Legame - Le pietre blu

di Onigiri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La figlia dei draghi ***
Capitolo 3: *** Kala Nag ***
Capitolo 4: *** Il trillo del diavolo ***
Capitolo 5: *** Il Sangue Puro ***
Capitolo 6: *** Scale (cucina) ***
Capitolo 7: *** Conigli Neri ***
Capitolo 8: *** Farfalle ***
Capitolo 9: *** La Chiave ***
Capitolo 10: *** Piccolo re ***
Capitolo 11: *** Nuvole ***
Capitolo 12: *** Il bambino rosso ***
Capitolo 13: *** Scale (Doccia) ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Legame
   Legame   
(Le pietre blu) 











Prologo





 

 

Era la prima volta che Mila vedeva i papaveri al di fuori della televisione: piegati in avanti sotto il pesante passaggio del vento, sembrarono come inchinarsi in un gesto di cortese riverenza, sfiorandosi a vicenda con quei brillanti cappucci rossi che parevano soffici come nuvole sanguigne. Nel guardare quei fiori e i loro tenui riflessi arancioni le era venuta in mente una favola che poco aveva a che fare col paesaggio, e la voglia di rileggerla fu tale che non perse tempo a staccare lo sguardo dal finestrino per portarlo sul libro che stava reggendo sopra le ginocchia.

Ne accarezzò la copertina nera, spessa e ruvida, col disegno di un ideogramma rosso raffigurato al centro: Storie Orientali c'era scritto sopra, con lettere d'oro che glielo facevano sembrare un oggetto prezioso al pari di un diamante.

Mila lo aprì, perdendosi nei tratti labirintici dei disegni della piccola principessa Kaguya rinchiusa in una canna di bambù, del califfo trasformato in cicogna che per una risata si dimenticò come tornare normale, e dei dipinti del piccolo Ma-Lian prendere vita grazie al suo pennello magico.

Da qualche mese non faceva che leggere quelle storie, nonostante ormai le bastasse solo guardarne le illustrazioni per ricordarle in ogni dettaglio: aveva appresso quel libro dal dicembre dell'anno prima e ancora non aveva smesso di sfogliarlo anche solo per ascoltare il suono frusciante della carta ad ogni pagina voltata.

Incrociando le caviglie, Mila cercò una delle prima storie con cui si apriva il libro, quella di Izanami e Izanagi e di quando attraversarono il ponte Amenoukihashi per discendere dal cielo alla terra e creare il mondo come volontà dei loro dei.

La prima volta che ne aveva sentito parlare, si era seduta sul letto per interrompere la lettura di papà e chiedergli come potesse mai essere fatto un ponte del genere, ritenendo più plausibile -per salire e scendere dal cielo- usare una scala, o un ascensore. Papà aveva detto di non averne idea, e allora lei aveva cercato di immaginarlo da sola, di vederlo, di toccarlo, di usarlo.

A volte il ponte era una scia di luce dorata che la sollevava dal suolo e la portava in alto fino a quando la terra non diventava che un mondo in miniatura, e poi un granello di polvere in mezzo all'infinito; oppure era una striscia bianca e morbida, come quella che lascia un aeroplano tagliando in due il cielo; o altre volte ancora era un sentiero fatto di stelle dure come sassi che le facevano il solletico ai piedi ogni volta che ci camminava sopra.

Nel rileggere le prime righe di quella storia, e nel passare la punta dell'indice ad ogni parola pronunciata col pensiero, si chiese ancora se adesso papà sapesse come fosse fatto quel ponte.

"Desidera fermarsi?".

Mila alzò la testa verso la rivista di sorrisiecanzoniTV mezzo nascosta nella tasca del sedile davanti al suo, e poi guardò sua madre staccare la guancia dal finestrino per rimettersi frettolosamente dritta con la schiena.

Daniela si sforzò di mantenere un'aria composta, nonostante il colorito giallognolo sul volto non le fosse d'aiuto per nascondere quanto in realtà soffrisse il mal d'auto. "No, non si preoccupi." rispose, riuscendo a scorgere le spalle massicce del tassista rilassarsi subito per il sollievo. Lo avrebbe preso per un gesto maleducato se non fosse stato anche pienamente giustificato, visti quei terribili minuti -per lei e, sicuramente, anche per lui- passati sul ciglio della strada a passarle salviette e a reggerle le spalle quando pareva minacciare di vomitare vicino alle gomme del taxi. Mordendosi il labbro per l'imbarazzo nel ripensare a quelle cose, si concesse di osservare il profilo dell’uomo per non più di qualche secondo. Era grosso, con capelli lunghi che le avevano subito fatto storcere il naso, e che dal cartellino sul cruscotto diceva di chiamarsi Nikolaj Efremov.

Un nome russo. E anche l'accento, se ci faceva caso, era un po' russo.

Daniela sospirò e distolse stancamente lo sguardo. In realtà le sembrava che il suo stomaco la stesse implorando in cento lingue diverse di fermare quello stupido taxi! e scendere almeno un'altra volta  -una prima e una seconda alla fine non erano bastate come aveva sperato. Lo mise a tacere con qualche carezza sulla pancia, decidendo di dare la precedenza all'altrettanto forte desiderio di arrivare a destinazione il più in fretta possibile. "Sa quanto manca?".

Nikolaj Efremov, prima di risponderle, tornò a concentrarsi sulla guida per mandare al diavolo due motociclisti con un deciso colpo di clacson. "Non più di mezzora.".

Daniela annuì, decidendo che non si trattava di un tempo troppo lungo da sopportare.

Gettò lo sguardo sul suo cellulare, stretto forte nella mano come se fosse un durissimo antistress, constatando dal display che erano appena passate le diciassette e ventitré, che il blocco tasti era stato attivato e che c'era un messaggio non letto insieme a due chiamate senza risposta. Non ne era sicura, ma immaginò che a cercarla fosse di nuovo Vincenza, e la ritenne una scusa sufficiente per non rispondere.

Vincenza non faceva che cercarla per motivi futili o poco interessanti da quando aveva lasciato il marito eterno.amore.che.non.ho.certo.sposato.per.soldi, e Daniela detestava l'essere sempre la prima a farsi coinvolgere nelle sue improvvise voglie di organizzare feste in piscina, o in manifestazioni contro l'aborto davanti agli ospedali, o in infinite crisi di pianto isterico passate al telefono agli orari più assurdi. Lo detestava, seppur vedesse bene di mordersi la lingua e sopportare di fronte a qualsiasi richiesta della sua vecchia vicina di banco del liceo, nonché attuale datrice di lavoro. Ma per quella volta, con tutta la sua pazienza annebbiata dal mal d'auto, certa che di qualunque cosa si trattasse non avrebbe esitato troppo a mandare Vincenza a quel paese, decise di rimandare lei e i suoi problemi a quando sarebbero arrivate.

Stendendosi sul sedile per trovare una posizione più comoda e approfittando di un momento privo di nausea e capogiro, sbirciò sua figlia con la coda nell'occhio per vedere che cosa stesse facendo.

Le venne da sorridere nel constatare che, a confronto, Mila sembrava davvero il ritratto della salute. Daniela aveva passato gran parte della sua infanzia e adolescenza in balia di una nonna che (scontati i suoi trentacinque anni di secondo matrimonio rinchiusa in casa a doppia mandata) rimasta vedova un'altra volta aveva dato inizio a una tale serie di viaggi che Daniela non si sarebbe stupita se le avessero detto che non c'era più un angolo di mondo che lei non avesse visitato: quando poi suo padre o la zia Emanuela le concedevano il permesso, la nonna non aveva mai esitato a trascinarsela appresso anche contro la sua volontà. E che fosse stata automobile, aereo, nave, treno, carrozza, barca, autobus o quant'altro Daniela non aveva memoria di essere mai riuscita a leggere così bene (o a leggere, in generale) nemmeno le vignette di un fumetto. E non concepiva il come qualcuno come Mila riuscisse a farlo senza poi soffrire il più leggero dei mal di pancia. Questione di fortuna, ritenne. O di costituzione. Scosse la testa e decise di non pensarci.

"Tesoro", mormorò, allontanando con la mano un ciuffo scomposto di capelli dal collo.

Mila la guardò con quegli occhi attenti e scurissimi che non si capiva da chi avesse preso, stringendo con le dita i bordi di quel libro che, forse, era troppo grosso per una bambina che aveva a malapena finito la prima elementare. In effetti per lei era (lo diceva sempre suor Maria Clemente con le sue solite parole mangiucchiate) una specie di tic sedersi in un angolo e aprire un libro come quello a qualunque buona occasione, anche per aspettare che la madre finisse il suo turno di lavoro per andare a prenderla al catechismo. Signora Clemente diceva anche, lei che la conosceva bene almeno fin dal giorno del suo battesimo, che quell'amore per la letture era forse la sua caratteristica più sorprendente, e che non andava ostacolato.

Mila aveva imparato a leggere quando ancora andava all'asilo, e lo faceva con una tale bravura e passione per la sua età da lasciare quasi sconcertati. Lei adorava, soprattutto, le favole, e non c'era libro a casa sua che trattasse l'argomento e che non fosse stato divorato dai suoi occhi mai sazi di carta ed inchiostro. Rimaneva estasiata al sentir parlare di cose che nulla avevano a che fare con la realtà, ma che erano vive e nitide nella sua testa come se al mondo non esistesse null'altro. Mila credeva fermamente nelle fate che abitano nelle corolle dei fiori, nel castello dell'orco costruito in cima alle nuvole, nel cervo celeste che vive sottoterra e desidera vedere la luce del sole, nei folletti che la notte rompono le cose e scompigliano i capelli alle fanciulle, negli spettri incantati che dimorano dietro gli specchi, nell'acciarino magico che realizza i desideri, nell'uomo che soffia la sabbia sugli occhi dei bambini addormentati per farli sognare.

Daniela la lasciava fare, pur dubitando che certe letture le facessero bene. "Cosa stai leggendo?".

 

Mila distolse lo sguardo per posarlo ancora sul suo libro, soffermandosi sul disegno di una donna con gli occhi sottili e che irradiava righe di luce da tutto il corpo. Ricordava la storia, ma non il titolo, e allora lo cercò nella pagina accanto.

"Amaterasu." lesse piano.

Poi l'auto prese una curva stretta con troppa velocità, e Mila, nel sentirsi spingere a destra da qualcosa d'invisibile, dovette reggersi con forza al suo sedile per non sbilanciarsi e cadere addosso a sua madre. quel movimento, in un certo senso, la divertì, e quando sentì la gravità tornare al posto giusto le scappò un risolino che non si preoccupò di trattenere. Il volto di Daniela, invece, divenne di un bianco che sfiorava il cadaverico mentre si lasciava schiacciare contro la portiera senza opporre resistenza. Mugugnando debolmente, si avvicinò una mano alla fronte nel sentire la testa vorticare quasi stesse per staccarsi dal collo da un momento all'altro. Guardò fuori, dove la terra si era coperta di lembi gialli e marroni facendola sembrare una grande coperta toppata, e la pianura cominciava a gonfiarsi ed al alzarsi in colline sempre più alte che disegnavano profili di uomini o mostri addormentati. Il cielo non aveva nuvole, e pareva un soffitto azzurro così vicino da poterlo toccare solamente sollevando la mano. Daniela socchiuse gli occhi nel sentire quei colori iniziare a darle fastidio, e si massaggiò prepotentemente lo stomaco quando percepì un sapore disgustoso salire e scendere dalla pancia fino alla bocca.

"Signora" la chiamò il tassista dopo -nessuno lo notò-  aver alzato gli occhi verso l'alto e mimato con le labbra uno sbuffo scocciato. "se vuole ci fermiamo.".

Daniela scosse subito la testa e scrollò le spalle, farfugliando un 'No' deciso prima di risedersi di nuovo composta. Quel movimento troppo improvviso le provocò un altro capogiro, e subito si riaccasciò arrendevole contro lo sportello. Lui insistette. "Ne è sicura? Guardi che c'è un bar più avanti e se vuole può andarsi a bere un caffè o tipo fumarsi una sigaretta o non so... prendere aria, sgranchirsi le gambe...". Ma Daniela negò di nuovo, e non appena oltrepassarono il cartello che indicava l'ingresso all'autogrill nessuno toccò più l'argomento.

Mila, senza più traccia di un sorriso sulle labbra, guardò i due adulti senza dir nulla, uno dopo l'altro, per quel che poteva. Il Signore del taxi aveva cominciato a picchiettare la punta dell'indice sul volante, forse annoiato, forse stanco. La mamma aveva sbadigliato, poi sospirato, e poi si era lasciata dondolare sul sedile curvando la schiena per avvicinare il mento al petto, e alla fine si era girata e aveva ricambiato lo sguardo regalandole un sorriso dolce. "Cos'è...?" iniziò a chiederle con voce stanca. Allungò una mano verso di lei, pensando di sistemarle il cappellino bianco che le si era sbilanciato sulla testa fino a coprirle un orecchio sì e l'altro no, ma la ritrasse quasi subito. "Ama... Amatasu? Me lo racconti?".

Mila tornò a guardare il suo libro, le file di lettere e poi di nuovo il disegno di prima. Sfiorò i capelli della donna, immaginandoli di seta invece che di carta. "E' la dea del sole" spiegò con voce squillante, da bambina, ma velata da una sorta di malinconia, di un qualcosa di cupo e triste che sembrava sottolineare quanto le costasse parlare. Daniela se ne accorse, ma la lasciò continuare senza battere ciglio.  "Siccome aveva bisticciato col fratello si era nascosta in una grotta, ma però siccome lei era il sole la terra era rimasta buia e tutti cercavano di convincerla a uscire ma nessuno ci riusciva." . Mila raccontò di Uzume, la dea orientale dell'ilarità, che appese uno specchio davanti a quella grotta e vi danzò accanto spogliandosi del suo vestito di fiori fino a provocare la risata dei presenti. Amaterasu, incuriosita dalle voci, sbirciò fuori dal suo nascondiglio, e un suo raggio di luce si rifletté contro lo specchio fino ad abbagliarla. Allora i presenti ne approfittarono per farla uscire, e il kami del sole, circondata dalle risa di tutte le altre divinità, decisa di ridare la luce alla terra, e Uzume da quel giorno divenne anche la dea dell'alba. Nessuno nell'auto parlò più fino a quando non raggiunsero la loro destinazione.

Sul cellulare di Daniela scattarono le diciassette e quarantadue quando il taxi iniziò a rallentare per uscire dalla strada principale ed imboccarne una secondaria. Mila fece in tempo a scorgere un vistoso palloncino rosa frullare nell'aria sotto i colpi del vento, attaccato a un palo della luce e a un foglio appiccicato con lo scotch che diceva 'Benvenuto! La festa è al 19/B!!', prima che tutto diventasse verde.

La nuova strada non era asfaltata, ma fatta di sassolini e tanta polvere bianca. Avanzando, la macchina cominciò a sbandare appena su sé stessa facendo tremare i sedili e rendendo il volto di Daniela di nuovo pericolosamente bianco. Mila sentì il libro scivolarle dalle ginocchia, e allora lo chiuse, e lo strinse al petto con le braccia come se fosse stato il suo Kala Nag. Guardò l'orologio da polso che ancora non sapeva leggere bene, e il sorriso antipatico della zebra disegnata sullo sfondo del cerchio coi suoi denti chiari e grossi come zollette di zucchero. La freccia piccola era ferma sul sei, quella grande sul dodici e quella sottile sul due-tre-quattro quando l'auto imboccò un'altra curva verso una striscia d'asfalto larga quel che tanto da far passare una macchina per volta. Il paesaggio cambiò ancora, e Mila, incuriosita, si avvicinò al finestrino sfiorandone il vetro con le unghie di una mano. Guardò gli alberi correre nel senso opposto al loro, una villetta gialla piena di fiori alle finestre, le foglie gonfiarsi e appiattirsi come se stessero respirando a pieni polmoni, una casa più piccola e squadrata con la piscina in giardino, la terra sputare fuori funghi e ciuffi d'erba  ed addentare con forza le radici delle piante, un qualcosa dalla forma di casa che non degnò nemmeno di uno sguardo. Anche Daniela, con la fronte sul finestrino e i capelli della frangia stretti fra le dita, cominciò ad osservare il paesaggio, scoprendo che il verde e quella luce leggera le davano sollievo alla vista e alla testa. Guardò meglio, con la fronte ancora sorretta da una mano, mentre il vento muoveva il fogliame in un movimento docile da cui rimase ipnotizzata. "Che bel posto." commentò, voltandosi verso la figlia alla ricerca di una qualche conferma da parte sua. Mila non badò alla madre, anche lei incantata dal muschio, dalle rughe dei tronchi e dai rami più alti che si intrecciavano tra loro o si stendevano verso il cielo quasi volessero afferrarlo. E rimase così concentrata sul bosco che quando gli alberi sparirono le scappò dalle labbra un sussulto spaventato. Dal finestrino fissò un prato senza fiori brillare con forza sotto il sole, e ai margini del prato, oltre un muro di rete, altri alberi, ancora e ancora.

Ancora e ancora.

Mila allungò il collo verso il vetro per cercare di vedere più lontano, oltre tutte quelle chiome verdi che a guardarle parevano morbide e le facevano venir voglia di accarezzarle. Immaginò di caderci sopra e rimbalzare in alto come con un tappeto elastico, e allora inizio a pensare al Luna Park, a papà, alle vacanze con i suoi genitori e al fatto che al mare se saltava sulla sabbia si faceva male, e che là non c'era mai stato così tanto verde. Quel posto ne era pieno.

Ancora e ancora, si ripeté, e fece o spelling battendo le dita contro il finestrino.

Poi il taxi cominciò a rallentare, e Mila, in un misto di attesa e curiosità, strinse il libro a sé preparandosi a scendere. Guardò sua madre, il sedile del signore, la maniglia dello sportello, e quando sentì lo strusciare più violento e poi più leggero delle gomme, e i sedili, dopo un gemito assonnato del motore, smettere di tremare sotto di lei, si rese conto che la macchina si era fermata. E che loro erano arrivati. Daniela scese dal taxi immediatamente, non appena Nikolaj Efremov alzò il freno a mano e girò la chiave per spegnere il motore: aprì lo sportello e sbucò fuori dalla macchina così velocemente che quasi inciampò sui suoi piedi. Si appoggiò alla carrozzeria con la schiena, lasciandosi andare in uno stanco sospiro liberatorio, grata che quel torturante viaggio fosse finalmente giunto al termine.

Mila invece, senza fretta, spinse via lo sportello con tutte e due le mani, scivolò giù dal sedile cadendo sui piedi, e prese un po' di tempo per sentire grattare la suola delle scarpe contro la ghiaia del terreno. Chiuse faticosamente lo sportello e se ne allontanò immediatamente, alzando subito lo sguardo in avanti per studiare il posto in cui erano appena arrivate. La gonna verde del vestito si gonfiò sotto un soffio di vento che aveva cominciato a farle il solletico alle gambe e alle ginocchia, prima che quella specie di sussulto diventasse un ululato furioso che le schiaffeggiò le guance e le fece coprire gli occhi col dorso di una mano. I capelli le frustarono il collo e le orecchie, intrecciandosi in corti fili colo mogano fino a diventare un buffo caschetto arruffato. Mila abbassò la faccia quando granelli di polvere minacciarono di caderle negli occhi, e nel farlo sentì il cappellino scivolarle via dalle orecchie e poi da tutta la testa. Allora si voltò, guardandolo fare due sgraziate capriole nell'aria e fermarsi contro il petto un uomo ancor prima che lei avesse il tempo di allungare una mano.

Il vento si calmò proprio in quel momento, e tutto tornò tranquillo come se nulla fosse successo. Il signore, di cui Mila riuscì a scorgere i pantaloni scuri e gli orli di una giacca dello stesso colore (troppo pesanti per essere luglio), le porse il cappello così velocemente -lentamente?-  da farla sussultare. Mila riprese il panama e lo rimise in testa con una sola mano, cercando di alzare di più lo sguardo verso l'altissimo sconosciuto. Le sfuggì un "Grazie" sottile, e poi l'uomo la sorpassò, superò il taxi e sparì, lasciandola sola col suo libro e il suo cappello storto sulla testa. Lei provò a cercarlo con lo sguardo, e quando non lo trovò e Nikolaj Efremov le tagliò la strada per raggiungere il bagagliaio, decise di non badare ulteriormente a quello sconosciuto. Ignorando il tassista che la stava ignorando, con quattro saltelli superò la macchina per guardare l'ingresso della casa dove, a detta della mamma, avrebbero passato parte delle loro vacanze estive. La casa era una villa, ed era tutta bianca, ed era così alta che lei non riuscì nemmeno a vederne il tetto, e aveva finestre color specchio che parevano tanti quadrati di cielo appesi alle mura come dipinti. Le labbra le si dischiusero in un'espressione di sorpresa nell'accorgersi di quanto le ricordasse il castello della principessa Nevina, la figlia di Gennaio che passava le giornate a fabbricare la neve per disperderla sul mondo e le notti sul balcone della sua stanza, col mento racchiuso tra le mani e lo sguardo rivolto verso l'orizzonte ghiacciato, sognando i fiori, il mare, i colori e i profumi delle terre della primavera. Nevina che scappò dal suo regno di ghiaccio e s'innamorò del bel Fiordaprile, senza sapere che il tocco caldo dello zefiro le avrebbe mozzato il respiro e che i raggi del sole avrebbero sciolto la sua meravigliosa pelle di neve.

Quando non trovò nessuna principessa col lo sguardo perso nel paesaggio in nessun balcone o in nessun davanzale, Mila rimase molto delusa: si mise allora a cercare la mamma, trovandola vicino al taxi mentre si lasciava baciare la guancia dall'uomo che la stava abbracciando dolcemente per le spalle. "Daniela", parlò una voce che Mila conosceva già e che le provocò un brivido dalla pianta dei piedi fino alla nuca. "benvenute.".

L'uomo, con un sorriso cordiale sulle labbra sottili, si allontanò dalla donna e la fissò negli occhi, studiandone il color caramello dai curiosi riflessi rossicci. "Com'è andato il viaggio? Vi siete stancate?"  "No, affatto!" mentì lei teatralmente, sciogliendo l'abbraccio e guardandosi attorno, le dita delle mani intrecciate davanti al petto. Sapeva che quello di Amos era un lavoro redditizio (le aveva accennato a una società, ma non sapeva di che genere), e parlandogli al telefono aveva capito che la casa a cui le aveva accennato doveva essere molto grande. "Hai davvero una casa stupenda! E il posto è incantevole." 

"Un po' vuota, ma molto bella, sì...". Amos, distendendo i lineamenti del viso in un'espressione serena, gettò un'occhiata incuriosita alla bambina che li stava osservando da lontano, e Daniela, intuendo i suoi pensieri, si voltò verso la figlia facendole segno di raggiungerli con un gesto della mano. Lei ubbidì, camminando con passi corti e incerti, arrivando al fianco della madre e aggrappandosi subito all'orlo della sua gonna. "Tesoro" Daniela le sistemò il cappellino e le accarezzò il suo caschetto di capelli. "Ti ricordi dello zio Amos, vero?".

Mila, dopo aver contemplato il colore delle sue scarpe per qualche secondo, si azzardò ad alzare lo sguardo verso la persona che si era appena inginocchiata davanti a lei. Ricordava bene il fratello maggiore di suo padre, anche se l'unica volta che l'aveva visto era stata più di sei mesi prima (era mattina, gennaio era appena cominciato, il cielo ghiacciato minacciava grandine e l'aria pungeva come se fosse stata ricoperta di aculei) e non gli aveva rivolto nemmeno una parola. Quel giorno lo aveva visto darle le spalle mentre passava la punta delle dita sul legno chiaro di una bara chiusa, come immaginando di accarezzare il volto della persona che vi si trovava dentro, e lei per un attimo aveva creduto che quell'essere dai lunghi boccoli neri fosse suo padre tornato indietro dallo Yomi, il regno dei morti dove vige l'eterna oscurità, e il sangue le si era quasi congelato dalla paura. Eppure, guardandolo in quel momento, con una mano testa verso di lei e gli occhi neri fissi sui suoi, si convinse che in realtà suo zio non assomigliava per niente al suo papà.

"Ciao, Massimiliana." la salutò, e lei storse il naso in una brutta smorfia stringendosi ancora di più alla gonna della madre. Nessuno la chiamava così, né i vicini, né i compagni di scuola e nemmeno i suoi genitori: persino le maestre si erano arrese a quel diminutivo al di fuori di quando facevano l'appello, e maestra Chiara aveva già smesso di sgridarla perché sul retro del foglio scriveva sempre 'Mila Capitta' quando finiva il suo problema di matematica. Massimiliana, per lei, non era che poco più di un nome sconosciuto, e quasi lo odiava.

Lo zio le sorrise, scrutandola come per non lasciarsi sfuggire nessun dettaglio del suo aspetto. "Caspita, sei cresciuta tantissimo, sai? Ormai sei una signorina." continuò, allargando il sorriso e avvicinando la mano per stringere la sua. Ma lei non ricambiò il saluto, aggrappandosi alla gamba della mamma e nascondendo il volto nella stoffa blu della gonna, scuotendo il capo.  "Tesoro. Saluta, da brava." Daniela, pur parlando alla figlia con voce dolce, non riuscì a trattenersi dal lanciarle un'occhiata di rimprovero. "Lo sai che è stato lo zio a proporci di passare qui le vacanze? Perché non lo ringrazi?"  "Non importa.".

Amos, sembra l'ombra di rabbia o delusione sul volto o sul suo sorriso color miele, si alzò in piedi e portò le mani sulla stoffa dei pantaloni per toglierne un po' di polvere. Mila osservò i suoi movimenti, e nonostante il caldo di quella giornata riuscì quasi a sentire un brivido di freddo quando avvertì ancora quello sguardo scuro su di sé. "Sarete stanche, vi accompagno in camera. Abbiamo tanto da raccontarci.".

Daniela annuì, sforzandosi di rimediare all'atteggiamento ineducato di Mila con un sorriso gentile e con qualche altro complimento per la casa meravigliosa. Avrebbe voluto scusarsi, dire che sua figlia era una bambina socievole, e che le era sempre piaciuto conoscere gente nuova, che lei voleva bene a suo padre in un modo molto vicino alla venerazione e che quando lui era morto non aveva più voluto rivolgere un sorriso quasi a nessuno. Ma si trattenne, si affiancò ad Amos e si fermò quando si accorse che Mila era rimasta indietro per guardare il tassista afferrare malamente il suo zainetto di Winnie the Pooh mentre con l'altra mano prendeva il manico della valigia. Daniela sorrise al cognato e lo lasciò per raggiungere la bambina, inchinandosi per prenderla in braccio e baciandole la guancia. "Visto?" le sussurrò all'orecchio, accarezzandole la schiena. "Sembra il castello di una principessa."

 












Onigiri



IMPORTANTE:

*La favola della principessa Kaguya;
*Il Califfo Cicogna ;
*Ma Liang;
*Amaterasu ;
* Nevina e Fiordaprile .



Ordunque... credo sia più giusto cominciare col dire che questa storia non è nata come Originale, ma come fanfiction.
Per motivi personali (che non starò qui ad elencare giusto per il gusto di annoiare qualcuno ^^") ho finito col cancellare tutte le mie storie, compresa questa, che all'epoca si intitolava "Chiudi gli occhi, e ascolta la sua voce".
Il motivo per cui la sto ripubblicando, ripresentandomi in questo sito letteralmente con la coda tra le gambe, è perché a quanto pare non riesco a stare lontana da questa storia. Quello per cui ho cambiato fandom credo siano i personaggi: la storia era nata, nella sua stesura iniziale, con una trama completamente o quasi diversa da quella che sto proponendo adesso, e quando la storia ha cominciato a cambiare nella mia testa bucherellata tutto ha iniziato a scivolarmi via di mano, soprattutto i protagonisti -nel loro aspetto sia caratteriale che fisico. Perciò, per chi ha già letto questa storia nella sua stesura di fanfiction, innanzitutto mi scuso se ho finito col cancellarla (Non che mi aspetti che a qualcuno sia importato sul serio ^^"), e li ringrazio ancora chi ha letto quei primi dieci capitoli e mi ha sempre incoraggiata. Farò del mio meglio con questa stesura originale, sperando esca qualcosa di perlomeno decente XD.

Per chi non ha mai sentito parlare di questa storia e stava molto meglio prima di averne letto il prologo, avviso che la storia è molto lunga. Inizialmente avevo in mente una robetta di due o tre capitoli, finendo poi con lo svilupparla -sempre, s'intende, nella mia testa malandata-  in  quattro "saghe".  Perciò durerà un po', e con tutto il miscuglio di ingredienti che ho intenzione di infilarci spero di non combinare un pasticcio >_>".
Comunque sia, ringrazio chi sia arrivato almeno a leggere il prologo =).  Per quanto assurda, tengo davvero tanto a questa storia, perciò grazie mille ^^!

Un bacione a tutti!
Onigiri


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Capitolo 2
*** La figlia dei draghi ***


Legame
   Legame   
(Le pietre blu) 











Capitolo 1








Figlia dei draghi, tu hai un’anima pura come una goccia d’acqua! Ma io sono un uomo molto povero. Hai pensato alle difficoltà alle quali andrai incontro se vivrai con me?
— Se si ama veramente, rispose la figlia dei draghi, il più aspro dei frutti diventa dolce nella bocca degli innamorati.

“La figlia dei Draghi”-Fiaba Cinese (dell’etnia Dai)

















Era, quella dei Nove Draghi, una favola delle più lunghe e tra le ultime del suo libro, e a Mila piaceva così tanto che una volta aveva sfilato un segnalibro dalle pagine di un romanzo che stava leggendo sua madre (era tutto giallo, con la scritta Poirot sul Nilo e in basso il profilo scuro di un uomo con a pipa in bocca) proprio per segnarsi quel racconto. Nella storia si parlava di un mondo appena nato, spoglio, come un campo sterile e nudo, e di nove draghi le cui preoccupazioni non andavano mai oltre i loro giochi nel cielo. I draghi vivevano rincorrendosi l'un l'altro, contando le stelle e addormentandosi sopra le nuvole più soffici, e quando, nel loro giocare, si avvicinavano alla terra, allora i mari, i prati, le colline, gli animali e tutto il creato si disegnavano al loro passaggio.

Un giorno, i nove draghi scorsero dall'alto i bagliori rossi, viola, verdi e azzurri di una gemma meravigliosa, e amando per natura le cose luccicanti, attratti da quei colori tanto belli si lasciarono cadere dal cielo per gareggiare su chi la prendesse per primo. Ma quella pietra preziosa che tanto bene si vedeva dall'alto sembrò svanire nel nulla non appena raggiunsero la terra. Nessuno dei draghi volle tornare a mani vuote, e testardamente si misero a cercarla dappertutto, nelle foreste, sulle punte delle montagne, nel profondo della gola di ogni caverna, senza mai trovarla. Il tempo passò senza che loro se ne accorgessero, e a forza di persistere per quel bellissimo gioiello i nove draghi si sciolsero in acqua trasformandosi in fiume, e costruirono una grotta ai piedi del Picco dorato per farne il loro palazzo.

Lancang è quel fiume, le cui acque brillano ancora come cristalli sotto il sole ridente della Cina.

Mila aveva pensato a quella favola non appena aveva messo piede fuori dal letto, e ancora ci ripensò in quel momento, mentre tracciava sul foglio una grossa e storta linea orizzontale col suo pastello celeste. Stringendo le labbra, concentrata su quella difficile operazione, ricordò persino che era stato proprio leggendo quella storia che si era domandata per la prima volta se i draghi fossero buoni o cattivi.

Un programma alla TV, di quelli che la mattina faceva appena in tempo a guardare almeno per metà prima di finire la ciotola dei cereali e andare a vestirsi per la scuola, diceva che i draghi sono tante cose, e tutte molto brutte e paurose: simboli di guerra, portatori di morte, il male.

Oggi, diceva l'omino vestito di verde del cartone animato, parliamo degli gnomi.

Oggi dei giganti. Oggi delle sirene. Oggi degli unicorni.

E oggi, invece, parliamo dei draghi.

Cattivi, aveva esclamato un martedì mattina l'omino da dietro lo schermo: cattivissimi mostri alla guardia dei castelli dove vengono rinchiuse le principesse, col corpo di serpente e ali da pipistrello, e fiamme sfumate di sangue che guizzano sopra le lingue sputate fuori al più piccolo respiro. Mila aveva chiesto a papà una sua opinione, e lui aveva riso. "Io penso", aveva detto, "che i draghi sono come le persone". Lei non aveva capito quella risposta: aveva pensato intendesse dire che esistono sia draghi buoni che cattivi, e nell'esporre quel pensiero suo padre aveva riso ancora. L'aveva presa in braccio e le aveva raccontato la storia di Rosso Malpelo, quel bambino dai capelli di un colore diverso dagli altri, dicendo che lui non era cattivo, ma che tutti lo trattavano male fino a farlo diventare tale, e Mila si era messa a piangere.

Ignorando un altro piccolo borbottio dello stomaco, alzò il suo album da disegno dalle ginocchia nude e ammirò, soddisfatta, la sua montagna color limone (ma che ai suoi occhi splendeva come fatta dell'oro più pregiato) e i nove draghi di nove colori diversi che giocavano ancora nel cielo, sopra il fiume che loro stessi avevano creato per un gioiello che mai fu più visto in questa terra. Stiracchiandosi le gambe e lasciandosi sfuggire un sospiro silenzioso, Mila riappoggiò l'album sopra le sue gambe e si guardò attorno, aspettandosi l'arrivo di qualcuno  -di una persona, di uno spettro, di qualcosa-  dalla penombra del corridoio. Quel posto faceva paura, ma al contempo l'affascinava: le sembrava uno di quei castelli di cui tanto aveva sentito parlare nelle sue favole, quelli eleganti, enormi, vuoti. Mila si era spesso immaginata di camminare su un pavimento tutto d'oro indossando scarpette di cristallo, di smarrirsi senza timore tra corridoi lunghissimi dalle mura lucenti di argento e madreperla, e di alzare lo sguardo verso un soffitto a cupola (come quello della basilica di San Pietro che aveva visitato con i genitori) talmente alto da darle le vertigini: immaginava una sala piena di luce e vestiti lunghi e magnifici e di ballare tra conti e baroni come una vera principessa. Anche in quella villa, come nei palazzi incantati della sua fantasia, persino il silenzio rimbombava tra le pareti come un'eco lontana.

Un poco annoiata, un poco desiderosa che sua madre si svegliasse per portarla a fare colazione, Mila tornò a guardare il suo disegno, stringendo il foglio tra le dita sporche di colori mentre i suoi pensieri tornavano velocemente al suo papà.

Papà con gli occhi luminosi, papà con le mani grandissime, papà che le leggeva le favole.

Papà, le venne poi da pensare, non somigliava per niente allo zio Amos.

Anche se lui era gentile, e dolce, e aveva così tanto dei suoi tratti (la forma del mento, il naso a punta, i capelli arrotolati in boccoli che al solo guardarli parevano morbidi come fili di burro) da renderlo quasi identico a suo padre: ma lui le faceva paura. Le bastava guardarlo in faccia, a volte, per sentire i brividi scorrere sottopelle e il respiro stringerle la gola come la corda dell'impiccato, e percepire scivolarle addosso la terrificante sensazione che quei suoi occhi simili a scheggie di vetro scuro potessero tagliarla in due da un momento all'altro. Perfino il suo sorriso, che era dolce come miele velenoso, aveva qualcosa di bollente e sembrava volerla svuotarla, e mangiarla, risucchiarla tra le labbra pallidissime fino all'ultimo osso e allargare ancora di più quel suo riso compiaciuto nel sentirla passare fra i denti e sopra la lingua come un cibo pregiato di cui da tempo si ha voglia di ricordare il sapore.

A Mila, il suo amabile e cortese zio Amos, metteva paura.

"...cosa stai facendo?".

Nell'udire una voce mai sentita prima, Mila sussultò e si alzò in piedi sul gradino e si appiattì subito contro il muro, guardando col fiato in gola e una punta di spavento la persona che le aveva appena rivolto la parola. Fece appena in tempo ad alzare lo sguardo che la ragazza di fronte a lei distolse subito il proprio, notando che l'astuccio a forma di coccodrillo -di ippopotamo verde per Daniela- si era inclinato in avanti, e che un pastello giallo e un altro color fragola erano scivolati fuori, saltellando sui gradini in un frequente tac tuc tac fino a raggiungere il piano inferiore, dove rotolarono, si scontrarono e, infine, si fermarono. Mila la guardò scendere le scale, controllare che il tappeto non si fosse sporcato spolverandolo distrattamente col palmo di una mano, riprendere i pastelli e risalire i gradini con passo pesante: nel mentre la osservava fare tutte queste cose, cercò di nascondersi dietro i ciuffi rossicci della frangia, sentendo una viscida sensazione di disagio iniziare ad arrotolarle lo stomaco come fosse uno straccio. Stringendo più forte al petto il suo album di disegno, pensò di andare via, correre in camera e raggiungere la mamma per vedere se si fosse svegliata, nascondersi sotto le coperte per farne un rifugio e abbracciare Kala Nag e fargli scacciasse tutti i mostri che le facevano paura. Quando, titubante, aprì il pugno per riprendere i suoi pastelli, e quando si azzardò ad alzare lo sguardo verso la persona che glieli aveva appena recuperati, un'ondata di sorpresa la travolse e le fece dischiudere le labbra e inchiodare i piedi al gradino per impedirle di scappare.

"Sei Mila, vero?". Un sorriso docile si disegnò su una bocca che sembrava fatta di petali di rosa. Mila non rispose, osservandola sistemare la gonna dietro le ginocchia e sedersi per poterla guardare negli occhi. "Monica mi ha detto del vostro arrivo. Conosci già Monica, vero?".

Monica.

Sì, la conosceva già. Era il nome che le ricordava un viso infantile incorniciato da sgraziati riccioli castani, e un grosso neo marrone sopra un naso tozzo che tanto contrastava con la sua aria da ragazzina. Lo conosceva perché suo zio l'aveva pronunciato nelle ultime due cene: 'Grazie, Monica.' aveva detto, ben due volte, non appena lei finiva di portare i pasti e di congedarsi dal salotto con un sorriso impacciato. Anche quella signora (perché a lei, un po' come a tutti gli altri bambini che conosceva, anche un ragazzo sembrava già adulto) indossava la sua stessa, curiosa divisa da domestica  -Amos l'aveva detto alla mamma, a tavola, che era sempre fuori casa e che non era bravo nei lavori domestici, e che quella villa per le vacanze era così grande per lui che aveva assunto tre ragazze perché ci pensassero al posto suo. Ma per Mila, lei era sicuramente più bella si Monica: dopotutto, pensò emozionata stringendosi nelle spalle, era Lei.

"Io sono Sofia" la spiegò la domestica, sistemandosi con un gesto automatico la sua treccia dietro la spalla. Aveva capelli mossi, di un biondo così chiaro che quasi ricordava il bianco, con un profumo di zucchero e mandorle che in altri casi forse avrebbe trovato nauseante, ma che in quel momento le piacque tanto che non poté non respirarlo fino in fondo. "La tua mamma dorme ancora?"

Mila annuì. "Tu invece sei più mattiniera, vero? Non hai fatto colazione?".

Un altro gesto del capo funse da risposta, facendo capire a Sofia che quella bambina, forse per timidezza, non aveva molta voglia di parlare con lei. Sebbene un pensiero sul pavimento dell'ingresso continuasse a incitarla ad alzarsi per prendere la scopa dall'armadietto della cucina e mettersi a lavoro, continuò a guardare Mila senza muovere un muscolo, quasi ipnotizzata dal suo silenzio, dai suoi gesti un po' scostanti e dal fatto che fosse sola, ricordandole un po' sé stessa e i suoi modi gentili ma distanti di trattare con gli estranei. Le fece tenerezza il suo pigiama con le ciliegie e il suo modo di stringere le labbra in una buffa smorfia di disagio, e le venne voglia di sistemarle un ciuffo disordinato di capelli sulla fronte, di sfiorarle le lentiggini brune sul naso, o anche solo di parlarle per scoprire quale fosse il suono della sua voce. Mila, a Sofia, ricordò Lei, e non riuscì a non sorridere per questo. "Stavi disegnando?", le chiese, indicando l'album dalla copertina azzurra che stava stringendo tra le braccia. C'era, ben incastrata tra le sue parole, una chiara richiesta di vedere cosa avesse fatto con i suoi colori, e Mila lo capì subito.

Rabbrividì, perché aveva i piedi scalzi e il marmo delle scale cominciava a metterle freddo facendole battere le dita contro la lastra squadrata del gradino, ma non ci fece caso. Guardò il suo disegno e poi la signora Sofia: quando le porse l'album, lo fece così velocemente che quasi finì con lo sbatterglielo contro il naso.

Sofia lo prese, la ringraziò con un sorriso e si sedette sulla scala, e nel guardare un qualcosa di un brillante color carota che aveva subito attirato la sua attenzione, le sfuggì uno sguardo perplesso. "Ma che bello." si voltò verso Mila e indicò la cosa lunga e arancione a cui proprio non riusciva a dare un nome. "Lui come si chiama?" domandò, cauta.

Mila allora l'affiancò, sedendosi a sua volta e notando che, in quella posizione, non riusciva neanche ad arrivarle alla spalla. Guardò il punto indicato, e gli occhi le brillarono. "E' un drago." spiegò, e Sofia, sentendola parlare per la prima volta, allargò il suo sorriso senza nemmeno accorgersene. "I nove draghi..." Mila allungò una mano verso il disegno, sentendolo piatto e ruvido sotto i polpastrelli. La trovò una sensazione così piacevole da non voler staccare le dita dal foglio. "...si sono trasformati in un fiume..." il pollice e l'indice sfiorarono una grossa linea orizzontale che spiccava tra il verde di quello che doveva essere un prato. "...per cercare questa gemma."

Sofia annuì, senza in realtà aver capito molto della situazione, osservando uno strano rombo dove giallo, blu, rosa e viola erano stati caoticamente mescolati tra loro. Annuì di nuovo per sembrare più convincente, studiando una figura che prima non aveva notato. "E lei chi è?".

Mila guardò il disegno, e poi Sofia. Dritto negli occhi, con tutta la serietà di cui poteva essere capace. Le venne voglia di prendere il suo libro, e studiare il disegno nella pagina accanto alla fiaba dei nove draghi, e la ragazza con le labbra rosse e la pelle bianchissima che camminava sulla riva del Lancang leggera come una fata. "E' la figlia dei draghi bianchi", spiegò: ed era Lei, aggiunse col pensiero, guardando ancora Sofia e il suo volto, la sua bocca, e la sua carnagione chiara, quasi bianca. Anche se forse se ne era dimenticata o non poteva dirle di essere la stessa persona, Mila decise con assoluta convinzione di trovarsi di fronte alla figlia dei draghi della favola. Di fronte a quella grandiosa scoperta, rabbrividì, emozionatissima. "Ma però non è un drago, è una bambina. E non sputa fuoco!"

"Ma guarda. E lui?". Sofia le indicò la figura di un uomo dai capelli cortissimi, la pelle rosea e braccia e gambe fini come stuzzicadenti.

"Lui è..." Mila arricciò le labbra, senza ricordarsi il suo vero nome, Yan Maoyang. Lo inventò. "...Ianmaoan! Una volta lei se ne è andata via dal palazzo del padre e l'ha incontrato in un villaggio! E lui l'ha ospitata nella sua capanna, e siccome lei se ne era subito innamorata gli ha detto di essere la figlia dei draghi, e si sono sposati." "Dunque vissero felici e contenti?".

Mila, in maniera impercettibile, si incupì subito a quella domanda. Distolse gli occhi da quelli argentati della domestica e guardò ancora il suo disegno, dove i due protagonisti della favola sorridevano tenendosi per mano. No, non finiva bene la storia, anche se lei arrivata a un certo punto della favola smetteva sempre di leggere, perché sennò avrebbe pianto come quando gliela aveva raccontata papà per la prima volta. Yan Maoyang, che era buono e onesto, fu assassinato dal capo del villaggio vicino, perché era il genero dei draghi e lui era certo che l'avrebbe sicuramente ucciso se avesse deciso di prendere il suo posto. La figlia dei draghi, colma di dolore mentre aspettava il suo bambino, aveva punito quella crudeltà sollevando le acque del fiume e allagando il villaggio, e il suo rancore non si placò fino a quando il colpevole della morte del marito non chiese perdono e pianse a lungo, promettendo, se avesse risparmiato il suo popolo, di nutrirla di generazione in generazione. Per questo la gente del villaggio Jinghong venera la figlia dei draghi lungo il fiume, e siccome per la gravidanza ebbe bisogno di molte uova, vengono portati, ogni anno, centoventi uova di differenti colori.

Mila decise di non rispondere, e di ritornare timidamente al suo mutismo senza aggiungere null'altro.

Sofia osservò ancora quelle buffe figure infantili per un altro po' di tempo, prima di porgere l'album alla sua proprietaria e incrociare le braccia davanti alle gambe. "Lo sai..." sussurrò, mentre Mila, nel sentirla parlare, alzava di nuovo gli occhi verso i suoi. "Mi ricordi molto Eirene."

Mila sbatté piano le palpebre: Chi è Eirene?, domandò con lo sguardo, continuando a tenere le labbra serrate per non lasciarsi sfuggire alcun suono dalla bocca. Anche Sofia, però, si zittì. E sorrise, in un modo nostalgico che le ricordò sua madre. Non le piaceva quel sorriso, e nel vederlo corrugò le sopraciglia con forte disappunto.

"Eirene..." Sofia abbassò gli occhi "...era la mia sorellina."

Mila la fissò senza dir nulla, facendo dondolare un piede sul tallone in avanti e indietro. "Anche a lei piaceva disegnare le fiabe. E voleva sempre che gliene leggessi una prima di andare a letto." "E dov’è tua sorella?", le chiese con forse troppa foga, domandandosi se in quella villa ci fosse un altro bambino insieme a lei. Immaginò, veloce, di giocare con qualcuno a nascondino e di vincere e ridere, e di mangiare insieme il gelato a merenda e scambiarsi a vicenda i giocattoli e i pastelli, e quei pensieri le fecero dondolare più velocemente le gambe sulle scale. "E' qui?".

Sofia scosse il capo, e per un momento rimase ferma, in silenzio, a guardare il nulla con le mani strette sulle ginocchia e un chissà quale pensiero in testa a distrarla a tal punto. Poi si riscosse con un respiro più forte, la guardò e sorrise, e si alzò in piedi velocemente spolverandosi la gonna con i palmi e borbottando qualcosa su quanto poco le piacesse quell'abbigliamento. Quando lei tornò alle sue faccende ("Prima che tuo zio mi scopra", aveva detto), Mila decise di raggiungere la sua camera per vedere se la mamma si fosse finalmente svegliata. Con l'album da disegno stretto al petto e l'astuccio verde infilato nella tasca del pigiama, trotterellò lungo il corridoio, incoraggiata dalla luce sempre più forte del giorno che scacciava la penombra, porgendo il braccio verso sinistra per sfiorare le tende con la mano e farle dondolare sopra il pavimento. Pensò al suo disegno che voleva far vedere alla mamma, e che forse anche a lei avrebbe dovuto spiegare le favola dei nove draghi. Pensò alla storia allora, e a Sofia.

Pensò a Eirene.

Si chiese se anche lei fosse una figlia dei draghi bianchi.










Onigiri





note autrice:


Secondo (primo in realtà XD) capitolo. Mi dispiace molto che fino al quarto non succeda praticamente nulla, e che la trama possa risultare noiosa almeno fino ad allora. Però questi capitoli mi sono assolutamente necessari per introdurre la storia.

A proposito di storie, La figlia dei Draghi  è una favola cinese che personalmente trovo molto graziosa =). E se qualcuno avesse voglia di leggerla, la può trovare Qui:
http://www.pinu.it/figlia_draghi.htm.

Per i commmenti:


 darllenwr : Ti ringrazio tanto. quando ho letto la tua recensione ho passato il resto della giornata con un sorrisotirato da un orecchio all'altro, come una perfetta idiota XD. Spero di non deluderti, e che la storia possa piacerti =).
Per rispondere alla tua domanda... allora, sull'ambientazione ho forti dubbi persino io °_°. Voglio dire, io vivo in sardegna, dalla mia isola non mi sono praticamente mai mossa. Ho pensato di usare L'Italia come scenario, ma sulla città/provincia/regione eccetera sono piuttosto indecisa XD: non ho mai viaggiato, non conosco bene nemmeno la porta di casa dei miei vicini, e ho paura di incappare in qualche errore grossolano di tipo geografico che mi possa portare a nascondermi sotto il letto per un mese per l'imbarazzo ^^". Trattandosi di una storia fantasy, non mancheranno contesti e personaggi anche di questo tipo, ma parlando della realtà, lo ammetto, non saprei davvero che rispondere -.-". Per ora, visto che non mi è necessario, lascio all'immaginazione del lettore. Poi vedrò, non appena avrò tempo almeno per rileggermi il libro di geografia delle superiori (brrr!).
Grazie mille ancora =D.


 Kinpatsuchan : Kinpa! °O° mamma, ma da quanto tempo non ci sentiamo ç/ç! Me chiede scusa per non essere più riuscita ad aggiornare su manganet, ma non è proprio il più grandioso dei periodi questo -_-". Immagina tu la mia sorpresa nel vedere un tuo commento! sono stata davvero contentissima, non lo puoi immaginare **. Ecccerto che mi interessano le tue avventure informatiche, sono molto, MOLTO più interessanti della robaccia che ti vedi costretta a commentare u_u.
Davvero, sono stata contentissima! E ti ringrazio *_*, sei sempre gentile, e io non faccio che adorare le tue recensioni. Ma -per rispondere al commento- per vedere la fine di questa cosa qui... eh! se anche scrivessi un capitolo al giorno, fidati che ce ne vorrà di tempo XD (trema al pensiero). Spero di risentirti presto =D! Grazie ancora.



E poi, ovviamente, ringrazio tantissimo chi ha la paziena di leggere  >//>. Non che a qualcuno possa importare, però io tengo davvero tanto a questa storia, per questo mi rendete tanto contenta ^//^! Grazie, grazie! Farò del mio meglio per farne uscire fuori perlomeno qualcosa di decente >/>.


Un bacio a tutti,
onigiri!





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Capitolo 3
*** Kala Nag ***


Legame
   Legame   
(Le pietre blu) 











Capitolo 2








<<>>, Petersen sahib sorrise nuovamente. <<Quando avrai visto danzare

gli elefanti, allora è il tempo adatto. Vieni da me quando hai visto danzare gli elefanti, e allora ti permetterò di etrare in tutte le keddahs.>>

Ci fu un altro scoppio di risa, perchè questo è un vecchio scherzo 

fra i cacciatori di elefanti e vuol dire semplicemente mai. VI sono grandi radure

piane nascoste nel profondo delle foreste che sono chiamate sale da ballo

degli elefanti, ma anche queste si trovano per caso, e nessun uomo ha mai

visto gli elefanti ballare.

“Toomai degli elefanti (Il libro della giungla) -Rudyard Kipling" 















Quel quadro era stato, non appena aveva messo piede in quella stanza per la prima volta, la cosa che più di tutte aveva catturato la sua attenzione. L'abito della donna era di un celeste scuro e morbido, con ricami dorati sul colletto e sulle maniche, e ricadeva lungo il pavimento in piccole pieghe disordinate che le facevano venir voglia di afferrarle e strizzarle tra le mani come fossero spicchi di spugna; appariva, agli occhi di Mila, così spumoso e soffice che più di una volta aveva immaginato di allungare le mani per sfiorarne la gonna, e scoprire se era fatta di seta, o cotone, e quale effetto potesse farle stringersela addosso fino ad affondarci il naso o lasciar scorrere il tessuto sopra le dita e studiarne la consistenza in ogni più insignificante sfumatura.

L'uomo la baciava, afferrandole il mento con prepotenza e delicatezza, mentre l'altra mano le teneva la nuca nascondendo le dita tra i fili scuri dei sui capelli né lisci né mossi. Aveva, come Mila il giorno in cui erano arrivate alla villa di suo zio, un cappello piumato in testa che gli copriva il volto fino alla punta del naso, e addosso un mantello dall'aria ruvida e di un colore curioso, che a volte le sembrava rosso, e altre marrone.

La incuriosiva quell'immagine, le piaceva, ma al contempo non sembrava dirle nulla: pensarci un po' la faceva ridere e un po' le lasciava sfuggire qualche piccola smorfia di ribrezzo, ma sapeva anche bene che tutti i fidanzati adulti si danno sempre un bacio sulla bocca.

Il Bacio, ecco. Era quello il nome del quadro, a detta di zio Amos.

"...un falso ovviamente" aveva poi subito aggiunto, con un quiete risolino appena accennato sulle labbra pallide come vetro.

Era successo la sera del loro arrivo, quando Amos le aveva mostrato la camera dove avrebbero dormito e si era scusato perché l'anta di un armadio era rotta e per aprirla bisognava tirarla con più forza. Mila si era fermata a guardare il quadro, senza neanche capire subito cosa ci fosse disegnato perché era troppo in alto, e lo zio le si era subito avvicinato, con le mani intrecciate dietro la schiena e lo sguardo sottile rivolto verso la tela appesa sopra il camino. Lei, sul momento, stringendo al petto il suo libro di fiabe orientali come se fosse un talismano, aveva pensato di allontanarsi subito, raggiungere sua madre e aiutarla a poggiare la valigia sul letto per scegliere quali vestiti andassero prima dentro i cassetti, e -dando un'occhiata proprio a quel letto- di sdraiarsi sul materasso a pancia in su e contare di quanti riflessi brillavano quei pendenti di cristallo del lampadario, mangiare uno dei pacchetti di cracker senza sale che Daniela aveva sempre dentro la borsetta, e poi leggere ancora la storia del piccolissimo Issun Boshi che sconfisse gli Oni cattivi usando uno spillo come spada. Ma non si era mossa, curiosa, attratta dall'olio colorato come una mosca dal vischioso e dolcissimo miele, così improvvisamente vogliosa di immergersi nella tela con la sola forza dello sguardo da dimenticarsi persino quanta inspiegabile antipatia provasse nei confronti di suo zio.

Amos, allora, senza dare alcun segno d'aver intuito i suoi pensieri, aveva iniziato a parlare, con una tale enfasi racchiusa nella sua voce che era stata appena percettibile, ma che a Mila, pur non capendo di cosa si trattasse, non era sfuggita: le aveva rivelato il nome del quadro, di chi l'avesse dipinto e della galleria d'arte dove era invece conservato l'originale. Prima che Daniela li raggiungesse per sapere di cosa stessero parlando, poi, aveva avuto anche il tempo di dilungarsi nella sua spiegazione, accennando agli accordi di Plombiéres, dicendo che i colori delle vesti dei due amanti dovevano voler rappresentare un'alleanza tra Italia e Francia a metà del XIX secolo, e che il piede dell'uomo, quello poggiato sul gradino, era un simbolo di precarietà (chissà, si era chiesta Mila, che poteva voler dire pre.carità.), perché lui se ne stava andando e che dunque quello era un saluto,una fuga ritardata appena, un ultimo, eterno bacio prima dell'addio.

Per i due giorni che erano seguiti da quel discorso dello zio Amos, a Mila era piaciuto spesso guardare quel quadro, e nel farlo ripensare ai baci che si scambiavano i suoi genitori a casa sua: quelli lenti, quel piccolo sfioramento di labbra sulle guance e sulle bocche quando suo padre tornava dal lavoro e la mamma gli andava incontro e scherzosamente lo rimproverava per il ritardo anche quando non c'era stato, oppure quelli lunghi stretti e veloci che lei poteva scorgere solo dallo spiraglio di una porta socchiusa o un buco a forma di serratura. Anche in quel momento, con l'album sorretto sotto un braccio e l'astuccio verde nell'altra mano, studiandolo di nuovo come se lo vedesse per la prima volta, si domandò cosa avrebbe fatto suo padre se fosse stato costretto a scappare come l'uomo nella tela, o se avesse saputo che proprio quel martedì mattina un'auto non avrebbe rispettato il semaforo mentre lui attraversava la strada. Anche lui avrebbe baciato così la mamma, l'avrebbe stretta afferrandole il viso i capelli e le labbra così, e la mamma, pensò ancora, sarebbe stata meno triste se le cose fossero andate in questo modo?

Pensando proprio a sua madre distolse lo sguardo dai due occupanti del Bacio, poggiando il suo album da disegno e tutto quello che aveva in mano sul tavolino vicino al caminetto, all'ombra di due boccioli di rosa dai petali gialli che sfumavano di rosso sulla punta. Erano chiusi, col gambo brutalmente incurvato verso il basso, e ciò che Mila pensò fu che anche loro stessero ancora dormendo: decise di non fare rumore per non svegliarli, e cercò, nel frattempo che prendeva quella decisione, di dare un nome alle figure azzurre  -Fiori? Stelle?-  che decoravano quel loro strano vaso simile a un grosso e buffo fungo bianco.

Dentro un vaso

di porcellana,

c'è una bella

cinesina.

Mila poi lasciò perdere i fiori e, nel voltarsi verso il letto, lasciò vagare lo sguardo intorno alla stanza che, fino a quando sarebbero rimaste a casa dello zio, sarebbe stata la loro camera da letto. A lei non piaceva, anche se era molto più grande della sua, e anche se ai suoi occhi era così elegante da sembrare quella di una principessa. Ma tutto quel bianco non le piaceva. Il riflesso di ogni passaggio di luce sul pavimento e sulle pareti le dava fastidio agli occhi, e la rendevano così vuota, e fredda, da darle subito noia e fastidio, come nel navigare con lo sguardo a lungo e a forza nel fondo piatto e immutabile di una tazza da the. Troppo bianca, era il problema di quella camera: bianca, si era però ritrovata a pensare in quei due giorni, come il palazzo ghiacciato della Lapponia della bellissima e crudele Regina delle Nevi, o come il castello di pepe e sale dove una strega imprigionò Piumadoro facendola volare fin laggiù con un incantesimo  -'Tu col vento ci verrai', diceva la strega, 'con la pioggia te ne andrai'.

Pensando ancora a quella favola, Mila, per gioco e per noia, saltellò sulle mattonelle quadrate del pavimento con un piede solo, cercando di non toccarne i bordi che per finta avrebbero imprigionato anche lei in palazzo freddo o salato, e continuò fino a raggiungere la parte del letto dove ancora sua madre stava dormendo.

Daniela non dette segno di volersi svegliare, ma lei la fissò a lungo aspettandosi quasi che aprisse gli occhi così all'improvviso da farle spavento e che ancor più in fretta si alzasse dal letto e prendendola in braccio la portasse in cucina per farle fare finalmente colazione. Aveva i capelli arruffati, lunghissimi, e di un colore mogano molto simile al suo; la pancia premeva contro il materasso e il volto era nascosto dalle braccia mentre stringevano il cuscino, affondando nella federa le unghie di tutte e dieci le dita delle mani. E le caviglie erano incrociate l'una sul l'altra, proprio come faceva quando si doveva sedere di fronte a qualcuno di importante, che fosse una delle sue maestre durante i colloqui o il padrone di casa dopo averlo fatto accomodare in salotto e offerto immediatamente qualcosa da bere  -era strano il signor Fortini: chissà come mai era sempre arrabbiato, anche se a Mila piaceva l'odore di birra che impregnava i cuscini del divano ogni volta che lui ci si sedeva sopra.

Daniela dormiva con un'aria tranquilla sul volto come Mila non aveva più visto da quando era morto suo padre, e che, senza che se ne rendesse conto, la fece sentire tranquilla a sua volta. Ma constatando che non si sarebbe svegliata non trattenne uno sbuffo annoiato: con quattro saltelli girò attorno al letto e raggiunse quella parte di materasso dove lei aveva dormito e che ora era poco più di un disordinato groviglio di lenzuola. S'infilò le ciabatte, si portò in avanti e allungò il braccio per prendere quello che aveva poggiato sopra il cuscino prima di andare a disegnare nel corridoio del primo piano, afferrando la zampa e trascinandolo verso di lei, non esitando un attimo ad accoglierlo tra le braccia ed accarezzargli il pelo corto e ruvido della pancia. 

Come a tutte le storie che aveva letto e che le avevano raccontato, lei credeva anche a quella del mostro che vive sotto il letto. Credeva che, acquattato nell'angolo più buio del pavimento, attendesse pazientemente il sonno dei genitori di un bambino prima di uscire fuori, e ringhiare, e prenderlo per le caviglie e trascinarlo con sé nella sua tana scura per mangiarlo tutto in un boccone. Glielo aveva spiegato Roberto, un compagno di classe dai capelli sempre arruffati e il naso all'insù, durante l'ora di ricreazione: lui l'aveva visto (e lo aveva giurato sulla testa del suo fratello minore), quando aveva scoperto che ce n'era uno sotto il suo letto, e che allora aveva fatto finta di dormire e si era raggomitolato sotto le coperte come un gatto, zitto zitto, con i pugni stretti e senza un soffio di fiato in gola  -c'era stato almeno dieci ore, aveva raccontato, senza mai respirare per non fare alcun rumore. L'aveva sentito ringhiare, come ringhiava quel grosso cane bianco e nero di una casa vicino alla scuola nel vedere un qualche bambino passargli davanti anche solo per sbaglio, e che allora lui era eroicamente uscito fuori da sotto le coperte con in mano la torcia elettrica del padre: Roberto, con i denti sporchi di mollica e scaglie di cioccolata, le aveva raccontato che allora il mostro aveva urlato e si era sciolto contro la luce come era accaduto alla strega del Mago di Oz quando le versarono l'acqua addosso, e che lui allora ne aveva gettato la carcassa nella spazzatura raccogliendola con la scopa. Ma sulla descrizione del mostro non si era mai dilungato troppo, accennando a volte a dei lunghi peli neri su tutta la faccia, o alla schiena ricoperta di spine come quella di un porcospino, o al fatto che era alto, altissimo, almeno quanto un adulto, e che aveva gli occhi rossi -gialli, aveva detto una volta-  e piccoli, e cattivissimi come quelli di un orco.

Mila ci aveva creduto, tanto che la notte non era più riuscita a dormire da sola, rimanendo raggomitolata sotto le lenzuola con le orecchie tese, pronte a captare il minimo soffio sconosciuto, rabbrividendo di terrore ad ogni più piccolo scricchiolio delle pareti e del soffitto, ben attenta a non togliere nemmeno le dita dei piedi da quel piccolo rifugio per paura di sentirsele mangiare. Il mostro arrivava sempre quando andava a dormire: strisciava fuori da sotto il letto come un serpente, con i peli scuri ritti su tutto il corpo e gli aculei sulle spalle affilati come coltelli, e zanne lunghissime che nel buio brillavano della stessa luce spettrale dei fantasmi; a volte le era persino sembrato di sentire il suo ringhio affamato vibrarle malignamente nelle orecchie e il soffio bollente dell'alito sfiorarle la punta di ogni capello, e allora lei taceva fino a quando o polmoni non scoppiavano dal terrore facendola urlare con ogni brandello di fiato che avesse in corpo anche dopo aver visto i cuoi genitori accorrere nella sua cameretta per prenderla in braccio. Non riusciva ad avvicinarsi al suo letto senza pensare al racconto di Roberto, e per quanto (sempre quando c'era anche un adulto con lei) controllasse sotto le coperte che non ci fosse nessun mostro con le zanne e gli occhi simili a gocce di sangue, la paura tornava ogni vota a farle battere i denti e le ginocchia non appena si infilava sotto le coperte e qualcuno spegnesse la luce. Poi suo padre, un pomeriggio, era tornato a casa con la giacca bagnata di pioggia e un regalo sottobraccio tutto per lei.

