L'elefante a Londra di suni (/viewuser.php?uid=4130)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 1 *** 1 ***
Storiella
in pochissimi
capitoli, su un argomento che un po' mi affascina e su personaggi che
mi piacciono molto. Chiedo scusa soprattutto per le numerose licenze e
per la visione che ho, che forse si discosta dall'originale. Mi auguro
che in ogni caso la lettura non sia sgradevole.
L'elefante
a Londra
1
Si
sistemò il mantello sulle spalle con gesti distratti. La
cascata
d'ebano dei riccioli scompigliati dondolò morbida sulla sua
schiena
mentre lei allungava il braccio in avanti e socchiudeva la porta del
Paiolo Magico con trepidazione.
Era
emozionata.
Non
metteva piede a Londra da più di due anni e, tranne i suoi
genitori,
nessuno era stato avvisato del suo ritorno. In parte la sua idea di
ripartire, di lasciare la terra assolata e selvaggia dei suoi avi per
tornare a quella in cui era cresciuta, l'Inghilterra, era stata
così
repentina da non permetterle di organizzare al meglio il rimpatrio o
tanto meno di avvertire gli amici, e in parte non ne aveva avuto
voglia. Aveva sentito la necessità di un primo
ricongiungimento
intimo, solitario, col paese che le aveva dato tutto – la
nascita,
l'educazione, la cultura, la personalità, la formazione
– ma che
le aveva anche tolto molto.
Era
successo quasi improvvisamente, osservando un piccolo branco di
elefanti abbeverarsi nella luce rossastra del tramonto sulla savana.
C'era una madre che giocava col piccolo, accucciato nello stagno: lei
puntava in su la proboscide e spruzzava una doccia d'acqua sul corpo
del cucciolo, e quello agitava le orecchie e si dimenava, sembrando
quasi ridere. Era stata una scena dolcissima, di una dolcezza
naturale e per nulla artefatta che le aveva riscaldato persino i
polmoni strappandole una risata spontanea, scrosciante. In quel
momento, così, senza che succedesse nulla, si era resa conto
che non
soffriva più; o forse che il dolore non era più
la cosa
preponderante, che non occupava più tutto quello spazio
dentro di
lei.
Elaborazione
del lutto, la chiamavano gli occidentali. Equilibrio con gli spiriti,
l'aveva definito invece Mbasu, il suo cugino mago – o
sciamano,
come lo definivano i suoi compaesani muggle - regalandole il suo
sorriso un po' sdentato. La magia aveva tante forme, e si declinava
secondo diverse culture. Quella che aveva conosciuto durante il suo
viaggio africano, quella di Mbasu e dei suoi fratelli, dava un
grandissimo spazio al rapporto con la morte e con i trapassati. Forse
era stata proprio quella la sua salvezza, nel delicato e terribile
momento della sua vita in cui era arrivata lì.
“Puoi
tornare a casa, adesso,” le aveva detto lo stregone.
“Io
vivo qui,” gli aveva ricordato lei, accucciandosi davanti al
fuoco.
“Il
posto dove vivi non è per forza casa tua,” era
stata la replica
pacata di lui. “Hai vissuto tante cose in Inghilterra, alcune
belle, alcune terribili, buone magie, cattive magie. Non avere paura
di tornare.”
Lei
era rimasta in silenzio, assorta, osservando le fiamme. Poi aveva
sospirato.
“E'
stupido averne, vero?” aveva mormorato poi.
Mbasu,
sempre bonario e poco incline alle risposte precise, aveva scrollato
le spalle.
“Tu
non sei una donna paurosa.”
Lei
aveva sorriso. No, non la era.
“E
come farò senza di te?” aveva chiesto, in un
ultimo tentativo di
farsi trattenere.
Mbasu
aveva riso piano, roco.
“Mi
scriverai. I gufi possono arrivare anche qui, e ci parleremo tra le
fiamme.”
Lei
aveva annuito, unendosi sommessamente alla sua risata senza nessuna
particolare ragione. Era rimasta qualche altro minuto in silenzio
vicino a lui, osservando il fuoco, poi era tornata alla sua tenda e
si era messa a fare i bagagli. Tre giorni dopo era nella sua vecchia
stanzetta di bambina, nella vecchia Inghilterra, intenta a raccontare
le sue avventure ai genitori.
Per
i primi giorni non aveva visto nessun altro, a malapena era uscita di
casa e quasi sempre da sola, riabituandosi gradatamente a quel mondo
così diverso da quello in cui aveva trascorso quei due anni,
e anche
da quello che ricordava. Londra era tutta cambiata, ai suoi occhi,
l'aria era cambiata. Era più leggera, più
luminosa. Non si sentiva
più l'oppressione dei Dementors e la bruma era tornata
quella di
sempre.
In
ultimo, prima di scrivere ai vecchi amici o chiamarli al camino,
aveva deciso di concedersi una riconciliazione solitaria con Diagon
Alley, che aveva visto l'ultima volta come un luogo quasi deserto e
angosciante. Ci s'era preparata in una mezza mattinata, vestendosi in
modo anonimo, ripetendosi che non avrebbe incontrato nessuno che non
volesse incontrare se non fosse andata nei posti in cui non voleva
andare, e che tutt'al più si sarebbe imbattuta in conoscenti
e in
cari amici che avrebbe riabbracciato con gioia. Per questo, mentre
apriva la porta del Paiolo, le tremava un po' la mano. Di sicuro
avrebbe visto vecchi compagni di Hogwarts, forse ex professori: facce
che aveva scolpite nel cuore e nelle retine, di cui solo in quel
momento realizzava di aver sentito orribilmente la mancanza. Era
tornata viva, in ogni senso.
Sorrise,
oltrepassando la porta della locanda, e il cuore le si aprì
nel
vederla immersa nell'allegro, variopinto caos che ricordava
dall'infanzia. I suoi occhi corsero tutt'intorno con una carezza
gioiosa, sfiorando i visi tutti improvvisamente familiari. Forse
avrebbe addirittura visto qualcuno della vecchia squadra, magari
persino Harry... E poi i suoi occhi si fermarono, inchiodandosi
spalancati, e la porta dimenticata si richiuse dietro di lei mentre
registrava la presenza dell'unica persona che non si sentiva pronta
ad affrontare.
Per
un paio di secondi, individuandone la sagoma, il fiato le si
mozzò
in gola e le cedettero le ginocchia, tanto viva fu l'impressione di
aver visto un fantasma. Poi rimise a fuoco, la sua gola si schiuse
leggermente e i suoi occhi indugiarono sulla sagoma al tavolo in
fondo, solitaria, la testa leggermente china sul piatto, i capelli
fulvi e un po' scompigliati, lo sguardo basso sul tavolo, il lato del
viso segnato dallo sfregio in cui faceva bella mostra di sé
un
orecchio che non c'era più.
Espirò
con un fremito, stringendo i pugni. Aveva pensato che non l'avrebbe
incontrato, se non avesse voluto. Di tutti i maghi d'Inghilterra, si
era detta, non si sarebbe certo imbattuta suo malgrado in
quell'unico. Invece eccolo lì, sorprendente come al solito.
Pensò
di defilarsi discretamente e raggiungere il passaggio per il
quartiere dei maghi, sul retro, ma non aveva nemmeno fatto un passo
quando lui sollevò lo sguardo, vagamente, senza interesse, e
lo posò
proprio su di lei. Rimase immobile, quasi trafitta da quelle iridi
azzurrognole che sparirono un paio di volte dietro le palpebre
sbattute ripetutamente.
George
non cambiò espressione, lasciò solo ricadere
leggermente le spalle
fissandola quasi distrattamente, serio, distante. Non sorrise, lui
che una volta non smetteva mai di farlo, ma poggiò la
forchetta nel
piatto e lei lo interpretò come un segnale che la spinse
quindi ad
avvicinarsi lentamente, accennando un sorriso impacciato.
“Johnson,”
la accolse lui, atono, passandosi rapidamente il fazzoletto sulle
labbra.
“Weasley,”
rispose piano Angelina, con un cenno del capo e la voce che stentava
a venir fuori. “Buon...appetito.”
George
abbassò di nuovo lo sguardo sul piatto, osservandolo come se
si
fosse reso conto solo a quelle parole di averlo davanti.
Annuì,
assorto.
“Sì,”
commentò, quasi giungendo alla logica conclusione che
effettivamente
stava mangiando. Si schiarì la voce, tornando a guardarla
sempre con
la stessa espressione trasognata. Non disse nient'altro e Angelina si
mordicchiò un labbro, ravviandosi nervosamente una ciocca di
capelli.
Quello
lì non assomigliava a George Weasley, nemmeno un po'. George
Weasley, tanto per cominciare, sarebbe scoppiato in una chiassosa
risata d'allegria al solo vederla. Poi si sarebbe subito alzato,
spalancando le braccia per accoglierla con un abbraccio, e
probabilmente nel farlo le avrebbe appiccicato qualcosa di schifoso
ai capelli. L'avrebbe trascinata al tavolo e, nel fingersi
cavalleresco spostando la sedia per farla accomodare, sarebbe
riuscito a farla cadere per terra, e a quel punto avrebbe riso ancor
più forte. George Weasley, inoltre, aveva uno sguardo sempre
vivido
e mobile, che schizzava tutt'intorno con uno scintillio innato di
beffardia, e per farlo stare zitto bisognava per lo meno tramortirlo
a schiaffoni. Aveva un profilo un po' più affilato di quello
di
Fred, ma guance piene e non scavate come quelle del ragazzo che le
stava davanti e la guardava come se fosse stata una parete.
No,
quello non assomigliava a George Weasley. George Weasley sorrideva
sempre e la sua presenza bastava a mettere le persone di buonumore ed
a proprio agio. E decisamente, in quel momento, Angelina Johnson era
tutto fuorché a proprio agio.
“Bene,
mi...ha fatto piacere vederti,” mormorò, con una
cosa che le
iniziava a bruciare nello stomaco, facendo un passo indietro.
George
si passò la mano sulla fronte. Non rispose di nuovo, ma
annuì per
l'ennesima volta. Angelina aspettò ancora per un paio di
secondi,
casomai il suo vecchio amico George non fosse sul punto di
ricomparire e prendere il posto di quel tizio decisamente assente, ma
non successe nulla.
“Allora,
a presto,” concluse, senza poter impedire che le tremasse la
voce.
“A
presto,” rispose finalmente George, vago.
Angelina
indietreggiò ancora, prima di voltarsi e precipitarsi verso
il
retro, verso Diagon Alley. Quando ebbe oltrepassato il muro magico le
si erano già riempiti gli occhi di lacrime, e stavolta non
badò più
a quanto tutto forse allegro, brulicante e rumoroso, ma si
appoggiò
alla parete e strizzò forte le palpebre, cercando di
dominarsi. Le
sfuggì comunque un singhiozzo che non riuscì
proprio a trattenere,
senza che a lei stessa ne fosse chiaro il motivo. Forse era
perché
non si era aspettata di vedere quello che la vita aveva fatto a uno
degli esseri a lei più cari e come lo aveva mutato,
snaturandolo.
Forse perché la faccia di George era praticamente la stessa
faccia
di Fred, che lei non avrebbe mai più visto. Forse
perché fino a
quel momento non le era stato chiaro fino in fondo quanto fosse
cambiato tutto. Se n'era andata il giorno dopo il funerale, era
scappata via, più lontano possibile da tutti quei cocci.
Mentre poi
metteva a posto i propri, in Africa, non si era mai veramente
soffermata a chiedersi cosa stesse succedendo di quelli che erano
rimasti a casa, in Inghilterra. L'ultima volta che aveva visto
George, mentre il corpo di suo fratello veniva chiuso nella terra,
aveva avuto davanti un essere che non sembrava nemmeno più
umano, ma
che sembrava soltanto dolore. Ricordava che tremava, tremava
così
tanto che Lee non lo riusciva a tener fermo, e si piantava le unghie
in faccia. Non emetteva un suono – aveva urlato
così tanto, quella
notte, ad Hogwarts, che probabilmente la voce non gli sarebbe tornata
per mesi.
