La Rosa Sanguigna

di ornylumi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Le due Catherine ***
Capitolo 3: *** L'uomo buono ***
Capitolo 4: *** Azzurro cielo e blu cobalto ***
Capitolo 5: *** Gufo o gatto? ***
Capitolo 6: *** Tutti amano Potter ***
Capitolo 7: *** Verso Hogwarts ***
Capitolo 8: *** Molto più di una Testurbante ***
Capitolo 9: *** La prima notte ***
Capitolo 10: *** La lezione di Difesa ***
Capitolo 11: *** Conquiste ***
Capitolo 12: *** Questioni di sangue ***
Capitolo 13: *** Nel covo delle serpi ***
Capitolo 14: *** Sopra le nuvole ***
Capitolo 15: *** La vendetta di Vera ***
Capitolo 16: *** Il segreto di Young ***
Capitolo 17: *** Quasi puri ***
Capitolo 18: *** A casa per Natale ***
Capitolo 19: *** Giorni di neve ***
Capitolo 20: *** Il mantello ***
Capitolo 21: *** Il vero responsabile ***
Capitolo 22: *** Buio e luce ***
Capitolo 23: *** Abbie Macdonald ***
Capitolo 24: *** L'ultimo Mangiamorte ***
Capitolo 25: *** Neri come l'inchiostro ***
Capitolo 26: *** La parte migliore ***
Capitolo 27: *** Svolte inattese ***
Capitolo 28: *** Una nuova opportunità ***
Capitolo 29: *** Ritrovarsi ***
Capitolo 30: *** La Rosa Sanguigna ***
Capitolo 31: *** Vuoti da colmare ***
Capitolo 32: *** Il ricordo mancante ***
Capitolo 33: *** Resa dei conti ***
Capitolo 34: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


titolo

rosa


1


Ogni sera, dopo cena, il professor Paciock trascorreva qualche minuto nelle serre prima di far ritorno a casa. File e file di piantine, dalle specie più innocue a quelle che avrebbero fatto impallidire un’Acromantula, attendevano la sua visita quasi fossero dei figli, e il professore avrebbe giurato che in sua presenza germogliassero più in fretta. Aveva persino dato loro dei nomi, in modo da dare la buonanotte a ciascuna o complimentarsi per quanto fossero cresciute. Nessuno a scuola era a conoscenza della sua abitudine o, almeno, Neville era sicuro di no, altrimenti gli studenti si sarebbero presi gioco di lui più di quanto non facessero già. Poco importava, comunque: insegnare Erbologia era l’unico mestiere che avesse mai desiderato fare, e sul finire del primo anno poteva dire di essersela cavata bene. Era orgoglioso di ogni sua classe, tranne forse di qualche Serpeverde con la puzza sotto il naso che proprio non afferrava l’importanza delle piante magiche. Beh, nonostante fossero passati anni da quando lo studente era lui, certe vecchie tradizioni restavano invariate.

Era il 7 maggio 2010 e, in quella particolare occasione, il professore guardava estasiato il suo ultimo capolavoro, un esemplare di Geranio Zannuto che stava venendo su proprio bene. L’istinto di portarlo con sé era forte, gli avrebbe certamente dato ascolto se non fosse stato per sua moglie. Già, perché la Belladonna e il Frullobulbo potevano anche andare, ma se si fosse azzardato a portare in casa qualcos’altro di colore verde era molto probabile che Hannah avrebbe sbattuto fuori lui. Si rassegnò così a lasciarlo dov’era e, dopo un’accurata ispezione generale, uscì dalla serra, avviandosi fuori dal castello.

Faceva freddo per essere maggio. Il vento gli attraversava il mantello facendolo rabbrividire e Neville ne approfittò per lamentarsi una volta di più della sua condizione. Di solito, gli insegnanti di Hogwarts restavano al castello per la notte, ma nel suo caso era diverso: perché era sposato, e perché sua moglie aveva avuto la bella idea di affittare il Paiolo Magico quando l’ormai anziano proprietario Tom era andato in pensione. Il professore le aveva ripetuto e stra-ripetuto di quanto la cosa non fosse sicura, con lui lontano per l’intera giornata e maghi e streghe di tutti i tipi che entravano e uscivano dal locale, ma non c’era stato verso di farle cambiare idea. Così, non solo era in pensiero tutto il giorno per la gente che frequentava sua moglie, ma in più era costretto a lunghi viaggi per tornare a casa a dormire. Certo, proprio 'lunghi' non li si poteva definire, con tutti i mezzi che un mago aveva per intraprenderli: scope, Metropolvere, Passaporte, Materializzazione… No, quella proprio no, la odiava da sempre e l’aveva esclusa per prima dalla lista. Di volare con la scopa neppure se ne parlava, se faceva così freddo a maggio non sarebbe arrivato vivo alla fine dell’inverno. Così, utilizzava per lo più una Passaporta, anche se il governo era diventato molto ligio al dovere negli ultimi anni e non sempre gli concedeva l’autorizzazione. Quando gli andava bene, era comunque costretto a collocarla fuori dalla scuola per una cosiddetta questione di sicurezza, il che lo costringeva a passeggiate serali esposte ad ogni tipo di intemperie. Per tutte le altre volte non gli restava che il camino, un altro mezzo non propriamente comodo, ma fortunatamente quella era una delle serate 'buone'.

Cercò a poco a poco di tirarsi su, pensando al calore della sua casa e ad Hannah che lo aspettava a braccia aperte. Avevano davanti a loro un intero weekend da passare insieme, chissà lei quanto sarebbe stata contenta… Avrebbero sorseggiato idromele raccontandosi reciprocamente la giornata e, magari, Hannah gli avrebbe concesso un’altra piantina ornamentale da tenere sul davanzale. Forse, i suoi ricordi legati a Erbologia erano ancora troppo infelici per farle apprezzare davvero la materia, ma prima o poi si sarebbe resa conto di quali sostanze incredibili potevano essere ricavate dalle piante e avrebbe iniziato ad amarle. Come quel profumo che aveva fatto confezionare per lei, un rarissimo estratto di Rosa Sanguigna irlandese, e che ora lo stava accompagnando nella tasca destra.

…Tasca destra. Un po’ troppo leggera in effetti, sembrava quasi che fosse vuota. Tanto per controllare, perché era sicuro di aver preso la boccetta, tastò la patta con la mano e anche allora non trovò alcuna protuberanza. Possibile che l’avesse lasciata sul tavolo degli insegnanti, durante la cena? Non lo ricordava affatto, ma era sicuro, sicurissimo di averla portata con sé dallo studio.

…Beh, almeno gli sembrava. Dannazione, la memoria lo tradiva ancora! Un attimo dopo, fu certo che la boccetta col profumo non era mai uscita dal cassetto della scrivania. Sbuffando e costringendosi a fare dietrofront, pensò alla Ricordella di sua nonna e ammise a malincuore di averne ancora bisogno.

Il cancello cigolò più di prima al suo passaggio, come seccato per essere stato aperto una seconda volta. Anche i cinghiali alati sulle colonne avevano un che di minaccioso quella sera, stagliati contro un cielo scuro e nuvoloso, e pur sentendosi sciocco Neville preferì abbassare lo sguardo. Le luci e il calore della Sala d’Ingresso, infine, lo raggiunsero come una benedizione.

Per fortuna, il suo studio non era situato in cima a una torre, ma nei pressi delle cucine e dei dormitori dei Tassorosso. Superò a passo svelto i colleghi intenti a parlare nei corridoi, rifiutando cortesemente di unirsi a loro e spiegando che aveva bisogno di un digestivo, dopo l’ottima ma abbondante cena di poco prima. I più non fecero commenti, ma qualche risolino lo raggiunse alle orecchie dopo aver percorso pochi passi. Proprio la Cooman, poi, se la rideva dei suoi problemi digestivi, e in generale dei problemi di tutti, solo perché da qualche anno era riuscita a smettere con lo Sherry. Ignorandola volutamente, s’impose di andare avanti.