'Con lui puoi stare tranquilla', le aveva detto, accarezzandole la punta del naso con la morbida proboscide del peluche. 'Se vede un mostro o un fantasma ti sveglierà subito'.

Così Mila aveva permesso a quell'elefantino dal pelo grigio e il baldacchino rosso e argentato di sdraiarsi accanto a lei sul materasso, facendolo accomodare contro il petto ogni volta che doveva andare a dormire, e lo aveva chiamato Kala Nag: come l'elefante che una notte portò il piccolo Toomai nel cuore della giungla, e Toomai fu il primo uomo che, sotto la lucente luna ferrosa dell'India, poté vedere gli elefanti ballare.

Mila guardò il suo peluche, cercando qualcosa di simile al conforto in quel sorriso cucito nella stoffa o nei suoi occhi neri e rotondi come biglie scure, mentre il suo stomaco brontolava silenziosamente reclamando la sua colazione. Ignorò la fame, decidendo che non voleva andare a mangiare da sola e di aspettare ancora il risveglio della mamma. Si pentì d'aver già finito le caramelle che Daniela le aveva comprato per il viaggio in macchina verso la casa dello zio: le aveva tenute chiuse nel loro pacchetto di rete azzurra per tutto il tempo, dimenticandosi già della loro esistenza non appena uscita con lei dal supermercato e ricordandosene solo dopo l'ultima cena passata con lo zio Amos. Aveva strappato con i denti il brutto nastrino sgraziato che teneva chiuso il pacchetto e le aveva finito tutte le caramelle senza neanche contare quante fossero, perché lei odiava il pesce e quando l'avevano servito a tavola si era rifiutata in tutti i modi di toccarne un solo pezzetto, e tornando in camera arrabbiata ed affamata si era chiusa in bagno e le aveva divorate tutte fino a quando non si era messa a piangere e chiamare sua madre perché le era venuto il mal di pancia. Dopo però aveva conservato il pacchetto vuoto in fondo alla valigia che la mamma aveva infilato dentro l'armadio, perché lei le aveva sempre consigliato di non buttare via niente, e che quello che sul momento non le sembrava servire avrebbe potuto tornarle utile in futuro.

Senza aver voglia di leggere ancora qualche favola ora che la sua testa era quasi completamente annebbiata dall'appetito, pensò, non con molta convinzione, che forse avrebbe potuto disegnare ancora un poco, ed alzò gli occhi verso l'album che aveva lasciato sul tavolino, dall'altra parte della stanza, vicino al vaso.

Dentro un vaso

di porcellana

Mila mosse un passo in avanti, mentre i suoi pensieri tornarono velocemente a quel motivetto che stava canticchiando nel saltare dentro le mattonelle con un piede solo, poco prima di raggiungere il letto. Era una filastrocca che cantava sempre con le altre bambine dell'asilo, quando ognuna sceglieva una compagna e ci si metteva una davanti all'altra e si facevano scontrare le mani destre, poi quelle sinistre, poi entrambe, e poi ancora d'accapo e ancora, cercando di non perdersi nei movimenti sempre uguali e sempre più veloci, al ritmo di parole storpiate e di quei battiti di mani simili al suono delle nacchere.

C'è una bella

cinesina

Mila, con quella canzoncina in testa, portò Kala Nag di fronte a sé, e anche se non poteva battere le mani con lui immaginò che fosse Giulia, quella bambina così simile alla Riccioli D'oro che andò alla casa dei tre orsi e si sedette sulle loro sedie, mangiò la loro minestra e dormì nei loro letti: la stessa bambina che durante quel gioco voleva stare solo con lei perché era stata l'unica ad averle fatto notare questo particolare.

Così mosse un altro passo in avanti, guardando il proprio riflesso negli occhi neri del suo piccolo elefante scaccia mostri, mentre lui, per risposta, continuava a sorriderle come se si stesse davvero divertendo con lei.

Che vuol ballare

la danza americana

Un altro passo e poi veloce girò su sé stessa, immaginando di fare il girotondo o le capriole sul prato dietro casa sua, stringendo con più forza le zampe del peluche quando lo sentì scivolarle dalle dita per volare via, con quella canzone che le suonava nelle orecchie quasi la stesse ascoltando davvero, con le voci infantili, il battito delle mani e le risate e i saltelli eccitati delle sue compagne di classe. Girò ancora e si lasciò andare a quei ricordi come se fossero musica da danzare e quasi le scappò un risolino divertito che le fece tremare forte le labbra.

Col capitano

della marina.

Cantò a labbra strette e si fermò nel sentire la testa cominciare a girarle vorticosamente sul collo, stringendo ancora il suo piccolo elefante grigio contro il petto e poggiandosi alla parete per impedirsi di ritrovarsi malamente scivolata sul pavimento. Respirò più a fondo e poi guardò la mamma, e poi i fiori, assicurandosi di non aver svegliato nessuno nel fare tanto rumore con le scarpe. Poi sbuffò, accaldata e con la testa ancora scombussolata dal forte girotondo che aveva appena finito di compiere si avvicinò alla finestra, e scostò la tenda con un gesto della mano che avrebbe potuto ricordare quello di una principessa che desidera congedare qualcuno con poca garbatezza.

Chiuse le palpebre quando il sole ancora basso cercò di catturare tutta la sua attenzione gettandole negli occhi la luce più bella e abbagliante che aveva a disposizione. E con una mano che ancora sfiorava la stoffa leggera della tenda e l'altra avvolta contro il pelo ruvido del collo di Kala Nag, si spinse un po' più in avanti sul davanzale, cercando di guardare -finché la luce contro gli occhi glielo permetteva-  il paesaggio disegnato oltre il vetro della finestra.

Signorina vuol ballare?,

Accaì, Accaò.

Ormai solo il piede destro sembrava voler proseguire il balletto che aveva appena finito di eseguire, saltellando su sé stesso al ritmo di quella musichetta che Mila, se vista in quel momento assorta com'era nello studiare il mondo da quella finestra, sembrava non ci stesse nemmeno pensando più.

Osservò l'erba sul prato, fili verdi eretti come soldati e brillanti di rugiada sotto il sole mattutino, poi quei buffi fiori arancio e gialli ("...narcisi. Sai chi era Narciso, Massimiliana?") che incorniciavano il giardino, del quale però Mila, da lassù, non riusciva a vederne che solo qualche piccola pianta rosa, o forse viola  -Nerine? Campanule?

Corrugò la fronte, non soddisfatta d'aver visitato tutto il giardino dello zio il pomeriggio precedente, di essersi immersa nel latte e rosso dei gigli e in tutti i colori delle profumatissime primule alla ricerca di una qualche fatina intenta ad assistere alla nascita di un bocciolo, a deciderne le sfumature dei petali e a mischiare le essenza per darne una chissà quale fragranza incantevole. Avrebbe voluto guardare quel giardino anche dall'altro, per vedere che effetto poteva fare, da lassù, vedere accostato il verde col bianco e il rosa col giallo, e magari, se nascosta dietro la finestra della sua stanza, scorgere davvero un qualche esserino magico prepararsi con l'arrivo del mattino a scappare tra i gambi e i fili d'erba per non farsi vedere da nessuno.

Signorina vuol ballare?,

Accaì, Accaò.

Io non posso ballare,

Accaì, Accaò.

Allora Mila alzò lo sguardo per contare i tetti di altre case spuntare da lontano tra le chiome degli alberi, studiò quegli strappi di buio che erano rimasti impigliati tra i rami e abbracciati alle cortecce e che la notte aveva lasciato indietro nel suo andar via per far spazio alla mattina.

Le foglie puntigliose dei ginepri vibrarono leggermente al tocco del vento e della luce, come se si stessero appena destando dal sonno, i corbezzoli e i prugnoli lasciarono che il sole facesse brillare come gemme i loro frutti rossi e neri, esibendoli superbamente quasi fossero gioielli rari e pregiati. 
I tronchi si scrollarono di dosso la loro coperta umida e scura per godersi i raggi del mattino, facendo risplendere la loro pelle grigia e rugosa di legno o i loro mantelli di foglie palmate d’edera umida. Gli stessi alberi sembravano quasi pavoneggiarsi quando il soffio del vento ne faceva gonfiare i rami e le foglie, pur mantenendo tuttavia un modesto contegno di chi tanto ha vissuto nel corso delle stagioni, della pianta che, dall’alto dei suoi anni, osserva il giovane arbusto coprirsi dei fiori e dei frutti più belli e se ne gongola con vanesia, e allora sembra quasi scuotere il capo e borbottare qualcosa prima di tornare alla sua immobile e saggia contemplazione del tempo e della natura. 

Mila, sempre meno attenta, continuò a guardare gli alberi più lontani finché quella distesa di rami e foglie non lasciò spazio a una strada zigzagante tra le curve delle colline. La brama di toccare quel verde, di immergersi in quel luogo di terra dura e vecchie cortecce e di sentire l'odore pungente dei funghi e del muschio (come aveva fatto il giorno prima con il giardino e i suoi colori e profumi sgargianti) aveva già messo radici quando avevano attraversato il bosco con il taxi, e si era fatta sempre più strada nel suo cuore fin quasi a diventare una piccola ossessione: Mila (la cui fantasia si era messa a far festa al solo pensiero di chissà quali esseri magici dovessero esserci laggiù) rabbrividiva per l'eccitazione alla sola idea di trovarci un lupo ingannatore nascosto dietro un cespuglio e pronto a saltar fuori per rubarle la merenda, o una casa di zucchero e marzapane da poter assaggiare prima che arrivasse la strega cattiva da dietro la sua porta di liquirizia, o anche solo un chissà quale spiritello dispettoso o animale fantastico nascosto malamente tra gli alberi.

Io non posso ballare,  

Accaì, Accaò. 

E perché non puoi ballare?, 

Accaì, Accaò.

Anche se lei non aveva mai espresso quel desiderio ad alta voce sua madre l'aveva intuito lo stesso, dal modo che aveva avuto di squadrare ogni singolo albero presente da dentro il taxi e da come aveva continuato a contemplare quel bosco in lontananza ogni volta che ne aveva un'occasione, e perché la conosceva, e anche se Mila aveva smesso di essere la terribile chiacchierona di un tempo lei riusciva ancora, bene o male, a capire cosa le passasse per la testa.

Daniela, pur non amando affatto qualsivoglia attività a contatto con la natura che escludesse il giardinaggio o una calda spiaggia dove prendere il sole, si era azzardata, tra un complimento e l'altro sul giardino (quelle stupende rose rampicanti, l'odore delizioso di quella lavanda, lo splendido azzurro di quei plumbago...), a proporre al cognato una passeggiata in quel bel boschetto laggiù, magari dopo l'ora di pranzo. Sorridendo dolcemente al fratello maggiore del suo defunto marito, aveva visto con la coda nell'occhio una Mila concentrata su una pianta di Ibisco  -chissà perché amava tanto i fiori rossi- 

che al sentire quelle parole si era subito voltata nella sua direzione, per poi tornare, con lo sguardo rivolto ad una fila di formiche nere sopra un sasso e le orecchie ben puntate verso di loro, al suo muto studio del giardino, come se non avesse udito alcunché uscire dalla bocca della mamma.

Amos, con le mani compostamente intrecciate dietro la schiena e il suo solito sorriso dolce e indecifrabile, aveva distolto lo sguardo da quello della cognata e l’aveva rivolto verso il basso, forse riflettendo sulla risposta da dare alla sua richiesta: aveva socchiuso gli occhi scuri in un’espressione dispiaciuta, e poi era tornato a guardarla, dicendole che il bosco poteva essere pericoloso in quel periodo dell’anno, che c’erano molti cinghiali nei dintorni e che anche se in genere sfuggivano agli esseri umani le femmine diventavano particolarmente aggressive  per di difendere i loro cuccioli da qualunque possibile pericolo.
Daniela, che era disposta anche a scarpinare sulle rocce e tra gli alberi pur di far felice la figlia, era rimasta scossa dalle parole di Amos, dal tono calmo e seriamente preoccupato con il quale si era rivolto alla cognata: senza rendersene conto aveva assunto un’espressione tale che a Mila era bastato osservarla solo un momento per capire i suoi pensieri e per tornare, improvvisamente di malumore, a camminare per conto suo senza neanche guardare tutti quei fiori che sembravano volerla chiamare da lontano o cercare di afferrarle i lacci delle scarpe quando passava loro accanto, desiderosi di complimenti, di carezze leggere, di un naso o uno sguardo compiaciuto che potesse gonfiargli i petali d'orgoglio.

E perché non può ballare?,

Accaì, Accaò.

Ho una spina dentro il piede.

Accaì, Accaò.

Mila allungò il braccio e punzecchiò distrattamente la punta delle dita contro il vetro, ancora concentrata sul paesaggio e sui ricordi poco gradevoli del giorno precedente. Sospirò ancora, annoiata e accaldata dal sole che le copriva il viso di luce e dalle giravolte che aveva appena eseguito, ma il leggero e fastidioso sudore sulla fronte divenne poi l’ultimo dei suoi pensieri quando, a quel paesaggio di rami erba e fiori che stava studiando con sempre meno interesse, si aggiunse una figura che prima non aveva nemmeno notato.
Curiosa, si sollevò sulla punta dei piedi e si sporse il più possibile in avanti, schiacciando il naso e la mano contro la finestra per poter guardare meglio la persona che aveva appena visto, ma riuscì appena a scorgere una macchia grigia e una sfumatura scura in quella che, forse, era la testa.

Allora saltellò sulla punta dei piedi per potersi spingere in alto e in avanti e per poter guardare meglio, sbuffando e pensando di prendere una di quelle sedie che stavano attorno al tavolino dove aveva poggiato il suo album, ma temeva anche che se avesse distolto lo sguardo quella figura sarebbe scomparsa, e lei non avrebbe mai capito di chi si trattasse. Era un uomo, forse, a giudicare dal taglio della giacca, e che dava le spalle alla villa di suo zio , ma non capì nient’altro. Avrebbe voluto guardarlo meglio, non riuscendo a scorgerne altri particolari che potessero aiutarla a capire quanto fosse alto, o basso, o magro, o grosso, o giovane o vecchio. Sentì le labbra premere contro il vetro e farlo diventare caldo e opaco col suo respiro, mugolò poco soddisfatta e guardò ancora, chiedendosi poi se in realtà non stesse guardando lo zio Amos.

Ho una spina dent-.

Mila non si accorse che il vento si era alzato all’improvviso scuotendo gli alberi e l’erba del prato e scontrandosi contro la sua finestra fino a quando non sentì degli spifferi sfregarle le orecchie con un lamento lungo e stonato, simile al suono di un soffio sopra un foglietto di carta.
Alzò lo sguardo, senza pensare, verso lo strano inchinarsi degli alberi che già però cominciava a farsi più lento, dondolando, tremando, rabbrividendo e poi sussultando un’ultima volta come se nulla fosse accaduto.

Quando cercò quella figura misteriosa che aveva perso di vista si sentì sollevata nel ritrovarla ancora lì, dove l’aveva lasciata, prima di rendersi conto che la posizione era cambiata, che quel signore, chiunque fosse, si era voltato, che la giacca aperta in avanti mostrava una camicia bianca oppure beige, che il mento si era alzato e che il suo volto era puntato verso l’alto.
Incrociare  il suo sguardo fu come osservare il nero di un cielo senza luna lasciarsi attraversare da un fulmine che veloce lo incrina e lo spacca e ruggisce furioso di luce accecante, e Mila sentì il cuore balzare spaventato dentro al suo petto e subito si staccò dalla finestra di qualche passo e stringendo a sé con entrambe le braccia il  suo piccolo e sempre sorridente Kala Nag.
Sentì un brivido sfiorarle appena le spalle, leggero come la carezza di una piuma, gli occhi scuri concentrati sulle sue scarpe, sulla parete, sul davanzale e poi subito in un altro punto della stanza, non riuscendo a guardare ancora la finestra di fronte a lei per paura di rivedere la cosa che l’aveva appena spaventata.
Sul letto, Daniela allungò le braccia verso l’alto per stiracchiarle, con un mugolio assonnato che fece girare Mila nella sua direzione. Subito il suo stomaco le ricordò con un brontolio più forte e rumoroso degli altri che ancora non aveva mangiato.

E Mila, qualunque cosa avesse visto dalla finestra, cominciò già pian piano a dimenticarsene.
















Onigiri











note autrice:


Orbene... un altro capitolo in cui non succede raticamente nulla >_>". Mi dispiace, ma questi capitoli di transizione (scusate se sono così insopportabilmente ripetitiva -.-" ) mi sono davvero  necessari per introdurre la storia. L'azione (chiamiamola così XD) inizierà dal prossimo in poi.  E spero possa piacere come svilupperò questa storia =D.

Per ciò che riguarda questo capitolo, immagino che la storia di Toomai e Kala Nag sia abbastanza conosciuta. Per chi, invece, fosse incuriosito dalla favola della principessa Piumadoro, metto qui un link:
Piumadoro


Per i commmenti:


 darllenwr :Che dire...? Sono stata davvero, davvero felicissima quando ho letto il tuo commento ç//ç. Hai parlato proprio di quello che speravo di riuscire a far intendere col capitolo, e sapere di esserci riuscita mi ha reso tanto contenta! Anche io trovo i Draghi creature molto affascinanti, e per questo ho voluto parlare della differenza di culture fra oriente ed occidente =). Mi fa piacere anche che la descrizione di Amos e di Sofia sembra essere uscita piuttosto decente XD. Non mi è sempre facile cercare di guardare un adulto sotto la prospettiva di un bambino, anche se è una cosa che mi sta divertendo molto per scrivere questa storia.  Ti ringrazio ancora tanto per la tua gentilezza. Farò il possibile perchè la storia non mi riesca più stupida di quanto sia di suo XD.
Grazie ancora!


 Kinpatsuchan : Kinpa =D! qualunque cosa riguardi te per me è fonte di interesse più di qualunque mia schifezza su carta (o schermo °_°), sappilo u_u. E anch'io voglio un pigiama con le ciliegie! ("cosa c'entra?" o.O -NDKinpa).
XD ti ringrazio cara. Sei sempre stata gentile e paziente con me, e trattandosi di una storia a cui davvero tengo tanto sapere che perlomeno i primi due capitoli non ti hanno ancora portato al suicidio (spero di no! °O°) mi fa davvero tanto piacere! E sono contenta che la favola dei nove draghi sia piaciuta anche a te =): io amo le fiabe e non posso non approfittare del fatto che Mila sia una bambina per parlarle a tutto spiano XD.
Grazie Kinpa, sei sempre carinissma! grazie!



Ovviamente, ringrazio tantissimo anche chi ha solo letto la storia -sapere che qualcuno estremamente paziente legge questa roba mi fa saltare dalla sedia come una cretina XD.



Un bacio a tutti quanti,
onigiri!





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Capitolo 4
*** Il trillo del diavolo ***


Legame
   Legame   
(Le pietre blu) 











Capitolo 3








Una notte (1713) sognai che avevo fatto un patto e che il diavolo era al mio servizio.

Tutto mi riusciva secondo i miei desideri e le mie volontà erano sempre esaudite

dal mio nuovo domestico. Immaginai di dargli il mio violino per vedere se fosse arrivato

a suonarmi qualche bella aria, ma quale fu il mio stupore quando ascoltai una sonata

così singolare e bella, eseguita con tanta superiorità e intelligenza che non potevo concepire nulla

che le tenesse al paragone.  

Giuseppe Tartini, lettera a Deladande 














'Lo sai chi era Giuseppe Tartini, Massimiliana?'

Addentando, più per noia che per fame, un altro pezzetto di pollo, a Mila venne da pensare che lo zio Amos aveva un modo strano di sorridere: era strano quando tirava gli angoli delle labbra verso l'alto, solo di un poco, facendole sembrare ancor più sottili e ancor più pallide di quanto già non fossero, e quando le palpebre si abbassavano in maniera quasi impercettibile, e i lineamenti levigati del volto si rilassavano in un'espressione che, se osservata con poca attenzione, avrebbe quasi potuto sembrare serena.

Era diverso da suo padre: lui aveva gli occhi chiari e i capelli biondissimi -e Mila avrebbe passato ore a guardarli risplendere filo per filo come sottilissimi raggi di sole. Le piaceva quando lui l'abbracciava o si chinava verso di lei, perché così poteva sentire meglio l'odore della sua pelle (burro caldo? Lavanda sotto la pioggia? Non aveva mai saputo dirlo), e adorava la sera farsi baciare e rimboccare le coperte da lui, e il modo con cui le sorrideva prima di spegnere la luce e uscire dalla camera e augurarle la buonanotte dalla porta semichiusa. Eppure suo zio gli somigliava, proprio quando le guance si distendevano docilmente, bianche come lenzuoli, e la bocca si incurvava appena verso l'alto, e magari, se non fosse stato per quei boccoli d'inchiostro, per quelle iridi scure, o semplicemente per quel suo  -ghigno?-  sorriso, avrebbe anche potuto scambiarlo per papà mentre le raccontava una fiaba.

'Era un violinista. Era nato alla fine del 1600, amava la musica e la scherma, studiava giurisprudenza per diventare avvocato. Una notte fece un sogno molto strano. Sognò un diavolo pronto a esaudire ogni suo desiderio, e di dargli il suo violino per sentirlo suonare.'

Quella storia gliela aveva raccontata quando era da poco passata la fine dell'ora di pranzo; e lei, a quel punto del racconto, pur non mostrando interesse ad una singola parola dello zio, aveva pensato che allora Giuseppe si sarebbe alzato in piedi (perché lo immaginava seduto, con le gambe incrociate sopra un divano di pelle nera, proprio come quello sul quale lei e Daniela si erano accomodate) e avrebbe cominciato a ballare contro la sua volontà. Mila, dopotutto, non aveva mai dimenticato la storia di Patrizio Sincero: non era lui quel ragazzo che col suono del suo violino magico faceva danzare a comando chiunque ascoltasse la sua musica stregata?

Non era stato un burattino a raccontarle quella favola?

Lo ricordava, quando una mattina la loro maestra  -quella grassa, quella signora Lucia con le guance tonde e rosse e che quando parlava l'aria odorava di caramelle alla fragola-  aveva portato la sua classe in palestra, e da dietro un piccolo palcoscenico degli omini di legno e stoffa col sorriso di vernice avevano iniziato a parlare, a cantare, a ballare. E Mila, guardando estasiata dalla seconda fila quegli omini volteggiare goffamente a mezz’aria e il protagonista della favola suonare il suo strumento magico, aveva desiderato che Kala Nag fosse con lei, convinta che se lo avesse posato in quel piccolo finto mondo colorato anche il suo peluche avrebbe potuto camminare e danzare, e poi sorriderle agitando la proboscide e chiamandola per nome.

'Il diavolo obbedì agli ordini del suo padrone. E, Massimiliana, quello che ne uscì dal suo violino fu una musica così incantevole che gli mancò il respiro, stordito dal piacere in un modo che non si può nemmeno immaginare. Quando si svegliò provò e riprovò a suonare quella melodia meravigliosa del suo sogno, ma non ci riuscì mai davvero.'

Mila si portò alla bocca un altro pezzo di carne, assaporando sulla lingua il sapore di pollo e arancia e del metallo della forchetta, non badando alle foglioline di lattuga che sua madre aveva aggiunto alla sua porzione e che lei, prontamente, aveva spostato sul bordo del piatto senza degnarle neanche di una seconda occhiata. Ripensò ancora, annoiata dai discorsi dei due adulti seduti a tavola con lei, a quel pomeriggio passato nello studio dello zio Amos, e a quando lui aveva confessato di amare la musica classica e di essere un bravo suonatore di violino. Pensò a quando, sotto l'insistente richiesta di Daniela, lui aveva tirato fuori il suo strumento da una custodia color carbone, e a quando lei l'aveva visto, stretto nella mano dello zio, con una forma così strana che, a tratti, le ricordava una matrioska, il numero otto, una goccia di miele scuro che aspetta di diventare più tonda e lasciare un solo filo dietro di sé prima di cadere dal cucchiaio. E poi pensò a quando Amos aveva sorriso  -con quel suo sorriso elegante e soddisfatto- , dicendo che sarebbe stato meglio ascoltarlo con un accompagnamento al pianoforte, mentre la mano stringeva con presa ferma il tallone dell'arco, pronto a lasciarlo scivolare sulle corde tesissime del suo violino. Suo zio, allora, aveva sorriso. E aveva chiesto se conoscevano il Trillo del Diavolo.

"...Tesoro." Mila era così presa dai suoi pensieri che le spalle le tremarono in una sorta di sussulto quando si sentì chiamare così all'improvviso. Alzò, piano, lo sguardo dai disegno che decoravano il suo piatto, quel tanto che bastava per vedere il colletto azzurro della camicia della mamma. "Mangia anche la verdura!", le disse lei, con quella sua voce che non ammetteva repliche a meno di non voler passare un brutto quarto d'ora. Mila non rispose, senza riuscire a trattenere una smorfia schifata che prontamente nascose abbassando la testa verso la sua crosta di pane -la mangiava sempre per ultima, cominciando ogni volta dalla mollica. Con la forchetta lasciò perdere i suoi pezzetti di pollo ed iniziò a torturare la foglia di lattuga più grossa, premurandosi di tenerla sempre nella parte più lontana del piatto.

Daniela tornò a guardare Amos non appena finito di parlare, rendendosi conto d'aver interrotto forse troppo bruscamente il suo discorso, e arrossì, imbarazzata. "Dicevi?" domandò, composta, come se nulla fosse successo, ma non riuscendo a non chiedergli scusa almeno con lo sguardo. Lui sorrise, lasciando passare un altro istante di silenzio prima di riprendere da dove aveva cominciato. "Parlavo del Louvre", spiegò carezzevole, incrociando le dita delle mani sopra la tovaglia del tavolo. "Ti chiedevo se hai avuto modo di visitarlo quando sei andata in Francia."

A toi, à moi, pensò subito Mila non appena la parola 'Francia' le sfiorò le orecchie. Le venne subito in mente la piccola e biondissima Geneviève che a scuola adorava disegnare lumache sulla lavagna e che le aveva insegnato quella filastrocca dalle stranissime parole.

A toi, à moi,

Petit noix.

"No" ammise Daniela a bassa voce, affondando le labbra nel suo bicchiere di vino rosso prima di asciugarsele col tovagliolo. "Avevo quindici anni, o sedici al massimo. Non mi interessavano molto i musei a quell'età... sono stata alla Torre Eiffel e alla Sainte Chapelle, ma per lo più ho girato per negozi con le amiche..." . Amos annuì, inclinando di un poco la testa di lato, e lasciando che alcuni suoi boccoli neri ricadessero sopra un'unica spalla. "Dovresti visitarlo, se mai volessi ritornare."

A toi, à lui,

Dit la souris.

A toi, à moi,

C'est toi le roi.

Daniela sorrise, accomodandosi meglio sul duro cuscino di velluto che qualcuno aveva messo sulla sua sedia. "C'è qualcosa in particolare che dovrei visitare nel Louvre?", domandò. Amos distolse lo sguardo da lei per posarlo su un punto impreciso del tavolo, come riflettendo sulla risposta da dare alla sua ospite. "Personalmente, posso dire di adorare i dipinti di Delacroix. La barca di Dante, La libertà che guida il popolo. E' un artista che ho sempre ammirato, uno dei tanti che sono riusciti a farmi innamorare dell'arte." "Ti piace la pittura romantica, vedo."

A moi, à lui,

Ce n'est pas lui.

"L'hai capito dal quadro che avete in camera?". Amos la guardò negli occhi e allargò il suo sorriso, e Daniela, sentendo una nota di compiacimento nella voce del cognato, si ritrovò ancora ad arrossire, soddisfatta al pensiero d'aver appena fatto una buona figura. "Però Hayez non era francese."  "Lo era invece, da parte di padre. Ma i suoi quadri sono in Italia: per vedere Il Bacio originale potreste sempre andare alla Pinacoteca di Brera."

A lui, è elle,

Tire la ficelle.

"...cosa stai cantando tesoro?". Mila alzò il capo verso sua madre e subito arrossì davanti al suo sguardo e al suo sorriso tanto curioso quanto divertito. Non rispose e si lasciò nascondere il volto dai ciuffi disordinati della frangetta, come se questo avesse potuto aiutarla a sparire dal salotto e magari ritrovarsi in camera sua con Kala Nag stretto tra le braccia. Fu tra i fili scomposti di capelli rossi che notò una figura appena apparsa da dietro la porta del salotto.

"Monica" Amos pronunciò quel nome prima ancora di voltarsi verso l'ingresso e guardare negli occhi la domestica che stava varcando la soglia  una ragazza dal naso tozzo e i riccioli color tabacco che stava spingendo un carrello dall'aria costosa. "Puoi portare il dolce, per favore?". Lui sorrise, e le guance di Monica, mentre si avvicinava al tavolo per poterlo sparecchiare, si colorarono un poco.  

Daniela ebbe di nuovo quell'impulso di alzarsi in piedi e prendere il suo piatto e quello di Mila per aiutarla a sparecchiare, ma, seppur con grande imbarazzo, lo tenne a bada. L'avere attorno quelle ragazze per fare faccende che a casa sua erano sempre toccate a lei la metteva a disagio, e più di una volta aveva cercato di aiutare, offrirsi per fare qualcosa che andasse oltre il sistemare letto prima di andare a fare colazione. ma non era facile quando Amos sembrava bene intenzionato a non permetterle di spostare nemmeno un cucchiaino. Evitò di guardare Monica negli occhi quando vide la sua mano sfilarle il piatto e le posate da sotto il naso, ma si premurò di ringraziarla. Sembrò aver qualcosa da ridire quando si accorse ancora della presenza di lattuga nel piatto di sua figlia, ma decise di non dir nulla, pur non trattenendo uno sguardo di rimprovero che Mila, rossa, fece finta di non vedere nemmeno.

La conversazione, in attesa dell'ultima portata, cadde quasi subito sul brutto vento di quella sera, tanto forte da far scuotere le finestre e tremare i vetri come se li volesse ridurre in schegge; ma non durò che poco tempo, e fu subito interrotta dal ritorno di Monica con nel carrello piattini, cucchiai e la confezione ancora chiusa di una torta alla crema e all'amarena. L'aprì sul tavolo, rivelando due piani quadrati di gelato bianco e rosa e dall'aspetto delizioso, e rivolgendosi prima alle due ospiti del padrone domandò, con un sorriso ironico rivolto alla bambina, se volessero favorire. Daniela, preoccupandosi delle troppe porzioni di lasagne e di insalata ai frutti di mare mangiate a pranzo, se ne fece servire una fetta molto sottile. Mila inveca non si preoccupò affatto nè del pranzo nè della cena: le sfuggì solo un piccolo pensiero di paragone con le caramelle della sera precedente mentre affondava il cucchiaino nella crema e si portava alla bocca un pezzetto di gelato ancora così freddo da metterle i brividi dentro la bocca -come prima con la lattuga, fece rotolare le palline d'amarena sul bordo del piatto senza più degnarle di una seconda occhiata. E poi, quando anche i piatti del dolce furono portati via, Mila riuscì ad avere il permesso di alzarsi da tavola per lasciare i grandi a discorsi che non le interessavano e dedicarsi finalmente al puzzle che da quel pomeriggio aveva lasciato incompleto sopra il tappeto. Era da centocinquanta pezzi, metà ancora sparsi davanti a lei o inutilizzati dentro la scatola, ed erano quasi tutti blu. Nei due angoli che Mila era già riuscita a finire, tre puffi diversi ridevano festanti nel loro villaggio di funghi, e uno in mano reggeva qualcosa che lei non era ancora riuscita a scoprire. Lo finì, sbadigliò, fece alzare la mamma un momento per poterglielo mostrare e rimase a guardarlo per ancora un po’ di tempo reggendosi sui gomiti, immaginando di essere lì dentro per mangiare le torte di fragole e dire a qualcuno che Gargamella e il gatto li stavano osservando da dietro la gobba di una roccia.

Poi Daniela, guardando fuori dalla finestra, si accorse che il sole era già tramontato da un pezzo, e dando un’occhiata veloce all’orologio del cellulare ritenne che la figlia dovesse già andare a dormire. Aspettò che Amos finisse di parlare e poi si alzò, maledicendo lo scomodo e stupido cuscino sulla sua sedia che le aveva dato crampi di dolore a tutta la spina dorsale. "Scusa, Amos." Daniela si avvicinò alla figlia con quattro passi e le accarezzò un braccio per farla mettere in piedi e recuperare il puzzle con tutta la scatola.  "per qualcuno qui è l’ora della nanna".

Mila non ne sembrò contenta, ma si alzò trattenendo una qualsiasi lamentela che andasse oltre una piccola smorfia contrariata sulle labbra. Guardò lo zio alzarsi a sua volta, con elegante  –inquietante-   lentezza. Nel vederlo avvicinarsi a lei, cercò la mano della mamma con la sua, e le strinse tre dita con la forza di tutte le sue cinque.

 

"Certamente". Amos sorrise e poi si rivolse alla nipote, senza badare al fatto che lei sembrava voler a tutti i costi far finta di non vederlo, o di non sentire la punta dei suoi polpastrelli mentre le sfioravano i capelli della frangia. "Buonanotte, Massimiliana".

Lei non aveva risposto, pur sapendo che forse la mamma si sarebbe di nuovo arrabbiata per il suo atteggiamento tanto inspiegabilmente maleducato nei confronti dello zio, e si era limitata a uscire dal salotto senza fiatare. Tenendo ancora la testa abbassata, seguì Daniela nel corridoio e poi su per le scale di marmo, dove quella mattina aveva conosciuto la figlia dei Draghi Bianchi. Provò un vero senso di sollievo e di liberazione da quella terza e noiosissima cena passata nella villa dello zio Amos solamente dopo aver sentito la porta della loro camera chiudersi dietro di loro. Allora pensò che non aveva voglia di andare già a letto, e che poteva per scherzo nascondersi da qualche parte e aspettare che la mamma la trovasse per far passare ancora un po’ di tempo, e che se era veloce poteva prendere Kala Nag dal cuscino e alla prima occasione correre in fretta in bagno per raggomitolarsi dietro la porta e stare a guardare. Pensò di farlo, e già si preparò a correre non appena Daniela le avrebbe dato le spalle. Ma lei non si girò, come era dai suoi calcoli, per prenderle il pigiama. Mila la guardò inginocchiarsi davanti a lei, e fiutando nell’aria un qualche imminente rimprovero si immobilizzò sul posto, cercando di assumere in fretta l’aria più dispiaciuta che era in grado di fare -testa tra le spalle, mento abbassato e labbra strette l'una contro l'altra; più sua madre si avvicinava, più inumidirsi gli occhi le risultò naturale.

"Mila!" Daniela le parlò con voce ferma, ma, al contempo, flebile, come se sua figlia fosse tanto fragile da aver paura di romperla anche solo con una sillaba troppo alta. Nell’accorgersi di questo, e pensando che così non sarebbe apparsa severa come desiderava, cercò di indurire il suo sguardo almeno un po’ di più. "Non ti piace lo zio?".  Mila abbassò gli occhi verso le sue ciabatte, improvvisamente interessata alle punte rotonde delle sue dita dei piedi, e scosse il capo.

"Perché?" Non rispose, rivolgendole ancora un secco ‘No!’ con un altro impacciato movimento della testa. Le sembrò di sentire la mamma sospirare di fronte a quel gesto, ma non alzò lo sguardo per accertarsene. Scorse la sua mano dalle unghie rossissime muoversi verso di lei, e rabbrividì e chiuse subito gli occhi, temendo una sberla di quelle che le davano quando la combinava grossa.

Daniela, a quella reazione, fermò la mano a mezz’aria, impietrita. Poi ricominciò a muoverla, e le prese piano il mento, stupendosi un poco nel sentirlo così piccolo e morbido contro le sue dita, costringendola ad alzare lo sguardo. "...tesoro". Mila aprì gli occhi, e sua madre, nel vedere quel colore più nero dell’inchiostro che mai era riuscita ad associare a un suo parente, pensò che doveva averli presi proprio dal suo zio Amos. "Mi prometti che sarai più gentile con lui? È il fratello di papà".

Mila annuì subito, seppur poco convinta: quando diceva una bugia si portava subito una mano sul naso per nasconderlo, ma quella volta, ancora immobilizzata dalla paura di essere schiaffeggiata, non lo fece. Pensò che così la mamma si sarebbe accorta che non aveva detto la verità, ma accadde il contrario: Daniela sorrise e addolcì lo sguardo, e poi le baciò una guancia come solo lei sapeva fare. "Bravissima."  Mila, senza dir nulla, lasciò che la mamma le sfilasse la scatola del puzzle dalle braccia e che si alzasse in piedi, e quando la vide raggiungere l’armadio e prenderle il pigiama dal cassetto si allontanò subito verso la finestra, come per timore che, se fosse rimasta ancora ferma in quel punto, Daniela sarebbe tornata indietro e avrebbe subito ricominciato a sgridarla. Scostò le tende, si alzò in punta di piedi e si aggrappò al davanzale, fissando il vetro che si era un poco sporcato di polvere per vedere che cosa stesse accadendo nel giardino. Vide uno spicchio sottile di luna correre nel cielo scivolando tra il buio come sapone, immergersi nelle nuvole e nascondendocisi dietro, e, dalla sua forma tanto simile a un sorriso, pareva quasi la guardasse dall'alto e la sbeffeggiasse: Tanto non mi prendi, tanto non mi prendi!, le sembrava stesse dicendo, e allora Mila cercava di non staccarle gli occhi di dosso, guardandola correre a perdifiato senza andare da nessuna parte, non pensando neppure che fossero le nuvole a muoversi, spinte dal vento, nella direzione opposta, e non la luna gialla e ghignante di quella sera senza stelle. E poi, stufatasi presto di quel gioco, abbassò lo sguardo, e le sembrò che quel paesaggio dietro la finestra fosse un luogo incredibilmente estraneo, distante, e poggiò forte le dita di una mano sul vetro nella speranza di poterne far parte anche solo di un poco. Studiò il proprio riflesso, le guance scurite dal sole e i ciuffi di capelli che cadevano in disordine sulla fronte, mischiarsi come un acquerello all'orizzonte notturno del bosco dove il vento sbuffava arrabbiato e tutto, anche il buio, tremava e si scuoteva con altrettanto terribile fragore. Mila si strinse di più al davanzale e guardò il prato, e le parve un mare irrequieto che attende nervoso l’arrivo imminente della tempesta, mentre i fili d’erba scuri si piegavano in avanti fino al suolo come schiavi sotto i colpi della frusta. Guardando il bosco sul fondo, invece, lo vide muoversi curiosa tranquillità, e le ombre degli alberi più lontane che dondolavano da un lato all’altro come se stessero parlando, o danzando, come se il suono del vento  (che Mila non poteva ascoltare bene, da dentro la sua calda stanza)  fosse un'orchestra festante della quale lei non era in grado di coglierne le note. Fece scendere un poco lo sguardo, verso un albero che non era nel bosco, ma dentro il giardino, e che era piantato sul ciglio della strada che si allungava dal cancello fino alla villa tagliando il giardino col suo strato di ghiaia chiarissima. La luce gialla e arancio di un lampione del prato sembrava dividerlo a metà: una parte aveva foglie brillanti come fossero stelle, e nel muoversi docili in diverse direzioni parevano mani che cercavano di afferrare qualcosa -forse il vento che soffiava loro accanto senza lasciarsi prendere-, o che volevano concedere un applauso alla danza del bosco e cercare, in qualche maniera, di parte anche loro alla festa di tutti gli altri alberi. L’altra metà, invece, era ancor più scura del cielo blu e nero della notte, e pareva agitarsi e ruggire con furia come uno spettro senza pace. E, a tratti, sembrava quasi una faccia spaventosa, con gli occhi obliqui e cattivi e la bocca contorta in un sorriso terrificante, come fosse pronta ad aprirsi, a ridere, a mangiare.

Mila si allontanò di pochi passi e strinse le braccia all‘altezza della pancia, il respiro immobile dentro la gola, improvvisamente irrequieta come il paesaggio che aveva visto oltre quella finestra. Gettò un’occhiata al quadro appeso sopra il camino, dove i due amanti dipinti nella tela si stringevano incuranti del vento, degli alberi, di lei stessa, di tutto ciò che stava fuori dal loro minuscolo mondo di vernice e colori, imprigionati nell’istante di un ultimo e infinito bacio d’addio.

Poi Daniela la raggiunse e da dietro la prese in braccio, aiutandola a cambiarsi e accompagnandola in bagno per tenerla alzata sopra un lavandino troppo alto per lei, in modo che si lavasse i denti e la faccia  -e ignorando, come sempre, i piccoli capricci della figlia al riguardo. L’aveva messa sotto le lenzuola e si era seduta a sua volta sul materasso. Pensò che Amos la stava aspettando in salotto, ma che non voleva lasciare subito sua figlia da sola. "Ti leggo una favola?", propose, accarezzandole la fronte e sistemando la coperta in modo che non avesse troppo caldo, prima di dirle di aspettarla un momento e di dirigersi verso il bagno.

Mila sbadigliò ancora e accarezzò con la guancia la federa del cuscino, sentendola piacevolmente fresca contro la pelle accaldata del viso, lasciandosi cullare tra quell’odore di pulito che le scivolava sul naso come un dolcissimo solletico. Toccò con le labbra il baldacchino colorato di Kala Nag, spingendolo appena contro il petto mentre la proboscide di pezza s’impigliava tra i bottoni che le chiudevano il colletto leggero del pigiama, e si rilassò ancora con un gemito silenzioso, ascoltando il suono dell’acqua scorrere nel lavandino e infrangersi tra le mani della mamma, e guardando la luce biancastra della abatjour che brillava con forza sopra il comodino per poi diventare la striscia dell’alba che compare dalle montagne, un piccolo sole rinchiuso in una boccia di vetro, un luccichio nell’acqua, una lucciola su una foglia, una punta di spillo illuminata dalla luna…

…e il cielo si fece di viola e lavanda e di cirri immobili e neri come l’ombra di un mantello, la terra era di fiamme di polvere che a tratti si alzava e si attorcigliava in spire di nuvola grigia, e l’aria cantava a pieni polmoni il suono di carezze di corde vibranti di un violino.

Mila era in piedi  (O seduta? O in ginocchio?) , sentiva quasi le caviglie e i polpacci lasciarsi mangiare dalla nube polverosa che le faceva da pavimento, e sentì di dover aver paura, ma non ne provò.

Ascoltò.

Attorno a lei risuonava la stessa musica che aveva sentito di quel pomeriggio, nello studio dello zio, e si lasciò di nuovo incantare da quelle note stregate come il serpente che scuote la testa cullato dal canto di un flauto, scorgendo la figura appannata, come vetro graffiato dalla pioggia, di qualcuno  -Un’ombra? Un diavolo? Zio Amos?-   che suonava e danzava e ghignava come la luna di quella sera o come l’albero piantato davanti alla sua finestra.

E poi la musica si era affievolita, il viola e il grigio si erano sciolti col nero dissolvendosi nel buio di una camera da letto, e la musica del violino si interruppe col suono strozzato di un singhiozzo le aveva fatto aprire gli occhi all’istante.

Mila spalancò le palpebre e si strinse sotto le lenzuola , intontita dal sonno e dallo spavento e senza neanche capire subito dove fosse lei, o gli anelli di polvere, o dove fosse il diavolo col suo violino, e se era lei che stava piangendo mentre le mani cercavano il pelo del suo peluche e lo tiravano per una zampa verso il suo petto, terrorizzata dalla mancanza di luce che nemmeno a luna ridacchiante voleva donarle per quella sera. Senza smettere di guardare il nulla davanti a sé, strinse tra i denti le labbra (dolci, sapevano di gelato e dentifricio) e socchiuse appena gli occhi -spaventati, spaesati, ma asciutti. Eppure, in quella stessa camera, qualcuno piangeva. Mila non vedeva niente, ma la sentiva, una voce femminile strozzata dai singhiozzi e dalle lacrime che le rimbombava nelle orecchie in maniera quasi febbrile.

Pensò alla mamma, e rabbrividì nel caldo soffocante del letto.

E avrebbe voluto scalciare fino a distruggere il materasso, avrebbe voluto urlare fino a consumare tutta la sua voce, ma sentiva le gambe congelarsi sotto il lenzuolo senza nemmeno riuscire a muoverle, e in bocca non c’erano parole che non le impastassero la lingua e non le si incollassero prepotanti a tutto il palato.

Papà era andato in paradiso e allora la mamma, anche se per poco tempo, iniziato a piangere tutte le notti, e lo chiamava nel buio spezzando il suo nome in innumerevoli singhiozzi disperati. Lei la sentiva spesso, anche quando non erano nello stesso letto e la porta della sua camera non era stata chiusa bene, e sempre si tappava le orecchie e stringeva gli occhi per cercare di dormire, e fingeva di non sentire e senza una parola la pregava di non piangere.

Nonpiangerenonpiangerenonpiangere…!!

 Un altro singhiozzo le esplose nelle orecchie, e Mila mugolò e portò velocemente le mani sulla testa immergendo le unghie tra i capelli, voltando la faccia verso il cuscino mentre qualcosa di molle e viscido le sfiorava il mento facendole assaggiare un sapore di polvere e tempera.

Un odore di legno e pietra  -e vernice?-  le colpì il naso come il bacio di una bocca dalle labbra screpolate; con gli occhi ancora chiusi Mila cercò l’aria, ma si accorse che era granulosa, che era come ingoiare minuscole schegge di vetro, e allora alzò le palpebre di scatto e portò le mani davanti a se per allontanare la testa dal…

pavimento?

Mila si mise in ginocchio, spalancando la bocca alla ricerca di un filo di ossigeno che non sapesse di borotalco, affogando fino ai polsi e alle caviglie in mattonelle grigiastre che sembravano fatte di colla e di fango. Tossì con forza, come se avesse una spina di pesce conficcata dentro la gola, alzò una mano verso la faccia sporcandosi il naso e il pigiama di una specie di melma grigiastra che strinse tra le labbra, che passò tra i denti e sulla punta della lingua, che sputò via con forza rabbrividendo dal disgusto. Alzò lo sguardo, smarrita, e in un gesto meccanico si pulì la bocca col polso pulito, con una luce giallognola attorno a lei che le prudeva gli occhi facendole venir voglia di lacrimare mentre guardava una parete di pietra, un muro di legno, un soffitto di legno, la sua camera da letto. Mila riconobbe il tavolino e il suo libro di fiabe che aveva appoggiato vicino al vaso, le ciabatte abbandonate sopra un tappeto, la sua maglietta verde con Bugs Bunny piegata sul bordo del materasso, il colore delle lenzuola, il baldacchino di Kala Nag avvolto da una piccolissima mano bianca.

C’era qualcuno, sul suo letto, sul suo cuscino, che dormiva al suo posto con il suo pigiama addosso, ma era troppo lontano per capire chi fosse  ( non c’era lei a dormire in quel letto?) , era come guardare un quadro appeso troppo in alto per poter vedere bene cosa ci fosse disegnato. E allora Mila, confusa, si alzò, cercò sua madre, barcollò, cadde di nuovo impastandosi di fango le braccia e i capelli e tutto il pigiama, e si rese conto, per quanto le sue orecchie avessero cercato sin da subito di farglielo notare, che con lei c’era qualcuno che stava continuando a piangere. E si accorse che lì vicino c’era un passaggio nella pietra che si affacciava a un corridoio nero, che c’era lì affianco un’altra parete e una rampa di scale che non portava da nessuna parte, e sulle scale una donna che piangeva. Mila la guardò, guardò il suo vestito azzurro (…seta? Cotone?), le maniche dorate, il colletto dorato, i capelli scuri e spettinati che le incorniciava il volto nascosto tra le mani, con i gomiti sulle ginocchia e i piedi appena visibili che tremavano sopra i gradini sui quali era seduta.

Lei la osservò, la riconobbe, spalancò la bocca per l’incredulità e quasi nell’alzarsi in piedi non ricadde di nuovo all’indietro.

La donna del Bacio continuò a piangere, senza degnarla d’attenzione e senza nemmeno mostrarle il volto, come se nessuno la stesse guardando. 

 Mila trattenne il fiato, stupefatta, senza avere nemmeno idea di cosa stesse accadendo. Poi considerò, in un pensiero veloce e sfuggevole come un battito di ciglia, che forse stava sognando, che in realtà non era coperta di fango appiccicoso e che non c’erano quei ruvidi granelli di polvere che le sembrava di sentir passare sopra il palato ad ogni respiro, che nessuno stesse piangendo, nemmeno lei, che però sentiva gli occhi pizzicarle di qualcosa di bruciante e salato. Osservò quel luogo grande quanto una cornice  -le bastò una sola occhiata per farlo- , ma oltre quei colori bruni non vide nient’altro, nessun movimento, nemmeno un’ombra, e neppure il fantasma di un bisbiglio di vento. Non c’era neanche l’uomo vestito di rosso, e per terra non c’erano le sue impronte  -non come quelle di Mila, che ad ogni passo ne lasciava una traccia dietro di sé, come se stesse camminando sulla sabbia asciutta. Pensò che doveva essere scappato, come le aveva detto lo zio Amos: il bacio interminabile di quei due amanti doveva essere finito, e ora c’era solo la donna con le sue lacrime e il suo vestito azzurro luccicante di riflessi biancastri.

Ma c’era anche Mila, e lei voleva avvicinarsi, voleva dirle di non piangere e chiederle dove fosse la sua mamma.

Ma poi, non era stupido parlare con un “quadro”...?

Si chiese se davvero poteva parlarle, se poteva toccarla senza sporcarsi le mani di olio e tempera, o senza mischiare il bruno dei suoi capelli al bianco delle sue lunghe mani pallide, come il passaggio di un pennello di un artista sbadato. Fece un passo in avanti, e le bastò per ritrovarsi vicino alla donna più di quanto si aspettasse. E così aveva provato ad allungare la mano, aveva farfugliato qualcosa che neppure lei aveva capito cosa volesse dire.

E c’era stato quel ringhio dopo, non quello del cane della casa vicino alla scuola, non quello del mostro che nei suoi incubi peggiori striscia da sotto il letto e l’afferra per i polsi per prenderla e assaggiarla e sgranocchiare le sue ossa come fossero biscotti appena sfornati: era un ruggito agghiacciante che sembrava provenire dalle viscere dell’inferno, e Mila si era voltata, giusto in tempo prima che il sangue le si gelasse dal terrore e che i muscoli la immobilizzassero come un uccellino stretto tra gli artigli mortali del falco. 

Papà?!

E Mila si aspettò, senza saperne il motivo, di vedere un cagnolino dal pelo corto e fradicio guardarla con occhi tristi, di sentire sopra la pelle ancora ghiacciata dalla paura le mille e più punture di minuscole goccioline di pioggia, che sopra la sua testa ci fosse una croce piccola, una media, una grande, e poi le tre croci insieme dell’insegna brillante di una farmacia -Perché?

Ma non c’era il cane, la pioggia, una luce accesa-spenta-accesa che risplendeva nella sera di verde e di rosso, non c’era il pavimento grigiastro o la cornice del quadro, e il respiro che le si era fermato dentro la bocca non era più granuloso, e i piedi non affondavano più nel fango, ma si graffiavano e tremavano di un leggero dolore per tutte le spine che stavano schiacciando. Mila tremò, ingoiando una boccata d’ossigeno pesante come un macigno, mentre ascoltava non un ringhio, non un pianto, ma una strana cantilena sussurrata a labbra socchiuse, una voce soffocata e dalle parole non pronunciate. Si girò, senza smettere di tremare e senza neanche pensare di provare a farlo, e non vide la scalinata del quadro   (“...quel piede sul gradino? È un simbolo di precarietà.”) , ma una pietra, un blocco altissimo e grigio che sembrava fatto apposta per grattare il cielo e toccare stelle che non c’erano. Si vedeva solo la luna con la sua forma a spicchio, però capovolta, così da non sembrare più un sorriso beffardo, ma una smorfia di tristezza, di dispiacere, di paura.

S’accorse che era in un campo, una vallata di erba secca che la notte tingeva di lugubri colori bluastri, che c’erano tanti enormi massi di pietra appuntita disposti in cerchio attorno a lei. E c’era anche un fuoco lì vicino, che in realtà era un mucchio di legnetti sottili come stuzzicadenti, tra i quali si intravedevano fiammelle piccole e fredde e che si muovevano lentamente, come fossero malate, o morte. E se Mila si girava ancora, poteva vedere la donna di prima, seduta scomposta su un cumulo di terra mentre toccava e contava dei minuscoli sassolini di diversi colori che brillavano cupi sotto la luce di quella malinconica luna gelata.

I suo capelli non erano bruni, ma rossi, ruvidi, come un lungo cespuglio di sottilissimi rovi. Le guance bianche e giallastre erano scavate su un volto spigoloso, le braccia sulle ginocchia erano così magre che sembravano fatte solo di ossa; e il vestito non era azzurro, ma bianco, strappato, sporco di terra e di cenere e di qualche macchia rossastra, era una veste logora che le spalle secche e minute della donna sembravano reggere a stento. E anche se gli occhi erano nascosti da un pezzo di stoffa legato con un fiocco vicino a un orecchio, Mila poteva scorgere dei segni violacei all’altezza degli zigomi che spiccavano particolarmente in quel viso dalla pelle cadaverica, mentre la bocca sottile continuava da chiusa a canticchiare un motivo che lei non era in grado di riconoscere. Sembrava una figura misera, penosa, eppure rideva, sogghignava e tremava come se fosse immersa in una vasca d’acqua ghiacciata, e le dita fremevano mentre le unghie lunghissime prendevano quei sassolini dalla gonna stracciata del vestito e li portava davanti al volto come se riuscisse a vederli oltre il panno legato sugli occhi.

Bianco e nero“, canticchiò all’improvviso, in un sussurro che sembrava provenire da metri e metri sottoterra.

Mila rabbrividì, sussultando per la paura e facendo un passo indietro.

In realtà non aveva capito cosa avesse detto, le era giunta solo un suono che sembrava più quello di un borbottio che di una voce. Sbattendo le palpebre dallo stupore, dimentica della paura, le venne da aprire la bocca e cercare qualcosa da dire, ma tacque quasi subito, quando la donna ricominciò a parlare senza degnarla delle più piccola attenzione:

Bianco e nero”, ripeté, e stavolta Mila capì cosa stesse dicendo. “bianco e nero sono uniti, sono il cosmo che libera dal caos, sono il cuore della vita, il bacio della morte, e si respingono, e si completano, nero e bianco, nero e bianco...

La mano destra si mosse, affondando tra quella piccola montagna di sassolini colorati, e riemerse accarezzando qualcosa dentro al pugno chiuso e scheletrico. Sembrò scossa da un brivido, con un minuscolo ghigno che si era appena intrufolato tra le labbra. L’altra mano appoggiò qualcosa sul suolo, davanti alle ginocchia, e Mila, allungando il collo, vide che erano due piccole pietre, tonde e piatte, posate una affianco all’altra, in modo che i loro colori   -"Bianco e nero, nero e bianco!"-   si contrastassero tra loro.

E‘ il sangue che li unisce, è il sangue che li divide, è il sangue che li farà incontrare, scontrare, fino alla fine di uno e di tutto.

La mano destra si alzò fino all‘altezza della fronte, muovendo le dita in modo che qualcosa del suo contenuto cadesse sopra quella sinistra, poggiata vicino al ventre.

Uno

Un sassolino blu rimbalzò sul palmo.

Due

Un sassolino blu colpì l’altro sassolino -tic

Tre

Un sassolino blu rotolò fino agli altri sassolini -tic tic.

E‘ il sangue puro e il sangue sporco

Un sassolino tondo, come una biglia trasparente, scivolò in basso fino all’altra mano, finendo esattamente tra tre sassolini blu  -tic tic tic.

Se il mezzo e il puro si dovessero trovare  -un due tre, un due tre- , anche il nero, e poi anche il bianco, si ritroveranno..."

"Bene."

Mila sussultò, alzando il capo di scatto per scoprire il punto da cui era giunta quell'ultima parola, una voce roca e talmente affilata che per un attimo poté quasi vedere lo scatto di un artiglio e il riflesso un taglio all’altezza del collo della donna   -...e la testa, dov’era la testa?

E poi fu come se una mano le avesse afferrato le caviglie e l’avesse trascinata verso il basso, fu come vivere l’istante in cui si scivola o si cade e gli occhi si riempiono del vuoto che separa dall’impatto.

"Sogni d'oro."

E fu ancora vuoto, e durò ancora e ancora, era come se quell’attimo fosse stato congelato, rinchiuso in un barattolo senza buchi sul coperchio dai quali poter scappare, era come l’infinito ultimo bacio del quadro appeso nella sua stanza. E Mila in quell'attimo aveva visto il manto nero del cielo, la faccia piangente della luna che per un momento era tornata ad essere un perfido sogghigno trionfante, aveva visto la punta e il corpo di un masso di pietra e aveva guardato il suolo sfiorandone l’erba con la fronte ed odorandone la terra. E aveva detto qualcosa, forse solo un verso strozzato dalla sorpresa, ma le sue parole non le giunsero alle orecchie, rotolando sopra la lingua, baciandole le labbra, sfiorandole la guancia e impigliandosi tra un ciuffo di capelli prima di volare via in una piccola bolla che presto si dissolse nell‘acqua.

...Acqua!

Mila capì, e si portò le mani sulla bocca mentre altre bolle le coprivano la faccia portandole via un’intera boccata d’ossigeno che fece gemere di dolore i suoi piccoli polmoni. Chiuse gli occhi, spaesata e terrorizzata, trattenne il fiato e cominciò a scalciare.

'I piedi, Massimiliana!'

Le venne in mente Margherita: ne ricordava il nome sempre perché era lo stesso di quei fiorellini bianchi che crescevano dietro casa sua. Ricordò il suo il naso a becco, le spalle larghe, le labbra che si muovevano continuamente mentre masticava una, due, sette otto e nove gomme alla menta, gli occhi acquosi come pozzanghere che fissavano sprezzanti ogni persona che le passava di fronte con una sigaretta tra le mani  -e lei, prontamente, rispondeva ficcandosi in bocca un’altra gomma. La ricordava avvolta nel suo costume nero, quando lei il giovedì mattina andava in piscina insieme a due maestre e a tutti gli altri bambini della prima A. Margherita la sgridava ogni giovedì, perché non voleva fare il riscaldamento prima di cominciare a nuotare, e perché diceva che lei le gambe le muoveva come fossero pale.

“Che ti ha fatto di male quest’acqua per essere picchiata così..?”

Ma a Mila l’acqua non piaceva, e non le piaceva nemmeno il sapore del cloro della piscina o quello salato del mare  -anche se questa era diversa, sapeva di ferro, di noce e di camino, ma persino lì le orecchie le fischiavano e rimbombavano di suoni vuoti e fastidiosi. E non era mai voluta andare sott’acqua, non aveva mai voluto abbandonare i suoi braccioli della Sirenetta neppure se vicino a lei c’erano Margherita o i suoi genitori, con la costante paura di non riuscire a riemergere più. Strinse le labbra fino a farsi male, muovendo le mani, i piedi, piegando le braccia e spingendosi verso l’alto con tutta la forza che aveva in corpo, ma sentendo di non muoversi nemmeno di un millimetro. Aprì gli occhi sperando di vedere qualcosa, il cerchio di una luna o la superficie sgretolata dell’acqua, ma invece scorse qualcos’altro, qualcosa di tondo e grosso e di un colore che non aveva mai visto in vita sua. La bocca si spalancò, e altre bolle scivolarono via spargendosi verso l’alto in una massa quasi indistinta, scacciate dalla mano della bambina che cercava di guardare bene davanti a lei, per essere certa di non aver immaginato niente. Ed era lì per davvero, e dietro, ora che ci faceva caso, ce n’era una seconda, piccola come una palla da calcio, di un colore al quale non seppe dare un nome  -eppure lei li conosceva tutti, ricordava ogni sfumatura di tutti quei pastelli che tirava fuori dalla loro scatola di latta per disegnare. Si muovevano quiete e imponenti come se stessero volando nel cielo, e non galleggiando sott’acqua come una normale mongolfiera non dovrebbe fare. Eppure c’erano, nuotavano, e Mila sembrava aver visto troppe stranezze negli ultimi minuti  (O erano ore? O erano secondi?)   per stupirsi più del necessario, pur non riuscendo a trattenere uno sguardo spaventato e colmo di sorpresa, anche quando la testa aveva cominciato a girarle e la vista si era appannata, come il vetro di una macchina velato dalla brina notturna o dal fango della pioggia.

Ma anche quel malore passò, per un breve e interminabile istante, nello scoprire che c’era qualcosa attaccato a quelle "mongolfiere", che erano bocce di vetro con dentro dei pesciolini bianchi e sottili come fogli di carta, dagli occhi e le squame che sembravano disegnati con l'inchiostro sbavato di pennarelli consumati.

E in quelle bocce c’era aria. Lo capì, lo intuì, forse dal modo in cui quei pesci muovevano le pinne come fossero ali di un colibrì o dal loro alzare e abbassare la pancia ad ogni respiro. E allora cercò di tendere le mani, di toccarle, di afferrarle, ma quelli si allontanavo non appena scorgevano le sue dita avvicinarsi troppo, circondandola e guardandola come se l'unica stranezza, lì, fosse lei.

E Mila non tentò neppure di inseguirli.

Li vedeva lontani, sfuocati, perdersi in un miscuglio di colori accecanti, sentiva il sapore amaro dell’acqua arrivarle fino alla gola e allo stomaco e darle la nausea come se stesse vomitando invece che ingoiando. Non pensava più a Margherita, ai piedi da muovere, al solletico delle bollicine mentre le uscivano dalla bocca e dal naso: c’era solo il nero, c’era il nulla, c’era una luce che guardò come se la vedesse per la prima volta, e in quella luce c’era un bambino che piangeva, e c’erano degli occhi che la guardavano,

blu,

grigi,

pietra e altra acqua.

 

E poi l’aria arrivò, l’accolse dentro la bocca fino a volerla sentire in fondo all’anima, gelata come se avesse ingoiato un intero cumulo di neve e di ghiaccio. Sentì il suono strozzato del suo respiro raschiarle la gola come se avesse avuto le unghie, sentì la terra umida sotto le mani e subito la strinse tra le dita come per paura di doverla lasciare andare. Tossicchiò di sollievo, mentre i capelli bagnati le si attaccavano alla fronte e lungo le guance, e la stoffa fradicia del pigiama si incollava alla sua pancia, e le braccia e le gambe nude tremavano al tocco pungente del vento tiepido della notte.

Piccolissime gocce scivolarono dalle ciglia imperlate d’acqua, mentre sbatteva la palpebre e guardava confusa il terreno al quale si era aggrappata con forza.

Pioveva?

Lo spruzzo d’acqua dell’irrigazione le arrivò dritto in faccia, e lei lanciò un gridolino e si alzò in piedi barcollando più lontano, fino a cadere in ginocchio e farsi male, e aggrapparsi ancora all’erba con tutta la forza che aveva nelle dita. Continuò a respirare a pieni polmoni, tremando di stupore e paura, seppur l’angosciante sensazione di non poterlo fare prima, come il mondo del quadro, la ragazza che piangeva, il tic tic tic dei sassolini sul palmo di una mano, le sembrò solo un ricordo fugace e senza contorni, come un sogno che comincia ad essere dimenticato.

Provò ad alzare lo sguardo, scorgendo scarpe nere, lucide, come se la terra e il fango attorno a loro si guardassero bene dallo sporcarle.

Scarpe da adulto, e Mila nel vederle si lasciò scuotere le spalle da un sussulto spaventato.