Anche
lei stava soffrendo in modo simile, quel giorno. Seppelliva un amore
due volte morto, per mano delle incomprensioni prima e della guerra
poi. L'ultima volta che lo aveva visto erano simili, ma adesso non
più.
Forse
piangeva perché aveva appena capito di aver abbandonato un
amico di
fronte al peggiore dei dolori, per risparmiarlo a se stessa.
Lee
fumava la pipa senza praticamente levarsela mai di bocca. Continuava
a tirare boccate nervosamente, una dietro l'altra, sebbene non avesse
affatto l'aria nervosa. Angelina ne dedusse che non fosse quindi
dovuto a un particolare stato d'animo del momento, ma che facesse
così abitualmente.
“Dovremmo
organizzare una cena,” osservò il mago,
riscuotendola dalla
contemplazione delle volute di fumo che si levavano dalla sua pipa.
“Con quelli del nostro anno, o con la squadra di Quidditch. O
entrambi.”
Lei
sorrise con approvazione, annuendo.
“Sarebbe
fantastico,” commentò.
“Saranno
tutti contenti di rivederti,” continuò Lee,
sorridendo con
naturalezza. “Anche se mai quanto me. Dovevi dirmelo prima,
che
saresti arrivata! Ero rimasto alla tua ultima lettera, quella sulla
scampagnata nel deserto col nonnetto che parlava Serpentese. Non
pensavo certo che nel frattempo fossi tornata qui. Ehi, lo sai di
Wood, no? È in lizza per la Pluffa d'Oro,
quest'anno.”
Angelina
ridacchiò rassicurata, scoprendo il suo amico animato dalla
stessa
inarrestabile parlantina un po' logorroica di sempre. Aveva
temuto che magari anche
lui, come George, le sarebbe sembrato un altro. Invece Lee era solo
un po' più adulto, forse un po' meno esuberante, ma pur
sempre se
stesso. Da che si erano trovati, dandosi appuntamento lì in
gelateria, le sembrava di essersi tuffata nella sua vita di prima.
In tutta quell'ora, non avevano fatto che parlottare e ridacchiare.
Lui le aveva già ripetuto quattro volte che avrebbe dovuto
avvisarlo
per tempo del suo ritorno, le aveva già raccontato di Harry
e Ginny,
di Ron e Hermione Granger e del suo lavoro alla radio. Non aveva
citato George, e nemmeno Angelina l'aveva fatto. Si era limitata a
parlare di Mbasu e dell'Africa, anche se c'erano talmente tante cose
da dire che le mancavano le parole.
“Speriamo
che la vinca,” commentò schietta.
Lee
annuì, compito.
“Immagino
che altrimenti la delusione lo stroncherebbe. Allora, stasera ceni
con Katie?” domandò ancora, ricaricando la pipa
con gesti sicuri.
Angelina
annuì, sciogliendosi in un sorriso. Era così
contenta di vedere la
sua amica che si sentiva emozionata come se avesse dovuto uscire con
il ragazzo dei suoi sogni.
“Vuoi
unirti a noi?” gli propose.
Lee
scosse la testa, fissando il fumo.
“Non
credo di sentirmela di intromettermi tra due femmine che si
ritrovano,” rispose ironico. “E poi ho un
impegno.”
“Galante?”
s'informò lei, con un sogghigno malizioso.
Lee
sbuffò, ilare.
“Magari,
Johnson. Da quel punto di vista, credimi, ho poco da stare
allegro,”
commentò drammaticamente. Poi si schiarì la voce,
vagamente
impacciato. “No, ceno in Gemelleria. Ho giurato a George che
non
l'avrei costretto a uscire di casa, stasera, e noi ci vediamo sempre
il mercoledì sera. Qualche volta anche il sabato.”
“Oh,”
mormorò Angelina, irrigidendosi impercettibilmente.
Lee
tossicchiò leggermente, dopo aver prodotto un cerchio di
fumo.
“Forse
potresti vedere anche lui...” ipotizzò, senza
troppa convinzione.
“L'ho
visto. Ieri. L'ho incontrato per caso al Paiolo,”
annunciò
frettolosamente lei, lisciandosi le pieghe della gonna.
“Oh,”
fece Lee, raddrizzandosi sulla sedia. “Ah,
sì?” Tacque per
qualche secondo, prima di espellere un sorriso decisamente meno
naturale dei precedenti. “Come...l'hai trovato?”
Angelina
riportò lo sguardo sul suo viso per un secondo, prima di
spostarlo
nuovamente.
“Bene,”
rispose, con troppa convinzione. Si mordicchiò l'interno
della
guancia, deglutendo con uno scatto. Nel silenzio prolungato che
seguì, emise uno sbuffo rassegnato. “E' stato
orribile. Non è
che...cioè, non è successo niente. Appunto. Se ne
stava lì seduto
e mi guardava come se fossi stata una zuppiera.”
Lee
emise un espiro prolungato.
“So
cosa intendi,” commentò a mezza voce, prima di
allungarsi
stancamente contro lo schienale. “Ho pensato di parlartene
cento
volte, per lettera, ma ho sempre finito per dirmi che non fosse il
caso. Per la verità, ultimamente mi sembrava non lo fosse
davvero.
Voglio dire, lo so che è strano. Ma se non altro ogni tanto
esce di
casa, e ha ricominciato a lavorare un po' in negozio.”
Angelina
aggrottò la fronte.
“Un
po'?” ripeté.
Lee
si lasciò andare ad una smorfia amara.
“Ufficialmente
Ron è subentrato come socio, al posto di Fred. In pratica
è lui che
manda avanti la baracca. La filiale di Hogsmeade è stata
affidata in
gestione a Luna Lovegood e no, non ho idea del perché. Fino
a
qualche mese fa George non ci metteva piede, in nessuno dei due
negozi. Adesso, ogni tanto sta un po' alla cassa, così
Ronald può
tirare il fiato e fare qualche commissione.”
Angelina
abbassò sulle proprie mani, raccolte in grembo, uno sguardo
desolato. Quella brutta sensazione allo stomaco tornò a
tormentarla,
pungente, dolorosa.
“...Poi,
sai, per più di un anno non c'è stato modo di
farlo uscire di casa.
Ci ho provato in tutti i modi, stavo uscendo pazzo. Tutta la famiglia
stava andando giù di testa, ecco la verità. Molly
Weasley ha
rischiato una depressione che non te la racconto, e se non fosse
stato per Harry non so come ne sarebbe uscita la piccola Ginny.
George non mangiava neanche. Pensavo...ero sicuro che si sarebbe
lasciato morire.”
Angelina
prese un respiro che tremava, sforzandosi per impedire che le
salissero le lacrime agli occhi.
“Avresti
davvero dovuto scrivermi.”
“Certo,
grande idea. Come se non fosse stato il tuo ragazzo quello che era
morto... Scusa, Johnson,” si affrettò ad
aggiungere il mago,
sospirando.
“Non
era più il mio ragazzo,” mormorò lei.
“Sì,
già, da quanto, due settimane? Seriamente, cosa potevi farci
tu? E
comunque penso che...niente.”
Il
ragazzo s'ammutolì d'improvviso, interrompendo la cascatella
di
parole repentinamente. Angelina si accigliò, attenta.
“Pensi
che?” lo spronò.
“Ma
niente,” fece Lee, agitando una mano con noncuranza.
“Jordan...”
“Oh,
senti, non prenderla come una cosa personale. Io non ti giudico, ok?
Hai fatto quello che sentivi, ed è la cosa
giusta,” iniziò lui
pacatamente, sollevando le mani per metterle davanti a sé.
“Però,
ecco... Eravamo in quattro, da anni. Io, Fred, George e te. E lo
sappiamo tutti e due che non ero io il tuo amico più caro,
nella
faccenda. Il tuo ragazzo e il tuo migliore amico, i gemelli Weasley.
Beh, Johnson, mi sa che, per il tuo migliore amico, la tua scomparsa
non ha reso le cose più semplici. E io credo che ce l'abbia
con te,
anche se suppongo non ci abbia mai nemmeno veramente pensato. Non
pensa mai a niente, quello, tranne che al fatto che Fred è
morto. E
a proposito, è per questo che ha sempre quell'aria
stonata.”
Non
aveva parlato con aggressività, né con rimprovero
– non sarebbe
stato da lui, comunque – ma Angelina rimase comunque ferma,
immobile, con un groppo in gola, gli occhi lucidi. Solo dopo svariati
secondi, percependo lo sguardo circospetto e un po colpevole
dell'amico, si risolse ad annuire.
“E'
solo che...” mormorò. “La guerra era
finita, non c'era più
bisogno di resistere e io...io avevo bisogno di
andare...via...”
“Non
ti devi giustificare,” la tranquillizzò Lee,
bonario. “Non ti
sto dicendo che devi farlo. È solo che non... Non lo so,
forse è
vero, avrei dovuto dirti di scrivergli. Ma poi ho pensato che
già
così era abbastanza complicato e che magari a lui non
avrebbe
nemmeno...che ne so, Angelina,” sbuffò infine.
“E' un tale
casino. A volte mi chiedo se cambi qualcosa che io ci sia o no. Che
chiunque ci sia o no. Mi sembra che a George non faccia differenza.
Non c'è Fred, ed è questo che conta. Il resto
sono briciole.”
Angelina
serrò le labbra, con un sorriso mesto.
“Come
sei riuscito... Come riesci a sopportarlo?”
Lee
ridacchiò amaro.
“Lavoro
come un pazzo. Mi riempio le giornate di impegni e faccio finta
che i gemelli non mi manchino. A volte me lo impongo così
tanto che
quasi quasi ci credo anche. Fingo di non ricordarmi nemmeno più
di quando li ho conosciuti e di quant'è stato
divertente.” Fece
una pausa, ricaricando di nuovo la pipa con una mezza risata
gutturale. “Erano i miei amici. Facevamo tutto insieme, e per
la
maggior parte del tempo lo facevamo sghignazzando come pazzi, e il
mondo era tutto nostro. Pensavamo di essere immortali e immutabili.
Beh, ci sbagliavamo. Potevamo morire e potevamo cambiare, e sono
successe entrambe le cose.”
La
sua voce si spense gravemente, accompagnata da un cenno lapidario.
Angelina
sospirò profondamente.
“Lo
so. Lo pensavamo tutti. A volta ancora...è come se non
potessi
crederci. Era la persona più viva del mondo.” Si
morse le labbra,
perché non tremassero. “Sapevo benissimo che
chiunque poteva
morire da un momento all'altro, in quella guerra. Chiunque, ma non
Fred. O George. Loro no.”
“E
invece...” mormorò Lee, prima di riscuotersi.
“Comunque sia,
ormai è successo, e non serve a nessuno stare a
ripensarci.”
“Tu
riesci a non farlo?”
Lui
si strinse nelle spalle.
“Devo.
Cerco di dare l'esempio, perché non posso certo aspettarmi
che me lo
dia George. Ho sempre questa sensazione che lui stia cercando di
andare avanti solo perché lo vogliamo noi, passivamente. Ma
per
quanto tempo si può andare avanti solo per gli altri, se non
si ha
una ragione propria per continuare?” Sbuffò e
storse lentamente la
testa, e il collo, come cercando di rilassare muscoli. “Tu
non ci
riesci, a non pensarci?” riprese, ritornando sulle parole
precedenti.
Angelina
ristette, assorta.
“Prima
di tornare qui,” mormorò pensosa, “era
diventato quasi facile.
Era tutto così diverso, e lontano. Quando sono arrivata a
Londra e
l'ho vista così bella, così rinata, mi
è sembrato quasi naturale.
Non pensare che non m'importasse di lui, non è
così,” si affrettò
a precisare. “Ma è vero, bisogna guardare avanti.
Però poi...”
Lee
emise una sorta di lieve grugnito.
“Poi
hai incontrato George. E ci hai ripensato.”
