occhi azzurri. Il francese si sentì travolto da quell'occhiata penetrante.Sembrava quasi che il tenente volesse entrare nella sua mente e rubarne i segreti.
-Va bene, le credo!- concluse -Scusi il disturbo, monsieur!-
-Non c'è problema...- l'espressione di trionfo sul volto di Francis era chiaramente leggibile. Strinse la mano al soldato e lo accompagnò fuori, chiudendogli la porta in faccia.


Aveva fallito! Gilbert si sentiva uno sciocco. Lui, perfetto,bello, capace a far tutto non era riuscito a trovare uno stupidissimo ebreo! Si incamminò verso la sua macchina nera.L'altra, quella dei tre soldati, non c'era più. Era solo, eppure si sentiva osservato!
Si guardò attorno circospetto -Non farti suggestioni!- si disse -Forse è qualche animale!-.Provò a chiamare il francese, ma non rispose nessuno:forse era rimasto dentro casa, faceva fresco quel giorno. Tornò a camminare, ma ad un certo punto, qualcosa di pesante e forte lo colpì dritto in testa. Gilbert non fece nemmeno in tempo a capire cos'era stato, che cadde a terra, privo di sensi.


-Una bella botta!-
-Si riprenderà! E poi...poi si pentirà di indossare questa uniforme...-
-A volte mi fai paura, sul serio!-
-Sono gentile di solito. Ma se c'è qualcosa che non riesco a sopportare è l'ingiustizia!-...





Questo è il quarto capitolo! Premetto che è stato un capitolo molto sofferto (ho avuto una settimana difficile), ma spero che vi sia piaciuto lo stesso! Ringrazio tutti quelli che mi seguono, in particolar modo historygirl93 e fairness, che hanno la pazienza di recensire ogni capitolo! Grazie veramente!
a presto
Cosmopolita

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Capitolo 5
*** Una vendetta difficile ***


Campagna francese (vicino Brest), 1 dicembre 1942

-Fatemi uscire! Fatemi uscire subito! Voi non sapete chi sono io!-
Era ormai da mezz'ora che Gilbert si era svegliato in quella specie di catapecchia polverosa, ma nessuno si era ancora degnato di venire a liberarlo e stava cominciando a innervosirsi. Non capiva dov'era, che ore erano e non si ricordava granchè di quello che era successo. L'unico ricordo di quello spiacevole incontro era un doloroso bernoccolo sulla testa.
Sapeva che c'era lo zampino di quel francese,anzi, peggio, di quel dannatissimo ebreo!Avevano aspettato che abbassasse la guardia per tramortirlo e imprigionarlo. Provò a muoversi, ma le mani erano legate da un nodo stretto. Si sentiva in pericolo e davvero non sapeva cosa aspettarsi.


-Credi si sia ripreso?- chiese Francis preoccupato alla donna seduta sul divano del salotto.
-Non lo so...- rispose non importandosene più di tanto -Ti fa pena?-
Francis non rispose.
-Era un bel colpo, eh?- si vantò divertita
-Si, molto! Hai una gran forza nelle braccia!- si complimentò il francese.
La donna rimase in silenzio, dopo si alzò dal divano e prese il cappotto appeso all'ingresso. Poi intimò Francis di seguirla.
-Sei triste! Come mai?- chiese, mentre passeggiavano per la campagna francese
-Mi manca Antonio!- rispose Francis -Stavo bene con lui!-
-A volte le persone più care sono costrette a lasciarci!- disse lei, improvvisamente triste - Tu sai di cosa parlo!-
-Si, ti capisco! E poi...ho bisogno di svago!-
L'altra lo guardò impensierita -In che senso?-
-Ho bisogno di sfogo...dalla vita in giù!- Francis fece un sorriso enigmatico e la ragazza, dopo una breve riflessione, si allontanò da lui inorridita.
-Non preoccuparti! Tu sei troppo violenta per i miei gusti!- la tranquillizzò Francis divertito.
-è meglio che andiamo a vedere come sta il crucco!- decise.


Gilbert decise che urlare non serviva a niente, tanto valeva aspettare che qualcuno delle SS venisse a liberarlo. Tutti sapevano dov'era andato, quindi già si immaginava la faccia terrorizzata di quel francese mentre lo arrestavano. Sì, si sarebbe vendicato per bene del brutto tiro che gli aveva giocato. Ad un tratto ,però,la porta si aprì e due figure entrarono. Uno era il volto familiare di Francis e l'altro quello di una donna sconosciuta. Aveva gli occhi di un verde brillante e i capelli castani ed ondulati che ricoprivano tutta la schiena. Se l'avesse incontrata per caso, l'avrebbe definita una bella donna, ma in quel momento gli sembrava un arpia.
-Lo sapevo che eri stato tu! Bastardo!- ringhiò rivolto a Francis
-In realtà...- intervenne la donna sorridendo -Sono stata io a colpirti! Con questa!- gli fece vedere una padella di metallo. Il tedesco rimase a bocca aperta -Lei?-
-Si, io!-
-Qual'è il suo nome? Perchè mi ha colpito?-
La donna guardò Francis e questo gli fece di no con la testa.
-Mi chiamo Violette Mineau!Sono francese...- iniziò lei un pò a disagio, ma venne interrotta dalla risata fragorosa di Gilbert.
-ő nem francia!- disse il tenente rivolto alla ragazza. Mentre Francis non capì, lei lo guardò sorpresa
-Ma...come?- chiese smarrita
-Ho passato tre anni della mia vita al servizio della Germania. Ma prima di venire in Francia ho vissuto due anni in Ungheria...riconoscerei il vostro accento ovunque!-
Francis rimase stupefatto: pur essendo ungherese,la sua amica aveva una buona pronuncia francese e l'abilità di Gilbert lo colpì a dir poco.
-Mi chiamo...Elizabeta...Hèdervàry...sono di Budapest!- ammise
-Ora, mi vuole dire perchè mi avete nascosto qui?-
-Vorrei farle notare che non potrebbe permettersi questo atteggiamento, tenente, visto che è legato!- intervenne Francis
-E io voglio farle notare, bastardo di un francese, che siete un uomo e una donna contro un tenente delle SS che è in buoni rapporti con tutti! Sanno che dovrei essere nelle vicinanze e verranno a cercarmi!- Gilbert sorrise
-Non la troveranno mai!- rispose l'altro tranquillo -Lei è nella cantina di casa mia! Nessuno verrà a cercarla qui!-
-E poi...tra poco neanche esisterai più, quindi...- fece Elizabeta cupa
-C-cosa?- balbettò il tedesco
-Tanto tempo fa...- cominciò a raccontare l'ungherese -Avevo un marito. Si chiamava Roderich ed era un pianista di Vienna. Un giorno dei crucchi lo arrestarono...e sa perchè? Perchè aveva aiutato un' ebrea a fuggire!-
-E io cosa c'entro?Non ho arrestato nessun Roderich, ha sbagliato persona!- Gilbert cominciò ad agitarsi
Elizabeta fece finta che non avesse parlato -Quell'ebrea ero io! Sono scappata in Francia, mi sono procurata dei documenti falsi e ho giurato che mi sarei vendicata di mio marito uccidendo dieci nazisti! è così che fate anche voi: se muore uno di voi, prendete dieci civili a caso e fate fuoco!-
Gilbert ebbe paura. Terrore puro. Guardò Francis negli occhi e cominciò a supplicarlo
-Ti prego...io...ti ho aiutato! Potevo arrestarti ma non l'ho fatto!-
Francis abbassò lo sguardo -Mi dispiace...-
Elizabeta prese dalla borsa una pistola e la alzò lentamente prendendo la mira. Gilbert cominciò a sudare freddo,aspettando che quella donna, tanto bella quanto diabolica sparasse contro di lui, inerme e indifeso.Ma...
-Non...ci riesco!- Elizabeta buttò la pistola a terra e cominciò a piangere.
-Non tutti sono dei mostri,Eliza!- sussurrò Francis abbracciandola forte.
E in quel momento Gilbert si chiese se fino ad allora aveva fatto la cosa giusta...






Buonasera a tutti! Questo è il quinto capitolo! Spero che abbiate apprezzato! Volevo avvisarvi che, molto probabilmente il rating si alzerà all'arancione e tra le note forse verrà aggiunto lo slash (ma non sono ancora del tutto sicura). Comunque, vorrei ringraziare tutti quelli che seguono e recesiscono questa storia! E invito tutti a recensire, anche solo per dirmi di lasciar perdere!
a presto
Cosmopolita

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Capitolo 6
*** Ricominciare a vivere ***


New York, 6 dicembre 1942


L'America era la terra dei sogni...o, perlomeno, era così che la pensava Lovino inizialmente.In realtà l'America era tale e quale all'Europa e in più gli americani non sapevano neanche cucinare, tranne gli hamburger che, neanche a dirlo, non piacevano all'italiano.
D'altro canto, Antonio si rallegrava per tutto ciò che vedeva "L'America è la patria dei pomodori!" era una frase che ripeteva spesso, seguita da "I grattaceli sono altissimi" e "La Statua della Libertà è una gran bella donna!".
Lovino sembrava ogni giorno sempre più infastidito dal comportamento dello spagnolo, anche se in realtà era molto incredulo: perchè era sempre gentile con lui?
Nonno Cesare Vargas fu molto felice di vedere suo nipote: possedeva una pizzeria nei pressi di "Little Italy" e aveva assunto sia Lovino sia "quel simpatico spagnolo" come camerieri.
Insomma, la permanenza in America non ebbe grandi scosse, le giornate passavano pigre e la guerra per i due amici sembrava lontana. In realtà a Lovino mancava l'Italia: il sole, il mare, il cibo...tutto era meglio laggiù e tutto gli mancava terribilmente.
-A cosa pensi?- gli chiese Antonio quella sera, entrambi affacciati sul balcone dell'appartamento che condividevano.
-A niente...- rispose laconico
-Non dire bugie!-
-Sei un rompiscatole!- si lamentò Lovino -...Mi manca! Mi manca l'Italia!-
Antonio sorrise. Sorrideva sempre ad ogni cosa che diceva l'italiano, per consolarlo, per compatirlo e per sentirsi più vicino a lui -Anche a me manca la Spagna!-
-Perchè sei mio amico?- chiese l'altro dopo un minuto di silenzio.
-C-che!- Antonio quella domanda non se l'aspettava. Che cosa poteva dirgli?
-Perché…sei diverso dagli altri! Dici quello che pensi senza importartene di nulla, ti atteggi a fare il duro quando in realtà sei l’essere più fragile che io abbia mai conosciuto! Perché tu apprezzi le persone per quello che sono dentro! Credi di non essere capace a far nulla, Lovino, e invece tu sei bravo a fare l’amico! O almeno, è quello che penso io…-
Antonio arrossì vistosamente - E tu, cosa pensi di me?-
Lovino divenne, se possibile, ancora più rosso dello spagnolo. A parte che nessuno gli aveva detto delle parole così belle in vita sua,ma cosa pensava di Antonio?
Lo guardò meglio sotto la luce della luna: era…bello! Si, molto bello…
“No aspetta!” Si interruppe Lovino “bello no…insomma, le ragazze sono belle lui è…simpatico! Gentile! Si…è così! Però è anche bello…cioè ,non in quel senso, bello in senso che se io fossi una ragazza, forse…ma che sto dicendo?”
-Ho sonno!- ribattè imbarazzato e si precipitò in camera senza dire più niente
Antonio interdetto e solo, rimase a guardare la luna. Sarebbe mai riuscito a dire al suo amico che ogni volta che lo vedeva gli batteva forte il cuore?
“No!” si rispose da solo “E credo sia meglio così…”
Tornò dentro, chiuse la finestra e, lentamente, andò nella sua camera da letto.




Campagna francese (vicino Brest), 6 dicembre 1942
Gilbert rimase per altri cinque giorni rinchiuso in quella cantina senza uscire e nella costante speranza di essere salvato da qualcuno. Nessuno entrava lì dentro, tranne Francis che, di tanto in tanto, scendeva a portargli il pasto. Almeno un lato positivo c’era: il francese era un ottimo cuoco!
La donna non si era fatta più vedere, ma a lui non importava molto! Voleva uscire, voleva vedere il sole.
Gli altri, quelli delle SS, lo avevano deluso: erano passati così tanti giorni e loro non erano venuti, non si erano preoccupati di lui! Era un oltraggio!
-Bonjuor, lieutenant! Comment ça va ?- bisbigliò Francis, reggendo tra le mani un vassoio con una tazza e un pezzo di dolce. Gilbert grugnì qualcosa, afferrò il vassoio e cominciò a bere in silenzio mentre il francese lo guardò con un sorriso.
-Cosa guardi, francese?- sibilò –Sono ancora arrabbiato con te!-
-Pardon monsieur…ma è una questione di sicurezza: se la libero, lei va a raccontare tutto ai crucchi…-
-Tedeschi! Siamo tedeschi!- ribattè l’altro pungente –Non è per quello! Io l’ ho lasciato in pace e lei mi ha ripagato non movendo un dito in mia difesa!-
-E cosa dovevo dire in sua difesa? Lei è un nazista senza scrupoli che farebbe di tutto pur di catturare quelli più deboli e indifesi di lui e vederli morire sotto i propri occhi! Dico bene? Cosa le ha fatto Antonio? Niente! È solo nato ebreo! E lei voleva arrestarlo…- le parole di Francis erano piene di durezza e rimprovero. Gilbert si vergognò un po’, ma poi il suo orgoglio e, soprattutto, l’idea che tutto ciò che faceva era giusto, rivennero a galla.
-Le ho già spiegato perché lo facciamo!- rispose
-Oh, giusto! Gli ebrei sono una razza inferiore, dei rifiuti della società, potrebbero contagiare l’intera umanità! Bella motivazione!- Francis si sedette dall’altro lato, vicino alla porta: era pallido, Gilbert lo aveva notato solo in quel momento .
-Si sente bene?-
Francis lo guardò stupito – Benissimo! Perché?-
-è…pallido!-
-Le importa sul serio di come sto?- chiese Francis incredulo
-…No! Ero solo curioso…-
Francis lo fulminò con lo sguardo e il silenzio tornò nella cantina
-E allora?- richiese il tenente
-Allora cosa?-
-Perché è pallido?-
-è il freddo…- rispose il francese con voce flebile
Gilbert non aggiunse niente e si sdraiò per terra, sulle assi di legno nude e fredde. Inizialmente fu difficile dormirci sopra, con il tempo si era abituato e, malgrado avesse ancora qualche difficoltà, trovava quella posizione molto comoda.
-Vuole uscire?- gli chiese Francis
-Non mi prenda in giro!- sbottò alzando la testa per guardarlo
-Sono serio: vuole uscire?-
-Ma come? Mi aveva appena dipinto come un nazista pericoloso e ora…-
Francis lo interruppe –So cosa ho detto, ma io non sono come i nazisti! Io le rispetto le persone!-
Gilbert lo guardò in bilico tra lo sconcerto e la gratitudine. Annuì –Si vorrei uscire!- Francis lo liberò ma, con sua sorpresa, Gilbert non provò a fuggire. Lo prese per mano (aveva ancora paura che scappasse) e aprì la porta adagio, come se volesse aumentare il desiderio di andare fuori del tedesco. Fuori era freddo. Non aveva nevicato, né piovuto, ma il cielo era nuvoloso e il sole faceva timidamente capolino da qualche nuvola scura. Nonostante il tempo non fosse dei migliori, Gilbert provò un senso di libertà e di gioia: era fuori! Dopo cinque giorni di buio e isolamento.
-Ora anche lei lo sa come ci si sente ad essere prigionieri!- sussurrò Francis ad un orecchio. Teneva Gilbert stretto per una mano, ma mai lui provò a liberarsi dalla stretta e fuggire.
-Le manca il signor Carriedo?- chiese lui
-Moltissimo!-
-Avrei voluto conoscerlo…-
-Un ebreo?- chiese l’altro scettico –Immagino che lo avrebbe voluto conoscere in catene e in uniforme da SS!-
Lui rise –Non saprei…non saprei davvero. E…Quella donna? Elizabeta?- domandò a disagio.
-Viene qualche volta! Ma non la vuole vedere per almeno una settimana!-
-Ha dimostrato ancora il desiderio di uccidermi?-
Francis rise appena –Non si preoccupi! Eliza picchia forte ma non è un assassina!-
-e a lei piace eh, monsieur Bonnefoy?- -No!- rispose Francis subito –No, Eliza è mia amica…anche se confesso di averci provato, ma mi ha tirato una padella in testa! Antonio…lui si che era bravo!-
-Vuole dire che…- Gilbert non poteva crederci: era in compagnia di uno che amava anche gli uomini! Qualcuno che, se non fosse stato prigioniero, avrebbe arrestato seduta stante!Non avrebbe mai pensato di frequentare qualcuno del genere in vita sua.
-No! Lui ha declinato molto gentilmente! E poi, è il mio migliore amico!-
Tirò un sospiro di sollievo –E non hai intenzione di provarci anche con me, vero?-
-mmm…perché no? Mi ispira, monsieur Beilschmidt!- rispose Francis ridendo, mentre il tedesco capì che preferiva di gran lunga un colpo in testa da parte di Elizabeta che passeggiare con quell’”apparente brav’uomo francese”.



Russia, 6 dicembre 1942
Quel giorno, per una volta, sentì freddo. Ludwing tremava da capo a piedi, nemmeno l’abbigliamento pesante riusciva a ripararlo dal gelido freddo russo. E se tremava lui, Feliciano era sul punto di svenire: rosso in viso e con un principio di raffreddore, cercava di riscaldarsi le mani ,fasciate da un paio di guanti, con l’alito, senza molti successi a dir la verità.
-Andiamo!- ordinò Ludwing alzandosi
-Veh…- rispose l’altro a fatica. Lui capì che da solo non ce l’avrebbe fatta, per cui gli offrì la mano.
-Avanti! Ti aiuto io!-
Feliciano gli fece un altro sorriso dei suoi e, porgendogli la mano, si sollevò su e lo ringraziò dandogli una pacca sulla spalla.
-Non è niente!- rispose Ludwing a disagio. Ad un certo punto, però un fischio acuto gli perforò il timpano, mentre, un soldato vicino a loro, urlò di dolore. Si accasciò a terra e la neve intorno a lui si colorò di rosso. Vide Feliciano guardarlo con terrore, lui invece imbracciò il fucile e intimò gli altri a sparare. L’italiano rimase immobile, lui invece cominciò a far fuoco, colpendo qualche soldato nemico.
-Cosa fai? Spara, accidenti!- gli urlò Ludwing. E Feliciano, pronto, annuì debolmente, prendendo il fucile con timidezza. Un altro soldato, molto vicino a lui, fu colpito e cominciò ad invocare il nome della madre con voce disperata e acuta.
-Un dottore!- urlò Ludwing –chiamate un dottore!-
Feliciano non riusciva a sparare; non che non ne fosse capace, ma era inorridito all’idea di uccidere qualcuno. Forse doveva smetterla di pensare come un uomo e cominciare a pensare da soldato. Invece il tedesco sembrava l’anima della battaglia: infondeva coraggio, sparava, rincuorava con dolcezza i soldati che stavano per morire…avrebbe voluto essere come lui! Poteva essere come lui, se voleva.Alcuni soldati cominciarono a cadere, qualcuno, seppur ferito continuava a urlare e sparare. Era arrivato il suo momento, purtroppo:Prese la mira e sparò a caso, verso un soldato che non conosceva, che non gli aveva fatto niente. L’unica colpa che aveva era quella di indossare l’uniforme nemica.
E la neve si colorò di rosso.





Hola a todos! Questo è il tanto meditato sesto capitolo!Spero vi sia piaciuto! Vorrei fare un altro avviso a tutti: Per ragioni storiche non ho potuto inserire subito gli ultimi tre personaggi della storia. Allora, siccome sono un insopportabile anticipatrice, voglio darvi tre indizi:
Il primo è il mio personaggio preferito
Il secondo personaggio, a mio parere, sta molto bene in coppia con il primo personaggio
Il terzo è il fratello del secondo…

Ringraziamenti: Naturalmente vorrei ringraziare tutte le anime buone che hanno recensito la storia quindi: historygirl93, Fairness e LaCCC. Inoltre ci terrei a ringraziare tutte quelle persone che mi seguono senza recensire. Vorrei invitare tutti voi a lasciare una recensione, per dirmi cosa ne pensate della trama o anche solo per dirmi che io so scrivere quanto Inghilterra sa cucinare!
Arthur: e con questo cosa vorresti dire è.é
Ma niente caro, niente! Ci vediamo alla prossima *viene inseguita da Arthur*
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 7
*** Quattro fratelli... ***


Campagna francese (vicino Brest), 7 dicembre 1942
Elizabeta in quei periodi faceva molte passeggiate per la campagna, senza una meta precisa e solo un volto impresso nella mente: Roderich! Il suo viso sorridente, la sua musica dolce che la faceva sempre commuovere…tutto ciò la faceva sprofondare in uno stato di tristezza inconsolabile. E il fatto che non riusciva a vendicarsi della sua morte la rendeva ancora più depressa.
-Non sono tutti dei mostri!- gli aveva detto Francis quel giorno. Forse era così, ma lei la chiamava paura: quello davanti a lei era un nazista, un incubo. Non c’era niente dietro quell’uniforme, solo uno stupido tedesco che passava la vita sotto le gonne dei potenti…e ciò la disgustava.
Girò indietro, verso la casa di Francis, dopo aver percorso tanti chilometri a piedi, dopo aver versato tante lacrime per suo marito.
Quando intravide la casa, grande ma semplice, il sole stava già tramontando. Aveva camminato così tanto a lungo? Aveva praticamente raggiunto un record!
Bussò e , con sua sorpresa, venne ad aprire…lui!
-TU!- urlò stupefatta, non appena lo vide
-Oh, guarda chi si rivede!- anche il nazista sembrava piuttosto incredulo. Quando, da un angolo, vide Francis, Elizabeta sentì la rabbia salirgli sempre di più.
-L’hai fatto uscire?- ringhiò –L’ hai fatto uscire?-
-Posso spiegarti…- provò a dire lui , ma l’ungherese non lo lasciò neanche finire. Si girò verso Gilbert e lo aggredì.
-Cosa gli hai fatto? Gli hai promesso una notte?-
-Magari…- provò a sdrammatizzare il francese, ma Elizabeta lo rimise a posto con un occhiata di fuoco.
-Senti,ma per chi mi hai preso? Mi ha liberato di sua spontanea volontà e, come puoi vedere, non voglio fuggire!- gli disse Gilbert con disprezzo, squadrandola dalla testa ai piedi.
- Cos’è, hai deciso di fare il bravo ragazzo?-
-Risposta errata, bellezza!-
Eliza a quel punto esplose –Ma che ti credi di essere? Mister fantastico?-
-Ovviamente!- rispose sfacciato, con un sorriso malizioso impresso nel volto.
-Io ho un nome e, per tua informazione, non è “bellezza”!-
-Per caso è…- Gilbert venne interrotto da Francis che gli mise una mano sulla spalla – Così peggiori la situazione!- gli disse. Poi diede un colpo di tosse.
-Stai bene?- chiese Elizabeta allarmata, dimenticandosi completamente di Gilbert.
-Sto bene, non preoccuparti!-
Elizabeta e Gilbert continuarono a fissarsi con odio, ma non osarono dirsi più niente. Il volto pallido e malandato di Francis era rimasto impresso nelle loro menti. Ma lui, quel francese romantico e che si preoccupava per tutti, continuava a sorridere, a cercare di coinvolgere i due in una conversazione. Forse sperava che il mondo degli ebrei e quello dei nazisti convivessero in modo pacifico. Forse sperava che in qualche modo la guerra finisse e che Antonio tornasse da lui.

Fronte africano, Egitto, 7 dicembre 1942
Era dicembre. Eppure lì in Egitto il clima era temperato e piacevole…ma,cosa avrebbe fatto pur di tornare a casa, sedersi sul letto soffice, bere del tè caldo , nonostante fuori infuriasse tempesta!
Arthur amava la sua “cara vecchia Inghilterra” con la poggia e tutto il resto. In Egitto non si sentiva se stesso, non aveva i suoi amati manuali di storia inglese e le fiabe che amava leggere la sera tardi davanti al caminetto. Ma se avesse mostrato qualche segno di cedimento, se mai avesse abbassato troppo la guardia e avesse lasciato cadere le lacrime, sicuramente i suoi fratelli, lì con lui, lo avrebbero preso in giro. Perché tre, dei cinque fratelli di Arthur, si erano arruolati nel suo stesso reggimento:inizialmente era contento, la nostalgia di casa sarebbe venuta meno, forse…e invece no, perché i suoi fratelli lo deprimevano a tal punto che,non poche volte, aveva desiderato essere figlio unico.
Era solo; gocce argentate gli rigarono il viso, ma lui si sfregò subito il volto con una manica dell’uniforme militare…Arthur aveva visto così tanti morti in due anni che desiderava ardentemente ricevere amore…ma in guerra è impossibile…
- Kirkland…ce ne andremo da questo posto!- gli disse qualcuno che ancora non si era stancato di rivolgergli la parola.
-Si! Per andare verso un’altra battaglia! Io scommetto la Francia!- ribattè ironico, con una voce , però, talmente stanca e fievole, che il soldato ebbe la pietà di dargli una pacca di conforto e allontanarsi.
Sentì un vago odore di sigaretta, l’unico vizio che quei soldati inglesi potevano permettersi lì.
-‘Giorno, femminuccia!-
Arthur non si voltò nemmeno per salutare suo fratello Ian, accompagnato dagli altri due fratelli James e Andrew. Sapeva perché erano venuti.
-Dove vi mandano?-
-A me in Russia, a James in Grecia e a Andrew in qualche colonia sperduta nel mare, microbo…la cosa positiva è che non ti rivedremo!- i tre scoppiarono a ridere. Era stato un ordine direttamente dall’alto: tutti i fratelli dovevano essere divisi, per evitare che, durante un agguato, sarebbero morti tutti. Arthur ne era stato segretamente contento -Quando partite?-
-Oggi!-
Arthur questa volta si girò, per guardare quel fratello così diverso da lui: i capelli rossi come il fuoco, il fisico imponente e muscoloso, le sopracciglia a misura normale…troppo diverso da lui, biondo, magrolino e con delle sopracciglia folte e ingombranti. Di uguale avevano solo gli occhi,verdi come le praterie inglesi.
-Io…non so cosa dire!- Arthur era impossibilitato nel credere che molto probabilmente non avrebbe più rivisto né Ian, né Andrew, né James…pur essendo stati crudeli con lui, rimanevano sempre i suoi fratelli!
-Io sì! Non avrò più un antistress su cui sfogarmi!- Ian rise ancora. Arthur, istintivamente, si toccò il livido che aveva sul braccio, se lo premette con tutta la forza che aveva ed emise un gemito soffocato: faceva ancora male…
-Poverino…- lo prese in giro Ian, ma per sua fortuna, lo lasciò perdere andandosene per fatti suoi. L’inglese, di nuovo solo, cominciò a immaginarsi quella bellissima fata dai capelli biondi che popolava i suoi sogni di bambino. E subito si sentì meglio, e subito desiderò di poter spiegare le ali e volare come lei.