E d’istinto, veloce, alzò la testa  -pantaloni grigi, leggeri, stirati-  , e rabbrividì ancora quando il vento si alzò e soffiò contro la sua pelle bagnata  -la cintura, la fibbia dorata e ovale, la camicia chiara dagli orli infilati dentro i pantaloni- , e più sollevava il capo più iniziava a ricordare qualcosa che nulla sembrava c’entrare con quel momento o quell’adulto alto, altissimo.

La figura della mamma si accese nella sua testa, mentre si chinava davanti a lei per sistemarle un cappellino che non aveva mai indossato prima, e la prendeva per mano una volta raggiunto il marciapiede e le indicava un taxi giallo proprio quando il bagagliaio si era aperto con un Clock spalancandosi come una bocca affamata  - il colletto piegato, le punte chiare dei capelli, la pelle che nel buio splendeva come quella di un fantasma-; ricordò il paesaggio cambiare da dietro un finestrino e la voce di un uomo che si rivolgeva a sua madre chiedendole se voleva fermarsi  -il mento, le labbra di rosa e sangue-,  ricordò il libro di fiabe stretto al petto, ricordò il vento che le sollevava la gonna del vestito, ricordò una mano che le porgeva il panama bianco che le era volato via.

Mila, con l’erba umida stretta tra le dita, alzò il collo fino a farsi male, congelata da uno sguardo che, se non fosse stato per quelle iridi scurissime, avrebbe giurato fosse fatto di ghiaccio. Di ghiaccio, e forse qualcos'altro.

Pietra e acqua?

Il Signore del cappello ricambiò lo sguardo.


 

 

 




Onigiri





note autrice:



*-* e finalmente... un po' di azione in questa storia noiosa, perdiana! xD

eheh,  ho aggiornato un pò più in ritardo del solito, ma mi ero decisa che prima di pubblicare un altro capitolo avrei dovuto scrivere uno che ancora non avevo iniziato; poi il capitolo in questione non voleva decidersi a lasciarsi scrivere decentemente e... eccomi qui lo stesso. che babba che sono -.-" .

Passando a questo capitolo... allora, la musica che Amos suona col suo violino (so che ci vorrebbe l'accompagnamento col piano, ma vabbè >_>"), come si è letto, è Il Trillo del diavolo di Giuseppe Tartini, e sarò un'ignorante in fatto di musica classica ma questo pezzo di violino lo adoro letteralmente >//>! Se qualcuno volesse ascoltarlo, metto qui il link della prima parte =) : Devil's Tril

La storia dei burattini invece è un'idea che ho preso da un racconto che conosco da quando ero bambina ^^. Ho cercato la favola su internet, ma a parte il fatto che è stata usata per uno spettacolo di burattini non ho trovato altro =( . Per la filastrocca francese, vi chiederei costesemente di non domandarmi cosa diavolo significano le parole xD.

Per il resto... spero davvero che questo capitolo non faccia troppo schifo °x°.



Per i commmenti, invece, devo proprio ringraziare:


Niggle : Sì, ho valutato anch'io questo mio problema di stile >>". purtroppo in questa storia mi capiterà spesso di far "scontrare" molti personaggi e di dover esprimere diversi punti di vista contemporaneamente o quasi, ma speravo che almeno per il secondo capitolo fossi riuscita a non combinare molti guai xD. Ti ringrazio tanto per la tua osservazione, vedrò di migliorare questo punto debole che mi hai indicato ^^. E grazie mille anche per aver letto i primi capitoli di questa storia, sperando che anche i prossimi possano piacerti!

 darllenwr : Gentilissimo come al solito >//>. Non posso proprio fare a meno di gongolare per la contentezza quando leggo commenti come i tuoi ^_^!
Il Bacio di Hayez è anche uno dei miei quadri preferiti. Nella precedente versione di questa storia la scelta di questo dipinto aveva uno scopo preciso, ma anche revisionando la trama non ho potuto fare a meno di tenerlo lo stesso e cercare di dargli un minimo di importanza ^^.  Poi be'... nel capitolo precedente non succedeva nulla di che, per cui ho cercato di arricchirlo in qualche modo aggiungendoci ogni cosa mi sia passata per la testa xD, sperando non ne sia uscita una pappardella assurda. Ti ringrazio tantissimo ancora per i tuoi incoraggiamenti, davvero mi rendono molto contenta =)!  E spero che la storia continui a piacerti. Grazie ancora!


 Kinpatsuchan :  Ma figurati Kinpa! Tu non fai che incoraggiarmi e commentare le mie robacce di continuo con gentilezza e pazienza u_u, perciò non ti devi affatto scusare o preoccupare per un ritardo, anche perchè con tutti gli stupendi commenti che mi hai lasciato finora *stringe al petto il fascicolo "commenti di Kinpa" e se lo coccola come fosse un gatto* puoi anche non farlo più e continuare ad essere adorata dalla qui presente *__* (già, so essere inquietante quando lo voglio xD). La filastrocca del vaso la cantavo ripetutamente quando ero piccola, come un disco rotto che si spegneva solo all'ora della nanna XD. E la favola di Piumadoro piace anche a me! Ne conosco due versioni, un poco differenti l'una dall'altra, ma quella che ho menzionato la preferisco di gran lunga ^^: la seconda l'ho letta in un libro di fiabe intitolato La danza degli gnomi, e che contiene delle storie davvero carine =D *fa pubblicità*. E anche io adoro il Bacio di Hayez >//>, in generale adoro la pittura romantica ancora più di Amos (anche se, sarò banale, ma il mio preferito rimane Caravaggio ^^). Grazie mille ancora Kinpa =) . E dormi, e fai tanti sogni d'oro, invece di perdere tempo qui è_é!




E, come sempre, ringrazio tantissimo chi ha letto almeno un capitolo di questa strana storia =)! Grazie infinite a tutti!


Un bacio,
onigiri!





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Capitolo 5
*** Il Sangue Puro ***


Legame
   Legame   
(Le pietre blu) 











Capitolo 4








 La pace si trova dentro se stessi. La violenza provoca sofferenze, la pace 

si ottiene non pregando, ma 

si genera all'interno di sé e poi nella propria famiglia.

  

Tenzin Gyatso 















-->

"Fortuna!"

La voce della prima donna vibrò decisa contro il cielo, insieme alle punte di fiamme nere e azzurre schiacciate sotto il peso di un piccolo soffio di vento. Tutto tacque, per un momento appena pronunciato, mentre dall'alto le lune rosse esibivano i loro ghigni di sangue e la sabbia in basso splendeva in granelli di luce come fosse un immenso tappeto di stelle. A Dhovir sembrava quasi di poterla ascoltare, quando scorgeva qualcuno attorno a lui spostarsi per vedere meglio tra la folla o per sussurrare qualcosa all'orecchio del vicino: scricchiolava piano, timidamente, quasi timorosa di disturbare, stendendosi sfregandosi e spezzandosi sotto piedi nudi o sandali di vetro e di stoffa, e il lamento di ogni granello spezzato pareva avere lo stesso suono di una lacrima caduta sul pavimento.

Ecco, si disse, tremando come se quegli sguardo che aveva puntati addosso fossero tutti secchiate di acqua ghiacciata. Forse, ecco, avrebbe potuto piangere.

Era da quella mattina che non lo faceva.

Stava piangendo quando lo avevano trovato a casa sua, steso sul letto a stringere un corpo che non c'era e di cui era rimasta solo l'impronta sul materasso, a guardare a forza un sorriso invisibile di donna nel punto più freddo e vuoto delle lenzuola. E poi qualcuno gli aveva stretto le spalle in un abbraccio, e quella loro vicina di casa, la vecchia zoppa con la quale litigava ogni mattina per ogni più piccola sciocchezza, gli aveva sorriso ammaliata e baciato le mani salate di lacrime.

'Perché piangete, mio signore? Ridete, gioite! Voi siete benedetto. Siete stato scelto dal nostro Sommo Dio! Fortunato voi, e la donna che lo ha dato al mondo, perché ora sarà baciata dalle lune d'oro e dormirà avvolta tra le braccia dei più azzurro dei cieli.'

Si domandò, stringendo nel pugno un nastro sottile sporco di polvere (e quante volte lo aveva preso, e sciolto il suo nodo a forma di fiocco e lasciarlo cadere a terra per stringere i suoi capelli tra le dita, e accarezzarli, e baciarli...?), in quanti dei presenti, se fosse scoppiato a piangere, gli avrebbero detto la stesa cosa.

Ma nessuno gli parlava, nessuno osava avvicinarsi a lui se non con lo sguardo, quando invece in dieci, in venti, in cento si erano chinati per toccare e baciare la sabbia che lui aveva calpestato al suo passaggio. Soltanto un uomo lo aveva fatto: qualcuno che lui non ricordava neppure d'aver mai visto in vita sua, e che a un certo momento lo aveva raggiunto con passo barcollante, gli aveva abbracciato le caviglie e con mani nodose accarezzato il panno ruvido della sua veste come se fosse fatto della stoffa più pregiata.

'Oh, mio signore, oh, prescelto padre di questa terra! Ricordatevi di me, benedite il mio spirito quando il mio corpo non potrà più trattenerlo quaggiù, guidatelo voi verso l'eterno e celeste regno di Mhaali. Oh, signore, mio signore!'

Signore, lo chiamavano.

Signore era diventato nel tempo di una notte soltanto, quando prima non era che un sacerdote d'ultima specie, di quelli buoni nemmeno per pulire il tempio o cambiare l'olio alle lampade una volta ogni tanto, e nessuno voleva toccare quello che aveva addosso se non per degnarlo di un calcio o uno sputo e per schiacciarlo a terra come se fosse un insetto.

Prima, non era che un ragazzino innamorato.

"Fortuna!"

Una seconda giovane, più grande, più bella di quella precedente, alzò il mento verso la parete della bara di vetro davanti a lei, illuminandola appena di barlumi trasparenti quando sollevò la candela che stava reggendo tra le dita dalla pelle arancione. Dhovir guardò da lontano il suo profilo, i suoi riccioli verdi come l'erba ondeggiare leggiadri sulle spalle ad ogni movimento della testa, e pensò a quanto avrebbe voluto esserle affianco, o di fronte, e passarle le mani attorno al collo e premere le unghie sula pelle fino a sentire la carne tendersi e strapparsi e tutte le ossa spezzarsi come fragili grissini, e farla tacere per sempre, così da non doverla guardare ancora, e non ascoltare più quella sua voce infantile, e cancellare quel sorrisetto emozionato per vederlo sostituito da una smorfia di stupore, paura, dolore! Avrebbe voluto farlo con ogni persona presente  -Ogni.Singolo.Presente!-  , avrebbe voluto strozzarli tutti per vederne gli occhi stringersi fino a piangere e per sentire almeno il fantasma di un lamento uscire dalla loro bocca piena solo di chiacchiere inutili, e avrebbe voluto ringhiare e urlare mentre lo faceva, avrebbe voluto inginocchiarsi a terra e tirarsi i capelli e scuotere la testa violento come un pazzo. Voleva almeno trattenere il fiato in gola e stringere forte la lingua tra i denti, o sentire le ginocchia tremare e piegarsi fino a non riuscire più a sostenere il suo peso, voleva scoprirsi a chiudere le palpebre per cercare di non piangere davanti a tutti. Invece, come se la calma raggelante di quel luogo fosse riuscita a congelargli i muscoli e le ossa, non riuscì a muoversi, nemmeno a far uscire il solo contorno di una lacrima dai suoi occhi troppo asciutti, e sentiva la voce e il respiro bloccati dentro la gola come se avesse ingoiato un sasso, senza nemmeno pronunciare una parola o il più flebile dei lamenti.

Il sangue, quello no. Il sangue si muoveva impazzito sotto la pelle, e lo sentiva scorrere dentro le vene in scie di lava bollente, e strisciava, come tanti piccoli serpenti, gli stringeva il cuore e schizzava dritto nelle vene pulsando con forza ai lati del collo e appena sotto le orecchie.

'...sangue! E' un sangue puro,

mio signore!'

Una ragazza -Chi? La conosceva? La ricordava?-  gli aveva detto questo, guardando emozionata il fagotto urlante che stava reggendo tra le braccia, senza neanche degnare di uno sguardo quell'altra donna come lei morta in quella casa, in quella camera, la distanza di un braccio da lei.

A nessuno importa di lei!, pensò, mentre un brivido di rabbia gli scivolava sopra le spalle violento come il graffio di un gatto.

AnessunoAnessunoAnessuno...!

Ma a lui importava, invece. Lui, in quel preciso momento, voleva solo tornare a casa e trovarla seduta sull'uscio a cucire stoffe da vendere al mercato, o armeggiare un cuchiaio lasciando che il vapore sputato fuori da una pentola le riempisse la faccia di gocce calde e collose, voleva poggiare le fronte sulle sue ginocchia e lasciarsi accarezzare i capelli, e poi alzarsi e baciarla e amarla e amarla e amarla.

L'amava. L'aveva amata da quando il suo viso era sbocciato tra tanti altri dei praticanti del tempio: un amore adolescenziale, da piccoli, di un ragazzo che vede una donna per la prima volta in vita sua. E lei, lei che poteva avere nobili e principi solamente con un suo solo sorriso, aveva accettato i suoi stracci e il suo amore come unico dono di nozze che potesse offrirle. Lei, sua moglie, che con le guance tonde, il seno acerbo, i modi composto, le ali bianchissime e i timidi occhi celesti, gli sembrava più bella di una dea.

"Il Sommo Dio è nato! Il Sommo Dio è nato!"

Le due giovani donne alzarono le candele sopra la fronte, le abbassarono, le alzarono di nuovo, e una fila di uomini in veste d'argento iniziò a far scontrare i loro bastoni sopra la sabbia per una, due, dieci volte in tutto, e un coro di sonagli (D'oro, come le lune di un ormai dimenticato cielo azzurro) tintinnò nell'aria per guidare le anime smarrite nella giusta strada verso il regno di Mhaali.

Nato, sì.

Era nato un bambino anche se lui non voleva avere figli. Perché averne uno? Come nutrirlo, se avevano da mangiare appena per due, e poi come vestirlo?

No, quello no: a sua moglie piaceva cucire, e per un suo figlio avrebbe fatto abiti su abiti senza mai contare le punture dell'ago sulle dita della mano e senza mai far caso alla sua vista che si appannava e accorciava sempre di più. Ma come curarlo, se si fosse ammalato, e come istruirlo?

Medico? Insegnante? Con quali soldi?

E poi stavano così bene in due, a nutrirsi l'uno dell'amore dell'altra senza doverlo dividere con nessun'altro. Perché, allora, doveva arrivare un figlio?

'Dovevi stare più attenta!' le aveva urlato con rabbia e paura sbattendo la mano sul tavolo e facendo cadere un bicchiere sul pavimento. Lei si era messa a piangere, e lui non aveva più aperto bocca.

E quel bambino non atteso era cresciuto dentro il corpo di sua moglie, cullandosi della sua voce gentile e delle carezze che riceveva da sopra il ventre, gonfiandole la pancia, dandole calci, succhiandole cibo e granelli di vita come un piccolo parassita. E quando finalmente era venuto al mondo, piccolo, brutto, con quella faccia rossa e sporca e con le ali nere raggrinzite dietro la schiena, non era rimasto nient'altro da portare via a sua madre.

Dhovir inghiottì a vuoto, percorso da un brivido di freddo che gli scosse le braccia con prepotenza, e senza che se ne accorgesse le persone attorno a lui si zittirono d'un tratto, e tutti insieme, in un silenzio religioso spezzato ogni tanto da qualche bisbiglio emozionato, si piegarono a terra come fiori morti, sfiorando il suolo con la fronte fin quasi ad affondare il naso nella sabbia, e tutto, persino il vento, tremò e trattenne il fiato con elettrizzante attesa. E in quel momento, da davanti alla grandissima folla di soli uomini, qualcuno si alzò dal suo trono di pietra, e reggendosi al suo bastone con entrambe le mani avanzò verso le due giovani vestite di rosso, guardandole poggiare le candele al suolo e allontanarsi a testa bassa in direzioni opposte. L'uomo era molto anziano, dal corpo largo e fragile al contempo, le ali rugose risplendenti di cupi riflessi di piombo, un volto vecchio e stanco che pareva fatto di argilla; i suoi capelli erano corti, poco più di una peluria grigia e dall'aria puntigliosa stesa su tutto il capo, e dalla punta del mento spuntava un filo lunghissimo di barba nascosto per metà sotto il colletto della sua veste rossa e azzurra.  Quando si voltò verso i presenti, la fronte antica e altissima si corrugò appena sotto un movimento quasi impercettibile delle sopraciglia. Dietro di lui, a distanza di quattro o cinque passi, un'ancella lo aveva seguito, facendo oscillare le tre trecce bionde e spesse come corde davanti alle spalle sottili. La donna, poi, si fermò, e alzò indispettita il mento verso la folla con fare autoritario, schioccando un'occhiata di rimprovero all'unica persona che stava osando rimanere in piedi alla presenza del Grande Patriarca.

Dhovir ricambiò quello sguardo ghiacciato senza scomporsi, e l'ancella, guardandolo meglio da lontano e riconoscendo il suo viso, impallidì, come se avesse appena visto uno spettro, e poi divento rossa e abbassò subito gli occhi ai suoi piedi, stringendo più forte al seno il fagotto di tessuto pregiato che aveva tra le braccia.

Il Patriarca si schiarì la voce, spezzando il silenzio con qualche roco colpo di tosse, e scosse la testa come per scrollarsi di dosso qualcosa di particolarmente fastidioso. Poi, di nuovo, tornò a guardare la folla. "Figli miei", cominciò, con voce bassa e arrochita dal catarro, masticando con cura ogni parola prima di pronunciarla. "in principio, la terra s'aprì e sputò fuori il suo sporco alito di fuoco, e il fuoco, fondendosi con la polvere dell'aria, generò mostri che si cibavano di sangue. Ci sterminarono, casa dopo casa, notte dopo notte, senza pietà. E ancora..." tossì, coprendosi la bocca con un movimento stanco del pugno. "...e ancora, ancora... finché gli ultimi uomini rimasti non salirono sulla Duna sacra e pregarono, e lo fecero senza mangiare, e dormire, senza fermarsi per dieci notti intere. Il dio del fuoco, forte e crudele, ignorò le loro voci e seguì l'esempio dei mostri, uccidendo e bruciando carne per poterla mangiare. Il dio della terra, che era buono ma codardo, si nascose nel profondo del suolo e fece finta di non udire le nostre disperate richieste d'aiuto. Allo scadere della decima notte, figli miei, fu solo il dio del cielo a rispondere loro".

Alle spalle dell'uomo, un bambino iniziò a piangere, e Dhovir non volle ascoltare nient'altro. Chiuse gli occhi, strinse i pugni, e se solo, se solo avesse potuto ringhiare come una bestia, e tirare calci al terreno di sabbia fino a spaccarlo e portarsi le mani alle orecchie per strapparsele e non dover sentire più nula, lo avrebbe fatto. Si concentrò, tremando di rabbia, e della favola raccontata dal Patriarca riuscì a udire solo qualche squarcio ovattato: quando il dio del cielo si sciolse dall'universo per prendere corpo mortale, quando uccise i mostri e rese schiavo il dio del fuoco, quando sposò Mhaali, quando regnò, quando morì.

"...e fu in punto di morte che il buon dio del cielo promise di ritornare dal grembo di donne d'animo puro per prendere forma e corpo come in passato, conducendole verso il regno celeste che un tempo era la sua dimora. Il regno delle lune d'oro dove vige la buona e bella Mhaali. E lo fece, nacque e  morì per più di cento volte, fino ad oggi." Il patriarca chiuse gli occhi e respirò a fondo, piegando la test in avanti come se fosse troppo pesante da reggere sul collo. Tossì, prima di proseguire. "...quando il popolo e gli dei mi scelsero come Patriarca il nostro precedente divino sovrano aveva già fatto tanto per la sua gente, e già perso tanto del suo tempo rimasto da spendere nella vita terrena. Ed è passato tanto tempo dalla sua morte, per notti troppo numerose siamo rimasti senza la guida del nostro Sommo Dio, quando sembrava che nessun grembo materno fosse adatto a dargli una nuova vita e un nuovo corpo per tornare da noi."

Senza aprire gli occhi neanche una volta, Dhovir strinse le labbra, e infilzò le unghie nei palmi delle mani per trattenersi dal vomitare lacrime e rabbia. Se avesse alzato lo sguardo oltre la spalla del Patriarca e dell'ancella e oltre la parete trasparente di un enorme bozzolo di vetro, avrebbe anche potuto vedere sua moglie, le caviglie intrecciate l'una sull'altra, le braccia e le mani unite sopra la testa, le ali spalancate, il leggero vestito bianco che aveva addosso, i capelli sempre diligentemente legati col suo nastro e che ora cadevano sciolti come una folta cascata color grano. Avrebbe preferito che venisse bruciata come un morto qualunque, e vedere la sua carne spalmarsi sulla pietra in orrendi grumi neri e le ossa carbonizzarsi fino a farsi polvere e sollevarsi in fumo e nauseante odore di bruciato, piuttosto che ritrovarselo ancora integro e congelato davanti agli occhi come se fosse ancora viva. Ma il suo corpo era sacro, era benedetto, era stato scelto da un potere divino e non poteva essere toccato  -AnessunoAnessunoAnessuno!

E ora che ci pensava poteva, ecco!, prendere il bastone del vecchio e colpirlo allo stomaco o sulla testa e costringerlo a tacere a costo di spaccargli il cranio o staccargli la lingua dalla bocca con le sue stesse mani.

E l'immagine del Patriarca dal volto e dai denti sporchi di sangue gli sembrò così chiara e nitida ai suoi occhi che, per un momento, dovette trattenere il respiro, spalancando gli occhi e sbattendo le palpebre nel cercare di capire se davvero l'avesse fatto o no. Non si accorse nemmeno che qualcuno aveva ricominciato a parlare e che ora le persone attorno a lui si erano di nuovo alzate in piedi e che la donna con le trecce si era fatta avanti di un passo con un sorriso serio sulle labbra color cannella. Quando Dhovir rialzò lo sguardo, l'anziano Patriarca aveva sollevato con fatica ciò che aveva tra le mani, incurante di quanto questo strillasse o si agitasse.

"Il sangue puro. Il nostro re."

Suo figlio piangeva, avvolto malamente in un panno bianco che non gli copriva neanche la pancia, sollevando le gambe e le braccia nude verso l'alto e agitandole nervosamente in direzioni diverse, e i capelli, di un blu stupefacente che li faceva sembrare davvero filamenti di un cielo dimenticato, si appiccicavano alla minuscola testolina come una viscida seconda pelle. 

A poca distanza da lui, dietro una spessa parete cristallina, Lhana dormiva per non svegliarsi più.


 




Onigiri





note autrice:


Awwwf... non sono mai stata particolarmente soddisfatta di questo capitolo, e riaggiunstandolo la mia opinione a riguardo non è poi cambiata molto >>.
Piuttosto, immagino di dovermi scusare per questo cambio di scena tanto improvviso ^^"... . Pardon. Ma era necessario. Anche se per sapere il perchè ci vorrà ancora un po' =P. (oddio, io sono una schiappa per quel che riguarda la suspance, e pensare che questa storia ne dovrebbe prevedere molta mi convince sempre meno sul risultato che verrà fuori xD).

Per il capitolo... non mi convinceva prima e non mi convince ora, ma nel cercare di aggiustarlo spero almeno di non aver peggiorato le cose =( .
Invece, per il prossimo capitolo... è uno che nella precedente versione non c'era per cui lo sto scrivendo dall'inizio e non mi sta neanche piacendo molto come sta venendo fuori ^^", quindi credo che il prossimo aggiornamento sarà più lontano del solito =( . Chiedo scusa...


Ma Allluooora, veniamo alla parte che preferisco *///*! Sapere che c'è qualcuno che legge questa storia i riempie davvero di gioia, e nn so come ringraziarmi. E per il commento lasciato ringrazio tantissimo anche:




 darllenwr : Ho paura che sto per finire le parole di ringraziamento da usare nei tuoi confronti... sei sempre gentile, e per questo ti ringrazio tanto!
Anch'io adoro Tartini. E sono contenta d'aver trovato l'occasione in questa fic di poter fare riferifento al sogno che ha dato origine alla sua opera musica più famosa =D. E sono contenta che non sia andata molto male il... come posso chiamarlo, primo "fenomeno paranormale" (oddio, no! xD). E mi ha molto incuriosita la tua interpretazione sul rapporto tra Mila e lo zio Amos. Non dirò niente a riguardo, perchè in realtà ciò li lega (o che li dovrebbe legare >>) è qualcosa di piuttosto complicato, e rischio seriamente di anticipare cosa che vorrei tenere per me fino a quando non arrivà il momento. Però ho comunque apprezzato questa analisi così attenta da parte tua, e mi ha anche fatto riflettere un po' sulla questione. E Amos, questo strano zio Amos... anche su  di lui, meglio non dire nulla per ora ^^. Ti ringrazio ancora tantissimo!




E come sempre, ovviamente, ringrazio chi ha solamente letto questa storia ^_^ (qualcuno c'è, lo so: l'ho visto! +__+  -fu così che anche gli unici lettori fuggirono a gambe in spalla -o- ).
Farò del mio meglio con questa storia, e spero davvero di non deludere nessuno. Nel frattempo,di nuovo, vi ringrazio tanto!


baci,
onigiri.





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Capitolo 6
*** Scale (cucina) ***


Legame
   Legame   
(Le pietre blu) 











Capitolo 5








 Scale

che non portano da nessuna parte

scale

che salgono soltanto per scendere

è difficile orientarsi

nei dintorni del nulla.

  

Scale (Poesia)- Luciano Erba

























Ed era strano, quello sguardo.

Stupito, pensieroso, arrabbiato, e al contempo nessuna di queste cose.

Ed era freddo: qualcosa che alla vista sapeva di ghiaccio, di vento, di inverno specchiato nel volto della luna.

Era il loro colore –che al buio scintillava come una gelata notte di stelle- ad essere strano?

Mila non capiva, e il non capire le metteva in bocca un untuoso sapore d’angoscia.

L’adulto era fermo, immobile. Le labbra, di un denso e scuro color garofano, erano strette, serrate in una smorfia senza nome che le faceva venir freddo fino alle ossa. La camicia, col colletto rivoltato verso l’esterno e chiusa con cura fino all’ultimo bottone, pareva tremare con forza nel cercare di seguire la direzione incostante del vento, quando il tessuto si stendeva, si piegava, s’ingrossava appena in dune di cotone e subito si appiattiva contro il corpo dell’uomo delineandone il petto e la forma delle braccia.

Mila socchiuse le palpebre e si strinse le gambe alla pancia, rabbrividendo dal freddo quando il vento si alzò ancora sfregandosi come uno straccio ruvido sulla sua pelle bagnata. Guardò quella camicia, quel suo ipnotizzante alzarsi e abbassarsi e strattonarsi con forza per sfuggire alla presa dell’orlo dei pantaloni, e poi guardò la cintura, e quella sua fibbia gialla e ovale che quasi le pareva un occhio: era come se la stesse guardando, fissandola dritta in un’unica pupilla fino a riuscire a vedere persino i suoi pensieri. Deglutì. Colpì appena l’erba con le dita dei piedi, dai mignoli agli alluci, e poi all’incontrario: le mosse piano, le piegò tutte insieme e le ritrasse subito, quando s’accorse che attorno a lei c’era solo buio e la paura le fece tremare le ginocchia. E come faceva quando suo padre spegneva la luce in camera sua, tese le orecchie e rimase in ascolto. C’era l’acqua dell’irrigazione, un sibilo piacevole senza sfumature che solo ogni tanto s’interrompeva e immediatamente ricominciava, e allora il rumore diveniva diverso, come una sorta di catarroso colpo di tosse, e le gocce, nel loro cadere, sembravano farsi più pesanti, e si sentivano scendere in picchiata contro la terra umida come proiettili su un corpo già morto.

Ancora: un grillo, forse; magari in cerca di una compagnia che non riusciva a trovare.

Ancora: il suo respiro rosicchiato tra i denti come una crosta di pane. Si morse il labbro e trattenne il fiato.

Ancora: le foglie. Provò a sollevare lo sguardo verso destra, poi verso sinistra, fino a scorgere tra le pieghe della penombra quel groviglio di rete che separava il bosco dal giardino dello zio. Degli alberi, così alti in confronto a come li aveva visti dalla finestra della sua camera, riusciva appena a scorgerne le punte delle chiome. Erano ombre nere, riflessi scuri dondolanti su sé stessi come barche sul mare in burrasca, e che a volte sembravano corpi, volti che si rivolgevano l’un l’altro per guardarsi negli occhi, parlarsi, sgridarsi, scontrarsi, e baciarsi, o che agitatissimi si sbracciavano tutti in una sola direzione come per nascondersi, scappare via, urlare invocando aiuto o pietà. Mila si girò, fissò i pantaloni dell’uomo e guardò oltre le sue gambe, fino al lampione che splendeva di bagliori così tiepidi e morbidi che avrebbe voluto alzarsi in piedi per raggiungerli, e stringerseli forte al petto e avvolgerseli attorno come una coperta. Guardò fino all’albero del giardino che aveva visto prima di andare a letto, diviso a metà dalla luce gialla e arancio del lampione: delle sue due parti, adesso, vedeva solo quella nera, e col cuore pulsante al centro della gola la guardò tendersi nella sua direzione, e porgerle i rami agitandoli come se volesse parlare con lei: fuggi, corri, più lontano che puoi! , sembrava dire, a tratti; Vieni, vieni da me, non te ne andare, se anche scappi tanto ti acchiappo, ti stringo, e poi ti mangio.

Qualche goccia d’acqua scivolò dai capelli sulla fronte, sulle ciglia, fino a raggiungerle gli occhi, e Mila, lasciando la presa dal terreno molliccio, abbassò le palpebre e se le grattò frettolosamente con una mano sola. Scosse il corpo, presa da brivido più forte che quasi le fece scappare un mezzo starnuto, e sfregò le gambe l’una contro l’altra per staccarsi dalla pelle la stoffa fradicia e fastidiosa del pigiama. Sentì ancora troppo freddo e si fece scappare un flebile piagnucolio di fastidio, prima di tornare a guardare l’adulto ancora in piedi di fronte a lei: di nuovo, per poterlo vedere in volto, alzò tanto il mento verso l’alto che finì col farsi male al collo -di nuovo, non ci badò.

I capelli riuscì a vederli meglio degli occhi: scuri (scuri?), lisci, tagliati in un soffice caschetto che si gonfiava e si piegava appena dove le punte si scontravano con le spalle. Erano più lunghi di quelli dello zio Amos, e Mila fu certa che se la mamma fosse stata lì avrebbe subito scosso la testa al solo vederli da lontano.

Ancora, la sagoma di Daniela e le sue mani e la sua bocca calda riaffiorarono tra altri suoi mille e confusi pensieri. La voglia di piangere tornò prepotente a pizzicarle gli occhi, e non si preoccupò nemmeno di ricacciarla indietro. Si lasciò tremolare il labbro e inumidire gli occhi, e nel coprirsi il viso con entrambe le braccia emise un lamento lungo e disperato simile a quello di un animale ferito. Singhiozzò una, due volte, e poi pianse, e lacrime sempre più calde scavarono tra il freddo sottilissimo sulle sue guance già bagnate. Pizzicavano, bruciavano, e al sapore non erano salate, ma amare. Ogni tanto, in uno spiraglio tra le sue braccia e con la vista annebbiata dal pianto, provava a guardare l’uomo che aveva di fronte, e, singhiozzando, aspettava. Lui era un adulto, ed era certa che qualcosa avrebbe fatto: parlarle, prenderla in braccio o accarezzarla e pulirle la faccia o dire qualcosa prima di aiutarla a mettersi in piedi e portarla dove si trovava sua madre.

Ma lui non fece nulla: solo, la fissava, la scrutava, con quello sguardo strano.

Mila allora abbassò lo gli occhi e pianse sempre più forte, cercando di chiamare sua madre tra le lacrime che avevano iniziato ad impastarle la bocca di caldo e sale.

L’aria era fresca, umida, vischiosa, e la sentiva appiccicarsi addosso come un vestito troppo stretto, ma nonostante la pelle d’oca in ogni punto del corpo non coperto dal pigiama non ci fece neanche caso. Piangendo con voce sempre maggiore, Mila starnutì, e chiuse le palpebre con forza. Le asciugò. Le riaprì.

Quando vide l’uomo sfiorarle la mano con un suo dito sobbalzò a tal punto che quasi le sfuggì un grido strozzato. E nel sentire il suo respiro –ghiaccio, fuoco, menta- scorrerle ruvido lungo la fronte Mila indietreggiò, premendo i piedi e un gomito sul terreno, pungendosi di erba e fango e scivolando due o tre volte per poi fermarsi e sentire irrigidirsi come legno ogni più piccolo muscolo del corpo. Il fiato saettò dai polmoni fino alla punta dei denti, si ritrasse verso la gola e lì si annodò stretto facendosi pesante come un macigno.

L’uomo socchiuse gli occhi. Mila allargò i suoi.

Quando si era inginocchiato?

L’unghia del suo indice era sottile, bianca come uno spicchio di perla, e se anche le stava appena sfiorando il palmo per Mila fu come sentire la pelle scavata e incrinata dalla punta di un ago -e trattenne il respiro, aspettando quel dolore lacerante che sarebbe dovuto arrivare subito, ma che mai si presentò.

In un gesto quasi meccanico socchiuse piano le dita verso il palmo, e se anche l’uomo non stava facendo nulla per trattenerle la mano lei non riuscì a ritrarla da quel tocco appena accennato.

Non ricevette un solo sguardo sfuggevole, neanche un barlume di attenzione se non rivolto a quella mano che le stava sfiorando: ma Mila, ora che era distante a meno di un passo dalle sue ginocchia, lo osservò attenta, senza volersi lasciar scappare nulla del suo aspetto. In che modo riuscisse a vederlo così bene, nonostante il buio del giardino spesso come un velo di cuoio, non se lo chiese neppure.

Il suo volto era chiaro, levigato, severo e immobile in un’espressione concentrata rivolta alla sua mano sporca di acqua e di terra – muoveva il dito in cerchio in diverse direzioni, e sembrava disegnare, toccare, cercare qualcosa. I capelli, lunghi poco oltre le spalle, oscillavano quieti col vento in una sola direzione, in fili lucenti che parevano ragnatele rivestite di rugiada. E gli occhi, contornati da ciglia che sfumavano d’argento, le trattennero il fiato in gola: il colore (che al’inizio le era parso scuro, poi chiaro, e che ora splendeva di un quieto pallore simile a quello del fumo) era rigido, freddo e duro come una parete di roccia, eppure fluente e scorrevole come un turbine di pioggia e di fiamme.

Era asfalto e vento. Ghiaccio e mare. Stelle e gocce.

Pietra e acqua.

Un colore, insieme, così immobile e mobile al contempo come Mila non aveva mai visto negli occhi di nessun altro.

Non appena si sentì puntato addosso quello sguardo, il cuore sembrò fremerle troppo forte nel petto, e iniziare a pulsarle dentro orecchie come un convulso rullo di tamburi.

Era un’espressione intrisa di disgusto che Mila non riuscì a interpretarla come tale: le sembrò invece severa, arrabbiata. Come quella di un genitore quando scopre il pasticcio appena combinato da un bambino.

Trattenne il fiato: voleva picchiarla?

“Massimiliana!”

La voce, alta e stridula come quella di un uccello, le procurò un sussulto tale da farle tremare le labbra. Mila si voltò col collo all’indietro, verso le strisce di luci alle finestre della casa dello zio Amos, e frugò nel buio cercando la persona che le aveva appena rivolto la parola. Ne distinse i contorni oscillare appena mentre correva verso di lei e, allo stesso tempo, facendo forse attenzione a non inciampare: e più si avvicinava più riuscì a vedere le gambe lunghe e scoperte, i polsi fini e i il seno rotondo. Allargò gli occhi: mamma, fu i suo primo, caldo, confortante pensiero. Ma Daniela, si rese conto pian piano, non aveva i capelli così corti. O così mossi. E non aveva mai indossato una maglietta a bretelle col disegno di una mucca buffa intenta a rosicchiare il gambo di un fiore tra gli incisivi.

Monica la raggiunse e le afferrò il braccio prima ancora che Mila si ricordasse quale fosse il suo nome. “Che fai qua?” la sentì esclamare, senza fiato nella voce, interrotta subito da uno spruzzo d’acqua che le sfiorò il polpaccio e la fece balzare poco all’indietro. Monica tornò a guardarla, convincendola, con uno strattone leggero, a mettersi in piedi. “Che accidenti stai facendo? Di notte? Da sola? Ma lo sai da quanto tempo ti stiamo cercando?!”. Mila si resse a fatica sulle ginocchia, sentendole sotto il suo peso doloranti e molli come budini, riuscendo però a non cadere in avanti. Il vento, una volta in piedi, sembrò farsi più secco contro la sua pelle, e più ruvido e fastidioso; le gambe le tremarono e una sua mano andò subito a coprire la pancia e sfregare le nocche contro il pigiama ancora fradicio. Guardò le gambe di Monica scontrarsi l’una con l’altra, forse prese da un brivido di freddo; la vide scuotere il capo senza dir nulla, e poi voltarsi e iniziare ad andarsene tirando fuori un lungo, basso lungo sbuffo scocciato. Mila fece un primo passo in avanti, barcollò, e nel sentirsi tirare per il braccio si girò subito, senza una vera ragione, cercando il signore del cappello con lo sguardo.

Ma non lo trovò: vide solo tenebra, l’irrigazione che di nuovo si fermava e tossicchiava sputando fuori con forza gocce più grosse delle altre, e la metà nera dell’albero coi rami ancora tesi verso di lei - vieni, vieni, che tanto ti acchiappo ti stringo e ti mangio!. Mila afferrò con più forza la mano di Monica e provò a cercare ancora, ma non riuscì a vedere nient’altro; quando il collo indolenzito iniziò a chiedere tregua si voltò, e si guardò i piedi affondare nell’erba scura già schiacciata dal passo più pesante di Monica, senza osare nemmeno pensare di chiederle di rallentare un poco perché non riusciva bene a starle dietro senza sentir male al braccio e alle gambe. Quando rialzò lo sguardo dal prato erano davanti a una porta a vetri che lei non ricordava d’aver mai visto prima. Monica l’aprì, rabbrividì grattandosi un braccio con l’altra mano, entrò dentro di un poco e cercò a tastoni l’interruttore contro la parete. Non appena accese la luce fece un passo in avanti, s’immobilizzò, e con gli occhi larghissimi si guardò subito le scarpe da ginnastica. Una manciata di fango, grande quanto un’impronta, macchiò le piastrelle di melma nera e verdastra che odorava di umido e qualcos’altro che a Mila piacque molto da annusare. Sentì Monica dire qualcosa senza capirne il significato, e alzando gli occhi verso il suo volto incrociò subito i suoi, contorti in uno sguardo che le parve preoccupato. Lasciò che la scrutasse con attenzione sotto la luce bianca del lampadario, e che la scoprisse scalza, bagnata e sporca come al buio non aveva notato. “Senti, Massimiliana…” la osservò chinarsi per togliersi le scarpe in modo goffo e gettarle malamente fuori dalla porta, rimanendo anche lei a piedi nudi con unghie laccate di uno smalto rosa e giallo. La fece entrare strattonandola un poco e le lasciò la mano “Rimani qui, ok? Io arrivo subitissimo… non ti muovere!” aggiunse, camminando all’indietro verso un’altra porta dall’altra parte della stanza senza smettere di guardarla. “Chiudi lì e aspettami, eh? Non muoverti. Capito? Eh?”

Monica urtò lo spigolo di un mobile, si massaggiò l’anca stringendo con forza un labbro in bocca, e borbottando qualcos’altro che Mila non riuscì a capire si girò su sé stessa e scomparve oltre la porta che lasciò aperta a metà, lasciandola sola.

Sentendo le gambe tremare e il naso farsi gonfio in maniera fastidiosa, Mila si passò il dorso di una mano sulla faccia e poi si strinse nelle spalle, mentre il vento dietro di lei le premeva forte la schiena come per spingerla ad avanzare ancora; ma non si mosse, nemmeno quando le punte dello zerbino iniziarono ad infilzarsi nella pianta dei piedi costringendola a dondolare su sé stessa per provare meno dolore, sentendosi piccola e intimorita in quella stanza che le era del tutto sconosciuta e che odorava di sale e farina. Una cucina bassa, ampia e strana, dall’aria spigolosa nonostante il soffitto dolcemente tondo come un coperchio, e colorata di vernice che variava dal bianco all’arancio scuro. Mila guardò il punto dove Monica era scomparsa, e poi, infreddolita e intimidita e con le mani strette sulle braccia, si osservò attorno, partendo da sinistra perso destra: vide un quadretto di natura morta appeso alla parete, un’altissima credenza marrone con un cassetto lasciato aperto, la lavastoviglie, il lavello con affianco due bicchieri rovesciati e lasciati ad asciugare sopra un panno, il piano di cottura, il forno, un tavolo di granito al centro esatto della cucina, un brutto orologio a muro appeso sopra la porta da cui Monica era andata via, il mobile che Monica aveva urtato, un altro mobile, uno altro quadro che sembrava pieno di colori, un attaccapanni spoglio come un albero in autunno. La luce del lampadario era chiara e dolce, rendendo persino le ombre sul pavimento quieti e innocue come cuccioli che dormono. Mila si abbracciò e abbassò gli occhi verso la macchia fangosa disegnata tra due mattonelle scure del pavimento in cotto, cercando di dare un nome a quella buffa forma verdognola, e poi, di nuovo, rabbrividì e starnutì forte. Fissò la porta davanti a lei, aspettando qualcuno che non si presentò, tirò su col naso e tornò a guardare la cucina, partendo però dalla sua destra: attaccapanni, quadro, mobile, tavolo, forno, lavello, scale, credenza e altro quadro con dipinta della sgraziata frutta viola. Strofinò le ginocchia tra loro, sentì freddo, chiuse gli occhi. Li riaprì di scatto.

Lavello, scale, credenza.

Immediatamente, alzò lo sguardo con le sopraciglia corrugare sulla fronte.

Quali scale?

Le fissò, stropicciando gli occhi quando nel sollevare la testa sentì la luce farsi troppo forte. Quelle scale erano –anche prima?- ad una breve distanza dallo zerbino in cui si trovava, ed erano strane, come un po’ trovava il resto della cucina. I gradini che, alla vista, sembravano fatti di legno e sorretti da soli a mezz’aria l’uno davanti all’altro, erano piatti, larghi, neri come sottili strisce di carbone -Mila, alzando le dita di un’unica mano davanti agli occhi, ne contò cinque in tutto. Niente corrimano. Un buco tondo e piatto sul soffitto, come una bocca senza denti, verso il quale l’ultimo gradino era puntato. Mia tirò il collo verso l’alto per osservare bene quel buco, non vedendoci dentro altro che nero che all’iniziò non le fece alcun effetto, ma che poi, continuando a studiarlo con lo sguardo, sembrò accendere qualcosa nella sua testa: la sua immaginazione iniziò, frenetica, a lavorare, mandandole immagini di scrigni e tesori, oggetti antichi dimenticati nella polvere, ingressi per mondi pieni di delizie, creature nascoste dietro le loro catene scricchiolanti o nell’angolo più scuro del buio ad attendere pazienti un bambino troppo curioso come lei. La curiosità iniziò subito a pruderle il corpo e a farle dimenticare del freddo, di Monica, del signore del cappello scomparso nel giardino, e provò un’eccitazione e una paura tale da farle galoppare il cuore nel petto dalla voglia di avvicinarsi e di arretrare al tempo stesso.

Strana scala, a guardarla bene: perché era sdraiata proprio davanti alla credenza, così vicina da sfiorare quasi col suo secondo gradino il pomello del cassetto lasciato aperto. Come si potessero aprire le ante che si trovavano in alto per metterci dentro o toglierci delle cose, con quella scala che stava proprio di fronte, Mila non riuscì a capirlo bene. Avrebbe voluto che un adulto fosse con lei perché glielo spiegasse. Pensò a sua madre, poi a Monica che ancora non era tornata. Poi guardò ancora il cerchiò scuro scavato così bene nel soffitto: si alzò sulle punte dei piedi, si piegò verso il basso con le ginocchia, ma ancora non riuscì a vedere altro che nero. E quella bocca perfettamente rotonda sembrava parlare per invitarla a raggiungerla, come aveva fatto l’albero a due facce del giardino. Ma quello si muoveva in un modo che le annodava lo stomaco dal terrore, e le foglie che agitava forte al vento le parevano denti che affondano dentro un pezzo di carne, e nei rami aveva artigli pronti ad afferrarla a un solo passo fatto più avanti per stringerla fino a spezzarla e schiacciarle le ossa. Vieni, diceva il buco, con una voce più dolce di quella dell’albero, e più sottile, e così reale nel sentirla scorrere in un orecchio che le vennero i brividi sulle braccia.

Il passo barcollante e il respiro rumoroso di Monica annunciarono il suo ritorno, facendole dimenticare a cosa stava pensando: la vide entrare veloce con un asciugamano sottobraccio e lo sguardo frettoloso, poi sorpreso, poi arrabbiato. “Ma che fai?!” tuonò, tanto forte da metterle spavento “Spostati! Ti avevo detto di chiuderla!” . La superò e afferrò la maniglia della porta per tirarla verso di sé, e il brusco clack che seguì quel gesto fece sobbalzare Mila sullo zerbino. Guardò Monica dal basso e l’asciugamano che aveva in mano: pensò, e fu certa di questo, che l’avesse portato per pulire il pavimento dal fango, e non trattenne alcun verso di stupore quando invece la vide inginocchiarsi di fronte a lei, afferrarla per le ascelle e farla sedere sulla sua gamba. “Sei fradicia!” la sentì dire da sotto l’asciugamano che le stava sfregando sui capelli e tutta la testa. Cercò di ribellarsi a quel trattamento muovendo le braccia in direzioni opposte, ma fini con l’arrendersi subito. “E stavi tutta tranquilla in mezzo alla corrente! Vuoi ammalarti? Prima sparisci e poi…”

Monica, le scale, non le guardò nemmeno. Sollevò Mila da terra lasciando cadere l’asciugamano e allontanandoselo dai piedi con un calcio, e con lei in ben sorretta tra le braccia uscì dalla cucina sputando fuori sbuffi più lunghi e forti ad ogni passo che faceva. Mila, aggrappandosi forte alla sua spalla nuda, non riuscì a vedere molto dei posti che stavano attraversando: scorse un piccolo corridoio che odorava di chiuso e di acqua stagnata, una stanza piena di cesti e fili da bucato, due gradini di marmo che conducevano a una porta verde e chiusa, e, oltre la porta, l’illuminato salone d’ingresso della villa dello zio Amos. Riconoscendo, finalmente, il posto in cui si trovava, strinse le mani su Monica e alzò il mento in avanti, alla frenetica ricerca di sua madre con lo sguardo.

“Signora” chiamò Monica, salendo le scale verso i piani superiori, con un tono di voce meno stridulo rispetto a quello che aveva usato con Mila. “Signora, è qui! L’ho trovata.”

Mila non capì da dove sua madre fosse uscita fuori: solo, quando si guardò attorno nell’accorgersi di essere arrivata al primo piano, la vide nel corridoio con una mano che sfiorava la maniglia di una porta, i capelli scomposti, gli occhi gonfi, gli stessi vestiti che le aveva visto addosso durante la cena. Non capì bene nemmeno chi delle due riuscì ad afferrare l’altra per prima, ma non se lo chiese neppure. Quando Daniela la strinse contro il petto, scoppiò di nuovo a piangere.











1 miglione

2 miglioni

3 miglioni di anni fa

Erano tre frasi sbiadite ma ancora leggibili, scritte con un pennarello rosso poco sopra alla parola Girraffa appuntata in stampatello in un angolo del libro. E c’era, fatta con l’inchiostro quasi sciolto di una penna nera, una croce sottile su ogni g di miglione, e un cerchio, grande quanto una monetina, ricalcato appena sopra il sorriso a quattro denti che la giraffa del disegno le stava rivolgendo. In realtà, anche se non si capiva bene, quel cerchio sarebbe dovuto essere una piccola luna.

…la giraffa aveva il collo la metà della metà.

Ma credendo che la luna fosse dolce l’assaggiò,

ed il collo da quel giorno lungo lungo diventò.

Facendo forza con i palmi aperti delle mani, Mila spinse il libro aperto dentro l’acqua calda, immergendo le braccia fino ai gomiti quando sentì d’aver toccato il fondo della vasca: e allora mollò la presa, alzò le mani verso l’alto e guardò il libro tornare a galla sporco di schiuma profumata di albicocca. Agitando i piedi per spostarsi di più all’indietro mosse le dita e voltò pagina, deliziata dal contatto morbido e liscio con la gomma sotto i polpastrelli bagnati. Mila aveva due libricini da bagno in tutto, e il suo preferito era quello con la copertina verde e dentro gli animali della fattoria: le piaceva, soprattutto, il disegno di un maialino rosa che si trovava fra le pagine in mezzo, con la coda riccioluta come una molla e una farfalla gialla poggiata sul suo naso schiacciato, e dei dolcissimi occhi marroni che somigliavano a due grosse nocciole. Ma sua madre, in valigia, aveva messo solamente il libro dalla copertina azzurra, con gli animali dello zoo rinchiusi nelle gabbie e con sopra le figure, in rosso ciliegia, il loro nome scritto in stampatello con la calligrafia incerta di chi ha appena imparato a reggere un pennarello dentro la mano. Voltò pagina, e lesse scimmia, foca, rino ceronte; si fermò quando sentì sua madre sfregare con troppa forza tra i suoi capelli per passarci lo shampoo. Le uscì un mugolio di protesta che Daniela ignorò, facendo solo attenzione che la schiuma non le cadesse negli occhi potandole la testa all’indietro.

“Buona” la sentì borbottare, con quel tono severo che non ammetteva repliche. “Finisce subito.”

Ora, notò Mila, la sua voce era nervosa, e pareva quasi arrabbiata. Prima, quando l’aveva afferrata e stretta forte contro il seno, era spezzata da singhiozzi colmi di sollievo e preoccupazione; poi era stata solo sollevata, poi solo preoccupata, e dopo ancora, rivolgendole domande sul dove fosse stata e cosa avesse fatto alle quali lei non era riuscita a dare risposte concrete, si era fatta rigida e indagatoria. Ora non riuscì a capirlo bene, ma preferì obbedire alle sue carezze troppo dure e non lamentarsi per paura che si arrabbiasse più di quanto non sembrava gia.

La terra e l’erba appiccicata ai piedi e alle gambe se ne era andata, le tracce secche delle lacrime sulle guance erano sparite facendole tornare lisce e rosa come caramelle. Perfino tutto il freddo che aveva preso si era sciolto immediatamente a contatto con l’acqua tiepida. Uno spruzzo troppo caldo la colpì in piena fronte facendole sfuggire un altro gemito infastidito, sentendo le dita di sua madre passarle tra i capelli come un pettine e la schiuma scovolare via dalla testa sulle spalle e sulla schiena. Quella posizione le fece male al collo, ma durò poco. Appena Daniela la lasciò spostò qualche ciuffo dietro l’orecchio per non bagnarsi gli occhi e tornò a concentrarsi sul suo libro, a immergerlo con forza nell’acqua e a guardarlo tornare pigramente a galla da solo, e a sfogliare di nuovo le pagine di gomma sofficissima con curiosità. Zebbra, leone, elefrante, lesse, guardando puntualmente le figure in basso ad ogni nome rosso scorto con gli occhi. Le venne in mente Kala Nag, e che sua madre non aveva voluto fargli fare il bagno con lei perché, a detta sua, poi non avrebbe potuto dormire con lui.

…l’elefante non aveva la proboscide che ha.

Ma partendo per il Congo la famiglia salutò,

e volendo fare “ciao” la proboscide inventò.

Daniela tolse le mani dall’acqua e le agitò appena sopra la vasca per togliere dei grumi di schiuma rimasti impigliati sulle nocche, e con un sospiro più forte dei precedenti si portò i capelli all’indietro sistemandoli in una modesta coda bassa. Il vapore del bagno si incollava ai vetri della finestra e rendeva l’aria del bagno troppo densa da respirare, mettendole addosso un tale caldo di cui in altre circostanze avrebbe volentieri fatto a meno. Si sistemò sul pavimento in una posizione più comoda, sollevando le ginocchia dalle mattonelle e sorreggendosi con una sola mano, chiudendo gli occhi per un istante in cui la stanchezza cercò di prendere il sopravento. Le faceva male la testa come se fosse circondata da una corona di carboni ardenti, ma cercò di non pensarci, massaggiandosi le tempie con la mano libera.
Invece, non riuscì a non ricordare ancora con angoscia a quando era scoccata l’una e mezza del mattino: a quando aveva salutato Amos con voce allegra dettata dal troppo vino, ed era tornata in camera sua e aveva scoperto che il loro letto era vuoto e freddissimo. Pensò, con l’affanno di quei minuti di terrore che tornò maligno ad attorcigliarle la gola, a quando aveva cercato sua figlia per tutta la casa senza dar retta alla voce di Monica che le chiedeva di calmarsi, perché a molti bambini piace nascondersi per far preoccupare i genitori, e di sicuro Mila stava giocando, si era infilata da qualche parte solo per farle uno scherzo, e che quando si sarebbe stancata sarebbe uscita fuori da sola e si sarebbe arrabbiata perché nessuno era riuscito a trovarla.
Come se non lo sapessi!: voleva fermarsi, a volte, e urlarglielo in faccia e dirle di aiutarla o di andarsene invece di ripeterle le stesse cose come una cantilena fastidiosa, ma non l’aveva mai fatto. Daniela sapeva già per davvero che Mila era solita fare queste cose: c
’era stato un periodo, anzi, da quando Oliver era morto, in cui una cosa del genere accadeva di continuo. Succedeva quando lei si intratteneva a lavoro fino a tardi, e ad accoglierla a casa era sempre più spesso una gracile e disperata signora Sebastiana con le lacrime agli occhi che, di nuovo, non aveva idea di dove si fosse cacciata la bambina che le aveva affidato nel pomeriggio. Anche a scuola, quando riusciva ad andare a prendere Mila al posto della sua vecchia vicina di casa, accadeva non più di rado che una maestra la fermasse per parlarle ed elencarle le ore che sua figlia aveva passato fuori dalla classe perdendo quasi tutte le lezioni: che la trovavano chiusa a chiave nel bagno delle femmine, rannicchiata dietro il muretto che dava agli alberi di mimose nel cortile, appiattita a terra dietro il cumulo di materassi della palestra a disegnare cerchi immaginari sul pavimento con le dita. Ma a scuola scovarla non era complicato, e il loro appartamento non era più grande di ottanta metri quadri, e dopo aver imparato a memoria quali fossero i posti preferiti di Mila per nascondersi (sotto il divano, o fra le lenzuola piegate nell’armadio, o dentro la piccola cassapanca colorata dopo avervi tirato fuori i suoi giocattoli e sparsi in disordine per tutta la camera) trovarla, tirarla fuori e tenerla in braccio e coccolarla aspettando che le tornasse il buonumore era diventato sempre più facile e veloce.
Quella villa, invece, era grandissima a confronto, con sei camere da letto e sei bagni per ciascuna, un bagno in disparte per piano, due salotti, uno studio, quattro terrazze, e poi la lavanderia, la cucina, la soffitta, la cantina e la dispensa che lei non aveva mai visitato: e Mila non era in nessuna stanza, non era dietro le ante di alcun armadio, non era acquattata sotto un letto o raggomitolata dentro un qualche grosso cassetto, e per quanto l’avesse chiamata con parole sempre più acute e tremanti di paura la voce della figlia non le aveva mai dato una risposta.
E anche se non era la prima volta che Mila spariva nel nulla, ad ogni angolo vuoto controllato dei pensieri terribili avevano iniziato a farsi largo nella sua testa (neve, autobus, cuscino) ed era entrata in un panico tale da farla quasi mettere a urlare.

Respirò a fondo e si grattò distrattamente un orecchio, alzando poi lo sguardo verso le spalle bianche di schiuma della figlia mentre giocava col libricino da bagno che le aveva portato. Si chiese ancora se davvero non sapeva cosa fosse successo, oppure –come, ritenne in quel momento, era più plausibile- se le stesse solo raccontando bugie. Da una parte, Daniela voleva che Mila le dicesse la verità: che, per esempio, le era venuta sete o aveva avuto un incubo e che nel cercare lei o la cucina si era persa fino a ritrovarsi in giardino, o che, come Monica aveva detto, aveva solo deciso di farle uno scherzo. O che era successo qualcosa che le aveva fatto venire in mente suo padre e le era venuta voglia di nascondersi. O che…

il bosco!, pensò all’improvviso, sussultando appena sul pavimento: voleva vedere il bosco al punto da scappare in piena notte dal letto in cui l’aveva lasciata? Le venne voglia di chiederglielo, ma si morse la lingua ancor prima di articolare la domanda col pensiero. Dall’altra parte conosceva sua figlia e sapeva quali erano le sue reazioni in momenti del genere: ogni volta che la trovava infilata in qualche improbabile nascondiglio e la strapazzava troppo di rimproveri, le bastava il tempo di distogliere lo sguardo un momento per scoprire che non era più dove l’aveva lasciata, ma di nuovo nascosta chissà dove, di nuovo con le orecchie tappate e le spalle tremanti come foglie, più e peggio di quanto l’avesse trovata all’inizio. E nonostante si sentisse in dovere di sgridare sua figlia o di indagare maggiormente sulla cosa, pensò anche che forse non era quello il momento buono, e che le due del mattino erano passate da un pezzo, e allora, seppur non convinta, decise di imporsi a rimandare ogni altra domanda o eventuale sgridata al giorno successivo.

Monica entrò in quel momento con un passo tanto pesante da farla quasi sobbalzare sul posto. “Grazie.” mormorò quando la vide superarla e poggiare su uno sgabello un asciugamano che solo da lontano profumava di caldo e di pulito. Daniela si avvicinò al bordo della vasca muovendosi sulle ginocchia, e guardò la figlia troppo occupata a contemplare il suo piccolo libro impermeabile per far caso a lei o alla domestica. Gettò un’occhiata alle figure disegnate sulla pagina aperta, e sorrise, ricordando a un tratto la barba di suo padre sporca di noccioline e un uomo con la faccia colorata che le regalava un palloncino di cui non rammentava il colore. “Una volta ho visto una giraffa” raccontò, ottenendo così tutta l’attenzione della figlia su di sé. Anche Monica, per un attimo, si voltò a guardarla, ma lei non ci fece caso. “Avevo la tua età, credo… o no, forse ero già in terza elementare. C’era il circo, e dopo lo spettacolo ci hanno fatto dare da mangiare agli animale. C’era anche una tigre bianca con i cuccioli, ma erano appena nati e la mamma non ce li ha volti far vedere bene. Una giraffa a un certo punto si è chinata su di me dalla gabbia e mi ha leccato tutta la mano.” Ed era stato come sfregare la pelle contro un foglio di carta vetrata, ma questo preferì non dirlo. Sorrise a Mila e prendendola per i gomiti l’aiutò ad alzarsi in piedi senza farla scivolare nella vasca. Il libro navigò per un tratto d’acqua senza una particolare direzione, fino a tornare indietro e sfiorarle la mano mezzo immersa nella schiuma: Daniela, attratta da quel tocco, lo guardò ancora dall’alto. I tre miglioni rossi con una croce per ogni g le fece scappare una risata leggera, e quella canzoncina che cantava spesso a Mila quando era più piccola iniziò a intrufolarsi fra le sue labbra in un dolce solletico. “Un milione, due milioni, tre milioni d’anni fa…” tirò fuori Mila dall’acqua e subito l’avvolse con l’asciugamano che Monica aveva portato. Le sfregò con cura la schiena e la testa e poi, con un altro asciugamano, le legò i capelli in un morbido turbante color salmone. “il bassotto era un gigante e lo chiamavano Maestà”

Prese Mila in braccio e si alzò in piedi a sua volta, barcollando appena per il sonno e il caldo del vapore che le si stava attaccando a tutta la faccia come una collosa seconda pelle. Uscì dal bagno e appoggiò la figlia sul letto, e subito cercò Kala Nag tra le coperte per passarglielo. Guardò Mila stringere il peluche al petto e strusciare la guancia sulla punta della sua proboscide grigia, e poi, senza capire il perché, alzare gli occhi in alto, alla sua sinistra, verso il quadro appeso sopra il camino. Daniela, distrattamente, lo guardò a sua volta, osservando senza interesse i due amanti del Bacio che era stato oggetto di conversazione a cena con suo cognato. Distolse gli occhi dalla tela e si inchinò verso la valigia che aveva lasciato sotto il letto. “non aveva che un soldino, che per terra rotolò” frugando tra la biancheria che si era sempre dimenticata di aggiungere a quella già infilata nei cassetti, tirò fuori una maglietta sbrindellata, delle calze corte e un paio di mutande rosa, e poi si rialzò poggiando le mani sulle ginocchia e appoggiò il tutto in un angolo del materasso. “e il bassotto per cercarlo basso basso diventò.” Sfregò un lembo dell’asciugamano che Mila aveva addosso sulla pianta dei suoi piedi, assicurandosi di averli asciugati bene accarezzandoli con il dorso della mano. Afferrò le calze senza guardarle, le piegò al dritto e, una alla volta, gliele infilò, facendole il solletico con le dita. Sua figlia rise di riflesso, e di riflesso lo fece anche lei mentre continuava a cantare. “Avanti, dinne un’altra, ma che sia la verità.”

Qualcuno bussò alla porta, e tutti i presenti si voltarono verso l’ingresso. Monica, che era rimasta in piedi dietro Daniela, trattenne il fiato.

“…è permesso?” Amos, dalla soglia, esibì un sorriso leggero, con un pugno ancora poggiato alla porta e l’altra mano nascosta nella tasca dei pantaloni. Due bottoni della camicia non erano chiusi, e il suo sguardo, per qualche strano motivo, pareva quasi più scintillante del solito.“Va tutto bene? Vi serve qualcosa?” “No, no, va tutto bene!” Daniela s’affrettò a rispondere mettendosi dritta con la schiena e lisciando la gonna sulle gambe. Sorrise all’uomo facendogli segno di avvicinarsi “abbiamo fatto il bagno e ci stavamo vestendo. Vero, tesoro?” sorrise a Mila, ma lei non rispose, abbassando lo sguardo verso la faccia ridente di Kala Nag e stringendo le ginocchia alla pancia senza emettere un fiato. Quando Amos entrò nella stanza, con quel suo passo così leggero da non fare quasi rumore con le scarpe –in che modo ci riuscisse, Daniela non l’aveva ancora capito- si avvicinò alla nipote, e, veloce, alzò una mano per sfiorarle il mento: Daniela notò che le guance di sua figlia, a quel contatto appena accennato, si erano fatte bianche come conchiglie. “Massimiliana” la chiamò lui, con la sua voce e il suo sorriso più docili “come stai?” .

La risposta di Mila fu uno starnuto improvviso e così forte da farle scuotere violentemente le spalle. Daniela le si avvicinò subito, e notando gli occhi lucidi e il naso rossastro che aveva iniziato a colare si affrettò a cercare il pacchetto di fazzolettini che ricordava d’aver lasciato dentro la valigia, borbottando qualcosa. “Signora.” Monica fece subito un passo in avanti, e sebbene si stesse rivolgendo a Daniela non smise mai di guardare le spalle di Amos “Vuole che le prenda il phon?”
“Sì, grazie…” Daniela, brandendo un fazzoletto di carta (di quelli ruvidi e profumati di camomilla che Mila non aveva mai sopportato) guardò Monica tornare nel bagno e si chinò sulla figlia per strofinarglielo con cura sotto il naso, ignorando le sue deboli lamentele al riguardo. Amos non fece nulla, assistendo alla scena con le braccia conserte davanti al petto e i boccoli neri spostati sopra un’unica spalla; ma quando Monica tornò indietro, con le guance colorate dal caldo del vapore, avvicinò una mano a Daniela per sfiorarle il braccio e catturare la sua attenzione dalla figlia. “Posso parlarti?”.