Angelina
scosse la testa.
“Non
è che vedendo lui abbia ripensato a Fred. È che
mi sono resa
conto... Possiamo prendere un altro gelato?” s'interruppe,
pratica.
Lee
sorrise.
“Volentieri,”
confermò. “Aspetta.”
Ritornò
dopo nemmeno due minuti, con due nuove coppette stracolme, per
sedersi ancora di fronte a lei.
“Allora?”
Angelina
aveva rimuginato, aspettandolo, ed era riuscita a sbrogliare una
parte delle proprie sensazioni.
“Voglio
dire che perdere una persona cara è terribile. Sempre.
Ma...io non
penso che fossimo più innamorati. Non facevano che litigare
e...lasciarci, poi tornare, poi... Lo so, lo so, c'era la guerra ed
era un disastro. Ma io penso che...” Ingollò una
bella cucchiaiata
di gelato, rinfrancandosi. “Eravamo così giovani,
no?” continuò,
agitando il cucchiaino. “Con due caratteri così
intraprendenti, e
forti. Avevamo bisogno di scoprire altre cose. Lui doveva fare
l'eroe...e lo ha fatto,” precisò gravemente, con
orgoglio. “Per
Godric, se lo ha fatto. E io dovevo vedere un po' di mondo. Tutto
questo non...non dipendeva da me. Ma quando ho visto George ieri ho
capito di aver trascurato qualcosa di importante. Avrei dovuto fare
qualcosa per lui, hai ragione, e questo sì, dipende da
me.”
Lee
si strinse nelle spalle.
“Capisco,”
affermò. “E quindi?”
Angelina
scrollò la testa.
“E
quindi voglio farlo adesso.”
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Capitolo 2 *** II. ***
II
Ron
sbadigliò stancamente, prima di mettersi a ricontare
l'incasso per
la terza volta consecutiva. Continuava ad esserci uno scarto di due o
tre galeoni. Per quanto lo riguardava strettamente, quello scarto
avrebbe potuto rimanere lì anche fino alla fine dei tempi,
ma
dubitava che quelli delle tasse avrebbero condiviso la sua opinione.
Agitò
la bacchetta sulle banconote, pigramente, mentre quelle riprendevano
a scorrere rapide. L'orologio a muro segnava le sette e quaranta,
quindi sua sorella e Harry lo stavano già aspettando e
sicuramente
commentavano il suo ritardo. Fortunatamente, Hermione sarebbe uscita
dal lavoro ancor più tardi di lui.
Un
leggero bussare, oltre la serranda già mezza abbassata,
attirò
improvvisamente la sua attenzione. Ron aggrottò la fronte e
arricciò
il naso, pronto a congedare gentilmente qualunque cliente
ritardatario o a schiantarlo in caso d'insistenza. Si diresse verso
l'ingresso abbandonando a se stessi i soldi, che quindi avrebbe
dovuto ricontare ancora, e puntò la bacchetta con un
mormorio sulla
serranda per farla sollevare. Dopo una giornata lavorativa di dodici
ore, l'ultima cosa di cui aveva voglia era fare sforzi inutili.
La
sagometta che gli comparve davanti, al di là della soglia,
lo fece
rimanere per qualche secondo con la bocca spalancata come un sarago.
Una spumosa testolina bruna e ricciuta, una silhouette solida e
minuta e due occhioni bruni, vivaci e ridenti. Angelina Johnson, l'ex
ragazza di Fred, gli sorrideva sventolando la mano scura.
Ron
dovette deglutire un paio di volte, spaesato, mentre l'immagine mai
sopita del fratello perduto gli si affacciava in mente. Per un attimo
sembrò assolutamente non sapere cosa fare e rimase
lì imbambolato,
prima di realizzare che la porta era chiusa dall'interno e che dunque
stava assomigliando in modo preoccupante a un coglione.
“ Alohomora,”
mormorò debolmente, prima di aprirle.
“ Angelina,”
esordì impacciato. Pensò che lei dovesse aver
capito che lui
riconoscendola aveva pensato a Fred e che non le avesse aperto
perché
non la voleva vedere, e sentì un calore ben noto risalire
verso il
collo e le orecchie.
“ Weasley
è il nostro re!” esclamò invece lei,
sorridendogli con calore.
“Ciao, Ron, quanto tempo.”
Ron
aprì la bocca, la richiuse, annuì e poi
cercò di sorrise.
“ Già,”
commentò, prima di riuscire finalmente a sporgersi verso di
lei per
abbracciarla brevemente. “Ti trovo, ehm, molto
bene.”
“ Anche
tu non sei malaccio,” replicò lei.
“Così sei diventato anche tu
uno spietato commerciante, mh?”
Ron
annuì, emettendo una risatina un po' incerta ma abbastanza
naturale.
“ Stavo
chiudendo,” fece vago, indicando quasi a mo' di scusa il
negozio in
penombra.
“ Oh,
non fa niente,” trillò lei, gettando intorno solo
un'occhiata
vaga. “Anzi, non ti volevo disturbare.”
“ Nessun
disturbo,” affermò automaticamente Ron, memore
delle terrificanti
lezioni di cavalleria di sua madre. “Non sapevo che fossi
tornata.”
Angelina
annuì, facendo scorrere distrattamente le dita su un
ripiano. Solo
in quel momento, finalmente, Ron si accorse di quanto sembrava
nervosa. La cosa, dal momento che lo era anche lui, finì
paradossalmente per tranquillizzarlo.
“ Sono
tornata la scorsa settimana. Io e Lee vorremmo organizzare una cena
della squadra.”
“ Splendido!”
commentò lui, come se fosse stata la migliore notizia mai
giunta
alle sue orecchie. Si schiarì la gola, tentando di darsi un
contegno. “Lo dirò ad Harry. Sarà
contento.”
Lei
sorrise nuovamente, vaga, continuando a studiare la penombra del
negozio.
“ E...”
iniziò, esitando. “Io stavo, ecco... George
è qui?”
Ron
non ne fu molto sorpreso. Una volta, prima, Angelina e George erano
stati molto amici. Ma non si vedevano da quand'era morto Fred, per
quanto ne sapeva lui, e gli sorse spontaneo domandarsi come George
avrebbe preso quell'improvvisata. Dopotutto, nello stato in cui era,
sarebbe stato imprudente da parte di un fratello affezionato
sottoporlo a shock evitabili.
“ Lui
sa che sei qui?” si risolse a chiedere, sentendosi comunque
un
ficcanaso.
Angelina
spalancò appena gli occhi.
“ Qui
in negozio no. Qui a Londra, sì. Ci siamo visti l'altro
giorno.”
Ron
sospirò di sollievo. Bene, dunque. George e Angelina si
erano già
incontrati e parlati, e lui non sembrava nemmeno aver accusato il
colpo di trovarsi improvvisamente vicino qualcuno di tanto legato a
Fred. Sorrise, più spontaneo.
“ Sali
pure, allora.”
Lei
sorrise di nuovo, assentì di slancio e si diresse senza
indugio
verso la porta sul retro, aprendola con sicurezza.
“ Buonanotte,”
lo salutò, prima di sparire al di là di essa.
“ Ciao,”
rispose Ron, richiudendo l'ingresso.
Angelina
lo guardò ancora per un secondo, quindi si voltò
verso le scale
che si arrampicavano al piano di sopra e prese un profondo sospiro,
osservando la finestra illuminata. Ne prese un altro, iniziando a
salire, e un terzo a metà scala. Quando fu arrivata davanti
alla
porta dovette appoggiarsi per un attimo alla parete per farsi
coraggio. Non aveva pensato veramente a qualcosa da dire. Non aveva
idea di come sarebbe stato interagire con quel George. Forse avrebbe
sbagliato tutto.
Gemette
sommessamente, prima di accigliarsi leggermente e scuotere la testa
con decisione, quindi bussò sicura.
“ Sì,
Ron, buona serata.”
Quel
saluto pronunciato sbrigativamente la lasciò così
interdetta che
per un paio di secondi non poté far altro che osservare la
maniglia,
vacua. Poi le sue labbra si arricciarono ed espulsero le parole quasi
da sole.
“ E'
tutto quello che hai da dire a tuo fratello dopo che ha passato tutto
il giorno a lavorare per te?” osservò, molto
più severamente di
quanto avrebbe voluto.
All'interno
ci fu un breve silenzio, e poi uno stridio di sedia spostata.
“ ...Mamma?”
ipotizzò George, perplesso.
Angelina
ridacchiò sommessamente.
“ No,
e nemmeno Ron,” rispose ilare. “Non ho neanche i
capelli rossi.”
“ Johnson?”
tentò di nuovo lui riconoscendo la voce, mentre la serratura
scattava e la porta si socchiudeva sul suo viso smunto.
“ Per
tutte le Pluffe, George, sono davvero l'unica persona che conosci che
non abbia i capelli rossi?” domandò lei, cercando
di avere un'aria
allegra, naturale e soprattutto non nervosa, con l'unico risultato di
aver già iniziato a straparlare.
“ ...Johnson,”
constatò lui, piatto.
“ Ciao,
George,” rispose lei.
Il
mago la osservò per qualche secondo meditabondo,
aggrottò
leggermente la fronte, quasi ricordandosi di qualcosa di importante,
poi le rivolse un'altra occhiata vitrea.
Angelina
deglutì con un certo sforzo.
“ Posso...entrare?”
domandò flebilmente.
George
si riscosse leggermente. Sembrò esitare per un istante,
quindi
spalancò l'uscio e le fece cenno di accomodarsi.
Angelina
si fece avanti ansiosamente, dicendosi corrucciata che l'inizio non era
stato dei
migliori. Gettando un'occhiata intorno, suppose che il seguito non
sarebbe stato molto più felice.
Non
lo si poteva nemmeno chiamare disordine; piuttosto, degrado. Le cose
erano appoggiate qua e là con noncuranza, senza il minimo
criterio.
Non c'era vera e propria sporcizia ma un'incuria radicata e
doppiamente triste.
Se
la ricordava bene, la Gemelleria dei tempi andati. Un nido
confusionario e colorato su cui regnava un perpetuo caos creativo di
invenzioni e stramberie di ogni genere. Dolcetti ovunque –
alcuni
dei quali potenzialmente letali – libri, fotografie,
giocattoli,
bibite e soprattutto facce amiche.
Quella
casa sembrava così triste da sembrare un altro luogo.
L'impressione
generica era che fosse stata abbandonata a se stessa da qualcuno che
non la abitava mai. Invece, a quanto le aveva detto Lee, George non
usciva quasi mai da lì dentro.
Decise
di soprassedere, ignorando la fitta di malinconia e di tristezza che
l'aveva invasa.
“ Spero
di non disturbare. Forse eri impegnato...”
George
era rimasto fermo accanto alla porta. Scrollò le spalle.
“ No.”
Angelina
annuì lentamente, grattandosi una guancia. Senza
scoraggiarsi,
accennò un sorriso.
“ Che
stavi facendo?”
George
si guardò intorno stralunato, e lei lo imitò.
Lì c'era la sedia su
cui doveva essere seduto fino a pochi istanti prima e davanti, il
nulla. Niente. Non stava facendo assolutamente niente, tranne
probabilmente pensare al fratello.
“ Stavo
per farmi un tè,” mormorò vago.
“ Con
mezzo cucchiaino di miele, grazie,” fece Angelina di getto,
senza
pensarci. “Cioè...” gemette
nervosamente. “Non intendevo, nel
senso...”
“ Va
bene,” la interruppe lui, scuotendo le spalle. Si trattenne
ancora
per un istante, poi si avvicinò ai fornelli puntando
pigramente la
bacchetta.
Angelina
osservò ancora per qualche secondo la stanza, prima di
decidersi a
sedersi davanti al tavolo mentre lui metteva a scaldare l'acqua.