Buon pomeriggio! Mi sa che ho toccato il fondo…comunque, volevo ringraziare le buone anime che si fermano a recensire e in particolar modo vorrei dedicare il capitolo a historygirl93, perché ha la santa pazienza di recensire ogni mia fic! Vorrei ringraziare anche fairness per i piccoli accorgimenti storici e per tutto il sostegno che mi ha dato fin qui! Sul serio, senza di voi non so davvero cosa farei!!
Ecco svelato l’ottavo personaggio! Il mio preferito!Ian, James e Andrew sono rispettivamente Scozia, Galles e Iralnda. Spero vi sia piaciuto e mi raccomando, recensite!!
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 8
*** La musicista e il saggio ***


Campagna francese (vicino Brest), 7 dicembre 1942
La cena di quella sera fu terribile. Francis cercava di iniziare una conversazione, ma per quanto si sforzasse, né Eliza, né Gilbert davano segno di voler collaborare: avevano riservato solo per loro due un mutismo che era inviolabile e i suoi tentavi di rompere quel muro si erano rivelati inefficaci. Era diventato una specie di tramite: se parlava, loro rispondevano, ma entrambi facevano finta che non esistessero.
Eliza era stanca. Ingoiato l’ultimo boccone, fece scivolare la sedia dal tavolo, augurò la buona notte (solo a Francis, ovviamente) e si ritirò nella sua stanza.
Il francese sparecchiò e cominciò a lavare i piatti, dando ogni tanto qualche colpo di tosse trattenuto con forza. Ma a Gilbert non importava gran che della salute del francese: se lui diceva che stava bene, stava bene!
-Voglio della birra…- borbottò,ancora seduto a tavola
-è lì!- il francese indicò il mobile interessato e Gilbert, alzandosi lentamente la prese e cominciò a versarsela: era calda, ma sempre meglio di niente!
-Non esageri!- lo ammonì Francis
-Si faccia i fatti suoi!- rispose spazientito.
- Lo dico per il suo bene…e potrebbe anche avere la decenza di parlarle!- sussurrò alludendo all’ungherese.
-Se lo scordi! È un’ ebrea e per di più voleva anche uccidermi!-
- S’è per questo, anche io volevo ucciderla e per di più mi piacciono gli uomini! Siamo pari, tenente!-
-Lei mi ha liberato, mi ha fatto uscire, ha preso le mie difese con quella lì!-
-Elizabeta…- lo corresse Francis.
-…lo considero come una richiesta di scuse! – concluse.
-Ma se lei fosse ancora il tenente Beilschmidt, mi arresterebbe!-
Non era una domanda
-Come soldato tedesco, si! Lei ha tenuto un ebreo nascosto in casa, ne nasconde attualmente un’altra, mi ha mentito, ha tentato di uccidermi, mi ha imprigionato in casa sua, ci ha provato con me ed è omosessuale!-
-Un bel quadro generale!- commentò quello ridendo.
-Ma…devo ammettere che nonostante tutto, lei mi è simpatico…- ammise. Ma subito se ne pentì, perché il francese, finito di asciugare l’ultimo piatto, si avvicinò piano e bisbigliò in un orecchio
-Quindi le piaccio…-
-Si tolga dalla mente le sue idee perverse!- lo attaccò d’impulso
-Si calmi…non le faccio niente…- Francis si sedette vicino a lui e Gilbert lo fulminò con lo sguardo.
-Non si fida di me?-
-Ad essere sinceri…no!-
Francis sospirò e diede un altro attacco di tosse. Gilbert finse di non importarsene
-Dove dormirò?- chiese.
-Cos’ha il pavimento che non le piace più?-
-Sta scherzando, spero…-
-Ci ha dormito sopra per cinque giorni, ce la farà anche per i prossimi! O vuole forse dirmi che la pura razza ariana non resiste a dormire su una superficie dura!-
Vedendo l’occhiata furente del tedesco, Francis cercò di intercettare la sua reazione e decise che era ora di smetterla di scherzare.
- Che ne dice di camera mia?-
Gilbert non sembrava molto convinto –E lei dove ha intenzione di dormire?- chiese sospettoso
-In salotto, contento? Non le torcerò un capello…si faccia furbo,signor Gilbert! Non pensa che se avessi voluto, avrei potuto approfittarne quando era legato?-
Al solo pensiero, Gilbert rabbrividì –Mi può accompagnare?-
Francis salì le scale, per raggiungere una stanza piccola ma elegantissima. Sembrava una camera d’epoca barocca: letto a baldacchino, ritratti (Francis spiegò che amava dipingere), sculture e tante foto.
-Chi sono?- domandò il tedesco indicando la foto di una ragazzina bionda che sorrideva insieme ad un’altra dai capelli neri
-Le mie sorelle da piccole…- a Gilbert non gli era passato per la testa che il francese potesse avere una famiglia.
-E dove sono adesso?E i suoi genitori?-
- Charlotte e Sesel sono in America! Mio padre è morto nella linea Maginot e mia madre ci ha lasciati l’inverno scorso…-
Gilbert provò pena per lui. Gli diede qualche pacca sulla spalla, ripetendogli che gli dispiaceva e che anche suo fratello era lontano, in Russia.Si sentiva in colpa di averlo trattato così male…
-Non ci pensi…dorma!- Francis lo lasciò solo e la casa si fece scura e silenziosa.
Si sentiva il rombo degli aerei, ma a parte quello era una notte tranquilla. Il tedesco si addormentò senza tanti problemi…


Correva. Correva veloce, ma la strada dinnanzi a lui era chiusa. I suoi inseguitori lo raggiunsero presto: Francis, Elizabeta e Antonio. Quest’ultimo non era come l’aveva visto in foto: era invecchiato e lo osservava con un ghigno diabolico, la stessa espressione che avevano Francis ed Elizabeta. Il francese e lo spagnolo avevano una pistola in mano e, sordi alle sue suppliche, cominciarono a sparare. Una, due , tre volte. Gilbert riuscì a vedere il sangue, il suo sangue, che ricopriva i suoi vestiti.


Si svegliò di soprassalto, tutto sudato. Era un incubo, solo un incubo, continuava a ripetersi. Guardò l’orologio: era ancora molto presto, anche se non pensava che fosse passato così tanto tempo da quando si era addormentato; erano le cinque!
Capì che non sarebbe riuscito a riaddormentarsi per cui si alzò dal letto, completamente zuppo di sudore, si mise una vestaglia che gli aveva prestato Francis e decise di scendere in cucina. Mentre scendeva le scale, sentì il suono del pianoforte. Probabilmente Francis aveva qualche problema di insonnia!
Non era Francis. Lui non c’era.
-Dov’è Francis?- chiese
Elizabeta smise di suonare, si girò, lo squadrò dall’alto in basso e poi si degnò di rispondere –L’ho fatto dormire in camera mia! Povero ragazzo, non riusciva a prendere sonno…-
-Allora siamo in tre!- l’ungherese non gli prestò attenzione e riprese a suonare.
Gilbert si offese: quella ragazza non lo aveva degnato neanche di uno sguardo! Lui di solito le ragazze le faceva cadere ai suoi piedi (o meglio, lui la pensava così!).
-Suoni bene!-
Nessuna risposta
-Chi è?-
-Chopin…era il preferito di Roderich!- rispose, continuando a suonare.
- Che tipo era?-
Eliza smise di nuovo di suonare. Guardava il pianoforte con un misto di nostalgia e tristezza –Severo, ma buono e gentile! Era nobile, ma la sua famiglia era decaduta. Ci siamo conosciuti al conservatorio di Vienna!-
-Conservatorio?-
-Amo Brahms, nonostante sia tedesco! Lo amo perché la sua musica è molto vicina a quella popolare ungherese! È questo forse che mi ha spinto a studiare il violino! La mia famiglia era ricca, per cui non mi hanno mai negato niente e quando hanno capito che ero portata, mi hanno sollecitato ad entrare al conservatorio di Vienna! Prima di venire qui ero una violinista. Ho conosciuto Rod quando avevo appena diciotto anni e ci siamo sposati due anni dopo. Vivevamo di concerti occasionali, lui era molto più bravo di me! Ma che ne può sapere un nazista della musica?-
Gilbert si irritò non poco –Ad essere sinceri, i miei musicisti preferiti sono Bach e Beethoven!-
- Figli della Germania!-commentò la ragazza
-E allora?Si trattano sempre di musicisti!- il tedesco indurì il tono.
-Non alzare la voce, tedesco! Non sapete far altro che urlare ,voi crucchi?-
-Non si permetta…-
-Oh, giusto, come può una sporca ebrea offendere la nobile razza tedesca!-
-Esattamente! Lei è solo una sporca ebrea!- si pentì di averlo detto
Elizabeta lo guardò di traverso –Ripeta?- fece minacciosa avvicinandosi a lui. Gilbert notò che aveva una padella con se.
-Mi dispiace, non volevo dirlo!- si scusò
-Però lo pensavi!-
-Senta, anche lei pensa che sia un nazista brutto e cattivo, no? Ignoriamoci come abbiamo fatto stasera! Anzi,penso sia meglio che qualche volta ci rivolgessimo la parola, giusto per far felice Francis…-
Elizabeta per un attimo parve addolcirsi –Tiene a Francis, allora! Sareste carini insieme, ha tanto bisogno di amore…-
Gilbert si strozzò con la sua stessa saliva. Tossicchiò per qualche minuto –Ma è matta?-
L’ungherese finse di non aver sentito. Dopo un po’ si svegliò anche Francis, fecero colazione e la ragazza uscì per fare una passeggiata. La convivenza tra il nazista, l’ebrea e il pervertito era appena cominciata!



New York, 8 dicembre 1942
- Ave, figliolo, come va?- l’esuberante nonno di Lovino rendeva meno monotono il grigiore del mattino. Usava tante buffe espressioni latine di cui il nipote non ne capiva mai il significato!
-Bene, signor Vargas!- rispose Antonio. Lovino ,invece, si limitò a grugnire che era stanco, poi si precipitò in un bar qualunque per fare colazione.
-Sei troppo formale, ragazzo! Io mi chiamo Cesare, non signor Vargas!-
Antonio non gli prestava attenzione. Era troppo divertito nel vedere l’italiano che litigava con il barista riguardo al prezzo di un caffè!
- è un bel ragazzo, vero?- gli chiese il signor Vargas
-Si…- rispose distrattamente –Cioè…no, ovvio che no!- divenne rosso come un pomodoro, ma il nonno rise.
-Non mi sconvolge più di tanto, sai? Da come lo guardi…si vede che per te è speciale!-
-è un amico, signor Vargas…cioè, Cesare!-
-Hai intenzione di dirglielo?- continuò lui
-No!- rispose semplicemente – So com’è fatto! Comincerà ad evitarmi, o peggio!-
-Secondo me, tu gli piaci! Non l’avevo mai visto così attaccato a qualcuno, tranne che con suo fratello! Carpe diem, Carpe diem!-
Cogli l’attimo? Cosa voleva intendere?





*rilegge la fine* ok, ho fatto pietà! I finali non mi vengono mai bene ç.ç. Comunque, volevo ringraziare historygirl93, fairness, Zenith e _Charlotte_56 per aver recensito! Vorrei dedicare questo capitolo a fairness per i consigli, il sostegno e per la pazienza mostrata nel recensire! Ci tengo anche a ringraziare chi mi segue o chi semplicemente legge! Grazie!ah, giusto: è ufficiale: il rating passerà all'arancione perchè si parlerà di quattro coppie (lascio a voi scoprire quali siano) e saranno presente alcune scene di guerra.
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 9
*** Di che reggimento siete, fratelli? ***


Di che reggimento siete,
Fratelli
parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell'aria spasimante
involtontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
Fragilità

Fratelli
G.Ungaretti.

Russia, 13 dicembre 1942
Congedato: ecco cos'era Feliciano ora; un misero soldato rimandato a casa.
Non che gli dispiacesse: avrebbe potuto riabbracciare suo padre e sua madre, rivedere l'Italia, conoscere di nuovo il calore, sia umano che atmosferico. Ma c'era qualcosa,o meglio qualcuno, che aveva paura di perdere per sempre: Ludwng! Sapeva che se fosse ritornato a casa avrebbe perso l'amico per il resto della sua vita. Perchè era di questo che si trattava: amicizia, fratellanza! Cosa importava che lui fosse un tedesco fermamante convinto nelle sue idee nazistiche, mentre lui un italiano che si trovava lì quasi per caso? Era un ragazzo che non aveva mai visto un arma in vita sua, un ragazzo che sperava di trascorrere la sua vita in modo felice e spensierato.Non era stato così: lui era un ragazzo che doveva crescere subito ma non ce la faceva. Come una marcia: tutti camminavano troppo veloce per lui. Cercava di velocizzare il passo,ma alla fine era caduto stremato per terra. E lui si era fatto troppo male in quella caduta; infatti, durante una guerriglia, un soldato nemico lo aveva ferito ad un braccio. Niente di grave, ma ora faceva ancora più fatica ad impugnare il fucile. La soluzione? Rispedirlo a casa!
-Che culo!- commentò un soldato -Giusto in tempo per Natale!-
Feliciano esibì un sorriso, giusto per non dare a vedere che era troppo triste. Ludwing, accanto a lui, era una maschera priva di emozioni. Non sorrideva, non piangeva, non era nemmeno arrabbiato di fronte a quella palese dimostrazione di fiacchezza. Aveva la sua solita espressione pensierosa e assorta, i suoi occhi azzurro ghiaccio fissavano il vuoto. o almeno così sembrava...
-Quando parti?- continuò a chiedere il soldato italiano mentre si accendeva una sigaretta.
-Um...domani, credo!- rispose
-Sei felice, vero?- chiese Ludwing. Il suo tono brusco e improvviso fece sobbalzare l'italiano
-Veh...credo di si!-
-Chi non è felice nel sapere che rivedrà la famiglia e passerà un Natale decente! Se lo sapevo prima, mi sarei fatto sparare anche io!-
Feliciano squittì inorridito, Ludwing lo guardò con disprezzo.
-La cosa che mi è mancata di più in questi giorni sono state la pasta e le ragazze, veh!- sia Feliciano che il suo commilitone risero di gusto. Il tedesco non ci trovava proprio niente da ridere e li fissava con un occhiata quasi furiosa.Lì fuori faceva freddo, lui sentiva freddo, anche se lo nascondeva il più possibile. Senza dire niente si allontanò per tornare dal reggimento tedesco dove lui apparteneva.
-Quello è matto!- fu l'unica cosa che venne da dire al soldato. Feliciano non lo ascoltò e guardava allontanarsi sempre di più da lui il tedesco.Per sempre.
C'era qualcosa per cui valeva la pena andarsene? Moltissime: ad aspettarlo c'era una casa accogliente, anche se martoriata dalla guerra, dei genitori affettuosi, forse un fratello e la vecchia vita di sempre, che ormai sembrava quasi dimenticata. Ma c'era qualcosa per cui valeva la pena restare? Solo Ludwing, un tedesco che non l'aveva trattato nè con riguardo nè con rispetto particolare ma che in qualche modo lo aveva colpito.
Quella notte non riuscì a dormire: da una parte era eccitato dall'idea che presto il bianco della neve sarebbe uscito presto dalla sua vita, dall'altra era triste perchè un amico stava per uscire nello stesso modo della neve e lui non poteva farci niente.

Si svegliò di cattivo umore. Fuori c'erano poche persone che erano venute per salutarlo, poichè gli altri erano tutti a sorvegliare la zona. Con sua sorpresa notò anche Ludwing che lo fissava a braccia conserte e, come al solito, sembrava una statua di ghiaccio: immobile, freddo. A Feliciano questo fece molto male; possibile che, lui quasi lo ammirava mentre l'altro nemmeno dava segni di commozione per la sua partenza?
-Addio!- borbottò soltando, stringendogli una mano in modo vigoroso.
-Veh! Addio Ludwing! Spero ti ricorderai di me!-
-Questo non è un addio! è un arrivederci, Feli!-
Feliciano sorrise.Una lacrima scese sul suo viso -Arrivederci, Lud!Spero di esserti d'aiuto anche da lontano!-
Un sorriso, fugace e appena accennato apparve sul viso di Ludwing, mentre Feliciano lo salutava ancora una volta. Raggiunse la macchina,salì e richiuse la portiera con un suono secco. Fissò le poche persone presenti alla sua partenza fin che non diventarono un minuscolo puntolino in mezzo alla distesa di neve. Non vide mai la fine di quella spedizione. Non vide mai le lacrime che Ludwing versò per lui.


New Orleans (Stati Uniti), 14 dicembre 1942
-Questa è una lettera di arruolamento!- gli disse suo padre indicando la busta.
-Lo so! Forse mi capiterà di incontrare mio fratello nell'esercito! Solo che io sono molto più capace ed eroico di lui!-
-Non scherzare! è una cosa seria!-
-Lo so, papà, lo so!Ma io non aspettavo altro! Voglio far parte di questa guerra! Voglio essere un eroe!- esclamò il ragazzo, finendo di mangiare la sua colazione e alzandosi in piedi.
-Dove vai ora?- gli chiese suo padre
-Voglio salutare tutti. Io parto papà. Io ci andrò!-






Buon sabato a tutte! Questo capitolo è stato uno dei più difficili da scrivere, anche perchè volevo dare un impronta più adulta alla storia (e spero di esserci riuscita).Spero che Feliciano non sia risultato OOC, non sapete che fatica è per me renderlo IC! Il secondo personaggio è stato svelato (mi sembra ovvio chi sia!) e di conseguenza si è capito anche il terzo, credo! Comunque, spero vi sia piaciuto! Questo capitolo lo dedico a _Charlotte_56 per i complimenti e l'entusiasmo con cui segue questa storia! Inoltre vorrei ringraziare tutti quelli che seguono e recensiscono questa storia! Siete stupendi e rendete migliore la mia giornata!
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 10
*** è Natale anche in guerra! ***


Campagna francese (vicino Brest), 24 dicembre 1942
-Su, Francis, apri il tuo regalo!- urlava Sesel impaziente
-è bellissimo, ne avevo proprio bisogno...- Francis si commosse nel vedere tra i suoi regali, un maglione fatto a mano dalla sorellina: chissà quanto tempo ci aveva messo!
-Anche io ti ho fatto un regalo!- la voce più matura di Charlotte adesso risuonava quasi offesa.
-Charli, sei stata molto gentile!-


Ogni Natale le sue sorelline gli regalavano qualcosa, ogni anno sempre più elaborata, come se facessero a gara per entrare nelle sue grazie. La madre cucinava, il padre suonava un sonetto a tema e tutto era così sereno e tranquillo, che Francis credeva fosse stato così, tutti i singoli natali che sarebbero venuti. Con l'avvento della guerra nel trentanove, Charlotte e Sesel scapparono in America alla ricerca di un futuro migliore, e Francis cominciò a ricevere lettere rare e corte in cui almeno poteva sospirare per le due ragazze: Charlotte aveva mandato qualche epistola a proposito di un giovane, e per chiedere il permesso di sposarlo, Sesel, con i soldi che la famiglia le aveva dato, aveva deciso di affittare un bar.
I Bonnefoy erano gente ricca, che prima del quaranta viveva di rendita. Così videro uno ad uno i loro beni più cari sparire: il signor Bonnefoy morto in battaglia, le due sorelle partite e la casa di città distrutta, dopo un violento bombardamento aereo.
Francis e la madre si trasferirono nella casa di campagna e dopo la morte di lei, il ragazzo aveva ospitato sul suo tetto chiunque avesse bisogno di un aiuto : prima Antonio, poi Elizabeta.
Guardava con malinconia la neve che scendeva dalla finestra del suo soggiorno. Piccoli fiocchi bianchi che ricoprivano il suolo verde e che in un certo senso ,rendevano il paesaggio ancora più lugubre: e dire che prima non aspettava altro che le nevicate natalizie! Intanto Elizabeta, sotto sua preghiera, impartiva lezioni di pianoforte a Gilbert.
-Non devi fare così!- mormorava di tanto in tanto quando il tedesco sbagliava nota.
-Io sono capacissimo di intendere, sei tu che sei una pessima insegnante!- borbottava l'altro.
L'Ungherese si trattenne a stento dal rompergli il naso con una padellata. Mise la sua mano sopra quella del ragazzo e, premendogliela dolcemente gli fece vedere la nota giusta da suonare.
-Vedi che se vuoi sei capace di insegnare?- commentò Gilbert un pò a disagio.
-Non è così che impari a suonare, novello Beethoven!-
-Comunque, non è difficile come dici! So già suonare questa cosa...-
-Questa cosa è un aria semplificata che studiano i bambini all'inizio degli studi! Ci vogliono anni prima che tu possa dire "so suonare il pianoforte!"-
-Conoscendomi, lo dirò tra un mesetto!-
-Il solito vanaglorioso!-
Non mancava un giorno in cui i due discutessero, per altro su cose assolutamente futili.Ma almeno non si guardavano più in cagnesco come i vecchi tempi. Il povero Gilbert ora poteva uscire più spesso anche per andare a Brest, sotto la sorveglianza di Francis ed Elizabeta (che in queste circostanze si faceva chiamare Violette Mineau). Gli altri crucchi pensavano fosse disperso chissà dove e, per loro fortuna, nessuno lo riconobbe in compagnia di quei due. Il tedesco ora non faceva più imprecazioni sugli ebrei, smise di pensare ad Adolf Hitler come un salvatore e sembrava anche che fosse sulla giusta via per apprezzare le "razze inferiori".
-Eih, France! Perchè non fai vedere a Beethoven come suoni?- gli chiese Eliza.
Francis guardò i suoi due amici: nonostante ci fosse la guerra, era pur sempre Natale, giusto?
-Fatemi spazio!- disse a mò di risposta alandosi dal divano.
Gilbert dovette riconoscere che il francese suonava divinamente, forse era un pò più insicuro dell'ebrea ma anche più lento e dolce: possibile che solo lui in quella casa non riusciva a distinguere un la da un re?
-Sei bravo!- si complimentò
-Ho studiato qualcosina quando vivevo in città! Mia madre desiderava che tutti e tre sapessimo suonare come papà! Charlotte è di gran lunga la migliore, Sesel è troppo vivace per stare seduta ore su un pianoforte!- raccontò il francese, più a se stesso, per ricordo personale, che per gli altri due.
-I miei invece non hanno mai avuto i soldi necessari per mandarmi ad un buon conservatorio! E poi a me non è mai interessato suonare qulacosa come il pianoforte!-
Francis, per quanto si sforzasse, non riusciva a immaginare che Gilbert fosse stato povero! Lo aveva sempre visto atteggiarsi come un principino troppo viziato.
-Beh, io...sapete qual'è stata la mia sorte! Violinista che sposa un pianista, Roderich era un bravo maestro!-
-Avrei voluto conoscere tuo marito!- confessò Francis.
-Sì, così ci avresti provato anche con lui!- l'intervento inappropriato da parte del tedesco non fu apprezzato dagli altri due, che gli lanciarono un occhiata sprezzante e fecero calare nella stanza un silenzio quasi glaciale.
-Sono stanco!- sbadigliò Francis rompendo il silenzio -Vi dispiace se...-
-No! Vai a dormire!- lo interruppe Elizabeta con un sorriso dolce
-Notte!- bofonchiò Gilbert ancora rosso per la vergogna. Erano rimasti da soli, lui e l'ebrea
-Forse...è stato di pessimo gusto!- ammise vincendo il suo orgoglio e alludendo alla battuta che aveva appena fatto.Si aspettava che lei reagisse male, e invece sospirò con un espressione quasi sofferente
-Francis è malato!-
Il tedesco pensò subito ad una bomba: quando meno te l'aspetti ti arriva addosso e...scoppi!
-Come lo sai? Te lo ha detto lui?- rispose allarmato
-No, ma l'avrai capito, mister fantastico! Tossisce, è pallido...-
-Sarà qualcosa di invernale!Passerà-
-Non credo...ogni giorno è sempre peggio! Devo convincerlo a farsi vedere da qualcuno...- fece un'altro sospiro.
-Sai...non sei male quando non tiri padelle a destra a manca o quando mi incenerisci con lo sguardo!-
Elizabeta arrossì leggermente e ringraziò -Pure tu non sei male quando non ti dai le arie! Anche se ti vanti più o meno spesso...-
Risero entrambi per un pò, poi l'ungherese, dopo aver controllato l'orologio a pendolo del salotto, esclamò con un sorriso.
-A proposito! Buon Natale!-
Era il venticinque dicembre 1942.
-Anche a te!- rispose, prima che entrambi senza dire niente si alzarono per andare a dormire.


New York, 25 dicembre 1942
-Buon Natale figlioli!- gridò Cesare la mattina di Natale sull'uscio della porta, carico di regali, con un timbro di voce talmente alto che Lovino quasi si spaventò.
-Nonno, maledizione, vuoi farmi diventare sordo prima del tempo?- rispondeva l'italiano infastidito.
Antonio invece si limitava a sorridere e a ringraziare del pensiero! Se non fosse stato per il fatto che i suoi genitori erano da qualche parte in Belgio, avrebbe considerato quel Natale uno dei più belli della sua vita. Lovino aveva cucinato roba italiana, dalla classica pasta a qualche piatto tipico del sud, mentre lui ci teneva a presentare in tavola qualche piatto spagnolo che, con suo orgoglio, piaquero al nonno e anche al nipote (anche se lui sosteneva che non era vero). Il signor Vargas se ne andò verso le quattro del pomeriggio ."Tolgo il disturbo" disse e a nulla valsero i tentativi dei due per farlo rimanere.
-è stata una bella giornata, nonostante tutto!-
Lovino non lo stava ascoltando. Leggeva impensierito una lettera che gli aveva portato il nonno.
-Chi ha scritto?- chiese lo spagnolo
-è di Feliciano! è tornato a casa!- rispose.
-Come mai?-
-Pare che il deficente sia stato ferito in guerra!-
-E...non sei felice?-
-Che è tornato a casa sano e salvo? Mah, non me ne frega più di tanto!-
E invece si, gli fregava, Antonio lo sapeva. Lo sapeva dal sospiro di sollievo che aveva fatto dopo aver finito la lettera, dalle poche gocce di commozione che erano cadute e subito asciugate con il palmo della mano. Lovino voleva bene al fratello, in fondo.
Prese il coraggio, non diede retta ai battiti del suo cuore che aumentavano progressivamente. Lo avvolse tra le sue braccia per dimostrare la sua felicità, il suo amore per lui.
-Sono contento per te!-
E la cosa più buffa fu che Lovino non lo fermò e che si lasciò abbracciare senza dire niente! Carpe diem, disse Orazio una volta. Cogli l'attimo.