L’ultima delle sorprese lo aspettava dietro la porta. Discese i tre gradini - quelli inutili, che servivano solo a farlo inciampare - e ben presto si trovò a fronteggiare un’altra delle sue dimenticanze. Le luci, Merlino! Prima di uscire aveva controllato tre volte ogni fonte luminosa, e adesso nella stanza sembrava mezzogiorno! Se i suoi vuoti di memoria arrivavano a questo punto, doveva essere vittima di qualche magia oscura o, peggio, di un invecchiamento decisamente precoce. Iniziando a sudare, notò che le sue lampadine-magiche-ultimo-modello erano disposte in uno strano modo, uno che proprio non era nel suo stile… O, almeno, non ricordava che lo fosse mai stato. Erano allineate sulla scrivania in maniera da far luce soprattutto sul retro. La cosa iniziava a diventare sospetta, e Neville dovette far ricorso a tutto il suo coraggio da ex Grifondoro per avanzare di qualche altro passo.

Ogni centimetro in più rivelava un dettaglio nuovo alla sua vista. Dapprima notò una certa confusione che lui stesso non avrebbe mai lasciato: libri gettati ovunque alla rinfusa, oggetti che non erano dove avrebbero dovuto essere… Possibile che qualcuno avesse frugato nel suo studio? Un altro, piccolo passo e si accorse che il primo cassetto era aperto. Aperto! Cosa mai avrebbero potuto cercare tra i suoi oggetti personali e, soprattutto, chi poteva averlo fatto? Ma fu l’ultima visione a dargli un vero sussulto al cuore: un ciuffo di capelli scuri, accompagnato da un respiro soffocato, spuntava esattamente da dietro la scrivania.

“Chi è là?” gridò il professore, puntando davanti a sé la bacchetta. L’intruso dovette considerarsi in trappola, poiché iniziò ad alzarsi in piedi tenendo gli occhi bassi dalla vergogna.

Di tutte le persone che Neville poteva immaginarsi di trovare, mai si sarebbe aspettato che si trattasse proprio di lei, una ragazzina dodicenne al suo primo anno a Hogwarts. Non che fosse una bambina qualunque, questo era certo: dal giorno del suo Smistamento era diventata famosa in tutto il castello. Ciò però non bastava a spiegare la ragione della sua presenza lì.

“Scott, che mi prenda un colpo!” le disse, riabbassando la bacchetta, mentre il suo cuore riprendeva a poco a poco il battito regolare. “Cosa diamine ci fai qui?”

La ragazzina non rispose subito. Continuava a non guardare in volto il suo insegnante, forse preoccupata di ricevere una punizione. Infilò le mani in tasca e i suoi occhi vagarono da un punto all’altro della stanza, come in cerca di un’ancora di salvataggio. Prima che Neville potesse aprire bocca per ripetere la domanda, però, il suo atteggiamento cambiò di colpo: una vera rabbia le esplose sul viso accaldato, con un gesto veloce estrasse la propria bacchetta e dall’alto del suo metro e cinquanta la usò per minacciare l’insegnante.

“Professor Paciock!” tuonò, come se fosse profondamente offesa. “Lei ha qualcosa che mi appartiene!”


Note

Non so perché anche questa nuova storia inizia con Neville, sarà che mi sta simpatico ed è stato divertente immaginarlo come professore. I protagonisti apparterranno alla nuova generazione, ma ci saranno comunque anche quelli "vecchi" e ben noti come lui. Come tempi ed eventi cercherò di rifarmi il più possibile alle rivelazioni della Rowling post-libri, ma perdonatemi se dimenticherò qualcosa perché far quadrare tutto non è assolutamente facile :)

Ho in mente il racconto a grandi linee, ma nei dettagli crescerà a mano a mano con la speranza che l'ispirazione non mi abbandoni! Intanto, grazie a chi deciderà di seguirlo.

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Capitolo 2
*** Le due Catherine ***


2


Neville aveva conosciuto Catherine Scott l’estate precedente, durante il suo primo incarico da insegnante. Il nuovo Preside di Hogwarts, nonché suo ex professore di Incantesimi, gli aveva dato il benvenuto nel corpo docenti con una proposta che tutti i suoi colleghi più anziani avevano rifiutato: doveva recarsi a Londra, all’orfanotrofio Babbano di St. George, a spiegare come mai una bambina di undici anni avesse ricevuto una lettera da una Scuola di Magia. Non era un compito particolarmente difficile, eppure Neville lo accettò con un groppo alla gola. Forse era l’idea di presentarsi ai Babbani a renderlo nervoso, o il fatto che se il Direttore avesse opposto resistenza avrebbe dovuto Confonderlo. In ogni caso, non lo rassicurò di certo la reazione della Cooman, che venuta a conoscenza del fatto parlò di “oscuri presagi e tremenda sventura”.

Fu così con una certa ansia e un travestimento poco credibile che il professore si avviò, in una calda giornata di luglio, verso l’edificio che ospitava l’orfanotrofio. Quando fu davanti al cancello, ricontrollò almeno tre volte l’indirizzo prima di bussare: non si aspettava, in effetti, niente di così grande e maestoso.

Al di là del cancello c’era un immenso giardino, ben curato, pieno di fiori e alberi di ogni tipo. Sullo sfondo, un altrettanto immenso edificio bianco brillava alla luce del sole in maniera quasi accecante. Neville pensò che tutto sommato non doveva essere così tremendo vivere lì: anche se orfani, i bambini non potevano che crescere dignitosamente in tutto quello sfarzo.

Si presentò come visitatore a quello strano ingegno chiamato citofono e, dopo pochi minuti, una ragazza vestita di bianco venne ad aprirgli. Gli sorrise cordiale e lo accompagnò fino al portone, fingendo di non badare alla sua giacca passata di moda e ai suoi continui tentativi di fermarsi in giardino, per ammirare l’una o l’altra pianta ornamentale. Neville chiese di parlare al Direttore, così come gli era stato detto di fare, e ben presto si ritrovò in uno studio tirato a lucido, tappezzato di foto di bambini immobili. Dietro la scrivania c’era un uomo anziano e quasi privo di capelli, che si presentò come Ralph Bennett; gli strinse la mano con aria affabile e lo invitò a sedersi. Neville non poteva fare a meno di guardarsi intorno con stupore, data l’enorme quantità di oggetti Babbani e sconosciuti, tuttavia l’espressione perplessa dell’uomo lo convinse a smettere.

“Allora, signor Paciock” cominciò il Direttore, “cosa le pare della nostra struttura?”

Neville capì che il momento temuto non era ancora arrivato e gli si sciolse un po’ di tensione. “Oh, è fantastica direi! C’è moltissimo spazio per far crescere i bambini”.

Il signor Bennett sembrò piacevolmente colpito da tanto entusiasmo. “Bene, sono contento che le piaccia. Il palazzo è stato ristrutturato di recente, sa, e tengo al parere degli ospiti almeno quanto al benessere dei nostri bambini. In questo orfanotrofio” e indicò con la mano le numerose fotografie “sono cresciuti i personaggi più illustri”. Nominò due o tre persone che per lui dovevano significare molto, ma a Neville non ricordarono assolutamente nulla. Per non deluderlo, comunque, annuì fingendo di capire.

“A cosa dobbiamo il piacere di questa visita?” Il cuore di Neville ricominciò a battere furiosamente dopo quella domanda: ora doveva svelarsi.