Quelle dita, così poggiate sulla sua pelle nuda, erano lisce e piacevolmente tiepide al tatto. Daniela accarezzò la frangia bagnata di Mila e seguì il cognato fino allo stipite della porta, voltandosi solo una volta per vedere sua figlia seguirli con lo sguardo e la schiena di Monica intenta a cercare una presa della corrente sul muro. Amos inclinò la testa verso un lato, e i capelli seguirono subito quella direzione. “Tutto a posto?”, domandò, con quella sua voce che pareva una cascata di seta. dallo sguardo sembrava molto preoccupato “Massimiliana ha detto perché è uscita fuori di casa?” “No…” Daniela scosse il capo e abbassò gli occhi verso il pavimento. Dietro di lei, il phon si intromise nel loro discorso in un flebile ruggito. “Ha detto di non sapere… come ci sia finita.” Si strinse tra le braccia e sfregò piano le mani sulle spalle, prima di lasciarle scivolare lungo i fianchi. La paura di quei momenti tornò a stringerle la gola con forse troppa forza. “Non credo che sia la verità. Però non so… quando l’ho lasciata ero certa che stesse dormendo…”
“Può darsi” la interruppe Amos, senza mai mutare espressione “che sia stato un caso di sonnambulismo?”

Daniela, sbattendo le palpebre, alzò lo sguardo. “cosa…?!”
“Sonnambulismo. So che non è insolito che si manifesti nei bambini. Massimiliana ne ha mai sofferto prima?” . Sotto la luce del corridoio, il volto di Amos splendeva come fosse fatto di marmo. Daniela scosse il capo, sia per negare alla sua domanda sia per scacciare dalla testa quella considerazione, e con le mani aggrappate alla pancia si voltò verso il loro letto, e fissò Mila, raggomitolata sopra il materasso, che cercava con le mani di allontanare il pettine che Monica le stava passando tra i capelli. Provò ad immaginarla alzarsi sul pavimento, e camminare, con gli occhi chiusi e le braccia allungate in avanti, aggirandosi nel buio come un fantasma. Ma non riusciva bene a farlo, sapendo che quando Mila dormiva era difficile riuscire a svegliarla fino al mattino seguente, o che ogni volta che avevano condiviso lo stesso letto non l’aveva mai sentita muoversi anche solo per lanciare un calcio o tirarsi addosso le coperte.
Nel pensare a queste cose, un ricordo sfocato si accese in un angolo della sua testa: il salotto, una lampada caduta, sua figlia a due anni in pigiama che piangeva tra le braccia del padre. Aveva avuto un incubo ed era corsa via dalla sua camera in lacrime cadendo e sbucciandosi le gambe contro le mattonelle; niente di più.
“N… no. Mai. Però come…” si rigirò verso Amos, accarezzandosi il petto “come funziona? Cioè, scusa, non m’intendo bene dell’argomento… è possibile che all’improvviso… e fino al giardino…?!” “In realtà non sono più informato di te, Daniela. Ma non escluderei questa ipotesi, viste le circostanze: so che è una questione psicologica, e forse la morte di mio fratello…” Amos, nel pronunciare quelle ultime parole, distolse lo sguardo per posarlo su un punto impreciso del pavimento “…ha avuto un certo impatto su di lei che può essersi manifestato solo ora. L’ingresso principale era già chiuso, lei può aver scovato una porta di servizio lasciata aperta ed essersi svegliata solo una volta arrivata fuori.”
“O cielo…”

Parlarono ancora, il tempo che bastò a Monica per asciugare i capelli di Mila, pettinarla e finire di vestirla, gettando ogni tanto un’occhiata curiosa verso di loro tirando a indovinare su cosa stessero discutendo. Amos spiegò che se anche fosse stato non era nulla di grave, che l’importante era aver trovato Mila e che non le fosse successo nulla; Daniela si sentì prendere una mano tra le sue, in una stretta morbida e leggera come una piuma, e a quel contatto percepì il suo respiro frantumarsi prepotente dentro la bocca. Si sentì dire qualcos’altro, ma non ascoltò: e alzando, per un attimo, lo sguardo, al sorriso dolce di Amos vide sostituirsi quello luminoso di Oliver. Distolse subito gli occhi e diventò rossa senza più aggiungere altro.

“Monica” Amos si affacciò nella stanza rivolgendo alla domestica un sorriso cordiale “potresti restare ancora con mia cognata nel caso abbia bisogno di qualcosa?” “Certo!” lei sorrise a sua volta, stringendo l’asciugamano umido che aveva appena finito di piegare in quattro parti uguali. “Certamente, signor Capitta.” ripeté.

Chiedendo di essere informato in qualunque caso di necessità, Amos augurò la buonanotte; solo Mila, abbassando lo sguardo verso i disegni zigzaganti della coperta, non si preoccupò nemmeno di rispondere al suo saluto, ma non sembrò farci caso: alzò la mano per salutarla da lontano, la intrecciò insieme all’altra dietro la schiena, e con un ultimo cenno del capo rivolto a Daniela si allontanò, lasciandosi ingoiare dalla penombra sempre più fitta del corridoio. Vagò con passo sicuro senza preoccuparsi nemmeno di accendere una luce. Anche quando raggiunse le scale, e il buio del piano inferiore lo accolse dal basso con le fauci spalancate, non sembrò turbarsene affatto. Rimase fermo un momento, osservando il vetro di una finestra scuotersi e tremare quando il vento ci si scontrava addosso come il mare contro gli scogli. Guardò, senza alcuna espressione sul viso, il profilo minaccioso della luna già bassa apparire e scomparire dietro nuvole sottilissime, la luce sfumare e tendersi nel cielo come ombre di fantasmi e poi tornare al suo circolare anello d’alabastro. Amos non amava la luna: sempre immobile, imprigionata nelle sue curve perennemente dolci, così crudelmente sorda e muta dietro la sua faccia angelica da apparirgli quasi stupida. A volte, quando da terra sollevava gli occhi nella sua direzione, alzava anche una mano davanti al volto, racchiudendo le gobbe della luna tra l’indice e il pollice, e nel premere forte i polpastrelli tra loro immaginava di schiacciarla come fosse un insetto disgustoso. Distolse piano lo sguardo, e senza più badare a nulla di particolare superò il primo gradino che incontrò, sfiorando il corrimano con la punta del gomito senza degnarlo di una minima attenzione. Stringendo le labbra, si accorse che erano secche –non era vero, ma gli piaceva pensare così quando la voglia di bere un sorso di vino tornava a raschiargli la gola. Camminò senza alcuna incertezza nel buio che incontrò alla fine delle scale: riconobbe, sotto le scarpe, la morbidezza spinosa del tappeto, e contro il naso il profumo intenso di aria calda e quello debole di rose già appassite. Poi, quasi d’un tratto, si fermò, e come se avesse potuto vedere la porta eretta a meno di un passo da lui, porse la mano in avanti fino a quando non poggiò le dita sulla sua maniglia ghiacciata. La prima cosa che catturò la sua attenzione oltre quella porta, fu lo spiraglio di luce dimenticata accesa che proveniva dalla cucina. Amos, rilassando il viso in un’espressione serena, seguì quella luce.

“Oggi sono di ottimo umore” parlò prima ancora di entrare o scostare la porta con un movimento leggerissimo della mano; nel farlo, notò che la cucina era più fredda rispetto alle altre stanze. Si avvicinò al lavabo e ai due bicchieri rivoltati sopra il panno per asciugare, scegliendo quello che gli parve meno grosso. “E solo per stavolta vi lascerò andare” . Si chinò dentro il frigorifero, afferrando per il beccuccio la bottiglia già aperta e non finita durante la cena: Château Latour del ’53, rosso. Riempì il bicchiere a metà e lo avvicinò al naso, ascoltandone le fragranza e poi assaggiandola con le labbra. Un gusto piacevole gli scivolò sulla lingua facendogli chiudere gli occhi e scappare un sospiro soddisfatto. Dopo il primo sorso si appoggiò a una parete con la schiena, e sollevando il bicchiere davanti agli occhi osservò distrattamente il liquido sanguineo ondeggiare contro il vetro ad ogni suo movimento del polso. “Ma se dovessi ancora vedervi in questa casa, vi ucciderò.”

Arcuò il collo all’indietro e sorrise, zuccherino, voltando un poco lo sguardo verso la macchia di fango rimasta sul pavimento. Le scale distese davanti alla credenza, per un brevissimo istante, parvero tremare, come scosse da un brivido.

Amos non ci badò, e chiuse gli occhi, preso da un chissà quale delizioso pensiero, raccogliendo con la lingua una goccia di vino caduta sul suo labbro inferiore. Fissò la superficie luccicante del tavolo, la parete davanti a lui e il quadro appeso poco sopra un mobile, con nella tela la gobba di un ponte madreperlato, la lastra rossa e azzurra dell’acqua, gli spruzzi delicati e festanti di colore tra gli alberi e i fiori: Lo stagno delle ninfee, armonia rosa, di Monet. Un uomo interessante, considerò. Poi, improvvisamente pensieroso, racchiuse il mento in una mano e iniziò a grattarselo con l’unghia del pollice. “…o manderò qualcuno a farlo per me.”

Il buco nel soffitto tremò con forza, come se stesse lanciando un grido senza voce. Dentro, delle ombre si mossero, agitate come spettri, vorticando e inchinandosi e stiracchiandosi in forme irrequiete e spaventose. E poi, dall’alto, cadde qualcosa, scivolò su un gradino e si schiacciò contro quel quadrato di pavimento che separava la credenza dai piedi della scala. Il verme, se di quello si trattava, si attorcigliò su sé stesso rotolando a pancia in su e poi in giù, lasciando sulle mattonelle un qualcosa di verde e vischioso che pareva bava di lumaca. Corto, grosso, liscio e cieco, il verme alzò quella parte del corpo che doveva essere il muso, e lo fece vibrare appena, forse annusando l’aria. La schiena s’incurvò in una gobba perfetta e il verme strisciò in avanti, lento, verso la scarpa di Amos.

Lui, il verme, non lo guardò nemmeno: senza mai staccare gli occhi dai fiori del quadro o dal suo bicchiere di vino rosso, ascoltò le ombre nel buco frusciare, come lembi di mantelli, volteggiare e piegarsi verso il basso. La loro voce, in quell’unica parola, parve fatta di cristallo, di battiti di ciglia, di convulse danze di scheletri.

Viziato!

Amos chiuse gli occhi e alzò il viso verso l’alto scoppiando in una risata fragorosa. Il vino nel bicchiere oscillò contro i bordi senza rovesciarsi, e poi s’acquietò in un largo cerchio rosso senza più una sola increspatura sulla sua superficie scarlatta, immobile nella presa salda di Amos.

Il verme strisciò goffamente verso di lui, alzando e stendendo la schiena marrone in un movimento brutto e poco ritmico, fermandosi ogni tanto per rialzare dal pavimento la sua testa senza peli e senza occhi e iniziare a scuoterla come un sonaglio. Ripeté quel movimento fino a quando il suo riflesso sfocato non dondolò sopra la scarpa lucidissima di Amos, e allora, improvvisamente, s’irrigidì. Con la coda piegata sotto la pancia e il muso congelato nel vuoto, solo la parte nel mezzo sembrò percossa da un brivido leggerissimo. Sul muso spuntò fuori un taglio, e il taglio si allargò in un’ellisse nera di ruvida peluria, e l’ellisse vomitò una fila di tre denti che brillarono e stridettero quando le punte graffiarono e scheggiarono il cotto del pavimento. I denti furono la prima cosa che si spezzò quando la scarpa su cui si stava specchiando cadde proprio sopra il verme.

Amos, con ancora un’espressione profondamente divertita sul volto chiaro, raccolse un ciuffo di capelli col dorso della mano e lo sistemò con cura dietro all’orecchio. Si allontanò dalla parete con gli occhi ancora chiusi, e li riaprì giusto per rivolgerli alla scala che stava al suo fianco. Un sorriso tagliente e crudele si disegnò sulle sue labbra morbide. Sparite.”

E sparirono, senza un suono, come nebbia dissolta dalla pioggia.

Un silenzio sbieco sprofondò nella cucina, interrotto solamente dai singhiozzi dell’orologio a muro che sembrava aver trattenuto il fiato per tutto quel tempo. Persino il vento, fuori dalla porta a vetri, tornò a respirare d’un tratto con ancora più forza di prima.

Amos non badò a queste cose: bevve un ultimo sorso di vino, godendo di ogni goccia scivolata sulla lingua fino alla gola, e poggiò il bicchiere sporco al centro del tavolo senza fare alcun rumore. Non guardò in basso, dove prima c’era il suo piede e il corto verme senza occhi, e ora solo granelli di ceramica bianca. Camminando senza fretta verso la porta, non guardò l’interruttore quando alzò la mano per sfiorarlo con la punta di due dita; uscendo fuori dalla cucina, da uno specchio squadrato appeso nel corridoio, scorse il contorno incolore del proprio riflesso, e si fermò per osservarlo. Vide la sua fronte, il collo, i capelli sulle guance e le labbra sottili come curve lame di coltelli. Amos abbassò le palpebre, preso da un altro squisito pensiero che gli fece sfuggire un sospiro di delizia. Le riaprì piano, rivolgendo un sorriso allo specchio che non tardò a ricambiare. Spense la luce.

La luna, rossa di tramonto, sparì lenta nel buio.








 


 




Onigiri






note autrice:




[ATTENZIONE: Capitolo dedicato alla mia carissima sensei Rohchan: perché mi incoraggia, mi consola e ascolta le mie baggianate ogni volta che mi va di tormentarla ^^"! Per chi avesse voglia di fare la conoscenza con un'autrice di vero talento, vi consiglio caldamente di visitare il suo profilo =)]


*La canzone che canta Mila nella vasca è una dello zecchino d'oro del 1967: Un Milione di anni fa
*il dipinto di Monet è questo: Lo stagno delle ninfee, armonia rosa.

E-eccome! Chiedo scusa per il ritardo, ma questo capitolo si è rivelato più lungo del previsto e mi ha preso molto tempo per farsi scrivre @_@"! Oltretutto è uno schifo e non si capisce niente! Chiedo scusa ç-ç

Piuttosto, piuttosto... Chi sarà l'uomo misterioso del giardino? e queste stupide scale da dove spuntano fuori? assumerà un senso questa storia?
xD posso rispondere con certezza solo alle prime due, però rassicuro: non c'è niente scritto a caso. Tutto quello che c'è da sapere si saprà pian piano =P (MOLTO piano, per certe cose °__°"...)


*Choung* passiamo ai ringraziamenti, che è meglio u_u:





 darllenwr  : ...non so più come fare con i tuoi commenti! sono tutti così dettagliati e incoraggianti che i normali ringraziamenti mi sembrano sempre più superflui da usare >//>. Sì, c'è un nesso tra le "Avventure di Dhovir" e le "Avventure di Mila" XD: ma si svelerà solamente più in là. Non sono certa di aver interpretato bene Dhovir: ho immaginato un ragazzo che ha perso tutto, che vede la causa della morte della persona a lui più importante l'oggetto adorato dal resto del mondo, e per questo vede in tutti dei nemici e in suo figlio qualcosa di ancora peggio. Ho immaginato così le sue reazione, sperando di aver azzeccato qualcosa... . Grazie, comunque. Adoro leggere le tue recensioni e stare davanti al computer a gongolarmi sulla sedia come una cretina ^^". Grazie mille ancora =D!


Kinpatsuchan :  Kinpa! *-* A te doppio ringraziamento per il tuo stupendo doppio commento >///>! E non ti preoccupare mai se non hai tempo o voglia di recensire questa storia idiota u_u.... a proposito, spero siano andati bene i tuoi esami =). E grazie anche per le parole della filastrocca francese *////*! le avevo tradotte "manualmente", ma non avendo mai studiato questa lingua ho avuto paura star qui a dire che questa parola significava questo e che un francese o qualcuno del genere mi mandasse lettere minatorie o cosa così e cosà xD. Per l'identità dell'uomo misterioso non bisognerà aspettare molto, ma per molte altre cose sul suo conto non andrò molto di fretta con le spiegazioni ^^. Davvero ti è piaciuto il capitolo di Dhovir? *-* Aww! Mi piace come personaggio: è triste e sfortunato e ha bisogno di tante coccole. ...no, ok, la smetto xD. Ma no, io non intendevo dire che è il tuo fascicolo di commenti ad essere inquietante! °O° scherzi?! Intendevo dire che sono io ad esserlo, quando mi metto al buio in un angolo della stanza e mi metto ad accarezzarlo come farebbe una bambina posseduta con la sua bambola (O__O" cosa!? /ndKinpa) . Grazie Kinpa! 



Lion of darkness : *-* aww... che gentile che sei! Grazie, grazie davvero >////>. eheh, la trama è confusa di suo, volutamente -forse troppo °_°- ingarbugliata ^^", e per capire molte cose si dovrebbero solo aspettare i capitoli seguenti. Spero solo di non spaventare nessuno facendo così XD. COmunque sia, grazie davvero! Non immagini quanto mi abbia fatto piacere leggere quella tua immeritata recensione ç/////ç! Grazie! *saltella a mò di scema del villaggio*


E poi, ovviamente, grazie infinite anche a chi solo ha deciso di leggere codesta storia assurda. *-* spero di migliorare e che questa storia non deluda nessuno. grazie ancora a tutti! 

=D onigiri.





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Capitolo 7
*** Conigli Neri ***


Legame
   Legame   
(Le pietre blu) 











Capitolo 6








 -Siamo venuti a prenderti,-  rispose il coniglio più grosso.

-A prendermi? ...Ma io non sono ancora morto!...

-Ancora no: ma ti restano pochi minuti di vita avendo tu ricusato di bevere la medicina, che ti avrebbe guarito la febbre!...

-O fata, o Fata mia,-  cominciò allora a strillare il burattino,  -datemi subito quel bicchiere. Spicciatevi, per carità, perché non voglio morire no... non voglio morire...

E preso il bicchiere con tutt'e due le mani, lo votò in un fiato.


"Le avventure di Pinocchio"- Carlo Collodi 















Da quel che Daniela riusciva a rammentare, sua zia Manuela aveva vissuto a casa loro per almeno nove anni, ed era morta quando lei ne aveva appena compiuti sedici. Erano molti i ricordi legati a lei, ma pochi che fossero particolarmente chiari: solo, a volte, la fila di perle rosa che portava sempre al collo, i suoi rimproveri a tavola se masticava a bocca aperta o non stava seduta composta, o le mani callose profumate di rosa che l’accarezzavano sulle guance e che avevano cercato di insegnarle a fare il ricamo.

O quando la pettinava, e nel passarle la spazzola sulla testa le diceva che da giovane aveva capelli proprio come i suoi: spiegava, con voce cupa, che nel paesino dove era nata a pochi piaceva quel loro colore, e molte vecchie di quando lei era bambina si stringevano subito tra loro al solo vederla da lontano, puntandole addosso certi occhi senza colore che le facevano venir voglia di correre a casa e chiudersi dentro l’armadio per piangere. Che poi lei e suo fratello si erano trasferiti in una città più grande, proprio accanto alla casa dove abitava lo zio Bernardo, e che era dei suoi capelli che lui si era subito innamorato quando si erano guardati da una finestra per la prima volta.

Zia Manuela raccontava spessissimo quella storia, e Daniela adorava ascoltarla e dallo specchio del bagno guardarne gli occhi ingrigirsi, allargarsi oppure brillare come due piccole stelle rotonde. Amava sedersi davanti alla finestra della sua camera e pettinarsi impaziente i capelli con le dita, e passare anche interi pomeriggi senza far altro che quello. Nel palazzo affianco al loro, e al loro stesso piano, abitava un uomo ciccione che le faceva paura e con lui un gatto dal muso schiacciato che qualche volta si affacciava alla finestra al posto del padrone: Daniela fantasticava spesso che da dietro quelle tende gialle, invece di Giogiò (così lei chiamava il gatto), spuntasse il volto di un uomo bello come un principe, e che ricambiasse il suo sguardo e s’innamorasse subito dei suoi capelli, e lo immaginava poggiarsi su un ginocchio e far roteare un cappello verso il pavimento e giurarle amore per tutta la vita.

  Di sua zia Manuela, poi, ricordava anche la signora Titti; in realtà non sapeva se fosse quello il suo vero nome o solamente un diminutivo, ma era così che tutti sembravano conoscerla, persino quei suoi amici che spesso proponevano di lanciare uova alla sua casa senza aver mai avuto il coraggio di farlo. La signora Titti, a differenza della zia Manuela, era alta e secca, con pelle bianchiccia che, nel guardarla penzolare sulle braccia o sotto il mento, le pareva quasi fatta di gomma. Veniva a trovarli tutte le sere, con il solito rosario legato al polso e sempre un poco di quel formaggio coi vermi che Daniela non aveva mai voluto nemmeno assaggiare. Lei, sua zia e suo padre si sedevano sul tavolo del salotto e giocavano a carte sgranocchiando fette di formaggio, e così curvi sulle loro sedie sotto la luce di una sola lampadina parevano tre avvoltoi stretti nel buio dei loro covi.

Daniela a volte restava a guardarli, per provare a capire dai loro gesti quali fossero le regole del gioco, o per studiare gli occhi rossi delle sigarette scivolare in cerchi di fumo e luce ad ogni movimento della loro mano: in quei momenti si sedeva su uno sgabello, mordicchiava una cannuccia sorseggiando acqua frizzante dalla bottiglia e osservava con attenzione tutto ciò che poteva ritenere interessante da guardare: a sinistra la fila di libri sulla mensola, davanti l’omino distintissimo del telegiornale –e il puntaspilli di cattivo gusto a forma di San Sebastiano sopra il televisore-, a destra il profilo della zia e la schiena robusta di suo padre.

Poi, a un punto mai preciso del gioco, la signora Titti iniziava a cercarla con lo sguardo, e quando la trovava si fermava a fissarla un poco, muovendo la bocca senza labbra come per masticare qualcosa. Daniela aveva paura di quegli occhi: tutti i bambini che la conoscevano ne avevano paura. “Oh, Manuè” diceva allora “e questa povera creatura la tenete ancora in piedi a quest’ora?”. Allora era sempre zia Manuela a poggiare le carte e a mettersi in piedi, a farle salutare tutti e ad aiutarla velocemente a lavarsi e a cambiarsi per la notte. Le legava i capelli, recitava con lei un Padre Nostro e un Ave Maria, e quando poi la metteva a letto si sedeva adagio in un angolo del materasso, e, fissando il nulla nella sua camera, iniziava sempre a raccontarle qualcosa. Storie semplici, come quella di Cappuccetto rosso o della lepre e la tartaruga. Parlava senza guardarla, a volte fermandosi per farsi venire in mente qualche pezzo dimenticato, a volte ricominciando dall’inizio e altre interrompendosi lasciando la storia raccontata solo a metà.

Da bambina Daniela odiava quei momenti. Vedeva, nelle favole mai richieste della zia Manuela, una sorta di costrizione, un goffo e irritante tentativo di cercare di conciliarle in fretta il sonno per poter tornare subito in salotto. Nemmeno capiva sempre quello che le veniva raccontato; non era come quando le parlava della sua casa in paese, di suo padre da bambino, dello zio Bernardo o del giorno del loro matrimonio: quelle notti il suo sguardo pareva come spegnersi, e le si rivolgeva con tono così lento e sempre più stanco da rendere noiosa qualunque parola sputata fuori dalla sua bocca. Quando poi Daniela, dando voce a tutto il suo spirito pratico, chiedeva perché i lupi non masticassero le nonne prima di ingoiarle o perché una casa di dolci in un bosco non fosse anche invasa dalle formiche, riceveva per risposta solo borbottii incomprensibili o silenziose occhiate di rimprovero.

Di fiabe e di favole, perciò, Daniela poteva dire di non intendersene, se non che sin da piccola le aveva sempre considerate solo sciocchezze: delle storie raccontate dagli adulti credeva solo nelle streghe che le notti di venerdì fanno magie parlando alla luna, e nei diavoli che infilzano i forconi sotto i piedi dei bambini cattivi quando vanno a dormire. Fantasticava di sposarsi con l’uomo più bello e più ricco del mondo, e nient’altro.  

Ma nonostante tutto questo, Mila era certa di non conoscere nessuno come sua madre che sapesse tanto bene tutte la storia delle avventure di Pinocchio. Se l’era sentita ripetere così spesso -anche se sempre a pezzi sparsi e pressoché cortissimi-  d’aver appreso quasi tutto il contenuto del libro senza mai averlo aperto neppure per guardarne le figure.
Daniela, in effetti, aveva sempre visto quella storia come un ottimo strumento educativo, da quando aveva letto il libro da ragazza e da adulta si era scoperta a tirarla spesso in ballo, soprattutto quando si trattava di sgridare la figlia -“Lo sai che se dici le bugie ti si allunga il naso? Lo sai che se non fai i compiti ti vengono le orecchie da somaro?”. Il fatto che Mila, al contrario di lei, adorasse le favole e l’ascoltasse sempre con interesse quando si trattava di grilli parlanti o burattini che camminano, non faceva che accrescere questa sua convinzione, e ad incitarla a continuare.

Lo usò anche in quel momento, quando l’ennesimo e muto No della figlia le fece socchiudere gli occhi in una brutta smorfia nel sentire che stava definitivamente per perdere la pazienza.

“…Tesoro”  mormorò, con un tono di voce così severo che Mila alzò subito gli occhi su di lei  “Vuoi che vengano anche da te i conigli neri per portarti via?”.  

Avrebbe voluto spaventarla con quell’avvertimento; quando lei aveva letto quella scena per la prima volta, era stata percorsa da una risata accompagnata a braccetto da un altrettanto leggero brivido di paura. Aveva socchiuso il libro (che la nonna le aveva comprato assieme a molti altri perché   è vergognoso che tu sia così ignorante in fatto di letteratura!”) e si era accomodata meglio sulla poltrona, studiando la copertina con lo sguardo e accarezzandola distrattamente con la punta del pollice: e nel sentire poi scattare la serratura della porta d’ingresso era fuggita in camera sua, per non dare alla nonna la soddisfazione di trovarla in salotto a leggere un libro come lei le aveva raccomandato prima di uscire. Si era domandata, sdraiandosi sul letto e nascondendo subito il libro dietro il cuscino, perché in punto di morte sarebbero dovuti arrivare proprio dei conigli, e non un angelo o un diavolo o un almeno un qualche altro animale più spaventoso. Nel chiedersi questo, aveva pensato a Mario: lei aveva diciotto anni, e fuori nevicava.

Daniela scacciò via quel ricordo come fosse una mosca fastidiosa. Vide Mila, in risposta alle sue parole, allargare le labbra e poi voltare subito lo sguardo verso la finestra con un’espressione ansiosa sul viso. Daniela, di riflesso, seguì quella direzione, facendo in tempo a notare una vespa (o un’ape?) ronzare davanti al vetro, sbatterci il muso in un flebile toctoc, e poi volare nella direzione opposta. Guardò il cielo, di un color celeste e cenere che le metteva quasi tristezza, tempestato di nuvole che parevano batuffoli di cotone  Cielo a pecorelle, pioggia a catinelle, recitò con un pensiero che considerò subito sciocco.

Le sembrò che Mila stesse cercando qualcosa, forse la punta tremolante di baffi argentati e di morbide e lunghissime orecchie color carbone, o un qualche occhio color fragola che ricambiasse il suo sguardo da oltre la finestra prima di sparire in un battito di palpebra. Avrebbe voluto spiegarle che non c’era niente di piacevole in quella parte della storia, e neppure nella presenza di un coniglio con una bara sorretta sulle spalle, ma decise subito di lasciar perdere.

Provò ad alzare il cucchiaio verso di lei, annusando un odore dolciastro, simile a quello di banana, ma anche amaro e tremendamente intenso che le fece mordere le labbra per non lasciar trapelare alcuna smorfia di fastidio. Osservò Mila indugiare, fissare con orrore lo sciroppo che aveva iniziato a dondolare nel cucchiaio come il tuorlo di un uovo, e poi, portandosi la coperta fino al mento, rivolgere a lei un’occhiata tremendamente supplicante, come se invece di una medicina la stesse costringendo a ingoiare veleno.

Daniela si trattenne dall’alzare gli occhi verso il soffitto, attenta a non distrarsi e a non rovesciare nulla che avrebbe potuto sporcare il letto. “Ti ricordi che anche Pinocchio poi ha fatto come gli diceva la fata turchina?”. Sollevò ancora di un poco la mano, e Mila, lasciandosi sfuggire un verso di disapprovazione da dentro la bocca serrata, si appiattì subito contro i cuscini e strinse le lenzuola con forza quasi sperando di poterci sparire dentro.

Se Daniela avesse avuto il suo sciroppo, quello per bambini che lei nascondeva nel ripiano alto della credenza e che sapeva di zucchero e ciliegia, Mila lo avrebbe preso subito e leccandosi le labbra ne avrebbe chiesto anche una seconda porzione; a nulla erano valsi i tentativi di convincerla che anche quello dello zio Amos era molto buono.
Prima di poterselo impedire, i suoi pensieri volarono velocemente verso il suo cognato.

Stringendo il labbro tra i denti, e iniziando a leccarselo nervosamente da dentro la bocca, Daniela abbassò lo sguardo verso il cucchiaio. Non riusciva a non ammettere che la sola presenza di Amos le facesse uno effetto strano: al di là del suo sorriso, del suo sguardo, del fatto che  -non poteva negarlo-  fosse un uomo affascinante, attraente. Come una raffica di brividi, di scosse elettriche sottopelle che mai riusciva a fermare e alle quali non riusciva a darsi un valido perché. Era quasi certa che la ragione fosse nella somiglianza che aveva con Oliver. L’altezza, il profilo, la linea delle spalle, la forma delle mani e i lineamenti del volto erano pressoché identici ai suoi, e quando se ne rendeva conto un nodo fastidioso le si stringeva sempre dentro la gola come se le fosse andato qualcosa di traverso.

Ma suo marito non l’avrebbe mai guardata, o toccata, nel modo in cui invece lo faceva Amos. La sera che Mila era sparita dalla loro camera e che lei, dopo averla messa a letto, era tornata nel salotto dove avevano cenato, Oliver non l’avrebbe fatta accomodare sul divano per parlare di Parigi, del cibo, dell’arte, del  Place de la Concorde e dell’architettura francese presso la corte di Luigi XV. Oliver avrebbe liberato il tavolo e fatta sdraiare sopra la tovaglia, le avrebbe afferrato i capelli, accarezzati, annusati, l’avrebbe baciata su tutto il volto e avrebbe mosso le spalle per lasciarsi togliere quello che aveva addosso, le avrebbe mordicchiato il collo e affondato le mani sotto la sua gonna e l’avrebbe abbracciata e baciata e…

Daniela tremò, e quasi le scappò un sussulto quando si accorse di non trovarsi su un tavolo sporco di briciole, ma seduta davanti alla figlia che la stava osservando dritta negli occhi da sopra l’orlo delle lenzuola. Quasi immaginando che Mila avesse appena potuto leggere tutti i suoi pensieri, sentì la faccia farsi bollente d’imbarazzo: in un moto di stizza avvicinò il cucchiaio alla sua bocca rischiando di far cadere lo sciroppo sul letto. “Basta ora” borbottò, con il tono di voce più duro che le riuscisse da usare “Basta capricci!”.

Ma Mila si strinse nelle spalle, come sperando di farsi piccola fino a scomparire tra le lenzuola, e scuotendo ancora il capo con forza non sembrò avere alcuna intenzione di obbedirle. Daniela la osservò gettare al cucchiaio uno sguardo colmo di ribrezzo, mentre il suo si accendeva di crescente impazienza “Mila, non azzardarti a farmi sporcare il letto con queste storie! Prima lo prendi prima ti togli il pensiero. ...apri la bocca, su… ecco... …bravissima.” Daniela poggiò il cucchiaio sporco dentro il vassoio sul comodino e con la mano libera tirò fuori un pacchetto di fazzoletti dalla tasca dei pantaloni. Gliene portò uno poco sotto il naso, premendo forte contro le labbra quando Mila piegò la testa in avanti minacciando di sputare fuori lo sciroppo. Le si avvicinò ancora e l’afferrò per una spalla, e non allontanò il fazzoletto dalla sua bocca fino a quando non fu certa che avesse ingoiato tutto. “…ecco. Hai visto che era meglio prenderlo subito?”.

Le pulì un rivolo giallognolo che le era scivolato fino al mento, ignorando la sua espressione nauseata e la mezza lingua che aveva tirato fuori assieme a uno stridulo verso di disgusto. Riempì il bicchiere di aranciata a metà, e dopo averglielo dato le fece alzare un braccio quel che bastava per prenderle il termometro da sotto l’ascella. La linea grigia di mercurio, come l’ultima e penultima volta che le aveva misurato la febbre in quei due giorni, continuava a segnare trentasette e nove. Daniela rigirò in silenzio il termometro caldo tra le dita, chiedendosi se le medicine non stessero facendo effetto o se doveva essere già tanto che la febbre non si fosse alzata.

Tolse il bicchiere vuoto dalle mani di Mila, osservandola passarsi la lingua sulle labbra con aria soddisfatta, ma ancora delusa per non essere riuscita a evitare di prendere lo sciroppo. Da quella notte passata a cercarla per tutta la casa erano passati tre giorni, ma per prendere l’influenza –mal di pancia, naso chiuso, labbra secche e occhi lucidi, e poi la febbre-  gliene erano bastati due; da uno, poi, Daniela aveva iniziato a trafficare nel cassetto delle medicine di Amos, e non aveva fatta più fatto alzare la figlia dal letto se non per andare in bagno. Ma a poco doveva essere valso, pensò Daniela gettando un’altra triste occhiata al termometro, che con quella linea color piombo sembrava le stesse rivolgendo un’antipatica linguaccia di scherno.  

Concedendosi un sospiro assonnato, avvicinò una mano al viso della figlia e le sfiorò le guance, rosa come caramelle, trovandole al tatto spiacevolmente calde. Non era tranquilla, Daniela. E non riusciva più a dormire: non con una figlia malata e che, per quanto lei credesse poco all’ipotesi del sonnambulismo, poteva alzarsi in piena notte e sparire di nuovo chissà dove. Sorrise a Mila.  “Va meglio la testa tesoro?”

 

 

Mila annuì  in silenzio e tastò la mano sul materasso alla ricerca di Kala Nag, tenendo lo sguardo basso. Fu tentata dal confessare che le faceva ancora male la gola, ma ebbe paura di dover prendere un’altra disgustosa cucchiaiata di medicina se glielo avesse rivelato. Afferrò il suo peluche per la coda di corda e lo strinse pigramente al petto, poggiando la proboscide alla spalla credendo che così sarebbe stato più comodo. Era quasi certa che il suo peluche fosse arrabbiato per l’essere costretto a stare tanto a lungo a letto con lei, e allora cercava di coccolarlo più del solito dandogli bacini sulla proboscide o grattandogli tutto il pelo ruvido della pancia.

La testa le girò appena e si sdraiò meglio contro i cuscini trovando sollievo al fresco delle federe da dietro il collo e le orecchie. Sentì le mani della mamma portarle i capelli all’indietro e si rilassò. Aveva voglia di alzarsi dal letto, di correre da qualche parte, di provare a scendere e risalire le scale con una gamba sola, o di andare in giardino a guardare ancora i fiori rossi del piccolo albero di ibisco. Ma Daniela non voleva, nemmeno quando lei non sentiva più male alla testa (e il corpo pesante, e la sete, e un tale spavento all’arrivo del mal di stomaco da chiamare forte sua madre e mettersi a piangere), e allora al malore, prontamente, si sostituiva la noia. Così in quei momenti alzava le coperte con le gambe e ci faceva camminare Kala Nag sopra, immaginando che ogni gobba azzurra fosse una minacciosa duna di sabbia e di roccia; giocava con Kala Nag fingendo che fosse un cucciolo sperduto, che la mamma gli fosse stata portata via e che lui dovesse trovarla, superare i burroni e le montagne delle loro terre selvagge per raggiungere il circo o lo zoo dove la tenevano rinchiusa. Nel fare quel gioco Mila, qualche volta, pensava a suo padre, e le veniva voglia di far arrivare subito Kala Nag dove si trovava la madre e farli tornare insieme a casa loro e da tutti gli amici che li stavano aspettando: ma poi ricordava di non avere un altro giocattolo a forma di elefante da usare, e allora tornava a farlo camminare sulle coperte a passo più mogio e annoiato di prima.

Pensò di giocarci ancora una volta, ma si accorse subito di non averne voglia, e allora chiuse gli occhi facendosi sfuggire un lamento piuttosto rumoroso. Sentì il materasso tremare, e le braccia di Daniela avvolgerla fino a farla scontrare contro il suo petto profumato. Si lasciò coccolare piagnucolando con forza sempre maggiore, sapendo che così sua madre l’avrebbe accarezzata e baciata ancora di più. Stringendo Kala Nag  sulla pancia la guardò allontanarsi appena, sfiorarle con le labbra la fronte e il naso e poi ricambiare lo sguardo. “Poverina” la sentì parlare con tono bonario, prima di baciarle una guancia. “Ti stai annoiando molto, tesoro?”  Mila annuì senza parlare. “Vuoi dormire un pochino? Ti leggo qualcosa?” annuì di nuovo, con più vigore e con un’espressione emozionata sul volto colorato di febbre.

A Mila piaceva che fosse sua madre a raccontarle le fiabe: nel leggerle imitava sempre la voce delle principesse, dei re, dei lupi, delle fate, dei bambini e delle streghe, e se in una storia appariva un orco o un mostro allora ringhiava in modo buffo e le afferrava la pancia con una mano facendole il solletico fingendo di volerla mangiare. Pensò, alzando la testa dal cuscino, di chiederle di raccontarle la storia della ragazza che fu mandata dalla matrigna a cercare fragole in pieno inverno, e che trovò in mezzo alla neve la casa di tre nani coi quali divise il suo pranzo, e fu ricompensata con una moneta d’oro caduta fuori dalle labbra ad ogni parola pronunciata e un principe ricco e bellissimo che l’avrebbe presto chiesta in moglie. Ma appena aprì la bocca, la gola iniziò a pruderle e bruciarle come se avesse ingoiato del fumo bollente, e tacque, temendo subito di dover prendere altro sciroppo giallo se sua madre lo avesse scoperto. Senza dir nulla la guardò allungare il braccio verso il comodino, e poggiare sulle ginocchia il suo libro con l’ideogramma rosso sulla copertina. La vide sedersi sul materasso e sfogliare le pagine alla ricerca di un titolo interessante, e Mila allora si aggrappò ai suoi jeans strofinandoci contro il naso alla ricerca di un po’ del suo calore, sentendo il vento bussare ed entrare in spifferi dalla finestra. L’odore buono che proveniva da Daniela le fece venire ancor più voglia di addormentarsi.

“Ecco… Yama…”  la sentì leggere mentre le passava una mano tra i capelli  Yamata no Orochi. Ti piace questa?”.  Mila la guardò senza sapere come risponderle. Aveva già letto quella storia, ma non tanto spesso come tutte le altre del suo libro. Raccontava del mostro ad otto teste che chiedeva in sacrificio le fanciulle di un villaggio, e di Susanoo, il dio orientale delle tempeste, che si innamorò di una ragazza destinata a diventare la prossima vittima del drago. Sapeva che Susanoo, alla fine, avrebbe sconfitto Orochi e tagliato tutte le sue teste e le sue code, fino a trovare dentro l’ottava una spada meravigliosa, ma della storia non ricordava nient’altro.

Quando sentì Daniela iniziare a leggere, chiuse gli occhi, cullata dalla sua voce mentre le parlava di Kushinada, così gentile e graziosa che quel dio che la incontrò non poté fare a meno di innamorarsene subito e volerla come sposa. Man mano che la storia proseguiva, nella mente di Mila, da sotto le palpebre chiuse, iniziarono a disegnarsi case di fango, un cielo lucido e azzurro come un lago rovesciato, e una donna vestita di bianco di cui non riuscì a delinearne il volto, ma che sapeva bello come un raggio di luna. Ascoltò del terribile drago(che immaginò grande e nero, con lingue biforcute e scaglie di coccodrillo su tutto il corpo)  che scese dalle montagne per cercare Kushinada e portarsela via, e che davanti alla sua casa trovò otto barili colmi di sakè (cos’era un sache?) che sospettoso dapprima assaggiò, e poi bevve con sempre più gusto fino a che ogni testa non ne rimase completamente ubriacata.

E quando Susanoo, veloce, uscì fuori dal suo nascondiglio dichiarandogli battaglia, e il drago stordito dal troppo alcol sguainò le fauci e lanciò un ruggito agghiacciante prima di avventasi su di lui , si sentì qualcuno bussare piano alla porta.

Mila, non aspettandosi l’arrivo di quel rumore, sussultò trattenendo il fiato dentro la bocca. Sentì Daniela interrompere la lettura e irrigidirsi al suo fianco, forse osservando la persona che si trovava oltre lo spiraglio della porta lasciata socchiusa, ma non alzò lo sguardo per accertarsene: presa, anzi, dal timore che a bussare fosse stato lo zio Amos, strinse più forte Kala Nag alla pancia e strizzò gli occhi cercando di fingere di essersi addormentata. Da sotto il buio delle palpebre chiuse attese ancora qualche secondo di silenzio prima di poter sentire qualcosa.

“Buongiorno…”  A parlare non fu lo zio Amos, e nemmeno sua madre. Era una voce femminile che non le sembrò sconosciuta, ma alla quale non riuscì ad associare un volto. “chiedo scusa, ma il signore ha pensato che avrebbe gradito del caffè”.  

Le molle del materasso cigolarono sotto il suo orecchio quando Daniela si alzò dal letto. Sentì il libro chiudersi in un tonfo leggero e un rumore di ciabatte strofinarsi violentemente contro il pavimento. “Grazie, che gentile.”

Suono di passi, di tintinnii di cucchiai contro piattini di ceramica, di vassoio di legno poggiato da qualche parte   –forse su quel tavolino al centro della stanza con il vaso a forma di fungo.

Mila non si mosse, né dette segno di essere sveglia, limitandosi ad attendere aggrappandosi al cuscino con una mano sola. Quasi nello stesso momento in cui doveva averci pensato Daniela, le venne in mente che se a Monica -era quella la sua voce?-  era stato detto di portare del caffè, significava che lo zio Amos doveva aver già finito di fare la doccia.  “Scusa” sentì parlare sua madre a non molta distanza da lei “dov’è mio cognato?”    “Il signore stava parlando con Nat-… con l’altra domestica, ma mi ha detto di dirvi che verrà subito per vedere come sta la bambina.”   “Lo berrò con lui allora…”.

Silenzio. Spifferi di vento. Tacco e punta di scarpa in un passo appena accennato.   “…dorme?”

Mila aprì un momento gli occhi e poi li richiuse di scatto. Spostò il mento verso il petto, cercando di nascondere il più possibile il viso sotto le coperte, riuscendoci fino alla punta del naso. “Tesoro?”  Sentì la mano della mamma accarezzarle il braccio, ma si sforzò di non rispondere, temendo in un rimprovero se avessero scoperto che in realtà stava facendo finta di dormire. Dopo un primo, flebile contatto con la sua spalla, Daniela non sembrò voler insistere. “Ha ancora la febbre” la sentì spiegare con voce impastata di stanchezza. Le sembrò, ascoltandola, che stesse cercando di trattenere uno sbadiglio, e quasi poté vederla coprirsi la bocca con entrambe le mani come faceva di solito. “Deve aver preso freddo. Era tutta bagnata...”  “In questi giorni non ha fatto molto caldo” sentì rispondere la domestica “Ma se le ha dato le medicine di certo guarirà presto.”  Sua madre sembrò trattenere un sospiro. “Ti ringrazio…”.
 Sentendo che stavano parlando di lei, Mila mosse la testa in avanti alla ricerca di una posizione più comoda, non volendo perdersi una sola parola del loro discorso. Piegò piano il braccio spostandolo fino a ritrovarselo vicino alla guancia, e il rumore ritmico del suo orologio da polso iniziò a picchiettare fastidiosamente dentro l’orecchio: non un vero e proprio ticchettio, ma qualcosa di un poco diverso, come una sorta di sciak, sciok  che trovò strano quanto buffo.
 

“Non ci siamo mai incontrate, vero?”.  

Sciak,

Mila percepì il materasso abbassarsi di nuovo sotto il peso della madre, le lenzuola stridere contro le unghie appuntite di una sua mano “Sei stata assunta da poco?”

Sciok,

“No signora. …ho preso qualche giorno di ferie per rivedere i miei genitori… credo sia per questo che lei non mi ha mai visto.”

Sciak,

“Ho capito.”  Sua madre si mosse sul letto -molle. Vento. Silenzio.

Sciok,

“…ma tu e Marica  –no, era Monica, vero?-  siete molto giovani. Tu quanti anni hai?” 

Sciak,

“Io ventuno.”  Mila corrugò un sopraciglio. Erano tanti? Si andava già alle scuole medie a ventuno anni?  

Sciok

“…in realtà siamo in tre. Quando io sono andata via Natalie ha avuto un’emergenza famigliare e ha dovuto lasciare Monica sola. Siamo tornate tutte e due oggi.”

Sciak,

“Ah…e il tuo nome qual è?”

Sciok,

“Sofia Brown, signora.”



A Mila iniziò a prudere il naso, e dovette spostare di nuovo la mano di un poco per riuscire a grattarselo senza far rumore. Il suono strascicato dell’orologio si fece di colpo più leggero, il colore brillantissimo delle lancette meno fastidioso per gli occhi, cedendo un po’ di tregua al mal di testa che era già tornato a martellarle fastidiosamente le tempie. Se ne lamentò silenziosamente con Kala Nag, lanciando ai suoi occhi tondi uno sguardo che era lucido di pianto. Il peluche le rispose con quel suo solito sorriso che la irritò tantissimo, e allora lo strinse forte al petto per non doverlo guardare ancora senza fargli capire di essersi arrabbiata con lui. Affondò metà faccia nel cuscino morbidissimo,e il contatto fresco contro la pelle le fece venir voglia di dormire davvero. Imitò uno sbadiglio, si leccò il labbro, e poi chiuse gli occhi. Li riaprì subito, un pensiero improvviso acceso nella testa come una lampadina.

A farle capire di aver già conosciuto quella persona appena entrata non fu il suo nome, ma il ricordo di dove aveva già sentito quella voce prima di allora. La gola le bruciò con violenza al solo pensiero di alzarsi, guardare quella ragazza e accertarsi di non star sbagliando, e afferrare il braccio di sua madre per urlarle ‘Mamma, mamma, lo sai chi è lei? Lo vuoi sapere? È la figlia dei draghi bianchi!’.   

 

 

 “...Brown?” Daniela ripeté il nome con una punta di incertezza nella voce. “Sei americana?”
Sofia scosse il capo “No”  borbottò, rosa in volto, abbassando subito lo sguardo verso un punto impreciso del pavimento.  Daniela la osservò, inclinando appena la testa in un lato, cercando di darsi un perché a quella reazione. Strana ragazza, considerò. Era entrata in camera con quel passo così sicuro, la testa alta e la presa ferma sul manici del vassoio, quando invece le era bastato porgerle qualche domanda in più per vederla arrossire ed abbassare lo sguardo come se l’avesse accusata di qualcosa.

Le venne da pensare, corrugando un sopraciglio, che forse non avrebbe dovuto. Forse, anche se non le sembrava, si stava impicciando troppo negli affari di un’estranea, e stava approfittando senza volerlo della sua posizione di cognata del padrone di casa; forse la voglia, dopo giorni, di conversare con qualcuno che non fosse Amos, sua figlia o una piagnucolosa Vincenza dall’altra parte del telefono, l’aveva fatta parlare troppo. E fu così presa da domande di questo tipo che quando Sofia tornò a parlare quasi si spaventò.

“I miei nonni sono inglesi. Anche se la mia famiglia è greca”

“Ah, davvero?”
“Sì. Vivevo ad Atene...”
“Atene?!”
Daniela strinse le mani e le avvicinò al petto senza nemmeno rendersene conto. Una raffica di ricordi più o meno nitidi le sfilò immediatamente davanti agli occhi, immagini di una coppa di gelato sul tavolo di un bar, una signora profumata di nonna che la sgridava perché non voleva mettere il giubbotto, i resti immobili di una colonna caduta di un tempio, quello di Zeus.
Nell’accorgersi di aver alzato troppo la voce e di essere osservata con stupore, arrossì subito. Fu il suo turno di abbassare lo sguardo. “Ci sono stata da bambina.” Spiegò, come per giustificarsi da qualcosa. Una nuvola coprì il sole e la stanza si fece più buia, come avvolta da un sottile velo grigio. “Per tutta una settimana. Avevo anche pensato di andare a Salonicco per la luna di miele, però non abbiamo potuto…”
Sofia ridacchiò, alzando di più lo sguardo verso di lei, e Daniela si concesse di osservarla con più attenzione. Notò che era graziosa (non bella, ma graziosa), con le guance rotonde e un corpo sottile che sembrava navigare dentro quel vestito largo che aveva addosso. I capelli erano di un colore chiaro, quasi bianco, che non le piacque affatto, ma apprezzò molto i riccioli lunghissimi in cui erano modellati. Si sfiorò la sua coda bassa portando distrattamente una mano dietro il collo, cercando di ricordare l’ultima volta che aveva pensato di cambiare taglio di capelli.

 “Credo sia più romantica come città” spiegò Sofia stringendo le mani dietro la gonna “Non ci sono stata molte volte, ma vale la pena visitarla.”

“Potrei portarci Mila...”.
Daniela, pensierosa, tornò ad accarezzare la manica rosa del pigiama della figlia, tastando da sopra la stoffa la pelle morbida e accaldata del suo piccolo braccio disteso sul cuscino. Era quasi certa che Mila stesse solo fingendo di dormire, ma non fece né disse nulla per accertarsene.  
Notò Sofia, con la coda nell’occhio, avvicinarsi al letto di qualche passo, forse cercando di scorgere il suo volto nascosto da quel piccolo rifugio di coperte e lenzuola.
“E’ una brava bambina”
“Lo è di certo” concordò Daniela, con un’espressione dolce sul viso. Sfiorò i suoi capelli, pettinandone qualche ciuffo con le dita, fino a quando non decise di ritrarre la mano sul grembo.  Il vento sbatté con più forza contro la finestra, e nella camera, nello stesso momento, tornò di nuovo la luce. La sua fede nuziale scintillò dall’anulare in fastidiosi luccichii dorati, e si affrettò a coprirla con l’altra mano prima di distogliere lo sguardo “Da quando il padre è morto, a volte sa essere fin troppo brava” . Sorrise. Si dette subito della stupida per l’aver menzionato Oliver davanti a un’estranea. E si odiò per non essere riuscita a pronunciare quelle parole con voce meno tremante.
“In Grecia...”

Daniela tornò a guardare Sofia, e lei, per riflesso, abbassò di nuovo il capo, nascondendosi sotto i ciuffi più lunghi della sua frangia bionda. La vide spostare le mani da dietro la schiena e  –immaginò-  iniziare a torturarsele distrattamente con le dita, e stringere le labbra tra loro fino a renderle rosse come brace.

Quando riprese a parlare lo fece con quella voce sicura che aveva usato prima di entrare nella camera. Quello sguardo mise subito a Daniela un groppo alla gola: conigli neri, pensò subito, senza nemmeno capire il perché.

“…io ero molto più grande, ma quando è morta mia sorella, in Grecia…  ho fatto parecchio disperare i miei genitori.”

 

 

Arrivò il sonno. In un modo improvviso, come travolta da un’onda impetuosa, che per un momento lasciò Mila stordita. Dopo un attimo che voleva alzarsi dal letto e guardare se c’era davvero la Figlia dei draghi, e chiedere a sua madre cosa voleva dire Sallocco, e dire che non stava dormendo, che era una finta, che era sveglia, le era venuto sonno. Quel gemito di stupore che provò a pronunciare divenne subito un piccolo sbadiglio. Si aggrappò a Kala Nag e lo guardò dall’alto, con la pianta morbida delle zampe schiacciata contro la sua pancia. Guardò il baldacchino quadrato. Guardò il rosso sbiadire, e cospargersi di stelle nere come l’inchiostro: chiuse gli occhi.

Morta.

La parola le sfiorò l’orecchio senza che lei capisse il perché.

“…Oh.”  La voce di Daniela era flebile, quasi lontana, ma non troppo. Ed era strana. Era come imbottita di…

“Mi spiace molto… quanti anni aveva?”  “Quasi tre.” 

Morta.

…acqua.

Era un po’ come il sogno che aveva fatto. In realtà non lo ricordava bene: era al mare, forse. Ed era buio, e se si portava le mani davanti agli occhi per provare a spingersi in alto, non riusciva a vedere neanche i contorni delle dita. C’erano anche i pesci, e delle cose colorate di cui non riusciva a ricordare la forma. E c’era l’acqua, e la sentiva entrare nella gola, nelle orecchie, nel naso, e anche se voleva urlare dalla bocca sentiva uscire solo il rumore viscido delle bolle.

Con gli occhi chiusi, e una mano stretta nella coda di Kala Nag, Mila boccheggiò appena contro il cuscino. Sentì l‘aria farsi pesante, troppo densa da respirare, di un sapore quasi aspro che ricordava il fango. Provò una fitta alla testa e al naso, e aprì la bocca per chiamare sua madre. La gola le bruciò.

Morta?

 E fece così male che le venne quasi da piangere da dietro gli occhi chiusi. Avrebbe voluto liberarsi dalle coperte e rotolare sul letto per cercare la mano di Daniela, ma non lo fece. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie, nel sentire qualcosa ronzarle attorno come una cantilena fastidiosa, ma non lasciò mai la presa da Kala Nag.

Mortamortamortamoooortaaa!. 

E poi le sembrò che tutto stesse cominciando a girare come una trottola, che il buio dei suoi occhi chiusi la stesse inghiottendo tutta intera, di precipitare sempre più a fondo e sempre più piano. Si fece sfuggire un lamento rumoroso mentre agitava i piedi come per calpestare qualcosa. Si spaventò, nel rilassamento surreale in cui improvvisamente si sentì star galleggiando. Era come inciampare. Come piangere. Come dormire.

 

Morta.
E’ Morta!
Che bello! Che peccato!
Le guardiamo la pelle squagliarsi sopra la carne?
Le togliamo gli occhi e li usiamo come cappelli?
Le mordiamo il corpo fino a quando non diventa poltiglia?

Giochiamo?

Giochiamo?

Giochiamo?

A cosa giochiamo?




L’erba, chissà perché, profumava di cioccolata.


















 


 




Onigiri






note autrice:





*La fiaba che Mila voleva farsi raccontare è una dei fratelli Grimm: I tre omini nel bosco

*La storia di Susanoo e del drago Orochi fa parte della mitologia shintoista giapponese. Per chi volesse conoscere meglio la storia può cliccare qui: Yamata no Orochi.

*Parlando di Grecia, Daniela fa riferimento al tempio di zeus, del quale una colonna venne colpita da un fulmine ed è tuttora lasciata stare caduta. Per maggiori informazioni, cliccate  QUI.



°-° *appare da dietro un angolino inginocchiata sui ceci crudi*
 Chiedo scusa -ebbene sì, di nuovo-  per il ritardo! Non è solo per gli
esami universitari, ma è il capitolo in sè ad avermi fatto tanto indugiare a pubblicarlo >.> .  Voglio dire... fa schifo! (L'avrete già notato tutti leggendolo  -.-"): per quanto abbia provato ad aggiustarlo, tagliando e ricucendo a tutto spiano, alla fine... diciamo che mi sono arresa e ho deciso di lasciarlo così >>. scusateme  ç-ç . Tra l'altro, non è neanche tutto il capitolo: nella precedente versione di questa storia c'era da aggiungere un grosso pezzo in più, ma alla fine ho deciso di tagliare i capitoli. Perciò, l'azione che doveva esserci nel secondo pezzo del capitolo, non c'è, sostituito da un'altra lettura noiosa come questa -scusatemeeee ToT.

Piuttosto... che succederà nel prossimo capitolo? *-* (perlomeno spero di avervi un pochino incuriositi xD). Mi auguro di aggiornare prima la prossima volta, nonostante l'università mi tenga davvero impegnata *piange*.


E detto questo e pianto quest'altro.. passiamo ai ringraziamenti u_u:


Lion of darkness : Ovvio che mi è piaciuta =) come non poteva? Eh eh, ehm, in effetti lo scorso capitolo mi è uscito forse troppo lungo °_°£, e conto di tagliuzzarlo un poco appena avrò l'occasione di revisionarlo. Mi spiace che in questo capitolo non ci sia azione: prometto che quella arriverà tutta dal prossimo in poi. E farò il possibile per farvi reggere forte =P .


 darllenwr  : Grazie grazie grazie!! ç//ç posso dire di adorare le tue recensioni! Sapere che, leggendo, presti tanta attenzione a ciò che c'è nel capitolo mi rende davvero felicissima! Eh eh eh... Amos ha molte cose da nascondere, e tra queste, sì, posso dire che c'entra anche Oliver, ma non solo: nulla che non svelerò, ma non voglio dare anticipazioni =P. Spero che la storia continui a piacere, e di migliorare a scrivere. ti ringrazio tanto ancora, i tuoi incoraggiamenti mi sono davvero di grandissimo aiuto. Grazie ancora ^_^ 


Jherome :  ...Oddende, hai ragione sulle note! °-° voglio dire, di solito le metto nei capitoli, ma non l'ho fatto col prologo. Chiedo scusa: comunque ho rimediato >>, sperando ti faccia piacere dare un'occhiata alle storie, perché sono proprio belline =)! Per quel che riguarda il tuo commento... che dire? Grazie infinite! Io non ho mai letto Guerra e Pace, ma quando l'hai menzionato ho fatto ua faccia del genere oOo ! xD non so quanto sarà unga la storia, anche se ne prevedo quattro "parti" e non ho idea se vivrò abbastanza per completarle :o , però sì, sono ispirata per raccontarla e sapere che qualcuno la sta seguendo non può che rendermi felice ed incitarmi a continuarla ^^. Sulle mie descrizioni ti do pienamente ragione... è un mio difetto che sto cercando di correggere -.-" , anche se a volte ho la sensazione di correre troppo con lo svolgimento dei fatti quando lo faccio, nonostante però le descrizioni non piacciano molto al lettore, come dici tu XD. Comunque sia, ti ringrazio davvero tantissimo: sei stata gentilissima. Grazie mille ^//^!




E ovviamente, ultimi ma mai e poi mai ultimi, ringrazio tanto chi ha deciso di leggere questa mia storia. Grazie ancora a tutti!
E, anche se un pochino in anticipo, Buon Halloween! #*___*#

*onigiri. ;)





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Capitolo 8
*** Farfalle ***


Legame
   Legame   
(Le pietre blu) 











Capitolo 7








Farfalla bruna dolce e definitiva

come il campo di grano e il sole, il papavero e l'acqua.

"Bimba bruna e flessuosa"- Pablo Neruda















 


 




E annusò quell'odore ancora, e ancora, e ancora.

Era un po' come quando  le veniva in mente quella filastrocca imparata a scuola  (Bianca o marrone, o con le nocciole, mangiam cioccolata in stecca e crostata), e nel recitarla, chissà perché, le sembrava sempre di avere veramente un pezzetto di cioccolato in mano o in bocca, tanto a volte da riuscire a sentirne il gusto o il profumo pizzicarle il naso dalla punta delle dita. Quel buffo effetto non cambiava neanche se metteva parole al posto di altre, o aggiungeva interi pezzi di sua invenzione  -"mangiam cioccolata e la marmellata ma quella non ci piace quindi solo cioccolato e latte!".  Se poi, qualche volta, si azzardava a ripeterla a scuola con tutte le sue aggiunte, faceva piano, e si guardava sempre attorno per paura che maestra Cristina la stesse ascoltando da qualche parte. Era lei che le aveva insegnato quella filastrocca: ne leggeva spesso e molte durante l'ora di italiano, passeggiando tra i banchi aggrappata con le dita alla copertina azzurra del suo libro per bambini, con quella voce chiara e ferma che quasi pareva una calamita per le orecchie tanto ogni bambino le prestava attenzione senza emettere un fiato. Dopo si spostava sempre davanti alla cattedra, univa le sopraciglia e, gettando un'occhiata quasi sbieca a tutta la classe, chiamava qualcuno per nome e cognome facendogli ripetere a memoria cosa aveva appena finito di leggere. Maestra Cristina, a tratti, le faceva paura: la guardava sempre dritto negli occhi quando doveva pronunciare il suo nome, e lo faceva con quel Massimilana dalle esse lunghissime che rendeva la sua voce simile al soffio di un serpente.

 

Ma le erano sempre piaciute quelle filastrocche che leggeva alla classe, anche quella sul cioccolato che però non riusciva più a ricordare tutta. Non le poesie, invece: quelle erano lunghe e spesso noiose, a volte anche con parole difficili, e maestra Cristina, insieme al libro delle vacanze, ne aveva assegnato due da imparare a memoria entro settembre. Al pensiero Mila arricciò le labbra in una smorfia nel suo ansioso dormiveglia. Si girò sulla schiena e strinse gli occhi con più forza, scalciando in avanti un piede, sentendosi inquieta senza saperne il perché.

C'era un suono strano che solo appena riusciva a sentire: leggero, leggerissimo, e dolce, come sabbia che scricchiola sotto la spuma del mare. E prudeva, quel suono: prudeva così tanto che Mila si grattò subito un orecchio con l'unghia del pollice come se avesse un pizzico di zanzara.

Decise di voler sua madre, e allora mugolò con forza da dietro le labbra chiuse e scalciò in avanti per farla subito accorrere da lei. Mila si accorse solo in quel momento che Daniela aveva smesso di parlare.

Forse era uscita fuori  -piano, così piano da poter alzarsi senza smuovere neanche una molla del materasso, così piano da non far sentire il rumore gommoso delle ciabatte sul pavimento, e da non lasciare che la porta cigolasse anche solo di un poco. Il pensiero di trovarsi sola in camera le fece aprire gli occhi di scatto, ma li richiuse subito e mugolò di fastidio nel sentirseli graffiare da una luce troppo forte. Girò la testa da un'altra parte, strofinando la mano e la guancia contro il terreno, guardando caldi triangoli rossi cambiare forma da sotto le sue palpebre abbassate.

Qualcuno rise, ma Mila non lo sentì nemmeno. 

Incrociò le ginocchia verso la pancia e stringendo un labbro con l’altro riprovò ancora ad aprire gli occhi.

Li richiuse, li riaprì più piano. Forse era quel filo d’erba che le stava dondolando davanti al naso a profumare tanto di panna e cioccolata.

Mila lo osservò con le palpebre mezzo chiuse, ritto e immobile, dall'aria liscia come un filo di vetro. Non le venne neanche da chiedersi come fosse finito uno sul letto, ma fece quello che le piaceva fare quando trovava anche solo un ciuffo d’erba spuntato fuori da una crepa del marciapiede: alzò una mano e lo prese col pollice e l’indice, lo tirò, e quando si accorse che due dita non bastavano le usò tutte e cinque della stessa mano. Quando poi Mila staccò il filo d’erba dalla terra (con un rumore strano, una sorta di Priiiitz che col suono di uno strappo non aveva nulla a che fare), quel filo le sfuggì dalle dita, ci si attorcigliò sopra in una gobba che le parve a forma di vaso, e con un altro e più lamentoso Priiiitz strisciò velocemente da qualche parte per scappare.