Russia, 25 dicembre 1942
Feliciano...quanto gli mancava...Feliciano, che con il suo sorriso avrebbe reso meno triste quel Natale freddo e malinconico. Lontano dalla sua famiglia, dalla sua Germania, Ludwing sentiva un vuoto dentro di se, un vuoto incolmabile.
Ma perchè faccio questo? Perchè devo soffrire così tanto? si chiedeva.





*cori da stadio*. Sì! Ce l'ho fatta! Dopo una settimana di incertezze, correzioni, crisi di depressione creativa, sono qui con il mio nuovo capitolo, fino ad ora il più sofferto di tutti.
Non so...io mi sono impegnata molto nel scriverlo ma vorrei comunque sapere se ho fatto schifo o meno! Quindi ringrazio in anticipo chiunque sarà così buono e pietoso da lasciare un commentino!
Ringrazio historygirl93,fairness, _Charlotte_56 , TudorQueen e Zenith per aver recensito. In particolare voglio dedicare il capitolo alla mia compagna di scuola e di sventure Zenith, per avermi dato preziosi consigli, per essersi appassionata alle mie storie e per aver sopportato in continuazione le mie lodi su Arthur ed Hetalia!
A presto e un bacione a tutti!
Cosmopolita

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Capitolo 11
*** Tutto è nero ***


Campagna francese (vicino Brest), 8 gennaio 1943
Francis e Gilbert si erano concessi la libertà di andare fino a Brest quel giorno. In quel periodo si respirava un senso di ribellione e moto tra i francesi che rendeva Francis più attivo del solito e, tra un tossicchio ,uno starnuto e una richiesta di fazzoletti camminava fianco a fianco in compagnia del tedesco con un andatura talmente veloce che Gilbert quasi faticava a tenere il passo con lui.
-Senti Francis, con le feste e tutto il resto io ed Elizabeta non abbiamo voluto dirtelo ma…- cominciò a dire con il fiatone, una volta raggiunto l’amico.
-Avete superato gli asti? Non ci credo! E vi siete divertiti?- domandò il francese con una curiosità quasi femminile fermandosi di colpo.
-Ma…di cosa stai parlando?-
-Secondo me quella donna è diabolica a letto…-
Gilbert non riusciva ad afferrare cosa stesse cercando di dirgli l’amico, ma conoscendolo capì che aveva fatto delle supposizioni completamente sbagliate.
-Mi hai frainteso! Non abbiamo fatto niente noi due!- esclamò imbarazzato.
-Ah, peccato! È da quando ti ho liberato che sognavo tutto questo!- gli confessò. Gilbert arrossì ma subito scacciò quel pensiero dalla sua mente: lui ed Elizabeta non potevano stare insieme! Non erano compatibili, uno era un nazista che credeva di essere ariano, in via di pentimento e l’altra un ebrea che non poco tempo prima aveva in mente una vendetta perversa contro di lui e quelli della sua risma…
-Che volevate dirmi, allora?- lo incalzò l’altro.
Il tedesco sospirò, cercò di prendere del tempo –Francis…tu, non stai bene! Per favore, sono troppo intelligente quindi non negare l’evidenza con me!- disse, intercettando la probabile interruzione del francese –avrai saputo incantare Eliza, ma non me! Tu stai male, e questo è assodato! Stai male da un sacco di tempo, quindi non è un raffreddore invernale! Io e Elizabeta siamo preoccupati per te, forse sarebbe meglio se tu…-
Francis gli mise la mano sulle labbra –Adesso ascolta me!- non era un invito ,ma un ordine! Gilbert non aveva mai sentito in lui quel tono di voce così intenso, così maturo.
-Sono malato, da due settimane circa,in realtà. Inizialmente avevo solo un raffreddore passeggero, cosa da niente. O almeno pensavo…-
Gilbert restò ad ascoltarlo senza dire niente.
-Poi ho capito che stavo peggiorando! Tossivo, starnutivo, con la differenza che ogni volta nella mia mano trovavo gocce di sangue! Ogni giorno andava sempre peggio, per cui mi sono spaventato e ho deciso di andare dal medico qualche settimana fa!-
-E…allora?- chiese il tedesco sempre più preoccupato.
-Tubercolosi!- rispose semplicemente. Una sola parola, inoffensiva, li fece rabbrividire entrambi. Gilbert lo fissò inizialmente quasi incredulo, pensando che si trattasse tutto di un orrendo scherzo da parte di Francis. Si aspettava che si sarebbe messo a ridere, che avesse detto “scherzavo, sto bene”, ma lui non fece niente di tutto questo. Era tutto terribilmente vero.
-O mio Dio! Vuol dire che…-
-Guarirò, Gilbert, ho una speranza!- rispose sbrigativo –…Però… è carino che ti preoccupi per me!- sorrise e l’altro, ancora traumatizzato dalla notizia non fu capace di ribattere nulla.
-Sei contagioso?-
-è una malattia piuttosto facile da contrarre! Il mio medico sospetta che io l’abbia presa da mia madre, ma nessuno aveva effettivamente capito che patologia avesse lei! Ha detto che se mi sottopongo ad una cura non solo riuscirò a guarire, ma sarà anche basso il rischio di contaminazione per gli altri!- spiegò.
- Francis non sai quanto mi dispiace! E Eliza…lei ti vuole bene, gli si spezzerà il cuore!-
-Non dirglielo, ti prego! Fa tanto la dura, ma in realtà credo che una notizia del genere la stroncherebbe! Io guarirò Gilbert, ne sono certo!-
Il ragazzo annuì, incapace di poter dire qualcos’altro. Era in momenti come quelli che si chiedeva che senso aveva tutto quell’odio, quando la vita appariva talmente effimera da finire da un giorno all’altro.

Roma, 17 marzo 1943
Quello era il giorno del suo compleanno, un giorno da festeggiare, forse. Era anche una data importante visto e considerato che compiva i fatidici vent’anni. Ma quando c’è la guerra, il tuo Paese perde una battaglia dopo l’altra e sei contrario al regime che ti governa non c’è proprio niente da festeggiare. Forse Feliciano era cambiato in quel poco tempo che era stato via: l’aveva notato la madre che era sorpresa di quanto suo figlio sembrasse più maturo, l’aveva notato lui stesso che non era più lo sciocco e sprovveduto ragazzo di prima. Forse lo era ancora, ma tutto non era più lo stesso.
La sua famiglia era caduta nella disgrazia più nera e avevano il minimo necessario per vivere. Non aveva potuto più riassaporare la pasta che tanto aveva desiderato nei giorni in cui era lontano dall’Italia.
Suo fratello gli aveva mandato una lettera, breve e concisa nel quale scriveva che stava bene, viveva con un amico spagnolo di origini ebree e che il ristorante andava a meraviglia. Concludeva che il nonno lo salutava.
Feliciano aveva conservato quella lettera per bene, senza sgualcirla, come se fosse una testimonianza che la felicità da qualche parte c’era ancora in quell’anno. Si addormentava con il suono delle sirene e il rombo degli aerei. Si addormentava con il volto di Ludwing impresso nella mente.

Russia, 1943
Un suo amico giaceva proprio accanto a lui coperto di sangue. La faccia era bloccato, nel suo ultimo istante di vita, da un ghigno di terrore che metteva i brividi sulla schiena. Ludwing cercava di guardarlo il meno possibile per non avere la nausea e piuttosto di focalizzare la sua concentrazione sul plotone inglese, o per lo meno, i pochi che erano sopravvissuti e si erano arresi. Il campo di battaglia era costellato di cadaveri simili a quello del suo commilitone. Aveva sempre pensato ad una guerra nobile, patriottica, ma di fronte a quello spettacolo si accorse che quella non era la guerra che credeva, ma un massacro senza vincitori. In fondo di chi era la colpa? Era stata una sanguinosa catena di eventi, un terribile susseguirsi di errori da parte di Asse e Alleati. Era anche colpa sua, in qualche modo. La verità nuda e cruda era balzata fuori all’improvviso, come una doccia fredda in inverno, sotto le spoglie di Feliciano Vargas, innocente, costretto a combattere in una guerra di cui non capiva il significato, timoroso di uccidere e pronto sempre al sorriso anche nelle situazioni più drammatiche.
E le sue convinzioni più radicate sulla guerra e sulla gloria erano svanite con l’italiano, con l’anno nuovo, con la fine delle grandi battaglie a favore della Germania. Quel giorno era stata solo una rara eccezione. L’armata inglese, coraggiosa fino all’ultimo, era stata spazzata via ed erano rimasti solo pochi superstiti, piuttosto malridotti.
-Uccidilo!- gli ordinò un sergente, spintonandogli contro un soldato nemico.Doveva essere poco più vecchio di lui, forse aveva venticinque anni, puzzava terribilmente di fumo e tabacco e aveva i capelli di un rosso talmente intenso che il loro contrasto con la neve che cominciava a sciogliersi ,dava fastidio agli occhi.
-D…don’t kill me! I...I have a family!- Ludwing non capiva l’inglese, ma percepiva il terrore nei suoi movimenti sconclusionati, nei suoi occhi, nel suo tono di voce acuto.
Ma in fondo, chi era lui per decidere la vita o la morte di una persona?
Incredibile quanto la Russia lo stesse cambiando! Molto tempo prima di allora lo avrebbe eliminato senza farsi troppi scrupoli.
La presa sul nemico si allentava sempre di più, con il crescere dei suoi dubbi, con il pensiero sempre più grande di Feliciano che sicuramente l’avrebbe lasciato libero…
-Vai!- ordinò, liberandolo completamente dalla sua stretta.
Il rosso sembrò capire, perché con un tono di voce agitato disse frettolosamente qualcosa molto simile ad un ringraziamento, per poi correre a gambe levate via, verso l’ignoto.
Ludwing era consapevole di aver fatto la cosa giusta.Rimase a guardare il paesaggio rivestito di una fierezza nuova, la gioia di aver scelto la strada giusta da percorrere.
Fin che un suono secco e imprevedibile quasi non lo assordì. Al rumore seguì il dolore, intenso, lancinante, molto vicino allo stomaco. Fece in tempo solo per vedere il sergente che si rimetteva in posizione di riposo, osservandolo con uno sguardo che sembrava volesse dire “i traditori come te proprio non li sopporto”.
Istanti, velocissimi istanti, che a lui sembrarono troppo lunghi. Cadde a terra incapace di urlare mentre tutto intorno a lui si stava facendo confuso e sbiadito. Non riusciva a pensare nulla, tranne che al dolore bruciante dello sparo, al sangue caldo che scendeva giù per la maglia, alla voglia di urlare e di chiamare la madre. Pregò per lei, la donna bionda e angelica che gli aveva donato la vita, suo padre, il suo maestro di vita, suo fratello Gilbert il suo esempio e per Feliciano, il suo migliore amico.
Riuscì a chiedere a Dio di poterlo perdonare. E poi chiuse gli occhi, il buio calò davanti a lui.

Almeno, ho fatto qualcosa di glorioso, prima di andare via…




Ok, ora sono certa che un migliaio di persone mi manderanno lettere di protesta, nessuno mi seguirà più e cancelleranno tutti la storia dai preferiti ç.ç Scusatemi, io non ho niente contro Lud (anzi!) ma...è la guerra! Davvero, chi se lo aspettava? *nessuno alza la mano*
Ah, bene...
Ringrazio tutti quelli che hanno recensito, seguono la storia e l'hanno messa nelle preferite o nelle ricordate. Vi ringrazio maggiormente se dopo questo capitolo la seguirete ancora ^^. Dedico il capitolo a TudorQueen per il sostegno morale, per aver recensito ogni mia fic e per l'entusiasmo con cui le segue!Ah, e ci terrei a dire che questa è la primissima volta che descrivo la morte di una persona, quindi mi farebbe piacere sapere se è meglio che non scriva più niente del genere o che va abbastanza bene!
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 12
*** Dichiarazioni ***


Campagna francese (vicino Brest), 25 marzo 1943
Era la solita giornata apatica in cui nessuno dei tre aveva voglia di fare qualcosa: Elizabeta strimpellava al pianoforte con noia e Francis, dopo pochi minuti che era rimasto ad ascoltare quella fastidiosa cantilena, si alzò annoiato e andò in camera sua. Gilbert aveva fatto come gli aveva promesso e non disse niente ad Eliza sulla tubercolosi del francese che era in via di guarigione già da tempo , ma l’ungherese aveva notato come l’amico deperisse ogni giorno di più, nonostante stesse riguadagnando colore.
I tedeschi non sembrano più così forti e vigorosi come agli albori della guerra: ora perdevano una battaglia dopo l’altra e questo ad Eliza dava speranza. Non sapeva come esprimersi con Gilbert che, pur non convivendo più le idee naziste, rimaneva sempre un tedesco.
Ad un tratto lo vide alzarsi in piedi come colpito da una paralisi. Smise di suonare e chiese cosa mai fosse successo.
-I miei genitori! Pensa come sono in pensiero!- esclamò lui come risposta. Eliza avrebbe voluto chiedergli come gli fosse venuto in mente, ma non lo fece. Annuì e continuò a suonare .
-Non capisci?- domandò lui, offeso dal trattamento ricevuto.
-Vuoi andare in Germania e dire loro “sto bene, attualmente vivo con ebrea che mi insulta un giorno sì e l’altro no e che sogna di vedermi insieme con un altro mio amico!”?-
-Cosa vuoi che faccia?- urlò scandalizzato
-Sareste bene insieme, tu e Francis!- si giustificò facendo spallucce
Gilbert voleva ribattere che non era di sua competenza decidere con chi stava bene o meno, ma per il momento, la faccenda dei suoi genitori sembrava più importante.
-Non dico questo…solo mandare una lettera e tranquillizzarli!Voglio andare nel mio appartamento in città…ora che ci penso è da quasi un anno che non ci vado, e scrivergli! Chissà quante me ne avranno mandate loro di lettere!-
Elizabeta sembrava poco convinta –Dobbiamo chiedere cosa ne pensa France…- disse un po’ titubante.
Il tedesco odiava chiedere il permesso, ormai aveva ventiquattro anni ed era una persona indipendente sotto ogni punto di vista! Salì in fretta e furia le scale, si precipitò alla porta di Francis e, senza neanche bussare, aprì di scatto la porta. Il francese, che stava leggendo, balzò in piedi spaventato.
-Devo andare a Brest!- esordì Gilbert trafelato raccontandogli le sue intenzioni. Francis lo lasciò parlare, poi annuì in segno di approvazione
-Vengo anche io!- annunciò prendendo il cappotto


L’appartamento di Gilbert era situato al terzo piano di un condominio tranquillo della periferia di Brest. All’ingresso si ergeva un fagotto di lettere indirizzate a lui e mai aperte, cosa che fece sbuffare il tedesco che le prese e le passò a Francis. Poi cercò le chiavi e aprì la porta.
Era un ambiente piccolo, ma ben arredato. Fin da una prima occhiata si poteva capire che tipo fosse il tenente: ritratti di se stesso in pose eroiche, foto incorniciate (sempre ritraenti Gilbert) e riconoscimenti messi in bella vista.
Il francese poggiò il pacco delle lettere sul tavolo della cucina e l’amico, tra uno sbuffo e un altro, cominciò a leggerle tutte.
-Eih, chi è questa Natalia?- chiese Francis malizioso e pettegolo. Gilbert sorrise
-Sono un tipo affascinante!-
Elizabeta, accanto a lui, storse il naso e dichiarò che lei non lo trovava affatto affascinante.
-Sei solo gelosa!- controbatté il ragazzo facendola diventare rossa per l’imbarazzo.
Un’altra lettera era da parte di un amico che gli chiedeva che fine avesse fatto, poi tantissime da parte dei genitori preoccupati e allarmati. Francis si sentiva quasi in colpa di averlo tenuto prigioniero per così tanto tempo.
-E…questa cos’è?- si chiese Gilbert mostrando agli altri due una lettera diversa dalle altre. Il nome di chi scriveva non lo aveva mai letto prima d’ora e l’iscrizione “egregio signor Beilschmidt” fece trapelare un contenuto molto formale. Senza proferire alcuna parola aprì la busta e lesse la lettera con un attenzione che non aveva dedicato alle altre. Francis, via via lo guardava diventare sempre più bianco e rigido. Il tedesco finì di leggere e con un gesto brusco, passò la lettera ad Eliza per poi, con voce rotta dal pianto, sussurrare che doveva andare in bagno.
-Cosa diamine c’è scritto?- chiese preoccupato ad Elizabeta.
-Non saprei! Leggila, vado a vedere come sta!- gli rispose correndo in bagno.
La missiva era fatta di carta leggera, quasi inconsistente. Lui la prese delicatamente e cominciò a leggere

18 marzo, 1943 Egregio Signore,
Siamo venuti a conoscenza di un gravissimo dolore che si è verificato da pochi giorni, non sappiamo precisamente quando. Andremo subito al dunque, senza troppi giri di parole,perché le parole, in questo momento così difficile,non porterebbero a nulla : Suo fratello Ludwing Beilschmidt è morto in Russia, trafitto da un proiettile sparato da un sergente di cui preferiamo tacere il nome.
Il suddetto sergente afferma che Suo fratello ha tradito la Germania, lasciando andare via un alleato che aveva il compito di uccidere. Non ha rispettato gli ordini, ma credo che questo non importi. Ci addolora sapere che un grande uomo come Suo fratello sia stato ammaliato dalle assurde idee degli alleati, ma noi vogliamo ricordarlo come era prima, un grande uomo che agiva per la sua amata Germania e che ,in un momento di debolezza, si sia lasciato andare.
Molti lo rammentano come un bravo militare, che non si lamentava mai ed era disposto a tutto pur di vincere la guerra. Un uomo coraggioso e nobile.
Suo fratello ha lasciato le sue ultime volontà scritte in un foglietto: lascia metà dei suoi beni a Lei e l’altra metà ai suoi genitori. Inoltre prega che venga consegnato ad un certo Feliciano Vargas il suo ritratto.
Sperando che lei stia bene,
Cordiali saluti


Francis finì di leggere la lettera con un vuoto dentro di se: non conosceva Ludwing, ma il gesto di bontà che aveva fatto lo fece commuovere. Ripiegò la lettera e la poggiò sul tavolo, poi andò in bagno.
Gilbert stava piangendo, seduto per terra ed Elizabeta, accanto a lui, lo consolava con voce commossa.
-Gilbert…mi dispiace!- disse il francese chinandosi su di lui e abbracciandolo, come se volesse trasferire tutto il dolore dell’amico su di lui.
Il tedesco non rispose, continuò a piangere, a volte trattenendo qualche singhiozzo.
-Mio fratello…- sussurrò incredulo –Lui non c’è più!-
Elizabeta lo abbracciò a sua volta, forse per non fargli vedere che anche lei stava versando lacrime di commozione.
Per alcuni minuti nessuno disse più niente. Gilbert strinse ancora più forte a se la ragazza, come se avesse bisogno di un sostegno morale. Poi si rialzò e fece capire a entrambi che non voleva più restare lì.

-Gilbert, chi è Feliciano Vargas?- chiese Francis quella sera.
Il tedesco per un attimo sembrò pensarci su poi scosse la testa facendogli capire che non lo conosceva.
-Eseguirai il volere di tuo fratello?-
-è il minimo che possa fare, non credi?-



New York, 18 giugno 1943
Quella sera il ristorante era talmente pieno che Cesare lasciò il comando della cucina a Lovino, essendo lui troppo occupato altrove.
Il nipote rendeva meglio come cuoco che come cameriere: il suo carattere scontroso rendeva scettici alcuni clienti ed era capace di litigare con chiunque. Invece Antonio sembrava nato per quell’impiego. Sorrideva ed era gentile con tutti, tanto da aver conquistato il cuore di una vecchia vedova, assidua cliente della pizzeria.
All’una l’incasso superava ogni loro aspettativa e il signor Vargas era talmente su di giri da consegnare metà del guadagno a Lovino.
-Te li sei meritati!- esclamò fiero di lui. Il ragazzo, non abituato ai complimenti, lo ringraziò con un filo di voce e cominciò a contare i soldi con un misto di orgoglio e avidità.
Lui ed Antonio tornarono a casa stanchi morti. Lovino si buttò a peso morto sul divano e lo spagnolo, accomodatosi vicino a lui, gli sussurrò che era stato molto bravo quella sera.
-Me lo hai ripetuto come minimo mille volte!- protestò l’italiano
-Beh, mica è colpa mia se sei così bravo!-
-Ripeti ancora una volta la parola bravo e giuro che ti arriva un ceffone!- disse acido.
Antonio non potè fare a meno di sorridergli. Gli accarezzò piano i capelli ma, scorgendo un occhiata di traverso da parte di Lovino smise subito..
-Devo dirti una cosa!- ricominciò a parlare lo spagnolo con impeto .Quella sera, più che mai voleva confessargli quello che provava per lui. -Ti amo!- sussurrò stringendo i pugni e arrossendo. Lovino rimase a guardarlo senza tradire alcuna emozione –Mi sei piaciuto fin dal primo giorno che ti ho visto. All’inizio ho pensato fossi carino e diverso da tutti gli altri. Mi incuriosivi, più che altro! Poi…è tutto cambiato. Non eri solo carino, eri meraviglioso, non solo mi incuriosivi, io…io... lo sai una cosa? Ho sempre desiderato vederti sorridere!- era visibilmente a disagio, lo diventò ancora di più quando vide che Lovino era rimasto freddo e impassibile con le braccia incrociate.
- Lovino…ti prego, di qualcosa!- lo supplicò
-Sai cosa mi viene da dirti?- chiese furibondo –Sei un bastardo!-
Antonio sentì tutto il peso del mondo crollargli addosso; un pesante macigno si insediò al posto dello stomaco.
-C…come?- domandò smarrito
-Siamo in guerra, te ne rendi conto? Fai il deficiente, il finto tonto e sembra non importartene nulla! Mio fratello ha rischiato la vita, maledizione, il tuo caro amichetto la rischia ancora! Possibile che non capisci niente? Ti metti a fare dichiarazioni d’amore inutili?- nei suoi occhi lampeggiava una furia sconosciuta allo spagnolo che non si aspettava minimamente quella risposta. Per un po’ non ebbe il coraggio di dire niente talmente era umiliato e mortificato.
- Penso che tu sbagli!- ebbe il coraggio di formulare con la voce rotta, trattenendo le lacrime con tutta la sua forza di volontà –Sei convinto che io non ci pensi? Rimugino costantemente sul fatto che io dovrei essere con Francis ed Elizabeta per aiutarli! Che dovrei essere con i miei genitori o in qualche campo di concentramento! Ma a volte rifletto sulle ultime cose che mi hanno detto i miei genitori, prima di scappare in Belgio “Antonio, non pensare a noi…non pensare a tutto il male che ci vogliono! Fuggi in un posto migliore e sii felice!” .Credo che in questo momento tuo fratello, Francis, i miei genitori…sarebbero contenti di sapere che noi due non conosciamo la miseria della guerra!- finì di parlare e quel poco di colore che gli era rimasto svanì completamente.
Lovino abbassò la testa umiliato e dovette riconoscere che aveva ragione dalla prima all’ultima parola. Insomma, lui l’amava e suo fratello sarebbe stato felice per lui. Giusto? Perché doveva riproporsi una sofferenza che non sentiva come sua? Perché doveva essere scontroso anche questa volta e non dare retta al suo cuore?
–Mi…dispiace-mormorò, vincendo il suo orgoglio.
Antonio si girò per guardarlo. Quel ragazzo lo aveva sorpreso due volte in un giorno solo–Lovino…-lo chiamò –Tu invece…-
-Vai a quel paese!- sbottò l’italiano –L’ hai sempre saputo che mi piaci, bastardo! Non vedo perché dovrei dirtelo faccia a faccia!-
Il sorriso dello spagnolo si fece ancora più largo e il cuore cominciò a battergli forte –Fa sempre piacere sentirselo dire!- ammise.
-Beh, allora…ti amo, contento?- Lovino arrossì di colpo
-Molto…- Antonio si avvicinò a lui e gli cinse le spalle dolcemente mentre Lovino lo lasciò fare senza ricambiare, come al solito. Ma tutto era diverso. Tutto era cambiato


Normandia, 8 luglio 1944
Il paesaggio circostante offriva uno spettacolo semplicemente orribile. Alcuni fili d’erba non erano verdi ma di un vivace carminio quasi innaturale.
Alfred pensò che i morti dovevano essere,come minimo, a centinaia!
-Sono…Alleati?- sussurrò con un brivido di nausea ad un soldato di fianco a lui.
-Si…pare siano inglesi! Incredibile, sono tutti morti!-
Alfred F. Jones inizialmente aveva fatto i salti di gioia nel sapere che era stato reclutato per la guerra. Voleva essere parte attiva di quell’evento e dimostrare a tutti di essere un eroe, un ragazzo maturo. La sua compagnia inizialmente era sbarcata in Sicilia ma erano rimasti lì per poco tempo, troppo però per capire che tutte le sue aspettative erano state tristemente deluse: una situazione precaria, accentuata dal fatto che era soltanto un soldato semplice di diciannove anni.
Dall’Italia era stato mandato in Normandia, dove ormai era stabile da più di un mese dopo il D-Day.
-Cavolo! Qualcuno di è mosso!- esclamò il suo vicino, caricando di istinto il fucile. Anche lui fece lo stesso. Sentiva un sussurro preoccupato qua e la da parte di alcuni soldati, quando una voce più alta si alzò fra tutti.
-Sono inglesi! Dobbiamo aiutarli!-
I superstiti inglesi erano pochissimi, solo sette, tutti più o meno feriti. Ad uno mancava per fino un braccio. Chiedeva implorante di essere rimandato a casa.