“Ecco…” iniziò, titubante, lanciando un’occhiata furtiva alla sua pergamena di appunti. “Sono qui per Catherine Scott”.

Il Direttore si accigliò, come se non si aspettasse quella risposta. “Ah. Curioso, la piccola Scott non riceve molte visite”.

“Non sono un familiare. Sono Professore alla Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, alla quale la bambina è invitata a presentarsi il primo settembre. Dovreste aver ricevuto una lettera”. Neville aveva pronunciato quelle parole tutte d’un fiato, sperando in cuor suo che Bennett fosse una persona comprensiva e di ampie vedute.

“Hogwarts, ha detto?” gli chiese l’uomo, senza mostrarsi poi troppo sorpreso. Neville annuì.

Il Direttore sollevò il telefono, quell’attrezzo che i Babbani utilizzavano per parlare tra loro, e chiese a qualcuno dall’altra parte di mandargli Catherine con la lettera. Ma non fu, come Neville si aspettava, una bambina di undici anni a entrare dopo qualche minuto dalla porta: era una giovane donna, all’incirca coetanea di quella che gli aveva aperto il cancello, e aveva indosso la stessa divisa bianca dell’altra.

“Catherine” le si rivolse il Direttore, “quest’uomo è Neville Paciock, dice di insegnare alla scuola di Hogwarts. Puoi mostrarmi la lettera indirizzata alla Scott?”

La ragazza gli porse la busta ancora intatta e l’uomo la esaminò in silenzio per alcuni secondi. Neville notò che la giovane aveva un’aria sciatta e angosciata.

“Hogwarts…” ripeté ancora Bennett. “È questo il nome?” Si voltò verso la ragazza, che con la sua espressione sconsolata confermò. “Bene. Grazie Catherine, vai a prendere la bambina”.

Quando fu di nuovo solo con il Direttore, Neville capì che le cose stavano prendendo una piega inaspettata. Per qualche strano motivo il Babbano era a conoscenza di Hogwarts e, forse, dell’esistenza dei maghi.

“Signor Paciock” continuò, intrecciando le dita sulla scrivania. “Si dà il caso che questo nome non ci risulti nuovo. Sapevamo che la bambina era stata iscritta alla sua scuola, e non avremo nulla in contrario se deciderà di frequentarla”.

Neville restò a bocca aperta: non si aspettava che sarebbe stato così semplice, tuttavia c’era qualcosa che non tornava. Per quello che ne sapeva non c’erano maghi all’orfanotrofio, e nessuno di Hogwarts era venuto prima di lui ad avvertirli.

“Ah… Ehm, bene. Davvero conoscete Hogwarts? Chi è stato a informarvi?” azzardò.

“Il suo tutore, naturalmente” rispose tranquillo il Direttore.

“La bambina ha un tutore?”

“Certamente. Non lo sapeva?”

“In realtà, no. Mi era stato detto che Catherine Scott non aveva parenti”.

“Le avranno dato un’informazione errata”. Il Direttore alzò le spalle, come rassegnato all’inefficienza di certe istituzioni.

“Come si chiama questa persona?” chiese ancora Neville, incuriosito e stranamente agitato.

“Mi dispiace, ma ha chiesto di rimanere anonima”.

“Sarà necessario metterci in contatto con lui. Sa, per le varie questioni legate alla scuola…” Il professore temeva le reazioni di Vitious, se avesse saputo di tutti quegli inconvenienti legati a una studentessa.

“Potete fare riferimento a me” rispose prontamente Bennett. Non vedendo via di scampo senza l’uso della bacchetta, Neville restò in silenzio.

Qualche minuto dopo, la porta si aprì una seconda volta ed entrò nuovamente la giovane, accompagnando una ragazzina minuta dagli occhi neri e vivissimi. Catherine spingeva avanti la sua omonima, tenendole protettivamente un braccio attorno alle spalle. La piccola aveva un’aria familiare, notò Neville, come se l’avesse già conosciuta.

“Ciao, Cathy”. Il Direttore aveva salutato la bambina. “Quest’uomo è il professor Paciock. È qui per invitarti a frequentare la sua scuola, Hogwarts. Desideri andarci?”

Senza fare domande e senza mostrare un vero e proprio entusiasmo, Catherine annuì.

“Bene” continuò Bennett. “Adesso ti lascerò con il professore, che potrà spiegarti tutti i dettagli. Vi consiglio una passeggiata in giardino, è splendido in questo periodo dell’anno”.

Neville accettò volentieri la proposta, quei Babbani un po’ troppo informati lo mettevano in difficoltà e preferiva parlare da solo con Catherine. La sua omonima adulta le sussurrò “Ci vediamo dopo” prima di lasciarla andare. Mentre uscivano finalmente dallo studio, Neville sentì il Direttore borbottare: “Scuola di Magia e Stregoneria… Mai sentito niente di più ridicolo! Non sanno davvero più cosa inventarsi per avvicinare i ragazzini allo studio, parola mia!”

*

Si avviarono verso il portone e da lì uscirono in cortile, mentre Cathy sorrideva educatamente senza pronunciare parola. Neville non ricordava di aver mai conosciuto una bambina tanto silenziosa, così decise di interrogarla direttamente per assicurarsi che non fosse muta.

“Allora, Catherine…” cominciò, leggermente in imbarazzo. “Sapevi di essere una strega?”

“Sì” rispose finalmente lei. “Sapevo di riuscire a fare cose che gli altri non possono fare. E poi me l’ha detto il mio tutore”.

“Giusto, il tuo tutore… Cos’è per te, un parente? Uno zio, magari?”

Catherine alzò le spalle. “Non lo so, nessuno lo sa. E se vuole conoscere il suo nome, spreca il suo tempo”.

Neville allora capì che forse la bambina parlava poco, ma era assolutamente perspicace; aveva stroncato sul nascere il suo primo tentativo di interrogarla.

“Capisco. Comunque, se conosce Hogwarts e sa che sei una strega, vuol dire che è un mago anche lui”.

“Sì, lo è. Ed è un uomo buono. Ma non so altro, parla pochissimo di sé”.

Neville annuì, pensando che il misterioso tutore aveva fatto bene i suoi conti, decidendo di non svelare nulla nemmeno alla bambina. Poteva anche essere 'buono' come diceva lei, ma senza dubbio aveva qualcosa da nascondere.

“Com’è vivere qui?” chiese ancora a Cathy, cambiando argomento. “Non è facile cavarsela senza i genitori, in questo posso capirti perché sono cresciuto con mia nonna”.

“Non è così male. Se non li hai mai conosciuti, non puoi sentirne la mancanza”. Il discorso non faceva una piega, ma era strano sentirlo dalla bocca di un’undicenne. “E poi c’è Catherine che si occupa di me”.

“Sì, ho visto che ti è molto affezionata. Ma verrai a trovarla spesso, non preoccuparti. E in estate tornerai qui per le vacanze”.

Tra una parola e l’altra, i due si erano ritrovati in un angolo più isolato del giardino. C’era un piccolo gazebo di ferro, con ramoscelli di vite intrecciati alle travi del tetto, alla cui ombra cresceva un’incredibile varietà di fiori. Entrambi stavano osservando un’aiuola di ortensie, quando Cathy gli fece la sua prima domanda: “Che cosa insegna a Hogwarts?”

“La mia materia è Erbologia!” rispose Neville con entusiasmo. “Nella mia classe, imparerai tutto sulle piante magiche e sul loro trattamento!”

Cathy aggrottò le sopracciglia. “Erbologia? È davvero una materia?”