E allora Mila, sveglissima, sobbalzò, e scattò seduta scivolando coi piedi sul terreno molliccio fin quasi a cadere all’indietro, e strinse e stracciò altra erba  senza volerlo, e tutta quell’erba ingabbiata nei suoi pugni semichiusi scappò dalle sue dita emettendo un Priiiitz per ogni filo strappato.

E quando qualcuno rise di nuovo, Mila alzò lo sguardo verso quella buffa risata, piombando in un turbine pazzesco bluarancioverdegiallorossoviolarosabianco che le fece sentire mancare la terra da sotto le mani. Allora urlò e si coprì la testa con le braccia, e scivolando su un lato si raggomitolo sull’erba, e urlò ancora, ancora, ancora. Mila strinse gli occhi umidi di terrore e se li coprì coi palmi delle mani, ascoltando l’eco del grido che aveva appena lanciato, ma con un tono canzonatorio che sembrava volerla prendere in giro.

Ha urlato!
E’ viva!
E’ Vivavivavivaviavivaviva!
Potrà giocare?
Giochiamo?
Giochiamo?
A cosa giochiamo?

Quelle voci, dolci come miele nel latte caldo, erano così sfuggevoli da sembrare pensieri, sussurri o bisbigli simili a morbide soffiate di zucchero.
Mila ne ebbe una folle paura, e cercò di sfuggire a quelle voci quasi mormorate scalciando in basso e in avanti e rifugiandosi ancora sotto le braccia, rifiutando di aprire gli occhi per paura di scorgere occhi brucianti e cattivi tagliarla con lo sguardo o bocche e denti pronte a sogghignare e a mangiarla in un boccone.

Diversi pensieri, per un momento, le sfilarono da sotto le palpebre come una folata di fazzoletti: il letto, la febbre, il termometro troppo freddo, l’odore amaro di banana dello sciroppo, l’aranciata, un abbraccio, la favola del dio del drago e della spada nella coda. Poi svanirono, e nella testa nella pancia e nelle ossa ci fu solo un gelidissimo terrore. Volle sua madre, volle suo padre, e le sfuggì un singhiozzo disperato nel sentire di nuovo e di nuovo quei Giochiamo?Giochiamo?Acosagiochiamo? infilzarsi dentro le orecchie come aghi sottilissimi.

Ma erano anche così soffici, quelle voci, così dolci e soavi e tanto rassicuranti che Mila pian piano, come immersa in una vasca d’acqua calda, smise persino di tremare. I mostri hanno sempre una voce spaventosa: glielo aveva detto Roberto con i suoi racconti, era scritto chiaramente in tutte quelle favole che aveva letto o ascoltato. Questa flebile considerazione non le fece passare la paura, ma un poco, solo un pochino, la tranquillizzò. Mila socchiuse gli occhi, rabbrividì, e rimase immobile nella sua posizione fino a sentire il respiro iniziare a calmarsi nel petto; solo allora, presa da un barlume di coraggio, provò a dare un’incerta sbirciata da sotto il suo braccio. E quello che scorse, lasciandola senza fiato dalla meraviglia, fu un filo d’erba incurvato docilmente in avanti sotto il peso di una grande farfalla dalle ali gialle come spicchi di sole e come mai Mila aveva visto in vita sua. La farfalla, come accorgendosi del suo sguardo puntato addosso, curvò il muso peloso verso di lei: alzò le antenne, rise, puntò le ali verso il cielo e volò via dondolando su sé stessa come un sonaglio, e quello che Mila vide quando si mise seduta per cercarla con lo sguardo furono altre mille farfalle di altri mille colori diversi che la salutarono spalancando ali magnifiche e svolazzandole attorno avvolgendola in un turbine sgargiante e nella loro incantevole risatina angelica.

Mila aprì così tanto la bocca che se Daniela l’avesse vista le avrebbe detto di tenerla chiusa, “o rischi di ingoiare qualche mosca”.

Giochiamo?
Giochiamo?
GiochiamoGiochiamoGiochiaaaaamo?!

 Non rispose, sentendo la voce congelata dentro la gola per lo stupore, aggrappandosi al suolo per paura che tutto quel meraviglioso sbatter d’ali finisse col farla volare via a sua volta. Le farfalle si muovevano in cerchio, di lato, in alto, in basso, o solo dondolavano a mezz’aria senza mai stare veramente ferme nemmeno quando si fermavano, e se si scontravano tra loro rotolavano lontano e ridevano sempre più forte prima di lanciarsi in volo ancora una volta. Mila allungò il collo fino a farsi male per vedere meglio quei pazzi movimenti pieni di colore, e ne rimase tanto incantata da non riuscire più a distogliere lo sguardo.

 Perché non parla?
Magari è stupida
Prova a tirarle la lingua!
Prova ad aprirle la testa per vedere se è vuota!

 “…chi siete?”  riuscì a mormorare, senza sapere come avesse fatto, mordendosi subito le labbra tra i denti quasi per paura che la sua voce potesse spezzare quel momento, che i colori si sciogliessero e le ali si sbriciolassero in polvere sottile. Nel parlare, poi, Mila scoprì anche che la gola aveva smesso di bruciare e far male  –come la testa, e la pancia, e perfino il naso aveva smesso di prudere e colare o di darle un qualche minimo fastidio.
Le farfalle si fermarono, volando a mezz’aria sopra la sua testa o davanti al suo volto. Per un momento (pochi secondi, sicuramente, ma per Mila parve quasi un tempo infinito) le loro ali si fecero immobili, spalancate in storti cerchi coloratissimi, tremando a contatto con l’aria come stropicciata carta velina. Quando poi parlarono con Mila, una si mosse come per rivolgersi ai suoi occhi, un’altra alle sue orecchie, un’altra alla sua schiena, un’altra ai suoi piedi. 

 Chi siamo?

Chi siamo!
Non hai mai visto una farfalla?
Mai?
Maimaimaiiiii?

 Di nuovo, risero, agitando eccitatissime le ali, così tanto che uno sbuffo d’aria più forte colpì la fronte di Mila portandole qualche ciuffo di capelli all’indietro. Era difficile riconoscere il punto esatto in quella nuvola variopinta dal quale proveniva la loro voce zuccherina.
'Sì che le ho viste!', avrebbe voluto ribattere, sentendosi ancora presa in giro; ma di nuovo non riuscì a dir nulla, e le parole si bloccarono dentro la bocca fino a spezzarsi in balbettii senza senso.
Si limitò ad allungare ancora il collo, e a portare tanto la testa all'indietro si sentì come scivolare e dovette aggrapparsi a terra con le mani per non rischiare di cadere. Ma invece di quell’erba che al tatto sembrava fatta di solletico due delle sue dita incontrarono qualcosa di ruvido e tiepido che le fece subito abbassare lo sguardo per vedere cosa avesse trovato.
Quando scorse Kala Nag e il suo baldacchino rosso rivolto al cielo, i suoi occhi si allargarono di nuovo e le sue braccia lo accorsero subito e lo strinsero al petto, rincuorata da quell’odore di pelo e stoffa che tanto bene conosceva. Alzò il suo muso verso l’alto per specchiarsi nelle biglie nere dei suoi occhi alla ricerca di una spiegazione a tutto quello che le stava capitando  -Dov'erano, e come c’erano finiti, e le farfalle allora potevano parlare...?
Forse in realtà stava solo sognando, e quello era il sogno più realistico che avesse mai fatto: ma questa idea non sembrò neppure sfiorarla di un poco.
Provò a guardare in alto, dove a fare da sfondo a quel mulinello di colori c’era un cielo profondo e tristemente bianco, con nuvole scure che sembravano ombre, pennellate di vernice nera, strappi deformi in un foglio di carta. Si voltò da una parte e provò a sollevarsi sulle ginocchia, osservando una distesa d’erba senza fiori, una valle verde e immensa fino a vederla inghiottita dall’orizzonte, dove sorgevano montagne azzurre a forma di piramidi che sembravano disegni ad acquerello. Guardò avanti e poi si girò all’indietro, e vide cumoli di nebbia lontani, spessi come fumo, di un colore grigiastro che solo a tratti sfumava di un verde che le diede subito una strana sensazione di ruvido. Voleva chiedere che cosa fosse, ma finì col non farlo. Fissò ancora quel punto e smise solo quando la voce dolce delle farfalle ricatturò la sua attenzione.

E’ un po’ stupida però.
E’ un po’ brutta però.
Magari sa giocare!
Giochiamo insieme?

Giochiamo?

Giochiamo?
Se giochi con noi ti regaliamo delle ali come le nostre.

Gli occhi di Mila si accesero d’emozione “Davvero?”
Cercò subito di alzarsi in piedi, inciampando una volta sulle ginocchia, provocando ancora il riso dolcissimo delle farfalle.
“E posso scegliere il colore?”

Ma certo Bruttina!
Il colore che vuoi Bruttina!
Ti regaliamo anche delle antenne, eh Bruttina?
Magari così diventi più carina, Bruttina!

 “Io mi chiamo Mila!” protestò: Massimiliana Capitta, avrebbe voluto aggiungere  -e nel pensare al suo nome completo, le venne da pronunciarlo come lo come faceva maestra Cristina, con le esse lunghissime e le t appena pezzate-,  ma non disse nulla.

Tutte risero, e la loro risata somigliava al suono di una danza di campanellini.

 Ci piace Mila

 Una farfalla color latte le si avvicinò al naso, così improvvisamente che lei d’istinto arretrò e chiuse gli occhi coprendoseli con un braccio. Ma la farfalla non fece nulla se non ridacchiare, candida come il paradiso, e volare vibrando docilmente a poca distanza dal gomito. A Mila, sebbene le facesse impressione, bastò poco per abituarsi a quello sbatter d’ali tanto vicino al suo viso: rimase, anzi, così ipnotizzata da quel movimento che piano allungò una mano per toccare la farfalla, e quella subito si poggiò sul suo dorso, lanciando un sospiro tanto flebile che Mila non riuscì nemmeno a sentire. Lasciò quasi cadere Kala Nag dalla sua pancia quando la farfalla iniziò a camminare fino alla punta del dito. Il suo tocco era come il morso di una formica, ma non le importò.
Decise, col cuore in gola per l'emozione, che quella sarebbe stata la sua preferita.

MilaMilaMilaMilaMilaMilaMilaMilaMilaMilaMilaMilaMila!

 Tutte le altre farfalle si lanciarono in alto in un comune movimento, e poi precipitarono fino a fermarsi appena poco sopra la sua testa e si dispersero ridendo di gioia e sbattendo il muso e le ali tra loro. Anche la farfalla bianca lasciò l’indice di Mila per volare via e unirsi a quella strana festa burrascosa.

 Giochiamo con Mila!

Giochiamo con Mila!
A cosa giochiamo?
Giochiamo al vecchio!
Giochiamo al vecchio con Mila!
GiochiamoGiochiamoGiochiamoalvecchioconmila!
 

 “Al vecchio?”
Le farfalle le girarono attorno, risero più forte, e poi, seguendo tutte una sola direzione, si lanciarono in alto e l’esplosione di colori che scaturì dalle loro capriole ebbe l’effetto di un temporale di fuochi d’artificio; alcune  –una gialla, una azzurra, una forse rossa o forse rosa-  si aggrapparono ai lembi del suo pigiama come per invitarla ad alzarsi, e quando anche quelle volarono via da qualche parte Mila, stringendo Kala Nag per la proboscide con una mano sola, le seguì subito senza fare altre domande, incantata dalla loro voce simile a tanti piccoli sonagli, attirata da quei colori come una mosca dal profumo del miele.

 

La prima volta che fermò la sua corsa fu quando inciampò in uno degli specchi sul terreno.

Ci aveva messo dentro un piede per sbaglio, e il freddo e l’umido che aveva subito provato le avevano fatto credere d’aver preso una pozzanghera. Ma quando, dondolando a fatica su un piede soltanto, si era allontanata e aveva alzato la gamba cercando di ritornare sull’erba asciutta, non aveva avvertito alcuna sensazione di bagnato, e non una goccia le era scivolata giù dalla pelle del polpaccio o aveva macchiato il tessuto delle calze già sporche di terriccio.

Mila aveva stretto Kala Nag al petto e aveva abbassato lo sguardo, studiando quella pozza senza una vera forma e dal color di specchio (perché quello era: color specchio): la vide tremare, e incrinarsi in profonde rughe circolari, e poi sbuffare e stendersi senza più un suono in una lastra liscissima.

Mila la guardò tra lo stupito, il curioso e il timoroso, e quando poi provò ad affacciarsi per guardarla meglio il riflesso che vi vide sopra fu assolutamente perfetto in ogni ciliegia del pigiama, ogni sua più piccola lentiggine, ogni cucitura del sorriso sereno di Kala Nag: fu talmente reale che Mila, per un momento, quasi cacciò un verso di spaventò nel tentare d'indietreggiare di un passo. La Mila nello specchio sdraiato scomparve nello stesso istante in cui quella vera si allontanò, muovendo anch'essa la bocca come per cacciare un urlo, ma senza pronunciare il più flebile dei rumori. Mila, strinse a sé Kala Nag con più forza, sbatté le palpebre e trattenne per un attimo il fiato. Poi, piano, allungò il collo in avanti per provare a guardare ancora: il suo riflesso si affacciò adagio a sua volta, ricambiando alla perfezione la sua identica smorfia timorosa.

“Cos’è?”

Mila alzò lo sguardo e indicò quell’altra sé stessa in basso che le stava puntando l’indice contro senza guardarla. “Che cos’è?”, richiese ad alta voce, ma le farfalle continuarono ad allontanarsi canticchiando il loro AlvecchioAlvecchioAlvecchio senza rallentare o risponderle o sembrare ricordarsi della sua sola presenza con loro.

Mila guardò le farfalle, poi la pozza, e il suo riflesso perfetto ricambiò con la sua identica espressione dubbiosa e ogni identico filo di capelli spettinato sulla sua fronte; quando le farfalle continuarono ad allontanarsi e lei ebbe paura di rimanere da sola, aggirò il grosso specchio e si rimise a correre, e correndo incappò in altri specchi riuscendo a schivarli con sempre più facilità, ed erano grandi, medi, piccoli, giganti, rotondi quadrati o senza forma, ancora e ancora: quando le farfalle volavano basso, Mila correndo riusciva a vedere i riflessi dei loro colori, e sembravano raddoppiare, triplicare, e l’effetto meraviglioso le faceva scappare risate senza fiato e saltava e correva più forte pensando di riuscire a volare anche lei, colma di meraviglia e di una grande, innata gioia che la fece ridere sempre più forte.

 

La seconda volta che Mila si fermò fu poggiandosi a una qualche roccia marrone, con le guance bollenti, una mano sulla pancia dolorante e il respiro brutalmente spezzato nella bocca.

L'erba era diversa da quella di prima: più corta, più secca, e non si lamentava in alcun Priiitz se lei camminando la schiacciava ad ogni suo più leggero passo. Persino l'aria (ma questo lo notò molto dopo) aveva un odore e un sapore diverso, qualcosa che le ricordava il legno e il metallo  -forse un poco più denso, forse più speziato ma di certo molto meno dolce rispetto a prima. Ed era calda: un caldo che Mila sentiva appiccicato alla pelle come uno strato di colla e che non aveva nulla a che fare con la sua corsa affannosa.

Quando alzò il capo per cercare le farfalle le vide volare a poca distanza dal terreno, e avanzare adagio, ridacchiando, senza mai ricambiare il suo sguardo. Mila, ancora senza fiato, si girò indietro, e guardò l'erba lunga e verdissima e dall'aria morbida come fosse un letto di piume, il cielo chiaro e una strana e lontana nuvola rosa per sfondo, proprio sul dorso dell'orizzonte, che le ricordava la pancia o la schiena di una balena e da lontano sembrava quasi invitarla a cavalcarla. Si voltò di nuovo, e quello che vide fu il profilo scuro e durissimo di pietre e rocce, l'erba sottile come se fosse rimasto solo lo scheletro del prato, e sassi enormi, forse sparsi a caso, lisci e gonfi nella loro buffa e inquietate forma di uova. Le unghie di Mila si conficcarono sulle zampe di Kala Nag quando notò il profilo di una roccia che dall'alto sembrava come scrutarla con furia.

Quando poi si accorse che le farfalle se ne stavano andando di nuovo, azzardò subito qualche passo, ondeggiando appena sui suoi pieni nel sentire una fredda sensazione di vertigine che la costrinse a fermarsi e a poggiarsi sulle ginocchia. Ma fu un malore che le passò subito, e appena si accorse che nessuno la stava aspettando ricominciò a correre, pur barcollante e senza più respiro. Rischiò quasi di perdersi in quello strano labirinto color rosso morto, inciampando sui sassolini sporgenti e iniziando a lamentarsi un poco dei suoi piedi sempre più doloranti: ma ad ogni angolo girato le bastava seguire le voci sempre alte delle farfalle per indovinare dove dovesse andare.

Quando poi, dopo tanto cercare, riuscì a raggiungerle, le trovò di fronte a un'immensa parete di roccia, a rotolare e ridere eccitatissime per qualcosa che Mila non riuscì a comprendere. Si piegò in avanti e respirò a fondo, rialzò lo sguardo per chiedere dove fossero e perché nessuno la voleva aspettare, e spalancò gli occhi e strinse Kala Nag fino a farsi male alle braccia quando si accorse di dove l'avevano portata.

L'entrata della grotta davanti a lei era grande, grande e nera come la tetra gola di un pozzo, senza una luce, senza un solo fiato. Le parve la bocca di un mostro, così scura, muta, ma come se stesse per ruggire da un momento all'altro, dai denti di pietra lucidi o spezzati oppure affilati come sciabole, e dall'alito che, se Mila provava a respirare più fondo, puzzava di cenere e brace.

L'aria sembrò farsi d'un tratto più fredda, tanto ghiacciata da farle tremare le ginocchia, e se non ci fosse stato il riso dolce e rassicurante delle farfalle avrebbe avuto così paura da mettersi a piangere.

 Giochiamo?

A chi tocca?

Prima io!

PrimaIoPrimaIoPrimaIo!

 Un gruppo di farfalle si fece più avanti rispetto alle altre, e Mila le guardò entrare in disordine proprio nella grotta fino a quando i lucentissimi colori delle loro ali non si sciolsero nel buio fino a sparire del tutto. Imitando quelle rimaste si nascose dietro a un masso, un po' curiosa, un po' impaurita, un po' emozionata.

"Che devono fare?" provo a chiedere a bassa voce, ricevendo per risposta un unico divertito Sssth! che la convinse a star zitta e che la divertì a sua volta. Alzò Kala Nag in alto, fino alla sua spalla, in modo da far vedere anche a lui, e gli portò un dito alla sua bocca chiusa per fargli capire che doveva star zitto.

Le voci delle farfalle che erano entrare risultavano lontane, come riunchiuse sotto un coperchio, ma Mila riuscì lo stesso a distinguere le loro parole.

 Vecchio! Vecchio!

Perché sei vecchio?

Perché fai vecchio?

Ci fai giocare, vecchio?

Giochiamo? Giochiamo? Giochiamo?

Giochiamogiochiamogiochiaaaaaaaaamo?

 "SPARITE!"

Mila urlò, mentre la bocca della grotta sputava una vampata di fuoco che nel quasi sfiorarle i piedi la fece subito arretrare: le fiamme dorate si alzarono minacciose e ruggirono come belve fino a consumarsi sul terreno e ridusse l'erba in granelli di carbone, e delle farfalle che stavano uscendo di corsa non rimasero che sottili, misere briciole scure. Mila guardò le loro ali consumarsi in stiscie rosse simili a morsi, poi nere, fino a ridursi e cadere in brandelli di polvere. Inciampò all'indietro, si sbucciò le mani, gli occhi si spalancarono un un'espressione di pura sorpresa mentre attorno a lei scoppiavano fragorose risate.

 Ho vinto!

 Una farfalla viola svolazzò malamente verso di loro, forse senza accorgersi che una delle sue ali era già mezzo consumata dal fuoco.

HovintoHovintoHovin-

 Bruciò come un pezzo di carta e cadde al suolo sporcando l’erba di altra cenere nera.

Le farfalle che erano dietro di lei risero più forte con le loro voci zuccherine, e volteggiarono leggiadre e sbatterono le ali tra loro come se stessero applaudendo.

 Ha perso!

Ha perso!
Giochiamo?

Giochiamo ancora?
Facciamo giocare Mila!
Tocca a Mila!

Gioca Mila!

 Mila tremava, guardando i resti di farfalle che sembravano continuare a ridacchiare tra quelle briciole che puzzavano di carne troppo cotta. Tutto ciò a cui riuscì a pensare, nella sua testa assolutamente sconvolta, fu a un drago, di quelli cattivi con gli occhi rossi che brillano nell’ombra e il respiro di fuoco che brucia le sue prede prima di mangiarle.
La gola si seccò, un gelido e terribile terrore tornò a ghiacciarle le ossa fino a farle tremare violentemente sotto la carne, e le dita delle mani tremarono mentre cercava di poggiare i palmi a terra per alzarsi e per scappare; scivolò ancora, e ancora, e poi si mise in piedi e prima di riuscire a fare un solo passo in avanti un ronzio troppo forte le perforò le orecchio e tutto iniziò a girare, la terra si rovesciò con violenza e la sua fronte sfiorò fili d’erba piegati verso il basso dalle sue grida.

Se perdi bruci! Se perdi bruci!
Vediamo come diventa nera!
Vediamo quanto puzza la carne!
Giochiamo con Mila!
GiochiamoGiochiamoGiochiamo!

 Scombussolata e inorridita da quel mondo capovolto che vedeva a testa in giù, Mila tentò d'istinto di aggrapparsi al suolo e tese le mani in avanti per farlo, ma tanti, tantissimi, innumerevoli piccoli morsi di formica la ressero più forte e le impedirono di muoversi, e le facevano un male terribile se solo provava a farlo; avrebbe voluto scalciare per liberarsi da quelle strette così simili a pinze, ma più ci provava più le farfalle le portavano le gambe sopra la testa, dandole ancora dolore e facendola piangere sempre più forte.
Provò a cercare quella bianca, quella che le piaceva più di tutte le altre, mentre osservava un frullio appannato di grigiogialloverdeblurossoarancio fare le giravolte e ridere a crepapelle, ma fu come cercare una goccia nel mare.
Due farfalle di diverse sfumature di verde raccolsero Kala Nag per la coda e lo gettarono subito dentro la grotta, e poi raggiunsero mila, la morsero per un orecchio ciascuna, la alzarono da terra divertite dalle sue urla.

 Vecchio!
Vecchio!
Guarda che ti abbiamo portato!
Guardaguardaguardaquichetiabbiamoportatovecchio!

 “…Vi ho detto si sparire!”
Mila riconobbe una voce, una voce umana e severa che le sembrava dura e graffiata come il guscio di una tartaruga.
Avrebbe voluto parlare anche lei, avrebbe voluto chiedere aiuto, ma prima di riuscire ad aprir bocca le farfalle le lasciarono, e lei sbatté il mento a terra e rotolò nella polvere gemendo di dolore.
Si portò in ginocchio e pianse più forte, stringendo il viso con una mano mentre le risate sopra di lei si facevano più forti, più veloci, più lente e più quiete e infine sempre più lontane -HoVintoHoVintoHoVinto…!

Quando sembrava che se ne fossero andate, un tetro silenzio cadde addosso a Mila come un muro di mattoni, ma lei neanche ci fece caso: invece riprese a piangere stringendo con forza con le mani il punto che le faceva più male, pensando che avrebbe voluto correre dalla mamma e lasciarsi coccolare tra le sue braccia, che avrebbe voluto stringerla e cullarsi nel suo petto fino a quando tutto non fosse passato.
Allora pianse ancora, abbassò la faccia verso terra e continuò a piangere fino a consumarsi tutto il fiato in gola. Quando poi, continuando a singhiozzare, si ricordò del drago, Mila sussultò e spalancò gli occhi lucidi di lacrime e febbre e li rivolse al punto più scuro e profondo della grotta.
Afferrò Kala Nag e lo strinse al petto, cercando disperatamente di rimettersi in piedi, e quando si fu alzata e quando si guardò attorno, abituandosi subito alla penombra e alla roccia bollente che le stava bruciacchiando i piedi, una sporgente bocca vuota e due occhi di bottone si puntarono subito su di lei. L'aria, in quel momento, tornò subito a farsi di ghiaccio.

 "Chi saresti tu?"

 

 

 

 
















Onigiri






note autrice:





*La filastrocca di cui si parla a inizio capitolo è inventata di sana pianta: ma probabilmente l'avrete già capito tutti XD.


Orgl... questo capitolo non è uscito assolutamente come volevo -.-" ... ma ci tenevo ad aggiornare oggi, perché fra poco parto per seguire un lungo corso di lingua ebraica biblica e se tutto va bene tornerò sapendo leggere da destra verso sinistra *_*!
no be'..volevo dire che ci tenevo ad aggiornare prima di partire... *tossicchia*
 
Quidi chiedo scusa se stavolta con i ringraziamenti  -a lettori e commentatori-  sarò più frettolosa del solito, ma sappiate che vi ringrazio tutti davvero tantissimo!


Grazie a:



 darllenwr  :Grazie! Davvero, davvero, davvero! Sei sempre gentile, sempre attento, e questo mi riempie di gioia! La storia è all'inizio, ma anche se ci volessero altri cento capitoli (spero di no °-°) tutte le cose che sembrano(?) senza senso di quello che sto scrivendo verranno spiegate. Grazie infinite ancora =D

Lion of darkness : (Poi, scusa, mi sono accorta da poco che in realtà il tuo nickname è  S a r s a: hai cambiato tu il nome o sono io talmente rimbecillita da non essermene accorta?! Se è la seconda chiedo davvero scusa, ma sono tonta di natura! >>) non hai proprio nulla da scusarti, e sei sempre così gentile che appena leggo un tuo commento mi metto a saltellare sulla sedia facendo preoccupare non poco i miei genitori ^^". Ci sono tantissimi autori in questo sito che hanno davvero la stoffa degli scrittori, e al cui solo confronto io sono meno di una cacchettina di mosca, ma ti ringrazio: sei, lo ripeto, gentilissima *//*! Grazie!


Ovviamente, come sempre, grazie anche a tutti i lettori =). Con due giorni di ritardo, auguro un felicissimo 2011 a tutti ^_^ , (e una buona epifania, ovviamente)
Saluti,
*onigiri





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Capitolo 9
*** La Chiave ***


Legame
   Legame   
(Le pietre blu) 











Capitolo 8








I vecchi subiscon le ingiurie degli anni,
non sanno distinguere il vero dai sogni,
i vecchi non sanno, nel loro pensiero,
distinguer nei sogni il falso dal vero.
[...]
Il bimbo ristette, lo sguardo era triste,
e gli occhi guardavano cose mai viste
e poi disse al vecchio con voce sognante:
"Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!"

"Il vecchio e il bambino"- Francesco Guccini


















“…Chi è?”
 è?


“C’è qualcuno?”
qualcuno?


“Sei tu che mi chiami?”
chiami?


“Chi sei tu?”
tu?


“Non io, tu!”
tu! Io! Non c’è differenza


“Perché?”
perché io sono te


“E che significa?”
significa quello che ho detto


“… che anche tu ti chiami Mila?”

Mila siamo noi


“Siamo noi?!”
noi.


“Tu e io?”
io e tu.


“Ma dove Sei?”
sei…

“Sei qui?”
…qui…

“Sei qui dentro, Mila?”
…Mila







Non la toccare!

 

Ancor più di quella voce, a farla sussultare tanto da spalancare gli occhi fu il ritrovarsi Kala Nag tra i piedi e inciampare fino a reggersi con le mani sul terreno.

L’erba dentro la grotta era marrone, secca e friabile come grissini sottilissimi, e quando Mila la schiacciò col suo peso ne respirò un pugno di polvere dal sapore disgustoso

Tossicchiò, sorpresa, e strinse le palpebre quando granelli più piccoli di erba minacciarono di entrarle negli occhi. Si pulì con le mani la bocca e la faccia e si alzò barcollando così malamente sui piedi che per poco non ricadde di nuovo all’indietro. Nello scorgere Kala Nag a terra (quando le era caduto?) si affrettò a recuperarlo e a stringerlo al petto prima di alzare lo sguardo.

 

Il buio terribile che ricordava di quando le farfalle l’avevano lasciata cadere non c’era più: o almeno era più lieve, e stranamente morbido, come un velo di seta, grazie al fuoco  -un fuoco debolissimo dentro un cerchio di sassolini, che dondolava pigramente in un’unica fiamma seminascosta da due tronchi troppo grossi. Mila riuscì a guardarsi attorno e a restare interdetta dal curioso arredamento di quel posto.

Vide armi, innanzitutto: spade lance pugnali tridenti e sciabole appesi sulle pareti di roccia con spesse corde brune, splendenti, alla luce di quel fuoco, di un tale scarlatto da sembrare intrise di sangue ancora caldo. Alcune armi erano enormi, o terrificanti come il sogghigno dei mostri, altre erano buffe, con lame piccole, grandi, corte, lunghe, sottili, grosse, bianche nere rosse viola o trasparenti. Tra quelle armi, sparse in un modo disordinato, c’erano appesi tanti altri diversi oggetti  –pinze gigantesche,  tazzine da tè con i buchi,  mattonelle a forma di marsupi…  

E proprio di fronte a lei, la luce quasi accecante dell’entrata della grotta illuminava di grigio e bronzo il quadrato di terreno in cui ricordava che le farfalle l’avevano lasciata cadere prima di scappare.

Non ricordava, invece, di aver camminato. Non ricordava di aver superato l’uomo-drago-vecchio tanto da arrivare quasi alla fine di quella minuscola grotta.

E quando aveva acceso il fuoco?


Mila, trattenendo il fiato tra i denti, alzò piano lo sguardo verso il drago, e le ginocchia le tremarono furiosamente quando scorse il suo profilo in controluce.

 

Ne poteva scorgere la fronte, ampia e  -intuì-  colma di rughe:  i capelli, di un colore che non riuscì a distinguere bene, erano stretti sulla nuca per formare una strana coda che pareva un batuffolo di cotone, lasciando il resto della testa completamente calvo e lucido. Aveva anche un rivolo di barba, lungo e ondulato sulla punta di un mento piuttosto sporgente.
Quando lui raddrizzò la schiena, incrociando le gambe l’una sull’altra e tenendo le spalle un po’ curve, Mila indietreggiò senza nemmeno accorgersene. Lo sentì emettere un suono strano, basso, tra un ringhio e un sospiro, prima di vederlo afferrare qualcosa che doveva aver tenuto poggiato sulle ginocchia per tutto il tempo. Perfino con la luce fastidiosamente puntata negli occhi Mila riconobbe subito il profilo di una girandola.

Il drago scosse improvvisamente il capo, come colto da un brivido improvviso, e poi si irrigidì. Mila vide chiaramente le sue guance ossute gonfiarsi d’un tratto come palloncini fin quasi a diventare trasparenti, e poi stringere le labbra gialle e sporgerle in avanti, prima di sputare fuori tanto di quel fiato che se ne sentì perfino il suono del soffio.

La girandola che aveva avvicinato alla bocca iniziò subito a girare, e dal colore incomprensibile che aveva iniziò a diventare gialla, poi rossa, e poi brillò come una torcia di ogni più piccola sfumatura di scarlatto. Dalla girandola uscì fuori una colata di fiamme che inghiottì tutto il piccolo focolare sul pavimento, e bruciò tutti i sassolini che lo circondavano fino a renderli neri come il carbone: il tronco ancora verde si accese immediatamente e un fuoco intensissimo bruciò tutta l’aria di fumo.    

Mila ammutolì di fronte a quel prodigio, stringendo con forza Kala Nag al petto così forte da sentire dolore alle braccia. La gola le si seccò dalla paura non appena le tornarono in mente la fine che avevano fatto le farfalle dalla voce di zucchero e il gioco che volevano fare con lei.
Provò, tossendo per l’aria troppo calda e densa e sentendo gli occhi cominciare a bruciarle fastidiosamente, a guardarsi attorno, cercando la più piccola via d’uscita tra quelle inquietanti mura di pietra e terra.
Le pareti, il soffitto, le dettero l’impressione di essere finita nella bocca di un mostro, e il terrore d’essere cucinata nel fuoco e bruciata e mangiata cotta a puntino la fece tremare con forza mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.

 

“…Dannazione!”  lo sentì esclamare così all’improvviso da farla sussultare.  “Un’altra volta?!”
Il drago sbuffò con forza e con rabbia, seppur l’espressione neutra del suo volto non coincidesse minimamente col tono seccato della sua voce;  portò una mano sul suo rivolo di barba e lo schiaffeggiò con forza, facendo cadere al suolo scintille rosse e frammenti leggeri di peli bianchi bruciacchiati e borbottando qualcosa su quanto poco doveva sopportare il fuoco.
Con la grotta improvvisamente illuminata Mila riuscì a vedere meglio: molti oggetti che prima non aveva visto fecero un’improvvisa bella mostra sulle pareti in tutta la loro stranezza, il terreno luccicò di riflessi amaranto molto piacevoli, e scorse persino un tappeto, piccolo e, a guardarlo, fatto di qualcosa che doveva somigliare alla paglia, non distante dal cerchio di fuoco. Poteva persino vedere meglio il drago, e quando se ne accorse si premurò di studiare il suo aspetto in ogni particolare che poteva essere in grado di cogliere.

Si stupì un poco nel trovarlo diverso da come se lo era immaginato al buio: non c’erano squame, non zanne, non ali, nemmeno quei baffi lunghissimi e riccioluti sulle punte che aveva sempre visto nelle figure del suo libro. 

A guardarlo, in effetti, non aveva quasi nulla di diverso da un normale vecchietto: le orecchie erano lunghe, a punta, ed erano rugose e raggrinzite su se stesse come fossero foglie morte d’autunno pronte a lasciarsi portar via al minimo soffio di vento. Le guance erano ossute e spigolose, e le labbra parevano risucchiate dentro una bocca che, seguendo la curva del mento, sembrava sporgere troppo in avanti.
E anche il vestito che indossava era un po’ strano, con quella stoffa a righe color nero e muschio così ben piegato e stirato, ma anche così logoro e stropicciato, e dava quasi la stessa sensazione di rispetto e di ridicolo che le incuteva il suo stesso proprietario.
Gli avambracci scoperti si poggiavano sulle ginocchia, magri e nodosi come i rami di un albero spogliato dall’inverno.


 Solo quando il vecchio la guardò a sua volta, Mila sentì un brivido di paura scontrarsi con un altro di pura trepidazione: i suoi occhi non erano veri occhi. Erano grossi, rotondi, nerissimi bottoni.

Mila, tanto concentrata su quella figura da dimenticarsi di avere Kala Nag tra le braccia, facendolo quasi cadere a terra, ingoiò a vuoto, senza riuscire a decifrare la sua espressione così neutra e priva di ogni emozione.  

 

“E comunque” borbottò improvvisamente, il tempo di distogliere l’attenzione da lei per rivolgerla a un punto impreciso del terreno “non toccare mai più quella scatola, se non vuoi perderci l’anima.”

Si curvò in avanti con la schiena, poggiò la girandola sulle ginocchia e puntò il naso lunghissimo contro il fuoco senza aggiungere altro. Rimase fermo in quella posizione, con una mano sul mento a grattare via le ultime briciole di barba bruciacchiata, e se non fosse stato per quelle dita giallognole che si muovevano lentamente sarebbe sembrato che fosse diventato una statua.

Mila, osservandolo ancora, rispose alle sue parole solamente alzando le sopracciglia  -scatola?


Si guardò attorno con Kala Nag serrato contro la pancia, ma l’unica scatola che vide fu una lunga, stretta e marcita che a una prima occhiata sembrava più una semplice asse di legno.

Era proprio dietro di lei, mangiata in parte dalla massa informe di mille altri piccoli oggetti a cui non seppe dare né un vero nome né una funzione (come il coltello con le pinne, la fisarmonica a forma di cipolla, lo schiaccianoci a righe gialle che tappava una foglia grandissima): tanti di quelli l’affascinavano al punto da farle venir voglia di toccarli, ma non si azzardò nemmeno ad allungare una mano. Era un cumulo di cose estremamente disordinato, la superava tanto in altezza che per riuscire a vederne la cima dovette storcere il collo verso l’alto fino a sentirselo fastidiosamente stiracchiare. La probabile scatola di cui parlava il vecchio era tra gli oggetti che si trovavano più in basso, così insulsa rispetto a tutte le altre cose da non destarle la minima curiosità neanche guardandola.

Aveva provato a toccarla?!


Quando si rigirò verso il vecchio, lo trovò nella medesima posizione in cui lo aveva lasciato. “Cos’è?”

“Come?” il vecchio tolse la mano dal filo di barba e voltò la faccia verso la sua. Mila notò solo in quel momento che, quando parlava, non apriva la bocca: si muoveva soltanto, senza mai staccare le labbra, come se stesse succhiando un’acidissima caramella.  “Che hai detto?”

Mila abbassò la testa in una posizione di difesa “Cosa è?”

“Come?”

“Che cos’è?”

“Eh?!”

“CHE COSA È?!”

Non interrompermi! E non urlare, ci sento benissimo!”

 

Mila non trattenne un’occhiata stupefatta mentre il vecchio tornava a guardare il fuoco mugugnando qualcosa che lei non riuscì a capire. Le fiamme scoppiettarono sulle punte con più forza, coprendo per un momento il silenzio stranamente tiepido che aveva preso subito il posto di quella breve conversazione.

Abbassò lo sguardo verso Kala Nag e lo rialzò subito verso il vecchio, studiando la sua figura con una calma che nulla aveva a che fare con la paura che aveva provato fino a quel momento.

Ma sembrava così innocuo quel vecchio, seppur strano in ogni senso: nonostante la voce seccata (una voce bizzarra, poi, non molto dissimile dal borbottio dell’acqua bollente) nulla nel suo volto accennava un qualunque segno di rabbia, o nervosismo, o anche solo di fastidio. Nessuna delle rughe del volto si era mossa in alcun tipo di espressione, il colore giallo-grigiastro della pelle non aveva accennato a cambiare neppure per un momento.

A guardarlo così bene, in realtà, non sembrava avere nulla di cattivo o spaventoso. Mila iniziò persino a dimenticare che poteva essere un mostro che voleva metterla in pentola e cucinarla.

Non aveva molta esperienza con le persone anziane: le uniche due che conosceva bene erano la signora Sebastiana che le faceva da babysitter (una vecchietta noiosa e lacrimosa che Mila aveva imparato a sopportare solamente con l’abitudine) e l’inquilino che abitava al piano di sotto.  

Capitava spesso che Daniela o la signora Sebastiana la sgridassero perché faceva troppo tumore con le scarpe quando giocava dentro casa: Così disturbi il signor Bruno, Così fai arrabbiare il signor Bruno, Forse il signor Bruno sta già dormendo e non devi svegliarlo.

Ma anche quando non obbediva il signor Bruno non si arrabbiava mai con lei, non si era mai lamentato di essere stato svegliato o tantomeno disturbato dal troppo rumore del suo soffitto. In effetti, sembrava che per lui Mila non esistesse nemmeno: quando la incrociava da sola sulle scale passava oltre senza darle più di un’occhiata, e se lei provava a salutarlo giusto per vedere cosa sarebbe successo, lui non le rispondeva neppure – in quei casi adorava grugnire, il signor Bruno, o dondolare pigramente il capo come per scrollarsi una fastidiosa mosca di dosso. Rivolgeva la parola solamente a Daniela, e quando lo faceva parlava solo della moglie già morta che adorava coltivare le rose gialle o di un misterioso nipotino che nessuno del loro palazzo diceva d’aver mai visto.

Fu pensando al signor Bruno, a tutti i capelli grigiastri che circondavano il capo pelato come un aureola, e al fatto che gli avesse sempre dato più di centocinquanta anni che le scappò la domanda senza volerlo: “Ma tu sei tanto vecchio?”

 

Il Plop che esplose come uno sparo la spaventò tanto da farla subito indietreggiare senza neanche sapere cosa fosse successo. Mila sbatté le palpebre trattenendo un verso strozzato, e quando si accorse di come gli occhi  bottone del vecchio gli stavano penzolando davanti alla faccia aprì tanto la bocca da farle male alle guance.

Rimasero così per un poco, dondolando sotto la barba bruciacchiata del mento, attaccati a dove ci sarebbero dovute essere le orbite da un sottile e lungo groviglio bianco, simile a lana, per ciascuno. Il vecchio non si mosse, né si scompose per non avere più gli occhi cuciti sulla faccia, ma staccati   come quelli di una bambola rotta. Poi, in un gesto quasi improvviso, il vecchio scrollò le spalle, alzò la fronte verso l’alto e fece un verso strano, come quando si tira su col naso, e quei fili di lana oscillarono, e si accorciarono fino a sparire come spaghetti risucchiati dalle labbra, fino a quando i bottoni non tornarono al loro posto con un contemporaneo e simile Splotc: quasi nulla fosse mai accaduto, il vecchio si incurvò verso il fuoco, e scosse appena il capo in avanti e indietro.

 

E poi, con un gesto secco e improvviso del busto, si voltò verso di lei.

“Non te lo dico”

A Mila servì qualche secondo per riprendersi dallo stupore e capire che si stava riferendo alla sua domanda. “Perché no?”

Non interrompermi! Perché sei una mocciosa antipatica che non mi ha neanche detto chi fosse quando gliel’ho chiesto, ecco!”

Lo disse con un tono di voce tale da ricordare un bambino capriccioso, tanto che Mila si aspettò quasi che le facesse la linguaccia da un momento all’altro.

 “Ah…” nascose il mento dietro la testa di Kala Nag “Io sono Mila, ma tu ti chiami come il signor Bruno?”

 

“…io?!”

Il vecchio curvò le spalle e stiracchiò il braccio con la girandola in mano per spostare un pezzo di legno più al centro del fuoco, che gli rispose con un buffo grugnito. Mila osservò quel gesto allontanandosi appena nel sentire troppo caldo pizzicarle le caviglie.

Scosse il capo, come percorso da un brivido, prima di ritirare il braccio e tornare rigido come un blocco di pietra. Se tutt’a un tratto non avesse ricominciato a parlare, Mila avrebbe creduto che si fosse addormentato.

 

“Noi non abbiamo nomi, non ne abbiamo bisogno. Sono altri a darcene uno o due e noi scegliamo quello che ci piace di più. Per tanto tempo mi chiamavano Moloch e-”

“Moccio?”

“Ho detto Moloch! Vedi di non sbagliarlo!”

“Ma questi che cosa sono?”

Mila si osservò intorno girando su sé stessa col naso rivolto verso l’alto, fino a quando non si fermò e puntò il dito contro una parete a caso. Una specie di pettine a forma di casseruola inchiodata alla roccia fu l’oggetto che la colpì più di tutti “Che cos’è?”

 

Il vecchio Moloch emise un suono simile a uno sbuffo “Non lo vedi da te? Sono cose. Le ho fatte io.”

“A che servono le cose?”

“Le cose servono a fare altre cose. Non interrompermi! Però...” Moloch puntò il naso verso il fuoco e accarezzò la girandola che aveva appena poggiato sul grembo.  “non faccio una cosa da quando la mia preferita se la sono portata via”

 

Mila distolse lo sguardo dalla parete e lo osservò “E cos’era?”

“Era…”

Per qualche momento, si sentì solo lo scricchiolare del legno sotto i denti del fuoco. Moloch era tornato immobile, la testa appena inclinata verso una spalla, come una vecchia bambola di pezza. Nonostante nulla della sua faccia senza espressione fosse cambiato, c’era comunque qualcosa che riluceva tra le rughe e a cui Mila non riuscì a dare un nome: era come se Moloch, nonostante lei non riuscisse a vederlo, avesse appena assunto un’aria dolcemente estasiata. 

“Era… era il mio capolavoro, il mio orgoglio più grande!” le mani abbandonate sulle ginocchia tremarono d’un tratto “Non si può nemmeno immaginare a quale incanto, a quale meraviglia abbia dato vita! La sua lama, la sua luce… quella spada poteva spaccare il cuore di tutta la terra con il più innocente dei suoi colpi, poteva tagliare il cielo come fosse meno di un foglio di carta. Era una spada bellissima. Era stupenda! Era magnifica! Era-”

“Ma era come Excalibur?”

 

La magia che aveva acceso il volto di Moloch si spense come un fiammifero. La testa tornò curva in avanti e le braccia rigide come manici di scopa. Le rughe della fronte si indurirono visibilmente. “io avevo costruito questa spada, e ne ero così orgoglioso che volevo fosse un degno guerriero a impugnarla. Perché nelle mani sbagliate poteva succede un disastro. E poi perché era così bella, sai lo spreco nelle mani di uno spadaccino da due soldi?” Sembrò rabbrividire dal disgusto nel pronunciare quelle ultime parole.  “un mio simile è passato di qui, gli ho chiesto di tenermela per un po’ perché non volevo che me la prendessero e lui allora l’ha tenuta con sé. Uno sciocco. Sai cosa gli piaceva fare?”

Mila scosse il capo e lui continuò “Si nascondeva tra gli umani, poi sbucava fuori e li spaventava. Quando gli umani scappavano via a lui piaceva rincorrerli, e quando li prendeva li portava da qualche parte e si mangiava le loro teste. Sciocco!”  Moloch mosse la testa come per mimare il gesto di uno sputo “Quando il cibo non ti serve per vivere diventa un divertimento. E’ la cosa più noiosa tra tutti i tipi di mangiare.”

 

Mila sbattè le palpebre e ammutolì nel sentire quelle cose. Tutto ciò a cui riuscì a pensare fu al mostro sotto il letto di Roberto: lo immaginò sbucare fuori da un armadio, o da dietro una tenda, e sogghignare nelle tenebre e risucchiare la testa di qualcuno come un’oliva dallo stuzzicadenti. Quella scena inventata le strinse la gola in un laccio, le iniettò ghiaccio nel sangue, e Kala Nag quasi le scivolò dalle braccia.

Moloch non la guardò, e se anche poteva essersi accorto del suo improvviso turbamento, non ci badò affatto. Sembrò, anzi, a sua volta turbato da chissà quale pensiero “Me l’ha custodita, poi è arrivato lui” le mani ossute ricominciarono a tremare. Persino il fuoco, d’un tratto, sembrò ammutolire, e acquietarsi, spaventato da quel soffio rabbioso. “Quel piccolo, maledetto attaccabrighe, che passa la sua eternità a far risse e a seguire femmine! Era l’ultimo a cui avrei affidato la mia meravigliosa spada! Quel…”  Mila non ne fu molto sicura, ma le sembrò che Moloch, da dietro la sua bocca serrata, avesse appena ringhiato  “…quel maledetto Susanoo!”

 

Tornò il silenzio, duro e pesante come un muro di mattoni. Il tronco del fuoco si carbonizzò quasi del tutto, e Moloch, con un movimento lento della mano rugosa, lo sostituì con un altro che prese fuoco immediatamente.

Mila osservò quel gesto con un labbro incastrato tra i denti, e poi guardò Kala Nag voltandolo verso di lei.

un campanellino lontano iniziò a risuonarla nella testa, come il sottile ronzio di un insetto.

 ...Susanoo.

Susanoo.

Susanoo quello della favola?

“Susanoo quello della favola?” ripeté ad alta voce.

 

Moloch voltò la testa così velocemente che Mila sentì chiaramente il pericolante scricchiolio delle ossa del collo. Gli occhi di bottone così puntati su di lei la misero immediatamente a disagio. “L’hai già incontrato?”

Mila strinse Kala Nag contro il petto e ingoiò un pugno di saliva, senza capire se quello fosse un rimprovero o solo un'esclamazione di stupore “C’è nel libro di papà. Mamma mi ha letto la storia di lui che uccide il drago perché vuole mangiare la fidanzata e trova la spada nella sua coda”

Non interrompermi! Ma quale coda e coda! Quello semmai è l'altro idiota. E se proprio vuoi saperlo non era nemmeno un... come si chiama? Un drago!”

 

Moloch tornò a guardare il fuoco scuotendo la testa come un pendolo “Umani! Vi basta vedere una testa in più della vostra e subito dovete ricorrere alle vostre ridicole fandonie!”

“…che vuol dire fandonie?”

“E comunque” continuò lui senza risponderle “io lo so bene cos’è successo, sai? Si sono incontrati e hanno litigato, quelle due teste calde! E quello stupido che fa? Dice al moccioso: ‘Visto che oggi masticherò la tua testa, almeno ti lascerò il primo colpo'. Peccato che le teste le abbia perdute lui, e che il moccioso si sia preso la mia spada! Oh, la mia spada meravigliosa… potrebbe spaccare in due il cosmo, ma non la saprebbe usare nemmeno per affettare un quadratino di burro. Che spreco! Che vergogna! Povero me…”

 

 Mila lo guardò dondolare la testa e nascondere la fronte tra le dita sottilissime della mano, e per un momento tornò a ricordarle il vecchio signor Bruno di quando si accomodava su una seggiola del suo terrazzo per fare le parole crociate.
L’inquietudine che aveva provato fino ad allora scappò via nel sentire la fine di quel racconto: pensò che fosse come la favola che aveva ascoltato nel suo letto, di un mostro spaventoso e terribile e di un guerriero valoroso che lo sconfiggeva. Le venne anche in mente che nel suo libro c'era un'immagine del dio Susanoo: Daniela gliel’aveva fatta vedere prima di iniziare a leggere, mostrandole un uomo adulto, robusto, con i capelli e la barba nera e gli occhi simili a dolci profili di mandorla.
“Ma allora Susanoo è piccolo?”
“ …piccolo? Che domanda è?”
“E non puoi chiedergli per piacere di ridarti la spada?”
Lo sentì sospirare, senza guardarla e senza risponderle, tornando a massaggiare la pelle elastica e gialla delle tempie e borbottando nel frattempo qualcosa che suonava come "Umani!".

 

Mila sentì le gambe iniziare a pruderle di dolore, e si guardò in basso per vedere se poteva sedersi. Alzò un piede e notò che le dita e la pianta erano sporche di erba e di terra: pensò che sua madre si sarebbe arrabbiata e l’avrebbe sgridata perché stava camminando senza scarpe  -Le avrebbe dato ancora quella medicina cattiva?

Il ricordo di Daniela la incupì. “Signor Moccio…”

“Non chiamarmi signore!”

“Posso andare a casa ora?”


Il volto di Moloch, mentre ritornava a guardarla, rimase neutro, inespressivo come una maschera senza faccia. Solo in quel momento Mila notò che il suo groviglio di barba, quel pezzo che il fuoco aveva bruciato, era tornato come prima.

“Puoi?” la voce rugosa come corteccia aveva un tono seccato.
Ragazzina, mi stai solo disturbando, e prima ti levi dai piedi prima mi fai un grosso favore! ...anzi, ora che ricordo, prendi questa e vattene!”


In un gesto velocissimo, Mila lo vide togliersi qualcosa dal collo e passarlo sopra la testa, qualcosa simile a una sottile corda marrone che poi le lanciò con un movimento brusco della mano.
Un tintinnio metallico rimbombò nelle pareti della piccola grotta, e il rumore le esplose nelle orecchie come un tuono facendola sobbalzare per lo spavento.
Moloch tornò a guardare la parete davanti a lui, grattandosi il mento senza aggiungere altro.
Mila non ci aveva fatto caso prima, ma le sue unghie erano gialle e rossicce, ed erano sottili, rivestite di piccole crepe che davano quasi l'impressione che si sarebbero spezzate da un momento all'altro; ma erano anche lunghe, affilate, simili a lame di coltelli cosparse di ruggine.
Erano mani di belva che si piegava alla vecchiaia, ma che ancora potevano colpire, e tagliare, e affondare nella carne della preda e banchettare col suo sangue. Mila deglutì.

“E' un regalo” spiegò lui, senza guardarla e distraendola dai suoi pensieri.
“Quindi vedi di accettarlo e di sparire dalla mia vista! ...e non stare a guardarlo, prenditelo! Hai paura di una chiave?”
Mila studiò il pavimento, e quando trovò l’oggetto che le aveva lanciato scoprì che aveva ragione: era una chiave.
“Davvero me la dai?”si chinò e raccolse la corda con una sola mano, cercando di farla passare sopra la testa senza far cadere Kala Nag dalle sue braccia.
La chiave le arrivava fin sotto la pancia, e lei la prese tra le mani per avvicinarla al viso, studiandola in ogni particolare.


Era nera, sporca di terra, e l'odore di sudore e metallo era troppo pesante e cattivo da respirare.
Era diversa dalla chiave di casa sua o da quella del motorino della mamma: era molto grossa, e calda, senza denti o incavi, senza una forma particolare, senza l'ombra di un granello di peso.
Nel fissarla con tanta insistenza, lo sporco, d'improvviso, sembrò farsi splendente come onice, e lei sorrise quasi avesse tra le mani il più meraviglioso dei tesori.
“Che cosa apre?” chiese, senza smettere di guardarla.
“Come sarebbe?!” la voce di Moloch le giunse quasi scandalizzata  “Voi umani non sapete nemmeno usare una chiave? Apre una porta, no?”
“E quale porta?”
Mila alzò lo sguardo verso di lui, sentendolo emettere un suono che pareva un sospiro spazientito.
“...tutte. Quella chiave apre tutte le porte, anche quelle che non vedi. E ti porta dove più di tutti i posti desideri andare”
“Ma è una chiave magica?”  il solo pensiero la mandò in visibilio.
“Non fare domande stupide e levati di torno, ragazzina! La chiave ce l'hai, usala!”

Moloch tornò alla sua immobilità, fissando un punto impreciso davanti a lui. Mila si osservò attorno, lasciando scivolare lo sguardo sulle pareti e dovunque le capitasse di posare lo sguardo.
Si soffermò a studiare una ragnatela appesa in un angolo del soffitto, simile a un disordinato groviglio di lana, e la vista di un ragno nero con una coda da scorpione le bloccò il respiro e la fece indietreggiare di qualche passo.
Non distolse lo sguardo dall'animale fino a quando quello non si dissolse in un punto più buio della grotta.
“E dov'è la porta?”
“Qui non ce ne sono.”
“...e come ci torno a casa?”

La testa di Moloch cadde in avanti, come se stesse per staccarsi dal collo, e il mento sbatté con violenza contro la gola. Rimase pietrificato in quella posizione, e Mila lo guardò confusa. Se a un certo punto lui non avesse ricominciato a parlare, avrebbe creduto che si fosse addormentato.
“Ti ci porto io” mugolò il vecchio, sbuffando da dietro le labbra incollate.
“Se riesci a stare zitta per un po', ti riporto io a casa tua. Va bene?”
“Mi porti tu?”
Zitta, ti ho detto! Siediti lì e aspetta.”
Mila guardò lo strano tappeto di paglia che le stava indicando con la punta del naso, quello che, quando l'aveva visto entrando nella grotta, le era sembrato una specie di brutto zerbino.
“Cosa devo aspettare?”
Non interrompermi! Che mi venga la voglia di portarti a casa”

Mila, prendendo molto seriamente le sue parole, si coprì la bocca per non dire nulla, reggendo Kala Nag per la punta della proboscide con due dita dell'altra mano.
Quando passò davanti a Moloch, si accorse che odorava di cenere, e di acqua calda, e che il collo era lungo e molliccio come quello di una tartaruga.
Si sedette sul tappeto, scoprendolo più morbido di quanto sembrasse, e fece accomodare il suo sorridente peluche sulla stoffa dei pantaloni del pigiama.
incrociando le gambe, lasciò che il suo sguardo annegasse nel fuoco, mentre le fiamme si stiracchiavano incrinandosi e spaccandosi in schegge di luce fino a dissolversi nell’aria con sbuffi silenziosi, simili a mani tremanti che cercavano di allungarsi per afferrare il soffitto.
Sembravano schiocchi di lingua, colpi di frusta, serpenti imprigionati nella loro danza d'amore, e Mila si cullò di quei movimenti e del calore che la stava avvolgendo come una soffice coperta.
Non erano gialle e arancioni, come il fuoco di un caminetto, e non erano verdi e azzurre come quello di un fornello.
Non riusciva a trovare la più piccola sfumatura in quelle fiamme di rubino, dense come il sangue e dall’aria tenera come petali di rosa.   -...rosse! Se avesse potuto scegliere il colore, avrebbe chiesto alle farfalle delle ali rosse.


Si stese senza nemmeno pensarci, usando un braccio come cuscino, e chiuse gli occhi, cercando di capire come fosse quella luce cremisi se guardata da sotto le palpebre.
Si ricordò della chiave, e la prese senza guardarla, studiandola al tatto mentre la rigirava tra le dita delineandone i contorni con i piccoli polpastrelli; pensò che non aveva ancora detto "Grazie" al signor Moccio  (la mamma le diceva che bisogna sempre farlo quando si riceve un regalo)  , ma lui le aveva detto che se non avesse fatto silenzio non l'avrebbe portata a casa  -forse anche quella era una magia? 
Decise che lo avrebbe fatto dopo, e che gli avrebbe regalato qualcosa a sua volta.
Ma non Kala Nag; e nemmeno i libri che aveva portato a casa dello zio. Gli avrebbe dato il suo pacchetto di caramelle, se non le avesse già mangiate tutte.
Decise che la sua palla di Cip&Ciop gli sarebbe piaciuta, e che lei non ne avrebbe sentito troppo la mancanza.

Un silenzio piacevole regnò nella grotta per un tempo che lei non riuscì a contare, cullandola fin quasi a farla addormentare

 

 

“Quando mi ha detto che l'avrei incontrata, credevo stesse solo delirando”
La voce di Moloch le giunse lontana, come se stesse parlando da dietro una parete. Lei lo ascoltò senza aprire gli occhi, coccolata dal piacevole calore del fuoco e del sonno.
“E invece aveva ragione! Comincia un po' a farmi paura questa bambina.”

“Le hai dato la chiave?”


Pioveva?

Della polvere di roccia si staccò dal soffitto e volo sulla sua guancia, in granelli gelidi come gocce d’inverno.

Mila sussultò in silenzio e aprì gli occhi di scatto, mentre una voce, quella voce che sembrava il sussurro di un demonio o il fiato della morte dentro l'orecchio, le tagliò il respiro dentro la gola fino a farla sentire soffocare.
In un primo impulso, avrebbe voluto alzarsi e guardare chi avesse appena parlato, ma le gambe, serrate dalla paura fino al dolore, si rifiutarono di muoversi.
Quando Moloch ricominciò a parlare, si affrettò a richiudere gli occhi.

“Sì, sì, tranquillo. Tanto io non me ne facevo niente, non sono mai riuscito a usarla. Una volta ho barattato apposta una porta in cambio di un caccia cappelli da niente, ma non sono riuscito neppure a farla entrare nella serratura. Allora l'ho gettata nel fuoco, e con la maniglia ci ho fatto il manico di un coltello”
Ci fu silenzio, ed era tiepido e confortevole rispetto alla voce ghiacciata che Mila aveva sentito poco prima. La gola le si seccò tanto da bruciarle.

“...piuttosto, che ci fai qui? Non era mica in pericolo con me. Cioè... sì, stava per toccare la tua arma, ma l'ho fermata. E ci avrò anche fatto un pensierino quando l'ho vista, ma non l'ho nemmeno sfiorata.”
Silenzio.
Gelido, stavolta.
“…non guardarmi così! E' solo che è da un po' che non mangio, a volte ho voglia di sentire il sapore di un po' di carne tenera. Ma io odio i bambini! Gli umani me portavano sempre i loro figli in quei loro Tofet, ma mangiarli era terribile: puoi strappargli la lingua, e puoi anche bruciarla o affettarla e gettarla via lasciandola a marcire da qualche parte   -o almeno, io ho sempre fatto così- , ma ti sembra di sentirli ancora parlare e frignare fin dal fondo dello stomaco. Una cosa disgustosa!"
Mila lo sentì sbuffare, e per un attimo immaginò di vedere i suoi occhi di bottone staccarsi in un Plop come tappi di champagne e poi lasciarsi risucchiare dai fili dentro quelle inesistenti orbite di carne.
Rimase immobile, come se anche il suono troppo forte di un respiro avesse potuto ucciderla.
“E più piccoli sono, peggio è. Peccato che quelli dell'età giusta abbiano già la carne troppo dura per i miei denti. ...Ma dimmi, ho sentito che anche il moccioso vuole qualcosa da questa bambina. L'hai visto, per caso? Come sta la mia spada?”
Si sentì un ringhio sprezzante, leggero quanto uno spiffero di vento, bruciante come neve sulla pelle nuda.
Mila rabbrividì, cercando di non muoversi, stringendo le mani sudaticce in due piccoli pugni tremolanti.
“Va bene, ho capito, non andate ancora d'accordo. Ma fai piano...” la voce di Moloch si ridusse a un ruvido sussurro.
“Così la svegli.”


“E' già sveglia.”

 

 


Mila spalancò gli occhi scossa da un sussulto di terrore che le colpì il petto come un pugno, e le mani si artigliarono con forza sul lenzuolo.
Alzò la testa dal cuscino, cercando di riprendere fiato, guardando i pendenti del lampadario vorticarle sulla testa mentre si lasciavano schiaffeggiare da uno sbuffo più forte di corrente.
Quella stanza, come sempre, era troppo bianca per lei.
E i personaggi del quadro appeso alla parete erano come li aveva lasciati.


“...Mila!”

Si voltò, e fece giusto in tempo a vedere il volto della mamma, gli occhi spalancati e un pallore sulle guance piuttosto accentuato, prima di lasciarsi avvolgere dalle sue braccia e affondare il viso nella sua spalla e tra i capelli profumati di arancia.
“Oddio, Mila! Amore, Tesoro! Menomale, menomale...”


Da dietro la finestra , invece della luce tiepida del primo pomeriggio, iniziarono ad accendersi i bagliori dorati dell'alba.

 

 

 

 

 

 

 

 

 










 


 




Onigiri






note autrice:




Spiegazione : Moloch è associato alle culture di tutto il Medio Oriente, compresa Cartagine: a questo dio (che fose dio non era: forse Moloch è solo il nome che veniva dato ai sacrifici che facevano) venivano offerti bambini in luoghi sacri chiamati Tofet, luoghi che si possono trovare anche in Italia e che vengono menzionati anche nella Bibbia.
Per maggiori informazioni, potete guardare QUI


...stavolta ci ho messo davvero più tempo del previsto! °_° Il capitolo è stato un parto, a dispetto di quel che pensassi, e mi è anche venuto orrendo -.-" . I prossimi però dovrebbero arrivare molto più velocemente, o almeno lo spero ^^"
 
Ed ora: grazie infinite a... *-*



Hellister : Grazie! Davvero *_* quel capitolo era uno dei miei preferiti, e sapere che ti è piaciuto mi rende felicissima! Grazie ancora =)


 darllenwr  : Sei sempre gentile e attento nei tuoi commenti, e io non posso non adorarli ^^! Mi sento più ripetitiva di un disco rotto >>", ma non posso fare a meno di ringraziarti in continuazione. Spero che questo capitolo sia uscito un po' decente ^^" . Grazie ancora di cuore  =3

 S a r s a: eheheh, sono contenta che le farfalle siano state inquietanti e spaventose! +_+ Mi dispiace che in certi capitoli non ci sia molta azione, ma per quando c'è cerco di rifarmi di tutti i capitoli noiosi che hanno preteso la vostra pazienza >>". Grazie ancora ^_^


Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori: Buon carnevale in tremendo ritardo XD, e grazie, grazie e grazie infinite!
*fugge*,

*onigiri






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Capitolo 10
*** Piccolo re ***


Legame
   Legame   
(Le pietre blu) 











Capitolo 9









Siamo figli delle stelle e pronipoti del denaro.