Hello to everyone! Questo capitolo è il più lungo che abbia mai scritto 0.0 va bè, ci tengo a ringraziare chi segue e recensisce la storia, in particolare vorrei dedicare il capitolo a KikuLove97 per l’entusiasmo con cui mi segue e per avermi messo tra gli autori preferiti! Vi adoro, tutti quanti, non sapete quanto!
Recensite, voglio un vostro parere ^^
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 13
*** Nuove conoscenze ***


Normandia, 10 luglio 1944
Quattro, tra i sette sopravvissuti, furono rimandati in Inghilterra ed uno era morto nel frattempo per infezione. Ne erano rimasti solo due ed avevano entrambi accettato di rimanere nel plotone americano. Alfred li osservava incuriosito come se si trattassero di due animali molto rari : uno era molto socievole e disponibile, tanto da essersi conquistato l’amicizia della maggior parte dei militari. L’altro invece era un tipo piuttosto cinico, amava starsene per fatti suoi, non parlava con nessuno e di conseguenza nessuno parlava con lui.
-Sai come si chiama?- chiese Alfred ad un suo amico, indicando l’inglese
-No e non ho intenzione di domandarglielo! È così superbo e freddo! Per quanto odi questo posto, “il Lord”ci ha degnati della sua presenza ed ha deciso di restare qui: conosce il francese!-
Ad Alfred quell’inglese suscitava curiosità e mistero: sembrava molto più vecchio di lui, forse aveva venticinque anni o trenta addirittura. Aveva i capelli biondi e spettinati e due occhi verdi che illuminavano il pallore del suo viso. La cosa che lo colpì di più furono le sopracciglia, due arcate folte ed enormi. L’americano pensò tra se che non era male ma neanche di grande avvenenza.
Senza congedarsi con l’amico, si avvicinò allo sconosciuto
-Ciao!- urlò da dietro.
Quello trasalì, poi si girò di scatto, lo squadrò velocemente ed esclamò irritato –Ma sei scemo? Mi hai fatto quasi prendere un infarto!-
-Io sono il soldato semplice Alfred F. Jones!- si presentò ridendo –E tu sei…?-
-Kirkland, soldato semplice!- rispose l’altro, ignorando la mano offertagli dal ragazzo. Alfred, per nulla intimorito da quell’atteggiamento abbastanza ritroso, ritirò la mano
-E un nome non ce l’hai, Kirkland?-
-Arthur!-
Arthur Kirkland.Questo era il suo nome e Alfred pensò suonasse molto bene.
-Sei un superstite inglese, giusto?- cercò di attaccare bottone
- Perché, ce ne sono altri oltre me?- rispose sarcastico
- Ma che simpatico! E perché non torni a casa?-
-Perché voi americani siete così…?-
-Eroici e affascinanti?- completò Alfred prima di fare una energica risata.
-In realtà stavo per dire invadenti e stupidi!- ribattè Arthur incrociando le braccia.
-E perché voi inglesi siete sempre così freddi e indifferenti?-
Nel volto di Arthur spuntò fuori un sorriso misurato e appena accennato, in tutto e per tutto diverso da quello largo e amichevole di Alfred.
-Allora sai sorridere! Pensavo ce l’avessi sempre quell’espressione!- lo prese in giro l’altro.
Più che altro non sapeva cosa dire: quel sorriso dava una bellezza tutta nuova al volto dell’inglese, che inizialmente gli era sembrato poco interessante. Ma subito quel sorriso che tanto l’aveva colpito si spense, per ritornare all’espressione distaccata e diffidente di prima.
-Non voglio andare via…- sussurrò Arthur con un filo di voce – Perché non voglio fare la figura del vigliacco davanti ai miei fratelli!-
L’americano non capiva: che razza di motivo era? Restò a guardarlo sconcertato per circa un minuto in attesa che l’inglese aggiungesse dell’altro .
-Perché continui a guardarmi con quella faccia da pesce lesso?- domandò seccato Arthur.
-Vuoi dirmi che è solo per questo che non vai via?-
-Fatti gli affari tuoi, yankee!- lo aggredì evasivo
-Io mi sono arruolato per la mia patria, per la pace, per la libertà e perché voglio essere un eroe!- dichiarò Alfred con un impeto di orgoglio
-Ma che bravo! Lo sai, ero smanioso di conoscere il perché del tuo arruolamento!- gli rispose Arthur in tono ironico.
-Tu perché l’hai fatto?- gli chiese l’americano, probabilmente non cogliendo alcun sarcasmo nelle parole del soldato.
Lui sospirò –Questi rimangono affari miei!-
-Voglio solo cercare di capire che tipo sei!- si giustifico facendo spallucce –A proposito, quanti anni hai, trenta?-
Arthur lo incenerì con lo sguardo –Ventitre- rispose stizzito
Alfred non se l’aspettava, in fondo era più vecchio di lui di solo quattro anni –Scusa! Sembravi più vecchio! Sei così serio…-
-Pensa per te! Sembra che ti hanno tolto solo ieri il pannolino!-
-In realtà ho diciannove anni, sono un uomo maturo!- affermò un po’ offeso
L’inglese gli lanciò un’altra occhiata di traverso come per dire che sembrava tutt’altro che maturo. Quell’americano era un ragazzino infantile, patetico e gli stava rovinando la giornata. Era già terribile vivere in un clima di guerra, vivere per quattro anni senza poter vedere tutti i suoi fratelli: Ian, James, Andrew, Hanna e Peter…il piccolo Peter. Quanti anni aveva adesso? Si sarebbe ricordato ancora di lui che gli leggeva la favola della buonanotte e lo faceva sedere sulle sue ginocchia?E ormai Hanna doveva essere una bella donna di vent’anni.Ricordava le sue parole una per una, le sue lacrime di addio, nonostante avesse sempre dimostrato per lui un odio profondo. Se c’era qualcuno che gli mancava più di tutti erano proprio loro due: Peter e Hanna Kirkland…
-A cosa pensi?- chiese Alfred intromettendosi nei suoi ricordi, le uniche cose a cui si aggrappava in quei momenti di tristezza.
-Ma tua madre non ti ha insegnato a non esasperare la gente!- ribattè al limite della sua ben limitata pazienza.
Il volto di Alfred si trasfigurò in un espressione di dolore, come se avesse appena ricevuto un pugno allo stomaco
-Magari lo avesse fatto!- rispose con un tono di voce offeso e, prima che Arthur potesse aggiungere qualcosa lui era già andato via.
L’inglese inizialmente si chiese il perché di quella reazione: eppure non era stato maleducato e a chiunque sarebbe saltata la mosca al naso se avesse avuto a che fare con un individuo soffocante come quel Jones. Il suo senso di colpa lo spingeva ad andare a cercarlo e a chiarirsi con lui, dall’altra il suo orgoglio lo esortava a desistere: lui e quell’americano non avevano proprio nulla da spartirsi.
E intanto Alfred capiva di aver reagito male; dopotutto Arthur non sapeva nulla del suo passato. Ma il tono di voce con cui glielo aveva detto gli aveva rievocato nella mente proprio lei, sua madre, che faceva paragoni tra lui e suo fratello. Quella madre che si era sposata troppo giovane, se ne era andata con il gemello e veniva a trovarlo solo durante le estati. Quella madre che non aveva.


Campagna francese (vicino Brest), 10 luglio 1944
Nessuno sapeva chi fosse Feliciano Vargas. Avevano fatto alcune ipotesi, da quella che fosse morto a quella che probabilmente era chissà dove sperduto. Era un’impresa impossibile riuscire a trovarlo, ma Gilbert era deciso a rintracciarlo, a compiere le ultime volontà del fratello.

-Jól beszél magyar!- (parli bene l’ungherese)
-Köszönöm!- (grazie)
Era da ore che li sentiva parlare in quella lingua di cui Francis non sapeva pronunciare nemmeno una parola e doveva ammettere che si stava ingelosendo, più che altro perché era stato completamente tagliato fuori dalla conversazione. Sapeva che Gilbert, vivendo per qualche anno in Ungheria sapeva parlare l’ungherese e se lo aspettava che prima o poi lui ed Eliza vrebbero fatto un "tete a tete" in quella lingua. Ormai era guarito dalla tubercolosi, ma la malattia l’aveva reso comunque cagionevole di salute e non era raro che prendesse qualche raffreddore o una febbre passeggera, ma ciò che lo preoccupava di più era la situazione francese del periodo: avrebbe voluto partecipare a quel moto rivoluzionario, ma Elizabeta e soprattutto Gilbert non gliel’avrebbero permesso: una per la sua salute, l’altro perché non voleva che il suo amico combattesse contro i tedeschi, la sua stessa gente.
Ad un certo punto,la ragazza si alzò, salutò e uscì per fare la sua solita passeggiata.
Francis sapeva che stava succedendo qualcosa tra Eliza e Gilbert, una cosa in cui lui non rientrava: lo capiva dagli sguardi teneri che si lanciavano, lo capiva perfino durante i loro piccoli battibecchi che in quel periodo accadevano assai più di rado. Un giorno tra i due sarebbe accaduto effettivamente qualcosa e lui sarebbe stato dimenticato per sempre.
Gilbert si stava esercitando al pianoforte: era migliorato notevolmente, ora sapeva suonare un “Per Elisa” abbastanza convincente.
- Lieutenant…promettimi che rimarremo sempre amici!-
Il tedesco interruppe la sua esercitazione e lo fissò esterrefatto –Certo che rimarremo amici, che diavolo di domande fai?-
- So che ti piace Eliza…- affermò Francis –Non voglio essere dimenticato!-
-Non verrai mai dimenticato Francis! E poi non mi piace Eliza, un tipo come me merita di meglio, non credi?-
-Non negare! A te piace Elizabeta, anzi, sono convinto che ti sia sempre piaciuta!-
Il tedesco stava per ribattere, quando la porta si aprì. Elizabeta entrò, pallida in volto; portava di peso un ragazzo ferito. Francis si alzò di soprassalto –Ma cosa..?- fece per dire
-L’ho trovato qui vicino, ho fatto il più veloce possibile per portalo qui!- esclamò scossa.
Il francese lo adagiò sul divano, incurante del fatto che molto probabilmente l’avrebbe sporcato di sangue.
- Gilbert, portami la cassetta del pronto soccorso. È in cantina, da qualche parte!- ordinò
Il tedesco ubbidì, poi rimase a guardare Francis mentre cercava di medicare la ferita. Sentì la mano di Elizabeta, fredda e tremante, stringere freneticamente la sua.
-Non preoccuparti, si salverà, ne sono certo!- disse stringendola forte.



'Sera! E puntuale come un orologio svizzero, eccomi qui per aggiornare questa storia! Come sempre ringrazio che segue, recensisce e legge questa storia, in particolare vorrei dedicare il capitolo a hiromi_chan per averla messa tra le ricordate (ragazza, voglio un'altro tuo parere sulla storia xD).
Per la traduzione in ungherese non garantisco niente visto che è ripresa da Google traduttore! Inoltre, per chi se lo stesse chiedendo, Hanna Kirkland è un mio OC, precisamente Irlanda del Nord.Ora vi lascio ad un ultimo quesito :chi è il misteriso ragazzo ferito? Come andrà a finire tra Alfred e Arthur? E gli altri? Lo scoprirete nel prossimo capitolo!
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 14
*** Scoperte ***


Normandia, 11 luglio 1944
Arthur odiava ogni giorno di più quel posto che per lui non aveva alcun significato. Il suo posto era a Londra,in Francia non si sentiva se stesso, la guerra non faceva parte di lui. Non voleva combattere, ma doveva, al contrario di quell’americano che aveva desiderato con tutto se stesso diventare soldato.
-Eih, tu!- era stato proprio Alfred a gridare a gran voce. Arthur sbuffò seccato.
-Non ti è bastata la lezione di ieri?- gli rispose acido l’inglese.
L’americano rise (su cosa c’era da ridere, Arthur non lo sapeva) – Ieri ho reagito male, scusa! È che…vedi, mia mamma se ne è andata quando ero molto piccolo e sentirla nominare non mi è mai piaciuto!-
Arthur provò per un attimo pena per lui. Aveva sempre avuto due genitori affettuosi e presenti, sapere che qualcuno non aveva mai avuto la sua fortuna lo metteva a disagio –Non lo sapevo!-
L’americano rise di nuovo –E cosa ne potevi sapere tu! Mi conosci appena! Comunque, mia mamma e mio padre si sono conosciuti e si sono innamorati subito. Ma mia mamma era ricca, mio padre invece un povero nullatenente e quindi, puoi immaginare come reagirono i miei cari nonni materni quando hanno saputo che la loro unica figlia voleva sposarsi con un individuo come quello!-
Arthur avrebbe voluto dire che a lui non importava gran che della storia sulla sua famiglia, ma Alfred non lo lasciò parlare –Diseredarono mia madre e lei fu libera di stare con mio padre, ma non si sposarono mai. Presto la loro passione finì e lei scappò in Canada con il mio gemello. Avevo due anni!-
L’inglese non disse nulla. Osservò l’americano in silenzio, vergognandosi di averlo trattato male –E…non l’hai vista più?-
-Tutte le estati, per una settimana. Pensa, ora è sposata con un canadese più ricco che intelligente e mio fratello sa parlare il francese e l’inglese! Per fortuna non vivo con lei, costringe Matthew a stare sui libri metà della sua giornata e lui è praticamente invisibile agli occhi degli altri!-
Arthur notò che, mentre parlava, Alfred aveva cambiato tono di voce nel parlare di suo fratello: si era addolcito e non impiegava quel tono polemico che aveva utilizzato per parlare di sua madre.
-Gli vuoi bene?- chiese.
-Si, è un tipo a posto! Lui mi aiutava con la matematica, prima che lasciassi la scuola e io gli insegno a salire sugli alberi!- spiegò.
L’inglese non aveva mia sperimentato questo genere di complicità tra i suoi fratelli: Ian lo detestava, James gli voleva bene ma non l’aveva mai dimostrato, Andrew e Hanna lo odiavano quanto Ian…solo Peter sembrava tenere davvero a lui, sebbene piccolo.
-Parlami un po’ di te!- gli propose l’americano in tono supplicante di chi si aspettava una risposta negativa.
- Non ne ho voglia!- rispose infatti Arthur.
-Quanto sei noioso!- protestò.
-è già troppo se ti rivolgo la parola! -
Alfred sbuffò deluso. Non sarebbe stato facile riuscire a parlare con quell’inglese senza che lui si irritasse o arrabbiasse.
Che poi, si chiedeva, perché ci teneva così tanto a diventare suo amico?


Campagna francese (vicino Brest), 11 luglio 1944
Gilbert quella mattina si svegliò agitato. Se chiudeva gli occhi riusciva ancora a vedere il dolore proiettato negli occhi del giovane ferito. In qualche modo gli ricordava sua fratello Ludwig; ci pensava spesso ,da quando lo aveva saputo, a come fosse morto e più ci rifletteva, più era consapevole di voler rintracciare quel Vargas. Se l’era immaginato alto, muscoloso, coraggioso, il tipo di persona con cui suo fratello era più incline a stringere amicizia. Ma cercarlo sarebbe stato come tentare di trovare un ago nel pagliaio: impossibile! Non sapeva di che nazionalità era (spagnola o italiana, aveva immaginato) e come rintracciarlo. Elizabeta aveva suggerito di aspettare, Francis lo intimava a fare ricerche, lui era ancora indeciso. In quel momento però il tedesco non ritenne Feliciano Vargas la sua priorità assoluta: c’era la guerra, la debolezza fisica di Francis, quel ragazzo ferito e poi c’era lei…
Inizialmente per Elizabeta non provava nulla. Era una bella donna, tutto qui, e date le circostanze in cui si erano conosciuti, non aveva potuto fare a meno di odiarla durante i primi giorni.
Ma poi c’era stato qualcosa che gli aveva fatto cambiare idea. Ormai a Gilbert non importava più che il sabato non faceva nulla se non pregare e se celebrava ricorrenze strane come “la festa delle capanne”. Era diventata per lui qualcosa di più, qualcosa che stravolgeva completamente il suo modo di pensare da nazista.
Elizabeta valeva per lui più di cinque donne ariane tedesche messe insieme, perché era dolce e combattiva al tempo stesso, perché aveva sofferto tanto eppure non si demoralizzava mai. Forse aveva ragione Francis…forse era vero che gli era sempre piaciuta...
Scese in salotto e trovò il francese adagiato sulla sedia, più addormentato che sveglio, vicino al divano su cui era sdraiato il sodato ferito. Era stato ripulito alla buona, probabilmente da Francis, ed era ancora un po’ sporco di terriccio, ma Gilbert riuscì ad intravedere che aveva i capelli biondi.
Poi scrollò delicatamente Francis per svegliarlo.
-Mon lieutenant…- borbottò sbadigliando.
-Ciao, Francis...come sta?- chiese alludendo al ragazzo.
-Non è ferito gravemente!- rispose – Ho chiamato il mio medico quando sei andato a dormire e afferma che può benissimo stare qui fin che non si rimette del tutto!-
-Ma chi è? Come si è ferito? Almeno a ripreso conoscenza?-
Francis si accigliò –Una domanda alla volta!- esclamò stizzito – Sulla targhetta che porta al collo c’è scritto che si chiama Matthew Williams, credo che sia un soldato americano. Il medico dice che non è stato un proiettile a ferirlo. Ha un braccio rotto, come se fosse caduto, aspetto che si svegli per sapere cosa gli è successo!- raccontò.
Gilbert annuì, poi, non avendo niente di meglio da fare, ne approfittò per esercitarsi al piano. Era ancora in difficoltà per quanto riguardava la mano sinistra, di tanto in tanto rallentava il ritmo e ignorava le pause.
-Sei migliorato, mon cher!- si complimentò Francis.
-Mica tanto!-
Gilbert trasalì e sbagliò una nota. La voce penetrante di Elizabeta gli aveva fatto perdere la concentrazione.
- Perché sei sempre perfida con me?- chiese il tedesco mettendo il broncio, come un bambino a cui veniva negato un regalo che desidera molto.
- Voglio solo spronarti!- si giustificò la ragazza. In effetti era sempre critica nei suoi confronti per smorzare il già troppo avanzato ego di Gilbert –A proposito, come sta Matthew?-
- Come fai a sapere come si chiama?-
- In un momento del genere non mi permetto il lusso di andare a dormire!- rispose Eliza in tono critico, incrociando le braccia.
Il tedesco non rispose nulla, a parte cacciare la lingua mentre lei non lo vedeva e continuare a suonare.
Per dieci lunghissimi minuti si sentì solo la musica incerta e snervante di Gilbert e il respiro un po’ affannoso di Francis. Poi si sentì un mugolio e Matthew aprì gli occhi.
-Dove sono?- chiese debolmente.Non parlava inglese come si aspettavano, ma francese.
-Oh, si è svegliato!- esclamò Gilbert smettendo di suonare. Incuriosito si avvicinò ad Elizabeta.
-Sei in Francia…- esordì Francis -Io mi chiamo Francis Bonnefoy e lei…- indicò l’ungherese –Si chiama Elizabeta e ti ha trovato ieri sera in mezzo alla campagna! Ti ha portato qui e ti abbiamo medicato come meglio abbiamo potuto!-
Il ragazzo si voltò per guardarla –Grazie!- poi si rivolse al francese -Io mi chiamo Matthew!-
-E io!- concluse Gilbert sentendosi meso in disparte –Mi chiamo Gilbert!Sono il più fantastico tra tutti e tre!- Elizabeta gli tirò un leggero schiaffo sopra la testa.
Francis decise di ignorare quell’intervento fuori luogo –Ricordi come sei finito qui? Non abbiamo trovato nessun altro, oltre a te!-
Matthew annuì debolmente, poi cominciò a raccontare…




E non potevo certo mancare questo sabato! Spero di non aver deluso nessuno e che questo capitolo vi sia piaciuto come gli altri! Anche perché, ci siamo! La fic è quasi finita (non so se sia una bella o brutta notizia). Ho fatto una stima e dovrebbero esserci “solo” otto o sette capitoli prima della fine.
Prima dei ringraziamenti, volevo fare due domande: Prima di tutto, chi di voi sa come fare a mettere l’immagine nel profilo? Perché sono talmente negata al pc da non averlo ancora capito!
Secondo: mi piacerebbe sapere se c’è qualcuno che vive in Abruzzo o dintorni (vanno bene anche Marche, Molise, Lazio e Campania); non per farmi i fatti vostri, ma sarebbe bello scoprire che c’è qualcuno che abita vicino a me!
Detto questo, ringrazio chi segue, legge e recensisce questa storia, in particolare voglio dedicare il capitolo a Kaida _ _ _ per aver recensito la mia storia!!
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 15
*** Così diversi, così uguali... ***


Matthew cominciò dal principio. Gli era arrivata la lettera di arruolamento tre giorni dopo il suo diciannovesimo compleanno, come una sorta di regalo arrivato in ritardo. Non che a lui avesse fatto piacere: non amava i conflitti, di solito si teneva sempre lontano dalle risse e aveva vissuto tutto sommato una vita pacifica.
Ma quello era un suo dovere. Difendere il Canada da qualunque minaccia. Per cui qualche giorno dopo, tra gli abbracci e i baci umidi di sua madre e le strette di mano del patrigno, Matthew aveva preso la sua strada verso la guerra.
Sperava di incontrare il fratello Alfred, ma le possibilità erano scarse. Dopo qualche mese nel Pacifico fu mandato in Francia.
Francis, Gilbert ed Elizabeta ascoltavano il racconto del canadese con attenzione; di tanto in tanto Gilbert sbadigliava, ma a parte questo, si percepiva solo la voce calma del soldato.
- Sono arrivato qui con l’aereo militare. Durante il volo, un bombardiere tedesco ci ha attaccato, per cui ci siamo dovuti lanciare con il paracadute, alla meno peggio .- stava raccontando – Sono stato l’ultimo a lanciarmi. Non so se i miei amici ce l’ hanno fatta .- concluse.
-Mi dispiace!- intervenne Francis, accarezzandogli il braccio ferito. Matthew rabbrividì per il dolore e il francese chiese scusa.
-Quindi sei qui a causa di un attacco?- chiese Gilbert.
Matthew annuì accigliato. Sembrava che qualcosa non gli tornasse –Il tuo accento…- iniziò
-Oui, mon cher, è tedesco!- completò Francis sbrigativo. Gilbert li guardò sdegnato: come se essere tedesco fosse una brutta cosa!
-Oh...- sussurrò Matthew. Poi non disse più nulla, chiaramente in soggezione.
- Non sono nazista! O almeno, non lo sono più…-
-Non ti stavo giudicando .- dichiarò il canadese arrossendo
-Lo spero per te!-
Sentì che la mano di Elizabeta si appoggiava sulla sua spalla e un brivido gli percorse tutta la schiena –Nessuno qui ti vuole giudicare Gil…-
Il tedesco si limitò ad annuire.

Normandia, 14 luglio 1944
Arthur stava cominciando piano piano ad abituarsi alla presenza fisica e oppressiva di Alfred. Il segreto era far finta di ascoltarlo e ,di tanto in tanto supportare le sue strampalate idee da “eroe” come le chiamava lui…o almeno, fingere di supportarle.
Quel giorno pioveva. Pioveva forte e stranamente, da un po’ di tempo,non avevano dovuto usare il fucile, perché il nemico non si era ancora fatto vedere. All’inglese questo fece piacere, perché uccidere qualcuno gli pareva una cosa orribile ed era sempre molto riluttante nel farlo…anche se lo faceva ormai da quattro anni.
-Noi non uccidiamo per divertimento .- gli disse Alfred –Lo facciamo per la liberta, no? Noi rappresentiamo la pace .-
Arthur scosse la testa –Sei così stupido da non aver capito? Noi non rappresentiamo la pace. Siamo soltanto un opposizione, ma facciamo le stesse identiche cose che fanno i tedeschi .-
L’americano sembrò non capire.
-Ti spiego meglio. Immagina se io uccidessi un uomo al mese. So che è pochissimo, molto probabilmente ne ho fatto fuori molti di più, ma supponiamo che sia così. In un anno ho ucciso dodici uomini. In quattro anni di guerra sono quarantotto. Io ho ucciso più di quarantotto uomini, e allora mi chiedo:quando hai un arma e porti via un padre al proprio figlio, un marito alla propria moglie che magari non credevano neanche in questa inutile, dannatissima guerra, allora chi rappresenta la pace? Non uno come me…né uno come te .- finì di spiegare la sua teoria, che fece riflettere perfino uno come Alfred, e arrossì vistosamente.
In effetti, si diceva l’americano, Arthur non aveva poi tutti i torti. L’aveva capito troppo tardi che quello non era un palcoscenico dove lui poteva esibirsi e interpretare la parte dell’eroe che amava tanto. Era troppo tardi per tornare indietro, ma almeno l’aveva capito che quella non era una recita; era tutto orribilmente vero.
-Posso chiederti una cosa?- gli chiese.
-Hai imparato le buone maniere!- gli fece notare ironico. Alfred rise.
-Quando tornerai a casa ,cosa farai?-
Arthur sospirò e decise di dirglielo –Quando tornerò e soprattutto se tornerò a casa, prenderò il posto di mio padre nello studio legale e…sposerò Lily, molto probabilmente…-
-Lily?- chiese Alfred
L’inglese si morse un labbro. Ecco, quello stupido non avrebbe mai imparato a farsi i fatti suoi!
-Diciamo che è la mia fidanzata. Non lo è ufficialmente, ma i miei genitori ci terrebbero al nostro matrimonio. Vedi, Lily è la sorella di un ricco banchiere svizzero, io sono figlio di un ricco avvocato quindi…siamo perfetti!- rispose.
Alfred non poteva credere che Arthur avesse una mezza specie di fidanzata –E la ami?- domandò sfacciatamente.
-Non sono domande da fare!- rispose brusco incrociando le braccia. A dirla tutta, Arthur si vergognava ad ammettere che il suo era un matrimonio combinato, sancito più che altro dal volere di entrambe le famiglie (Kirkland e Zwigly, la famiglia di Lily) e non dal suo. In realtà, benché trovasse la ragazza simpatica e dolce, non provava nulla di particolare per lei.
- Raccontami un po’ di lei. - lo incoraggiò Alfred –Com’è? È bella?-
-Ha un viso nobile, gentile. È bionda, ha gli occhi verdi, è molto bassa…si, in effetti è molto carina…-
-Come in effetti? Ed è simpatica?-
-Si…ma non saprei dirti, passava più tempo con mia sorella che con me.-
Alfred rise –Sei così poco interessante che perfino la tua fidanzata preferisce la compagnia di altri!- lo prese in giro e Arthur assunse un espressione stizzita.
-In realtà, è buona educazione non avere particolari rapporti con la propria fidanzata prima del matrimonio!- spiegò irritato –Incontrarsi sta bene, ma mai soli.-
-Dici sul serio?- chiese incredulo l’altro – Da noi non è così!-
-Dai buzzurri non è così!- specificò storcendo il naso.
-Non trovi che sia difficile così, capire se una ragazza ti piace o meno?-
-E non credi che, sia immorale avere rapporti prima del matrimonio?- gli rispose a sua volta, iniziandosi a spazientire.
-No!- ammise senza vergogna Alfred –Non c’è niente di male. Scommetto che non sei mai stato ad un bord…-
-No!- esclamò Arthur sbrigativo, come se la parola che l’americano stava per pronunciare fosse proibita –Perché, vuoi forse dirmi che tu ci sei stato?- domandò scettico.
-Una volta .- gli confessò ammiccando –Ma non ho fatto gran che. La ragazza con cui mi sono intrattenuto era molto carina, ma abbiamo più che altro parlato. Mi sembrava strano farlo con una che neanche conoscevo!-
Arthur alzò gli occhi al cielo e sospirò –Sei davvero un tipo fuori dal comune, Alfred F. Jones!-
-Lo prendo per un complimento. Io invece quando tornerò a casa, vorrei intraprendere la carriera di regista-
La risata sguaiata di Arthur suonava alle sue orecchie come un offesa –Si, certo, come no . Voi americani, sempre con queste idee strane e balzane! Sai una cosa? Se diventerai regista, io verrò eletto Primo Ministro inglese!-
-Lo diventerò, stanne certo! E quando andrò a ritirare l’Oscar, tu non riderai più, Mister simpatia!-
Rimasero in silenzio. Alfred si accorse che era stata la più lunga conversazione che aveva mai avuto con quel burbero inglese. E doveva ammettere che alla fine gli era piaciuto intrattenersi con lui.