“Certo, e anche importante! Vedi, dalle piante possono essere estratte sostanze molto utili. Le Mandragole, per esempio…”

“Va bene, Professore, non importa” lo interruppe subito la bambina. “Non ho bisogno di una lezione anticipata”.

Adesso, Neville pensò che Catherine parlasse decisamente troppo. “Ok. Allora, su, fammi vedere cosa sai fare” la esortò, un po’ per curiosità e un po’ per metterla alla prova.

“Lo sto già facendo. Non lo sente?” chiese lei, con un sorriso provocatore.

“No. Che cosa dovrei sentire?”

Catherine alzò gli occhi al cielo, verso le foglie della vite che si muovevano nell’aria, nascondendo e mostrando alternativamente i raggi del sole. “Il vento” rispose.

“Oh… Wow”. Neville era senza parole, molto difficilmente la magia infantile raggiungeva un tale livello. “Sei davvero tu?”

Quella brezza leggera si fermò d’improvviso, e Cathy riabbassò lo sguardo.

“Ci riesco quando sono felice o arrabbiata, anche con l’acqua e altre cose. Ma qui nessuno mi crede, solo Catherine. Lei dice che ho un dono speciale”.

“E ha ragione” le disse Neville, rassicurandola. “Presto avrai una bacchetta, in essa potrai incanalare la tua magia e imparare a controllarla, con gli incantesimi che ti insegneremo a scuola. Tutto quello che ti serve è scritto nella lettera, potrai comprarlo a Diagon Alley”.

“So già tutto, grazie. Me l’ha detto…”

“Il tuo tutore” terminò la frase Neville, con un sorriso. Cathy gli sorrise a sua volta.

“Toglimi solo un’altra curiosità…” le chiese il professore. “Prima eri felice o arrabbiata?”

“Felice” rispose lei, senza esitazione. “Sono molto felice di andare a Hogwarts”.

*

Quando Neville tornò nello studio di Vitious, quella strana tensione che aveva addosso si era dissolta del tutto. Era stato più semplice del previsto far accettare la cosa ai Babbani e, quanto a Catherine, non era che una bambina come tante, seppure un po’ troppo sveglia per la sua età. Come aveva previsto, il Preside non fu contento di sapere che c’erano così tanti misteri riguardo al tutore della ragazza, tuttavia si limitò a pensare che forse era un mago un po’ all’antica e che si vergognasse di intrattenere rapporti con i Babbani. In ogni caso, non si lamentò dell’operato di Neville, anzi si complimentò con lui.

“Mi domando” disse infine Paciock, per togliersi un ultimo dubbio “perché nessuno voleva questo incarico… È stato talmente semplice!”

Vitious gli sorrise un po’ incerto, e abbassò gli occhi verso l’alto sgabello che gli permetteva di arrivare alla scrivania. “Eh già, in effetti… Che cosa sciocca dare ascolto alle superstizioni!”

“Superstizioni? Di che tipo?” chiese Neville incredulo.

“Oh, be’… Una sciocchezza, davvero! È solo che… Un altro mago è cresciuto in quello stesso orfanotrofio, tanti anni fa, e il suo nome era…” e lì fece una pausa piuttosto lunga, prima di continuare. “Voldemort”.


Note:

Innanzitutto, perdonatemi per la lunghezza del capitolo che ha decisamente superato i miei standard! Non mi piacciono molto i dialoghi lunghi, ma in questo caso non li ho potuti evitare... spero che non siano stati troppo noiosi da leggere.

Detto ciò, giusto un paio di precisazioni: nella storia il preside è Vitious perché so che secondo la Rowling non sarebbe stata la McGranitt, e da qualche altra fonte ho letto che poteva essere lui, così ho deciso di adottare questa versione. Per quanto riguarda l'orfanotrofio, so che è diverso da com'è descritto nei libri, ma sono passati moltissimi anni ed è naturale che sia cambiato. Tutto quello sfarzo poi ha una ragione precisa, che sarà spiegata nel prossimo capitolo. Alla prossima!

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Capitolo 3
*** L'uomo buono ***


3


Non era vero che Catherine Scott non sentisse la mancanza dei suoi genitori, come aveva detto quel giorno di luglio al professor Paciock. Da che aveva imparato a parlare, non aveva fatto altro che chiedere perché si trovasse lì, chi fossero suo padre e sua madre e se avesse qualche parente ancora in vita. Poche domande, però, avevano trovato risposta, e rassegnandosi al fatto che nessuno sarebbe mai venuto a prenderla aveva smesso di chiedere.

Tutto quello che sapeva di sua madre gliel’aveva detto Catherine, una delle ragazze che assistevano i bambini all’orfanotrofio. Secondo il suo racconto, la piccola era stata portata lì quando era ancora in fasce, da una donna gentile che non poteva mantenerla. Non era un caso che le due portassero lo stesso nome: quella donna aveva scelto di proposito di chiamare così la bambina, nella speranza che la ragazza a cui la stava affidando si sarebbe occupata di lei. La Catherine adulta aveva promesso di farlo e, da quel giorno, la piccola era stata chiamata da tutti Cathy per riuscire a distinguerle. Cathy aveva imparato ad amare quel ricordo come la cosa più cara che avesse, e per molti anni aveva sperato che sua madre tornasse da lei. Di suo padre, invece, non sapeva nulla.

Non aveva molti amici all’orfanotrofio. Era sempre stata considerata un po’ strana e svitata, con i suoi improvvisi quanto violenti scatti d’ira, e da quando aveva iniziato a muovere gli oggetti senza toccarli le cose erano peggiorate. Il suo unico affetto, lì dentro, era Catherine.

Catherine che aveva mantenuto la sua promessa fino in fondo, che le aveva insegnato le tabelline e l’alfabeto; Catherine che la capiva e la consolava, come le altre ragazze non riuscivano a fare, e che era stata per lei come una madre adottiva. Il mondo di Cathy cominciava e finiva con lei, tra le mura e il giardino dell’orfanotrofio. Questo, almeno, finché non era arrivato l’uomo buono.

Si erano conosciuti circa tre anni prima, se così si poteva dire, dato che Cathy non conosceva neppure il suo nome. Per la prima volta nella vita le era stato detto che c’era una visita per lei, e la bambina aveva atteso con impazienza di scoprire chi fosse. Tutto il suo entusiasmo, però, era sparito di colpo quando aveva visto il visitatore: era decisamente vecchio, con la barba lunga come un mendicante, e portava una giacca logora fuori moda. Ma soprattutto, il suo volto non mostrava il benché minimo piacere di vederla. Cathy aveva pensato, delusa, che l’uomo si fosse sbagliato nel chiedere di lei, ma presto aveva capito che non era neppure così: il vecchio non era soltanto incredulo nel vederla, era arrabbiato. La conosceva e non era contento di lei, per un motivo che Cathy non poteva immaginare.

Era rimasto con lei per ore, senza far altro che guardarla e guardarla, come per accertarsi che esistesse davvero. Quando aveva trovato il coraggio di parlare, Cathy gli aveva chiesto: “Chi sei?” ma lui non aveva risposto e, anzi, il suo sguardo si era indurito ancora di più. Cathy aveva tentato, timidamente, con altre domande, ma nessuna era andata a buon fine. Presto si era rassegnata a venire osservata in silenzio, come un animale allo zoo, anche se la cosa non le piaceva per niente.

Passarono mesi prima che l’uomo si facesse vedere di nuovo. Cathy si era quasi dimenticata di lui, quando lo rivide entrare nella sua stanza non molto diverso dalla prima volta. Fu un altro pomeriggio di silenzioso imbarazzo e a quello ne seguirono altri, sempre più spesso. Finché Cathy non ne fu più spaventata, ma iniziò a comportarsi come se lui non ci fosse. Aveva chiesto a Catherine se c’era un modo per impedirgli di venire, ma il Direttore aveva continuato a permetterglielo ignorando quella richiesta. Poi, inaspettatamente, una sera l’uomo le aveva finalmente parlato. Erano state poche parole, che suonavano come un giudizio finale dopo tutti quei giorni di muta osservazione: “Non hai niente di speciale”.