Franco Battiato





 

 

 

 

 

 

 

Le sue labbra erano tinte di azzurro, come quelle delle sue amiche, come quelle di tutte le donne che aveva incontrato da quando aveva messo piede in quel posto.
Era solo una ragazzina, o forse una bambina vestita da adulta, con i capelli sciolti sulla schiena e la pelle scura che alla luce delle candele sembrava quasi splendere d’oro: persino i suoi modi di ridere, di stringergli la mano tra le sue e trascinarlo con sé in corridoi che lui non conosceva, avevano qualcosa di tremendamente infantile anche per l’età che dimostrava.
Parlava continuamente, gli indicava le stanze e gli spiegava la loro funzione, e quando lui la interrompeva per ringraziarla della spiegazione la sua bocca celeste si apriva in un sorriso felice disegnandole una  piccola fossetta sulla guancia sinistra.
Si chiamava Rhema, i suoi capelli erano rosa e il dentino che le mancava rendeva fischi le sue parole in un modo che aveva del buffo e del tenero.

Le altre due ragazzine, invece, rimasero in composto silenzio per la maggior parte del tempo, limitandosi a guardarlo dal basso e a ridacchiare fra loro senza spiegarne il motivo, azzardandosi solo ogni tanto a fargli qualche domanda improvvisa  -Le piace questo posto signore? Quanti anni ha signore? Si è già risposato, è fidanzato, ma è proprio vero che lei è benedetto signore?

Lui rispondeva appena, limitandosi a qualche cenno del capo quando non era costretto a usare la bocca, e cercando al contempo di seguire i discorsi di Rhema con finta attenzione e interesse forzato.
Spesso si distraeva, non ascoltava più, si perdeva nei suoi pensieri guardando un punto impreciso del pavimento: i colori dei tappeti scivolavano sotto i suoi sandali come acqua, e se si fosse fermato a studiarli vi avrebbe letto la storia dell’antica e sanguinaria divinità del fuoco, degli uomini e le donne che pregarono su una duna per dieci notte intere, dell’azzurro del cielo che si sciolse in pioggia di sabbia spegnendo per sempre quel malvagio regno infuocato.
E poi c’era il loro dio, la moglie Mahali, e se avesse continuato a guardare i disegni di quei tappeti avrebbe rivisto anche l’intera dinastia dei loro re, la stirpe di dei mortali dai capelli azzurri che da ragazzino lo aveva tanto affascinato e che ora, in un modo che gli risuonava quasi inquietante, era diventata parte anche della sua storia.

A volte, calpestando quelle figure ricamate che lo guardavano dal pavimento, Dhovir sentiva la paura afferrargli le dita dei piedi e risalire sulle gambe fino a fargli tremare le ginocchia, gelargli la carne del petto e scuotergli le spalle e tener ferma la testa bagnandogli la fronte di sudore ghiacciato: allora alzava lo sguardo e tratteneva i brividi a stento, e si chiedeva se fosse meglio voltarsi e scappare lontano finché era ancora in tempo per farlo.
A un certo punto, poi, si era persino dovuto fermare, perché si era accorto che le sue gambe si muovevano da sole e che non era più sicuro di sapere se stesse andando avanti o invece tornando indietro; alla ragazzina che gli aveva chiesto cosa stesse succedendo, aveva lanciato un’occhiata incerta come per domandarle la stessa cosa.


Dhovir si era quasi vergognato sotto gli sguardi di tre bambine che sembravano voler fare una colpa quel suo momento di distrazione  -e di paura, no, di vero e proprio terrore che lo stava ancora spremendo come un limone, ma questo loro non sembravano nemmeno immaginarlo- , e riprendendo a camminare cercò di stare più attento a dove stesse andando, se avanti o se invece indietro.
Quando temeva di ricominciare a perdersi troppo nei suoi pensieri provava a concentrarsi su qualcos’altro, sulla fila di candele appese sul soffitto, sulle pareti di vetro bianco simile a marmo lucido, sulle camere che Rhema gli indicava ogni dodici passi, quegli stessi dodici passi che doveva contare per arrivare da una finestra dall’altra  (finestre, non porte: loro le porte non sapevano neppure cosa fossero).

“Questa è una stanza per le preghiere,” lo fermò per indicarli una finestra che sembrava più imponente delle altre “però è solo per gli otto grandi sacerdoti, per il Dio e il patriarca. Noi non possiamo entrare o veniamo cacciate subito via”

“Ci sono tantissime stanze per le preghiere, qui.”

“In una stanza non possono entrare più di dieci persone. Per questo sono tante. Noi non possiamo neanche fermarci troppo qui davanti perché se pensano che stiamo origliando ci puniscono col bastone.” Rhema gli riprese la mano per trascinarlo via e Dhovir distolse lo sguardo dalla finestra per poggiarlo sui suoi capelli color caramella.
In quel momento scoprì anche, e si dette dello stupido per non essersene accorto prima, che le tre piccole ancelle portavano tutte la stessa veste bianca, pudica, di stoffa leggera ma pregiata, di quelle che bisognava allacciare al collo con un nodo lasciando vedere la schiena nuda, ma tenendo ben coperto il petto partendo dalla gola fino a scendere alle ginocchia.
Sua moglie, quando lo aveva sposato, non si era più potuta permettere abiti del genere: aveva scelto un compagno povero ed era diventata una donna povera, e come tale poteva indossare solo teli, di quelli spessi e ruvidi simili a brutti brandelli di sacco, tenendone i lembi legati con una pinza appena sotto le ali e lasciando scoperte le spalle e l’incavo dei seni ancora immaturi.
Il telo vecchio e stracciato che aveva indosso quando era morta l’avevano subito venduto a caro prezzo (solo una volta aveva visto il compratore, mentre ne baciava i bordi macchiati di sangue asciutto e impediva a un servo di prenderlo per paura che potesse sporcarlo) , e a lei invece avevano fatto indossare un abito meraviglioso che ancora, da dentro la sua spessa tomba trasparente, continuava a starle d’incanto.
Lui lo sapeva, andava alla Valle di Vetro e vagava tra quelle facce di donne incastonate nelle loro tombe ogni volta che poteva, solamente per lei, e ogni volta che la guardava la vedeva con indosso sempre lo stesso vestito –sempre la stessa lunghezza della gonna, la stessa forma delle maniche o lo stesso numero delle pieghe nella stoffa: imparare quelle cose a memoria non era stato tanto difficile.
Le prime volte aveva pianto, sbattendo pugni sulle ginocchia mentre si lasciava cadere nella sabbia gelata sprofondando tra i granelli d’argento, ma poi aveva smesso: c’erano momenti in cui una lacrima sfuggiva al suo controllo e gli rotolava comunque sulla guancia, ma subito l’asciugava col dorso della mano e si dava un colpo sulla pelle umida del volto in una punizione silenziosa.
Andava lì, tra mille altre lapidi di mille altre donne benedette che avevano dato al mondo la loro stirpe di re, guardava dal basso il corpo vuoto di sua moglie e poi, prendendo il fiato e il coraggio che gli servivano, si metteva a parlare. La salutava, innanzitutto, come se fosse andato a trovare un amico che non vedeva da tempo, e le raccontava tutto quello che non le aveva ancora detto nella visita precedente; oppure rimaneva in silenzio, perché ogni parola bloccata nella sua bocca gli sembrava così insensata, così stupida da dire e troppo difficile anche solo da pensare.
A volte, mentre parlava o stava zitto, la guardava, e la odiava, e in quelle occasioni avrebbe voluto urlarle contro e lanciarle addosso qualcosa -un sasso, uno sputo, un insulto: la odiava, poi ci ripensava, si rimproverava in silenzio e chiedeva scusa a bassa voce.
A Lhana non raccontava nulla di loro figlio, non lo menzionava nemmeno, nei suoi discorsi non esisteva nessun bambino di cui parlare ogni volta che andava a trovare sua moglie.
Per quel che gli riguardava, Dhovir aveva un figlio solamente da meno di tredici o dodici notti.
Quel pensiero lo terrorizzava, gli scuoteva le ossa dentro la carne come fossero sonagli, raffreddava la sua pelle quasi fosse una ruvida coperta di ghiaccio. Camminando con Rhema, quando stava zitto e i suoi attorno a lui si facevano opachi come voci senza parole, quel pensiero iniziava a diventare una specie di sussurro. Lo sentiva serpeggiare dall’orecchio fino al cervello e poi scendere sulle gambe e le caviglie come un prurito per convincerlo a fermarsi, a voltarsi, a scappare lontano  -che importa, gli diceva, che t’importa di queste bambine, di quegli uomini che ti hanno scortato fin qui, di chi ti sta aspettando, di un figlio assassino che non hai neanche mai visto in faccia?

E quando Rhema rallentò e gli disse che erano arrivati, quella voce si fermò con lui, e si congelò nella sua testa come un pesante blocco di cemento: quell’insistente suggerimento tacque all’improvviso e Dhovir si sentì improvvisamente perduto, abbandonato, come un bimbo che impara a camminare e non sente più la mano della madre che lo aiuta a stare in piedi.
C’era solo una ragazzina dalle gambe corte e brune ad indicargli la strada da seguire, e lui, con ancora la paura che lo atterriva come una possente gomitata allo stomaco, non riuscì a far altro che col capo quella direzione.
Tutte le finestre di quella specie di castello erano strette e molto alte, di una forma simile a un pentagono e sollevate a poco più di un metro dal pavimento, e per raggiungerle bisognava aprire le ali e levitare un poco da terra: non davano subito alla camera, ma a un piccolo corridoio spoglio illuminato da un’unica candela appesa sul soffitto.

La finestra che Rhema gli stava dicendo di oltrepassare non era diversa dalle altre, eppure nella testa di Dhovir pareva la più spaventosa di tutte.
Deglutì con un fremito, attraversò la finestra volando e piegò le ali nere dietro la schiena, e poi si girò verso le tre ragazzine che lo avevano scortato fin laggiù: sorrise loro dall’alto (anche se più che un sorriso risultò una brutta smorfia nervosa), le ringraziò per averlo accompagnato e si abbassò per sfiorare la testa di Rhema con la punta delle dita. Lei sorrise di fronte a quel gesto: “Noi qui non ci possiamo entrare, però dentro c’è il Sommo Khan che la sta aspettando e le terrà compagnia.”

“Grazie… per avermi fatto da guida.” Doveva essere un ringraziamento rivolto a tutte e tre le ancelle, ma non riuscì a non nascondere nello sguardo e nella voce una sincera predilezione per Rhema. Le altre due ragazzine dovettero essersene accorte, e se una non sembrò farci caso, l’altra le lanciò subito una silenziosa occhiata d’invidia.
Quando le vide andare via (Aveva pensato di fermarle, di chiamarle, Aspettate!, ho paura, aspettate, non lasciatemi qui da solo!) si girò verso la penombra di quel piccolo corridoio, e con un lamento di terrore incastrato dentro la gola che scalciava a forza per poter uscire fuori, Dhovir lo attraversò. Gli bastarono pochi -troppi!- passi per percorrerlo tutto: quando ci fu la tenda a sbarrargli il cammino si fermò, respirò pesantemente e cercò di smettere di far tremare tanto le ginocchia, e fissò quella tenda che aveva di fronte come se il rosso della stoffa dovesse avvolgerlo masticarlo e ingoiarlo da un momento all’altro.

Provò a chiudere gli occhi e cercò di calmare il respiro, ma non riuscì a fare nessuna delle due cose.
Poi sentì un rumore, un colpo di tosse arrochito dal catarro, e quel suono improvviso lo spaventò e lo fece avanzare d’impulso: alzò il braccio per spostare la tenda, senza pensare, e la luce della stanza inondò la penombra del corridoio facendogli socchiudere gli occhi per il fastidio.
La camera era grande, enorme: la sua intera casa ci sarebbe entrata per due o tre volte senza riuscire a occupare tutto quello spazio.
Le pareti erano senza decorazioni, di un splendete color dorato che faceva male alla testa, l’aria era calda e densa e odorava di fiori seccati (un aroma che veniva da un angolo della camera, dove c’era una vasca scavata nel pavimento che sbuffava sottile vapore grigiastro, e respirarlo era come ingoiare il fumo di una sigaretta), il soffitto era trasparente e a guardarlo dal basso sembrava stesse sfiorando la pancia del cielo, o che le lune rosse potessero romperlo al loro passaggio e precipitare dentro la camera fino a sprofondare nel pavimento  –così vicine e con quella forma a spicchio sembravano fissarlo con sospetto, come gli occhi di un gatto nascosto sotto un mobile mentre osserva un estraneo entrare in casa sua.

Dhovir studiò quel posto con così tanta attenzione che ci mise un po’ di tempo a rendersi conto della presenza di qualcun altro in quella stanza.

Ad aspettarlo c’era un vecchio, e quando se ne accorse quasi si spaventò nel vedere che lui aveva già alzato la testa per guardarlo.
Il vecchio era seduto su uno sgabello, con il gomito poggiato sul tavolo e il mento spinoso nascosto nel palmo di una mano; aveva uno di quegli abiti che si dovevano allacciare al collo, ed era tanto grande per lui da far sembrare che ci navigasse dentro, anche se il verde scuro della stoffa stava davvero benissimo sulla sua carnagione color corteccia.
Dhovir trattenne il respiro senza accorgersene, e la voglia di voltarsi, di uscire dalla camera e di scappare via tornò a prudergli fastidiosamente tutto il corpo dalla pianta dei piedi fino alla radice dei capelli: gli occhi del vecchio erano piccolissimi, così aguzzati da sembrare punte di spillo, freddi e duri come pietre, socchiusi in uno sguardo illeggibile e colore del ghiaccio.
Ignorando la sua gola secca, Dhovir provò a dire qualcosa come “Salve”, seppur sperasse che fosse lui a parlare per primo e dargli il benvenuto o informarlo che aveva sbagliato stanza e dargli una buona scusa per scappare lontano da lì: ma il suono che riuscì a sputare fuori risultò molto più roco e molto più basso di quanto avesse previsto, e non fu nemmeno sicuro di aver davvero pronunciato una qualche parola che fosse comprensibile.
Il vecchio alzò le sopraciglia e assottigliò lo sguardo, in un gesto che gli ricordò tremendamente l’espressione di suo padre quando cercava di concentrarsi su qualcosa.

 “Ah!” borbottò il vecchio ad alta voce, sbattendo le palpebre come per scacciare una briciola da un occhio. “Mi ricordo di te…”
Si stiracchiò come se si fosse appena alzato da letto e alzò il braccio abbandonato al suo fianco, rivelando stretto tra le dita  il collo di una bottiglia molto sottile.
Dhovir lo osservò raddrizzare la schiena , e non gli sembrò più tanto vecchio come aveva immaginato: le rughe del volto erano meno di quante ne aveva contate, e le braccia, seppur nodose e magre, sembravano ancora in forza come quelle di un giovane, e i denti non erano caduti o giallognoli o dondolanti come credeva che fossero, ma una fila completa dentro la bocca di un bianco che aveva dello straordinario.  
Se non fosse stato per la pancia gonfia, per le guance scavate nella carne, per le ali troppo grandi o per quello sguardo severo da vecchio!, avrebbe dimostrato molti anni in meno di quanti ne dovesse avere in realtà.
Si accorse che gli stava indicando qualcosa con un gesto poco percettibile della testa, e girando lo sguardo capì che si stava riferendo alla vasca nel pavimento.
“Per prima cosa” lo sentì borbottare, con una voce stranamente morbida per essere anche così roca  “devi lavarti. Poi ti aiuto a metterti l’abito, e meno male per te che te ne hanno fatto uno nuovo, quello vecchio si sarà allargato tantissimo dopo che quello lì ha passato una vita a star seduto e grattarsi la pancia come se il re qui fosse stato lui.”
Il vecchio scrollò il capo, come per cacciare via un pensiero fastidioso dal cervello, e tornò a sedersi comodo sul suo sgabello di vetro e a piegarsi verso il bordo del tavolo nella quasi identica posizione di quando Dhovir lo aveva trovato. Appoggiò la bottiglia davanti a lui, osservando l’ombra del liquido nero dondolarci pazzamente dentro fino a rallentare e tornare una superficie piatta e senza screpolature; si grattò il mento ignorando la barba malfatta, e poi tornò a osservare Dhovir ancora fermo davanti all’ingresso della stanza: la sua espressione, mentre ricambiava lo sguardo era un miscuglio tra il Non credo d’aver capito bene e il Devo aspettare che lei esca fuori?.
“’Mbè?” borbottò seccato, alzando la testa e il volume della voce. “Datti una mossa, e non guardarmi così! Non ho mica le ali bianche, io!”
Le guance di Dhovir si fecero bollenti, l’imbarazzo gli cadde addosso all’improvviso come un secchio d’acqua ghiacciata perché si sentì rimproverato come un bambino, perché gli sembrava che lo stesse trattando da stupido, e perché aveva capito che a detta di quel vecchio ora avrebbe dovuto spogliarsi sotto gli occhi di un perfetto sconosciuto.
L’idea lo infastidiva e lo metteva a disagio, e se non avesse sentito la lingua annodarsi sotto il palato avrebbe cercato di ribattere spiegando che si era già lavato a casa sua e che comunque non avrebbe fatto niente con lui nella stessa camera; ma il vecchio lo intimoriva, vedere il suo sguardo severe posarsi su di lui era come sentirsi lanciare addosso una raffica di pugni sulla faccia, e Dhovir era troppo mansueto di natura e troppo impaurito dalla situazione per rifiutarsi.
Così si avvicinò al bordo della vasca, dove un denso vapore gli entrò nel naso e nella gola facendogli venir voglia di tossire, e rigido di imbarazzo cominciò a sciogliere i lacci dei sandali di vetro –non erano suoi, glieli aveva dati una delle due piccole ancelle che lo avevano accompagnato lì e di cui non ricordava il nome, perché era sacrilegio entrare in quel luogo sacro coi piedi scalzi.
Cercò qualcosa nelle vicinanze, come una tenda o un mobile, per nascondersi: non trovò niente, e dovette accontentarsi del fatto che almeno il vecchio gli stava dando le spalle.
Slegò il nodo del telo che aveva stretto sulla vita, lo lasciò cadere ai suoi piedi rimanendo nudo, e con una vergogna tale addosso da fargli rizzare i capelli si inginocchiò sul bordo della vasca e si immerse nel fango fumante fino ai polpacci.
Rabbrividì con forza a quel contatto così piacevolmente caldo. Si sedette distendendo le gambe così che il fango grigiastro gli arrivasse all’ombelico, e poi ne raccolse un poco dentro le mani spalmandoselo lungo tutto il braccio sinistro.
Lasciò passare qualche momento di silenzio, pensando solo a coprirsi il corpo di melma profumata e a sentirla iniziare a indurirsi in certi punti della pelle del viso; cominciando, poi, a pensare che forse il vecchio se n'era andato, provò a girarsi col busto nella sua direzione, trovandolo ancora seduto sul suo sgabello e a dargli la schiena. Notò che aveva alzato la bottiglia davanti agli occhi, e che la stava facendo tremolare leggermente continuando a reggerla per il collo –forse gli piaceva guardarne il liquido ondeggiare violentemente all’interno, o forse era per sentirne il rumore che quel gesto provocava.

“Che c’è?” lo sentì dire d’un tratto, senza voltarsi, e Dhovir sussultò dallo spavento. “Hai qualcosa da chiedermi o ti piace solo guardarmi? Sei tu che hai le ali bianche per caso?!”
Le ali bianche le avevano solamente le donne, e dire che era un maschio ad averle era un modo quasi volgare per affermare che a quell'uomo piacevano altri uomini. Nel sentire quella domanda Dhovir arrossì senza accorgersene, sentendosi ancora imbarazzato, preso in giro, beccato in pieno con le mani infilate nel barattolo dei biscotti: il suo primo impulso fu quello di negare, e di dire che no, no, assolutamente!, non aveva nulla da domandargli e nemmeno gli piaceva guardarlo.
Invece aprì la bocca senza parlare e ingoiò quasi a forza una grossa boccata d’aria bollente. Si inumidì le labbra, si fece coraggio, si rilassò.
“…chi è lei?” chiese alla fine.
Lo vide non cambiare posizione mentre gli rispondeva   “Io? Sono uno che vive qui, e ho paura che finirò anche con l’ammuffirci in questo posto. Mi chiamano Khan, se è questo quello che ti interessa.” Khan lo fissò negli occhi costringendolo ad abbassare lo sguardo. “…tu sei molto giovane”

“io…”

“Sei poco più di un bambino. Probabilmente il più giovane dai tempi del sedicesimo re, quando il patriarca era un altro moccioso che lo stesso re aveva voluto con sé come amichetto di giochi. Lo sapevi questo?”
“Me l’hanno detto…” …un’infinità di volte!, avrebbe voluto aggiungere, ma non lo fece.
L'aver cominciato una conversazione, incredibilmente, lo fece sentire meglio. Come quando si cerca di accarezzare un animale dall’aria feroce, e se anche il primo impulso è quello di ritirare la mano, una volta toccato diventa così facile da sembrare naturale.
E preso quello stesso coraggio, Dhovir tentò un’altra domanda: “Senta…”
“Nh?”
“Prima ha detto che si ricorda di me. Mi stava…” …prendendo in giro?. Non lo disse. “…era uno scherzo?”
Ragazzino!”

Per la prima volta dopo tanto tempo, qualcuno  non lo chiamò ‘Signore’.
“…se proprio dobbiamo cominciare a conoscerci, la prima cosa che devi sapere di me è che non scherzo mai quando parlo”.
Khan, con un gesto secco come un colpo di frusta, ruotò la bottiglia e la portò alla bocca (si era messo di profilo, e Dhovir osservo con curiosità il suo pomo d’Adamo che saliva e scendeva ad ogni sorsata), ne svuotò metà di quello che c’era rimasto, poi sospirò e si leccò le labbra con aria soddisfatta.
“Non parlo a qualcuno per sfotterlo, io! E’ vero che ti ricordo, sai perché? Ero in prima fila all’ultima riunione del Consiglio. Forse sei tu che non mi hai notato”
Dhovir corrugò le sopraciglia. Cercò di ricordare qualcosa, ma non gli venne in mente nulla che potesse ricondurlo a Khan “Siete un sacerdote?”
“Lo ero, in realtà. Se è per questo ero anche un pezzo grosso, prima di ritirarmi. Ma mi trattano ancora come si deve. Tu però non credere che m’impicci degli affari loro o vada a tutte quelle riunioni di pisciasotto da tagliarsi le vene per la noia! Mi hanno fatto intrufolare per quella volta perché ero curioso di vedere chi avrebbero scelto come nuovo Patriarca. Quello di prima era anche mio fratello, ma faceva schifo…”
Assimilando quelle ultime parole, il volto di Dhovir si scolorì d’un tratto “L-Lei è…?!”
Ero, ragazzino: ti ricordo che è morto, pace all’anima sua.”

L’ultima cosa che Dhovir rammentava del Grande Patriarca era l’averlo visto da lontano mente sollevava con un gesto trionfale un neonato verso il cielo. Ricordava quasi tutto di quella notte, i granelli di sabbia che piangevano, la gente che si inginocchiava, le ancelle che invocavano la fortuna, e persino –Lhana, Lhana, Lhana!- l’espressione del vecchio che aveva guardato negli occhi prima che portassero via suo figlio dalla sua vita. Studiando Khan con più attenzione, scoprì con un brivido che avevano l’identico profilo.
Khan alzò la bottiglia e la guardò brillare sotto la luce delle candele e delle lune rosse –che si erano spostate, e invece di un paio d’occhi curiosi ora parevano due tagli nel cielo simili a ferite sanguinanti.
Bevve un altro sorso, e poi, quasi d’un tratto, si piegò su se stesso e si mise a ridere con tanta forza che Dhovir per poco non rimbalzò in piedi dalla sorpresa.
“Accidenti, come faccio a dimenticarmi di te?! Discutevano tutti, nessuno la finiva e alla fine non si capiva neanche chi stesse parlando e chi no, e poi” rise ancora (anche se più che un riso sembrava una raffica di catarrosi colpi di tosse), piegandosi all’indietro e poggiando una mano sulla fronte.
“…e poi tu ti sei alzato… non hai detto nulla, ti sei solo messo in piedi e tutti si sono strozzati con la lingua pur di smettere di parlare! …ma tu non puoi capire, se non hai passato metà della tua vita in compagnia di gente come quella. Se anche te lo spiegassi non capiresti. Povero me, non ti dico io in quel momento, ho quasi rischiato di farmela sotto tanto mi stavo trattenendo dal ridere…”

Dhovir rimase immobile nel fango, un po’ stupito dalla reazione di Khan, un po’ spiazzato dal ricordo di quel giorno che gli crollò addosso all'improvviso come un muro di mattoni  -era in una sala rotonda, e le pareti erano completamente trasparenti: si vedeva tutta la capitale da quella sala, i quartieri più ricchi e i meravigliosi particolari delle case più costose, e poi una striscia di colore uniforme all’orizzonte dove vivevano quelli che non avevano denaro neanche per comprarsi un vestito da legarsi dietro al collo.
Ricordava d’aver preso posto in quello che sembrava il punto meno appariscente di tutti, che l’uomo affianco a lui aveva fissato con disgusto il suo telo legato alla vita che lasciava scoperto il petto ( Anche se in realtà ne aveva di abiti “buoni”: gliene avevano regalati a bizzeffe persone che in cambio volevano solo una carezza o una buona parola dal padre benedetto, ma non aveva mai osato neanche toccarli per gettarli nel fuoco tanto gli davano il voltastomaco), che poi qualcuno aveva cominciato a riconoscerlo e a non smettere mai di fissarlo.
Ricordava anche che a un certo punto un uomo anziano aveva preso la parola, che tutti si erano alzati, tutti urlavano, e che quando lui si era ritrovato in piedi cercando di balbettare qualcosa, nessuno aveva più emesso un fiato.

Lo sconosciuto affianco a lui aveva assunto un’espressione tremendamente buffa, era vero: ma nel ricordare quel giorno non riusciva a ridere come aveva appena fatto Khan.
Lo guardò, quando si accorse che aveva smesso, e lo vide fissarlo a sua volta: gli sembrò tornato l’uomo severo che lo aveva accolto in quella stanza coi suoi occhi ghiacciati.
“Tu eri un Lohh, ho ragione?”
Non c'era il disprezzo a cui lui era abituato nel sentire nominare un Lohh: quelli erano sacerdoti buoni giusto per cambiare l’olio nelle catinelle del fuoco, per pulire il pavimento del tempio e per prendere calci e insulti da chiunque avesse voglia di farlo.
Dhovir annuì senza parlare, portandosi un pugno di fango tra i capelli e sfregandoli con forza.
Altro silenzio: giusto il fango borbottava stancamente come per dirgli di sbrigarsi perché altrimenti si sarebbe raffreddato, ma lui lo ascoltò appena. Altri pensieri gli saltarono addosso per rubargli tutta l’attenzione: come il perché avesse deciso di presentarsi a una riunione del Consiglio dei Sacerdoti per decidere chi dovesse essere il nuovo Patriarca, per esempio.
“Lo sai” sentì dire, con voce seria; alzando lo sguardo verso Khan, lo vide dargli ancora le spalle e tornare a contemplare la sua bottiglia e il liquido ondeggiare pigramente nel fondo “…che se non fossi stato il padre del re non ti avrebbero permesso di entrare neanche nel cortile di questo posto, no?”
“Sì, lo so”

“Mhh…” Khan scrollò le spalle senza voltarsi  “un bel cambiamento, eh? Per questo ti sei proposto? Ne hai approfittato per lasciare quel lavoro ingrato alle spalle e goderti la vita, eh? O magari c’entra il nostro piccolo re? …anzi, non rispondermi, non lo voglio sapere!”.
Khan scosse il capo senza guardarlo, facendo ondeggiare la coda lunga fino alle scapole che teneva legati i capelli color bianco sporco.
Dhovir gli fu grato d’aver interrotto il discorso, perché cercare una risposta da dargli sarebbe stato tremendamente imbarazzante  -non era per un bambino assassino di cui era padre, non era perché stanco di pretendere di essere povero o della carica miserevole che ricopriva.
Però era da tempo, forse da quando aveva sentito che il Venerabile Patriarca era morto nel sonno, che quando andava a trovare sua moglie il volto di Lhana cominciava a sembrargli diverso dal solito: quando le si fermava di fronte a volte pareva che da sotto le palpebre chiuse gli stesse lanciando uno sguardo di rimprovero, o che la sua faccia si fosse distesa in un’espressione di tristezza e benevolo perdono, come quella di una madre che si sforza di perdonare il figlio per aver fatto qualcosa di sbagliato.
Ripensò a quel viso, a quello sguardo invisibile che brutalmente lo trafiggeva di sensi di colpa (Perché sei qui?, gli sembrava stesse pensando senza poter parlare, Dov’è lui? Perché non hai cura di lui?), e abbassò il capo lasciandosi sfuggire un sospiro incolore dalle labbra.

“…invece tu dovresti sapere una cosa” 
Khan si alzò in piedi, si stiracchiò la schiena, si avvicinò a un armadio di vetro di un colore simile a quello del suo vestito; sparì dietro un’anta mentre ci frugava dentro e continuò a parlare.
“…su tuo figlio intendo. Anzi, sui tutti quei re che tanto veneriamo. Quello che c’era prima… ho sentito in giro che ha fatto un sacco di opere buone per la capitale, che quella del sistema fognario nuovo era stata una sua idea, o che quando c’era stata quell’epidemia di febbre che ha ammazzato un bel mucchio di persone -terribile, davvero terribile… me la ricordo ancora!-  lui aveva passato notti insonnie e aveva digiunato per un anno per pregare l’epidemia di placare la sua collera…”
Dhovir ricominciò a spalmarsi il corpo di fango, fissando il punto in cui Khan era sparito e aspettando che continuasse a parlare. Quelle che stava dicendo erano cose note, suo padre e suo nonno avevano ammirato tantissimo le opere buone di quel re e lui li ascoltava con gli occhi spalancati quando gli raccontavano quelle storie. Suo padre gli aveva detto che anche lui si era ammalato, che era appena nato e con quella febbre tanto alta lo davano già per morto, e che così sarebbe successo se non fosse stato per gli sforzi del loro sovrano nel chiedere perdono e digiunare per il suo popolo.
Diventare un sacerdote, anche solo un umile ed inutile Lohh, gli era sembrato il minimo per dimostrare tutta la sua gratitudine a quel re che gli aveva salvato la vita.
“Be’, ragazzino, è bene che tu sappia che sono tutte balle!”
“…balle?!”

Non poteva vedere Khan, ma gli bastò ascoltare il cambiamento del suo tono di voce per immaginare in che modo si dovevano essere contorte le rughe del suo viso. Le ultime parole le aveva letteralmente ringhiate. “Io c’ero, cosa credi? Quelle belle idee per modernizzare il paese erano tutte quante di mio fratello, tutte quante! …e lui idiota citrullo che era a dare il merito a un mocciosetto che ancora pisciava a letto! E gli anni della febbre lui non ha né digiunato né detto una parola a nessuno per chi stava crepando: quegli anni li ha passati bello sorridente a fare un bel accidente per nessuno! Manco potevamo degnarci di dirgli che fuori c’era qualcuno che stava morendo: quelli del Consiglio hanno deciso che la cosa poteva turbarlo e l’hanno lasciato pacifico a rovinare la vita alle persone che stavano lì a baciarli i piedi quando lui li prendeva a calci!”
Khan uscì fuori con un telo bianco piegato su un braccio e un qualcosa di rosso scuro stretto nell’altro. Dondolava la testa, e teneva lo sguardo basso.
Quando arrivò vicino al bordo della vasca, fissò Dhovir negli occhi e ne studiò attentamente l’espressione del volto.
“E non guardarmi così! Che ti aspetti? Bambini che hanno la mamma morta e vengono allontanati dai parenti che gli sono rimasti, e che vengono trattati da imperatori ancor prima che imparino a gattonare o a muovere le ali. Non hai idea di quanto viziato possa diventare qualcuno e quanto ti devi trattenere dal dargli uno schiaffo per non ritrovarti con le mani tagliate per aver osato tanto!”
Poggiò il telo a terra  –da quella vicinanza, si poteva sentire l’odore del suo alito: bruciava agli occhi e al naso come una cipolla appena tagliata.
 “…ora sbrigati però, non abbiamo tutta la notte.”
Dhovir aspettò che si fosse allontanato abbastanza prima di uscire fuori dalla vasca: il fango si seccò quasi immediatamente sopra la pelle in maniera fastidiosa, rendendogli difficili i movimenti come se fosse diventato un pezzo di legno. Prese il suo telo stracciato e lo legò ai fianchi per coprirsi, e poi si chinò per raccogliere quello che Khan gli aveva procurato, aspettando che la poltiglia che aveva addosso si asciugasse completamente per potersela togliere.
“Ma…”
Cercò Khan con lo sguardo e lo trovò poggiato sul tavolo, mentre si slegava i capelli e ricominciava a farsi la coda, in un gesto incredibilmente fluido e veloce, come se per tutta la vita non avesse fatto nient’altro. Involontariamente, ingoiò un po’ di saliva per schiarirsi la gola, prima di continuare.
“…che vuol dire…”
…che ha rovinato la vita alle persone?

Dhovir tacque, non riuscendo ad aggiungere altro.
Il vecchio (non più Khan: ora, con quello sguardo, era di nuovo il “vecchio" che aveva visto quando era entrato in quella stanza) non lo guardò, non gli chiese neppure di finire la domanda, come se in realtà non avesse neppure aperto bocca.
Dhovir ebbe anche il tempo di aspettare che il fango si asciugasse completamente fino a staccarsi da solo, lasciando la pelle più pulita e profumata di prima, e di passare il telo pulito dove erano rimaste le briciole e pettinarsi i capelli asciutti con le dita per togliere la polverina grigia che c’era rimasta. 
“Signor…?”
Ragazzino!
Khan alzò la testa di scatto e gli lanciò un’occhiata che era tra il rimprovero e il divertito; si avvicinò a lui a grandi passi, e quando lo raggiunse gli mise tra le braccia la cosa rossa che stava reggendo fino a quel momento.
Dhovir lo guardò e lo tastò con le dita, scoprendo che era un abito dalla stoffa incredibilmente soffice.
“Se non ti sbrighi cominceranno la cerimonia senza di te, e quelli sono disposti a eleggere Patriarca il primo soprammobile che capita pur di averne uno alla svelta”
Ridacchiò della propria battuta con un sogghignando, voltandosi di nuovo e lasciando l’altro ad annuire molto nervosamente.
Dhovir faticò un poco nel cercare di indossare il suo primo abito da allacciare dietro il collo: il secondo tentativo, quando Khan decise di andare ad aiutarlo, fu molto più che soddisfacente.
Una volta messo addosso e aver iniziato a stirare le pieghe con le mani, provò a guardarsi dall’alto. Il vestito era così lungo da coprirgli le caviglie, dritto e leggero, con dei simboli cuciti sul petto che lì per lì non fu in grado di leggere. Era un abito fin troppo simile a quello che il vecchio

Patriarca aveva addosso al funerale di sua moglie; quel pensiero gli fece venire i brividi, ma fece finta di nulla.
Si infilò i sandali e li legò lungo il polpaccio molto frettolosamente fino a ottenere un groviglio disordinato di nodi  -Khan sbuffò e si inginocchiò per rimediare a quel disastro, facendolo sentire in imbarazzo ancora una volta: rialzandosi, borbottò qualcosa sulla sua schiena dolorante, e poi gli fece cenno di uscire dalla stanza con un movimento secco della testa. 
 Lui obbedì, ringraziando e salutando nel modo più educato che conosceva, scostando la teda rossa, attraversando il piccolo corridoio e saltando giù dalla finestra con un balzo, ritrovandosi nello stesso punto dove Rhema e le altre lo avevano lasciato.
Guardò il fondo del corridoio, e gli sembrò una terribile bocca squadrata pronta a ingoiarlo tutto intero senza lasciare neanche le ossa: la paura che aveva provato mentre veniva accompagnato fin lì lo assalì all’improvviso, come una belva nascosta per tendere un altro agguato.
La pelle dei piedi ricominciò a pizzicare fastidiosamente, in un formicolio che lo lasciò quasi atterrito sul posto: scappa ora, sussurrò la vocina nel suo cervello che fino a quel momento aveva taciuto, e il prurito freddo sottopelle si fece fastidioso come non mai.
“Che fai fermo, aspetti che qualcuno ti faccia una statua?”
Dhovir sussultò e si girò di scatto, mentre gli occhi minuscoli di Khan lo osservavano immobili e pungenti come spine.
Quell’occhiata che prima l’aveva intimorito ora ebbe lo stesso piacevole effetto del fango bollente sul corpo: il formicolio cessò, tanto che quasi si dimenticò d’averlo mai avuto.
“…viene anche lei?”
“Sapresti dove andare altrimenti?”

Dhovir non disse niente, perché la risposta era già ovvia e perché comunque non avrebbe avuto neanche il tempo per farlo.
Nella parete di fronte alla loro, a dodici passi di distanza, da una delle finestre a cinque lati e a mezzo metro dai disegni grezzi del tappeto, qualcuno cominciò a ridere ed attirò i loro sguardi nel punto da cui proveniva quella voce.
Uscì fuori una cosa piccola, una macchia azzurra che saltò fuori e poi rotolò leggermente sul pavimento e poi si alzò in piedi alzando le braccia per tenersi in equilibrio sui piedini minuscoli, e a Dhovir bastò sfiorarla con lo sguardo per sentirsi ghiacciare il sangue sotto la pelle.
La macchia scivolò goffamente e velocemente verso Khan, si nascose sotto il suo vestito abbracciandogli le ginocchia secche e ridendo sempre più forte.
Il vecchio guardò la scena con un sopraciglio alzato e un sorriso mal trattenuto sulle labbra screpolate.
“Oh!” fece, sogghignando e cercando di guardare la cosa appiccicata dietro le sue ginocchia.
“…credevo d’aver visto qualcuno venire qui, ma adesso non c’è più… come farà l’ancella a trovarlo?”
Il bambino saltellò sul posto, ridacchiando divertito e stringendosi alle gambe di Khan con forza maggiore, mentre dalla stessa finestra dove era uscito lui si affacciò una donna dai lunghi codini verde acido.
“…dov’è?” chiese, con lo sguardo disperato di un cucciolo picchiato col bastone, non appena si accorse della presenza di Khan: nel sentire la sua voce (un po’ ridicola, a dire il vero, come se parlasse col naso invece che con la bocca), il bambino malamente nascosto si fermò e rimase immobile, ma le sue risatine mal trattenute si sentivano lo stesso chiaramente.

La donna –che invece, uscendo, si scoprì essere una ragazza con la faccia da adulta-  guardò la forma di un paio d’ali piccole come quelle di un passero sotto la stoffa del vestito dell’uomo, e si affrettò a raggiungere il corridoio rischiando di sbattere il ginocchio contro il pavimento.
“Mio signore” balbettò, quasi piagnucolando, inginocchiandosi davanti alle gambe di Khan e cercando di guardare il bambino nascosto dentro il suo vestito. Non alzò un solo sguardo né su Khan, né su Dhovir.  “La prego, non si faccia vedere scalzo, o se la prenderanno con me…”.
“’Atte?!”
L’ancella si morse il labbro. “Ho già mandato qualcuno per portarvi il latte, mio…”
“’ATTE! ‘ATTE!”
Senza uscire dal suo nascondiglio, il bimbo cominciò a sbattere i piedi a terra –prima solo il destro, poi entrambi, man mano che la voce si faceva sempre più alta e tanto stridula da tapparsi le orecchie.
La donna balbettò qualcosa a voce bassa, guardandosi attorno quasi cercando aiuto (o, invece, forse temendo che qualcuno potesse arrivare proprio in quel momento e rimproverarla per aver fatto urlare il bambino) e muovendo le mani in avanti senza dare alcuna impressione di sapere cosa fare in casi come quelli.
Khan lanciò un’occhiata eloquente a Dhovir e poi alzò gli occhi al cielo, con un’espressione che sembrava voler dire “Hai visto, ragazzino? E poi non dire che non te l’avevo detto!”.
Poi smise, si accorse che lui non lo stava neanche guardando e che fissava le gambe grassocce del bimbo come se dovesse uscir fuori da un momento all’altro per azzannarlo alla gola;
Khan strinse le labbra nella bocca, e abbassò lo sguardo.
“Il piccolo re fa troppi capricci” commentò, con voce di scherno e di rimprovero allo stesso tempo: l’ancella smise di agitarsi e lo fissò dal basso, spalancando gli occhi incredula e disgustata come se lui avesse appena pronunciato una terribile eresia.
“…e sa bene che non dovrebbe vedere il nuovo Grande Patriarca prima della cerimonia, non è così?”
Il bambino si fermò immediatamente, e Dhovir inorridì, sentì il sangue schizzare pazzamente nelle vene e la terra sbriciolarsi sotto la suola dei sandali.

 Il prurito alle gambe divenne un brivido, un tremito possente, e poi la sensazione di essersi appena svegliato e di ritrovarsi sull’orlo di un burrone.  

Scappa, gli sussurrò una vocina sottile che gli trafisse i timpani e il cranio come un ago
Scappa
Scappa
Scappascappascappascappaaa!

E Dhovir cominciò a fare il primo, tremolante passo all’indietro.

Ma fu l’unico.
Il piccolo re alzò i lembi del vestito di Khan, scoprendo le gambe magre fino appena sotto le ginocchia, e allungò il collo verso l’alto per riuscire a guardarlo in faccia.
Osservò Dhovir con la meraviglia dipinta nel viso, probabilmente attratto dal colore sanguineo del suo abito, e lo studiò con lo sguardo come se dovesse decidere se il suo nuovo giocattolo fosse un dono gradito oppure no. Anche Dhovir lo guardò, e qualcosa gli si strinse nel petto in una morsa bollente. Lo guardò, e si rese conto del tempo passato da quando aveva visto suo figlio, che l’assassino infante sorretto da un vecchio davanti alla tomba della madre non ci sarebbe stato mai più: ora sapeva reggersi in piedi, sapeva dire qualche parola e probabilmente riusciva già a sbattere le ali tra loro. Non era piccolo, brutto e cieco, con la pelle unta di pianto e la bocca distorta in una smorfia senza nome. Ora quella sua bocca sembrava fatta apposta per essere baciata, e la sua pelle era di un dolcissimo color nocciola e gli occhi lucidi splendevano di un blu ancor più stupefacente dei suoi capelli.
Il piccolo re continuò a osservarlo senza dir nulla, e l'ancella ne approfittò: si avvicinò alle sue spalle e riuscì a stringerselo al petto per impedirgli di scappare ancora.
Vedendo che non faceva storie, chiuse gli occhi sollevata e si alzò in piedi tenendolo in braccio.
“Scusate!” borbottò frettolosamente, senza guardarli, prima di voltarsi e accelerare il passo verso la stanza dalla quale erano usciti.
Prima di sparire oltre la finestra, però, il bambino si affacciò sopra la sua spalla spalancando gli occhi dietro i ciuffi di zaffiro della frangia, li fissò entrambi con attenzione e alzò la mano vicino alla guancia per salutarli al posto della donna.

Fu un momento.
Come era stato un momento quando tra la folla del tempio Lhana aveva ricambiato lo sguardo di Dhovir per la prima volta.
Un momento in cui Dhovir si accorse che il sorriso di suo figlio era identico a quello della madre.















 


 




Onigiri






note autrice:



Allora, allora...
prima di tutto ci tengo a rassicurare che questa storia ha (?) un senso: che ogni tanto appaiano questi esseri volanti o che il figlio di Dhovir sia già molto cresciuto dall'ultima volta che lo abbiamo lasciato, o che succedano tutte queste cose in generale @_@, è tutto calcolato e -spero presto- spiegato.
Però ci andrò molto piano con lo sbrogliare i numerosi misteri di questa storia u_u (...speriamo bene xD).

per il resto... bene, eccomici ritornata a Dhovir, ma dal prossimo si ricomincia con Mila =P. Questo capitolo così introspettivo non ha molto o nulla di soddisfacente, a parer mio >>"... spero non sia troppo noioso o non richieda una lettura troppo lenta. Se così è, chiedo scusa ç_ç.


Onde per cui... passerei ai ringraziamenti *___*! :



Hellister : eheheh, folle è il termine giusto xD, io stessa a volte fatico a star dietro a certi punti della trama. Sono contenta che Moloch ti sia piaciuto: spero che valga anche per i prossimi personaggi in arrivo. Grazie ancora ^^

 darllenwr  : Grazie, grazie, grazie infinite *_*! Ti dirò la verità sulle qualità anatomiche di Moloch: è quasi tutto frutto di uno scarabocchio che feci in un giorno di noia... per dire quanto sono orribili i disegni che faccio xD. E la chiave, la chiave... non la perderei di vista se fossi in voi. Grazie infinite ancora! ^-^

 S a r s a:  °///////° a, u, e... oddende, grazie!! come sei gentile >////>! No, davvero, non so che dire... poi se mi nomini Tim Burton vado letteralmente in corto circuito! ..no, sul serio, grazie mille e mille altri ancora #^___^#! Spero di non deluderti.


E infine, ovviamente, un grazie enormixximo a tutti i lettori!
Buon primo maggio =), e grazie ancora! 


*onigiri






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Capitolo 11
*** Nuvole ***


Legame
   Legame   
(Le pietre blu) 











Capitolo 10










Vanno
vengono
per una vera
mille sono finte
E si mettono lì tra noi e il cielo
per lasciarci soltanto una voglia di pioggia.

"Le Nuvole" - Fabrizio de André









 

C’era un favola che a Mila piaceva molto, una storia sul principino di un regno lontano che aveva fama d’essere molto saggio. Nel regno di suo padre dominava un grande malcontento, perché poveri e ricchi si lamentavano in continuazione della mancanza o di cibo, o di altro oro da contare: fu così che un giorno, esasperato, il sovrano decise di chiedere consiglio al principino suo figlio. “Bisogna fare come le nuvole sagge”, aveva subito detto lui: perché esistono tante nuvole stolte che si fermano sopra i mari o sopra i fiumi, che hanno già tanta acqua e non vale la pena di ascoltare se pretendono la pioggia.

 Mila, invece, pensò che le nuvole che stava guardando dalla finestra dovevano essere molto intelligenti, se avevano deciso di far piovere sulla terra.

In realtà non stava ancora piovendo, ma il cielo era denso e grigio come una coperta polverosa, e l’aria era pesante, umida, con un odore speziato d’erba bagnata simile a un piccolo prurito sul naso: che di lì a non molto sarebbe iniziato un acquazzone non vi erano molti dubbi.

Quel giorno faceva freddo, così freddo da convincere Daniela a farle indossare le calze di cotone e, sopra il pigiama, l’unico maglioncino che avevano dentro la valigia –e che in realtà era suo: aveva dovuto arrotolare le maniche e infilare gli orli dentro i pantaloni del pigiama per farlo star giusto. Mila aveva immediatamente odiato il maglioncino di sua madre: il tessuto pizzicava e pesava, e il colore era di un tristissimo giallo sbiadito, quello che il suo compagno di scuola Roberto avrebbe chiamato color scorreggia; l’unica cosa che le piaceva erano quei tre grossi bottoni a forma di fiore. Se li rigirava tra le mani immaginando che fossero veri e di poterne sentire persino l’odore, non di plastica ma di rosa. Le piaceva contare i petali di ciascuno con le dita mentre nel frattempo guardava fuori dalla finestra.

  Studiava le nuvole perché aveva pensato di non aver mai visto il momento esatto in cui cade la pioggia, ed era curiosa di sapere come sarebbe successo  –C’era qualcuno nascosto nel cielo che la gettava giù?

Erano buffe, alcune scure e altre che parevano come fatte di luce. C’erano tante facce tra le nuvole: una somigliava a un carciofo dall’allegro volto rotondo, un’altra sorrideva con la sua cascata di riccioli bianchi sulla testa e il lungo naso da aristocratico, e un’altra teneva gli occhi chiusi e scuoteva lentamente il capo mentre esibiva sulla fronte altissima il suo turbante color fumo.

E poi ce n’era un’altra che cambiava sempre faccia, mentre osservava dall’alto il bosco e il prato, e a volte sembrava un buffo esserino dagli occhi quadrati, e poi un orco con le corna, e poi uno gnomo, e un folletto e un pollo e un drago e una nave dalle vele spiegate che poi si staccavano per diventare solo fazzoletti di carta.

Mila sbuffò, perché il maglione le faceva prurito e perché la mamma, dopo averle fatto fare quel bagno quasi bollente, le aveva raccolto all’indietro la frangetta con una piccola pinza che ora le stava facendo male, ma che non osava togliersi per paura di farla arrabbiare.

Se si toccava i capelli profumati di caldo e di shampoo  -quello di Biancaneve che avevano portato da casa-   , poteva sentirne le punte ancora umide appiccicarsi alle dita e bagnarle la pelle dei polpastrelli. Le piaceva la sensazione, anche se poi cominciarono a darle fastidio quei sottili  rivoli d’acqua che dal dorso della mano le si stavano infilando sotto la manica del pigiama e poi lungo tutto il braccio. Così lasciò presto anche quel gioco per concentrarsi ancora sul paesaggio, che però cominciava già a risultarle noioso, senza la pioggia che sperava arrivasse presto.

Cielo grigio. Tempo brutto, pensò d’un tratto.

 

Piove, piove dappertutto.

Fan la doccia i fiorellini

nelle aiuole dei giardini

e, nell'orto, il seminato

 

“E nell’orto il seminato…” canticchiò a voce, ma scoprì di non ricordare il resto.

Se si fosse fatta interrogare senza saper completare la poesia, maestra Cristina si sarebbe arrabbiata tantissimo: lei, a chi non svolgeva bene i compiti per casa, scriveva un grande zero sul diario con la penna rossa, e poi diceva con quella sua voce potentissima che sotto ci voleva vedere la firma dei genitori  –le ricordava la Regina di Cuori del Paese delle Meraviglie quando urlava così, ma non era mai riuscita a confessarglielo.

Pensando a maestra Cristina e alla sua grande bocca squadrata, Mila si voltò nella sedia per guardare l’armadio, pensando sia che avrebbe potuto prendere il libro delle vacanze per fare qualche esercizio, sia che dopotutto non aveva alcuna voglia di farne.

 

“Tesoro”

Daniela si era fermata sullo stipite della porta del bagno, passando una mano umida sopra le palpebre socchiuse e cercando a stento di trattenere uno sbadiglio tra i denti.

La vista sfuggevole del loro letto ancora sfatto era un piacevole invito a lasciarsi cadere sul materasso e accoccolarsi tra i cuscini come un gatto, ma si sforzò di ignorare quella piccola tentazione mentre cercava il volto della figlia con lo sguardo.

“…che stai guardando? Non stare lì.”

Mila obbedì, saltando giù dalla sedia e precipitandosi verso di lei: Daniela la raccolse tra le braccia e la sollevò, portandola all’altezza del suo volto e accarezzandole piano i capelli della nuca.

“Come ti senti, amore?”

Mila annuì senza dir nulla, guardando le labbra della mamma per studiarne i movimenti mentre le parlava.

“…bene?! Tesoro, hai dormito tantissimo, sai? E ti sei pure agitata tanto.”

Daniela guardò sua figlia scuotere il capo e portare le braccia attorno al suo collo, per poi nascondere il viso dietro la sua spalla alla ricerca di qualche piccola coccola.

Non insistette, immaginando che con molta probabilità Mila avrebbe continuato rivolgersi a lei con gesti o monosillabi, e preferì lasciar cadere subito il discorso piuttosto che cercare di decifrare i suoi sguardi e le sue smorfie per ottenere una risposta.

Le coprì la schiena con una mano e la strinse a sé, facendola dondolare sulle braccia mentre percorreva distrattamente la stanza a piccoli passi.

Quando arrivò davanti alla finestra, Daniela guardò il paesaggio, come aspettandosi di vedere la pioggia che tanto sembrava voler farsi attendere o un’inaspettata schiarita che avrebbe potuto migliorare la giornata.

Ma continuavano ad esserci solamente le nuvole, in un cielo insabbiato da un infinito deserto di cenere. Ce n’era una più bassa delle altre, una nuvola solitaria che sembrava pronta a lasciarsi cadere a terra, lenta e gonfia come fosse un lenzuolo: e poi quella nuvola si stese, si stiracchiò fino a strapparsi e bucarsi, e due occhi rotondi scivolarono dalla fronte fino al naso di quella faccia improvvisata, un ghigno bianchissimo si distese nella sua bocca da spettro fino a spalancare le fauci.

Daniela dette le spalle alla finestra, ricominciando a camminare mentre cullava la bambina tra le braccia.

Pensò che quella mattina sembrava essere davvero troppo fredda (davvero troppo, per essere luglio), e che aveva fatto bene a decidere di far rimanere Mila a letto ancora per un giorno, anche se lei aveva tanto insistito per alzarsi e anche se sembrava essere già completamente guarita   -la febbre, la voce roca, le labbra secche, gli occhi lucidi e il naso rosso: era tutto passato, come se mai ci fosse nemmeno stato.

Ma anche se Mila sembrava davvero il ritratto della salute e non aveva voluto assolutamente saperne di rimanere a letto, Daniela non riusciva a dimenticare la paura provata nel vedere sua figlia distesa sulle coperte, a dare calci al vuoto in preda a terribili deliri: l’aveva sentita parlare nel sonno di farfalle, di spade, di bambini dalla lingua bruciata, con il piccolo corpo sudato e bollente come se stesse per prender fuoco. Quindici, forse anche sedici ore trascorse sul bordo di un letto a farsi portare bacinelle d’acqua ghiacciata, e a guardare la linea del termometro diventare più lunga ad ogni ora che passava.

Per fortuna c’era stata Natalie, e solo per questo Daniela non si era messa a piangere dalla disperazione.

La terza domestica di Amos era tornata non appena la febbre di Mila aveva iniziato a cuocerle brutalmente il corpo, e aveva gestito la situazione in maniera praticamente impeccabile: aveva spogliato Mila, le aveva fatto le spugnature, l’aveva avvolta in una coperta leggera quando le erano venuti i brividi e gliel’aveva tolta non appena quelli se ne erano andati. Natalie, poi, aveva un modo di fare autoritario che riportava facilmente all’ordine, e più di una volta era riuscita a non far andare Daniela nel panico quando anche tutti quei trattamenti non sembravano avere effetto.

Con lei, poi, c’era stato anche Amos. Non aveva contribuito molto alla cura, ma era rimasto a lungo seduto su una sedia osservando la nipote svenuta contorcersi per la febbre, come a volerla guarire con la forza dello sguardo: era stato accanto a Daniela e più di una volta l’aveva calmata, e quando lei aveva deciso di chiamare un’ambulanza glielo aveva subito sconsigliato. Le aveva detto che Mila aveva preso le medicine, che l’acqua col ghiaccio la stava raffreddando, e che con le attenzioni di Natalie di certo sarebbe guarita da sola.

E quasi per dare conferma alle sue parole, non aveva neanche finito di pronunciarle che Mila aveva smesso di parlare o di agitarsi, come fosse appena inciampata e precipitata in un sonno senza sogni, e la temperatura aveva gradualmente cominciato a calare. Quando la febbre era quasi passata le aveva messo un pigiama pulito, ed era stata tutta la notte a guardarla dormire. Fino all’alba, quando Mila si era seduta sul letto sveglia come non mai, e più fresca di una rosa aveva deciso che doveva alzarsi: Daniela non aveva voluto e tanto aveva cercato di farla rimanere sdraiata almeno fino a quando non sarebbe arrivato il dottore che Amos aveva deciso di chiamare: alla fine, complice la profonda stanchezza e il fatto che Mila sembrava davvero star meglio come diceva, l’aveva convinta a farle fare almeno un bagno caldo, e farle sgranchire un poco le gambe prima di rimettersi a letto.

Daniela però non era ancora tranquilla: non si intendeva di medicina, e se anche non era infrequente che Mila prendesse l’influenza non sapeva fino a che punto fosse normale che quaranta linee di febbre salissero e scendessero di colpo nel corso di meno di una giornata.

L’avrebbe portata da un medico, o a fare le analisi del sangue, non appena tornate a casa  -e anche per quella cosa, il sonnambulismo, doveva assolutamente rivolgersi a qualcuno per sapere cosa fare o se c’era il rischio che succedesse di nuovo.

Dischiudendo le labbra senza più riuscire a trattenere uno sbadiglio, Daniela dette un bacio leggero sulla guancia della figlia, scoprendo che stava giocherellando col suo ciondolo racchiudendolo in una mano e facendolo rotolare tra le dita.

Sorrise. “Ti piace?”

Mila non rispose ma annuì, guardando quel grosso occhio di Santa Lucia  imprigionato tra le sue dita come un tesoro nel suo forziere.

L’aveva già visto molte volte attorno al collo della mamma, e quando frugava nella sua scatola dei gioielli le piaceva guardarsi allo specchio e avvolgerlo attorno alla fronte come fosse il diadema di una principessa orientale.

Nel guardarlo in quel momento, a Mila tornò in mente la chiave che aveva sognato.

Quando si era svegliata, e quando le era tornato in mente il regalo che il Signor Moccio le aveva fatto nel sonno, l’aveva subito cercata: dentro la maglietta del pigiama, sotto le coperte, tra i cuscini, sul pavimento, aveva persino pensato che poteva essersi incastrata nel baldacchino di Kala Nag.

Ma non l’aveva trovata. Allora aveva provato a spiegarlo a Daniela, gliel’aveva descritta e più volte aveva chiesto se era davvero sicura, sicurasicurasicurissima di non averla proprio vista da nessuna parte: ma la risposta che ci guadagnava era sempre la stessa carezza sulla fronte. “Era solo un sogno” le aveva detto Daniela, con disarmante semplicità. Fu così convincente che Mila, nonostante avesse cercato di dire il contrario, finì col crederle: lo fece anche se ricordava bene di essersi svegliata con gli occhi ancora bruciati dal fumo.

Pensando a questo si grattò le palpebre con i pugni, e quando riaprì gli occhi si ritrovò sul letto, con le lenzuola tirate fino alle ginocchia e Kala Nag sdraiato sul suo cuscino. Daniela si sfilò la sua catenina e gliela fece indossare  “Ti sta bene” le disse, baciandole la fronte. “Me l’ha regalato mia nonna per la prima comunione. Lei aveva due case, sai? Una era in campagna, fatta con le pietre, ed era comodissima: faceva fresco d'estate e caldo d'inverno, l’adoravo. Poi ne aveva un'altra proprio davanti alla spiaggia. La mattina si alzava presto e raccoglieva tutto quello che trovava sulla sabbia, e poi molte cose me le regalava. Ha preso l’occhio di Santa Lucia più grande che ha trovato e ne ha fatto fare questa collanina. Ti sarebbe piaciuta, lo sai come si chiamava?”

Daniela le si sedette accanto, guardandola negli occhi nerissimi mentre le accarezzava i capelli accorgendosi di non averne asciugato bene le punte. Pensò di andare a prendere il phon dal bagno e ripassarglielo una seconda volta, ma lasciò perdere “…Massimiliana. Nonna Mila.”

Daniela godette di soddisfazione nel vedere la figlia lanciarle uno sguardo meravigliato. Sorrise della sua espressione così buffamente stupefatta e le sfiorò la testa e la guancia in un’unica carezza; nel farlo, lo sguardo le cadde sulla fede nuziale. Ricordò quasi subito la sera in cui sua nonna era tornata a casa dalla messa e lei le aveva raccontato di un tipo da sballo che aveva condiviso con lei il tavolino del bar perché era tutto pieno, e le aveva anche offerto il cappuccino: credeva che ne sarebbe stata contenta, e invece nonna Massimiliana si era arrabbiata tantissimo. Le aveva detto che non doveva mai accettare certe gentilezze da uomini adulti sconosciuti, e poi l’aveva mandata in camera con uno schiaffo. Daniela sorrise appena, un po’ nostalgica e un po’ divertita nel chiedersi come avrebbe reagito sua nonna se avesse scoperto che quel tipo da sballo lo aveva addirittura sposato.

“Andava matta per la marmellata di pomodoro” ricordò ad alta voce “anche se quando la faceva lei ci metteva sempre troppa vaniglia, ma la mangiavamo sempre insieme a merenda o a colazione. E’ buona, lo sai? Quando torniamo a casa ti insegno a farla…”

“La bisnonna?!” chiese Mila, continuando a giocherellare col ciondolo che la madre le aveva prestato.

“Sì, esatto, la tua bisnonna. Era la mamma della mia mamma, di tua nonna.”

“…e la nonna com’è?”.

Mila strinse le maniche de maglione, mordicchiandosi le labbra e fissando Daniela con impaziente curiosità.  Non sapeva nulla dei suoi nonni, ma anzi, prima di conoscere lo zio Amos non aveva mai nemmeno preso in considerazione l’idea di avere altri parenti al di fuori dei suoi genitori. E se anche non aveva mai sentito il bisogno di fare domande su sconosciuti altri membri della famiglia, in quel momento sentiva i brividi d’eccitazione sulle braccia tanta fu la voglia di saperne il più possibile.

Guardò sua madre sollevare le lenzuola e sistemarle una calza che le era scivolata via dal tallone “Non lo so, tesoro” spiegò Daniela senza guardarla “Dovremmo avere delle foto a casa, però la nonna se ne è andata quando io ero ancora molto piccola, sai?” si mise in piedi per stiracchiarsi la schiena, e vedendo che Mila stava allungando le braccia verso di lei la sollevò dal letto senza pensarci molto. Mila si lasciò prendere in braccio stringendosi forte al suo collo. Daniela da tempo usava sempre lo stesso sapone allo zolfo, uno specifico per la pelle grassa, ma quella volta odorava dello stesso shampoo di Biancaneve con cui le aveva lavato i capelli. Mila le annusò il collo trovando buonissimo l’effetto che aveva l’aroma del latte vanigliato sulla sua pelle. “Quanto piccola?” domandò alla madre senza guardarla.

“Ero appena nata. Ora non si dovrebbe morire più per avere un bambino, ma lei è sempre stata debole di salute. Il nonno mi ha chiamato come lei, Daniela”

“E il nonno com’è?”

Daniela non rispose, ma scostò subito la manica della maglietta per controllare l’ora dal suo orologio da polso. Forse perché la stanza si era fatta improvvisamente buia, ma ci mise molto più del solito per riuscire a decifrare le lancette. “Accidenti, sono già le otto e mezza?”

Come prima, iniziò a girovagare per la camera con sua figlia in braccio, cercandola con lo sguardo “Forse lo zio si è svegliato e tra poco verrà a vedere come stai. Lo sai che era molto preoccupato per te?”

Mila non gioì della notizia, aggrappandosi al braccio della madre con le labbra strette in una smorfia contrariata. Quando Daniela si avvicinò alla finestra e lì si fermò, Mila allungò il collo oltre la sua spalla e ci guardò subito fuori. Il vento si era alzato, gli alberi dondolavano ubriachi e gonfiavano tutte le loro foglie come pavoni vanitosi, e le nuvole non avevano più forma, ma si erano fatte così cupe e compatte da sembrare un enorme tappeto di cemento.

La pioggia era ancora un enorme blocco grigio incastrato nel cielo, ma era quasi certa di poterne lo stesso sentire l'odore di umido anche con la finestra chiusa.