Scusate il ritardo colossale! Ma avevo un mucchio di cose da fare e poco tempo a disposizione! Comunque, ecco il nuovo capitolo di “Destini incrociati” che voglio dedicare ad Aoi, per la simpatia e per aver recensito quasi tutte le mie fic! Ringrazio chi segue e recensisce questa storia! Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto!
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 16
*** Ricordi ***


Campagna francese (vicino Brest), 15 luglio 1944
Se Francis pensava che nell’anno 1789, nello stesso mese e giorno il suo popolo si rivoltò contro i potenti nobili usurpatori,si trovava a riflettere che a distanza di anni la situazione non era poi cambiata molto. L’unica differenza era che stavano combattendo contro degli stranieri.
La posta arrivava raramente, una cosa normale per quel periodo, quindi quel giorno fu davvero una sorpresa quando, nella sua cassetta rovinata, trovò una lettera sgualcita. Forse qualcuno l’aveva aperta per analizzarne il contenuto.
Elizabeta e Gilbert erano usciti (lui aveva maliziosamente pensato ad alcune cose), ed era solo con Matthew che, dopo qualche giorno di gloria personale era stato bellamente ignorato sia dal tedesco che dall’ungherese, ma non da Francis.
- Matt, guarda .- esclamò rientrando, sventolandogli la lettera sotto il naso.
- Chi la manda?- chiese
Francis si raggomitolò vicino a lui –Non lo so, mon cher! Suppongo sia del mio amico spagnolo, Antonio…viene da New York!-
-Dai, leggila .- lo incoraggiò avvicinandosi per leggere insieme a lui. La loro amicizia era nata velocemente. Francis si sentiva solo e messo da parte da Gilbert ed Elizabeta, Matthew aveva un costante bisogno di cure. In realtà ora era il francese ad aver bisogno di attenzioni e il canadese era il compagno perfetto: discreto e gentile.
-Caro Francisco…si, è Antonio!- Francis sorrise con nostalgia.

Caro Francisco,
“Como estas? Io bene, nonostante i tempi. Ma ti confesso che qui da noi la guerra sembra non esistere. Certo, abbiamo anche noi le radio e ogni giorno se ne sente una nuova. Infatti ho preferito vendere la mia, così non so più nulla della guerra…è infantile, lo so, ma meno ci penso meglio è.
Perché io paradossalmente sono felice! Ora, tu dirai che sono pazzo, ma è così!
Mi hai sempre detto che l’amore per te è un sentimento potente che colpisce quando meno te l’aspetti…beh, hai ragione, perché a me è successo la stessa cosa!
Dovresti conoscerlo il mio “Romeo”! È italiano,viviamo nello stesso appartamento ed è stato molto gentile con me. Suo nonno ci ha offerto un lavoro e una casa,non è meraviglioso?
E poi, lui è, come dire…speciale! Non c’è altro aggettivo per descriverlo. Dovresti vederlo, Francisco, quando sorride in quella maniera così contenuta, quando lo bacio e si vergogna…perfino quando mi insulta lo trovo semplicemente adorabile!”
Francis sorrise con amarezza. Ovviamente era contento che l’amico avesse trovato l’amore, ma d’altra parte era anche un po’ geloso. Ora, era solo lui a non aver nessuno!
Continuò a leggere “So che a te non importa nulla, ma io sono così felice da volerlo urlare al mondo intero!
Purtroppo sai qual’è la situazione per quelli come me e te! Io e Lovino (così si chiama) non l’abbiamo detto a nessuno che ci amiamo, neanche a suo nonno, il signor Cesare Vargas…”
Francis interruppe la lettura, confuso. Non poteva esserci scritto Vargas, forse aveva sbagliato a leggere…lo rilesse ancora una volta con più attenzione,ma sembrava proprio che fosse scritto quel cognome.
-Matthew, cosa c’è scritto qui?- gli chiese, indicando la parola.
Il canadese si avvicinò –Mmm…sembra sia scritto “Vargas”! Cos’è, un nome spagnolo?-
Il cuore del francese prese a battere forte. Lovino Vargas, Feliciano Vargas…potevano essere parenti?
Subito pensò alla prevedibile reazione di Gilbert nel venire a sapere che l’amico di Ludwig, Antonio Fernandez Carriedo lo conosceva, o per lo meno conosceva il fratello. È buffo come nella vita persone sconosciute siano comunque legate a noi!
Finì di leggere la lettera in maniera sbrigativa. Non diceva niente di che, a parte che lo salutava e che gli mancava. Francis era emozionato, tanto da non accorgersi che stava stritolando la mano di Matthew.
Si alzò in piedi, si mise alla finestra e aspettò il ritorno di Gilbert.

Gilbert passeggiava silenzioso accanto ad Elizabeta. Lui era spossato per la lunga camminata , ma ovviamente non si sarebbe mai sognato di dirglielo; sapeva che l’avrebbe canzonato tutto il tempo!
E invece, fu proprio lei a sedersi sfinita all’ombra di un albero –Abbiamo camminato troppo .- si giustificò, facendogli spazio. Il tedesco si sedette e la guardò dritta nei suoi stupendi occhi verdi. Avrebbe voluto stringerla forte a se, sussurrargli che l’amava, ma non gli sembrava davvero il caso. La conosceva troppo bene e sapeva che non era il tipo che amava questo genere di smancerie.
Con sua sorpresa, l’ungherese appoggiò la testa sull’incavo della sua spalla e socchiuse gli occhi accennando un sorriso.
- Si sta bene, vero?- chiese lei con fare rilassato.
-Si .- rispose lui, dopo una pausa interminabile. Si sentiva profondamente a disagio, ma fece il possibile per non darlo a vedere.
-Tira un vento fresco .- continuò Eliza – Non sembra neanche ci sia la guerra, tanta è la pace .- commentò, alzandosi per rimettersi composta.
- Che bel paesaggio, vero?- gli chiese Gilbert – Davanti a te c’è un panorama stupendo,ma sopratutto godi di un’ ottima compagnia al tuo fianco .- gli strizzò l’occhio, aspettandosi una reazione manesca da parte della ragazza, che al contrario, non disse nulla e continuava a guardare il verde della campagna.
- Eliza…- si schiarì la voce, non sapendo come continuare. Lei si girò per guardarlo –Pensi ancora che sia un nazista indegno di vivere?-
La ragazza strabuzzò gli occhi: doveva mentire? Doveva dire che in realtà per lei rimaneva ancora un potenziale nemico? Più lo guardava dritto negli occhi, quegli occhi che la guardavano divertiti, più si convinceva che doveva reagire in quel modo. Ma come poteva…aveva già mentito troppe volte a se stessa quando un giorno, guardando Gilbert , pensò che fosse l’uomo più bello del mondo dopo Roderich. Aveva cercato di togliersi dalla testa il suo sorriso sornione, che subito si spegneva quando lo si insultava, perché lei non poteva in nessun modo amare quell’uomo. Ma non ci era riuscita, anzi, ogni giorno il suo amore per lui aumentava. Si sentiva in colpa a volte, temeva di tradire Roderich in quel modo. Forse suo marito non avrebbe accettato, ma lui…lui non c’era più! E lei era liberissima di rifarsi una vita.
-No . Non lo penso più .- disse con fermezza, alzandosi in piedi –Torniamo a casa .-

Quando Gilbert ed Eliza tornarono a casa, trovarono Francis su di giri.
-France, cosa diavolo è successo?- chiese Gilbert, quando l’amico, vedendolo arrivare, lo strinse forte a se.
- Antonio!- esclamò in risposta.
- Antonio?-
-Conosce Vargas .- specificò, vibrante ed emozionato.
Gilbert abbracciò Francis ancora più stretto –Dio benedica te e gli ebrei!- urlò –Sai chi è? Temevo di non trovarlo mai più e invece sai chi è Feliciano Vargas! Per fortuna quel giorno Antonio è fuggito, altrimenti…- non disse più nulla. Abbracciò di nuovo il francese, abbracciò Eliza.Era fuori di se.
E in quel momento così lieto, nessuno aveva considerato Matthew che, in religioso silenzio, osservava quella manifestazione di gioia, discreto e ,a suo modo ,contento per Gilbert.


Normandia, 15 luglio 1944
Legò stretto la garza sul braccio di Alfred che assunse un espressione di insofferenza.
- Così dovrebbe andare, credo…- affermò Arthur, finendo di medicarlo.
-Grazie, Artie! Non sapevo fossi dottore .-
-Non ci vuole certo un genio a capire come si disinfetta un graffio- commentò con il suo solito fare cinico. A dirla tutta, Arthur in quello scontro da poco che avevano avuto con alcuni soldati tedeschi, ne era uscito molto peggio: la gamba destra gli procurava molto dolore, ma non lo dava a vedere.
- Stavo pensando…- esordì Alfred.
-Da quando tu pensi?- gli rispose l’altro sarcastico.
-Sempre il solito simpaticone, tu!- ribattè offeso.
Arthur gli concesse un sorriso gentile e l’americano riflettè che se l’inglese avesse sorriso sempre,sicuramente avrebbe avuto più gente al suo seguito. Perché quando sorrideva i lineamenti spigolosi si addolcivano e lui diventava davvero un bel ragazzo.
-Tu sai tutto del mio passato!- ricominciò a dire –Mentre io non so nulla di te. Da dove vieni, cosa facevi prima di partire per la guerra…so solo che stavi per sposarti .-
Arthur sospirò; non ci teneva a far sapere i fatti suoi a quell’impiccione di Alfred. La sua vita era, per l’appunto, la sua e non voleva condividerla con nessun’altro.
-Sono di Londra. Prima di partire per la guerra studiavo legge .- rispose evasivo
-Come? Non hai nient’altro da dire?-
-Non a te, Yankee!-
Alfred sospirò sconfitto e, senza aggiungere nulla, si sdraiò per riposare un pò, prima di ricominciare a marciare. La loro compagnia aveva il compito scrupoloso di sfollare tutti i cittadini francesi che risiedevano nelle campagne,al fine di evitare una strage di civili e durante la giornata compivano lunghe marce, spesso piuttosto stancanti.
La mente di Arthur volò a tanti anni prima, il sette agosto del millenovecentotrentanove. Ricordava bene quel giorno, perché suo padre lo aveva preso da parte e gli aveva annunciato che lui avrebbe ereditato il suo posto di avvocato nello studio legale. Arthur ne era rimasto stupito e aveva chiesto come mai lui e non Ian, James o Andrew, che erano i suoi fratelli maggiori.
-Sei il tipo adatto a questo lavoro. I tuoi fratelli non hanno la tua stessa tempra .- gli aveva risposto, passandogli una mano tra i capelli, come faceva quando era ancora piccolo.
Arthur sapeva cosa voleva dire essere “il preferito di papà”: da una parte voleva dire privilegi, dall’altra essere odiato dai suoi fratelli, da Ian specialmente, che era il maggiore. Quando aveva scoperto che Arthur era l’erede dello studio legale,Ian era andato su tutte le furie. L’inglese se lo ricordava bene… l’odore forte e insopportabile di sigaretta…suo fratello e la sua risata cattiva, le sue mani pesanti e lui inerme che doveva subire le sue percosse. Ma quel che peggio, si era sentito profondamente umiliato.
James non se ne curò molto. Per natura era un tipo abbastanza diplomatico, ma interpose comunque tra lui e Arthur un muro di diffidenza che nessuno dei due provò mai ad abbattere.
Andrew fu quello che la prese meglio. Quel ragazzo era talmente pacifico e allegro che non diede mai la colpa ad Arthur per avergli “soffiato l’eredità”, ma d’altronde i due fratelli non si erano mai stati simpatici.
Il culmine per Arthur fu quando, esattamente venti giorni dopo, venne a trovarlo Lily.
La ragazza sembrava che venisse più per sua sorella che per Arthur stesso e Hanna era sempre più che contenta di partecipare ai loro incontri. In effetti era lei l’anima in quei momenti, perché i due fidanzati si parlavano tra di loro raramente e quando lo facevano erano sempre troppo imbarazzati per fare lunghe conversazioni.
-Lily cara, lo sai che avevamo tutti paura che mio fratello non potesse riceverti oggi?- chiese quel giorno –Sai, ieri ha bevuto molto, temevamo non riuscisse a smaltire la sbornia!-
I due promessi arrossirono: La prima di vergogna perché aveva scoperto un lato del suo fidanzato che non riteneva di voler sapere, l’altro invece di rabbia: sapeva che Hanna non approvava l’unione tra lui e Lily e faceva ogni cosa in suo potere per mandare a monte le nozze.
Cercò di contenere la sua rabbia e assunse un sorriso di circostanza –Perdoni la sfacciataggine di mia sorella, signorina. Le piace scherzare, ma a volte non si rende conto che è molto maleducata!- i due fratelli si fulminarono a vicenda con lo sguardo.
-Trovo che sua sorella sia deliziosa,signor Kirkland .- ribattè Lily dolcemente.
-Ne sono lieto. Gradisce del te?-
La ragazza annuì.
-Hanna, vuoi aiutarmi?- chiese il ragazzo con un tono che non accettava repliche. La sorella sbuffò, si alzò dal divano del salotto e seguì il fratello in cucina.
-Cosa ti è saltato in mente?- la rimproverò una volta che fu al sicuro dagli sguardi di Lily.
-Ho detto semplicemente la verità .- rispose Hanna facendo spallucce. Che insolente! Meritava proprio una punizione.
- Io so cosa vuoi fare tu. Vuoi mandare all’aria il mio fidanzamento .-
-Si vede lontano un miglio che non la ami, Arthur!- ribattè alzando la voce.
Per l’inglese, Hanna rappresentava la coscienza, una specie di verità nascosta che nessuno osava rivelare. Era vero che per Lily non provava niente, ma lui doveva sposarla: lo voleva suo padre, lo voleva sua madre, lo volevano tutti meno che lui.
-Chi ti ha detto che non la amo?-
-Tu la vuoi sposare solo perché vuoi farti notare da nostro padre!- esclamò, livida di rabbia –Hai paura di deluderlo, hai paura che lui possa lasciare in eredità lo studio a Ian ,a James o ad Andrew!-
Il fratello arrossì di vergogna –E anche se fosse? È il mio matrimonio e non permetterò ad una ragazzina come te di rovinare tutto .-
-Ti odio, Arthur!- dichiarò. Molto probabilmente l’inglese si sarebbe messo a ridere, se lei non avesse avuto quell’espressione seria –Tutti ti odiano qui a parte mamma ,papà e Peter .-
Lui rimase a fissare il vuoto con gli occhi sbarrati, mentre sua sorella, molto più simile a Ian che a lui, correva via verso la sala. Ascoltare determinate cose lo avevano offeso, avvilito, ma soprattutto fatto sentire in colpa. Sapeva già che nessuno dei suoi fratelli riscontrava forte simpatia per lui, ma sentirselo dire era tutt’altra cosa. Soprattutto se a dirlo era stata la sua sorellina, proprio quella che da piccola lo cercava sempre e lo chiamava “fratellino”.
Passarono i giorni. La guerra era scoppiata ed arrivarono quattro lettere di arruolamento in casa Kirkland: uno per lui e una per i suoi fratelli.
La sera prima che partissero per il fronte, successe una cosa alquanto insolita.
Arthur aveva sempre avuto il sonno leggero. Bastava un leggero rumore, che lui si svegliava. Quindi percepì subito il cigolio della porta che si apriva e si svegliò con un sussulto, ritrovandosi davanti sua sorella in lacrime.
- Hanna!- la chiamò sbalordito. Sua sorella, per tutta risposta, si avvicinò al suo letto e lo abbracciò.
-Ti prego .- esordì piangendo –Ti prego non andartene!-
Arthur, imbarazzato e piacevolmente sorpreso per quell’insolita manifestazione d’affetto, si lasciò stringere forte. Poi sciolse l’abbraccio e accarezzò i capelli rossi della sorella, che tutti i Kirkland, tranne lui e Peter, avevano.
-Sai che non posso, Hanna! Il mio compito è servire il nostro Paese .- gli rispose bonariamente, come se accanto a lui ci fosse una bambina di sette anni, e non di sedici.
-Allora…cerca di tornare .- continuò –Vivo.- aggiunse poi, asciugandosi le lacrime.
-Ma tu non mi sopporti.Perchè sei venuta a salutarmi?- notò, sempre più a disagio.
-Sei sempre mio fratello, Arthur. Anche se a volte vorrei negarlo, c’è sempre un filo invisibile che ci lega. Noi ci vorremmo sempre bene, in fondo…- sorrise gentilmente – Scusami se ti ho messo in cattiva luce con Lily .-
Anche lui sorrise –Non preoccuparti .-
Rimasero a guardarsi a lungo, fino a che lei, stanca, non tornò nella sua stanza.
In seguito scoprì che aveva salutato in quel modo solo lui ed Andrew. E ogni volta che si trovava in difficoltà pensava sempre a quel momento così bello e così triste al tempo stesso.

-A cosa pensi?- gli chiese Alfred, interrompendo i suoi ricordi.
Arthur lo guardò –A niente.- rispose sorridendo.




Hola.Questo capitolo mi è venuto lungo 0.0 va bè, spero vi sia piaciuto, nonostante la lunghezza. Ci tenevo a presentare per bene il mio OC, Hanna Kirkland, perché ci ho impiegato un secolo prima di caratterizzarla per bene. Spero vi sia piaciuto come personaggio. Ringrazio chi ha commentato e chi commenterà, in particolare dedico il capitolo a Kyuketsuki Assassin, per aver messo questa storia nelle preferite e per aver commentato.
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 17
*** Amori vecchi e amori nuovi ***


Campagna francese (vicino Brest), 16 luglio 1944
Mon cher Antoine,
Comment ça va ?
Io me la cavo, per fortuna. Ricevere una tua lettera è stata una vera sorpresa, ormai non ne arrivano molte, qui. Perfino Sesel ha cessato di scrivermi, forse mi ha dato per spacciato…Charlotte ha smesso da un pezzo, quella perfettina si è dileguata dopo il matrimonio con “Monsieur sono ricco e sono bello”.
Mi manchi, Antoine! Mi manca il tuo sorriso, mi manca la tua allegria…in questo periodo ne avrei proprio bisogno, credimi!
Anche perché sono in astinenza da ben due mesi! È un vero record per me. Tu invece sei apposto da questo punto di vista, immagino. O tu e il tuo “Romeo” collezionate francobolli il pomeriggio?
A parte gli scherzi, sono contento che abbia trovato qualcuno da amare. Peccato non sia io! Perché…beh, io non me la sto passando certo bene: ho avuto problemi di salute di recente e mi sono innamorato. Hai presente il simpatico tenente che ti dava la caccia? Si, è proprio lui!
Tu dirai che mi innamoro di cani e porci, ma ti assicuro che adesso è una brava persona, è diventato un mio caro amico anche se non supererà mai te, mon amour!
Anzi, credo che devo smetterla di chiamarti così, o il tuo “Romeo” non la prenderà bene…
Si, perché…hai presente la cara Elizabeta? Ha deciso di mettere in pratica la sua vendetta, ma non è riuscita ad andare oltre, così adesso mi ritrovo in casa un ebrea violenta, un nazista pentito e anche un soldato americano. Si, hai letto bene…questa casa sta diventando un albergo per emarginati!
Purtroppo il mio amore non è corrisposto. Credo che a Gilbert piaccia Elizabeta, ma lui non lo ammetterà mai.
Beh, è la vita. Forse un giorno anche io troverò il mio principe azzurro.
Comunque, non ti scrivo solo per congratularmi con te, o per dirti che mi manchi ogni giorno sempre di più. Ho bisogno di sapere se il tuo fidanzato (posso chiamarlo così, o preferisci “il tuo Romeo”?) ha un parente di nome Feliciano. È una questione di vitale importanza, ti spiegherò.
Nella speranza di una risposta.
Un bacio
Francis.

Finì di comporre la lettera. Non era mai stato bravo a scrivere, ma nel complesso era riuscito a far capire cosa voleva da Antonio senza troppi giri di parole.Non voleva ulteriormente preoccupare l’amico con la faccenda della tubercolosi, ne fargli pesare troppo il fatto che gli mancava.
- Ho scritto la lettera .- annunciò, sventolando la busta davanti a Gilbert.
-Cosa hai scritto?- chiese l’altro, mostrando l’intenzione di leggerla. Francis gliela tolse di mano con un sorriso malizioso sulle labbra.
- Gli ho chiesto se conosce Feliciano. Il resto è una faccenda personale .- rispose frettolosamente, poi aggiunse –Domani vado in città e la spedisco .-
Il tedesco annuì con fare pensieroso. In realtà in quel momento era tutto preso a guardare la figura di Elizabeta che leggeva in tutta tranquillità, senza minimamente immaginarsi che il ragazzo la stava guardando con tanta insistenza. Altrimenti, molto probabilmente, avrebbe terminato in tronco la lettura e lo avrebbe apostrofato con irritazione.
Francis capì a malincuore che Gilbert desiderava con tutto se stesso avere un po’ di intimità con la ragazza. Gli fece un occhiolino, poi annunciò che sarebbe salito sopra.
-A fare che?- chiese Gilbert.
-Vado a vedere come sta Matthew…-
Il tedesco rimase perplesso –Mi ero quasi dimenticato di lui…- ammise –Non è che...tu e lui…?-
Venne interrotto dalla risatina divertita del francese –Non ho mai pensato a Matthew in quel modo, ma grazie del suggerimento .-
Gilbert non sapeva se ridere o restare in silenzio. Preferì scegliere la seconda possibilità e seguì con lo sguardo l’amico mentre saliva al piano di sopra.
Ora però si sentiva disorientato e confuso. Restare con l’ungherese gli faceva sempre quell’effetto e ciò era irritante: in vita sua non si era mai e poi mai sentito in quel modo.
- Eliza?- la chiamò piano, come se avesse voluto parlargli ma si vergognava profondamente di farlo.
-Mmm?- rispose lei, non distogliendo lo sguardo dalle pagine del libro.
-Non pensi che io sia fantastico?- ecco, ancora una volta i suoi bei propositi di dichiararsi erano andati in fumo…mentalmente si diede dello stupido. Certo, uno stupido fantastico, ma pur sempre uno stupido.
Lei questa volta mise un segno fin dove era arrivata e lo guardò accigliata –Non pensi altro che a te?- chiese con una punta di irritazione nella sua voce.
-No…- rispose arrossendo –In realtà, in questi giorni sto pensando molto a te!-
Ma diavolo, che faceva? Era matto? Perché aveva gettato così la cosa, senza fare un minimo di premessa romantica, che di solito piaceva molto alle donne?
Elizabeta cambiò espressione: sbarrò gli occhi incredula, arrossì leggermente e dentro di se non sapeva se gioire o essere irritata per quella frase. Era o non era lui un nazista? Si stava prendendo gioco dei suoi sentimenti?
Si, doveva essere così. Lei non lo amava, non poteva amarlo e lo stesso valeva per lui. Il perché era chiaro: lui, in quanto nazista, odiava gli ebrei come lei e lei…lei doveva ammettere che per Gilbert provava un sentimento di sincero amore, ma come al solito, aveva il presentimento di tradire Roderich…
-Mi stai prendendo in giro?- esclamò in tono seccato.
-Affatto…Elizabeta, penso che tu sia la donna adatta a me: battagliera, sagace, senza peli sulla lingua…una ragazza fantastica per un uomo fantastico .-
L’ungherese non si aspettava certo un “ti amo” da parte sua, questo lo sapeva. Ma non riusciva a rilassarsi e dichiarare che per lei valeva lo stesso –Io sono ebrea .- rispose come se quel dettaglio importasse qualcosa.
-Non ha importanza, sul serio. Quelle cose io…io non le penso più- Gilbert cominciò ad agitarsi.
-Gilbert, siamo troppo diversi, io e te .- cercò di spiegargli con gentilezza.
Il tedesco annuì e dentro di se, sentì ricrescere il suo odio antico nei confronti degli ebrei.
-Pensi ancora a tuo marito, vero?- chiese, cercando di nascondere la sua rabbia per quel rifiuto velato.
-Lui è morto per salvarmi, non posso ringraziarlo così .-
-è morto!- esclamò esasperato –Non gli interessa più con chi stai. Lui non c’è più .- non era riuscito a contenere la sua irritazione, aveva alzato la voce ed era stato sgarbato. D’altronde, a nessuno piace essere preferito ad un morto, ne tanto meno ad uno come Gilbert.
Elizabeta lo guardò ferita. Aveva ragione lui, lo sapeva. Ma rimase comunque a fissarlo senza ribattere nulla e il germanico, che non riusciva a restare lì un minuto di più, uscì fuori sbattendo la porta.