“ Sono
passata qui davanti,” azzardò, tanto per non
rimanere zitta a
guardarlo. “Ho pensato che magari eri in casa, e siccome
l'altro
giorno al Paiolo ero di fretta...” aggiunse, preferendo
glissare
sul fatto che lui non le avesse praticamente rivolto la parola. Cosa
che, peraltro, stava continuando a fare.
George,
come al solito, annuì.
Angelina
sospirò rumorosamente, osservandosi le dita delle mani
intrecciate.
Le stava venendo voglia di piangere.
Se
Fred fosse stato lì, in quel momento, ci sarebbero state
risate.
Molte risate. George probabilmente avrebbe preparato un dolce con
dentro qualche esplosivo, rischiando brillantemente di ammazzare se
stesso e loro, poi se ne sarebbe andato in negozio lasciandoli soli,
come faceva spesso. Oppure sarebbe stato Fred a scendere per dargli
il cambio, e loro due sarebbero rimasti lì a mangiare e
chiacchierare di tutto e niente, come facevano sempre. Non se ne
sarebbero rimasti zitti in quel modo orribile. George avrebbe sorriso
supplicandola di fare qualcosa per quei capelli a cespuglio e
l'avrebbe presa in giro fino a costringerla a cercare di
affatturarlo, salvo scoprire che le aveva fregato la bacchetta.
“ Hai...dei
dolci?” chiese, e non voleva ma le si ruppe la voce,
facendola
sentire ancora più stupida e fuori luogo.
“ No,”
rispose George, dandole le spalle mentre metteva in tè in
infusione.
“ Ah,”
mormorò lei, passandosi il dorso della mano sugli occhi
umidi.
Ovviamente no. Quello non era George e quella non era la Gemelleria,
quello era un posto che ci assomigliava senza più nessuna
delle
persone di prima.
“ Sei
venuta per rivedere casa di Fred?”
La
voce di lui era distaccata. Angelina socchiude appena la bocca,
spiazzata da quella domanda a bruciapelo.
Naturalmente
ci aveva pensato, che venire lì significava tornare da Fred.
E
sebbene una parte di lei sentisse quasi il richiamo dei luoghi dove
era stata innamorata, dove poteva ancora pensare di avvertire quel
che rimaneva della presenza luminosa di Fred Weasley, dall'altro lato
il pensiero
di rimettere piede in quel posto l'aveva spaventata. Non voleva
ripensare a Fred, non voleva quel dolore. Non lo voleva rivivere. Le
mancava, ma se lo voleva dimenticare.
Ma
non era per nessuna di quelle ragioni che si trovava lì. Era
venuta
alla Gemelleria per vedere George Weasley, il suo amico.
Inspirò
lungamente, con la fronte corrugata, già sul punto di
parlare quando
notò il piccolo particolare stonato, osservando la mano di
George
che reggeva una tazza. Le nocche delle dita erano bianchissime.
Stava
stringendo quella tazza con tanta forza che si sarebbe rotta da un
momento all'altro.
Angelina
sbuffò dolcemente.
“ Sono
venuta per te, Weas.”
Lo
chiamò nel modo in cui si rivolgeva a lui da ragazzina,
qualche anno
prima, quando era la ragazza di Fred. Vide la nuca di lui muoversi su
e giù brevemente, in un rapido assenso. Poi lo
sentì inspirare
rumorosamente e non osò dire niente altro mentre lui
riempiva le
tazze e si voltava verso di lei, si avvicinava al tavolo e le posava
la bevanda davanti.
“ Adesso
bevi il tuo tè. Poi torna da dove sei venuta.” Lo
disse
tranquillamente, senza sembrare né offeso né
arrabbiato, con una
calma quasi innaturale. “Non è necessario. Non
c'è posto qui, per
nessuno.”
Angelina
rimase senza fiato, lo sguardo puntato sulla tazza e il cuore in
gola. Le tremò la mano poggiata sul tavolo, ma la strinse
per
tenerla ferma.
“ Lee
ci viene tutte le settimane,” obiettò sullo stesso
tono, quasi
stordita.
“ Lee
non se n'è mai andato,” ribatté
stancamente George. “Non è un
intruso.”
Angelina
sbuffò dal naso.
“ Io
sì?” chiese, sarcastica.
George
non rispose, accontentandosi di stringersi nelle spalle.
“ Non
puoi capire.”
“ Spiegami,”
protestò lei, con veemenza. “Sono...ero tua amica!
Lo so che non
avrei dovuto essere assente per tutto questo tempo, ma sono ancora
tua amica. Voglio esserlo. Voglio capire.”
George
si limitò a guardarla in silenzio.
Angelina
soffocò un singhiozzo, serrando forte la mascella. Si
alzò in piedi
di scatto, rabbiosa, spingendo via bruscamente la sedia.
Riallacciò
il mantello e spalancò la porta, voltandosi indietro solo
dopo
averla già oltrepassata.
“ A
Fred piacevano molto i pancakes con il miele. Tu li hai sempre
preferiti con lo sciroppo d'acero. Anche io,”
affermò con un
tremito, gli occhi gonfi di lacrime. “Una mattina a casa dei
tuoi
avete fatto uno scherzo a Molly e vi siete scambiati. Ma io ti ho
riconosciuto per i pancakes con lo sciroppo.”
Deglutì con un
tremito incontrollato. “Ti ho riconosciuto perché
io e te
dividevamo spesso i pancakes, per questo lo sapevo.”
“ E'
vero,” ammise George, con una breve smorfia malinconica.
Angelina
annuì dolorosamente.
“ Mi
piaceva dividere i pancakes con il mio migliore amico, a colazione.
Era un buon modo di iniziare la giornata.”
Distolse
lo sguardo mentre finiva di parlare e si voltò, sbattendosi
dietro
la porta prima di mettersi a correre giù per le scale senza
più
trattenere le lacrime.
Sembrava
molto diverso dall'ultima volta che l'aveva visto. Era cresciuto, per
cominciare, il che risultava comunque moderatamente normale
considerando che erano trascorsi due anni: i lineamenti del viso si
erano fatti più netti, maturi, i movimenti avevano una
qualità più
definita. Ma c'era qualcos'altro; forse il modo in cui stava seduto
tenendo con naturalezza le spalle erette, o un'indefinibile sfumatura
decisa della voce mentre parlava. O ancora la qualità dei
suoi
gesti, misurati, più precisi. Sembrava una di quelle
piantine nate
nel deserto, o in mezzo alle pietre di un muro, di quelle che
impiegano una vita a riuscire a radicarsi nel terreno ostile e per un
sacco di tempo rimangono mezze soffocate, fini e aride. Poi, quando
la radice spacca la pietra e la pianta riesce a prendere linfa
finalmente libera nel terreno, sboccia in un'esplosione di foglie,
gemme e fioriture.
Harry
aveva spaccato la pietra che lo soffocava. Adesso sembrava un
ventenne solido, pacificamente tranquillo e con un suo posto
adeguatamente ritagliato nel mondo che lo circondava. Ma dopo qualche
minuto di conversazione Angelina colse il modo in cui i suoi occhi
verdi continuavano a saettare intorno esplorativi e tirò il
fiato,
sollevata. Non era cambiato al punto da non conservare un po' del suo
ben noto disagio nei confronti dell'universo tutt'intorno: aveva
semplicemente imparato a contenerlo.
Era
ancora Harry Potter, ma un Harry Potter maturato, andato oltre. Il
sorriso che le aleggiava sulle labbra si fece più aperto,
sinceramente allegro.
“ ...
Di Wood. Insomma, sono andato a vedere qualche partita, anche se non
ho molto tempo libero. È sempre il solito fissato,
comunque.”
Angelina
ridacchiò, annuendo.
“ Ti
ricordi quella volta che ci fece alzare alle cinque per rivedere gli
schemi prima della finale contro Slytherin?”
domandò ilare.
“ Se
me lo ricordo?” commentò lui ironico.
“Non sono del tutto sicuro
di averglielo ancora perdonato.”
Angelina
rise più apertamente.
“ Katie
e io gli facevamo il verso,” rammentò divertita.
“Quando ci dava
le spalle.”
Harry
sbuffò con un sorriso.
“ George
Weasley era capace di imitare la sua voce così bene che una
volta mi
ha quasi fatto venire un collasso sbucandomi alle spalle ed
esclamando rabbiosamente che non avrei dovuto essere in sala comune
ma in campo ad allenarmi. Fred stava crepando dal ridere due metri
più in là. Scusami.”
Disse
l'ultima parola senza nemmeno prendere fiato, come se fosse stata la
naturale continuazione della frase, e il suo sguardo si fece cauto e
un po' imbarazzato.
Il
sorriso di Angelina si congelò appena, ma poi lei scosse la
testa.
“ Non
ce n'è motivo. Mi fa piacere che ne parli
normalmente,” rispose,
onesta.
Harry
scosse le spalle, rilassandosi.
“ Se
non parlassi più di tutte le persone che ho perso in guerra
esaurirei metà dei miei argomenti di
conversazione,” osservò con
tono vago. “Sarebbe un bel problema, nelle serate
ufficiali,”
aggiunse con una smorfia.
Angelina
annuì divertita, prendendo fiato, ed esitò per
qualche secondo
prima di porre la domanda che più le premeva.
“ Tu...tu
lo vedi spesso?” mormorò.
Harry
sollevò un sopracciglio.
“ George?”
chiese, senza aspettare la sua risposta per scrollare le spalle.
“Qualche volta lo vado a trovare in Gemelleria. E mi capita
di
incrociarlo alla Tana, ovviamente.”
Non
aggiunse altro e lei si schiarì la voce incerta, abbassando
lo
sguardo sulla tazza di tè e poi sul tavolino dei Tre Manici.
Harry
si sedette meglio, in un fruscio del mantello.
“ Ron
mi ha detto che, ehm, sei passata. L'altra sera,”
osservò
impacciato.
Angelina
annuì, non sorrideva più.
“ Non
è stato molto...gentile,” borbottò con
una smorfia di
circostanza.
Harry
scosse la testa.
“ George non
è mai molto gentile. Io ci ho fatto l'abitudine. Voglio
dire, non è
come se nessuno fosse mai stato poco gentile con me,”
osservò,
spalancando gli occhi con eloquenza. “Certe volte
è anche
spiacevole. Bisogna imparare a prenderlo per il verso giusto,
immagino.”
Angelina
lo guardò attentamente, deglutendo un po' d'ansia.
“ Credevo
fosse...perché sono io. Sai...”
bofonchiò.
Harry
diniegò.
“ Credo
di no,” affermò. “Lo fa con tutti. O
almeno con me. In realtà
qualche volta mi sono chiesto se mi odia, ma Ginny dice che sono
paranoico in questo genere di cose e che la devo piantare.”
Angelina
ridacchiò di nuovo.
“ State
bene?” chiese, cambiando discorso.
Harry
annuì con un sorriso.
“ Certo.
Sì. Voglio chiederle di sposarmi.”
Lei
sgranò gli occhi lasciandosi sfuggire un piccolo applauso
deliziato.
“ Ma
è fantastico, Harry!”
Lui
ridacchiò, imbarazzato, e per la prima volta da quando si
erano
incontrati si appiattì la frangia sulla fronte in quel suo
gesto
inconscio.
“ Grazie.”
Angelina
prese fiato, meditabonda.
“ Non
avevo mai pensato a quanto le cose sarebbero cambiate in mia
assenza,” osservò assorta, aggrottando la fronte.
“Naturalmente
sono cambiata anche io. L'Africa è stata un'esperienza
così
intensa...” mormorò.
Harry
annuì.
“ Da
quel che mi hai detto prima viene voglia di andarci,”
commentò
gentilmente. “Cioè, mi piacerebbe viaggiare. Se
non stessi
lavorando così tanto al Ministero, intendo,”
chiosò sbuffando.
“ Sì.
Sì, è stato incredibile,”
concordò Angelina. “Ma quando
pensavo a qui... E' strano. Intendo dire, sapevo che le cose
sarebbero cambiate, per forza, ma non ci pensavo realmente.”
“ Suppongo
sia normale,” concesse benevolmente Harry.