Mila osservò il paesaggio aspettando che finalmente iniziasse a piovere, e Daniela, dando le spalle alla finestra, guardava invece  il pavimento, con un pugno di saliva intrappolato dentro la gola e le gambe barcollanti e deboli per il sonno.

Non pensava alla pioggia: Daniela pensava alla neve.

Pensava a fiocchi piccoli come punte di spillo, alle impronte dei suoi stivali lasciate sul marciapiede mischiate e calpestate da quelle di mille altri passanti, alle nuvolette di fumo che le impastavano la bocca di freddo e che sputava fuori in batuffoli di fiato bollente; ricordò un ombrello fradicio, una rampa di scale dai gradini scuri, il rumore di scarpe sfregate sullo zerbino, il portachiavi ovale con inciso il suo nome, la porta già aperta, il –Yesterday, love was such an easy game to play- suono arrugginito della televisione che l’aveva accolta dentro casa.

Neve.

Daniela scosse appena le spalle e socchiuse le labbra, e l’aria che ingoiò si fece pesante e aspra come una scorza di limone.

Non era neve, quella, ma da bambina il pavimento della sua vecchia cucina gliel’aveva sempre ricordata tanto: ci si sdraiava sopra e fingeva di avere una slitta sotto la pancia, e poi ci sbatteva le mani immaginando di poter prendere delle grumose palle di neve dalle mattonelle per lanciarle contro le sedie o contro la zia Emanuela che la faceva alzare perché ci doveva passare lo straccio. Daniela, da piccola, adorava immensamente le mattonelle della cucina: erano lisce, fresche, e lucide, e bianche.

E rosse.

“Mamma”

Mila la chiamò ancora, con voce sottile, stringendo il ciondolo nella mano e facendolo scivolare lungo la catenina dorata mentre ne assaggiava la consistenza con le piccole dita.

“Il nonno…?”

“E’ morto, Mila!”

Daniela rallentò il respiro  –non subito però: c’era ancora troppa neve tra i suoi pensieri per pensare alla figlia-  e fissò Mila negli occhi, studiandone l’espressione stupita e ripetendo mentalmente cosa e come le aveva appena risposto. Si bloccò e spalancò gli occhi, stupefatta un po’ della sua reazione, un po’ dal fatto che quella reazione l’aveva avuta proprio di fronte a sua figlia. Quando Mila sembrò iniziare a chiederle qualcosa con lo sguardo, Daniela chiuse e aprì più volte la bocca, non sicura se in quel momento stesse impallidendo o invece arrossendo furiosamente.

“I-il nonno…” farfugliò, sorridendo impacciata e facendo dondolare Mila tra le braccia come per volerla far divertire. “…era …simpatico, molto. Quando avevo la tua età piaceva a tutti i miei compagni di classe, sai? E poi il nonno aveva una barba bianca tipo quella di Babbo Natale, era buffissimo la vigilia quando si metteva il costume  … e… poi lui… lui invece la odiava, la marmellata di pomodoro. Sai invece per che andava pazzo?”

Mila non seppe mai cosa piaceva tanto al nonno; forse la mamma glielo disse, ma lei non la sentì lo stesso.

Perché la prima risposta di Daniela le aveva ricordato qualcosa che aveva a che fare col suo sogno  “E’già sveglia”-, e le era quasi sembrato di sentirla ancora scorrerle dentro le orecchie come acqua ghiacciata, come se la stesse chiamando: e si era voltata, senza pensare, verso la finestra.

Mila quasi tremò di sorpresa quando vide qualcuno in un punto del prato che prima le era sembrato vuoto. Spalancò gli occhi, sussultò a bassa voce e trattenne il fiato dentro la bocca.

Non distolse lo sguardo fino a quando alla finestra non si sostituì la tenda e la parete, e la mamma, portandola verso il letto per farla stendere, non richiamò la sua attenzione per chiederle se voleva sentirsi leggere la favola del principino saggio.

 

 






Distolse lo sguardo dalla finestra rivolgendo  la sua attenzione al paesaggio, non preoccupandosi nemmeno di cosa stesse facendo la persona vicino a lui quando lo intravide alzare la mano e schioccare un dito nel vuoto: un movimento semicircolare dell’indice, il graffio di un’unghia appuntita sul vento, un rumore simile alla carta strappata seguito poi da un piccolo taglio.

Il taglio nell’aria si aprì come una bocca distorta in uno sbadiglio, si allargò fino a prendere la forma di un cerchio, cominciò a dondolare su se stesso quasi fosse indeciso se lasciarsi cadere al suolo o volare via come una bolla di sapone.

Una mano dell’uomo si immerse nel taglio rotondo fino al polso, e scomparve, come se si fosse fatta invisibile, frugandoci dentro come si fruga in una tasca.

Quando la mano si ritrasse, il taglio, tremando, si afflosciò su se stesso con un sibilo sofferente, fino a richiudersi senza nemmeno lo spettro di suono. 

E da qualche parte un uccellino riprese il suo concerto solitario, il vento smise di trattenere il fiato, il cielo grugnì con un flebile tuono lontano.

 

La piccola ballerina attese tra quelle fredde pareti di carne che la imprigionavano, rannicchiandosi su se stessa con la fronte sulle ginocchia e le mani intrecciate lungo le gambe sottili.

Quando il pugno si schiuse, uno schiaffo d’aria fresca le soffiò addosso vestendola di brividi, e lei alzò il viso senza faccia verso l’alto  –non aveva occhi, ma percepì comunque le dita aprirsi e il palmo della mano distendersi e appiattirsi sotto di lei.

Allora si alzò, e la luce pallida del mattino fece brillare il suo corpo d’acqua e di vetro; incrociò le caviglie, i quattro piedini sui due talloni si sfiorarono l’un l’altro,  raccolse le braccia a canestro e fece una piccola giravolta. 

Una melodia simile a una ninnananna sembrò levarsi dal nulla, disegnata dai dolci movimenti della piccola ballerina: come se ogni suo passo fosse una nota, e la sua danza fosse fatta di musica. 

Tin Tin Tin, cantava quella danza, Tin Tin Tin Tin Tin Tin Tin….

Ma lei non aveva orecchie, se non delle piccole sporgenze trasparenti ai lati della testa, e non poteva sentirla, non poteva sapere nemmeno cosa fosse o che ci fosse; non si accorse neppure che l’uomo che la stava tenendo in una mano aveva cominciato a parlare.

“…non ti ho ancora ringraziato”

Amos sorrise con dolcezza, distogliendo la sua attenzione da quella creaturina trasparente e alzando gli occhi scurissimi verso la figura vicino a lui.

L’altro uomo non ricambiò lo sguardo, l’espressione scocciata e austera del suo viso non si scompose affatto, e non uscì nemmeno il fiato più flebile dalle sue labbra serrate, come se le parole di Amos non gli avessero mai neppure sfiorato le orecchie.

Ma Amos sapeva che in realtà lo stava ascoltando, e che se aveva deciso di ignorarlo era perché non lo riteneva degno di ricevere attenzione da parte sua.

Inclinò appena la testa in un lato, e il suo sorriso si fece più largo tra le labbra ancor più pallide del solito.

Balder

Una creatura superba quanto divertente.

“Voglio dire…”  proseguì, con la sua dolcissima voce di miele, voltando la mano e lasciando che la piccola ballerina continuasse a danzare sul dorso e sulle nocche bianchissime. “Grazie, per aver deciso di concedermi il tuo aiuto”

Per un attimo, di nuovo, tutto tacque: persino le foglie degli alberi smisero subito di sfregarsi tra loro come mani alla ricerca di calore.

Balder, senza cambiare posizione, socchiuse le palpebre in uno sguardo feroce, e un ringhio vibrò pericolosamente dentro la sua gola minacciando di uscire, di spalancare le zanne che nascondeva dietro le labbra e di lasciar andare un ruggito terrificante.

Amos osservò il suo profilo, i vestiti che indossava e che (seppur non gli si addicevano molto) erano sistemati alla perfezione, i suoi occhi grigi ancora immobili verso il bosco, le labbra scure, la pelle di un colore che gli ricordava la madreperla.

Provocarlo era un modo molto efficace per riuscire ad attirare la sua attenzione, e Amos adorava provocarlo: era tremendamente divertente vedere, nei minuscoli mutamenti della sua espressione, il desiderio cieco di tagliarli la gola combattere contro la consapevolezza di non poterlo fare.

Ridacchiò a bassa voce e distolse lo sguardo, osservando distrattamente il cielo e le sue nuvole grigie come ombre di polvere.

Non c’era nient’altro, in quel mondo, che racchiudesse così tanti profumi in una sola volta: se dilatava le narici, e alzava il naso verso l’alto, poteva sentire l’odore di acqua, di terra, di foglie di pino e di fico, di elettricità, di sale, di ruggine, di frutta, di sabbia asciutta e di zucchero caldo.

Poveri umani, pensava allora: non erano in grado neanche di immaginare quale potesse essere la fragranza incantevole delle nuvole.

“Direi che è gentile da parte tua, considerando i nostri…” si passò un dito tra le labbra, divertito dal dover cercare una parola adeguata al suo discorso “…precedenti. Mi dispiace non capirne il perché, però. O il come fai a sapere sempre dove cercare la bambina. Sai cosa penserei, se non lo ritenessi impossibile?”

Amos sapeva che Balder non gli avrebbe mai risposto, ma fece comunque una pausa, come a voler dare un effetto più teatrale alle sue parole. “Legame.”

Sorrise, aspettando una reazione che, comunque, sapeva non sarebbe venuta: Balder infatti rimase immobile, con i capelli e i lembi della giacca in balia dei forti spruzzi di vento. Alzò appena il volto verso il cielo, osservando la pioggia ancora sbarrata dalle nuvole, con nelle orecchie quel fastidiosissimo tintinnio proveniente dal dorso della mano di Amos.

“ …ma forse sei tu a voler sapere cosa cerco da quell’umana e da sua figlia.”

Amos sorrise ancora quando Balder, finalmente, ricambiò il suo sguardo con un'occhiata indecifrabile.

Il vento si azzardò a soffiare con più forza, sollevandogli i ciuffi scuri  –chiari?-  della frangia verso l’alto, tirandoli all’indietro per poi lasciarli cadere sulle palpebre scure.

“…umana?” 

La voce era tagliente quanto i suoi occhi di ghiaccio.

Amos annuì e si appoggiò con la schiena al muro della casa, tornando a guardare la piccola ballerina sulla mano e contemplando con attenzione la musica dolcissima della sua danza.

“Umana, sì Balder. Anche se io per primo ammetto che non sembra… ha un odore così… particolare. L'hai notato anche tu, a quanto sembra.”

Sorrise, angelico e provocatore, e Balder sentì i muscoli delle dita dolergli dalla voglia di affondargli gli artigli nella carne della gola; invece si limitò a lanciargli uno sguardo d’avvertimento, e ad ingoiare quel disgustoso senso d’impotenza viscido come la pelle di un rospo, e a tornare ad ignorarlo per rifugiarsi ancora nelle sue silenziose riflessioni.

Particolare.

Sì, era così, era l’aggettivo giusto da dare all’odore asfissiante di quella donna.

L’aveva sentito quando erano arrivate lì, quando lei si era staccata dal taxi col ventro tra i capelli per andare a salutare Amos, quando si accarezzava il collo, quando si pettinava, quando rideva, quando apriva la finestra e cominciava a spogliarsi.

Era un profumo soffocante, nauseante, e di certo non buono. Ma nemmeno disgustoso come quello degli altri della la sua specie.

Quando Balder sentiva quell'odore, o anche solo immaginava di sentirlo,  gli tornavano alla mente tante cose che avrebbe volentieri dimenticato: erba coperta da ciuffi di capelli tagliati, voci, polvere, occhi umani sui suoi, mani umane sulle sue, labbra umane sulle sue.

Ringhiò appena, facendo scappare quei ricordi fastidiosi dalla sua testa.

Sentì ancora su di sé lo sguardo penetrante di Amos, ma continuò a ignorarlo.

“E’ umana” ripeté lui, più serio, come per ribadire il concetto. “Ma la domanda giusta, amico mio, è cosa sia la bambina”

Balder tornò a guardarlo una seconda volta, con un movimento veloce, lento, elegante, impercettibile del capo.

Un sopraciglio scivolò lungo la fronte, tracciando un’espressione ferocemente dubbiosa. “Lo sai che cos’è”

“Ma certo, certo che sì”  lo sguardo di Amos si fece morbido, la voce suonò leggera e carezzevole come una piuma. “Quello che mi chiedevo, però, è cosa mai quella bambina rappresenti per te…”

Balder non si preoccupò di lasciarlo concludere, e distolse lo sguardo, sprezzante.

“…tanto da renderti così cortese nei miei confronti da andare a correre a salvarla al posto mio”.

Le nuvole tuonarono ancora, come se il cielo avesse voluto rompersi e spaccarsi da un momento all’altro.

Amos avvicinò la mano sinistra alla destra, facendoci cadere sopra la piccola ballerina che mai una volta aveva interrotto la sua danza di musica.

Le sorrise, guardandola volteggiare sul palmo bianco anche mentre lui allungava il braccio verso il suo interlocutore, osservando i suoi passi farsi più frenetici, più nervosi, in un TinTinTinTin simile al suono confuso e argentino di mille campanellini.

“Quando sei venuto qui e hai iniziato ad aiutarmi –o vuoi intralciarmi? Confesso di non saperlo- non ho voluto dubitare che il tuo gesto sia dettato solamente dalla gentilezza, amico mio. Ma”  il sorriso di Amos si fece tagliente, i denti si aguzzarono come quelli di uno squalo “spero mi perdonerai se pongo fine a un mio piccolo dubbio.”

Balder non si voltò fino a quando non si accorse che la ballerina aveva cominciato a brillare.

Il suo corpo trasparente si fece opaco come vetro bruciato, la sua danza si concentrò su un unico punto della mano, il dolce tintinnio si trasformò in un’unica, stridulissima nota.

E poi la sua pelle d’acqua si illuminò come una lampadina, e la sua luce si fece circolare quasi fosse l’aureola di un angelo: dentro quella cornice di stelle Amos era caduto a terra, con gli occhi vuoti e il sangue nero che gli graffiava il corpo e la bocca, e Balder lo guardava dall’alto, gli artigli scaldati dalla carne e dal sangue che avevano appena assaggiato. E Ghignava .

Amos ritrasse la mano, socchiudendo gli occhi mentre rovesciava la testa all’indietro e si lasciava andare in una sonora risata.

La ballerina trasparente smise di brillare, danzò con dolcezza tra le dita di Amos fino al pollice, e con una piroetta si lanciò nel vuoto e atterrò delicatamente sulla ghiaia del terreno; nessuno badò a lei, e nessuno si preoccupò di fermarla mentre scappava ballando verso il prato, immergendosi nell’erba, col suono dei suoi passi che si faceva sempre più lontano, fino a sparire –tintintintintin….

“Oh, Balder…” sussurrò Amos, amabile, tra una risata e l’altra  -era così divertente tutto ciò che non ne poteva fare a meno.

“Non pensavo di essere io il centro dei tuoi pensieri”

Sorrise ancora, portando la mano tra i suoi lunghi boccoli neri per sistemarli dietro l’orecchio, e imitò Balder non badando alla sua reazione e guardando un punto impreciso del bosco.

Si grattò il mento con l’indice, pensieroso

“Che creature interessanti, non trovi? Di quelle che potresti uccidere con meno di un bacio, o con un sospiro troppo forte. Non sentono, non vedono nulla se non i desideri più nascosti di chi sta loro attorno…”

La sua espressione si fece più concentrata, e le labbra, per un solo momento, si strinsero tra loro dentro la bocca.

“Ti confesso, amico mio, che in realtà in quella danza avrei voluto vedere cosa mai ti interessasse tanto della bambina”

Un rumore simile a uno strappo sulla carta interruppe per un attimo il suo discorso.

“ma non fa nulla. Confido nel fatto che un giorno lo saprò lo stesso, e che forse scoprirò anche come ucciderti, mio caro Balder”.

Quando Amos, sistemandosi gli orli delle maniche della camicia, si voltò verso Balder, lui non c’era più.

 

La ballerina, con due giravolte, superò un altro filo d’erba, saltò su un sassolino e si mise sulle punte, e una goccia d’acqua precipitata dall’alto le spezzò un braccio; e un’altra il piede, e un’altra la testa, e un’altra spense la sua musica.

Le piccole gambe trasparenti continuarono le loro piroette anche mentre scappavano nella stessa direzione alla ricerca di un riparo. Danzarono fino a quando la pioggia non si rovesciò sul prato.

Della ballerina trasparente non rimasero neanche le briciole.

 

 

 

 

 

 














 


 




Onigiri






note autrice:



La canzone inseria nei ricordi di Daniela è quella dei Beatles... sperando comunque che fosse stato chiaro da subito >/>"
 Allordunque... e anche stavolta non ho spiegato niente di niente di cosa cavolo sta succedendo *_* !
...no, davvero, chiedo venia per starvi facendo attendere tanto per darvi uno straccio di spiegazione >.>! In realtà le spiegazioni sono tante, e ognuna ha il suo tempo per essere svelata... questo non rassicura, lo so, ma è così che andranno le cose. Non mi resta quindi che chiedere ancora una volta di aver pazienza ^__^  *schiva il primo pomodoro marcio*  e sperare che i capitoli siano lo stesso decenti.
Passando ad altro...

La favola del principino saggio è molto carina: non c'è molto in più da raccontare di quanto io non abbia già scritto nel capitolo, ma comunque se a qualcuno può interessare leggerla la trova Qui.
E Balder, Balder... nella storia ci metterò un po' a spiegare chi sia e non sia. Posso anticipare che il nome ha a che fare con la mitologia: se qualcuno vuole saperne di più, può dare un'occhiata Qua.

Ed ora, i ringraziamenti *__*!




 darllenwr  : ç//ç Grazie, come ogni volta che leggo uno dei tuoi bellissimi commenti: sono contenta perché da ciò che hai scritto mi sembra che quello che  hai provato sia esattamente quello che io volevo trasmettere attraverso il capitolo. So che Dhovir e la sua storia non sembrano c'entrare una cippa con Mila o con la storia, ma non è così... e spero di farlo capire presto. Grazie inifinite ancora, comunque ^_^: spero che quest'ultimo capitolo non ti abbia annoiato -Dho!  


E ovviamente, un grazie grandissimo anche a tutti i lettori giunti fin qui!  
Detto ciò...  auguro a tutti un buon primo giugno, e se non dovessi avere altre occasioni, buone vacanze estive a tutti!
E grazie, grazie mille ancora!


*onigiri






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Capitolo 12
*** Il bambino rosso ***


Legame
   Legame   
(Le pietre blu) 











Capitolo 11










Dopo aver guardato un temporale, alla domanda "Quante gocce di pioggia hai visto?", la risposta più adatta è "molte".
Non che il numero preciso non esista, ma non lo si può conoscere.

Ludwig Wittgenstein








In realtà non erano davvero due bambini: e se anche lo fossero stati, di certo non erano seduti, non stavano battendo le mani, non si stavano scambiando qualcosa, e neppure si stavano scontrando per sbaglio mentre giocavano a mosca cieca –perché quella sulla testa della figura rossa non era neanche una benda: era un cappello marrone con una piuma verde, e la visiera gli copriva il volto senza far vedere gli occhi.
Mila si era un po’ offesa, anche se tutte le avevano fatto i complimenti; se si era trattenuta dallo spiegare che quelli non erano bambini o macchie colorate a caso (e che non stavano giocando o tenendosi per mano e che non erano seduti ma in piedi tutti e due), era perché non voleva attirare l’attenzione di Natalie: perché Natalie, in un certo qual modo, le faceva paura.

Eppure il nome le era piaciuto così tanto, quando Sofia l’aveva pronunciato mentre diceva alla mamma che la sua collega stava arrivando con una colazione speciale per festeggiare la sua guarigione.
Trovava che Natalie fosse un suono dolce, delicato come una bolla di sapone: l’aveva ripetuto mentalmente più e più volte, aveva provato a imitare la pronuncia con le labbra quando nessuno la stava guardando, dondolando i piedi con quasi impazienza da oltre il bordo del letto.

Fissando la porta socchiusa della camera, Mila aveva aspettato Natalie e intanto l'aveva immaginata: e cercando di immaginarla, le era sempre venuta in mente la figura di un libro, quella sulla storia della bambina che due fratellini avevano modellato con la neve e che poi aveva preso vita e si era messa a giocare con loro, fino a quando non la portarono a casa e il calore della stufa la fece sciogliere in un brutto cumulo di ghiaccio e acqua sporca.
Era la storia della Bambina di neve, e lei era davvero bellissima, in quel disegno sotto il titolo della favola: era esile, pallida, le labbra bianche e i capelli chiari, gli occhi limpidi come gocce di rugiada, una fatina di porcellana dall’aria timida e irresistibilmente dolce.
E quando poi, dopo non molto, Natalie era arrivata davvero, Mila era rimasta delusa non solo perché non c’era da nessuna parte la bambina di neve della storia: quando l’aveva vista sulla porta col vassoio saldamente sollevato davanti al seno, si era subito ricordata dell’insegnante di nuoto che la sgridava perché in acqua non sapeva muovere bene le gambe –anche se Margherita era bionda, e a pensarci meglio lei aveva lineamenti più duri e la pelle più chiara, di un color yogurt che sott’acqua pareva quella di un cadavere.
Natalie, quella vera, era molto robusta e molto formosa: aveva guance rosse e rotonde come mele, le orecchie arricciate e un sorriso che sembrava cucito sulla faccia come quello del suo Kala Nag.
Pareva una brutta bambola troppo imbottita, e se anche Mila ebbe subito voglia di confidare questo pensiero alla madre, preferì invece restare zitta.

Se, otto ore più tardi, non aveva voluto attirare la sua attenzione solo per spiegare che quelli nel disegno non erano bambini o semplici pupazzetti con le braccia a stecchino, era per paura che Natalie le si portasse di fronte, enorme e imponente come un gigante, e che si abbassasse su di lei col suo sorriso larghissimo in bocca e le strizzasse ancora la guancia contro il pollice e l’indice come aveva fatto quella mattina a colazione.
Natalie le trasmetteva quasi simpatia col suo aspetto da tata pacioccona, ma l’atteggiamento così esuberante (con quel corpo tanto grande ai suoi occhi che se non fosse stata attenta avrebbe potuto distruggere qualcosa al suo passaggio) , e quel vocione a metà tra il “Bidibibodibibù” della fata madrina e l’“Ucci Ucci Ucci” dell’orco che mangia i bambini, la spaventavano abbastanza per volerci avere a che fare il meno possibile.
E dire che, dopo aver sentito la fine della storia che le aveva raccontato, e prima di vederla avvicinarsi di soppiatto e torturarle fastidiosamente le guance con le dita grassocce, aveva anche deciso che le sarebbe stata molto simpatica.

Allora Massimiliana, aveva cinguettato dopo aver versato il caffè fumante nella tazzina della mamma –difficile capire se lei era della stessa opinione della figlia su Natalie: più che badare alla domestica, continuava a guardare la porta aspettando che la ragazza che aveva mandato a chiamare Amos si decidesse a portarle il cognato.
“Ho sentito che ti piacciono le fiabe. La sai già quella delle sette frittelle?”
Mila aveva fatto cenno di no: non era neanche sicura di sapere cosa fossero le frittelle, e per un momento aveva sperato che qualche adulto nel salotto glielo spiegasse.
“No?!” aveva detto invece Natalie prima ancora che lei smettesse di scuotere la testa.
”Te la racconto io, allora! Ecco, c’era una volta un viaggiatore stupido che prima di partire per un altro viaggio è andato al mercato a comprarsi sette frittelle in tutto. Cammina cammina, all’improvviso arriva l’ora di pranzo e decide di fermarsi a mangiare.”
Il suo alito, aveva notato Mila, da così vicino odorava di dentifricio; e i denti di davanti erano molto storti, e aveva un neo sporgente al centro del mento che prima le aveva fatto schifo, ma che mentre le raccontava quella storia era diventato il particolare più affascinante della sua faccia.
E nel frattempo che lei studiava quelle cose, e contava i baffetti che spuntavano appena sotto il naso e le minuscole rughe del labbro inferiore, il viaggiatore sciocco aveva già addentato la prima frittella.
"Quando la finì, però, aveva ancora fame, e dalla sacca tirò fuori la seconda. La divorò in un boccone, e dopo quella passò alla terza. Afferrò la quarta e se la ficcò in bocca, e aveva così fame che quasi non la masticò. Il viaggiatore mangiò la quinta frittella, poi la sesta frittella, poi la settima frittella, e solo dopo aver inghiottito l’ultima rimasta si è sentito  finalmente sazio."
Natalie allora aveva sbattuto teatralmente il palmo della mano sulla fronte.
“Quanto sono distratto, ha detto a quel punto il viaggiatore: se avessi mangiato direttamente la settima frittella, mi sarebbe passata subito la fame e avrei conservato le altre sei!”  
Mila aveva sorriso alla fine della favola, poi aveva bevuto il latte col nesquik e ripensando alla storia aveva riso una seconda volta. Otto ore più tardi da quella favola, invece, le labbra si erano strette dentro la bocca in un’espressione delusa, e avrebbe quasi voluto mettersi a piangere dalla rabbia, perché nessuno riusciva a capire cosa avesse fatto coi pastelli (sembravano parlare di tutto quanto tranne che del suo disegno mentre cercavano di decifrarlo), e perché le dava fastidio che Monica e Natalie si passassero continuamente il foglio a vicenda spiegazzandone la carta e sfumando i colori coi polpastrelli, quando lei l’aveva fatto solo per Sofia.

Le altre due domestiche dello zio non le piacevano (soprattutto Monica: non le aveva mai sorriso, e quando parlava usava una erre moscia che aveva qualcosa di tremendamente antipatico), ma Sofia sì: l’adorava.
Sofia, ai suoi occhi, era bella, bella come la figlia dei draghi bianchi nel suo libro di storie orientali.
Pensava che le sarebbe piaciuto averla come sorella maggiore, farsi prendere in braccio, accarezzarle i capelli per capire come facessero a brillare tanto e guardarle il viso provando a toccarlo con le dita. Per questo era stata così contenta quando Sofia l’aveva presa per mano e portata a vedere il nido della rondine sotto il tetto.

Era successo dopo pranzo: Daniela non era ancora convinta sul farla alzare dal letto, soprattutto quando fuori era scoppiata quella pioggia fortissima e anche la casa si era fatta più fredda. Ma un po’ Natalie, un po’ Amos e un po’ i capricci della figlia, l’avevano convinta a farla mangiare in salotto. E visto che Mila sembrava effettivamente star bene come diceva, le aveva anche proposto di approfittarne per fare i compiti, e si era persino offerta di aiutarla a studiare la poesia che per settembre avrebbe dovuto ripetere in classe alla perfezione  –“La nebbia a gl’irti colli Piovigginando sale, E sotto il maestrale Urla e biancheggia il mar”.

E invece, dopo l’ultima forchettata di bistecca, Daniela si era alzata dal tavola con gambe molli, reggendosi la fronte con la mano come se la testa le si stesse per staccare dal collo da un momento all’altro: non appena tornate in camera, prima ancora che Mila riuscisse a trovare il suo quaderno nel fondo della valigia, tutta la stanchezza accumunata in quei due giorni l’aveva schiacciata contro il letto come un moscerino, e Daniela non si era più alzata fino a sera inoltrata.
Guardandola crollare in quel modo, Mila aveva pensato che se avesse giocato (perché in realtà di studiare non ne aveva voglia)  in quella stanza avrebbe potuto svegliarla, e che allora lei forse si sarebbe arrabbiata e l’avrebbe rimproverata o messa in punizione -o peggio, le avrebbe ridato un altro cucchiaio di disgustoso sciroppo; allora era uscita fuori, con il maglione della mamma sopra il pigiama, un quaderno sotto un braccio e Kala Nag stretto con l’altro, e nel corridoio aveva subito incrociato il secchio vuoto di Sofia.
“Che fai?” le aveva chiesto la domestica, e allora Mila le aveva mostrato i compiti e le aveva fatto vedere sua madre addormentata da oltre la porta socchiusa. Sofia allora le aveva preso il quaderno e l’astuccio e aveva stretto la mano nella sua: “Se vuoi, ti faccio vedere una cosa”, le aveva detto portandosi l’indice davanti alle labbra. “Però mi raccomando, è un segreto.”

Il segreto era il nido che si vedeva da un bagno bianco e azzurro; erano all’ultimo piano, proprio sotto il tetto, e il rumore della pioggia era così forte che invece di gocce d’acqua sembrava che sulla casa grandinassero sassolini.
Sofia non aveva voluto aprire la finestra, perché fuori il vento ululava e pioveva a dirotto e si era alzata una nebbiolina sottile che faceva sembrare gli alberi contorni di fantasmi agitati –un po’ come nella poesia di San Martino-  e nemmeno lei, come Daniela, voleva che Mila rischiasse di prendere freddo dopo essere appena guarita dalla febbre alta.
Avevano dovuto piegarsi di lato e allungare il collo in una posizione scomoda, ma alla fine Mila era riuscita a vederlo: non era appoggiato sopra un ramo verde, come aveva immaginato, ma appiccicato al muro e con una forma curiosa che le ricordava quella di un cono  –e più che a un cestino rotondo, come nelle figure dei suoi libri, le sembrava una specie di cuffia giallastra, o una di quelle calze che si appendono sopra il camino per riempirsi dei dolci della Befana.
Sofia le aveva detto che dovevano essersi schiuse le uova, perché da qualche giorno, quando apriva la finestra per cambiare l’aria, aveva sentito un cinguettio più stridulo e fastidioso del solito, e aveva visto le due rondini adulte svolazzare nelle vicinanze molto più frequentemente di prima. Aveva spiegato a Mila che forse ora stavano dormendo per la pioggia, ma che sarebbero tornate a vedere se riuscivano a scorgere gli uccellini non appena si sarebbe rimesso il bel tempo.
Poi l’aveva portata in cucina (dove Mila ricordava d’aver visto quelle strane scale, ma che ora non c’erano più) e l’aveva fatta sedere su uno sgabello rotondo, permettendole di esercitarsi a ripetere la poesia mentre lei lavava il pavimento, alzando ogni tanto lo sguardo dal secchio d’acqua per provare a spiegarle qualche parola che pensava fosse troppo difficile per una bambina che ancora doveva cominciare la seconda elementare  -Gl’irti, Maestrale, Borgo, Uscio, Rimirar, Esuli… .

Mila l’aveva seguita per tutta la casa, come un pulcino rincorre la chioccia, guardandola armeggiare con la scopa o le lenzuola, sbuffare stancamente contro il brutto tempo mentre reggeva a stento la bacinella col bucato, e poi fermarsi a chiacchierare con Monica e ad aiutarla a passare il lucido sul corrimano della scalinata.
A quel punto lei si era seduta su un gradino, come quando aveva incontrato Sofia per la prima volta e l’aveva scambiata per la figlia dei draghi Bianchi.
I discorsi delle due ragazze non erano molto interessanti, ma aveva provato ad ascoltarli lo stesso: parlavano del tempo, del rubinetto del lavello che perdeva e dell’idraulico che non era ancora venuto ad aggiustarlo, della cena da preparare, del basilico che mancava per fare il sugo, della spesa, del loro giorno libero, del signor Amos, del signor Amos che piaceva a Monica, del ragazzino strano che ogni tanto si affacciava dalle sbarre del cancello della casa del signor Amos e che quando vedeva Sofia da lontano la guardava come se volesse mangiarsela con gli occhi.
Mila aveva visto Sofia fissare Monica, spalancare la bocca, osservarla ridere e dirle di stare zitta cercando di cambiare argomento.
Non aveva idea di chi stessero parlando, o del perché qualcuno volesse mangiarsi Sofia: iniziò a rifletterci, col mento poggiato sul baldacchino di Kala Nag, e l’unica conclusione a cui riuscì ad arrivare era che Sofia dovesse avere un fidanzato.
Aveva subito pensato al quadro appeso in camera sua, quello che tanto le piaceva, Il Bacio: si era chiesta se loro si fossero già baciati, come i due amanti nella tela di Hayez e i principi e le principesse delle favole che le piacevano di più, ridacchiando appena nel trovare queste cose in parte divertenti e in parte un po’ disgustose. 
Ed era stato a quel punto che Mila aveva avuto l’idea.
Aveva preso l’astuccio per cercare i suoi pastelli stemperati, tirando fuori quello rosso, quello verde, quello nero, quello rosa e quello blu, aveva sfogliato il suo quaderno fin dopo la fotocopia del fumetto che la maestra di religione le aveva fatto attaccare con la colla liquida (dove San Francesco, con i piedi scalzi e le dita storte delle mani, si inchinava su un lupo nero per accarezzargli il muso e il pelo dritto della schiena) e si era messa a strofinare i suoi colori sulla carta a righe della pagina che aveva scelto per disegnare.
Nella sua mente, in quel foglio c’erano Sofia e un fidanzato che non aveva mai visto, e aveva preso come modello tutto ciò che ricordava sull’uomo e la donna del quadro nella sua stanza: il vestito azzurro e la mantella rossa, il cappello sulla faccia, il piede sul gradino, le braccia intrecciate e le bocche vicine.
Per Mila c’era un significato in quel disegno infantile, c’era una storia, e l’aveva adorato ancor prima di avere il tempo per finire la piuma sul cappello dell’uomo rosso.
Il fatto che nessuno, neppure Natalie che le aveva raggiunte con una scopa in mano e il suo enorme sorriso sulle labbra rugose, fosse riuscito a capire chi fossero le due macchie pasticciate nel foglio, l’aveva delusa e fatta quasi piangere dalla rabbia.


Ci ripensò anche poche ore dopo, mentre non molto lontano dal divano del salotto la mamma e lo zio chiacchieravano amichevolmente in paziente attesa che arrivasse l’ora di cena.
Si ricordò che Natalie le aveva poggiato una mano sulla testa accarezzandole i capelli con troppa forza, che un tuono improvviso aveva fatto tremare le finestre e sobbalzare Monica sul posto, e che poi Daniela era apparsa dal corridoio con gli occhi lucidi di sonno e un po’ preoccupata e un po’ arrabbiata con Mila per l’essere uscita senza permesso  -non la sgridò, ma il come l’afferrò subito per un braccio e la trascinò verso di sé era un modo silenzioso e chiaro per farle capire che non doveva più allontanarsi in quel modo. Sofia invece l’aveva ringraziata per il regalo con un abbraccio leggero, e lei aveva respirato l’odore di sapone sulla stoffa del suo grembiule con l’umore più sollevato di prima.
Mila smise di ripensare a queste cose solamente quando sullo schermo della televisione apparvero le prime immagini di un’ipotetica alba africana: lo zio Amos le aveva fatto portare da Natalie una videocassetta del Re Leone, e lei aveva tutta l’intenzione di godersi il cartone animato anche se ne conosceva già a memoria tutte le battute.
“Ha detto per domani, forse” stava, nel frattempo, spiegando Amos con tono di scuse, intrecciando le dita  delle mani e poggiandole sopra la coscia.
La voce era bassa, ma così chiara che nemmeno il suono insistente della pioggia contro la finestra riusciva a coprire quello delle sue parole.
“Ma non c’è da preoccuparsi, Daniela. Conosco bene Giovanni…  scusa, mi riferisco al dottor Diana. Lui prende molto sul serio il suo lavoro” sorrise  “E credo che a Mila piacerà. Sa essere un gran burlone, anche se non sembra. E dovresti vederlo esibirsi nei suoi numeri di ventriloquo: una volta, alle medie, abbiamo partecipato insieme a una gara, davanti a tutta la scuola, ma io non potevo certo competere con lui…”
Tu facevi il ventriloquo?!”
Di fronte allo sguardo incredulo di Daniela Amos si mise a ridere, e lo fece con una dolcezza che aveva del disarmante.
“Solo per un anno, non di più: mi piaceva l’idea di imparare, e all’inizio è stato anche divertente, ma non sono mai eccelso in questo campo e alla fine ho cercato altri interessi. Sai, può capitare a una certa età. Non è successo col violino, certo… ancora oggi non ho smesso di suonarlo, anche se a causa del lavoro ho finito col trascurarlo un poco.”
“Ma lo suonerai ancora per noi, vero?”

Daniela lo guardò speranzosa, e si imbarazzò nel vederlo ridere ancora, temendo d’aver messo troppo entusiasmo nelle sua parole.
Nell’osservare il cognato, pensò anche che lei aveva addosso una maglietta scolorita che le aveva sempre fatto sembrare di avere dei fianchi troppo larghi, che i suoi capelli erano in disordine e che in quel momento doveva apparire terribilmente sciatta.
Amos, al contrario, era come sempre impeccabile: tutto addosso a lui era stirato o piegato praticamente alla perfezione, come se fosse troppo abituato a curare il suo vestiario da non poterne fare a meno anche nei giorni di vacanza con la famiglia del fratello.
 In effetti, ormai Daniela non riusciva nemmeno a immaginarlo con qualcosa di diverso da una camicia a maniche lunghe o pantaloni scuri che coprivano appena scarpe sempre chiuse e sempre lucide.
Evidentemente Amos soffriva il caldo quanto aveva fantasia in fatto di abbigliamento.

“Certo, molto volentieri...”. Lui sorrise, assaggiò un sorso d’acqua e poggiò il bicchiere sul tavolo, sfiorando il bordo con la punta dell’indice.
Daniela guardò quel dito sul vetro, affascinata dal movimento circolare, lento, così preciso da sembrare innaturale.  “…ma mi dispiace non poter offrirvi uno svago migliore delle mie esibizioni musicali.”
Lei alzò il capo e incrociò il suo sguardo dispiaciuto.  “Ma…”
Amos la interruppe alzando la mano che prima stava sfiorando il bicchiere  “No Daniela, mi rendo conto che invitandovi qui non vi ho permesso di passare delle belle giornate di vacanza. E posso capire che per una bambina deve essere difficile stare con due adulti senza poter fare qualcosa per divertirsi: e Massimiliana si sarebbe meritata un trattamento adeguato alla sua età, soprattutto ora che ha perso suo padre.”
Si voltarono entrambi verso Mila, che però sembrava troppo presa dal suo cartone animato per prestare attenzione ai loro discorsi.
Daniela trattenne a forza un brivido.  Guardare sua figlia pensando a suo marito le fece venir voglia di piangere.
“N… Non è colpa tua.” si affrettò a dire scuotendo la testa con troppa forza “Davvero, Amos. Sono io che Mila…”
Amos, senza sorridere, la guardò negli occhi, inclinando leggermente la testa di lato e aspettando silenziosamente che continuasse a parlare.
Ma lei tacque all’improvviso, perché sentì un nodo stringerle la gola e la lingua irrigidirsi diventando pesante come un macigno: si accorse che la vista aveva cominciato ad appannarsi, e scosse in fretta il capo cercando si respirare più a fondo.  “S-scusa…”  sfregò il dorso della mano contro l’occhio che più sentiva pizzicare  “Voglio... voglio dire… sono contenta di essere venuta, Amos. Oliver non mi ha mai parlato della sua famiglia, e ti volevo conoscere.”
“Lo so”  Amos, quasi stesse aspettando apposta quel momento, infilò una mano nella tasca dei pantaloni e le porse un fazzoletto di stoffa: lei lo rifiutò.
“Non sapevi neanche che avesse un fratello, ho ragione? Come io d’altronde non avevo alcuna idea della vostra esistenza prima di venire al funerale.”
Daniela, con la testa china e due dita sulla guancia, annuì piano.

Ricordava bene il giorno in cui aveva scoperto dell’esistenza di un cognato: anche allora pioveva, e l’acqua era così leggera che appena si riusciva a sentirla sfregarsi contro la pelle del viso.
La gente le passava davanti, amici e sconosciuti le stringevano la mano o portavano un fiore fresco d’acquisto, sua figlia era stretta alla sua gonna e sembrava che non sempre fosse lì, che a volte si estraniasse da quel luogo e guardasse quelle persone come se nulla di quel momento le stesse appartenendo.

E poi, come apparso dal nulla, come fosse appena uscito dalla tomba che stava accarezzando con una mano, Daniela aveva visto Amos.
Con i capelli neri, con la pelle chiarissima, dai lineamenti identici a quelli dell’uomo per cui stavano celebrando un funerale.
La sorpresa l’aveva bloccata, congelata: se così non fosse stato, forse avrebbe cominciato a urlare dalla paura d’aver visto un fantasma molto prima di dargli il tempo per presentarsi.
Nel ripensare a queste cose si portò le mani sul grembo, le strinse fino a vederle diventare bianche come conchiglie. Non si accorse di quanto tempo passò in silenzio, a guardarsi le dita che si stavano torturando tra loro, e ascoltare il ronzio lontano del televisore come se avesse potuto cullarla. D’un tratto, nel cacciare fuori un sospiro, si ritrovò a mordicchiarsi l’unghia del pollice tra i denti senza neanche sapere quando avesse avvicinato la mano alla bocca: quando si rese conto di essere rimasta in quella posizione per forse troppo tempo, sussultò e alzò subito il capo. “S-scusa tanto” borbottò, allontanando in fretta la mano dalle labbra e riabbassandola sulle ginocchia per stringere la stoffa dei jeans. Cercò Amos con lo sguardo, e rabbrividì inspiegabilmente non appena si accorse del modo in cui lui la stava fissando negli occhi. Per un attimo, chissà perché, lo sguardo di Amos le fece assaggiare il gelo del terrore: ma fu un istante così breve che subito dubitò che ci fosse mai stato.

“Oh, scusami tu” Amos inclinò il capo in avanti, e il suo sorriso si fece più lieve “ma sai, guardandoti in quella posizione, mi hai ricordato mia moglie.”

In meno di un istante, l’imbarazzo di Daniela si tramutò in sbigottimento. Moglie?, le venne quasi da ripetere, ma invece non emise un fiato. Immobile sulla sua sedia, Amos sembrò afferrare subito il suo stupore, perché il suo volto assunse subito una nota divertita. “Mi dispiace non avertene parlato prima” si scusò, con la sua solita voce morbida, sfiorandosi il mento con la mano sinistra. Daniela la guardò a lungo, sfiorando istintivamente la propria fede nuziale, senza invece trovarne traccia nell’anulare di Amos. Quando lui riprese a parlare, lo fece guardandola negli occhi, senza imbarazzo “Ero sposato” spiegò, con semplicità, continuando a grattarsi il mento coi polpastrelli  “O almeno, in un certo senso era come se lo fossi. Mia moglie era una donna bella, bella e terribilmente complicata. La definirei… un labirinto. Ogni volta che credevo d’aver trovato un’uscita con lei, subito incappavo in una nuova ragnatela di percorsi.  A volte mi annoiava, il suo modo di fare. A volte, invece, non potevo non trovarlo affascinante.” Strinse appena le labbra in una smorfia indecifrabile “…in un certo senso, era anche una donna divertente.”

“e…” la bocca di Daniela le si impastò senza pietà mentre cercava di dire quello che stava pensando. Gettò uno sguardo a Mila, come per assicurarsi che non stesse ascoltando: quando la vide ancora troppo presa dal cartone animato per far caso a loro, tornò a rivolgersi ad Amos “e tua… tua moglie, è…”

“…morta? Oh, no” lui tornò a sorridere, come se quello che Daniela stava per dire fosse stata una cosa piuttosto sciocca. Le dita che prima erano su mento tornarono ad accarezzare il bordo rotondo del suo bicchiere, e il vino sul fondo sembrò tremare a quel contatto “Se ne è andata, tutto qui.”

Amos alzò lo sguardo verso la finestra, come preso da un pensiero troppo lontano per trovarsi in quella stanza. Daniela, nel frattempo, si azzardò a guardarlo ancora, e con maggiore attenzione.

Se ne è andata: cercò di capire quale potesse essere il significato preciso di quelle parole, ma non si trovò risposta.
“Comunque”
Amos si voltò a guardarla distogliendola bruscamente dai suoi pensieri. “Se avessi immaginato che ci fosse stato questo tempo non credo che vi avrei invitate per questi giorni. Vi sarete annoiate a restare chiuse qui dentro. Qui vicino abita un amico, viene sempre d’estate e nel finesettimana per controllare la sua casa: mi ha detto che in questi giorni sono venuti la figlia con i nipoti, e anche se la maggiore fa già le scuole medie forse a Mila farebbe piacere conoscerli.”
“Sicuramente sì…”
Daniela nascose le mani sotto il tavolo e le strinse nervosamente, cercando il modo più educato possibile per negare che la loro era una permanenza noiosa senza passare per una bugiarda. Mordendosi il labbro, le venne in mente un’idea  “Amos… hai voglia di giocare a carte? Io ho sempre un mazzo in valigia, per abitudine, perché, sai, mia nonna mi faceva viaggiare molto e ad ogni occasione insisteva per insegnarmi la scala quaranta o la scopa. Mila conosce solo il rubamazzo e l’uomo nero, però…”
“E’ una buona idea.”
Il sorriso di Amos tornò dolce e sereno come prima, e Daniela ne fu così sollevata da non riuscire a non ricambiare.  “Io me la cavo bene a poker, ma temo di non essere sicuro di avere le fish. Non vorrei arrivare a chiedere soldi veri a mia cognata o a mia nipote per questo. Peccato, perché avremmo potuto invitare Natalie a giocare: è un mostro a carte, oltre che in cucina”
Lei ridacchiò, poi cercò sua figlia con lo sguardo.
“Mila” chiamò, rivolgendosi allo schienale del divano. “Vuoi venire con me in camera, così ci mettiamo qualcosa addosso? O preferisci aspettarmi qui?”
Mila trattenne una smorfia scocciata, senza staccare gli occhi dallo schermo colorato: il cartone non era neanche a metà, Timon e Pumbaa non erano ancora apparsi e lei voleva vedere il loro ingresso in scena e cantare la loro canzone rivolgendosi al televisore.
Ma, attirata dallo sguardo di Amos e fissandolo a sua volta, si rese conto anche che se Daniela se ne fosse andata, lei sarebbe rimasta da sola con lo zio nella stessa stanza.
L’idea le mise addosso una paura tale che non perse tempo neanche a cercare il telecomando per mettere in pausa il cartone animato, afferrando Kala Nag per una zampa per poi raggiungere la madre in meno di quattro saltelli.
Daniela, ferma sulla soglia, la guardò aggrapparsi saldamente ai suoi pantaloni con la mano libera e sfregare la fronte e la punta del naso contro la stoffa dei jeans:  le accarezzò i capelli dall’alto, poi si inginocchiò e la sollevò tra le braccia baciandole la guancia.
“Torniamo subito.” rassicurò il cognato, ancora seduto al suo posto, ricevendo per risposta un lieve cenno del capo.
Mila tenne nascosto il viso dietro la spalla della madre fino a quando non fu sicura che lo zio Amos fosse sparito dalla sua vista.
Osservò la loro ombra stiracchiarsi e trascinarsi stancamente da sopra il pavimento, spezzarsi in tanti strani rettangoli quando salirono le scale, appiattirsi furtivamente contro il muro fin quasi sparire contro la penombra del corridoio al piano superiore.
Daniela, con ancora la mente in subbuglio per il discorso appena affrontato con Amos, raggiunse la loro camera accelerando il passo, e una volta aperta la porta, quando il buio le aggredì gli occhi, cercò subito di premere l’interruttore della luce con il gomito prima di mettere sua figlia a terra: poi sbuffò ad alta voce, massaggiandosi il collo e guardandosi attorno cercando di ricordarsi dove avesse messo la valigia.

Mila intanto guardò il quadro appeso sopra il camino, quello dell’uomo rosso e della donna con l’abito azzurro, e ripensò ancora al disegno che aveva regalato a Sofia e che nessuno aveva compreso.
Il suo viso si rabbuiò.
“…senti, tesoro” Daniela raggiunse l’armadio e lo spalancò con fare quasi impaziente. “Dopo hai voglia giocare a carte con la mamma e lo zio? Se vuoi possiamo anche insegnarti come si gioca a scopa: non hai mai provato, non è vero?”
Mila la guardò armeggiare col beauty case e imprecare tra i denti contro la cerniera che ancora una volta faceva i capricci: raggiunse la parte opposta del letto a quella dove si trovava lei, appoggiando il suo peluche sopra le coperte e salì sopra il materasso con le ginocchia. “Non con le ciabatte addosso!” la rimproverò la mamma non appena la vide in quella posizione, allora lei si mise a pancia in giù e tenne i piedi il più in alto e il più lontano possibile dalle lenzuola.
Daniela trovò il pacchetto delle carte e lo poggiò davanti agli occhi della figlia, senza aprirlo. “La Scopa non è difficile, è simile al rubamazzo, però non puoi prendere le carte dell’altro giocatore. Oppure posso insegnarti il Sette e Mezzo, nemmeno quello è poi tanto difficile… ah, aspetta!” si interruppe, rimettendosi dritta con la schiena “…prima ci mettiamo qualcosa addosso perché sta cominciando a fare freddo, ok tesoro?”
Si abbassò verso la valigia che aveva trascinato sul pavimento cercando un altro maglioncino o qualcosa di pesante da indossare. Ma quello che Mila indossava era anche l’unica cosa pesante che avevano portato. Allora decise di prendere una magliettina e di fargliela indossare sotto il pigiama: ne scelse una rosa, la appoggiò tra le coperte e al suo posto raccolse il beauty case che aveva lasciato sul letto, scoprendo che ci aveva rimesso dentro la sua spazzola quando era convinta di averla lasciata sulla mensola davanti allo specchio.
Le venne da pensare ai suoi capelli in disordine e a quanto si era sentita sciatta davanti ad Amos, e le venne da stringere le labbra tra i denti senza nemmeno accorgersene.

Moglie, pensò, dandosi subito dopo della sciocca.
“Mila, amore, aspettami qui un momento, va bene?”
Mila alzò il volto nella sua direzione, guardandola sparire dentro il bagno lasciando la porta chiusa solo a metà, e tornò a contemplare il pacchetto rettangolare delle carte, studiandolo col tatto.
Lo prese in mano e lo sentì piegarsi arrendevolmente sotto la spinta delle dita quando provava a stringerlo con più forza, poi sollevò la linguetta in alto e lo aprì quel tanto che bastava per vedere che cosa ci fosse dentro.
Tirò fuori parte del grosso mazzo, toccò le carte col pollice sentendole lisce e flessibili, studiò la strana forma a trifoglio dell’asso di fiori e il nero delle due A agli angoli in contrasto con lo sfondo bianco come il latte.
Si ricordò di Alice, della Regina di cuori che tagliava teste e un po’ di maestra Cristina che tanto gliela ricordava quando si metteva a urlare davanti a tutta la classe, e pensò di cercare quella carta per scoprire fino a che punto era somigliante alla sua insegnante.
Si fece leva sui gomiti e tornò in ginocchio sopra le lenzuola, alzando il pacchetto davanti a sé con entrambe le mani. Fu in quel momento che si accorse di qualcosa.
Come un intuizione, o un campanellino al centro del cervello. Mila rimase un momento immobile, con il mazzo di carte ancora sollevato davanti agli occhi e lo sguardo fisso sul profilo di uno dei due re rossi. Poi si voltò. Guardandola in quel momento, la stanza sembrava essersi fatta più grande. Le ombre dei mobili sembrarono stringersi sul pavimento. La luce del lampadario si fece fredda come lo scintillio sullo sguardo di un mostro. Silenzio. E poi.

Pu-Puk!

Mila sussultò rumorosamente e il suo sguardo scattò verso la finestra. Un rettangolo nero ornato da tendine di buon gusto sembrò a fissarla a sua volta con aria minacciosa. Oltre al vetro, riparata dalla pioggia dalle tegole del tetto e attirata dalla luce della stanza, una falena enorme continuò a sbatterci contro il muso nel tentativo disperato di entrare.

Pu-Puk!

La stanza tornò normale, l’aria più buona da respirare, e quel silenzio spaventoso si ruppe come uno straccio quando, dal bagno, Daniela aprì l’acqua del lavandino per lavarsi le mani. Anche Mila si tranquillizzò immediatamente, ma non staccò gli occhi dalla falena che ancora stava bussando per entrare. Con ancora le carte in una mano scese dal letto con un balzo, si avvicinò alla sedia vicino al tavolino e la trascinò a forza davanti alla finestra, fino a ritrovarcisi comodamente inginocchiata sopra. Incuriosita, disgustata e affascinata dal quell’enorme insetto, avvicinò il naso al vetro e ne osservò le ali sbattere nell’aria ad un’ipnotica velocità. Nel guardarlo, Mila si inumidì le labbra con la lingua: e se non fosse stata una falena qualsiasi, ma una fatina alla ricerca di un riparo? Quel pensiero le accese lo sguardo e le fece tremare le mani: poteva far entrare la falena, scoprire che in realtà era una creatura magica e buona che l’avrebbe ricompensata con qualsiasi desiderio lei avesse espresso, e a settembre dire a Roberto e a tutti i suoi compagni che durante l’estate lei forse non aveva fatto una bella vacanza come la loro, ma almeno aveva visto una fata. Avrebbe aperto la finestra senza pensarci due volte, se avesse saputo come si faceva.

“Ciao.” sussurrò alla falena, e quella ricambiò al suo saluto con un altro Pu-Puk! e una scrollatina d’ali non dissimile da tutte le altre che aveva già fatto. Mila la guardò ancora, sfiorando il vetro con due dita e aspettando di ricevere una risposta migliore dell’ennesimo tentativo di attraversare la finestra a furia di testate. Voleva sentirsi dire: Ciao bella bambina, mi faresti entrare che in realtà sono un folletto magico, per piacere?. Pensò che forse non l’aveva sentita, così decise di parlare più forte. Con la bocca vicinissima al vetro appannato dal suo respiro, si preparò ad alzare la voce: “CIAO!”.


Un tuono terrificante fece tremare l’intera casa, così tanto che Daniela si lasciò sfuggire la spazzola di mano e quella precipitò nel fondo del lavandino bagnato. Ma non fu il lampo accecante che si affacciò nel bagno, e poi quel tuono immensamente feroce che lo aveva subito seguito, a spaventarla di più. Fu il rumore di qualcosa caduta a terra, e poi l’urlo della figlia. Prima ancora di rendersene conto, Daniela aveva già superato la porta del bagno “Mila?!

Fece scattare lo sguardo da una parte all’altra della stanza, fino a quando non la vide correre verso di lei con una sola ciabatta sul piede. Daniela allora si abbassò immediatamente per permetterle di abbracciarla, andandole incontro col busto. Non appena raggiunta la madre e stretto le mani contro il suo collo, Mila iniziò a piangere con forza.

“Tesoro? Oddio, no, Amore… cosa c’è? Mi hai spaventato…” Daniela la strinse e le tastò la schiena come per assicurarsi che alla figlia non mancasse qualche pezzo. Alzando appena lo sguardo oltre la sua testa, vide una sedia rovesciata a terra, le carte da gioco scappate fuori dal loro pacchetto e sparse sul pavimento in un cumulo disordinato. “Ti sei fatta male? Mila, Tesoro,” Daniela costrinse la figlia a guardarla negli occhi, studiandone le guance arrossate, le labbra tremanti, gli occhi umidi di lacrime e la paura dipinta in faccia. La guardò attentamente e scoprì che si era sbucciata il gomito, ma che non era nulla che fosse più grave di un graffio. “Sshht, non è nulla, non è nulla…” la cullò, cercando, oltre che Mila, di tranquillizzare anche sé stessa e i brividi di spavento che ancora le stavano scuotendo le braccia. “Non è nulla Amore, era solo un tuono. Ti ha spaventato? Piccolina… era solo un tuono. Non era nulla.”

Provò a baciarle via le lacrime e a tirarle indietro i capelli della frangia, ma Mila scosse il capo e continuò a piangere. Poi alzò lo sguardo e aprì la bocca come se dovesse dire qualcosa, e allo stesso tempo cercò di tirare su col naso senza riuscire a dir nulla di più di qualche singhiozzo. Daniela la strinse di nuovo contro il petto. “Non è nulla” ripeté un’altra volta  “Stai tranquilla, era un tuono. I temporali fanno sempre i tuoni. Ti fa male la bua? Per questo piangi? Ora ci mettiamo…”

“…sso!”

“Come?”

Mila, tremando ancora, respirò a fondo e staccò forzatamente il viso dalla spalla della madre. Alzò il naso per cercare il suo sguardo e cercò subito di indicare la finestra senza dover allontanarsi troppo da lei “C-c’è un b-bam-bam…” ingoiò un pugno di saliva e poi provò a ripetere “C’è un bambino rosso nella finestra!”

Daniela osservò lei, la sua faccia rosa e lo sguardo lucido e serio che le stava rivolgendo. e sbatté forte le palpebre, non certa d’aver capito bene. “Cosa hai detto, Amore?”

“Un bambino! E’ là!” Mila si staccò dal suo abbraccio e le si portò dietro cercando di spingerla verso la finestra con i palmi delle mani attaccati alla sua schiena. “Guarda! C’è davvero! Mamma!”. Provò a spingerla ancora, facendola quasi cadere sulle ginocchia; allora Daniela si alzò in piedi e sollevò la figlia tra le braccia, e anche l’altra ciabatta rimasta sul suo piede cadde a terra con un tonfo. Daniela non ci badò, baciandole le guance umide per cercare di tranquillizzarla “Tesoro, era solo un tuono…”

“Mamma! C’è un bambino rosso! Guarda, è vero!”

“Ma lo avrai immaginato…”

Guarda!

Daniela si morse il labbro inferiore per trattenere un sospiro. Seguendo la direzione che il dito di Mila le stava indicando, s’incamminò verso la finestra, cercando di non calpestare le carte sparpagliate sul pavimento e di non inciampare sulla sedia rovesciata: quando le fu di fronte, sentì Mila irrigidirsi tra le sue braccia e stringersi al suo collo come se dovesse cadere a terra da un momento all’altro. Daniela le accarezzò la schiena e guardò meglio la finestra, il buio del giardino e il cielo di un colore tra il grigio e il marrone scuro. Fissò il vetro, certa di non trovare nulla. Poi sorrise. “Guarda, Tesoro.”

Mila non voleva guardare, voleva stringersi a sua madre e tenere nascosto il viso sulla sua maglietta fino a quando non fosse stata certa che non c’era nulla di cui aver paura. Non voleva guardare, ma lo fece lo stesso: e non appena girò la testa, ad accoglierla fu un familiare Pu-Puk!.

“Hai visto? Era solo una falena”

“…non è vero, non era una famela!”

“Sì, invece. Vieni che sciacquiamo la bua.”

Daniela si inginocchiò per alzare la sedia da terra con una mano, e poi si diresse vero il bagno. Mila però non sembrava volerla lasciare andare “Mamma. Non era una famela, mamma! Guarda, guarda!”


“Tesoro, ascolta” Daniela raggiunse in fretta il bagno e, sempre con la figlia in braccio, si sedette sul bordo della vasca. Quando si ritrovò gli occhi alla stessa altezza di quelli della figlia, le accarezzò i capelli con una mano, mentre con l’altra cercava di raggiungere l’asciugamano più vicino “Era un insetto molto grosso. A volte… uhm, ci sembra di vedere cose che non ci sono, perché i temporali come questo cercano di spaventarci.”

“…davvero?”

“Sì, davvero. Quindi non ti preoccupare, non c’era nulla: era solo il temporale che ti ha fatto uno scherzo un po’ brutto.”

Mentre Daniela bagnava l’asciugamano che aveva recuperato e lo poggiava sul punto che le si era sbucciato, Mila considerò le sue parole, non troppo convinta dalla spiegazione che la madre le aveva dato. Fece per aprir bocca e chiederle qualcosa, ma il bussare della porta la distrasse subito. Daniela allungò il collo per cercare di guardare fuori dal bagno. “Avanti!” gridò. Dalla camera da letto, si sentì un cigolare di porta e una camminata pesante: pochi passi più tardi, Natalie le raggiunse. “Va tutto bene?” domandò, arricciando le labbra rugose e facendo vagare lo sguardo dall’asciugamano che Mila aveva poggiato contro il gomito fino al suo volto ancora bagnato di pianto. “Tutto bene” le rispose Daniela con un sorriso cordiale “Il tuono ci ha spaventato e ci siamo fatte male” continuò, riferendosi alla figlia. Natalie annuì, il sorriso enorme che le si allargava sulla bocca colorata di rossetto. “Oh, povera pulcina.” commentò, allungando una mano verso Mila: lei credette che volesse pizzicarle di nuovo le guance come aveva fatto a colazione, e allora chiuse gli occhi e si strinse alla madre con un verso di disapprovazione incastrato tra i denti. Invece la mano di Natalie si limitò a una carezza forse troppo forte contro la sua testa. “Il signor Capitta ha chiesto di raggiungerlo in salotto. Sa, ha paura che la luce salti e che voi vi ritroviate al buio da sole. Quell’asciugamano lo vuole dare a me, così lo porto a lavare?”

Daniela annuì e fece come le aveva chiesto, ringraziandola. Si alzò dalla vasca e portò la figlia in braccio verso la camera  “Ora sai che facciamo, Tesoro?” si inginocchiò per recuperare prima le ciabatte della figlia, poi le carte per rimetterle nel loro pacchetto, baciando Mila in un orecchio e poi di nuovo su una gota  “Andiamo dallo zio Amos così ti insegno a giocare a scopa, e poi ci facciamo una partita. Che ne dici?”

“Io voglio guardare Pumbaa e Simba!”

“E va bene, guardiamoci Pumbaa.”.
"Me lo prendi Kala Nag?"
"Ma certo."

 





Quando uscirono, la luce della camera si spense, e da fuori la loro finestra tornò ad essere un anonimo rettangolo scuro.

Nel giardino, l’erba si chinava verso il terreno molle di pioggia, rabbrividendo ad ogni colpo più forte di vento e di tuoni.

Il cielo si accese un’altra volta e illuminò tutto il prato, e poi ruggì ancora come una belva che ha annusato la sua preda. Gli alberi si scossero simili a spessi brividi di febbre.

L’acqua crollò al suolo come se ogni goccia fosse un corpo appena morto.

Il bambino rosso sparì dal prato con un secco rumore di carta strappata.














 


 






Onigiri






note autrice:




Ebbene, eccomi tornata =3!
Mi dispiace mettere di nuovo di questi capitoli di transizione così noiosi, davvero >> :  ma sono importanti per la trama, e per la storia. Mi dispiace chiedervi ancora un po' di pazienza per l'azione vera e propria, ma non posso fare altrimenti. Chiedo scusa ç_ç

Per il resto... be', su questo capitolo non c'è molto da aggiungere o spiegare xD, quindi passo subito ai ringraziamenti!




 darllenwr  : Sempre così gentile, e io ti ricambio solo con i miei continui e miserrimi Grazie. Daniela è un punto più importante di quel che si può sembrare, ma non do anticipazioni ;p. E sulle nuvole posso dire che hai ragione: ce ne sono molte in vista. Ma, ripeto, non do anticipazioni u.u . Ti ringrazio ancora una volta per le tue attente, continue e bellissime recensioni! Spero che questo capitolo non ti deluda >>. Passa delle buone vacanze!


S a r s a : Grazie, grazie mille! *^* sono felicissima che lo scorso capitolo ti sia piaciuto  -ti dirò la verità, era anche uno dei miei preferiti, ghgh xD. Spero che quest'altro non faccia troppo schifo °_°. Comunque sia, ti ringrazio infinitamente, e ti auguro buone vacanze!


E, ovviamente, grazie, grazie e grazie a chiunque legga questa storia!
Auguro a tutti una buona estate, sperando sia migliore di quella che i miei genitori mi vogliono organizzare.. dhu! >>
Alla prossima. Grazie mille ancora a tutti  ^___^!
 