Cathy aveva alzato le spalle e gli aveva risposto “No”, come per chiedergli che cosa si aspettasse, e di tutta risposta l’uomo aveva iniziato a ridere. Ma era una risata strana, quasi folle e un tantino inquietante. La stessa che Cathy poté sentire in un’altra occasione, quando chiese all’uomo di non spegnere la luce prima di uscire perché aveva paura del buio. Gli spiegò che era una cosa seria, le provocava attacchi d’asma che potevano costarle la vita, ma nonostante tutto lui non la prese sul serio.

Passò altro tempo prima che quelle frasi sporadiche diventassero una vera e propria conversazione. Man mano che cresceva, Cathy iniziò a pensare che forse un po’ speciale lo era; come spiegare, altrimenti, i fenomeni che generava senza volerlo, e che lasciavano inebetiti gli altri bambini? Pensò che all’uomo potessero interessare, così un giorno gliene parlò.

“Riesco a far muovere le cose senza toccarle. E a volte parlo con gli animali, sembra che mi capiscano”. Per la prima volta riuscì ad attirare la sua attenzione.

“Buon per te” le rispose l’uomo. “Iniziavo a pensare che fossi una Magonò”.

“Che cos’è una Magonò?” chiese Cathy interessata.

“Una figlia di maghi che nasce senza poteri magici”. Era la prima volta che rispondeva a una sua domanda, e sembrò pentirsene subito. Cathy balzò letteralmente dal letto a quelle parole, avendo ricevuto più informazioni in un’unica frase che in dieci anni di vita. “Allora i miei genitori erano maghi? Tu li conoscevi? Chi sei?” Gli fece quelle domande tutte di fila e avrebbe voluto fargliene altre mille, approfittando di quella rara occasione. Ma l’uomo non era più disposto a risponderle.

“Ascoltami bene, ragazzina” le intimò, alzandosi dalla sedia di fronte al suo letto. “Non risponderò alle tue domande su di loro e tantomeno su di me. E, credimi, è meglio per te se eviti di chiedere”.

Cathy non era per nulla soddisfatta, ma quel tono minaccioso la raggelava e non se la sentì di contraddirlo. “E allora come ti chiamerò?” domandò soltanto.

“Signore” rispose lui, con uno strano ghigno sotto la barba lunga.

“Va bene, signore. Posso almeno sapere perché viene a trovarmi?” Cathy pose quella domanda con i toni più gentili di cui era capace, in un modo che avrebbe fatto inorgoglire il signor Bennett.

“Questa è una buona domanda” commentò lui. “Forse per curiosità, per il gusto di scoprire come sei. Una come te cresciuta qui, tra i Babbani…” Prima che Cathy potesse chiedere cosa fossero i Babbani, l’uomo continuò a parlare. “Non ti invidio per niente, Catherine Scott. Certo, questa gente deve averti influenzato, ma mai mi sarei aspettato qualcosa del genere… Hai anche paura del buio! È ridicolo”.

Sembrò che Cathy non riuscisse più a trattenersi. Abbandonando del tutto i modi imposti dall’orfanotrofio, si alzò in piedi e lo fissò con aria di sfida. “Le ho già detto che è un problema serio! E qualsiasi cosa siano questi Babbani, il tono in cui l’ha detto non mi piace per niente! Non le permetto di offendere le persone con cui vivo, mi vogliono bene e non mi prendono in giro, al contrario di lei!”

Inaspettatamente, dopo quella sfuriata, l’uomo ammutolì. Rispose al suo sguardo con la stessa aria di provocazione, restarono occhi negli occhi per interminabili secondi e solo alla fine riuscì a trovare qualcosa da dirle.

“Ecco. Ora sì che ti riconosco, ragazzina”. Ma non era soddisfatto come voleva sembrare. Per quanto Cathy ne capisse degli adulti, sembrava piuttosto infelice. Forse fu quell’impressione, o il gesto che l’uomo compì poco dopo, a cambiare per sempre il corso degli eventi.

Si avvicinò alla porta per andare via, ma quando la mano era già sulla maniglia la ritirò di scatto e se la infilò in tasca, come per afferrare qualcosa. Istintivamente, la bambina pensò a Catherine, che tante volte nascondeva nelle tasche un regalo per lei e lo tirava fuori senza alcun preavviso, cogliendola di sorpresa. A quel ricordo la sua rabbia si placò, Cathy trasse un profondo respiro e dalle sua labbra uscirono parole nuove, inaspettate: “Secondo me sei un uomo buono, anche se non lo dai a vedere”.

La stretta della mano si allentò, il misterioso signore rinunciò a quello che stava per fare e ritornò all’idea di lasciare la stanza. Prima di uscire, le disse soltanto: “Non sai quanto ti sbagli”.

Da quel momento, qualcosa cambiò nel loro strano rapporto. L’uomo non mostrò mai un vero affetto per lei né le fece alcun regalo, ma iniziò a parlarle molto di più, soprattutto della magia. Ben presto, Cathy capì che quella parola non aveva nulla a che vedere con cappelli a cilindro e conigli, che le streghe esistevano davvero e che lei era una di loro. L’uomo le confessò di essere egli stesso un mago, le parlò di Hogwarts e delle quattro Case senza però rivelare nulla del suo passato da studente. Fu una vera emozione scoprire che a undici anni avrebbe frequentato quella scuola meravigliosa, anche perché – così le fu assicurato – Bennett non avrebbe avuto nulla in contrario. Ma la sorpresa più grande fu come l’uomo si autodefinì per lei, una mattina soleggiata in cui erano insieme sotto il gazebo del giardino: il suo tutore, la persona che da quel momento si sarebbe occupata di lei in accordo con l’orfanotrofio. Cathy non sapeva se esserne davvero felice, ma le sembrava un bel gesto e pensò che fosse giusto ringraziarlo.

Nello stesso periodo, cospicue donazioni iniziarono a giungere all’orfanotrofio, che ogni giorno sembrava accrescere il proprio prestigio. Il Direttore era entusiasta delle sue creazioni e fermava spesso Cathy e gli altri bambini nei corridoi, per chiedere loro che cosa ne pensassero. L’unica persona che non sembrava apprezzare quelle novità era Catherine: trovava dei difetti praticamente in ogni cosa, dai pavimenti di marmo alle disposizioni artistiche dei giardini, diceva che tanto sfarzo era esagerato in un posto come quello e storceva il naso ogni volta che il tutore andava a trovare Cathy. Che i due non si piacessero non era un mistero per nessuno: lei lo accompagnava dalla bambina di malavoglia, lui si mostrava ancora più scontroso del solito quando aveva a che fare con la ragazza. Ma il momento peggiore fu l’arrivo della lettera. Cathy ne era elettrizzata tanto quanto Catherine la temeva, e per la prima volta le due ebbero un vero scontro. La ragazzina non avrebbe rinunciato per niente al mondo a quell’occasione, anche se significava trascorrere quasi un anno lontano da casa e anche se lei per prima avrebbe sentito la mancanza di Catherine. La ragazza invece non accettava di lasciarla andare, poiché non si fidava di quell’uomo odioso e tantomeno del suo mondo bizzarro. Ma era una partita persa in partenza: Catherine non aveva alcun potere su di lei, men che meno ora che esisteva un tutore e che Bennett era tanto entusiasta di lui. Alla fine, dovette arrendersi alla realtà dei fatti, e quando accompagnò Cathy da Paciock avevano già fatto pace.