Lei
annuì, sospirando.
“ E'
come se fossi sfasata,” concluse.
“ A
me succede da sempre, e senza essermi mosso di un passo,”
osservò
scherzosamente Harry, con tatto inaspettato. Angelina lo
premiò con
un risolino. “Comunque è solo questione di qualche
tempo, per
riprendere l'abitudine. A proposito, la cena. Lee me ne ha parlato.
Oliver sarà a Londra il prossimo fine settimana,”
continuò lui.
“Pensavamo a venerdì sera.”
Angelina
annuì con entusiasmo.
“ Per
me va benissimo,” commentò.
Harry
assentì.
“ Ron
cercherà di portare George. È possibile che ci
riesca, ma non ci
metterei la mano sul fuoco. A parte questo, dovresti parlarne con
Katie,” suggerì, lanciando un'occhiata
all'orologio. “E io devo
proprio tornare in ufficio.”
“ D'accordo.
Mi ha fatto molto piacere vederti, Harry.”
“ Anche
a me. Bentornata a casa.”
Lui
si alzò con un sorriso di congedo, le rivolse un ultimo
cenno di
saluto e si diresse a pagare prima che Angelina potesse provare a
impedirglielo. Lei lo salutò ancora mentre il ragazzo
usciva,
salutato da alcuni altri avventori cui rispose con garbata ritrosia,
poi tirò un sospiro giocherellando col cucchiaino.
Quel
che le aveva detto Harry l'aveva in parte rassicurata. Era abbastanza
sicura che lui non si fosse mai fatto sbattere fuori da George
senza tanti complimenti com'era successo a lei, ma almeno sapeva che
le reazioni esagerate e sopra le righe non dovevano essere qualcosa
riservato a lei sola.
Se
almeno fosse venuto a cena, pensò speranzosa. A quel punto
avrebbe provato
un nuovo approccio, magari più cauto e distante. Forse era
stato uno
shock, per il gemello rimasto, ritrovarsela di nuovo davanti come se
niente fosse. Poteva aver sbagliato, pensando di cercare di appianare
lo strappo in modo veloce e diretto. Forse la fiducia di qualcuno che
soffre è qualcosa che va riconquistato gradatamente, senza
pressioni, aspettando il tempo necessario.
Adesso,
se non altro, George sapeva che quella era la sua intenzione. Non le
restava che scoprire se esisteva la possibilità che lui le
permettesse di rientrare nel suo stesso universo.
____________________________________________
Passo falso per Angelina... Sono dell'idea che gestire rapporti umani
delicati sia una delle cose più difficili del mondo. Non
sbagliare, seppure in buona fede, è pressoché
impossibile. A volte la premura e la buona volontà ci
spingono a decisioni frettolose e gesti prematuri, ma resto dell'idea
che quando l'intenzione è buona si tratti raramente di veri
e propri errori. Le definirei piuttosto inavvedutezze.
Qui vediamo Ron ed Harry. Spero non sia troppo sballati rispetto all'IC.
Alla prossima.
|
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Capitolo 3 *** 3. ***
Lentamente,
ma la
storia arriva. E' solo che la sistemo nei ritagli di ritagli di ritagli
di tempo e, beh, non sono granché strutturata nella mia
suddivisione
degli impegni.
Qui ci troviamo alle prese con una bella
arrabbiatura, una serie di supposizioni, una ferma ed "eroica" presa di
posizione ed un album di nostalgia.
3.
Ron
ci stava mettendo una vita.
Una
volta George era capace di passare nove ore di fila alla cassa dei
Tiri Vispi senza annoiarsi per un solo istante. Arrivavano le sette e
mezza di sera senza che nemmeno se ne accorgesse.
Adesso
gli bastava stare lì per dieci minuti, dover rispondere
gentilmente
alle domande dei clienti e sorridere loro con cortesia, per avere
voglia di vomitare o di scagliare maledizioni tutt'intorno.
Quel
mattino se ne stava impalato dietro il banco, con un piede che
tamburellava lievemente per terra a velocità più
che sostenuta,
allo stesso ritmo con cui lui mordicchiava l'interno del proprio
labbro con accanimento e lanciava di tanto in tanto qualche mezzo
sorriso più torvo che amichevole alla clientela. Quando Ron
gli
aveva chiesto di sostituirlo, prima di uscire, si era poi soffermato
a guardarlo dalla soglia con vaga perplessità, stupito di
quell'atteggiamento nervoso da parte della bolla di apatia che era
diventato suo fratello.
Nei
quattro giorni precedenti, in effetti, George non era sceso in
negozio nemmeno per errore. Non sapeva che idea si fosse fatto Ron in
merito: forse una ricaduta – ricaduta dove, poi? Lui non era
uscito
da niente e perciò non poteva ricaderci dentro, al limite
poteva
giusto sprofondare ulteriormente – oppure si era detto che
aveva un
po' di luna di traverso, abbastanza plausibile visti gli sbalzi
d'umore improvvisi – sebbene sempre compresi tra l'apatico e
il
disperato – da lui manifestati in quei due anni. La terza
possibilità era che Ron avesse effettivamente imbroccato
l'ipotesi
corretta, cioè che la visita di Angelina Johnson non fosse
stata
propriamente un toccasana e, con insperata saggezza o più
naturale
istinto di conservazione, si fosse esentato dal fare domande.
Mezz'ora prima si era limitato a bussargli alla porta affermando che
c'era un problema con un fornitore e doveva assolutamente uscire un
attimo: ed ora eccolo scomparso, lasciandolo in mano a scoccianti
clienti rumorosi, inutilmente allegri e fastidiosamente ridanciani.
Una
volta veder ridere le persone, scoprirle allegre e provocare la loro
ilarità era stato uno dei grandi piaceri della vita di
George
Weasley. Ce n'erano molte, per la verità, di cose che George
Weasley
aveva adorato, ma quel riuscire a divertire il prossimo era stata una
delle più soddisfacenti. I Tiri Vispi erano nati per quella
ragione
e nei primi tempi dell'esistenza del negozio – quando aveva
avuto
due proprietari – l'ilarità della clientela era
stata la ragione
principale per cui fosse bello passare la giornata lì
dentro.
Adesso, potendo, George avrebbe volentieri strappato i denti a tutta
quella gente che esibiva irragionevoli sorrisi e ghigni entusiasti.
Fece
un cenno meccanico affermativo ad una giovane mamma che si dirigeva
verso di lui con l'aria di voler palesemente chiedere informazioni.
“Mi
dica, signora,” le propose laconico, senza la
benché minima
traccia di disponibilità.
La
donna dovette sembrare un po' destabilizzata dal suo tono di voce
disinteressato, perché esitò per qualche secondo.
Nella mente di
George si formulò l'idea vaga di sorriderle incoraggiante,
ma il
solo pensiero gli faceva quasi venire da urlare.
“Io...
Mio figlio mi ha detto che vendete delle nuove Puffole, diverse, e
sa... Ne voleva una.”
George
la osservò vacua. Una Puffola. C'era gente che riusciva
ancora a
considerare importante una Puffola. Gente che non aveva capito un
emerito accidente di quel che era successo negli ultimi dieci anni.
Gente che non aveva sepolto nessuno. Gente che avrebbe volentieri
preso a calci, e chissenefrega che non fosse colpa loro se erano
stati fortunati – e lui no.
“Le
Puffole sono nell'espositore in fondo al negozio sulla sinistra. Le
ultime arrivate sono quelle nella parte destra, divise dalle
altre,”
annunciò sbrigativo, senza minimamente mostrare l'intenzione
di
farle strada.
“Ah.
Va...va bene. Grazie,” mormorò infatti la donna,
prima di
voltargli le spalle con un sorriso smorto. George seguì
senza
badarvi la sua traiettoria verso le Puffole, arricciando le labbra.
Non vedeva l'ora che Ron tornasse, così non avrebbe dovuto
sopportare ancora quella gente che di fatto non sopportava, con cui
era indistintamente furioso. Perché era così che
aveva passato gli
ultimi giorni, lui che da mesi non riusciva praticamente a provare
nient'altro che una piatta, soffocante e tormentosa nostalgia: da
quando Angelina era entrata in Gemelleria, poche sere prima, George
era disperatamente incazzato. Era così furibondo che gli
tremavano
le ginocchia, e non sapeva nemmeno il perché. Continuava a
girare
per casa come un pazzoide, i pugni serrati, una rabbia inarrestabile
che rotolava nello stomaco, e guardava le foto di Fred. Pensava che
il suo gemello era morto ingiustamente, e si arrabbiava da urlare
–
era sempre stato arrabbiato per la morte di Fred, insieme all'essere
disfatto dal dolore per la sua perdita, ma questa volta era solo una
marea di collera violenta a riempirlo - e Angelina Johnson che se ne
veniva lì come se niente fosse – ed era
così furioso che avrebbe
preso a testate una finestra fino a spaccarla – e Lee non gli
aveva
nemmeno detto niente per avvisarlo – e gli veniva voglia di
dar
fuoco a qualcuno da quant'era incazzato. Odiava tutti quanti. Fred
era morto e per quanto lo riguardava l'intera specie umana poteva
estinguersi tra atroci sofferenze. Possibilmente il più in
fretta
possibile.
Andava
a ondate. Ogni tanto quell'arrabbiatura nuova scemava e si spegneva
nello solito, uggioso sfinimento. Lo riprendeva l'apatia, tornava la
sensazione dell'annegamento, il panico immotivato del dover
sopravvivere malgrado l'assenza Fred – qualcosa di
impossibile, di
troppo brutto per accettarlo. George si sentiva quasi meglio, quando
ricadeva nel suo stato abituale: calmo, silenzioso, si rannicchiava a
letto e rimaneva lì ad aspettare che le ore passassero senza
più
nessun pensiero preponderante: ma bastava che sentisse un rumore
–
cosa decisamente frequente, a Diagon Alley e particolarmente sopra
quel deposito di esplosivi legali che era i Tiri Vispi – e il
sussulto lo ributtava nell'ira. Faceva paura. Impossibile smettere.
Ron
scelse quell'esatto istante per rispuntare dalla porta del negozio,
trafelato e un po' inquieto.
“T-tutto
bene?” boccheggiò, raggiungendo il fratello dietro
il banco.
“No,
è esplosa una parete,” replicò George
infastidito, sensazione
amplificata dal successivo modo in cui Ron, sgranati gli occhi, si
guardava intorno allarmato. “Certo che va tutto bene, cosa
vuoi che
succeda? Questo è un negozio, non un dannato campo di
battaglia,”
aggiunse con un tono che voleva essere distaccato e che
suonò più
che altro aggressivo.
Ron
spalancò la bocca, esterrefatto, ma George non gli diede il
tempo di
formulare una risposta: voltò i tacchi e lo
piantò lì,
tornandosene nel beato isolamento del suo alloggio al piano di sopra.
Hermione,
naturalmente, era già seduta al tavolino quando Harry,
spalancata la
porta dei Tre Manici, si guardò intorno alla ricerca della
sua testa
ricciuta. Stava sfogliando un libro spesso e apparentemente vecchio
con espressione accigliata, e il sorriso che Harry lanciò
nella sua
direzione passò interamente inosservato – da parte
di lei, ma non
delle altre due ragazze sulla stessa traiettoria, che sorrisero
entrambe in risposta. Harry si schiarì la voce e si
incamminò verso
l'amica con espressione di circostanza finché non le ebbe
oltrepassate entrambe.
“Ciao,
Hermione,” esordì, appoggiando la mano sulla sedia
di fronte a
quella di lei.
“Harry!”
trasalì la ragazza, prima di ricambiare il suo sorriso
chiudendo il
manuale. “Non ti ho sentito arrivare.”
Lui
ridacchiò, sedendosi.
“Me
n'ero accorto. Ron?”
Hermione
emise uno sbuffo.
“Immagino
stia chiudendo al cassa o qualcosa del genere,”
spiegò, spiccia.