L’ungherese non si era mai sentita così sciocca e debole in vita sua. Sentì i passi di qualcuno che scendeva e intuì si trattasse di Francis.
- Ciao .- lo salutò laconica.
- Dov’è Gilbert?- gli chiese allarmato –Pensavo che voi due…-
- Gli ho detto che non lo amo .- tagliò corto, con gli occhi traboccanti di lacrime –Ora è uscito .-
Il francese annuì con la testa – Si sarà andato a sfogare…o almeno lo spero…- cercò di tranquillizzarla.
Francis si sedette sul divano e sospirò – Tu lo ami, giusto?-
L’ebrea abbassò la testa. Non avrebbe voluto rispondere.
- Eliza,Eliza…non c’è abbastanza odio in questo mondo?- domandò retorico.
-E Roderich? Non ci pensi a lui?- gli rispose cominciando ad irritarsi. Possibile che non capivano ciò che sentiva? Suo marito era scomparso perché l’amava e l’aveva salvata! Lei non poteva buttarsi tra le braccia di un altro e mandare a quel paese la sua memoria.
- Roderich è morto. – sussurrò bonariamente Francis, accarezzandogli i lunghi capelli –E tu non devi aver paura di ciò che penseranno gli altri. Io sono certo che tuo marito sarebbe contento della tua scelta. Avessi io la tua fortuna…-
Elizabeta alzò la testa per guardarlo, con gli occhi lucidi e il volto arrossato.
- Comunque andrà…- continuò lui –Spero che scelga la cosa migliore per te! E ora, se non ti dispiace…Matthew mi ha chiesto se voglio insegnarli a preparare la quique e non voglio deluderlo!- gli strizzò l’occhio e se ne andò.
L’ungherese sorrise. Francis aveva ragione. Lei doveva scegliere la strada migliore per lei…


Gilbert tornò tardi quella sera; era stato in città per cambiare aria ed era stato tentato dal restarci. Ma poi capì che uno come lui non si arrendeva così facilmente. Era fantastico, no? Non sarebbe stata di certo una stupida ungherese a metterlo in difficoltà.
Appoggiò il giubbino all’attaccapanni, si guardò allo specchio dell’ingresso: era bello, bellissimo! Non capiva come fosse possibile che quella donna non lo amasse.
- Gilbert?- qualcuno lo chiamò da dietro. Sapeva che era lei.
- Si .- rispose.
Sentì Elizabeta che da dietro gli cingeva dolcemente le spalle.
-Hai cambiato idea?- chiese freddamente, ma anche molto colpito da quel gesto.
- Ho capito che bisogna temere di più i pettegolezzi dei vivi e non quelli dei morti .- gli spiegò. Chiuse gli occhi, rimase per un attimo a sentire il respiro del tedesco. Poi prese coraggio e glielo disse –Ti amo .-
Gilbert si girò verso di lei, gli accarezzò il viso. Le prese dolcemente il mento e si avvicinò fin che non riuscì a percepire la morbidezza delle sue labbra e a vedere il verde brillante dei suoi occhi.





Presa dai mille aggiornamenti (devo portare avanti 3 ff, chiedo venia) mi è passato completamente di mente l’aggiornamento, perdonatemi!
Premetto che non ho mai descritto un bacio in vita mia (non scherzo, mai scritto) per cui, so che questa scena è parecchio orribile!
Naturalmente ringrazio chi legge, segue e recensisce questa storia. Inoltre voglio dedicare il capitolo a happylight, per aver commentato la ff e messa tra le seguite!
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 18
*** Angeli custodi e amici ***


Normandia, 29 luglio 1944
Sparo

"Sono un Cavaliere "

Sparo. Alfred accanto a lui, ringhiò perché aveva mancato il bersaglio.

"Davanti a me non ci sono uomini. Ci sono degli orchi."

Sparo. Alfred esultò, probabilmente questa volta il proiettile era andato a segno.

"Se vinco questa guerra tornerò al mio castello."

Sparo. Arthur sentì l’urlo di un uomo in agonia. Aveva ucciso qualcuno.
Mai in vita sua avrebbe pensato che un giorno lui sarebbe diventato un assassino.
L’unica sua compagnia lì, era Alfred, perché era l’unico che riusciva a sopportare le sue battute sottili. Molto probabilmente era perché non le capiva.
Si stava affezionando a quel ragazzo, sempre pronto a farsi una risata anche nei momenti più drammatici, a ripetere che lui avrebbe cambiato le sorti della guerra…non l’avrebbe mai ammesso, ma in certi momenti la sua compagnia gli tirava su il morale.


-Ucciderei per un hamburger .- gli confessò
-Accomodati!- gli aveva risposto, indicandogli il campo di battaglia, che portava i segni del recente scontro. Alfred sorrise.
-Sei sempre così scorbutico, tu?- gli chiese con una spensieratezza molesta.
-Per la maggior parte del tempo .-
- Sai che quando sorridi mi piaci di più? Ringiovanisci di dieci anni, e ti aiuta, visto che sembri un trentenne .-
Arthur rimase interdetto e per una volta non sapeva come rispondere per le rime. Era lusingato per il complimento, ma allo stesso tempo offeso per la faccenda dell’età.
-Tu invece cerca di sorridere di meno, così dimostri dieci anni di più. E ti aiuta, visto che sembri un bambino di nove anni .- riuscì a rispondere alla fine.
L’americano però non si sentì provocato da lui, anzi! Cominciò a ridere di gusto.
- Un semplice “grazie per il complimento”è chiedere troppo?-
- Grazie…- borbottò alla fine.
Rimasero entrambi in silenzio. Guardarono il paesaggio di morte davanti a loro. Un desolante spiazzo in cui, poche ore prima, avevano combattuto contro i tedeschi. Ora, in quella pausa prima di riprendere la marcia, i soldati anglo-americani si stavano rilassando: alcuni ridevano e scherzavano, altri piangevano per un loro commilitone morto.
Loro due non facevano nulla di tutto ciò; in silenzio osservavano tutto quell’insieme senza sentirsene parte integrante.
-Avevi ragione .- sussurrò Alfred, ricreando così tra loro ancora più intimità.
-Su cosa?-
-Non potrò mai rappresentare la pace…ma magari salverò la vita a qualche innocente .- gli dedicò un rapido e largo sorriso.
Arthur, per la prima volta da quando si conoscevano, ricambiò –Sicuramente. - Rispose conciso.
L’americano fece per accendersi una sigaretta.
-Vuoi?- chiese, porgendogli il pacchetto.
-No .- l’inglese assunse una faccia disgustata e quasi…timorosa. Si, Alfred ne era certo.
-Cosa c’è? Ti da fastidio l’odore?- cercò di informarsi. L’inglese fece un rapido cenno di assenso.
-Il fumo, mi rammenta mio fratello maggiore…- gli spiegò –Mi ricorda di lui, sopra di me…che decide quale mano rompermi prima…- arrossì vistosamente e Alfred, lo guardò sconcertato. Rimise le sigarette in tasca e decise che per quella sera ne avrebbe fatto a meno.
-Adesso non metterti a ridere .- lo aggredì Arthur.
-Ridere? Per questa cosa?- rispose –Non potrei mai, io…ero solo… sorpreso!-
L’inglese lo guardò torvo –Ora capisci perché sono così scontroso?-
-No…cioè, sì, ma non era per quello che sono meravigliato .- ammise.
-E allora per cosa, di grazia!- esclamò, al limite della sua pazienza.
-è la prima volta che mi racconti qualcosa di te, senza che ti stimolassi io .-
Arthur non si aspettava quella risposta. Diventò rosso per quella osservazione di cui lui non si era accorto –Non farti strane idee .- disse –Di te non mi importa nulla! Ma promettimi che non dirai a nessuno di questa mia rivelazione .-
-Hai la mia parola di americano!- promise Alfred, poggiandosi una mano sul cuore.
-Allora c’è da preoccuparsi…- commentò con palese sarcasmo.
-Gli americani sono il popolo più fedele e di parola che io conosca .- ribattè l’altro, sinceramente offeso.
Arthur preferì non discutere: non aveva voglia di litigare, ne tanto meno con quel rumoroso di Alfred.
Si sdraiò sull’erba fresca e guardò il sole tramontare per lasciar spazio alla sera.
-Tu credi negli Angeli custodi?- domandò Alfred.
Arthur non capiva il motivo di quella domanda. Si rimise seduto, lo guardò dritto nel viso.
-Quando sei l’unico superstite della tua compagnia, quando ogni mattina ti svegli e ti accorgi che sei ancora vivo…beh, a certe cose cominci a crederci .-
L’americano continuò a fissarlo impensierito, prima di rispondere –Mia mamma, quando sono partito, è venuta a salutarmi. Pensa, si è comportata da vera madre quel giorno. Mi ha abbracciato, mi ha baciato, mi ha detto che mi voleva bene…e poi…mi ha rivelato una cosa che mi commuove tutt’ora .-
-Cosa?- Arthur per una volta lo ascoltava rapito. Sembrava che ad Alfred fosse successa la stessa cosa capitata a lui; si era riconciliato, il giorno della sua partenza, con un familiare con cui non andava d’accordo.
-Ha detto che lei, certe notti, si affaccia dal balcone di casa sua e pensa a me .- rispose –Si chiede se sto bene…se le manco e poi si pente di avermi abbandonato .- si asciugò le lacrime, passandosi una mano sugli occhi – Io ci credo agli Angeli custodi. Secondo me rappresentano il Bene delle persone che ci amano .-
L’inglese non sapeva cosa dire. Si limitò ad annuire. Stava pensando ad Hanna…anche lei, in un certo senso, era il suo Angelo custode?


30 luglio, 1944
Alfred, stanco per la lunga marcia, si sedette per terra con l’intento di riprendere fiato. Alcuni soldati seguirono il suo esempio e cominciarono presto a parlare del più e del meno: quando sarebbe finita quella maledetta guerra, le loro aspettative per il futuro…
Arthur li guardava in disparte, quando ad un certo punto, sentì qualcuno cantare una canzone in francese.Era melodica, poetica, ma anche molto triste e a bassa voce, cominciò a tradurre ogni strofa in inglese.
Il soldato se ne accorse e gli sorrise –La conosci?-
L’inglese scosse la testa –No. So solo parlare il francese .-
Il fatto che “il Lord” stesse parlando con qualcun altro che non fosse Alfred, attirò gli sguardi di molti.
-è bella, vero?- continuò l’uomo. Era molto più grande di Arthur, sia di età che di grado.
-Non mi piacciono le canzoni francesi .- rispose –In realtà, non mi piace nulla della Francia .-
-Ti assicuro che è un posto veramente affascinante. Parigi è una delle città più belle d’Europa, seconda forse solo a quelle italiane .-
-Non ne dubito.Forse è questa guerra che la fa sembrare orribile .-
L’altro rise (ma perché gli americani ridono per tutto? Si chiese) e si allontanò.
-Che ti ha detto?- domandò Alfred, raggiungendo l’inglese.
-Nulla. Ha cantato una canzone in francese e l’ ho semplicemente tradotta in inglese .-
-Oh! – esclamò Alfred impressionato –Parli francese?-
-Abbastanza. Avevo un maestro madrelingua, per cui so esprimermi in modo discreto .- gli rispose, facendo il finto modesto.
- Ma come mai non ti piace la Francia?-
L’inglese assunse un espressione accigliata –Hai origliato .- lo accusò
-Scusami…-
Arthur decise di rispondere alla sua domanda –Credo che sia colpa del mio maestro. Alle volte mi contemplava con uno sguardo strano…come se fossi stato un dipinto raro o, non so, del vino francese molto buono. Forse non dovrei condannare un popolo intero per una singola persona, ma io non ho mai avuto simpatia per la Francia. Sai, gli inglesi e i francesi si sono combattuti per anni, forse è per quello che non li sopporto. Oppure è perché sto combattendo qui, invece che difendere mia madre e mia sorella là .-
-Sei un tipo strano, Arthur Kirkland .- commentò l’americano –Ma, credo che tu sia la persona più sottile e schietta che io abbia mai conosciuto…e a mio parere questa è una buona qualità!-
Gli angoli della bocca dell’inglese, si curvarono all’insù per formare un sorriso gentile di ringraziamento –Nessuno aveva interpretato i miei principali difetti in questo modo .-
L’inglese faceva fatica ad accettarlo. Faceva fatica ad accettare di aver finalmente trovato un amico.


New York, 10 agosto 1944
Lovino osservava Antonio troppo occupato a leggere una lettera per alzarsi ed abbracciarlo come faceva di solito.
-Cosa leggi, bastardo?- chiese.
Lo spagnolo sapeva che il suo fidanzato non avrebbe mai smesso di chiamarlo così e aveva preso la cosa con ottimismo: era una specie di nomignolo affettuoso che riservava solo a lui, in un certo senso.
-è di Francisco, mi amor .- Lovino sbuffò: odiava essere chiamato in quel modo.
-E cosa vuole?- continuò in tono scocciato. Gli strappò la lettera di mano e fece per leggere, ma subito staccò gli occhi dal fogli.
-Che razza di lingua è, maledizione?-
-è francese, mi querido. – Antonio si alzò e si avvicinò a lui –Mi chiede se conosco tuo fratello…strano,mi domando il motivo di tale richiesta .-
L’italiano cominciò ad allarmarsi –è successo qualcosa a Feliciano?-
Antonio rise –Ma no, non preoccuparti!- gli cinse le spalle –Lo sai che sei molto carino quando ti preoccupi di qualcuno?- gli sussurrò all’orecchio
Lovino lo spintonò via, stizzito e imbarazzato –Non mi preoccupo per nessuno .-
Voleva negare l’evidenza, povero Lovino. Dentro di se, la risposta di Antonio, gli aveva fatto tirare un sospiro di sollievo.





Salve a tutti gente. Allora, spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento! Voglio dedicare il capitolo a tutti quelli che hanno messo la storia tra i preferiti o tra le ricordate, mi piacerebbe leggere i pareri di tutti voi!
Inoltre, siccome siamo in tempo di vacanza, vi avviso che forse pubblicherò con più frequenza, spero che questo non sia un problema!
Detto questo, ringrazio tutti voi che leggete e recensite!
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 19
*** Il limpido stupore dell'immensità ***


D’improvviso
è alto
sulle macerie
il limpido
stupore
dell’immensità


G. Ungaretti


Normandia, 19 agosto 1944

-Io non voglio andarmene. La mia casa è qui .-
Francesi sentimentalisti. Li odiava.
-Signora, porteremo lei e la sua famiglia al sicuro…- cercò di convincerla Arthur. Accanto a lui, i due soldati che lo accompagnavano lo ascoltavano senza capire nulla di ciò che stava dicendo: lì lui era uno dei pochi che sapeva padroneggiare la lingua francese.
-Prometta che non arruolerete mio marito .- disse la donna, con aria minacciosa –Lui ha già dato abbastanza .-
L’occhiata di Arthur sfuggì dentro casa, verso un uomo che aveva una gamba sola.
-Le do la mia parola. – rispose solenne. A quel punto la donna mostrò un sorriso radioso e gli chiese di dargli il tempo di preparare le valige. Presero lo stretto necessario, poi seguirono i tre soldati fino all’accampamento. Da lì sarebbero partiti verso un posto più sicuro.


Alfred guardò i civili attraversare l’accampamento. Portavano vestiti casalinghi, erano magri, i famigliari si abbracciavano tra di loro, quasi come a dimostrare che nulla al mondo li avrebbe separati. La cosa che lo affascinava di più era come tutti, nessuno escluso, conservassero la propria dignità: nemmeno uno, perfino i bambini,che si lamentava e aspettavano tutti in silenzio, in attesa di essere trasferiti da un’altra parte.
Arthur lo affiancò –Non li invidio. È meglio partecipare che subire passivamente le azioni degli altri. – dichiarò l’americano incrociando le braccia.
-Forse, chissà .- fu la sua unica risposta.


Era pomeriggio inoltrato e gli uomini si erano fermati per riposare vicino ad un casolare che sembrava abbandonato ormai da anni.
Era stata una giornata particolarmente calda e il viso di Alfred era imperlato di sudore. Si asciugò e sperò che la notte fosse più fredda del giorno.
Si accorse dell’arrivo di un manipolo di soldati americani,che sembravano venire da molto lontano, solo quando loro chiesero di Arthur Kirkland. L’inglese era di poco lontano da loro e quando li sentì dire così al sergente, l’uomo che aveva cantato la canzone francese, si alzò in piedi, si avvicinò a loro e li chiamò.
-Sono io Arthur Kirkland .-
I militari, dovevano essere una decina, si guardarono tra di loro con aria afflitta e Alfred per un attimo temette che l’amico avesse fatto un’azione che non doveva. Non potè non fare a meno di avvicinarsi.
-Signor Kirkland…- esordì il portavoce della squadra con tono grave –Dobbiamo parlarle. Da soli. -
L’inglese annuì senza fare una piega, ma l’americano percepì nel suo volto una piega di curiosità.


-Ebbene?- fece Arthur sbrigativo,un volta raggiunto un luogo isolato.
-è difficile per noi darle una notizia così, signor Kirkland…-
L’inglese intuì che era successo qualcosa di davvero grave per mandare attraverso la Francia un plotone solo per lui –Mi dica!- lo incalzò preoccupato.
-I suoi fratelli…- tacque.Sapeva che Arthur aveva capito.
-Quali?- chiese con voce incrinata.
- James e Andrew Kirkland .- rispose il soldato, che ad ogni parola diventava sempre più cupo –Hanno combattuto con coraggio nel Pacifico, l’Inghilterra li ricorderà come degli eroi .-
L’inglese non riuscì più a trattenersi e alcune lacrime cominciarono a rigargli il volto –Cosa mi importa se l’Inghilterra li riconosce o meno come eroi! È meglio non essere eroi che essere morti. -
-Signore, so che lei è sconvolto. Sappiamo che suo fratello Ian è partito dalla Russia ieri…può farlo anche lei, se vuole! -
Di tutti i suoi fratelli, si era salvato solo quello che odiava di più, ma in quel momento l’inglese fu felice di sapere che almeno lui era vivo. Scosse la testa.
-Il mio posto è qui. – Doveva dimostrare a Ian che lui era più coraggioso e che se ne sarebbe andato da lì solo a guerra conclusa.
- Signore, se vuole accettare il mio modesto parere…- lui lo interruppe
-Se lo può tenere per se, il suo parere!- ribattè seccato. Non voleva farsi vedere mentre piangeva, mentre metteva in luce le sue debolezze. Si congedò e ritornò dal sergente. Quello capì subito su cosa era andato a vertere il discorso e cinse il ragazzo con affetto e franca commozione –Mi dispiace. -
Arthur si lasciò abbracciare senza opporre alcuna resistenza, sebbene quello fosse un suo superiore.
- Vuoi restare solo?- chiese con gentilezza.
-La ringrazio, sergente. – mormorò con voce atona, cercando il più possibile di trattenere le lacrime e si avviò lentamente e con la morte nel cuore verso il casolare abbandonato.
Alfred osservò la scena non capendo cosa fosse successo. Raggiunse il sergente e gli chiese per quale ragione Arthur si era allontanato.
-I suoi fratelli sono morti. -
L’americano guardò il sergente intristito –Io…io sono così dispiaciuto…povero Arthur, non se lo merita nessuno una disgrazia simile! -
- Secondo me, è meglio se vai a vedere come sta. – gli consigliò il sergente –Non vorrei che commetta qualche sproposito e tu sei l’unico che abbia un minimo di rapporto con lui. -
Alfred annuì. Sembrava che il sergente gli avesse letto nella mente, perchè in effetti gli premeva molto andare a consolare il suo amico.


Lo trovò chiuso in una stanza che dava sul retro, vicino ad una finestra ,da cui si riusciva a scorgere la luna. Quella sera sembrava ancora più pallida.
-Arthur…- sussurrò. Lui si girò e Alfred vide che stava piangendo.
-Non sai quanto mi spiace…so cosa si prova…-
- No. – ribattè l’altro con voce rotta dal pianto –Tu non sai un bel niente! -
L’americano fece un gran respiro, prima di cominciare a raccontare–Mio fratello Matthew è disperso chissà dove. Forse c’è la possibilità che sia ancora vivo, forse è morto…non lo saprò mai. Ringrazia che puoi piangere i tuoi fratelli, perché io con il mio non potrò farlo. – la sua voce risultò, per la prima volta, incredibilmente matura.
L’inglese si girò per guardarlo risentito. Alfred sospirò e guardò con attenzione il viso dell’amico, illuminato solamente dalla luce lunare, dando al suo volto una sfumatura ancora più spenta e spiritica. Arthur piangeva in silenzio, solo di tanto in tanto si lasciava scappare un singhiozzo di dolore.
Alfred invece non piangeva mai. Gli eroi non piangono, si ripeteva sempre, seppur delle volte la sua forza di volontà aveva la peggio sulle emozioni e lasciava cadere una lacrima. Ma subito si asciugava gli occhi e assumeva un sorriso di circostanza.
- Ho sempre trascorso il mio tempo libero ad immaginare gnomi ed unicorni. – la sua voce, debole, soffusa e insolitamente dolce fece inspiegabilmente arrossire l’americano –Lo faccio perché è l’unico modo che ho per evadere da questa dolorosa realtà. Quando ero solo un bambino e mio fratello Ian se la prendeva con me, mi rinchiudevo nella mia cameretta e sognavo di essere il re degli elfi che lo puniva tra atroci sofferenze. – si sforzò di ridere, ma gli venne fuori solamente un rantolo indefinito –Mi mancano quei tempi. – gli confessò infine.
Alfred capì che Arthur non era il ragazzo cinico e insensibile che voleva far credere di essere. Si notava dal tono pacato e dolce che stava usando, dal visibile dolore che stava provando in quel momento –So che tutto questo può sembrarti stupido…-
Lo era. Tutto quanto era stupido, quella situazione, quella guerra, ma l’americano pensò che non sarebbe stato carino dirglielo.
-Affatto. -
-Poi. – riprese l’inglese –Un giorno ho provato ad immaginarla! -
-Cosa?- domandò l’altro incuriosito, avvicinandosi sempre di più alla finestra.
-La Pace! Era…bellissima. Alta, con lunghi capelli biondi e gli occhi che sembravano un cielo senza nuvole. -
Alfred provò una specie di tumulto al cuore. Possibile che Arthur avesse voluto intendere qualcosa di più tra le righe?
-Per me…- cominciò lui –La Pace ha gli occhi verdi. Come l’erba a primavera. -
Arthur si voltò nuovamente per fissarlo: aveva capito! Si alzò lentamente dalla sedia, ma rimase lì, senza aggiungere una parola. Continuava solamente a guardarlo, in bilico tra sconcerto e affetto.
Alfred decise di andare oltre –Hai immaginato me…vero?- chiese, forse in maniera fin troppo diretta. Infatti l’inglese mutò espressione con un’altra quasi minacciosa e, dirigendosi verso di lui, lo prese per le spalle con violenza e lo trascinò alla parete del muro.
-Scusa, non avrei dovuto dirlo! – continuava a ripetere Alfred, fin che non sentì il muro gelido dietro la sua schiena.
“Ora mi picchia” pensò, già pronto per difendersi. E invece, con sua sorpresa, Arthur gli accarezzò delicatamente la guancia con il dorso della mano e si avvicinò sempre di più a lui. Alfred cominciò a sentire troppo caldo, anche per essere in agosto; intuiva che tra loro due stesse per succedere qualcosa che andava oltre la semplice amicizia e non sapeva cosa fare.
Ormai riusciva a cogliere ogni sfumatura di verde nei suoi occhi, a toccare ogni suo singolo ciuffo dorato. Sentì le labbra di Arthur poggiarsi sopra le sue, per poi allontanarsi quasi subito e rimanere comunque vicinissime alle sue. Era già troppo per l’inglese, di questo lui ne era cosciente, ma in quel singolo attimo capì come mai ogni volta che lo vedeva non sapeva come comportarsi, perché trovava gradevole la sua compagnia nonostante il cinismo. Stare con lui gli piaceva, sembrava sempre di essere in una competizione dove misurarsi. Gli voleva bene e forse c’era molto di più.
Il respiro di Arthur si stava facendo ansimante e il suo cuore martellava ad un ritmo rapido, come se avesse corso per un buon chilometro. Alfred sapeva che di lì a poco l’altro si sarebbe allontanato disgustato e avrebbe detto “Fai finta che non abbia fatto nulla” ma lui non voleva che andasse a finire in quel modo.
Lo baciò con impeto, in maniera completamente diversa da quella timida e insicura dell’inglese.
Arthur si sentì assalito ma lo lasciò fare perché gli piaceva e ormai non pensava più a niente: né che era in guerra, né che due dei suoi fratelli non c’erano più, né che stava baciando un uomo e né che Alfred in quel momento stava lottando con la zip dei suoi pantaloni che non voleva dar segni di abbassarsi.
Cominciò a spogliarsi lentamente, imbarazzato da quella situazione, che sembrava un disperato tentativo di ricevere affetto che in quegli anni non aveva mai avuto. Si lasciò travolgere dalle maniere più dirette dell’americano, si lasciò andare senza pensare alle prossime conseguenze. In fondo, cosa importava?
Era volato in un altro mondo, dove c’era posto solo per lui, Alfred e il loro amore.