Qualche giorno dopo la visita del professore, Cathy fu ben felice di raccontare al tutore di quell’incontro e del fatto che sarebbe davvero partita il primo settembre. Lui commentò con un laconico “Bene”, senza mostrare emozioni e senza neppure un sorriso, e d’altra parte non sorrideva praticamente mai. Le spiegò come utilizzare i gufi per comunicare con lui, chiedendole di informarlo su ogni piccola cosa. Cathy fu entusiasta di tutto quell’interessamento e un po’ per quello, un po’ per l’emozione del momento, fu allora che trovò il coraggio di fargli la domanda più importante.

”Signore… Mi dica la verità, lei è mio padre?”

Lo sguardo dell’uomo la trapassò da parte a parte, mentre le rispondeva: “Non pensarci nemmeno”.


Note:

Questa volta ho davvero poco da aggiungere, in questi primi capitoli sto presentando tutti i personaggi che diventeranno importanti nel corso della storia, e spero che questo "uomo buono" sia di vostro gradimento! Un grazie speciale a Circe per le recensioni, e a tutti voi che la state seguendo!

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Capitolo 4
*** Azzurro cielo e blu cobalto ***


4


Ci fu un rumore di passi affrettati, un tramestio di oggetti spostati velocemente da una parte all’altra, mentre quattro persone aspettavano fuori da una porta chiusa. Il più vicino a quella stanza era un giovane uomo, con un paio di occhiali sul naso e una curiosa cicatrice sulla fronte. Accanto a lui c’era una donna dai capelli rossi e dal viso gentile, che teneva in braccio una bimba molto piccola la cui chioma era identica alla sua. Completava il quadro una donna più anziana, dall’aspetto più severo, che portava una lunga veste scura e teneva le braccia incrociate in segno di impazienza.

D’un tratto, i rumori cessarono e la porta si aprì di botto. Il ragazzino che ne uscì non poteva essere più bizzarro ad occhi esterni: portava una divisa nera, aveva una lunga bacchetta puntata davanti a sé e – cosa più strana, persino tra i maghi – i suoi capelli erano color azzurro cielo. Tuttavia, nessuno si meravigliò nel sentirlo gridare: “Tremate, maghi della Gran Bretagna! Ora Ted ha una bacchetta!”

“Piano, Teddy!” rispose allegramente l’uomo con la cicatrice, che era il suo padrino. “Una foga come questa potrebbe ucciderci tutti!”

I quattro risero, ma nel momento in cui la bacchetta iniziò ad emettere scintille rosse arretrarono istintivamente.

“Oh” fece Teddy, stupito di se stesso. “Scusate…”

“Non ti preoccupare” rispose la rossa sorridendo, mentre tuttavia stringeva la bambina più forte del dovuto. “È normale alla tua età, hai ancora tutto da imparare”.

“Certo, è per questo che andrai a Hogwarts” aggiunse il marito.

“Oh, Harry! Non vedo l’ora!”

“Dovrai impegnarti molto, però. Specialmente se vuoi diventare un Auror come dici!”

“Certo che lo voglio!” Teddy sprizzava entusiasmo da tutti i pori alla sola idea. La donna più anziana, però, non sembrava dello stesso avviso, poiché scosse la testa contrariata.

“Ancora con queste sciocchezze? Hai undici anni, non puoi già decidere del tuo futuro come se fosse un gioco!”

Il ragazzino sbuffò, come abituato a sentirsi dire frasi del genere. “Dai, nonna… “

“Andiamo, Andromeda” le sussurrò Harry, più serio. “È normale che per lui sia un gioco… Ha sentito parlare tanto dei suoi genitori e vorrebbe imitarli, ma non può sapere che cosa significa”.

“Appunto, non lo sa” rispose lei in tono appena percettibile. “Non voglio che si cacci nei guai fin dal primo giorno di scuola”.

“Non accadrà”. Harry cercava di tranquillizzarla, ma da qualche parte dentro di sé non ne era così convinto. In effetti, Teddy stava venendo su con tutte le caratteristiche dei suoi genitori: per quanto fosse onesto e generoso come loro, la sua voglia di esplorare e conoscere ogni cosa sfociava spesso nell’attitudine a cacciarsi nei guai, e quell’essere maldestro proprio come la madre non migliorava certo le cose. Hogwarts avrebbe certamente mitigato il suo carattere, ma conoscere nuove persone e trovarsi in nuove situazioni poteva essere un’arma a doppio taglio: se da un lato lo aiutava a socializzare, dall’altro gli offriva nuove occasioni di scontro con chi non gli andava a genio. E Harry era sicuro che, con tutto ciò che gli era stato raccontato, un Serpeverde non proprio simpatico l’avrebbe incontrato molto presto. Tuttavia, quelle preoccupazioni non aiutavano nessuno, men che meno Andromeda, perciò Harry preferì tenerle per sé.

“Allora, hai già preso tutto a Diagon Alley?” domandò a Teddy, per cambiare argomento.

“Non ancora… avevano finito il Manuale degli Incantesimi, devo tornarci dopodomani”.

“Perfetto! Credo di essere libero per quel giorno, così potrò accompagnarti!” Harry fece un occhiolino in direzione di Andromeda, che per la prima volta sorrise.

“Davvero? Wow! Così andremo insieme a vedere i nuovi manici di scopa, ce n’è uno che è una vera bomba, ma la nonna si annoia sempre quando mi fermo alla vetrina…”

Passò diversi minuti a parlare con Harry di scope, Quidditch e tattiche di gioco, fino a che Andromeda li interruppe di nuovo. “Su, adesso va’ a toglierti la divisa, prima che si sgualcisca del tutto” lo ammonì.

Teddy si lamentò, ma alla fine dovette acconsentire. “Va bene, nonna…”

La porta si richiuse dietro di lui, e un attimo dopo la coppia si voltò verso Andromeda.

“Devi andare?” le chiese Harry, come se le avesse letto nel pensiero.

“Sì, sono già in ritardo. Grazie per tutto quello che fai, davvero… E anche tu, Ginny, con una bambina così piccola riesci a prenderti cura anche di Ted. Non dovrei neanche chiedertelo…”

“Non c’è alcun problema” la interruppe lei. “Per fortuna James e Al sono dai nonni, e Lily, al contrario di loro, è un angelo!” Le due donne sorrisero alla bambina, che nascose il viso sulla spalla della madre come imbarazzata.

“Va bene. Allora io vado, la cena è già pronta in cucina”.

“Penseremo a tutto noi, stai tranquilla” rispose Harry. “Ti accompagno”.

Quando furono soli accanto alla porta, Andromeda cercò di accelerare il passo. Conosceva Harry da così tanto tempo, ormai, che le bastava poco per capire cosa avesse in mente. Anche quella volta, era certa che avrebbe cercato di farle cambiare idea.

“Sei proprio sicura di volerlo fare?” le chiese, infatti.

“Sì, Harry, te l’ho già detto. Pensi che non sia in grado, forse?” lo sfidò.

“No, non lo penso affatto. Ma non ce n’è alcun bisogno, ormai siamo al sicuro e…”

“Non siamo mai davvero al sicuro, con il lavoro che fai dovresti saperlo”.