Harry
scrollò la testa, rubandole un sorso di Burrobirra. L'amica
gli
scoccò una scherzosa occhiataccia cui lui replicò
con un'angelica
alzata di spalle.
“Che
c'è? Non sono stato io,” si difese, spalancando
gli occhi in un
modo che ricordava un po' Luna.
Hermione
levò lo sguardo al cielo, con un'espressione di
condiscendenza un
po' guastata dal suo evidente sorriso represso.
“Naturalmente,
Harry,” concordò scettica. “E io non ti
sto affatto per
scagliare una fattura,” aggiunse, con una smorfia troppo poco
minacciosa.
“Non...lo
faresti mai,” ribatté Harry, con l'aria di non
essere affatto
sicuro di quel che stava dicendo. Ridacchiarono entrambi.
“Mh,”
aggiunse, intanto che faceva segno a Rosmerta di portare un boccale
anche a lui, “Ron ti ha detto della cena?”
Hermione
annuì noncurante.
“Dopodomani,
andrete a cena con il resto della squadra di Quidditch, non si sa
ancora dove... cercherò di farmene una ragione,”
scandì in rapida
successione, come se fosse stata una battuta malamente mandata a
memoria. Sospirò. “Ron me l'avrà
ripetuto sei volte.”
Harry
rise piano.
“Credi
che ne abbia già parlato con George?”
s'informò Harry cauto.
Hermione
spalancò gli occhi con un'eloquenza di cui gli sfuggirono i
sottintesi.
“Non
sono sicura che lo farà.”
“Perché
non dovrebbe?” chiese Harry perplesso, aggrottando la fronte.
Hermione
socchiuse le labbra per rispondere, ma all'ultimo sorrise in
direzione della porta ed Harry si voltò meccanicamente
indietro alla
ricerca della sagoma del suo migliore amico, che trovò
puntualmente
svettante sopra le teste degli altri avventori.
“Ciao,
ragazzi,” esclamò Ron raggiungendoli, si
chinò a schioccare un
bacio sulla fronte ad Hermione e strinse cameratesco la mano di
Harry. “Passato una buona giornata?”
“Non
male, se non consideriamo che mi è esplosa la scrivania.
Incidentalmente,” si affrettò a precisare Harry
cogliendo lo
sguardo sospettoso di Ron che, dai tempi della guerra, aveva
sviluppato la tendenza a vedere cospirazioni ovunque.
“Anche
io tutto a posto,” confermò Hermione.
“In negozio?”
Ron
storse il naso, scontento.
“Strano,”
borbottò.
“Chi?”
chiese Harry perplesso, mentre Hermione si corrucciava pensosa.
“George,”
sospirò Ron.
“Oh,
gli hai detto della cena?” ripeté Harry di getto.
“Amico,
io a quella cena non ce lo porto.”
L'altro
lo osservò allibito, con vaga contrarietà, e si
voltò in cerca
dell'appoggio di Hermione, che pareva però
straordinariamente
moderata, cauta.
“Cosa
succede con George?” chiese Harry prendendo un respiro
profondo.
Training autogeno, la via dell'eroe.
Ron
scosse il capo, intanto che Rosmerta, saggiamente, veleggiava verso
di loro con non una ma due burrobirre.
“E'
nervoso. Lo sento che cammina avanti e indietro sopra la mia testa
per tutto il giorno. Di solito non si alzava quasi dal
letto,”
sbuffò Ron, scambiandosi con Hermione un'occhiata che
lasciava
intendere come avessero già affrontato l'argomento. Poi
tornò a
voltarsi verso Harry. “E ti dirò, ieri l'ho
lasciato un momento da
solo in negozio e quando sono tornato mi ha dato una rispostaccia
che non me l'aspettavo,” continuò a spiegare,
ingoiando un
sorsata di bevanda ben abbondante, indice sicuro della sua
agitazione.
“Molto
cattiva?” s'informò Harry perplesso. Non era
abitudine di George
investire le proprie energie nel comunicare con la gente, nemmeno con
cattiveria. In effetti, non le impiegava per niente.
“Molto
lunga,” lo contraddisse Ron sintetico.
Hermione
si schiarì la voce.
“A
quanto pare era una frase articolata,” intervenne esplicativa, in
soccorso
dell'amico. “Soggetto, verbo, complementi vari e alcuni segni
d'interpunzione diversificati,” precisò gravemente.
Harry
si domandò fuggevolmente se fosse normale, una conversazione
del
genere fra tre ventenni. Si rispose che no, non la era, e la cosa non
gli creava il minimo problema. Non più.
“Ma
dai,” commentò sorpreso. Le ultime volte che aveva
parlato con
George, sempre che “parlato” fosse il corretto
lemma verbale da
utilizzare in quel caso, si era trattato di brevi e impacciati
monologhi – suoi – seguiti da impercettibili
monosillabi – di
George.
“Sì.
E poi è agitato. Batte i piedi per terra, si morde le
guance. Ieri
si è strappato una pellicina dall'unghia,”
continuò Ron con aria
molto seria. “Penso non stia molto bene.”
Quella
frase conclusiva fu seguita da un duplice sguardo vitreo,
assolutamente privo di qualunque barlume d'espressione da parte di
Harry e Hermione. Ron arrossì dalle parti della collottola.
“Intendo,
peggio del solito,” puntualizzò.
“Ah,
ecco,” commentò Harry a mezza voce, mentre
Hermione scrollava
pazientemente i riccioli crespi. “E' successo
qualcosa?”
“Io
penso che sia per via di Angelina Johnson,”
annunciò Hermione con
sicurezza. “E' andata a trovarlo a casa l'altra sera e,
indovina, è
proprio da allora che si comporta così,”
proseguì, osservando il
viso di Ron con attenzione.
Il
minore dei fratelli Weasley annuì con uno sbuffo.
“Probabilmente
non avrei dovuto farla salire. Ma lei mi ha detto che si erano
già
visti e...”
“Perché
avrebbe mentito? L'avrà incontrato. A volte George mangia
fuori,”
intervenne Harry, cui l'ex compagna di squadra sembrava tutto
fuorché
una contafrottole. Era decisamente una ragazza troppo forte per aver
bisogno di nascondersi dietro le bugie.
“Sì,
ma vederla in casa loro...” insistette nervosamente Ron.
“Sua,”
lo corresse Harry, fermo. “Quella è casa sua. Come
Grimmauld Place
è casa mia. Ci vive da solo, o mi sbaglio?”
Harry
lo sapeva, cosa significasse convivere con il lutto. Sapeva benissimo
quante balle ci si possa raccontare e quanti palliativi si
inventino per non affrontare il dolore. Per esempio tuttora,
trascorsi quattro anni, non era del tutto convinto che cadendo oltre
il Velo si morisse veramente. Aveva semplicemente
deciso di
smettere di chiederselo. Persino dopo aver visto lo spettro di
Sirius una impercettibile vocina nella sua testa aveva ipotizzato che
magari era diverso da Lily e James, magari era solo incastrato,
magari c'erano forme diverse di manifestazioni psichiche, magari...
Tutte sciocchezze. Era pericoloso rimanere troppo attaccati ai morti.
Bisognava cercare la forza di guardare oltre, anche quando sembrava
di morire a propria volta per il dolore.
Certo,
quello di George era un caso particolare. Aveva perso il proprio
gemello.
“Lo
so che ci vive da solo, ma abitavano lì insieme e lei era la
ragazza
di Fred!” si spazientì Ron, nervoso.
“Non
pensi che potrebbe addirittura fargli bene?”
domandò Hermione con
lentezza, meditabonda. Prese fiato sistemandosi i capelli, mentre
coglieva i loro sguardi posarsi su di lei. “Era sua amica,
no? E
lui ha reagito. È la prima volta da un sacco di tempo che
George
reagisce a qualcosa,” rammentò loro, lucida e
razionale.
“Probabilmente
lo ha sconvolto. Ti rendi conto che potrebbe peggiorare
ancora?” la
riprese il fidanzato.
“Peggiorare
rispetto a cosa?” chiese Harry, più propenso ad
appoggiare la tesi
di lei che quella di lui per esperienza personale.
“Beh,
ultimamente stava meglio,” bofonchiò Ron senza
troppa convinzione.
“Usciva, ogni tanto.”
“Probabilmente
perché il suo stesso corpo si annoia,”
ipotizzò Hermione,
mesta. “Non parla mai con nessuno. Sembra che non si accorga
nemmeno di cosa lo circonda.”
“Sai
che l'ho notato anch'io, questo?” intervenne Harry di
slancio,
annuendo. “Sembra che non sia lì. È
vero che esce un pochino, ma
sembra... sembra diventare come...trasparente.”
Ron
sembrava sempre più inquieto. Voltava gli occhi dall'una
all'altro,
quasi febbrilmente.
“E
quindi?” azzardò.
“Forse
ne ha bisogno, di un trauma,” disse Hermione, cauta.
“Forse gli
farebbe bene.”
Ron
s'incupì ulteriormente, amareggiato.
“Non
accetterà mai di venire a cena. Prima avrei potuto sperare
di
sfruttare la sua indifferenza per trascinarmelo dietro, ma vi
assicuro... Ieri in negozio pensavo avrebbe ammazzato
qualcuno.”
“Va
bene, ragioniamo con calma,” disse Harry seriamente,
strappando ad
Hermione un sorriso di approvazione. “Cerchiamo di
fare un
inventario dei mezzi a nostra disposizione e di stabilire la migliore
strategia d'azione.”
Musica,
per le orecchie della sua migliore amica. Naturalmente, Harry era
maturato, era diventato l'Eroe che tutti si aspettavano, il salvatore
del mondo magico, ed era determinato a risolvere le cose.
Fu
in quello stesso momento che il suddetto salvatore si voltò
verso di
lei, con l'aria più fiduciosa del mondo, guardandola con
evidente
aspettativa.
“Hermione?”
domandò spronandola.
Oh,
beh... Questa, poi.
La
foto era luminosa come lo sono soltanto i ricordi migliori. Le
quattro sagome sembravano annegate nella luce del sole, circondate da
raggi graziosi che facevano quasi rilucere il muretto di Hogmeade su
cui erano appollaiate, fianco a fianco, abbracciate. Lee,
all'estremità destra, ridacchiava sventolando la sciarpa di
Gryffindor mezza attorcigliata intorno al suo collo. George accanto a
lui omaggiava l'obiettivo di smorfie particolarmente riuscite. Poi
c'era lei, che sorrideva allegramente alzando gli occhi al cielo e
cercava di tenere fermo sia lui che Fred, che dall'altro lato
sghignazzava beatamente e sembrava molto impegnato, insieme al
gemello, nel tentativo di farla cadere per terra. Un pomeriggio di
gita ad Hogsmeade, al tempo della scuola; quando lei e Fred uscivano
insieme da poco.
Angelina
guardava la fotografia con la mano premuta sulla bocca, gli occhi
umidi di lacrime.
L'istantanea
successiva ritraeva lei e il suo ragazzo da soli, mentre
passeggiavano mano nella mano sul sentiero del villaggio. Ricordava
il momento in cui George l'aveva scattata, proclamando che era una
prova per documentare la loro melensaggine. Soffocò un
singhiozzo.
La
foto successiva nel suo mazzetto di ricordi datava uno o due anni
dopo: una merenda alla Tana nel momento in cui la situazione del
mondo di fuori cominciava seriamente a precipitare. C'erano loro tre
seduti a tavola davanti a tazze di tè fumante: George
sbranava un
muffin con aria estremamente concentrata e un mezzo sorriso di pura
soddisfazione, mentre Fred la stuzzicava a colpi di cucchiaino. Lei
stava ridendo. Rideva sempre, con quei due: non divertirsi di
qualunque cosa era impossibile, in loro presenza, perché il
loro
entusiasmo per la vita in tutte le sue forme risultava sempre
altamente contagioso.
Un'altra
foto, un altro pezzo: George seduto sul bordo del letto, con la testa
fasciata all'altezza dell'orecchio mozzo, e lei che gli porgeva un
vassoio colmo di biscotti. Questa l'aveva scattata Fred.