Salve! Prima di tutto, anche se tremendamente in ritardo, voglio cogliere l’occasione per augurare Buon Anno nuovo a tutti voi.
Secondo…si, l’ ho fatto! Ebbene, questa è la mia primissima scena yaoi, diciamo prima scena di sesso in generale! So che non è un gran che, ma ho voluto contenermi ,prima di tutto perché a qualche lettrice non potrebbe piacere la coppia e quindi mi sono data un certo freno.
In secondo luogo, la storia è arancione e volevo evitare di andare sul genere erotico ecc ecc, perché sono totalmente incapace a scrivere cose del genere e va a finire che la scena diventi in se per se stupida e senza senso, e perché volevo evitare che il tutto si trasformasse in un manuale di anatomia.
Ho cercato più che altro di scrivere le emozioni che hanno provato Alfred e Arthur e spero di aver centrato in pieno l’obbiettivo, senza aver esagerato e\o urtato la sensibilità di qualcuno. Anche perché, non so se questo si può chiamare yaoi vero e proprio o shonen-ai, non conosco molto bene la differenza.
Inoltre, due persone già sapevano di questa scena, visto che hanno dovuto patire le mie crisi da quindicenne che non sapeva come risolversi. Ci tengo a ringraziarle, sperando vivamente di non averle deluse dopo tutte le mie fisse mentali e via dicendo.
Infine, ma non per questo meno importante, vorrei ringraziare tutti quelli che hanno messo la storia tra le seguite\ricordate\preferite e chi commenta. Mi farebbe piacere conoscere il vostro parere, sperando di non aver descritto la scena in modo patetico, infantile o OOC!
A presto
Cosmopolita
PS: e scusate il poema alla fine xD

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Capitolo 20
*** La speranza non muore mai ***


La mattina, fresca e dolce, entrò dalla finestra sotto forma di una brezza leggera. Il vento sfiorò il viso di Alfred debolmente, come una madre che accarezza piano il suo bambino mentre sta dormendo per non svegliarlo.
E invece l’americano aprì i suoi occhi azzurri e la prima cosa che fece fu guardare il cielo, ancora scuro. Erano all’incirca le sei di mattina, forse.
Poi ripensò alla sera precedente, a ciò che era successo tra Arthur e lui.
Non riusciva ad immaginare a nient’altro, se non all’inglese che sussurrava il suo nome con dolcezza, al suo abbraccio tiepido mentre dormiva, al suo respiro caldo e gentile sulla sua pelle…si girò per svegliarlo,ma appena lo fece, si accorse che nel sacco a pelo non c’era nessun’altro.
Era solo.
Non capiva: dov’era andato Arthur?
Poi, un pensiero agghiacciante gli attraversò la mente. Qualcuno era entrato, magari per vedere come stava l’inglese o forse per sapere che fine aveva fatto lui e li aveva visti…vicini…abbracciati…
Forse adesso stavano punendo Arthur ed era tutta colpa sua!
Senza pensare che ciò era completamente accampato in aria, visto che avrebbero dovuto punire anche lui, Alfred si vestì in fretta e uscì dal casolare abbandonato di corsa.
Fu una sorpresa e una gioia, una volta uscito, vedere Arthur, bellissimo e per fortuna sanissimo, parlare con il sergente.
-Sei vivo!- esclamò senza riflettere. Due paia di occhi, quelli stupiti del sergente e quelli a fessura di Arthur lo fissarono.
-Ovvio che è vivo, Jones. – ribattè quello circospetto –Perché dovrebbe essere altrimenti?-
Alfred guardò l’inglese con un sorriso, ma Arthur lo ignorò. Brutto segno.
-Diceva, signore? – chiese, come a riprendere un discorso che era stato interrotto.
-Se accetti la missione, Arthur…-
-Missione?- domandò Alfred interessato. Il sergente sbuffò.
- Jones!- lo richiamò.
-Mi scusi signore…- balbettò imbarazzato.
D’altro canto, l’altro rise –Che dici Arthur, avresti bisogno di aiuto…il signor Jones potrebbe accompagnarti. – propose.
-Signore, uno solo è sufficiente per portare a termine l’incarico .- cercò di rispondere l’inglese, ma Alfred fu più immediato di lui.
-Mi piacerebbe, signore. – la prospettiva di stare un po’ solo con Arthur gli andava troppo a genio per rifiutare.
-Ebbene, i nostri uomini hanno scoperto una casa nelle vicinanze da evacuare. Non sappiamo quante persone ci sono, ma state attenti. Siamo vicini a Brest, non vorrete fare spiacevoli incontri. -
Sia Alfred che Arthur annuirono, in segno che avevano capito quello che dovevano fare. Il sergente augurò loro buona fortuna e li congedò


-Quanto manca ancora? – chiese Alfred ad Arthur.
-Poco. Siamo quasi arrivati. -
L’americano guardò la sua mano, molto più piccola e bianca della sua. Fece per prenderla, ma Arthur la scansò e lo incenerì con lo sguardo. Pessimo segno.
Era imbarazzato. L’inglese sembrava essere ritornato lo stesso di prima e non sapeva cosa dirgli.
-Em…- balbettò –Ti…ti va di parlare di…ieri sera?-
Evidentemente Arthur non aveva voglia di parlarne, perchè si fermò di colpo e fece un gran sospiro.
- Alfred…- esordì con un tono fievole, quasi come se sapesse già di combattere una causa persa –Ieri sera…non è successo niente, capito? Io ero triste per i miei fratelli, tu eri triste per il tuo e…ed è successo, punto. Non riparliamone, d’accordo? -
- No. – negò l’altro. Non poteva crederci che per Arthur quello della sera precedente non significava nulla – Io non l’ ho fatto solo per quello, io ti a…-
-Basta!- lo interruppe inasprito – Anche se fosse, è sbagliato. Siamo in guerra, non possiamo pensare a…queste cose! È sbagliato. – ormai lo ripeteva quasi a filastrocca.
-Cosa c’è di sbagliato nell’amare qualcuno? – gli occhi dell’americano lo fissavano accusatori.
-Niente, ma il modo in cui tu mi…ami- pronunciò l’ultima parola a fatica –e il modo in cui, lo ammetto, ti…- pronunciò “amo” a denti stretti, come se non volesse dirlo –io…è sbagliato, Alfred. Te ne rendi conto?-
L’americano sapeva che alzare la voce con Arthur non funzionava –Solo perché amo un uomo .- cominciò in maniera pacata –e non una donna…beh, non vuol dire che è sbagliato. -
-Io devo sposarmi con Lily Zwigly! – esclamò disperato –Credi che riuscirò ancora a guardarla in faccia dopo quello che ho fatto?-
-Sono i tuoi genitori che dovrebbero vergognarsi per averti imposto una moglie contro la tua volontà. – obbiettò, mandando al diavolo le buone maniere.
- Non azzardarti ad insultare la mia famiglia, Yankee. -
-Non mi permetterei mai, Arthur. – ricominciò ad usare un tono tranquillo –E solo che…Di la verità, pensi che sposare Lily Zwigly sia la scelta migliore per te? O lo è per i tuoi genitori?-
Arthur rimase in silenzio. In cuor suo sapeva che l’americano aveva ragione, ma preferì restare zitto.
Non poteva andare dai suoi genitori e dire “non sposo Lily perché mi sono innamorato di un altro” non poteva farlo. Già se lo immaginava: la faccia disillusa di sua madre, lo stupore di Hanna e Peter, la voce sprezzante di Ian “Sapevo che c’era qualcosa che non andava in te.” avrebbe detto. Ma quel che peggio sarebbe stata la reazione di suo padre…rabbia, disappunto, delusione…il suo figlio prediletto, amava un uomo.
Arthur non era nato per fare ciò che voleva. Sapeva che lui era venuto al mondo per essere una marionetta, guidata da altre persone che decidevano a loro piacimento la sua vita.
Avrebbe voluto stringere a se Alfred, dirgli quello che lui voleva sentirsi dire, ma sapeva di non poterlo fare. Non voleva dargli una delusione ancora maggiore.
Riprese a camminare velocemente, lasciando l’americano un po’ più indietro per non incontrare il suo sguardo tradito. Molto probabilmente non avrebbe retto.
Arrivarono vicino alla casa. Era enorme.
-Però! – commentò Arthur meravigliato, aggirandola per un tratto. Alfred gli andava dietro, ma più che altro si trascinava.
L’inglese bussò alla porta e ad aprirgli fu un ragazzo. Doveva essere molto più vecchio di lui, aveva dei capelli biondi lunghi fino alle spalle e occhi azzurri,come quelli di Alfred. Arthur però convenne che quelli di Alfred erano molto più belli. C’era una luce in quelli , allegra e benevola, che li rendevano diversi dagli occhi degli altri.
-Bonjour.- salutò l’uomo. Aveva una voce profonda, molto musicale.
-Bonjour…Nous sommes Alliè. –(buongiorno, noi siamo alleati) esordì Arthur.
L’espressione nervosa del francese si trasformò in una di sollievo –Oh! Qu'est-ce que je peux faire puor vous?- (C’è qualcosa che posso fare per voi ?).
-Vous devez aller .-(dovete andarvene).
Per tutta risposta, il francese fece una risatina nervosa –Pourquoi ?- domandò con una certa aria di superiorità
Ad Arthur già non gli andava a genio -Sont les ordres:èvacuer les citoyens.- (sono gli ordini:evacuare i cittadini) rispose con una smorfia di disappunto: fosse per lui, l’avrebbe lasciato lì.
-Comment vous s’appellez?- (come vi chiamate?)
- Arthur .-
- Est un joli nom.-(è un bel nome) commentò avvicinandosi. L’inglese si allontanava sempre di più da quello sconosciuto, mentre Alfred osservava quella scena senza capirci un bel niente.
- Je m’appelle Francis Bonnefoy .- continuò l’uomo facendogli l’occhiolino
-Hereux de faire votre connaissance, monsieur. –(felice di fare la vostra conoscenza, signore) rispose, anche se era palese che si trattava del contrario.
Francis fece cenno di entrare in casa. Arthur gli fece intendere che dovevano fare subito, ma quello lo prese per un braccio e lo fece sedere sul divano.
-Voi comprendete che non posso andarmene. – cominciò, una volta accomodatosi anche lui
-Signore. – cercò di farlo ragionare –Può essere pericoloso rimanere qui .-
-Sciocchezze. – non fece in tempo ad aggiungere altro, che l’inglese vide scendere due persone. Un uomo sui venticinque e una donna altera e molto bella.
- Francis, chi sono?- chiese la donna allarmata, una volta accortasi dei due stranieri.
-Alleati, non c’è pericolo. Lui è Arthur e lui…-
- Alfred. – rispose l’inglese.
L’americano, sentendosi chiamato in causa, si avvicinò all’altro e domandò –What happen? – Arthur finse di non sentirlo.
- Loro sono Elizabeta e Gilbert. – li presentò il francese.
-Salve!- la ragazza gli strinse la mano.
-Buongiorno. – fece lo stesso il ragazzo. Ma Arthur capì subito che c’era qualcosa che non andava.
-Il tuo accento…- sibilò infine. Guardò Francis in cagnesco – è tedesco. -
- Non tragga conclusioni sbagliate, soldato. – gli consigliò lui.
Alfred intuì che qualcosa stava andando storto –What happen? – continuò a chiedere.
-è un fottuto crucco!- sputò disprezzante.
-è nostro amico. – lo difese la donna, stringendo la mano di Gilbert.
-Non è nazista, monsieur. – aggiunse Francis.
-Arthur, what happen?-
-Be quiet!- lo zittì l’inglese. L’americano arrossì.
-Non tutti i tedeschi sono nazisti, signore. – parlò Gilbert, stringendo ancora più forte la mano di Elizabeta.
Arthur annuì –Va bene, vi credo. – concluse sbrigativo: prima se ne andavano, meglio era.
- Signore. – intervenne la ragazza, con l’intento di convincerlo maggiormente –Io sono ebrea. Sono stata perseguitata dai nazisti. Crede che io non avrei già fatto qualcosa a quest’uomo se fosse nazista? – chiese.Guardò Gilbert con affetto e Arthur intuì che quei due stavano insime, o qualcosa del genere
Lui non rispose.Guardava Francis, che stava ammirando in maniera troppo insistente e esplicita Alfred. Sentì crescere dentro di se un odio verso quel francese, una gelosia irritante. Perché lo fissava in quel modo?
- Ha finito di guardarlo? – domandò con evidente nervosismo.
- Si, certo. – il francese si rivolse ad Elizabeta –Non trovi somigli a Matthew in maniera impressionante? -
-In effetti non ci avevo pensato. -
Alla parola “Matthew”, il cuore di Arthur prese a battere più veloce.
-Può ripetere?- chiese, convinto che gli fosse sfuggita qualche parola.
-Ho detto che somiglia molto ad un nostro amico. – spiegò Francis –Lo abbiamo trovato qualche mese fa. Pensa, è americano! -
L’inglese si girò verso Alfred, non credendo a ciò che stava sentendo. –Matthew…- gli sussurrò piano.
Lui, si alzò in piedi, irrigidendosi un po’ –Matthew è qui?- chiese, cominciandosi ad agitare –Non è possibile, forse è un altro…-
Francis li guardava accigliato. Lui non conosceva l’inglese, ma aveva compreso che i due stavano parlando di Matthew Williams.
-Se volete…- intervenne, interrompendo la loro conversazione agitata –Ve lo chiamo. -
Arthur si limitò ad annuire, non riusciva ad esprimersi con le parole. Guardava Alfred agitarsi sempre di più.
Francis era salito di sopra. Nessuno osò parlare. Sentirono i passi del francese percorrere tutto il piano, fin che si fermò.
Dopo un paio di minuti udirono di nuovo alcuni passi scendere per le scale.
Ad Alfred batteva forte il cuore: non aspettò nemeno che finissero di scendere le scale, non appena scorse quella faccia così familiare, quel viso così gentile, capì che davanti a lui c’era suo fratello.
Matthew e Alfred si strinsero forte, entrambi commossi.
Alfred dimenticò tutti i dispiaceri di quella mattina, così come la disperazione di aver creduto di aver perso un fratello.
Matthew dimenticò tutte le sofferenze che aveva patito.
Arthur capì di aver perso Alfred per sempre.




Salve a tutti.
Ebbene, voglio annunciarvi che questo è il terzultimo capitolo.
Per gli ultimi due sto trovando parecchia difficoltà, più che altro a rendere i personaggi, perché ci sono alcune scene un po’ difficili da scrivere. Per cui già vi avviso che gli ultimi due capitoli arriveranno un po’ in ritardo, in particolar modo il penultimo.
Oltre a questo, so che molti criticheranno il comportamento un po’ egoistico da parte di Arthur. Dunque, vorrei dire la mia, onde evitare proteste e quant’altro.
Prima di tutto, il carattere di Arthur, tsundere e freddo, mi ha fatto optare per la scelta di renderlo un po’ ritroso riguardo al rapporto che c’è stato tra lui e Alfred. Se avessi fatto un Arthur accondiscendente e caloroso in questi termini, l’avrei reso tremendamente OOC, cosa che volevo evitare.
Inoltre, c’è da considerare il periodo storico, che di certo non accoglieva a braccia aperte gli omosessuali e Arthur ha comunque una reputazione da difendere. E infine, la sua famiglia, che lui ha paura di deludere. Quindi, a mio parere, il suo comportamento non dovrebbe essere criticato, poi ognuno la pensa come vuole!
Vi ringrazio per l’attenzione, scusate i miei poemi e spero che questo capitolo vi sia piaciuto!
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 21
*** Come d'autunno ***


Alfred e Matthew rimasero abbracciati stretti per un tempo che parve interminabile.
Sembrava come se con quell’abbraccio, i due gemelli volessero raccontarsi le vicende accadute durante l’assenza dell’uno e dell’altro e nessuno provò a disturbarli. Fu Matthew a interromperlo, sfilandosi dolcemente dalla stretta vigorosa di suo fratello.
-Ti voglio bene. – fu l’unica cosa che disse. Neanche un “come stai?” o “cosa hai fatto in tutto questo tempo?”. In fondo, quelle domande erano futili e prive di senso di fronte al fatto che lui gli voleva bene. Era suo fratello e tutto il resto non gli importava minimamente.
Francis sorrise e lamentò di essergli entrato un granellino nell’occhio. Una stupida scusa per dire che era commosso.
Elizabeta e Gilbert furono i primi che decisero di lasciare intimità ai due fratelli, forse per rispettare anche la propria, poi fu il turno di Francis che andò in cucina e infine Arthur che, dopo aver fissato quel quadretto fraterno con malinconia, decise che era decisamente di troppo.
Ebbene, Alfred aveva ritrovato il fratello. Era felice per lui, ovviamente, ma non riusciva a spiegarsi quel vuoto incolmabile che adesso aveva nel cuore.
Un tocco leggero lo distrasse dai suoi pensieri.
-Dannato francese. – imprecò, prendendone le distanze – Rispetta i tuoi spazi. -
Francis ridacchiò divertito –Dì un po’, ma voi inglesi siete tutti così? -
- E voi francesi? – gli rispose di rimando.
- Noi francesi siamo calorosi e aperti, in questo non c’è nulla di scorretto. -
-Noi inglesi siamo freddi e rispettosi degli spazi altrui, in questo non c’è nulla di scorretto. -
Il francese rise nuovamente –Ma lo sai che mi sei simpatico? -
-Beh, lo stesso non vale per me. – ribattè inacidito, incrociando le braccia.
- Insomma, sei geloso del tuo amore americano! -
Arthur arrossì di colpo –Cosa vorresti insinuare, francese? -
-Non cercare di fregarmi, mon cher. Queste faccende io le capisco subito…- gli fece un occhiolino.
-Punto primo: non chiamarmi “mon cher”. Punto secondo: non è vero. – Francis lo innervosiva.
- Va bene, come vuoi tu…- concluse con fare accondiscendente.
Arthur era quanto mai rosso sia per l’imbarazzo, sia per il nervoso e la rabbia – Non vi sopporto, voi francesi. Siete dei pervertiti, frivoli e sciocchi. E la vostra letteratura fa pena! -
Francis passò sopra all’essere pervertiti, frivoli e sciocchi. Ma alla “vostra letteratura fa pena” si offese a dir poco.
- Pardon, non ho capito bene. – dichiarò, cominciando a perdere la calma che di solito lo contraddistingueva.
-Hai capito benissimo. Tutti scrittori depressi, storie depresse e noiose fino alla morte. Oppure frivole e sciocche, come tutti voi francesi del resto. -
Quell’inglese aveva avuto il coraggio di insultare scrittori dal calibro di Hugo o Dumas? Il francese non lo accettò.
-E voi inglesi? Cosa vi fumate per scrivere quelle storie? -
-Abbiamo solo una fervida fantasia, cosa che a voi manca. -
-Almeno noi francesi sappiamo cucinare. -
-Certo, tutte quelle salsine inutili sono il massimo dell’eleganza! -
- Non accetto critiche culinarie da un inglese. -
- Vorresti dire che gli inglesi cucinano male? -
Il battibecco tra i due si andava facendo ogni volta sempre più spinoso e ad ogni botta, c’era sempre una risposta pronunciata a voce sempre più alta. Ormai urlavano più che parlare.
-Noi inglesi vi abbiamo battuti in tutte le guerre!- urlava l’inglese.
-Dimentichi la guerra dei cent’anni .- obbiettava più pacato Francis.
- Già, ma adesso chi è sotto il controllo tedesco? E chi vi sta venendo a salvare?- gli fece osservare Arthur , fissandolo con uno sguardo gelido e spietato.
A quel punto Francis non seppe cosa rispondere. Gli fece una linguaccia e gli diede le spalle.
Arthur, da parte sua, sbuffò spazientito e aspettò che i due fratelli finissero di raccontarsi tutti i loro guai, sperando vivamente che facessero presto.


- Alfred...- sussurrava Matthew incredulo, sfiorandogli la guancia –Il mio fratellino!-
L’altro rise –Sei conciato male, lo sai? Dov’è finito il Matthew che studiava sei ore al giorno e che era dimenticato da tutti?-
Il canadese aggrottò le sopracciglia: odiava quando il fratello gli faceva notare che la sua vita sociale era meno entusiasmante della sua, ma…ora cosa significava tutto ciò per lui? Erano insieme e tutto il resto era futile.
-Al diavolo lo studio. – sbottò, facendo sbarrare gli occhi ad Alfred.Di solito non usava mai certe parole e quel “diavolo” uscito dalla sua bocca suonava come un’orribile parolaccia.
- Ogni volta mi stupisci sempre, fratello! – esclamò, scompigliandogli i capelli con la mano.
-Anche tu. – rispose –Ti voglio bene. Me ne sono accorto troppo tardi, ma è così. – si abbracciarono un’altra volta.
Solo in quel momento all’americano venne in mente una strana sensazione, una cosa a cui non aveva mai pensato prima d’ora. Arthur aveva perso due fratelli…lui ne aveva ritrovato uno. Conoscendolo, stava soffrendo molto in quel momento.
Rimase stretto a Matthew, ringraziando chiunque ci fosse lassù per avergli dato una gioia simile. Pregò che anche Arthur potesse avere la sua stessa fortuna.
-Vieni con me ed Arthur?- gli chiese.
Il fratello sciolse l’abbraccio; aveva un espressione assorta–Non lo so…io voglio stare lontano dalla guerra, non sono nato per combattere. – ammise arrossendo.
Alfred lo guardò indispettito –Un Jones deve sempre servire la sua patria. -
-Infatti io sono un Williams, non un Jones! – ribattè timidamente.
L’americano capì che niente avrebbe smosso Matthew dalla sua decisione –Beh, la famiglia è quella. E dove vorresti andare? -
Matthew guardò con aria di rimpianto il fratello. Non voleva perderlo un’altra volta e sapeva che nulla al mondo l’avrebbe distolto dall’idea di partecipare a quella guerra maledetta. Ma aveva capito che neanche abbandonare Francis gli avrebbe giovato: gli era debitore, gli aveva salvato la vita! E lui, che adesso aveva tanto bisogno di compagnia, non sarebbe potuto restare senza di Matthew.
-Resterò con Francis e gli altri. – decise –Lui…lui ha bisogno di me e io non voglio ritornare a fare il soldato! -
Con sua immensa sorpresa, Alfred lo comprese. D’altronde,con molta presumibilità avrebbe reagito al suo stesso modo, se al posto di Francis ci fosse stato Arthur.
I due fratelli tornarono dagli altri, tenendosi per mano.
L’americano lasciò andare Matthew con Francis e quest’ultimo, che non si aspettava una scelta simile da parte del canadese, lo strinse in un caldo abbraccio. Per la prima volta, non venne respinto.


-Dove ci porteranno?- volle sapere Matthew.Erano ritornati alla loro postazione e gli sfollati stavano per essere caricati su un auto che li avrebbe portati lontano da quel luogo troppo ostile.
-Non lo so…- ammise Alfred. Aveva un vuoto nel cuore, ma almeno sapeva che il suo fratellino sarebbe stato al sicuro.
Niente abbracci questa volta. Solo una stretta di mano.
-Ci rivedremo, Alfie!- lo salutò con le lacrime agli occhi –Ci rivedremo e nessuno ci separerà. Mai più. -
L’altro sorrise, cercando con tutte le sue forze di trattenere le lacrime ribollenti che lottavano per scendere.
Si rivolse a Francis –Abbi cura di lui. -
Il francese gli fece segno di aver capito, alzando il pollice e poggiando amorevolmente la mano sulla spalle del canadese.
- Vedi di annegare al primo fiume che trovi, rana! – intervenne la voce acida di Arthur, che rovinò l’atmosfera di affetto e di addio che si era creata.
Gilbert ed Elizabeta risero, Francis lo guardò imbronciato –E tu, mon anglais… mi auguro che darai ascolto al tuo cuore!- il suo tono era compassionevole, quasi come se quel soldato biondo gli facesse pena.
L’inglese, che si aspettava un insulto colorito, lo guardò stupito e dopo alcuni secondi, annuì poco convinto. I due soldati seguirono la macchina sfrecciare per chissà dove ,lasciando i due amici fisicamente e psicologicamente soli. - Ora che hai ritrovato tuo fratello…- esordì Arthur – Non hai più bisogno della mia compagnia. -
L’americano lo prese per il mento, lo fissò dritto nei suoi penetranti occhi verdi – Non mi stancherò mai di te. – dichiarò, facendolo arrossire – Tu non vuoi capire che per me significhi molto di più. -
L’altro si divincolò subito, imbarazzato. Per fortuna non li avevano visti nessuno, o altrimenti sarebbe stato difficile spiegare quel gesto da parte di Alfred.
- Arthur, il mio caro fragile Arthur. – disse lui, desiderando con tutto se stesso di accarezzargli la sua guancia tiepida, tracciare con le dita il profilo del suo volto, ma sapeva che l’inglese non glielo avrebbe mai permesso e con tutta sincerità non gli andava di litigare con lui proprio ora che aveva ritrovato Matthew.
Inaspettatamente, un suono cupo e rimbombante squarciò l’aria. Entrambi sapevano troppo bene cosa voleva dire.
-Tedeschi!- urlò qualcuno e tutti presero i loro fucili e cominciarono a far fuoco, chi riparato da dei naturali massi, chi dall’artificiale barriera fatta di sacchi di sabbia.
Arthur si buttò riparato su di un muretto di cemento, molto lontano da Alfred che nel frattempo era corso a prendere il posto di un soldato caduto.
Caricò il fucile con la mano tremante, mentre di fianco a lui qualcuno già urlava di dolore. Uno stramazzò morto proprio davanti a lui e alcuni schizzi di sangue gli imbrattarono la faccia.
Vide Alfred, che sembrava troppo lontano in quel momento, preso e deciso più che mai a far fuori l’intera armata tedesca. Prendeva velocemente la mira e ,dopo alcuni rapidi secondi, faceva fuoco. Era troppo scoperto, senza una riparazione, come se volesse dimostrare di non aver paura dei proiettili.
Arthur cominciò a fare la stessa cosa. Ormai la sua mente funzionava come un meccanismo regolare e per il momento non pensava a quante persone sbarravano gli occhi e si accasciavano a terra per causa sua. Il suo obbiettivo era restare vivo. Era un pensiero orribile, lo ammetteva anche lui stesso e a volte arrivava perfino a detestarsi per questo, ma o morivano loro o moriva lui.
Ad un tratto sentì un grido di dolore. Certo, ormai cominciava a sentirne parecchi, ma quello era diverso, era troppo familiare.
Un’altra voce urlò –Jones! Jones è stato colpito!-
La vista gli si annebbiò, smise di sparare. Senza riflettere, senza pensare che quello che stava per fare era stupido ed inutile, corse fino a raggiungere il corpo di Alfred.
All’altezza della coscia, stava perdendo troppo sangue.
- Alfred! Alfred, maledizione, mi senti?- cercò di attirare la sua attenzione –No, ascoltami…devi resistere. Hai capito? Fallo per Matthew, fallo per tua madre…- esitò –Fallo per me. -
Sentì la stretta debole di Alfred sulla sua mano –Arthur…- sussurrò con voce flebile.
Non fece in tempo a gioire, oppure a sgridarlo per la sua solita mania di fare l’eroe, che sentì una fitta insopportabile attraversargli lo stomaco.
Sentì freddo. Poggiò le mani a terra, incapace di mantenersi in ginocchio e sputò qualche goccia di sangue. Il dolore non cessava, anzi, aumentava ad ogni minuto che passava.
Si buttò di peso di fianco ad Alfred, vide con orrore il suo sangue uscire dal suo corpo e colare dappertutto. In quell’istante udì una voce lontana, gridare.
- Kirkland! Kirkland è stato colpito, presto, un medico!-