*onigiri





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Capitolo 13
*** Scale (Doccia) ***


Legame
   Legame   
(Le pietre blu) 











Capitolo 12









Dalla conchiglia si può capire il mollusco, dalla casa l'inquilino

Victor Hugo





“Zinz Zinz Zinz Zinz Zinz”

Il bambino rosso di Mila sparì presto e completamente dalla sua vista quanto dalle sue paure.

La pioggia se ne andò in fretta com’era venuta, ma i due giorni che seguirono continuarono a rimanere umidi come spugne. Passò una settimana esatta da quando Mila e Daniela erano arrivate a casa dello zio Amos, e il sole tornò più bollente che mai, con lo stesso effetto di un phon su un panno bagnato.

L’albero a due facce  –che in realtà era un giovane e comune castagno, e che di giorno non faceva affatto paura-  sembrava essersi rinvigorito dopo tutta quell’acqua, e quando ogni tanto sgattaiolava fuori uno sbuffo di vento più forte lo si poteva vedere scollarsi le gocce di dosso come la schiena di un cane peloso.

Se quei primi due giorni di umida calura sembrarono essere una manna dal cielo dopo tutto il freddo che aveva fatto, il terzo fu talmente intriso di aria secca e afosa da far ripetere continuamente a Monica che quasi quasi si preferiva il temporale.

Mila non soffriva molto il caldo, ma seguendo l’esempio di Monica aveva iniziato anche lei a lamentarsene in continuazione, ripetendo quegli stessi “Uffa, uffa, uffa!” che le aveva sentito sbuffare quando credeva di non essere ascoltata da nessuno.

“Zinz Zinz Zinz Zinz Zinz”

Con un verso lamentoso, Mila tralasciò i suoi UffaUffaUffa! e quello che stava facendo per grattarsi nervosamente il braccio e le punture di zanzara che più le davano fastidio, ignorando la voce ormai lontana di Daniela che le diceva di non farlo: poi riprese da dove aveva interrotto, portando un piede all’indietro e saltellando con l’altro su e giù per le scale dell’ingresso. a volte preferiva alternare i passi tra la luce caldissima e gli angoli più ombrosi della scalinata, alla ricerca del fresco, Sebbene in testa avesse il suo cappellino per proteggerla dal sole, lo stesso che aveva portato il giorno in cui era arrivata a casa dello zio. Anche il vestito che aveva indosso era lo stesso: quello verde con un nastro a forma di fiocco cucito sul petto, quello buono. Solo che, al posto delle scarpe di vernice, aveva convinto sua madre a farle mettere delle ciabatte di gomma. Se muoveva velocemente le gambe in avanti e indietro, sentiva l’aria fresca attraversarle le dita dei piedi e farle il solletico: Mila scoprì subito di adorare quella sensazione e si ritrovò a far dondolare spessissimo le gambe per sollevare anche la gonna dalle ginocchia.

“Zinz Zinz Zinz Zinz Zinz”

Poi di nuovo si fermò a metà gioco e si grattò un braccio, e quando il prurito serpeggiò fino alla caviglia si sedette per grattarsi anche quella. Cercò anzi di avvicinarsi il piede alla bocca per potersi mordere il punto fastidioso, e se sugli inizi riuscì anche nel suo intento la posizione risultò un po’ troppo scomoda per continuare a lungo.  Sbatté le mani sulle ginocchia con stizza, sbuffando ancora di fastidio –UffaUffaUffa!-  sia per il dolore, sia per il ricordo non piacevole del ronzio di zanzara che quella notte l’aveva mezzo svegliata innumerevoli volte. Nella tasca della valigia avevano lo spray anti-zanzare, ma prima di allora non c’era mai stato bisogno di usarlo, e quindi né Mila né Daniela aveva pensato di spalmarsene un po’ prima di andare a letto. Per fortuna in quella stessa tasca c’era anche uno stick per le punture: per fortuna solo in teoria, perché in pratica lo stick non funzionò affatto.

 

In effetti, era proprio quello stick la causa del nuvoloso malumore di sua madre. Se Oliver aveva il compito di raccontarle le favole, Daniela aveva quello di cantarle le canzoncine per bambini: e non c’era volta, quando una puntura di zanzara faceva piagnucolare e infuriare sua figlia, che lei non iniziasse a intonare un motivetto che sulle prime la faceva arrabbiare ancora di più, ma poi la contagiava e la faceva ridere con quelle parole dolci che le piacevano tanto.


 Era una zanzara in abito da sera,

se l’era messo per far bella figura

e se volava intorno ad una culla

una culla bella, con un fiocco rosa.

 E invece, quella mattina, a Daniela non era venuta nessuna voglia di cantare: Mila l’aveva raggiunta in bagno e l’aveva vista guardarsi allo specchio con lo stick rotto stretto tra le dita, e quando aveva provato a intonare i primi “Zinz Zinz” che comprendevano tutto il ritornello della canzone, Daniela l’aveva ammonita con una tale occhiata da Adesso non ho voglia di giocare con te! da zittirla quasi all’istante. Era rimasta ancora affacciata alla porta, osservando la figura di sua madre muoversi nervosamente dal lavandino al beautycase sul bordo della vasca da bagno, seguita sempre da un ombra di malumore che le faceva storcere i lineamenti in una brutta smorfia nervosa. Mila allora aveva riaperto la bocca per cantare di nuovo, forse pensando che questo avrebbe potuto farla tornare allegra: ma il  “Tesoro, vai a giocare!” che si sentì subito rivolgere fu così carico di nervosismo, come un palloncino in procinto di esplodere nel suo terribile boato, che le ghiacciò sul nascere qualsiasi parola sul fondo della gola. Un po’ delusa, un po’ arrabbiata, un po’ vogliosa di piangere, era uscita dal bagno e anche dalla camera, aveva superato il corridoio e le scale per finire senza accorgersene fuori anche dalla casa dello zio Amos.

Era rimasta seduta per qualche tempo su un gradino dell’ingresso senza far nulla, se non grattarsi le punture sul braccio e la caviglia, col mento sorretto sulle ginocchia e gli occhi rivolti al nulla.

Le ci era voluto un po’ per rendersi conto di trovarsi fuori di casa, all’aria aperta, dopo giorni in cui il massimo che aveva visto al di fuori della sua camera era stato il nido di rondini di Sofia. Sua madre aveva avuto un tale terrore di una ricaduta che da quando le era passata quella strana e brutta febbre non le aveva permesso di uscire neanche quando la pioggia se ne era andata: l’aria era ancora fredda, e bastava una piccola nuvoletta a coprire il sole per sentire la temperatura cadere a precipizio fino a far accapponare la pelle. Mila aveva trascorso quattro giorni (escluso quello in cui era ancora ammalata e l’unica cosa che aveva mangiato era stato un cucchiaio di sciroppo alla banana) rinchiusa in casa, respirando aria che sapeva soprattutto di corridoi chiusi e mobili antichi, e nemmeno se ne era accorta.

Ma ritrovandosi all’aperto e scoprendo quanto tempo era passato da quando aveva varcato quella soglia l’ultima volta, le si era gonfiato il petto di felicità. Presa da una frizzante frenesia era balzata in piedi e si era messa a correre per il sentiero che conduceva fino al cancello, e l’avrebbe percorso tutto se a metà strada il sole cocente non l’avesse convinta a tornare indietro per rifugiarsi all’ombra. La testa le aveva girato: non molto, ma abbastanza da convincerla a sedersi e passarsi le mani sulla faccia per togliersi di dosso il sudore. Poi lo stomaco aveva brontolato, perché a colazione aveva mangiato solo qualche biscotto e l’ora di pranzo si faceva sempre più vicina. Alla fine, quando si era sentita abbastanza meglio anche per ignorare la fame, si era alzata in piedi e aveva ricominciato a cantare.

“Zinz Zinz Zinz Zinz Zinz”


Così volando però ve lo assicuro

aveva in mente un tenero pensiero:

voleva fare la serenata

ad una bimba che si era addormentata.

“Zinz Zinz Zinz Zinz Zinz!”


“Buongiorno, Massimiliana.”

Come una belva che balza sulla preda, l a voce dello zio Amos l’aggredì alle spalle, e Mila s’irrigidì sul gradino e si voltò di scatto verso la porta dell’ingresso. Amos era sulla soglia, ancora riparato dall’ombra e dall’aria fresca che si sentiva provenire da dentro la casa, con una mano sulla maniglia della porta e l’altra che reggeva un pacchetto di carta verdognola, di quelli da pasticceria. Le sorrise docile e Mila, con un nodo alla gola, si immobilizzò e cercò di farsi piccola fino a sparire nel suo stesso vestito: avrebbe voluto abbracciare Kala Nag e brandirlo come uno scudo, ma lo aveva lasciato qualche gradino più in basso, a fare la guardia al cappellino che non aveva più avuto voglia di indossare. Non riuscì a girarsi, a raggiungere il peluche e chinarsi per prenderlo: lo zio Amos aveva inclinato la testa verso una spalla, come faceva di solito, come per volerla guardare in obliquo, e Mila, di fronte a quel movimento insignificante, si sentì pietrificata come un topolino dallo sguardo di un cobra. “Cosa stai cantando?” le chiese, con quella sua amabile voce di miele e il sorriso caldo come una torcia, aspettando una risposta che però non arrivò. In effetti, se anche avesse voluto, Mila non avrebbe avuto nemmeno il tempo di aprir bocca senza essere interrotta dalla voce lontana di Daniela “…Mila? Mila è lì?”

Amos si scostò per far passare la cognata, ma non distolse lo sguardo da Mila fino a quando non fu Daniela a catturare la sua attenzione. La vide uscire con lo sguardo basso e una mano stretta tra i capelli della frangia, fermandosi oltre la soglia quando rimase abbagliata dalla luce troppo forte della mattina.

Non appena Daniela fu fuori dalla casa, Mila si lanciò contro le sue gambe con un urletto leggero e affondò il naso tra le sue ginocchia nude, così in fretta e così all’improvviso che sua madre per poco non perse l’equilibrio. “Mila, no! Mi fai cadere” esclamò, ma a cadere davvero fu solo la sua borsetta. Daniela si inginocchiò per raccoglierla, facendo staccare la figlia dalle sue ginocchia: l’aprì in fretta borbottando qualcosa tra sé e sé, frugandoci dentro fino a quando non tirò fuori il cellulare e rimase per un po’ a fissare insistentemente lo schermo. Quando si assicurò che non si era rotto, sospirò di sollievo e lo rimise a posto chiudendo per bene la zip della borsetta. Poi sollevò lo sguardo verso Mila, con ancora le mani aggrappate agli orli della sua gonna e le labbra contorte in una smorfia forse dispiaciuta,o forse solo capricciosa. Daniela sospirò una seconda volta e le accarezzò una guancia “Guarda come sei diventata rossa. Dove hai lasciato il tuo cappello?”

 Guardò Mila pensarci un momento, e poi voltarsi e trotterellare sui gradini fino a dove aveva lasciato Kala Nag. Non appena la vide mettersi malamente il cappellino in testa la raggiunse per aggiustarglielo. “Allora, siete pronte ad affrontare il sole?” Amos  si affiancò a Daniela e le sorrise dall’alto. Ma lei, non appena lo sentì avvicinarsi troppo, si alzò subito in piedi e abbassò subito lo sguardo nella direzione opposta. Nervosamente si portò una mano sulla frangia e tirò i capelli verso l’occhio destro, rispondendo al cognato solo con un cenno del capo. “Perfetto” esclamò Amos, non badando a quella reazione forse un po’ brusca. Iniziò a incamminarsi verso il cancello seguito da Daniela che teneva Mila per mano, e Mila che con la mano libera reggeva la proboscide di Kala Nag.

Se anche Amos doveva star scherzando, stare sotto quel sole cocente si rivelò davvero un’impresa: Mila, soprattutto, era stata coperta sopra il vestito con un’altra maglietta a maniche corte, maglietta che Daniela non le permise di togliere neanche quando lei iniziò a lamentarsene con sbuffi sempre più forti. Persino con Natalie, quando quella mattina si erano incrociate nel corridoio e lei le aveva detto d’aver visto Mila uscire dalla camera e che forse i vestiti che aveva indosso erano troppo pensanti, Daniela aveva risposto con un secco “E se si riammala?”.

Camminando a fianco del cognato con i capelli puntati a coprirle metà faccia, e ripensando a quella breve conversazione con Natalie, si sentiva troppo nervosa per pensare di essere stata ingiustamente aspra con la donna. Era ancora nervosa: non solo per il suo stick rotto, o perché aveva dormito poco, o perché il Dottor Diana di cui le aveva parlato Amos gli aveva telefonato dicendo che non sarebbe potuto venire in quella settimana a causa di un chissà quale impegno personale.

Era per l’incubo che aveva fatto.

Nel sogno aveva nove o dieci anni, suo padre giocava a carte con la zia Manuela e la signora Titti. Ma la signora Titti era anche la morte: l’aveva capito dal com’era vestita, con un mantello nero col cappuccio che le lasciava scoperta solamente la punta del naso. Non le aveva visto gli occhi, ma sapeva che erano lì, nel buio tetro del cappuccio, vacui e severi come li ricordava: ne aveva percepito la stessa carezza squamosa di un tempo, quando si era voltata verso di lei e l’aveva osservata. “Finisci la tua gazzosa, piccina, che poi vengo da te e ti do un bacio”

“Perché?” aveva chiesto lei, ancora bambina ma con la sua solita voce da adulta. Allora la stanza si era tinta di bianco, come se stesse nevicando dentro casa, e la morte aveva riso battendo forte i denti come fossero stati tamburi. Suo padre e la zia Manuela, muti e tranquilli, si erano messi a bere il caffè passandosi a vicenda le zollette di zucchero, e cercando, così facendo, di sbirciare ognuno le carte dell’altro. Senza badare assolutamente a loro, la morte si era alzata con un sibilo lunghissimo, rovesciando all’indietro la sua sedia che però cadendo sul pavimento non aveva fatto nessun rumore. Le si era portata di fronte, alta come un gigante, e aveva riso ancora mentre la neve diventava nera e si mischiava col colore del suo mantello, leggero e librante nell’aria come ali di farfalla. Si era abbassata su di lei, alitandole sul viso l’odore di lavanda e formaggio che accompagnava sempre i passi della signora Titti. Con una lenta, innaturale scossa del capo si era scoperta il volto. Non era la signora Titti.
La morte era Oliver.

Quando si era svegliata, un mal di testa fortissimo aveva minacciato di spaccarle il cranio. Ma era passato non appena era riuscita a mettere i piedi fuori dal letto per cercare un’aspirina nella valigia. Mentre sua figlia dormiva ancora, si era tuffata in bagno con un passo barcollante, si era aggrappata al lavandino e aveva immerso la faccia nell’acqua ghiacciata. Guardandosi allo specchio con le guance ancora gocciolanti, si era sentita confusa, poi spaventata. Poi, semplicemente, nervosa. 

Era nervosa, ed evidentemente anche Amos se ne accorse quando tirò fuori dalla tasca il telecomando per aprire il cancello “Stanotte sono stato sveglio a causa di una zanzara” spiegò, aspettando che Daniela alzasse lo sguardo verso di lui prima di  continuare “non mi ha punto, ma ho avuto il mio bel da fare a cacciarla via.”


Povere zanzare, non sono mai gradite

anche se sono in abito da sera.

E sul muro bianco ecco all’improvviso

 l’ombra di una mano, una grande mano.

A Mila tornò in mente la sua canzone, e per un momento in cui riuscì a ignorare il caldo riniziò a ripeterne il motivetto da dentro le labbra serrate. Cercò lo sguardo di sua madre, come sperando che anche  a lei venisse voglia di cantare, ma Daniela aveva già voltato il capo in un’altra direzione senza guardare nessuno, la mano sempre stretta tra i capelli che le coprivano un occhio.

Il cancello si aprì con uno stridulo metallico che fece scappare due uccellini dall’albero più vicino. Come il giorno in cui erano arrivate con taxi, la strada fuori era ombreggiata da un tetto di foglie intrecciate tra loro come se si stessero abbracciando, e così senza vento rimanevano dritte e immobili sui loro rami come cani che puntano una volpe. Il caldo non diminuì molto, ma abbastanza per far tirare sia a Mila che a Daniela un sospiro di sollievo. Amos, al contrario, non ne sembrò sentire la differenza: in effetti, nonostante la sua camicia avesse le maniche arrotolate poco sotto i gomiti e il colletto aperto per due o tre bottoni, Daniela non riusciva a capire come facesse a non provare comunque del caldo, o come la sua pelle non sembrasse avere nemmeno un grammo di sudore o una macchia di abbronzatura. Quando cercò di ricordarsi se anche Oliver non soffriva mai il caldo –e trovò strano il non riuscire a ricordarlo- , si accorse che Amos la stava osservando “Voi avete avuto zanzare?” le chiese, docile.

E lei avrebbe voluto sparire mentre annuiva e abbassava lo sguardo, e cercava ancora una volta di coprirsi l’occhio con i capelli –perché proprio sulla palpebra doveva essere punta? Perché proprio quel giorno che andavano a trovare delle persone l’occhio destro doveva gonfiarsi come una pallina da golf?

Si vergognava che Amos la vedesse in quello stato.

Si vergognava del fatto che non voleva che Amos la vedesse in quello stato.

“Sì… ci hanno tenuto un po’ sveglie, e ci hanno anche punto” poi cercò di metterla sul ridere e di alzare lo sguardo, ma senza togliere la mano dalla frangia “mia nonna diceva che se non ti pizzicano almeno un po’, allora non sei buono neanche di spirito.”

 “Zinz Zinz Zinz Zinz Zinz”


Ma la zanzara, più furba e più spedita

riuscì a sfuggire a quelle cinque dita,

e dopo un poco, indovinate!,

la serenata la volle fare a me.

“Zinz Zinz Zinz Zinz Zinz”

Mila camminò saltellando sulla punta delle ciabatte e con Kala Nag ben sorretto per il lungo naso di stoffa, fino a quando il caldo non tornò a prendere il sopravento e a farle sfumare la più piccola voglia di muoversi. E se Amos e Daniela sembravano avere tutta l’intenzione di passare quel tragitto chiacchierando, il più delle volte lei non glielo permise: si lamentò perché voleva togliere la maglietta, perché aveva sete e le faceva male un dito, e ogni tanto inchiodava i piedi sull’asfalto e tirava il braccio di sua madre che la stava tenendo per mano. Dopo molte lamentele e diverse occhiate esasperate rivolte al cielo, alla fine Daniela l’aveva presa in braccio, e dall’alto Mila aveva potuto guardarsi attorno con maggiore attenzione. Non c’erano sempre alberi sul ciglio della strada, ma a volte a far loro ombra erano i muretti più alti delle case che stavano sorpassando. Da dietro una rete a rombi verdi Mila riconobbe una villetta che aveva visto da dentro il taxi nel viaggio di andata, quella dalla strana forma squadrata e con la piscina in giardino. Riuscì persino a intravedere una poltrona di gomma rosa dondolare nell’acqua, e qualcuno –un uomo, a giudicare dal taglio del costume-  avvicinarsi al trampolino con un asciugamano sotto braccio. Venne anche a lei voglia di tuffarsi in piscina: provò a guardare sua madre per chiederle se potevano andare anche loro, ma tutto ciò che le scappò dalla bocca fu uno sbadiglio piuttosto rumoroso, che attirò comunque la sua attenzione. Daniela studiò la sua espressione un po’ stanca e le sfiorò il naso con un bacio. “Non hai dormito bene? Hai sognato che le zanzare ti mangiavano tutta?” scherzò. Le tornò subito in mente l’incubo che aveva fatto, con il rumore dei denti della morte che ancora le suonava dentro le orecchie, e sentì le ginocchia tremarle al solo ricordo.

“No” rispose Mila, distraendola da quei pensieri, e poi scosse il capo. “io ho sognato che, uhm… c’era tipo una signora che stava piangendo.”

Daniela alzò un sopraciglio. ‘Di nuovo?’, avrebbe voluto chiedere, perché era almeno la seconda volta che sentiva sua figlia dire d’aver sognato una donna che piangeva. Ma il “Siamo arrivati” di Amos frenò ogni sua domanda sul nascere.

Daniela rallentò il passo e si voltò verso dove le sembrava che Amos stesse indicando “Che bella casa” commentò, dirigendosi verso un cancello. Ma Amos le sfiorò un braccio per fermarla. “Non questa, Daniela. Casa Masini è quest’altra” e indicò il muretto di pietre dall’altra parte della strada, con un sorriso bonario sul volto. Daniela arrossì all’istante. Avrebbe voluto ripetere il “Che bella casa” anche per quella giusta, ma preferì seguire il cognato senza fiatare.

Casa Masini era circondata da un prato di margheritine di campagna, con una panchina, uno scivolo arrugginito, due tricicli e altri giocattoli dall’aria vecchia sparsi qua e là in modo disordinato. La casa, da lontano, sembrava una specie di cubo schiacciato, e con quello strano colore giallognolo pareva fatta più di pan di spagna che di mattoni. In effetti, con le serrande rosse ai lati delle finestre e la punta di due ombrelloni che spuntavano dal terrazzo del tetto, a Daniela dette quasi l’impressione di una torta con le candele e le ciliegine. Si rivolse ad Amos per fargli notare quel particolare, ma la scoccata del cancello appena aperto la interruppe prima ancora che riuscisse ad aprir bocca.

Il signor Orazio Masini andò loro incontro con una mano sepolta tra la barba del mento e gli occhi socchiusi per via della luce troppo forte. Indossava solo una canottiera e dei pantaloncini che, un tempo, dovevano essere stati arancioni, insieme a delle ciabatte di gomma che cigolavano in un forte e fastidioso gnekgnek ad ogni passo sull’asfalto. Orazio Masini era vecchio, e in un certo senso aveva anche qualcosa di minaccioso: forse per quelle profonde rughe rivolte all’ingiù, o per i capelli bianchi che sembravano tagliati con un coltello. Ma erano le braccia pelose e magre con i gomiti sporgenti, e la schiena curva come un uncino i particolari che più risaltavano del suo aspetto. In un istante, nel guardarlo zoppicare verso di loro, a Mila tornò in mente la caverna piena di cose, la girandola di fuoco, il signor Moccio. Ma fu un momento così breve che quasi dubitò ci fosse mai stato.

Orazio li raggiunse, si fermò e rimase in silenzio, dette un colpo di tosse e solo allora parlò, con una voce profondamente catarrosa “Scusate, ma io ora devo uscire. Se andate dritto forse trovate Federica.”

“Buon pomeriggio, Orazio. Come stai?”

Orazio Masini non rispose alla domanda di Amos, né si scomodò per salutarne la cognata o la nipote: con un cenno della testa e quello che sembrava un incrocio tra un altro colpo di tosse e un grugnito, li superò e si avviò per il sentiero, verso la parte opposta dalla quale loro erano arrivati. Daniela, fissandolo allontanarsi senza dir nulla, rimase così interdetta da quella scena che per un attimo credette di essersi immaginata tutto. Guardò Amos, senza parole, cercando una spiegazione che però lui non le dette: si limitò a mostrarle un sorriso paziente, come per dire che “Ha sempre fatto così!”, e a incamminarsi verso la casa con passo tranquillo, come se nulla fosse successo. Daniela lo seguì titubante con ancora sua figlia in braccio “Ma… dov’è andato?”

“Ti dirò la verità, non ne ho idea. Forse ce lo spiegherà Federica: è quella laggiù.”

 

E proprio nel momento in cui Amos indicò la casa, dalla porta in lontananza sbucò fuori una donna, che subito corse loro incontro in barcollante equilibrio su delle ciabatte troppo grandi per lei. “La figlia di Orazio” spiegò Amos all’orecchio di Daniela, prima di fare un passo avanti e allargare le braccia. “Se diventi così bella ogni estate dovrei farvi visita più spesso.” “Oh, Amos, sei il solito!” Federica lo raggiunse e si lasciò abbracciare, senza far caso a Mila o a Daniela che nel frattempo stavano studiando la sua figura da lontano. Era una donna alta e bionda, probabilmente bella: non riuscirono a capirlo subito, perché se cercavano di soffermare lo sguardo sul suo viso, entrambe venivano sempre distratte dal forte luccichio dei suoi enormi orecchini dorati. Di certo era più grande di Daniela, almeno di una decina d’anni: più che dal viso, lo si poteva vedere dalle vene troppo gonfie sul dorso delle sue mani.

“Ma dov’è mio padre?” Federica accettò il pacchetto di pasticceria da Amos e si guardò attorno “Non vi avrà lasciato venire fin qui da soli?” “Orazio aveva un impegno, a detta sua. Ma non preoccuparti, come vedi non ci siamo persi” Amos esibì un sorriso smagliante che però lei non ricambiò affatto. Scosse la testa “E’ il solito. Scusatelo” e per la prima volta si rivolse a Daniela e sua figlia “E’ uno di quei trogloditi uomini di campagna che non sanno neanche cosa sia il galateo.” “…come mio padre. Ma lui era cittadino.”

Federica rise della battuta di Daniela e le si avvicinò portandosi la treccia dietro una spalla. Nel guardarla meglio in viso, anche se era bionda, a Mila ricordò moltissimo il cartone animato di Anna dai capelli rossi. “Molto piacere. Io sono F-“

Si bloccò, e a Daniela non servì nemmeno seguire il suo sguardo per capire cosa l’avesse fatta fermare.

Entrambe, con un’identica espressione sorpresa dipinta sul volto, si accorsero di star indossando una gonna dello stesso colore azzurro. Dalle stesse pieghe un po’ all’insù sugli orli, dalla stessa tasca a forma di fiocco sul fianco sinistro, della stessa marca e, probabilmente, della stessa identica misura. Federica e Daniela studiarono ciascuna la gonna dell’altra, poi la propria. Poi si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere quasi nello stesso momento. “Oh, cara, a quanto pare frequentiamo lo stesso negozio senza saperlo” “No, in realtà la mia è un regalo. Non ho idea da dove me l’abbiano comprata…”

Seguì una risata divertita, poi un po’ nervosa: alla fine, entrambe tacquero e nell’aria, per poco tempo, ci fu una specie di insopportabile silenzio imbarazzato.

“E tu chi sei?”

 Federica lasciò subito perdere la gonna di Daniela (ma solo dopo un’altra occhiata attenta, come cercando un qualche dettaglio che non la rendesse più tanto uguale alla sua) e abbassò lo sguardo verso Mila: le sorrise, dandole una leggerissima carezza sulla guancia, e Mila arrossì cercando di ritirarsi meglio tra le braccia della madre. Fu Amos a rispondere per lei: “Federica, lei è la mia bellissima nipote di cui ti ho parlato: Massimiliana.”

“Oh, e bellissima lo è davvero” esclamò Federica, esagerando con i complimenti che però risultarono graditi.

“Sai, Massimiliana, io ho una figlia della tua età.”

“Davvero?”

“Sì, davvero.”

“E ce l’avete la piscina?”

Mila!”

“…a dire il vero fino a ieri avevamo una piscina giocattolo, sapete, quelle di gomma, per bambini. Però si è bucata e papà l’ha dovuta buttare” Federica raddrizzò il busto e con la mano indicò la porta di casa “Ma non stiamo qui, che c’è caldo. Accomodatevi, così vi offriamo qualcosa da bere.”

Federica Masini aveva tre figli, due femmine e un bambino di nove mesi e mezzo, tutti quanti con i suoi stessi capelli biondo sabbia. Suo marito era sardo, aveva un accento sardo e persino un nome tipicamente sardo: Baingio. Baingio Delogu.

Baingio gestiva un bar a Cagliari, qualcosa di poco più grande di un chiosco costruito su una di quelle strade che si affacciavano sul mare e su un pezzo di porto. Non era sempre facile per lui fare soldi, nemmeno in estate quando i turisti arrivavano a grandinate ed erano in molti ad apprezzare le sue macchinette fotografiche giocattolo, con dentro l’obiettivo le immagini già pronte dei luoghi più famosi del posto: anche per questo Baingio era un uomo abituato al lavoro quasi forzato, e concedeva alla sua famiglia appena due visite all’anno al nonno Orazio  -una a natale e l’altra, giusto per non litigare con Federica, tra luglio e agosto-  e mai che durassero più di sette giorni ciascuna.

In realtà, che fosse un barista e che fosse anche piuttosto attaccato al suo lavoro, poteva essere quasi intuibile dal modo in cui si presentò a Daniela dopo averle stretto la mano.

“Oh, Benvenuti! Che piacere. Prego, entrate pure, entrate. Sedetevi qui, che è più comodo: vi da fastidio l’aria condizionata? Allora, che cosa possiamo offrirvi? Acqua, aranciata, un po’ di succo di frutta? O un bicchiere di vino, che ne dite? Abbiamo anche dell’ottimo Cannonau rosso, dovete assolutamente assaggiarlo. Carmen! Ce la porti la bottiglia sul tavolo della cucina e qualche bicchiere? …Carmen, insomma, spegni quell’affare! Non vedi che abbiamo ospiti?”

Se non fosse stato per quella sua maglietta blu scuro, che stonava e risaltava fino a far male agli occhi coi colori autunnali delle poltrone, a malapena si riusciva ad accorgersi della silenziosa presenza di Carmen nella stanza. Non si era mossa di un centimetro dalla poltrona quando loro erano entrati, e a malapena aveva alzato il naso dal televisore per salutarli con un’occhiata quasi impercettibile. La voce di suo padre le fece trattenere a malapena uno sbuffo scocciato dentro la bocca: non spense la TV ma abbassò il volume di tre tacche, nascose il telecomando tra i cuscini e, senza dir nulla, si diresse a passo pesante verso quella che doveva essere la porta della cucina.

“No, aspetta un momento” la fermò Federica mentre sollevava Alessandro dal passeggino e lo faceva smettere di piangere ficcandogli un ciuccio in bocca. Mila studiò quel gesto rimanendo ancora nascosta dietro Daniela: l’impressione che le dava quel bambino era quella di una sorta di grosso, morbido bambolotto parlante, e il desiderio di giocarci si fece tale che dovette stringere con più forza Kala Nag per compensare almeno in parte quella voglia.  

“Penso io a servire da bere, tesoro. Torna a sederti”

“Carmen non muore mica se ogni tanto alza un vassoio.”

Federica lanciò un’occhiataccia in direzione del marito “Non dire sciocchezze. È estate anche per lei, poverina.” poi si rivolse agli ospiti con un sorriso cordiale “Accomodatevi pure, io torno subito”.

Amos fu il primo a sedersi sul divano, e Daniela imitò quasi subito trascinando Mila sulle sue ginocchia. Quando Carmen stava per tornare alla sua poltrona, il padre la raggiunse e artigliò il telecomando prima che lei riuscisse ad allungare la mano per sfiorarlo “Signorina!” la chiamò, spegnendo il televisore nello stesso tempo “Ora voglio che vai in cucina e aiuti tua madre a fare quello che deve fare. Siamo intesi?”

“Ma lei ha detto ch-” “Non replicare!” la ammonì alzando la voce “Fila ora! E prendi i bicchieri che sono nella credenza, non quelli sul tavolo.”

Carmen, senza essere vista dal padre, alzò gli occhi al cielo e gonfiò le guance come se stesse trattenendo uno sbuffo: non appena fu sparita oltre la porta, Baingio tornò a rivolgersi ai suoi ospiti.

“Scusate tanto” sorrise, imbarazzato “Sapete, gli adolescenti…”

Amos rise “Eh, che daremo noi per tornare così giovani, Baingio?”

“Lascia perdere, l’unica cosa che mi manca dell’essere giovane è sapere che ci vorranno anni prima di diventare vecchio.”.

Daniela ascoltò appena quel discorso, quando la sua attenzione si era già quasi tutta concentrata sulla figlia maggiore di Federica. La guardò sparire da dietro una porta e poi abbassò gli occhi verso Mila, togliendole il cappellino per accarezzarle i capelli. Provò ad immaginare sua figlia a dodici anni: la immaginò con le unghie colorate, l’ombretto un po’ sbavato, l’ombelico scoperto e lo stesso sguardo annoiato che prima Carmen aveva a malapena staccato dal televisore. Pensò a queste cose, aspettando un qualche brivido di ribrezzo che però non si presentò. Lasciò perdere quelle considerazioni per studiare meglio l’ambiente in cui si trovava.

La casa, come Daniela aveva intuito guardandola dall’esterno, aveva un unico piano, ma era molto spaziosa. Osservandosi attorno non era neanche difficile immaginare che, se anche a viverci era suo padre, probabilmente era stata Federica ad occuparsi dell’arredamento: non solo non sembrava esserci davanzale o mobiletto senza sopra un vaso di fiori, ma anche le poltrone, le tendine, i cuscini, le abatjour, i due quadretti appesi dietro il televisore e persino il lampadario avevano forme o disegni di fiori dai colori di innumerevoli sfumature rosse e arancioni. Solo portandosi al centro del salotto, l’impatto con quell’arredamento fu tale che sia Daniela che Mila ebbero quasi l’impressione di essere entrate in una serra.

Baingio poi si piazzò d’un tratto di fronte a loro, catturandone subito tutta l’attenzione. “Oh, lei è Daniela?”

Daniela tolse Mila dalle sue gambe e si alzò frettolosamente dal divano. Di fronte a Baingio si ricordò della puntura di zanzara sull’occhio, e come aveva già fatto con Amos si affrettò a portare una mano tra i capelli della frangia per coprirsela.

“Sì, piacere.”

“…ecco cos’altro mi manca dell’essere giovane, il fatto che ero libero di conoscere belle donne come lei senza una moglie che rompesse le scatole!”

Il Ti ho sentito! che provenì dalla cucina fece ridere tutti, tranne Mila, che ancora nascosta dietro la gonna della madre stava ancora studiando la casa, e in particolare il passeggino vuoto e abbandonato di Alessandro, dove avrebbe voluto mettere Kala Nag e fargli fare un giro di tutto il salotto.

Baingio notò la sua occhiata distratta e si abbassò verso di lei. “E tu chi sei?”

“…Mila”

“Piacere” le accarezzò la testa con forze un po’ troppa forza “Quanti anni hai, Mila?”

“Ho sei anni e tre quarti!”

Baingio scoppiò a ridere. La sua risata era grossa e contagiosa, tanto che anche a Mila scappò subito un sorriso, seppur incerto “Ah, ma tu sei grande. Allora senti, te lo posso chiedere un favore di enorme responsabilità, Mila?”

Lei annuì subito: quell’enorme responsabilità le fece venire dei forti e piacevolissimi brividi fin dentro lo stomaco. Baingio la avvicinò a sé prendendola per la schiena e le indicò il corridoio che si vedeva da oltre la porta del salotto “Allora, fai attenzione: la vedi quella porta laggiù, quella marrone chiaro?” Mila annuì “Bene: lì dentro c’è mia figlia Bianca. Ha cinque anni e nove settimi. Ora, devi andare da Bianca e presentarti, e chiederle se potete fare un gioco insieme. Il destino della serata dei giochi è nelle tue mani, Mila: pensi di farcela?”

Mila non capì bene tutte le parole, ma le sembrarono buffe e rise. Poi girò il collo per guardare sua madre, che la incoraggiò subito “Vai Tesoro. Io ti aspetto qui.”

E Mila, con il suo elefantino stretto contro il petto e quell’enorme responsabilità che ancora le ronzava piacevolmente nelle orecchie, si ritrovò nel corridoio prima ancora di rendersi conto d’aver camminato.

In quel corridoio c’erano quattro porte in tutto, tutte socchiuse e tutte dall’aria troppo simile perché Mila riuscisse a capire quale fosse quella giusta. Girò su sé stessa guardandole una per una, spaventata e al contempo affascinata da quel posto nuovo illuminato appena da una finestra minuscola. Ma le bastò seguire la voce di Bianca per capire quale fosse la porta giusta..

“…un quadruplicante salto mortale eeeee giù nel cannone che Booom! lo fa volare e fa altri dieci salti e va nella rete, e tutti urlano yeeeee!

Mila si affacciò alla porta, e la prima cosa che la colpì furono i colori vivaci di una camera per bambini. Poi, di nuovo, la voce di Bianca.

“E ora arrivano gli animali feroci, guaaarg!, il coraggioso domatore arriva con la frusta prima che si mangino il pubblico: indietro bestiacce, nella gabbia, ma il coccodrillo scappa e cerca di mangiarsi lui, ma lui no, lo ferma col cannone e gli spacca i denti così gli fa mangiare le carote. Ma che succede? I panda sono finiti e bisogna volare in Africa per prenderne altri! Mieeeeeeeww! Si parte, a bordo, tra due mesi siamo in Africa!”

Ai piedi di due letti identici, sul pavimento legnoso c’erano due file ordinate di giocattoli: in totale c’erano due peluche, un trenino di legno, una Barbie, un mappamondo, un coccodrillo di gomma, una macchinina e uno zainetto con cucito sopra un pelosissimo orsacchiotto di stoffa. Bianca stava finendo di sistemare proprio quello zainetto, prima di accorgersi di Mila e fermarsi all’improvviso.

A guardarla, con quei capelli cortissimi e i pantaloncini, si sarebbe potuta scambiare benissimo per un bambino: con le gambe così sottili e le braccia lunghissime, poi, sembrava una specie di grillo, tanto da fare quasi impressione. Come vide Mila, la studiò da lontano come per essere sicura che non le saltasse addosso o all’improvviso non corresse per rubarle i giocattoli. Poi, in un modo un po’ sospettoso, provò ad alzare la mano e a salutarla. “Ciao”

“Ciao”

“Come ti chiami?”

“Mila.”

“E tua mamma?”

Mila si girò e allungò il dito per indicare la porta del salotto. Poi, guardando Bianca negli occhi e preso un poco di coraggio, provò a fare lei qualche domanda. “Tu hai davvero cinque anni e nove… settecimi?”

“Bho? Che cosa vuol dire?”

“Vuol dire che… uhm… che tuo papà mi ha mandato qui per giocare con te!”

“Ah!” Bianca annuì come se avesse appena compreso un qualche problema molto difficile. Poi, con un cenno della testa, indicò i giocattoli che aveva accuratamente posizionato sul pavimento “Lo vuoi fare l’aereo con me?”

 

Dopo un imbarazzato primo approccio, Bianca e Mila scoprirono presto di avere un’ottima intesa nello giocare insieme: subito si ritrovarono a fare le hostess in un aereo che aveva per passeggeri Kala Nag e altri otto giocattoli diversi, e Bianca si rivelò immediatamente essere un piccolo tornado di inventiva in fatto di giochi: quando fu servito il caffè a un panda fece finta che gli fosse andato di traverso e improvvisò subito una sorta di massaggio cardiaco, e l’aeroplano si trasformò immediatamente in un pronto soccorso. Non appena Mila, cercando un termometro per il mal di pancia, tirò fuori dall’armadio due vecchie e bellissime bambole di porcellana, la sala d’attesa dell’ospedale si tramutò in una piattaforma per sfilate di moda. Quando poi Bianca nascose la bambola che le piaceva di meno sotto il cuscino e gridò che una delle modelle era stata rapita dagli ufo, i pastelli che stavano usando come microfono divennero delle pistole a raggi fotonici d’ultima tecnologia, e il panda che prima avevano curato prese il ruolo di capo supremo degli alieni malvagi.

Aahh!” Bianca cadde teatralmente all’indietro quando il panda riuscì a spararle a una spalla “Muoio, per la barba di Merlino, mi ha morto dritto al cuore!” 

“Capitano, ti fa male il cuore?”

“Tantissimissimo. Ma se io ho ragione, e ho ragione” a Mila piacque tanto quell’ultima frase che decise di conservarsela per la prima occasione possibile  “la tua pistola ammazza gli alieni perché sono cattivi, ma noi siamo buone e a noi ci guarisce le ferite. Puntala qui così guarisco anch’io, qui, ecco!” 

Con quello stratagemma Bianca e Mila sopravvissero da immaginarie malattie incurabili almeno quattro o cinque volte ciascuna. Il gioco degli alieni, che includeva anche il saltare sul letto con le scarpe e raccogliere pezzetti di Lego dalla scatola per lanciarli su tutto il pavimento, fu quello che durò più degli altri, anche dopo che il panda fu fatto malamente sconfiggere da Kala Nag a furia di colpi di proboscide. Fu Carmen, e il suo grido quasi isterico che soffiò dalla soglia della porta a mettere fine al gioco. “Ma che cavolo di casino hai combinato?!”

Carmen, immobile sulla porta con le mani artigliate sui fianchi, osservava la stanza e sembrava quasi lanciare fulmini dagli occhi. Mila e Bianca, che erano sedute su un letto e stavano usando i cuscini come scudo, si fermarono immediatamente e saltarono giù dal materasso quasi nello stesso momento. La navicella aliena nella quale si stavano improvvisando i protagonisti di Star Wars tornò ad essere una semplice camera da letto immersa in un disordine terrificante. Carmen strinse le labbra e assunse un cipiglio ancor più minaccioso. Quando poi aprì la bocca per dire qualcosa si bloccò a metà parola, e il volto si scolorò d’un tratto.

Entrando nella stanza calciò con rabbia ogni giocattolo che le capitava tra i piedi, e allora Mila si affrettò a recuperare il suo elefante per nasconderselo dietro la schiena e impedirle di prendere anche lui.

“Queste…” Carmen si chinò per raccogliere una di quelle bambole che Mila aveva scovato in fondo all’armadio, e che ora era rimasta sul pavimento senza cappellino e con il vestito brutalmente sgualcito. Mila, sentendosi come un imputato in balia di un giudice spaventoso, indietreggiò appena e incassò la testa tra e spalle, pronta a beccarsi un rimprovero terribile. Invece, quando Carmen alzò lo sguardo dalla bambola, fu con Bianca che se la prese  “Queste sono mie! Quante volte te l’ho detto che non devi toccare la mia roba, Mostro?” 

“Non sono tue!” si difese Bianca alzando la voce con coraggio “Papà ha detto che non ti servono e che ci posso giocare io.”

“E invece sono mie, hai capito Mostro? E se le tocchi un’altra volta giuro che ti ammazzo!”

Carmen alzò la mano, come per darle uno schiaffo, ma Bianca le fece la linguaccia e, presa per mano Mila, la trascinò velocemente fuori dalla camera.

Corsero fino a quando non notarono le loro madri dalla porta della cucina, e allora ci si infilarono dentro, fiondandosi ognuna verso la sua per cercare un nascondiglio dietro le loro gambe.

 

Federica era andata a prendere la tovaglia per apparecchiare e Daniela l’aveva seguita poco dopo. Si era quasi abituata alla presenza delle domestiche di Amos che si occupavano di tutte queste cose, e per un attimo le era persino sembrato strano il non vedere Sofia o Monica con una pila di piatti sorretta tra le braccia passarle davanti per raggiungere il salotto. Aiutò Federica a scolare la pasta, a contare quante forchette occorressero, e a decidere se fosse meglio servire l’antipasto con le fette di prosciutto avvolte nei grissini o se nei rettangoli di formaggio. In tutto quel tempo, se anche la loro attenzione poteva sembrare rivolta a tutt’altra cosa, in realtà nessuna riusciva quasi mai a staccare lo sguardo l’una dalla gonna dell’altra. Fu come un continuo chiedersi a chi stesse meglio, a chi più donava l’azzurro, quale delle due sembrava più fresca d’acquisto e chi fosse riuscita a trovare delle scarpe che si intonassero di più con quel colore. Fu dietro quelle gonne identiche che Mila e Bianca andarono a nascondersi urlando e tirandone la stoffa.

“…Mila!” Daniela, che non si aspettava l’apparizione della figlia, quasi andò a sbattere contro il tavolo tanto fu lo spavento che prese. Federica sembrava essere più abituata di lei a queste entrate in scena, perché le bastò giusto sentire i passi delle bambine da lontano per lasciare il mestolo nella pentola e aggrapparsi al bordo del piano di cottura per non lasciare che Bianca le facesse perdere l’equilibrio. Con un sospiro abbassò lo sguardo verso la minore delle sue figlie “Bianca, che state combinando?”

“È stata Carmen!” piagnucolò lei sollevando la testa “ha detto che le bambole sono sue e invece me le ha date papà a me!”

“Sii gentile con tua sorella. Lo sai che è arrabbiata per Lucciola.”

Federica accarezzò il braccio della figlia, come per dirle di non starle così appiccicata alle gambe. Poi si rivolse a Daniela.

“Il cane” spiegò scuotendo il capo “è scappato l’altro giorno, mio padre lo sta cercando perché ha paura che sia ferito o che morda qualcuno. Carmen gli è molto affezionata, per questo è di cattivo umore”

A sentire quel racconto, Mila storse la bocca: lei odiava i cani.

Non ricordava bene, ma era sicura che una volta un cane avesse cercato di morderla, mentre era da sola con suo padre da qualche parte.

Bianca tirò di nuovo la gonna della madre “Mamma, ma le bambole sono mie anche se Lucciola è scappato, vero?”

“Bianca, per favore! Perché non accompagni Mila a lavarsi le mani? Tanto qui è quasi pronto.”

 

 

Dopo qualche parere discordante da parte dei due coniugi, finirono con lo mangiare in giardino, coperti da un enorme ombrellone che però poteva proteggere ben poco dal vento quando mandava loro addosso una delle sue poche soffiate bollenti.

Il pranzo comprendeva un antipasto di affettati e formaggio, gnocchi sardi al sugo che Daniela adorò subito, agnello al forno, pesce spada ai ferri e salmone al pepe rosa, lattuga e pomodori e un vassoio colmo di mele, arance, kiwi e banane.

Fu dopo poco l’arrivo a tavola degli gnocchi che Baingio iniziò a parlare del cane.

“Un bel weimaraner di quattro anni, lo dovreste vedere, è uno spettacolo! Orazio non voleva un cane di razza, dice che i meticci sono molto più fedeli e robusti”  rimase un momento in silenzio, come aspettando una risposta del suocero al suo commento: ma visto che Orazio continuava a mangiare senza neanche dar l’impressione di star ascoltando, Baingio proseguì “in effetti credevamo fosse un bastardino quando lo abbiamo trovato. E’ stato qui vicino, era dentro uno scatolone con altri due cuccioli già morti. Abbandonati, ovvio: certa gente tratta gli animali come fossero spazzatura.”

“Perché?” Mila allungò una mano verso il braccio di sua madre e le si avvicinò abbassando la voce “Perché come spazzatura?”

Daniela si limitò a risponderle passandole il tovagliolo sulla bocca per toglierle tutti gli sbavi di sugo. Anche Federica partecipava poco alla conversazione per stare appresso ai figli più piccoli, cercando di far stare Bianca composta a tavola e alzandosi ogni volta che Alessandro, che aveva già mangiato, piagnucolava dal passeggino senza avere alcuna intenzione di dormire.

“Com’è scappato?” domandò Amos bevendo un altro sorso di vino. Baingio scosse il capo “Non ne siamo sicuri, ma abbiamo trovato una fossa scavata vicino al cancello. Sembra strano a tutti che sia passato da lì, però non riusciamo a trovare altre spiegazioni. Non capiamo bene neanche il perché sarebbe dovuto scappare.” 

“Stai tranquilla, cara” Federica allungò una mano per accarezzare la guancia della figlia maggiore “vedrai che Lucciola tornerà a casa”. Carmen si scostò bruscamente da quella carezza e continuò a mangiare in silenzio, guadagnandosi una bruttissima occhiata che il padre le lanciò dall’altra parte del tavolo. “Comunque” continuò lui, staccando forzatamente lo sguardo da Carmen “Avete visto l’acquazzone di questi giorni? Non sembrava neanche estate” 

“Però a me manca un po’ il fresco” si intromise la moglie mentre avvicinava il bicchiere d’acqua alla bocca di Bianca “oggi c’è troppo caldo”

“Io preferisco così” Daniela mangiò un altro boccone e poi continuò “voglio dire, c’è caldo, ma è normale in estate: e almeno possiamo uscire e goderci un po’ il sole.”

“Giusto, Daniela. Sono d’accordo con te”

“Baingio ama il caldo solo perché la sete attira più clienti nel suo bar” scherzò Federica, e tutti, compresa Carmen ed escluso Orazio, si misero a ridere. Baingio alzò gli occhi al soffitto.

“In realtà” Daniela poggiò la forchetta dentro il piatto, provocando senza volerlo un lieve tintin che attirò subito l’attenzione di tutti  “lo capisco: io lavoro in un ristorante, e d’estate compriamo valanghe di gelato. Se non fa molto caldo e il gelato non vende, la proprietaria perde la testa. E’ capace di costringerci a farlo mangiare a familiari e amici con la forza pur di sbarazzarsene.”

Baingio annuì, facendo intendere che capiva perfettamente la situazione. Sembrò sul punto di dire qualcosa, ma la moglie lo precedette “E tuo marito?” domandò, sporgendosi verso Daniela  “anche lui lavorava in un ristorante?”

Mila, al sentire suo padre intromesso così bruscamente nel discorso, alzò di scatto il naso verso Daniela, guardandola bere un sorso d’acqua e poi scuotere il capo mentre poggiava il bicchiere sulla tovaglia “No” spiegò, tranquilla e sorridente. “Oliver faceva…”

A parte Alessandro, che dal passeggino aveva ricominciato a piagnucolare perché il suo koala di pezza gli era caduto a terra, tutti si zittirono, come se l’improvviso silenzio di Daniela avesse contagiato tutta la tavola. Con lo sguardo ancora fisso su Federica, aprì la bocca, la socchiuse, la riaprì ancora. E all’improvviso, abbassando la testa e girandola in un’altra direzione, iniziò a tossire con così tanta forza che Mila, al suo fianco, sussultò per lo spavento. “Oh, cielo!” Federica le accarezzò la schiena e la guardò premere le mani contro le labbra, sentendo sotto le dita le spalle brutalmente scosse dalla tosse. Amos, dall’altra parte del tavolo e con le mani intrecciate davanti al piatto, fissò la scena con attenzione, senza dire o far nulla. “Cara” insistette Federica, che si alzò dalla sedia insieme a Baingio e a Orazio, entrambi dallo sguardo spaventato. “Va tutto bene?”

“S...” Daniela scosse il capo, il volto coperto dai capelli e il petto che, pian piano tornava a respirare normalmente. Quando sentì che la tosse era passata, alzò il viso: tutta la faccia era completamente rossa, e se non fosse stato per il suo sorriso tranquillo si sarebbe potuto pensare che stesse per sentirsi male “…scusate… m-mi è andata l’acqua di traverso…” e rise, facendo intendere di star meglio, mentre l’imbarazzo le colorava ancor più le guance di rosso.

 

Bianca, che aveva osservato la scena con enorme curiosità, si voltò verso la sorella e la chiamò tirandole la maglietta “Ma sta per morire?” chiese. Carmen le lanciò uno schiaffo sul capo che la fece piagnucolare un po’, e le dette della cretina.

Baingio, come intuendo che la conversazione stava prendendo una piega indesiderata, cercò un’alta volta di cambiare discorso. “…non è questione di bar o gelato, comunque: se è estate deve far caldo, perché è così che deve essere!” e si rivolse alla persona sedutagli vicino “Amos, anche tu sei d’accordo, vero?”

“Veramente, ho sempre avuto una predilezione per i temporali” spiegò lui incrociando le mani sul tavolo. Il suo tono di voce era così ammaliante che tutti smisero di mangiare per ascoltarlo: tranne Mila, che quando incrociò lo sguardo dello zio ebbe quasi l’impulso di scivolare dalla sedia e nascondersi sotto il tavolo.

“Da ragazzo mi affascinavano molto. Mi dicevano di non avvicinarmi mai agli alberi quando c’erano i fulmini, ma era proprio lì che andavo: credo mi stuzzicasse l’idea di vederne uno prendere fuoco a causa di un fulmine”

“Da rimanerci arrosto” commentò Federica, ridacchiando, accompagnata da un leggero mormorio di consensi.

“Infatti, a volte ripensando a quello che facevo mi chiedo ancora come abbia fatto a rimanere tutto intero fino ad oggi. Poi, ovviamente, i temporali finivano e io ci rimanevo male. Niente più tuoni, niente più pioggia. Vedevo che tutto tornava in ordine, come sarebbe dovuto essere, e l’ho sempre trovato…” Amos si grattò il mento, come se stesse cercando la parola giusta da dare “…noioso.”

Noioso?” ripeté Baingio brandendo la sua forchetta “Perché mai? Come hai detto tu, torna tutto in ordine. Come dovrebbe essere. Cosa accidenti ci trovi di noioso?”

Amos non ebbe il tempo di rispondere, sebbene dal sorriso enigmatico che esibì non sembrava neanche molto intenzionato a farlo: Federica si alzò da tavola per ritirare i piatti vuoti e Daniela le dette una mano. “Baingio, hai tagliato la carne, vero? A quanti di voi piace l’agnello?”

 

 

Il pranzo si concluse con il caffè e i pasticcini al cioccolato che Amos aveva portato, insieme a un barattolo pieno di piccole palline gialle e rossicce alle quali Daniela non seppe dare un nome. “Polline” spiegò Federica aprendo il coperchio “Le ragazze ed io ne andiamo matte. Volete provare un cucchiaio?”

Mila aveva osservato quel barattolo di palline con gran scetticismo nello sguardo: l’aspetto le risultò molto poco invitante, e non avrebbe voluto neanche assaggiarlo se Bianca, che si infilava in bocca il suo cucchiaio come se fosse pieno di gelato, non l’avesse convinta a provarlo. Federica la imboccò proprio come aveva fatto con sua figlia, e il sapore che Mila sentì fu un po’ granuloso, non buonissimo ma nemmeno cattivo, di qualcosa che a tratti le ricordava l’arancia. A differenza di Carmen e Bianca decise di non accettare una seconda porzione. “Caspita” esclamò Daniela dopo che fu il suo turno di assaggiarlo  “Non sapevo fosse così buono. In realtà non credevo nemmeno che il polline si potesse mangiare.”

“Oh, anche noi lo abbiamo scoperto da poco” Federica ridacchiò  “Contiene molte vitamine e dopo pranzo fa bene alla digestione. E almeno è molto meglio di quelle porcherie piene di grassi che mangiano i ragazzini al giorno d’oggi”

“Spero che non ti riferisca ai miei pasticcini, Federica”

“Tranquillo, Amos” Baingio allungò la mano per afferrare il vassoio dei dolci e trascinarselo di fronte al piatto “per i miei figli che mangiano solo porcherie, posso sacrificarmi e mangiarmeli tutti io”

Bianca si alzò rumorosamente dalla sedia e aggirò il tavolo di corsa, fino a ritrovarsi dietro il padre e cercare di salirgli sulle ginocchia aggrappandosi alla maglietta. Baingio la sollevò da terra e lei iniziò a schiaffeggiarlo sulla testa gridando una serie di “No, no, anche io la voglio, la voglio la cioccolata!”.

La scena risultò abbastanza comica per sollevare una risata da quasi tutta la tavola. Sia Orazio che Daniela si limitarono a un sorriso divertito, senza esporsi troppo.

Mila, invece, guardò il tutto con un groppo incastrato in gola.

Veloce, afferrò un lembo di camicetta della mamma e la tirò a sé fino a quando Daniela non si accorse che la stava cercando “Tesoro, cosa c’è?”

“Pipì.”

Daniela si morse il labbro e si sporse verso Federica “Scusa, dov’è il…”

“Bianca!” esclamò lei senza prestarle attenzione “Ora lascia stare papà, e basta con quei dolci. Prendine uno e torna a sederti”

“Fede, non mi sta mica dando fastidio”  la ammonì il marito facendo accomodare meglio Bianca sulle sue ginocchia “e poi mica puoi pretendere di allevarla a polline. E’ una bambina, non un insetto.”

Federica gli lanciò un’occhiata furente: fece per ribattere, ma poi sembrò ricordarsi che Daniela la stava cercando. Così si girò verso di lei regalandole un largo sorriso “scusami… stavi dicendo?”

“Ehm, il bagno, per Mil-!”

“Certo, certo” Federica, senza lasciarla concludere, indicò la porta che dava all’interno della casa “andate dal salotto nel corridoio, quello dove c’è la cucina. Il bagno è in fondo, è quello con le figurine di Bianca attaccate dappertutto.”

“Forse manca la carta igienica.”

“No Baingio, l’ho appena messa io. Daniela, preferisci che ti accompagni?”

Lei scosse il capo e fece alzare Mila dalla sedia “No, grazie. Torniamo subito” disse. E tornarono davvero subito, ancor prima di avere il tempo di raggiungere la porta: il chachachichachà che proveniva dalla borsetta di Daniela la fece prima irrigidire sul posto, e poi correre subito verso il tavolo per recuperare il cellulare.

Non aveva dubbi su chi la stesse cercando: non tanto perché erano in pochi ad avere il suo numero, quanto perché era tipico della sua amica Vincenza cercarla all’ora di pranzo o quando era il momento meno adatto per ricevere una chiamata. E infatti fu proprio il nome Vincy ad apparirle sullo schermo e farle scappare un sospiro un po’ scocciato.

Federica, ancora seduta al suo posto, alzò un sopraciglio e si rivolse al marito “Non è la stessa suoneria del telefono di tua sorella?”

“Naaa, scherzi? Lucia non sa neanche di averlo il cellulare, se lo tiene in borsa con la vibrazione e non lo tocca più: a volte mi chiedo perché diavolo gliene abbiamo regalato uno.”

“Scusate…” Daniela recuperò frettolosamente il telefono e con la mano libera trascinò la figlia dentro casa. l’ultima cosa che Mila riuscì a sentire fu la voce di Bianca mentre si rivolgeva al padre: “Io al bagno ci vado già da sola.”

Daniela, con una mano che accompagnava la figlia e l’altra che cercava di trafficare coi tasti del cellulare per farlo star zitto, si accorse di aver raggiunto la porta del bagno solo quando Mila la fermò per le ginocchia e si fiondò oltre la porta. “Non vuoi che ti aiuti?” le chiese: ma lei scosse il capo con forza e, senza degnarla neanche di uno sguardo, le sbatté la porta in faccia senza complimenti.

La verità era che Mila non aveva davvero bisogno del bagno: solo, come ogni volta che il ricordo di suo padre si faceva più vivido, le era venuta voglia di nascondersi e stare da sola. Sedendosi sul pavimento, col mento poggiato sulle ginocchia e le braccia strette intorno alle gambe, normalmente sarebbe rimasta in silenzio, a guardare il nulla, e poi forse avrebbe pianto: ma quando alzò lo sguardo dalle sue ciabatte, i colori sgargianti di quel bagno sconosciuto la disorientarono tanto da farle quasi dimenticare il perché si fosse rifugiata lì. Soprattutto, la cosa che immediatamente catturò la sua attenzione fu quel lampadario assurdo e penzolante, a forma di bambola e con la lampadina sotto la gonna simile a un imbuto, che dall’alto la osservava con gli occhi appena storti e il sorriso simile a un bacio. Poi, c’era l’odore di limone, così forte e pungente che Mila ebbe quasi l’impressione di essersi seduta su del sorbetto. Per il resto, invece, non era poi molto dissimile da quello di casa sua: di forma quasi quadrata, con la finestra accanto al water e le tende della doccia dall’aria spessa come coperte. Per certi versi, se non alzava troppo spesso lo sguardo verso quella lampada strana, poteva anche far finta di essere nel suo bagno. Ma scoprì molto presto di non riuscire a farne a meno: quella forma la incuriosiva tantissimo, e le faceva chiedere se si potesse staccare dal soffitto per poterci giocare. Senza nemmeno accorgersene si alzò in piedi e fece qualche passo in avanti, provando a studiarla da una diversa angolazione. Ma tenendo il naso così sollevato non si rese conto nemmeno di dove stava andando, e in meno di quattro passi sbatté con la schiena contro il cassetto di un mobile. Dall’alto del mobile cadde giù un rotolo di carta igienica, che rotolò su tutto il pavimento in una lunga lingua rosa, fermandosi solo quando andò a sbattere contro la doccia. Nel guardare la scena, a Mila sfuggì un Ops! intimorito. Gettò un’occhiata alla porta chiusa, come per assicurarsi che sua madre non avesse sentito nulla: quando fu certa che nessuno si fosse accorto di nulla, si inginocchiò e cercò di rimediare a quel piccolo pasticcio. Più di una volta, tirando e recuperando la carta igienica, finiva col farla srotolare ancora più di prima, ma alla fine riuscì a raccoglierla tutta in un cumolo stropicciato e disordinato. Soddisfatta, Mila tornò indietro per rimettere tutto sul mobile, ma si accorse subito che era troppo alto. Allora aprì il cassetto più vicino e cercò di infilare tutto lì dentro, ignorando il fatto che fosse già colmo di asciugamani e che così facendo non si sarebbe chiuso neanche se lo avesse forzato. Quando cercò di spostare il rotolo nell’angolo più vuoto del cassetto, le sfuggì di mano e ruzzolò un’altra volta verso la doccia. Mila emise un mugolio infastidito e cercò subito di recuperarlo.

Le tendine della doccia si mossero da sole, e Mila si immobilizzò a metà strada.

In realtà non si erano proprio mosse: più che altro, avevano tremato, come se ogni nuvoletta disegnata sul tessuto di plastica fosse stata scossa da un minuscolo brivido di freddo. Poi nulla. Tornò tutto così normalmente fermo che quelle stesse nuvole che Mila era sicura d’aver visto muoversi, ora sembravano come guardarla per chiederle che cosa mai avesse visto di tanto bizzarro da fare quella faccia. Mila le osservò di rimando e arcuò un sopraciglio; fece un passo in avanti, poi ci ripensò e tornò subito dove si trovava, come temendo che la mattonella davanti a lei avrebbe potuto mangiarle un piede. Da oltre la porta chiusa sentì la voce di sua madre, e il pensiero che le sarebbe bastato chiamarla per farla accorrere nel bagno la tranquillizzò. Tornò a guardare la doccia, immobile come una qualsiasi altra doccia normale.  

Le tende sono rotte, fu la conclusione più ovvia a cui riuscì ad arrivare. L’idea di chiamare davvero sua madre per dirglielo le sembrò sempre più buona. “Mamma?” tentò, rivolgendosi alla porta chiusa: ma la voce che le uscì fuori dalla gola fu poco più di un pigolio, e lei stessa faticò a sentirsi parlare.

E poi, come se un vento che non c’era avesse appena starnutito dentro la doccia, le tendine si gonfiarono e si spostarono tutte d’un lato con uno stridulissimo rumore. Mila se ne spaventò e indietreggiò velocemente fino a incontrare la porta con la schiena, con la bocca mezza a perta e pronta a cacciare un grido potentissimo. Dopo un lungo e terribile momento di panico, alla paura si sostituì lo stupore.

Esattamente come aveva visto nella cucina di suo zio Amos, dentro la doccia, dal nulla, apparve una scala.





















 


 






Onigiri






note autrice:





La canzone che canta Mila all'inizio del capitolo è dello zecchino d'oro, datata 1963, e la potete ascoltare qui: La zanzara.


Detto questo, devo chiedere scusa: per il ritardo, innanzitutto. sono in periodo di esami e madama ispirazione ha deciso di prolungare le sue vacanze estive, a quanto sembra >>
Chiedo anche scusa a  
darllenwr   se stavolta non lo ringrazio come si deve per il suo gentilissimo commento, per quanto davvero lo abbia apprezzato! In generale, mi scuso se stavolta sono tanto sbrigativa.
Chiedo scusa anche per quest'altro noioso capitolo, ma posso garantire che è proprio tra gli ultimi: tra poco sarà azione a tutto spiano, prometto!

Infine, ringrazio tantissimo chi sta seguendo questa storia. Spero che abbiate tutti passato delle bellissime vacanze ^_^!



Grazie ancora, e alla prossima!
*onigiri





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