Angelina
ricordò com'era stato orrendamente preoccupato: aveva visto
benissimo che il fratello era vivo, non era ferito mortalmente
eppure, per tutto il tempo che erano durate la visita e la
medicazione di George, Fred non aveva fatto altro che scalpitare come
un ossesso, con le lacrime agli occhi. Sembrava quasi che fosse lui a
soffrire il male di quella ferita dolorosa. Poi, appena lo avevano
lasciato entrare a vedere il fratello, la sua faccia si era
trasformata e Fred aveva cominciato a ridere e scherzare, immerso
nella necessità di fare tutto quanto era in suo potere per
alleviare
la sofferenza del gemello e distrarlo. Era così che
succedeva: se
uno dei due aveva un qualunque cruccio, l'altro raddoppiava se stesso
per colmare lo squilibrio, e in quel modo erano quasi invincibili.
Quasi.
“Oh,
Fred!” singhiozzò Angelina a mezza voce, la mano
ancora davanti al
viso. “Perché sei finito sotto quel maledetto
muro?” domandò al
vuoto, la voce rotta dall'emozione.
Scoppiò
in un breve pianto, stringendo le sue povere fotografie in grembo.
Ci
aveva messo due anni per elaborare quella perdita, ma adesso che
avrebbe potuto piangerla liberamente, senza più il peso
opprimente
della ferita che andava cicatrizzando, non riusciva a smettere di
pensare a tutto il resto, a quel che la morte di Fred aveva
provocato. Lee e la sua malsana iperattività, lei e la sua
lunga
fuga, e George. George che era un morto che camminava, che non aveva
più spazio per nessuno. Era così triste che le
mancava il fiato per
smettere di singhiozzare, mentre sperimentava con più
chiarezza il
dolore pungente del senso di colpa.
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Capitolo 4 *** 4. ***
4.
“Ricapitoliamo.”
“Ronald...”
sospirò Hermione.
“Seriamente!
Guarda che non è mica semplice!”
“Per
tutte le...le Pluffe, Ronald! E' tuo fratello, non è mica
un...un
ragno gigante!”
Harry
seguiva quell'acceso battibecco con interesse. A quelle ultime parole
si sporse leggermente alla propria destra, piegando il capo verso il
basso.
“Era
un'esclamazione sportiva, hai sentito?”
mormorò
nell'orecchio di Ginny. “Dev'essere davvero
esasperata,”
concluse, strappandole una sommessa risata.
Ron
gettò loro un'occhiata supplichevole, in cerca d'aiuto, ma
Harry si
strinse nelle spalle per significare che non ci poteva far nulla:
Hermione aveva decretato che sarebbe stato demenziale lanciarsi in
chissà quale piano arzigogolato per convincere George a fare
una
cosa senza avergliela nemmeno proposta prima. Aveva stabilito,
quindi, che la cosa più logica da fare fosse cominciare
semplicemente con l'invitarlo alla cena e vedere come avrebbe
reagito.
Ron
non l'aveva presa molto bene.
Aveva
preteso un comitato di supporto, per cominciare, e visto che loro
quattro erano il cuore pulsante dell'Esercito di Silente, insieme
nella buona e nella cattiva sorte eccetera, sia la sua ragazza che i
futuri coniugi Potter avevano acconsentito a quel suo capriccio senza
troppe proteste, nonostante l'espressione stizzita che Hermione
conservava stampata in faccia. Sapevano che George era un problema
delicato, per Ron – lo era per chiunque, ma per lui in
particolare,
dato che era quello che vi aveva più strettamente a che fare.
“Mi
aspettate qui,” ribadì lui per la trentesima
volta, sul punto di
imboccare le scale verso l'appartamento del fratello.
“E
dove vuoi che andiamo...” bofonchiò Hermione.
“Non
preoccuparti, oh eroico fratello, attenderemo il tuo ritorno
sventolando stendardi di Gryffindor,” lo
incoraggiò scherzosamente
Ginny.
“...Per
celebrare il tuo straordinario coraggio,” concluse Harry,
annuendo
solenne.
Ron
storse il naso, diede uno sbuffo e s'incamminò su per i
gradini
bofonchiando qualcosa come “bell'amico”. Si
piantò davanti alla
porta e bussò con decisione patibolare.
“Ciao
Ron, buona serata,” lo raggiunse la voce sbrigativa di George
dall'interno.
“Sì,
ehm, sto entrando,” borbottò Ron, prima di girare
prudentemente la
maniglia. Attese per un paio di secondi ma, siccome il fratello non
protestava, si decise ad entrare in casa.
In
Gemelleria c'era ancor più casino del solito,
constatò guardandosi
intorno. Tra le altre cose, vecchie pergamene scarabocchiate e libri
di scuola avevano fatto la loro ricomparsa in bella vista.
“Ehi,”
salutò incerto, chiudendosi la porta alle spalle.
“Ehi,”
rispose George, appoggiato al fornello con una noncuranza che
sembrava più che altro nevrastenia mal travestita.
Non
aggiunse nulla, ovviamente, e Ron si schiarì la voce.
“Beh,
spero di non disturbare,” disse, prendendo tempo.
George
non si sognò nemmeno di rispondergli che no, non disturbava
affatto,
ma fece soltanto spallucce.
“Che
c'è?” domandò senza interesse.
Ron
buttò fuori l'aria, rassegnato.
“E'
per la cena,” gemette, più che parlare.
“La cena della squadra
di Quidditch,” precisò, alla muta domanda espressa
dagli occhi
diffidenti del fratello.
“Di
cosa parli?”
Ron
si strinse nelle spalle.
“E'
solo una cena della squadra di Quidditch di Gryffindor. La stiamo
organizzando per domani sera. Un'idea di Harry,”
puntualizzò,
nella speranza di mettere il progetto in una miglior luce facendo il
nome dell'amico.
George
lo osservò senza il benché minimo entusiasmo
– ovviamente. Non
emise verbo, e dopo un breve silenzio Ron si sentì costretto
a
continuare.
“Lee
si è occupato della parte pratica. Ha scelto il ristorante
e...e ha
avvisato tutti. Verrà persino Oliver. Ci saremo proprio
tutti
quanti,” continuò a blaterare, sperando di
riuscire in qualche
modo a ridestare il suo interesse. Ce la fece, ma non nel modo che
aveva sperato.
George
infatti aggrottò la fronte, con una scintilla di collera
nello
sguardo.
“Ma
davvero?” commentò, con un'allegria fittizia e
malevola. “Questa
sì che è una sorpresa meravigliosa,
Ron,” aggiunse, prima di voltarsi verso la stanza vuota,
nello
sgomento del fratello, per alzare la voce. “Ehi! Andiamo a
cena
fuori con la squadra, domani sera!” annunciò.
Apparentemente,
rivolto alla porta della camera da letto.
Ron
deglutì in un silenzio pesante e scomodo.
George
finse di ascoltare attentamente, percependo solo, ovviamente, quello
stesso silenzio. Poi si strinse nelle spalle, con aria fatalista.
“Forse
non vuole venire,” ipotizzò caustico.
Rom
emise un altro respiro lungo, più tremulo, dominando un
qualcosa che
gli pungeva la gola e gli faceva venir voglia di prendere a calci una
sedia, o magari la gamba del tavolo.
“Ok,
messaggio ricevuto,” replicò, a disagio e un po'
rabbioso. “Tutti
quanti quelli che sono ancora vivi.” Strinse le labbra.
“Non è
divertente,” aggiunse a mezza voce.
“No,
non lo è,” confermò George brusco, a
voce alta e fremente. “E
sai cos'altro non è divertente? La tua stupida cena. Sai
cosa ne
penso de...” continuò, innervosendosi
ulteriormente.
“No!”
lo interruppe Ron con un accesso di collera, che riuscì a
dominare
al prezzo di un violento sforzo di controllo di sé
– cui
decisamente per natura non era portato. “Non so cosa sia
questa
nuova faccenda dell'incazzarsi, ma non ti lascerò spingermi
in
mezzo. Se vuoi arrabbiarti lo puoi fare con qualcun altro,”
continuò, respirando velocemente. “Non ci vuoi
venire? Non
venirci. Come ti pare. Ora vado, mi stanno aspettando.”
Non
aggiunse altro e non aspettò assolutamente la risposta: si
scaraventò fuori dalla porta con la massima urgenza e se la
chiuse
alle spalle con un tonfo, balzando giù per gli scalini a due
a due
con un diavolo per capello. Certe volte George lo faceva andare
talmente fuori da ogni grazia che l'avrebbe preso a botte fino a
lasciarlo incosciente, ma era chiaro che se avesse dato sfogo alla
collera non avrebbe ottenuto nessun risultato a parte forse
allontanarlo: e Ron sapeva di essere letteralmente vitale
nell'esistenza attuale del fratello.
Ginny,
davanti a Harry e Hermione, lo aspettava col sorriso sulle labbra. Le
bastò guardarlo in faccia per un istante perché
quello rapidamente
svanisse, lasciando il posto a un'espressione mesta di rammarico.
“Già,”
mormorò soltanto, prima di voltarsi per allontanarsi.
Hermione
lanciò al fidanzato un'occhiata tenera e consolatoria,
mentre Harry
prima osservava lui e poi faceva per seguire Ginny. Mentre Hermione
abbracciava brevemente Ron, però, Harry colse i suoi occhi
puntarsi
verso di lui e poi il capo ricciuto dell'amica si piegò a
puntare le
scale. Harry si morse le labbra, annuì e saltellò
verso il piano
superiore in uno slancio del suo consueto ardimento – senza
avere
la più vaga e remota idea, come al solito, di come procedere
dopo
essersi buttato.
“Har...”
lo trattenne Ginny con voce rotta.
“Permesso,”
disse lui, aprendo la porta. George gli scagliò un'occhiata
decisamente poco accogliente.
“Non
ti ci mettere an...”
“No,”
lo trattenne Harry con tono controllato. “Volevo solo
avvisarti che
passerò domani sera, prima di andare alla cena. Sai, nel
caso ci
pensassi su e cambiassi idea.”
“Non
ho bisogno di pensarci.”
Harry
annuì. Era quel genere di situazione che lo faceva
arrabbiare. Non
con George, nella fattispecie, quanto con tutte le cose che erano
successe, in generale.
“Forse
invece dovresti.”
George
levò lo sguardo al cielo, con uno sbuffo spossato.
“Non
mi interessa la cena.”
“Lo
so. Però tuo fratello lavora otto ore al giorno nel tuo
negozio e non si lamenta mai, e tua sorella ha passato tutta la vita
a farsi consolare da te e Fred quando era giù di morale e
ora non
può più, ma sono due anni che non ti chiede
niente. Mai. E loro
vogliono che tu ci sia.” Harry inspirò e
deglutì pesantemente,
recuperando l'aria. Non era mai stato molto bravo a parlare, ma col
tempo stava accettando che ci sono momenti in cui si è
costretti a
farlo.
“Non
mi fare la predica, Harry!”
Il
tono di voce di George tornò a farsi rabbioso. Harry
aggrottò la
fronte.
“Sì,
avanti, dai. Prenditela con me, perché è con me
che devi avercela.
Sono stato io,”
continuò,
puntandosi i pugni sul petto. “Io
vi ho portati tutti a Hogwarts, quella notte. Io ci ho portato i
Death Eaters e Voldemort. È successo tutto per me.”
“Non...”
George annaspò nervosamente.
“Sì,
invece,” scandì Harry deciso. “Sono
morte molte persone. Le
conoscevo tutte. Le conoscevi tutte anche tu.” Fece una
pausa,
durante la quale George non lo interruppe, limitandosi a fissarlo con
sguardo tormentato. “Volevo un bene fottuto a molte di loro
ed è
stato un incubo, ogni tanto lo è ancora. Qualche volta di
notte mi
sveglio cercando di urlare, ma non mi esce la voce. Ti succede
mai?”
mormorò ancora.