Alfred aprì gli occhi e lo investì la luce abbagliante e artificiale della stanza. I muri erano grigi e spogli, riusciva a sentire voci soffuse e contrapposte che lo confondevano. Cercò la ferita, ma di per se non sentiva alcun dolore, solo un leggero formicolio che gli procurava fastidio.
-Si è svegliato, finalmente!- esclamò una voce squillante e speranzosa. Davanti a lui c’era un infermiera bionda, molto carina a dirla tutta.
-Dove mi trovo?- biascicò con voce impastata.
- Nell’ospedale militare. – rispose –Stia tranquillo.Le abbiamo somministrato della morfina e siamo riusciti sia a disinfettare la ferita che ad estrarre la pallottola, ma rischiava di rimetterci la gamba. Ora è tutto apposto. – spiegò velocemente con un sorriso rassicurante.
-Come si chiama, lei?- riuscì a chiedere. Parlava bene l’inglese, ma aveva un accento strano.
- Sophie Von Boek. -
-Non è francese! – notò
Scosse la testa –Sono belga, di origini olandesi. Mio fratello Jacob è il dottore che si è occupato di lei!-
Solo in quel momento, Alfred si ricordò di Arthur.
Cercò di alzarsi, ma Sophie lo trattenne.
-Non può alzarsi, è ancora molto debole. – lo rimproverò.
-Io devo vedere il mio amico. Come sta?- chiese risoluto, ma anche piuttosto timoroso di conoscere la risposta.
-Oh, Kirkland...-
- Come sarebbe a dire?- domandò sempre più agitato –Non mi dica che è…-
-No, no di certo. – lo interruppe la ragazza –Il signor Kirkland è vivo, ma…non si è ripreso del tutto. -
Alfred si prese la testa tra le mani, come se gli dolesse troppo –è tutta colpa mia. Mia e della mia mania di mettermi in mostra!- gemette. Sophie sospirò.
-Ok, faremo uno strappo alla regola. – gli concesse –Il suo amico è nel letto di fianco al suo, ma non si sforzi troppo, mi ha inteso? -
L’americano la guardò riconoscente –La ringrazio, davvero!-
La belga sorrise –è un piacere. Ma si ricordi che tra un po’ un convoglio la riporterà a casa, in America!-
Alfred si bloccò –A casa?-
-Non può mica restare qui, con una gamba ferita. -
-Lei non capisce, io devo restare. –protestò.
-Per fare l’eroe e rischiare ancora la vita? – chiese l’infermiera in tono gravoso e severo – Sei ancora giovane, non buttare la tua vita per questa guerra inutile. Il mio paese è stato occupato, la mia famiglia sterminata. Non credi che sia stato versato troppo sangue? -
L’americano abbassò lo sguardo, risentito: Sophie aveva ragione. Arthur era stato ferito solo per colpa sua e adesso voleva ritornare di nuovo in guerra a combattere? Era egoista.
Si avvicinò lentamente al letto dell’inglese. Arthur stava dormendo, il suo respiro debole e affannato suonava alle sue orecchie dolce e malinconico al tempo stesso.
Gli mise una mano sulla fronte e lui aprì gli occhi.
-Scusami. –farfugliò –Non volevo svegliarti!-
Gli occhi verdi e limpidi di Arthur si richiusero di nuovo. Strizzò un po’ il viso, poi li riaprì di nuovo.
-Fa male?- chiese Alfred preoccupato.
- Ora no, ma prima…- l’inglese rabbrividì e non riuscì a dire più nulla.
-Non volevo che andasse a finire così…volevo dimostrare qualcosa a me stesso. Anzi…- la sua voce si fece più faticosa –Credo che per un attimo abbia pensato che se diventassi un eroe di guerra, mia madre mi avrebbe amato di più. E ti ho messo in mezzo, io…io sono stato un deficiente. – ammise alla fine.
- Smettila, le tue scuse mi danno fastidio. Tanto, ormai sono qui, giusto? Inutile piangere sul latte versato. -
L’americano gli prese una mano, era fredda, e gliela strinse. Abbassò lo sguardo là dove in teoria c’era la ferita di Arthur e con orrore notò che le lenzuola in quel punto erano sporche di rosso.
- Mi dispiace. – continuava a ripetere.
L’inglese non diceva nulla, guardava solo la sua mano avvolta in quella più grande di Alfred. Poi cominciò a sussurrare qualcosa in francese. Una canzone.
- Cos’è?- chiese Alfred.
- Questa canzone è quella che cantò il sergente alcune settimane fa. – rispose –Ti ricordi? Quel giorno mi avevi chiesto perché odiavo la Francia. -
Lui annuì e gli strinse la mano ancora di più.
- Beh, è strano. – Arthur rise. Alfred aveva sentito il suo amico ridere raramente e quella risata lo fece sentire ancora più male.
-Cosa è strano?-
-Muoio nella terra che odio di più. -
Alfred non riuscì a più trattenersi. Non aveva pianto per Matthew, adesso piangeva per Arthur. Poggiò la testa sulle lenzuola e le bagnò di lacrime.
L’inglese cominciò ad accarezzargli i capelli biondo cenere, continuando a cantare quella canzone.
-Parla…- riprese a dire –Di una donna che ricorda suo marito che è partito per la guerra. È probabile che lui sia morto, ma lei continua a sperare che lui ritorni…- spiegò –Bel messaggio, no?-
Alfred non rispose. Continuava a piangere.
-Insomma. – si spazientì –Sei o non ei un eroe? Non piangere e che diamine! -
- Arthur…- iniziò rialzando la testa – Io devo andarmene oggi stesso. – notò, con un debole senso di piacere, che l’altro si era irrigidito per quella rivelazione –Non saprò mai se tu…insomma…-
-Continua a sperare. – lo interruppe con voce appassionata –Come la donna della canzone. E non abbatterti pensando alla mia morte. Insomma, se pensi subito alla possibilità che io muoia, bel modo che hai di amarmi! Continua a sperare. Torna in America, realizza i tuoi sogni…ma soprattutto, non fare il mio stesso errore. -
-Cioè?- Alfred aveva gli occhi lucidi.
-Non preoccuparti dei giudizi della gente. Non vergognarti di amare qualcuno, non vergognarti di quello che sei. Io l’ ho fatto e non mi ha migliorato di certo la vita. – sorrise e accarezzò la guancia umida di Alfred –Faresti questo…per me?-
L’americano tirò su con il naso e poi assentì in maniera grave con un cenno della testa.
- Ma soprattutto…cerca di dimenticare tutto ciò che ti ho detto questa mattina. -
Alfred sorrise –L’avevo già fatto. -
Non ebbero il tempo di guardarsi ancora per molto, di memorizzare ogni minuscolo particolare del loro viso, perché il sergente chiamò Alfred.
- Jones?- urlò aggirandosi per l’ospedale fin che non lo vide –Eih, sei già in piedi…- si interruppe –Oh, capisco…sei venuto a salutare Kirkland!-
-Si, signore. -
-Bene, vestiti, gli Stati Uniti ci aspettano. – poi rivolse un’occhiata misericordiosa ad Arthur, ancora debole nel suo letto.
-Spero ti riprenda,Arthur. Sei uno dei soldati più in gamba e particolare che io abbia mai conosciuto e sono fiero di averti incontrato. -
-La ringrazio, signore. -
Non parlarono più, nessuno dei tre. Alfred si vestì lentamente, cercando di tanto in tanto lo sguardo di Arthur che non arrivò mai. Affiancò il sergente e non ebbe neanche il coraggio di salutarlo. Non voleva farlo, non voleva dirgli addio.


- Perchè sei così silenzioso, Jones?- chiese il sergente.
Alfred preferì restare zitto.
-Sei preoccupato per Kirkland? -
Annuì e basta.
- è un ragazzo tenace, se fossi in te non mi stupirei di incontrarlo di nuovo. -
-Che intende dire signore?-
- Hai mai sentito parlare di una speranza Jones? Spera! Spera sempre. -

Si sta come
D’autunno
Sugli alberi
Le foglie.
G. Ungaretti




Allora, fan di Arthur che mi avete minacciato di morte affinché non lo facessi morire (tra cui ci sono anche io)…spero non manterrete la vostra promessa, anche perché…Arthur non è morto, quindi non saltate a brutte conclusioni! Se volete spoiler rassicuranti, vi dico subito che Ludwig e Roderich sono gli unici morti della storia e credo che con questo abbia chiarito tutto ^^
Ludwig: ecco, infierisci, infierisci ancora di più!
Eddai, Lud, sei ancora arrabbiato! Ma hai avuto una fine gloriosa, no? Muy Bien…questo è il penultimo capitolo *prepara scatola di fazzoletti*…quindi, a rigor di logica, il prossimo sarà l’ultimo, per la gioia di alcune di voi!
Quindi…beh, approfitto per ringraziare tutti e per comunicarvi che la fine arriverà con molto ritardo, perché, ho avuto tantissima difficoltà a scrivere questo, figuratevi l’ultimo!
Spero comunque che vi sia piaciuto <3
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 22
*** La fine dell'inizio (epilogo) ***


Tra le rossastre nubi,
stormi d’uccelli neri
com’esuli pensieri
nel vespero migrar

G. Carducci


Francia,dieci anni dopo (1954)
Antonio scalpitava nel sedile posteriore della macchina e Lovino era piuttosto infastidito da quel comportamento.
Feliciano invece si godeva tranquillo il verde e rigoglioso paesaggio francese, profondamente diverso dal caldo ambiente mediterraneo a cui era solitamente abituato.
La guerra ormai era finita da nove anni. Lui non era più un soldato da dodici. Eppure, il ricordo acre di quei giorni lontani è ancora molto forte.
Suo fratello era tornato in Europa solo nel ’50 in compagnia di quel Carriedo. Lovino non gli aveva mai detto come stessero davvero le cose tra lui e Antonio, ma Feliciano sapeva che il loro legame andava oltre l’amicizia. Quegli sguardi d’intesa, quelle frasi dette a mezza bocca e quelle allusioni troppo esplicite erano evidenti anche per un ingenuotto come lui.
Antonio era simpatico, l’italiano gli voleva bene come ad un fratello. Ma fin dal suo arrivo, il ragazzo aveva capito che il fratello e il suo amico gli nascondevano qualcosa oltre alla loro relazione.
Alle volte li sentiva discutere a bassa voce
-Mi amor, l'ho promesso…- lo implorava Antonio.
-Non mi interessa. Mio fratello non avrà mai più a che fare con un crucco, mi sono spiegato?- obbiettava Lovino irremovibile.
-Mi querido, non è crucco .-
-Ti voleva arrestare! – lo interrompeva, alzando la voce –E poi, non abbiamo abbastanza soldi per compiere un viaggio simile…-
Feliciano non sapeva per cosa litigassero giornalmente quei due, ma intuiva che era qualcosa di molto importante per se stesso. Ogni giorno arrivavano lettere dalla Francia, a volte perfino da Berlino. Ora che Antonio era riuscito a convincere Lovino, Feliciano aveva leggermente timore di conoscere il perché di tanta agitazione e litigi.
L’autista li fece scendere. Antonio gli offrì un lauto compenso e alla vista di quel gesto Lovino borbottò qualcosa di incomprensibile.
Feliciano fu l’unico che restò in silenzio. Al centro dell’estesa campagna, si ergeva visibile una casa di enormi dimensioni. L’italiano, da aspirante pittore qual’era, ammirò incantato quella meraviglia dell’architettura che si incastrava perfettamente con il paesaggio, ma Antonio, con fare impaziente, afferrò sia lui che suo fratello per un braccio, e ridente cominciò a correre fino a raggiungere l’abitazione.
-In questa…cosa, ci vive il tuo amico?- chiese Lovino piuttosto scettico.
-Si, mi amor!- gli rispose giulivo, prima di bussare alla porta con vigore.
Quando vide Francis apparire sulla soglia, il ragazzo non riuscì a contenersi e si buttò per abbracciarlo.
Feliciano sapeva bene che Lovino era oltremodo geloso: era arrossito di rabbia e continuava a fulminare quel biondo francese con lo sguardo.
-Mon amì!- sussurrò Francis –Da quanto tempo…-
-Lo so, Francisco. Dio, quanto mi sei mancato .-
L’amico di Antonio gli accarezzò i capelli, troppo sensualmente secondo Lovino, e poi cominciò a studiare i due sconosciuti con curiosità.
-Qui est ton Romeo?- (chi è il tuo Romeo ?) chiese ad un certo punto. Nessuno dei due italiani capivano un h del francese, ma lo spagnolo rise di gusto.
-Lui!- indicò Lovino che, a sua vota lo fissò in cagnesco.
Francis si voltò verso l’altro italiano.
-Di conseguenza, lui è…-
- Feliciano, si!-
Francis li invitò ad entrare.
-è proprio come l’ultima volta, non è cambiato nulla. –commentò Antonio estasiato.
-Invece, mon cher, è cambiato tutto…-
Il francese fece loro strada fino a raggiungere il salotto, finemente arredato. I tre ospiti contemplano ammirati un apparecchio dall’aria aliena che stava trasmettendo alcune immagini. Se non fosse stato per la colorazione in bianco e nero, si sarebbero dette perfino vere.
-Oh!- esclamò Antonio colpito –Hai un feletisiore!-
Francis si accigliò, si guardò intorno e una volta capito, scoppiò a ridere –Si dice: te-le-vi-so-re!- specificò. Ma i tre non gli prestarono ascolto, catturati da quella nuova tecnologia.
-Me l’ ha riportata Sesel, dall’America. – spiegò ad Antonio.
- Sesel è qui?-
-è tornata nel ’46, Dio la benedica. Laggiù non si sentiva a casa, così mi ha riferito. Charlotte telefona molto più spesso, ora. Pensa, sono zio di due bambini!-
Lo spagnolo rise divertito –Poverini, non è una bella cosa avere te come zio!-
Anche il biondo sorrise –Non li ho mai conosciuti, ma mi farebbe piacere. – ammise con amarezza.
Quello fu un pretesto per ritornare seri.
- Dov’è lui?- domandò improvvisamente Antonio.
-Il viaggio da Berlino è più difficile…- rispose l’altro piuttosto nervoso –Soprattutto se provieni dalla zona Sovietica. -
Solo in quel momento Antonio si accorse di una presenza silenziosa, di un ragazzo biondo, con gli occhiali e i grandi occhi viola. Francis capì e si avvicinò al ragazzo sconosciuto prendendogli la mano –Lui è il mio Romeo!- spiegò semplicemente e ad Antonio non rimase altro che fare un sorriso e presentarsi.
- Antonio Fernandez Carriedo!-
- Matthew Williams, piacere di conoscerla. – rispose con una vocetta timida.
In quel momento suonarono alla porta. Il padrone di casa fece un cenno a tutti, invitandoli a rimanere lì dov’erano e corse ad aprire.
I quattro sentirono saluti affettuosi, baci, abbracci e…voci di bambini che schiamazzavano, correndo chissà dove.
Ed infatti, eccoli là: uno era un ragazzino moro, con gli occhiali, l’altro era più piccolino, biondo e con gli occhi azzurro ghiaccio.
Feliciano tremò leggermente: era incredibile la somiglianza che quel bambino aveva con Ludwig. Non si era mai dimenticato di lui…forse quel bambino era suo figlio. Il suo cuore prese a battere velocemente.
La delusione gli dipinse il volto quando vide arrivare i genitori dei due piccoli: non c’era alcun Ludwig, ma solo un uomo sui trentacinque dall’aspetto strano e una donna molto affascinante con i lunghi capelli castani.
Osservò l’uomo mentre si guardava attorno, poi i suoi occhi rossi incontrarono i suoi ambrati.
-Ou il est?- (dov’è ?) sentì che domandava a Francis. E fu una sorpresa quando il francese indicò proprio lui.
L’uomo sconosciuto lo guardò ancora e l’italiano non sapeva definire se fosse commosso o sorpreso.
Lo vide avvicinarsi lentamente a lui. La donna, probabilmente sua moglie, continuò a rivolgergli lo sguardo emozionata.
-F…Feliciano Vargas?- chiese l’uomo, piuttosto turbato.
Lui si limitò solo ad annuire, intimorito. Sentì addosso le occhiate di tutti, perfino quella dei bambini.
-Io Gilbert Beilschmidt. -
L’italiano sbarrò gli occhi –Il fratello di Ludwig Beilschmidt? -
Non sapeva se Gilbert capiva l’italiano. Forse sì, visto che fece un cenno di assenso con la testa. Feliciano era sempre più sorpreso.
-Come sta, Veh?-
Il tedesco sembrava sotto pressione. Abbassò lo sguardo e disse una parola in tedesco, una delle poche che Feliciano conosceva “Caput” .Morto. L’italiano non ebbe timore di piangere. Il suo amico Lud…morto?
-Ha lasciato…questo…- intervenne Gilbert. Il suo italiano era pessimo, ma almeno si faceva comprendere. Estrasse qualcosa da una borsa, un ritratto.
Feliciano lo prese con delicatezza, commosso e vide ritratto il suo amico Ludwig. Non in uniforme militare, serioso e moralista come se lo aspettava, ma sorridente, naturale.
-Te lo ha lasciato...- la voce di Gilbert lo portò alla realtà –Per farti capire che dietro il soldato c’è anche l’uomo. -
L’italiano distolse lo sguardo su Ludwig per fissare meglio suo fratello e ai suoi occhi in quel momento apparve come la persona più bella e buona del mondo.
Abbracciò il tedesco anche se lo conosceva appena e anche lui ricambiò con affetto. Entrambi erano legati in qualche modo a Lud.
Si guardarono, si sorrisero fugacemente. Poi Gilbert cercò con un occhiata Antonio e sogghignò divertito –Alla fine ti ho scovato, bastardo di un Carriedo. -
Lo spagnolo rise –Troppo tardi!-
-Ti devo molto, sul serio. Mi hai fatto trovare lui. – con la testa indico Feliciano –E poi…- guardò la moglie con tenerezza –Grazie a te ho incontrato ciò che amo di più al mondo..dopo i miei bambini…e dopo di me!-
Elizabeta alzò gli occhi al cielo: non avrebbe imparato mai!
-A proposito…- intervenne Francis –Come lo chiamerete il terzo pargolo?-
L’ungherese si portò istintivamente la mano sulla pancia appena accennata –Se è un maschietto Francis!- il francese sorrise –Se è una femminuccia…Irene!-
Perfino Matthew la guardò storto e il marito se ne accorse.
-In greco antico vuol dire “Pace”.- spiegò e sua moglie annuì.
-Mi piace!- commentò Francis con un sorriso di approvazione. Sentiva che Antonio stava traducendo la conversazione per i due italiani.
- Feliciano mi ha chiesto come si chiamano gli altri due. – affermò “il traduttore”.
- Roderich e Ludwig!- rispose Gilbert con una nota di orgoglio.
-Che schifo, affibbiare a due bambini il nome di due morti!- sbottò Lovino scontroso. Lo spagnolo rise e gli diete un buffetto sulla guancia.. Per fortuna, nessuno lo aveva capito.
- Ludwig è il biondo, suppongo…- continuò.
Elizabeta scosse il capo, leggermente divertita –Il biondo è Roderich. Purtroppo con i nomi non abbiamo fortuna. -
Feliciano continuava a fissare quel bambino, che per lui sarebbe sempre stato Lud, che guardava concentrato la televisione, accanto al fidanzato di Francis. All’improvviso quest’ultimo si girò verso tutti e urlò.
-Eih, guardate chi c’è?-
Tutti, lui compreso, si avvicinarono all’apparecchio per vedere. Sullo sfondo c’era un ragazzo molto simile a Matthew che sorrideva allegro. Una voce disse che il ragazzo ripreso era il regista più giovane che aveva ricevuto delle candidature agli Oscar, Alfred F. Jones.
-E chi l’avrebbe mai detto!- commentò Francis spiazzato.
Matthew invece sostenne che l’aveva sempre saputo che suo fratello sarebbe diventato famoso. Ne era quasi orgoglioso.
Tutti rimasero a guardare ammirati quel tizio occhialuto che ora sta salutando qualcuno in una posa eroica, tutti tranne Feliciano.
Lui si mise in disparte, per osservare meglio il ritratto di Ludwig.
-Salut!- gli sussurrò una voce dolce. Alzò lo sguardo e vide il viso abbronzato e molto carino di una ragazza. Sorrisero entrambi.
-Sei un amico di mio fratello?- domandò in francese, curiosa.
-Non capisco…- ammise vergognandosi.
La ragazza rise e la stanza parve risplendere –Io invece capisco molto bene te!-
Feliciano incurvò leggermente gli angoli della bocca –Veh! Sei molto carina. Come ti chiami? -
- Sesel Bonnefoy. E tu?-
- Feliciano Vargas .-
I due cominciarono a conversare e a lungo il tempo parve fermarsi, lo spazio farsi più stretto e l’esistenza limitarsi solo a loro due.


America, Los Angeles.
Alfred aveva fatto ciò che Arthur gli aveva consigliato: ora era riuscito a diventare quello che voleva, era andato avanti per la sua strada e forse avrebbe potuto perfino vincere qualche Oscar! Un sogno!
Il suo film aveva convinto la maggior parte della critica, anche se il merito lui lo attribuiva tutto alla sua ispirazione, Arthur.
Quanto gli mancava! Dopo di lui, nessuno e nessuna era riuscito a fargli provare le stesse sensazioni che aveva anche in sola presenza dell’inglese.
Ora aveva quasi trent’anni e in cuor suo sapeva che sarebbe rimasto scapolo per tutta la vita. Perché Arthur, il suo Arthur, era la sua metà, l’unico che aveva amato davvero.
Avrebbe dato qualunque cosa pur di rivedere il suo viso, sentire la sua voce scorbutica mentre lo riprendeva…tutto!

La ragazza di fianco a lui gli parlava in modo spedito, l’alcool le aveva sciolto la lingua e più che parlare, sembrava farneticare; rideva, si passava una mano tra i capelli, gli toccava una parte indefinita del suo corpo (la mano, la testa?) e via con un altro giro di gin.
Ne aveva decisamente abbastanza. Pagò la sua parte e, senza salutare quella specie di sgualdrina, prese la macchina e tornò a casa. La sua grande casa, troppo grande per una sola persona.
Quella sera si era guadagnato un forte mal di testa. Per giunta aveva il raffreddore e infatti il cestino del suo studio era colmo di fazzoletti usati. Per farla breve, il proverbiale buon’umore di Alfred quella sera era andato a farsi friggere!
Chiuso nel suo studio decise che avrebbe passato lì il sabato notte: niente feste mondane, niente gente falsa tra i piedi, ma soprattutto niente domande allusive circa la sua vita privata.
Si sarebbe seduto sul divano e si sarebbe messo a fantasticare sul proprio immediato futuro, illuminato dal successo.
Le sue aspettative, almeno per quella sera, furono completamente stravolte.Mentre mangiava un hamburger, il domestico bussò alla porta: era un bravo ragazzo Toris, un lituano che parlava perfettamente l’inglese.
-Cosa c’è, Toris?- chiese un po’ seccato.
-Signore, c’è un uomo al cancello…- rispose il domestico da fuori con una voce dolce.
-Non voglio vedere nessuno, per oggi. – rispose in maniera brusca.
-Oh, ma signore…lui non la vuole vedere! È un tipo strano, mi ha detto di farle sapere che è diventato Primo Ministro inglese!-
Alfred lì per lì pensò si trattasse di un pazzo che si divertiva in quel modo. Ma poi si ricordò di una cosa…una piovosa giornata del ’44.

“Quando tornerò a casa, farò il regista!”
risata “Si aspetta e spera. Voi americani, sempre con queste idee balzane in testa! Se tu diventerai regista, io verrò eletto Primo Ministro inglese!”

Si alzò dalla scrivania, impallidì. L’emozione gli impedì di formulare qualcosa di senso compiuto.
-Fallo entrare subito, Toris!- riuscì a dire alla fine. Sentì i passi del domestico allontanarsi.
Non poteva crederci! Non aveva mai messo di sperare che quel momento sarebbe arrivato, prima o poi…
-Signore…- Toris aprì la porta e fece spazio ad un uomo. Era lui, non era cambiato di una virgola. Il suo sguardo serio e altero, la sua bellezza nobile…bastò guardarlo solamente negli occhi, quei profondi occhi verdi, per capire.
E senza dire nulla, si abbracciarono.



Arthur Kirkland ha rinunciato alla sua eredità ed ha donato lo studio legale alla sorella Hanna. Non ha sposato Lily Zwigly, che durante gli anni della guerra, è stata molto vicino a Ian Kirkland, una volta tornato dalla Russia. I due sono sposati dal 1949.
Alfred F. Jones non ha vinto l’Oscar e non ha girato più un film in vita sua. Ma lui si ritiene comunque fortunato perché “Il suo Artie è tornato!”.
Antonio Fernandez Carriedo e Lovino Vargas vivono insieme a Roma. Conducono una vita tranquilla e hanno aperto un loro ristorante.
Gilbert ed Elizabeta si amano ancora, dopo tanti anni di matrimonio. Il loro terzo figlio si chiama Irene.
Francis Bonnefoy vive felicemente con sua sorella Sesel e Matthew Williams. Di tanto in tanto, Antonio, Gilbert ed Elizabeta vanno a fargli visita, ma è soprattutto Feliciano che lo va a trovare sempre. Francis però sostiene che il reale motivo sia il fascino di Sesel!
In un cimitero militare, riposa in pace Ludwig Beilschmidt. E tanti fiori colorati ricoprono la sua tomba.

Fine.





Sono commossa. Sul serio, non mi aspettavo che questa storia prima o poi finisse. È stata la mia prima long-fic, ci sono molto affezionata.
Ringrazio tutti, tutti quelli che mi hanno seguito. Siete stati voi soprattutto a darmi la voglia di continuare, siete stati soprattutto voi a migliorarmi e vi ringrazio con tutto il mio cuore.
Questa ff ha avuto molte fonti di ispirazione: le poesie di Ungaretti (Zio Unga, sei tutti noi!!), i film: "Bastardi senza gloria" di Tarantino, "Salvate il soldato Ryan" di Spielberg, "Il pianista" di Polansky, "La vita è bella" di Benigni, "Il discorso del re" di Hooper, "La leggenda del pianista sull'oceano" di Tornatore e "il Full Metal Jacket" di Kubrick (anche se parla del Vietnam...). E infine, le canzoni dei Beatles e dei Green Day!
Ringrazio chi ha messo la storia tra le seguite\preferite\ricordate, chi ha commentato, chi aspettava con ansia i capitoli…non riesco più a scrivere niente xD
Spero leggerete un’altra mia storia.
Un bacione grosso a tutti.
Lorenza

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