Non aveva tutti i torti. Harry lavorava al Ministero come capo del dipartimento degli Auror, e aveva a che fare ogni giorno con Maghi Oscuri o aspiranti tali che ancora auspicavano di ottenere potere. Ciò nonostante, non c’era alcun vero pericolo a minacciare il mondo magico in quegli anni, non come c’era stato ai tempi di Voldemort; Harry aveva tentato più volte di convincere Andromeda che nessuno, tanto meno Teddy, rischiava per il proprio futuro. Purtroppo, nella vita di quella donna c’erano state troppe perdite e troppo dolore per essere dimenticati del tutto, e per darle la serenità che meritava. Teddy era tutto ciò che le restava, l’avrebbe protetto in ogni modo e da qualsiasi minaccia, anche a costo di diventare molto dura con lui.

Quella volta, però, Harry credeva che stesse esagerando. Tentò ancora di replicare, ma Andromeda glielo impedì.

“Ho preso la mia decisione e sei pregato di rispettarla”.

“Dimmi almeno perché lui… Lo sai che non mi piace”.

“Non piace neanche a me, ma è il mago più adatto allo scopo. E si è offerto di aiutarmi, mi basta questo”.

Rassegnato, Harry annuì. Sapeva che aveva ragione e, comunque, non era mai riuscito a tenerle testa. “Buona fortuna, allora. Noi saremo qui ad aspettarti” le disse.

Andromeda annuì a sua volta, senza più ringraziare. Gli fece appena un cenno di saluto, prima di sollevare il cappuccio sulla testa e sparire nella notte.


Ginny lo stava aspettando in cucina. Aveva lasciato Lily sul seggiolone, che per ingannare l’attesa martellava il tavolo con una tazza decorata, e non appena Harry le raggiunse lo fissò con aria inquisitoria: aveva già capito tutto.

“Che cosa le hai detto?”

Harry la osservò divertito, pensando che gli anni non l’avevano affatto cambiata. Quando assumeva quell’espressione, cocciuta e alquanto infantile, diventava la stessa bambina che un tempo gli aveva dedicato Occhi verdi di rospo in salamoia.

“Non cambierà idea” le rispose, alzando le spalle e sedendosi accanto a Lily. Tolse la tazza dalle mani della bimba prima che potesse finire sul pavimento.

“Già. E nemmeno tu, vero? Non capisci quanto è importante per lei?”

“No, Ginny, non lo capisco. Penso che stia buttando via del tempo, invece di passarlo con suo nipote. Teddy sta per andare a Hogwarts, andiamo! È preoccupato come ogni ragazzo della sua età, anche se non lo dà a vedere. Andromeda dovrebbe sfruttare ogni momento per stare con lui, prima che parta, e invece se ne va in giro a… ”

“A fare ciò che crede giusto!” continuò la donna per lui, appoggiando le mani sul tavolo con aria determinata. “Se è così che vuole proteggere Teddy, lascia che lo faccia! Ci siamo noi a fargli compagnia… Ci sei tu! Lo vedi, quanto ti è affezionato!”

Harry sospirò, e fece una carezza a Lily che aveva iniziato a protestare. “Sì, ma non sono io il suo punto di riferimento. E credo che Andromeda gli stia troppo addosso, lo tratti come un bambino piccolo… Teddy non ha bisogno di questo”.

Ginny scosse la testa, mostrandosi di tutt’altra opinione. “Non possiamo neppure immaginare quello che ha passato, Harry… Cerchiamo di capirla, di appoggiarla. E poi, l’hai appena detto: Teddy andrà a Hogwarts. Troverà lì la sua indipendenza”.

Harry annuì, rassegnato per la seconda volta in poche ore ma non ancora convinto. Seguirono istanti di silenzio, interrotti solo dai lamenti di protesta di Lily, finché Teddy non irruppe nella stanza chiedendo: “Allora, cosa c’è per cena?”

*

Fu una serata tranquilla, seppure più silenziosa del solito. Quella piccola discussione aveva avuto i suoi effetti, che solitamente scomparivano nel giro di qualche ora. Ginny era diventata molto più intransigente da quando aveva avuto James: come ogni madre, il suo istinto di protezione ereditato da mamma Weasley la portava ad essere tanto dolce quanto inflessibile nei confronti dei bambini, e questa sua caratteristica aveva fatto sì che lei e Andromeda andassero molto d’accordo. Harry aveva un punto di vista diverso, non vedeva pericoli dietro ogni angolo e tendeva ad essere permissivo con i suoi figli, il che scatenava spesso discussioni nella coppia. Ma, tutto sommato, si completavano a vicenda, e non era poi così difficile trovare un punto d’incontro. Fu così anche quella sera: prima di portare Lily a letto, Ginny si avvicinò al marito per regalargli una fugace carezza, che lui sapeva molto bene come interpretare.

Harry e Ted rimasero soli nella stanza. Il ragazzino era seduto sul divano, immerso nella lettura di Le Forze Oscure: guida all'autoprotezione, con una concentrazione febbrile tale da dargli una parvenza molto più adulta. Solo in quel momento, il padrino notò che i suoi capelli avevano cambiato colore: l’azzurro cielo si era scurito parecchio, fino a prendere una tinta blu cobalto. Harry si sedette accanto a lui, curioso come ogni volta di scoprire i cambiamenti d’umore che si nascondevano dietro quelli dell’aspetto.

“Ehi, stai già studiando?” gli chiese, abbassandosi per guardarlo negli occhi.

“Solo una lettura veloce. Non voglio trovarmi troppo impreparato quando andrò a Hogwarts”. Teddy alzò lo sguardo dal libro e gli fece un sorriso a mezze labbra.

“Capisco. Anch’io, appena comprati i libri, li sfogliai tutti uno dopo l’altro. Certo, non come Hermione… Lei li aveva imparati a memoria dalla prima all’ultima riga!”

Teddy non rise a quell’affermazione, come lui si aspettava. “Sai, Harry, Hermione mi fa un po’ paura…” confessò, invece. Harry non riuscì a trattenersi e fu lui a scoppiare a ridere.

“Paura? Stai scherzando? Perché mai dovresti aver paura di Hermione?!”

“Perché è troppo perfetta, ecco” rispose Teddy intimidito. “Mi parla sempre della magia e di tutto quello che sa… Scommetto che, quando andrò a Hogwarts, vorrà sapere cosa sto imparando e conoscere tutti i miei voti!”

“Ah… Adesso ho capito” Harry riuscì a tornare serio, seppure con difficoltà. “Hai paura di deluderla… Ma devi stare tranquillo! Non ti giudicherà mica se prenderai un brutto voto, anzi! Tutt’al più ti spingerà a migliorare…” Teddy non si tranquillizzò affatto dopo quell’affermazione, forse perché non era stata detta in un tono così convinto. “E comunque” aggiunse Harry “non dobbiamo dirle proprio tutto…”

Il viso di Teddy si illuminò finalmente di un vero sorriso. “Davvero? Oh, grazie!”

“Andrai benone, vedrai. Sarai un ottimo mago”.

“Speriamo… Anche la nonna si aspetta tanto da me. Sai, con quello che mi ha detto di mamma e papà e tutto il resto… Ma io non credo di essere come loro. Erano bravissimi, hanno combattuto una guerra! Io so a malapena cambiare il colore dei capelli, e solo perché sono nato così…”

Con quella frase, Teddy aveva rivelato la sua paura più profonda: non essere all’altezza dei genitori. Harry lo capì e sperò in cuor suo di trovare le parole giuste per tranquillizzarlo.

“E dove credi che lo abbiano imparato, tutto quello che sapevano? Esattamente dove stai per andare tu. È troppo presto per dire che non sei all’altezza! E comunque, il fatto di non essere più in guerra non farà di te un mago mediocre o meno dotato di loro. Andromeda sarà orgogliosa di te, Teddy, ne sono sicuro”.

“Speriamo” ripeté il ragazzo. “Però, potresti anche chiamarmi Ted… Mi fa sentire più grande”.