Gli
occhi azzurri di George schizzarono a lato. Non rispose né
sì né
no e strinse le labbra.
Harry
diede un sospiro di stanchezza. Esprimere certe cose, parlare chiaro
lo stremava.
“Pensala
come ti pare. È solo una stupida cena e starai male
lì come se
rimanessi a casa o in qualunque altro posto. Non sei tenuto a
divertirti. Ma Ron e Ginny chiedono solo che tu sia lì, e se
lo
meritano.” Rilassò le braccia contratte, e la sua
mascella serrata
si distese. “Passo domani,” concluse, prima di
andarsene com'era
arrivato.
“Siamo
in anticipo di ore,”
sospirò Katie, lisciandosi meccanicamente la coda di capelli.
“Sì,
e allora?” replicò placidamente Lee, sbuffando una
nuvoletta di
fumo a forma di bicchiere. “Non c'è scritto su
nessuna pergamena
che non possiamo vederci prima di cena per un bicchierino,
Bell.”
Angelina
ridacchiò della sua performance fumogena. Gettò
un'occhiata vaga e
molto affettuosa alle due figure che avanzavano lungo il sentiero di
Hogsmeade accanto a lei. Lee, alto e slanciato in una veste scura e
piuttosto elegante, che portava con tanta noncuranza, abbinata a
scarpe e cappello molto più più dimessi, da
risultare perfettamente
naturale. Gli anni, le sembrò, erano gentili con Lee, che
adesso era
un bell'uomo giovane e piuttosto avvenente, con i fittissimi riccioli
corti ammassati sulla testa. La pipa che teneva perennemente in mano
o più spesso tra le labbra gli dava un'aria un po' dandy e
l'insieme
risultava decisamente affascinante. Sembrava il più inglese
dei
giovane maghi inglesi di Gryffindor, il che le risultò
piuttosto
buffo, con quella sua pelle ancor più scura di quella di lei.
Katie
invece era ancor più pallida e minuta di come la ricordasse.
I suoi
occhioni nocciola spiccavano su un viso fine e con la pelle
così
chiara che s'intravedeva il reticolo delle venuzze intorno al suo
naso, guardandola da vicino. Aveva una sua grazia delicata e un
sorriso ricco, sincero come quello dei bambini, ma non era quel che
si potesse definire una bellezza – né, a
guardarla, la si sarebbe
ritenuta una giocatrice di Quidditch credibile, nonostante il suo
sicuro talento. Pareva una cosetta indifesa e Angelina si disse che
forse era per quella ragione che Lee le stava costantemente intorno
–
o in mezzo ai piedi, come precisava rassegnata Katie – sin da
quando la maledizione della collana l'aveva quasi uccisa, ai tempi
della scuola.
Per
lei era una buona amica, anche se le preferiva la più
spigliata
Alicia. Era quest'ultima che considerava la propria amica
più cara,
sebbene i suoi rapporti con le altre ragazze fossero sempre stati
molto meno spontanei di quelli con i maschi. L'adolescenza di
Angelina era stata colonizzata dalle sghignazzate e dalle battute, a
volte di cattivo gusto, del manipolo di Gryffindor più
incontenibili
della scuola: i gemelli Weasley e Lee Jordan. E per lei era stato
molto più normale lanciarsi in una sfida di Tarantallegre
con George
– eccellente nel campo – che in confidenze intime
con le compagne
di dormitorio.
“Tre
Manici?” propose dubbiosa Katie, osservando il tramonto sulla
montagna.
Lee
storse il naso, prima di voltarsi verso Angelina. Aggrottò
appena la
fronte, in attesa del cenno affermativo che lei si affrettò
a fare.
“Testa
di Porco,” decise lui con aria soddisfatta.
Katie
non sembrò molto convinta ma, siccome Angelina si era
già accodata
all'amico lungo la strada, si rassegnò a seguirli.
“Quel
posto è sporco, sapete” disse, tentando senza
convinzione di
dissuaderli.
“Il
Firewhisky è ottimo,” osservò Lee
noncurante.
“Oh,
no,” protestò Katie accigliandosi. “Non
avrai intenzione di bere
di nuovo whisky prima di cena!”
C'era
una tale esasperazione in quel “di nuovo” che
Angelina aggrottò
la fronte, perplessa.
Lee
sbuffò un punto esclamativo di fumo.
“Soltanto
un goccetto, mia cara... E una burrobirra per te,” la
ammansì con
un sorriso aperto.
“Sai
che il whisky fa venire la pancia?” s'intromise Angelina,
tanto per
dire qualcosa. “Lo bevi spesso?” chiese con fare
vago.
“No.
Katie vede tutto drammatico,” sospirò Lee,
spalancando la porta e
facendo loro segno di entrare nel locale con una cavalleria condita
da un sorriso che sembrava dire che, più che dame, le
considerava
troll feroci. “Non diventerò un trippone attaccato
alla bottiglia,
smetti subito di immaginartelo,” affermò
scherzoso, guardando
Angelina dritta negli occhi.
Lei
ridacchiò rallegrata, scuotendo la chioma ricciuta.
“In
compenso mangia come un gigante tenuto a stecchetto,”
osservò
Katie, sedendosi a un tavolino libero accanto alla finestra.
“Cosa
vuoi tu, Angie?” domandò Lee.
Lei
si strinse nelle spalle.
“Andrà
benissimo un succo di zucca,” stabilì.
“Corretto?”
“No.
In Africa mi sono abituata a non bere alcolici,”
commentò lei,
sedendosi a sua volta.
“La
nostra piccola selvaggia!” celiò Lee, dirigendosi
al bancone.
Le
due ragazze lo guardarono parlottare con il proprietario con una
certa confidenza. Lee rise e quel vecchio spaventapasseri di
Aberforth tossì a sua volta una risata cavernosa, prima di
iniziare
a riempire i bicchieri.
Katie
sbuffò rilassata.
“Non
ti volevo mettere in pensiero, sai,” disse poi, sistemandosi
la
veste. “Lee si è attaccato un po' alla bottiglia,
al principio, ma
poi ha stabilito di dedicarsi compulsivamente alla pipa.”
“L'ho
notato, questo,” replicò lei annuendo, senza aver
bisogno di
chiedere a quale periodo si riferisse. Al principio del dopoguerra,
naturalmente.
“Ti
fermerai in Inghilterra, Angelina?” continuò Katie
gentilmente.
Lei
annuì con decisione. Non sapeva quel che avrebbe fatto
precisamente,
non era sicura di come si sarebbe arrangiata per mantenersi, ma
sapeva che non era tornata per ripartire, lo sapeva perché
quando si
era alzata da davanti al fuoco acceso nella savana, dopo il suo
ultimo colloquio con Mbasu, era stata certa che il suo viaggio era
finito.
“Dovrei
trovarmi un lavoro, ma in realtà non so bene...”
iniziò,
interrompendosi vaga. Sorrise quasi a mo' di scuse, fissando il
tavolo. “Parlavamo di sempre di come avrei...partecipato alla
gestione dei Tiri Vispi. Fred avrebbe voluto affidarmi la filiale qui
a Hogsmeade,” continuò con voce molto bassa.
Lee
stava ritornando verso di loro e faceva svolazzare tre bicchieri
pieni.
“La
gestisce Luna Lovegood,” annunciò, come se non si
fosse perso una
sola sillaba. “Non chiedermi perché. Forse George
si sta
auto-boicottando,” aggiunse ironico. Poi aggrottò
la fronte con
gravità. “Forse potresti...”
“Buonasera
a tutti e forza con quelle scope!”
La
voce chiara e autoritaria che li interruppe ebbe il potere di far
sussultare tutti e tre. Angelina abbe per un attimo l'impulso di
saltare in piedi e inforcare la sua Comet prima che il Capitano desse
in escandescenze.
“Oliver!”
esclamò intanto Lee, con un gran sorriso. “Vecchia
roccia, come
butta?”
“Ottimamente,
Jordan,” rispose spiccio il giocatore di Quittidtch.
“Volevo
vedere come ve la cavate a riflessi, ma sono un po' deluso,”
continuò con fare compreso.
“Ciao,
Oliver,” intervenne Angelina, alzandosi per abbracciarlo
brevemente.
Ma
pensava a quel negozio, quello di cui aveva scelto lei i colori per
le pareti e gli infissi, lì a Hogsmeade, mentre Fred, dopo
aver
buttato giù e ricostruito tre volte le pareti interne per
organizzarne gli spazi nel migliore dei modi, dipingeva schizzando se
stesso e lei di vernice a colpi di bacchetta.
Harry
bussò piano alla porta, sistemandosi il colletto un po'
troppo
stretto.
Non
sentendo provenire nessuna risposta dall'interno pensò per
un attimo
che George avesse optato per il silenzio stampa. Provò a
picchiettare sulla porta una secondo volta, con più
convinzione.
“Avanti.”
entrando,
Harry scorse George seduto in poltrona. La prima cosa che
notò fu
che si era evidentemente aggiustato i capelli, che ora sembravano
avere una forma umana, e che aveva indossato una veste linda e
ordinata. Sorrise sollevato nella sua direzione e George rispose con
una smorfia sofferta che non riuscì a sembrare allegra
nemmeno per
sbaglio.
“Allora,
ehm, vieni?” domandò Harry con tono casuale.
George
emise uno sbuffo lento, appoggiando indietro la testa con le labbra
strette.
“Pensavo
di sì,” rispose meditabondo. Non si mosse e non
diede nemmeno
nessun segno di volersi alzare di lì in tempi ragionevoli.
Harry
aggrottò la fronte.
“Ma...?”
lo spronò.
George
ridacchiò senza divertimento.
“Come
fai quando...” mormorò. “Quando pensi di
doverti alzare dalla
sedia e andare dove sei atteso, ma sai anche di non poterci
riuscire?”
Harry
respirò a fondo, si mordicchiò un labbro
pensosamente e si andò a
sedere di fronte al tavolo, con gli avambracci poggiati sulle
ginocchia.
“Quando
è finita la guerra a volte... Magari sapevo che Ginny e gli
altri mi
stavano a spettando ma mi sembrava di non farcela. Non volevo uscire
di casa, incontrare parenti di qualche vittima, cioè...
Quello che
ho detto ieri è vero. Ogni giorno in più che ho
impiegato a vincere
ha significato più morti, perciò in un certo
senso è anche colpa
mia e all'inizio mi sentivo male. Me ne stavo lì e mi
sforzavo di
muovermi.”
“Come?”
Harry
sbuffò, raddrizzando le spalle.
“Facevo
questo... gioco, in un certo senso. Mi sforzavo di immedesimarmi in
quel momento in cui sono dovuto andare là da...lui, ad
affrontarlo.
Mi convincevo che se non mi fossi alzato e non mi fossi mosso sarebbe
finito il mondo. Era capitale.”
“Funzionava?”
“Abbastanza,”
confermò Harry. “Potresti provare con qualcosa del
genere, che
valga lo stesso per te.”
George
emise un mugugno.
“Non
mi sembra ci sia nulla,” commentò, laconico.
Harry
si strinse nelle spalle, alzandosi.
“Ci
faremo venire in mente qualcosa. Nel frattempo, per stasera non ce
n'è bisogno.”
“Perché?”
chiese George scettico.
L'altro
gli sorrise, tendendo la mano.
“Perché
ci sono io a costringerti. Forza, o arriveremo tardi a cena.”
Prese
il suo polso senza troppo impeto, ma abbastanza fermamente, e lo
strattonò con garbo. George fece resistenza per un secondo e
poi si
lasciò tirare in piedi. Gettò un'ultima occhiata
alla stanza vuota,
mentre prendeva il mantello, e arricciò le labbra con un
tremito.
“Non
si sentirà troppo solo, non è vero?”
mormorò.
Harry
scosse la testa.
“No.
È con te in qualunque posto.”
George
annuì lentamente, mentre Harry apriva la porta, e lo
seguì fuori
nella sera londinese.
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