“È un brutto vizio da padrino, mi dispiace!” In effetti gliel’aveva chiesto più volte, ma né Harry né Andromeda riuscivano a rivolgersi a lui senza quel diminutivo. “Comunque, potrai presentarti come Ted ai tuoi nuovi amici, se preferisci”.

“E se non trovo degli amici?”

“Be’… Li ha trovati Hermione, Ted. Se capisci cosa intendo…” E dopo quella battuta, risero finalmente insieme.


Note:

Eccomi arrivata a presentare anche Ted, che sarà un protagonista indiscusso (insieme a Cathy) della storia o pseudo tale che sto cercando di scrivere! È un capitolo ancora abbastanza introduttivo, spero di aver dato un ritratto carino della famiglia e non troppo noioso.

C'è un altro piccolo mistero, questa volta riguardo Andromeda, ma dovrebbe essere l'ultimo! È chiaro che comunque tutto ciò che fa lo sta facendo per Teddy, così com'è spiegato nelle parole di Harry.

Tutto qui... grazie a tutti e al prossimo aggiornamento!

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Capitolo 5
*** Gufo o gatto? ***


5


“Cathy… sei proprio sicura che sia qui?”

“Certo! Tra la libreria e il negozio di dischi, proprio davanti a noi”.

“Ma io non vedo nulla…”

“Io invece sì, vieni con me”.

Con riluttanza, la ragazza si lasciò trascinare per mano da Cathy, che dal canto suo si avviava senza ombra di incertezza dritta contro un muro. Fu una sensazione stranissima attraversare quelle che sembravano pietre e ritrovarsi poi immersa in una polvere bianca finissima. Quando ebbe il coraggio di riaprire gli occhi, Catherine vide davanti a sé il bancone di un pub piccolo e pulito, affollato da un’allegra combriccola di persone che chiacchieravano con la proprietaria. Stranamente, Cathy non sembrava affatto stupita di tutto ciò.

“Come siamo riuscite a entrare qui?” sussurrò alla bambina, quasi temesse di essere ascoltata da quella gente.

Cathy alzò le spalle, e le rispose come se fosse ovvio: “Ho aperto la porta”.

I maghi al bancone, tutti vestiti in modo bizzarro, non sembravano aver notato la presenza delle due nuove ospiti. Discutevano sul nuovo arredamento del pub e si mostravano tutti della stessa opinione: l’arrivo di Hannah aveva portato una ventata d’aria fresca in un locale invecchiato dal tempo.

“Parola mia, mai un rinnovamento del genere fu più gradito!” commentava un anziano mago con la veste viola e il cappello a punta. “Non dia ascolto a quelli che dicono che è troppo eccentrico e si fa notare… come se non fosse da sempre invisibile ai Babbani! Hanno il cervello impolverato come il loro senso della modernità, ecco cos’è”.

“La ringrazio, Wallace” rispose la giovane donna dietro il bancone. “È un piacere sapere che il proprio lavoro viene apprezzato…” Mentre parlava, il suo sguardo si spostò dal mago che aveva davanti alle due figure intimidite sullo sfondo, e si affrettò a raggiungere le nuove clienti. “Scusate” disse, andando incontro a Cathy e alla ragazza.

“Posso aiutarvi?” Aveva un tono gentile, oltre che un bell’aspetto. I capelli biondi erano legati in una lunga treccia, e indosso portava un grembiule decorato con qualche macchia qua e là. Più che una strega, sembrava la fata di una fiaba moderna.

“Sì, grazie… Dobbiamo andare a Diagon Alley, può indicarci l’ingresso?” chiese Cathy. Catherine era ancora troppo sconvolta da tutto ciò che aveva visto per riuscire ad aprir bocca.

“Ma certo!” rispose la donna. “È sul retro, venite con me”. Le guidò fino al cortile, mentre parecchi sguardi curiosi si voltavano ora verso Cathy ora verso Catherine. I tavolini del bar erano di legno lucido, le sedie ricoperte di velluto blu, e nell’insieme davano un aspetto gradevole al locale senza renderlo troppo ricercato. Catherine non sapeva come fosse in precedenza, ma da quello che vedeva non poté che concordare con il signor Wallace.

Il cortile era molto piccolo rispetto all’interno, e sembrava ancora più angusto dal momento che non c’era quasi spazio per appoggiare i piedi. La terra, infatti, era quasi totalmente ricoperta di fiori e piante: alcune erano gigantesche e si arrampicavano per tutta la lunghezza del muro di mattoni, altre avevano un aspetto feroce e invitavano decisamente a stare alla larga. Catherine camminava in punta di piedi, come temendo che uno di quei rami potesse improvvisamente afferrarla per le caviglie. Cathy, ancora una volta, si mostrava più a suo agio rispetto a lei.

“Scusatemi… Sono ingombranti, ma non pericolose” si giustificò la donna bionda. “La passione di mio marito è arrivata anche qui. Fammi indovinare, devi fare acquisti per Hogwarts?” chiese a Cathy, mentre si frugava le tasche alla ricerca di qualcosa.

“Sì, devo frequentare il primo anno” spiegò lei.

“Un momento importante! Anche per tua madre, immagino”.

Catherine sorrise a quell’appellativo, ma Cathy si affrettò a chiarire: “Non è mia madre, è un’amica Babbana che mi ha cresciuta. È tutto nuovo qui, anche per lei”. Era la verità, ma il sorriso di Catherine si spense nel sentirla.

“Oh, capisco. Ma state tranquille, molti Babbani vengono qui abitualmente e senza alcuna difficoltà!” Detto ciò, riuscì finalmente a estrarre quello che stava cercando: una lunga bacchetta, con la quale batté tre volte sul muro di fronte. Immediatamente i mattoni si spostarono, rivelando l’apertura su Diagon Alley, e qualcosa di straordinario si presentò agli occhi delle nuove arrivate: era difficile dire chi tra le due fosse più sbalordita.

“Divertitevi!” le salutò la donna. “Ci vediamo al vostro ritorno”.

Le due risposero al saluto e si avviarono immediatamente per la stradina selciata, costeggiata dai negozi più strani che avessero mai visto. Dovunque voltassero lo sguardo c’era una nuova sorpresa: calderoni di tutte le misure, animali di ogni tipo e dimensione, manifatture dalla dubbia funzionalità e persino un’insegna che aveva tutta l’aria di appartenere a una farmacia, se non fosse stato che al posto dei medicinali teneva esposti occhi di lucertola e fegato di drago. Per un bel po’ non riuscirono neppure a parlarsi tra loro, tanto erano rapite da quello che le circondava; una cosa era sapere che esisteva la magia, un’altra trovarsi davanti a una sua così palese manifestazione. Catherine si sentiva un pesce fuor d’acqua in quella strada, affollata di maghi e streghe decisamente appariscenti, e tra di loro anche Cathy saltava piuttosto all’occhio, con i jeans e lo zaino in spalla come una normale undicenne. Eppure, la ragazzina non dava molto peso al suo essere diversa; sembrava felice di trovarsi lì, al di là di tutto il resto, come se lo aspettasse da sempre. Catherine non riuscì a più trattenersi e le chiese: “Come fai a sentirti a tuo agio, tra tutta questa gente assurda?”

Cathy non capì al volo la domanda, presa com’era da una vetrina di giochi da tavola i cui pezzi sembravano muoversi da soli. “Ah… Non lo so, dici che dovrei sentirmi strana? In realtà non mi sembra di essere qui per la prima volta, è come se ci fossi tornata dopo tantissimo tempo. Lo so che non ha senso, eppure… Sarà che questa gente assurda è la mia gente”.

Catherine annuì, pensando che quella risposta in realtà poteva avere molto senso. C’era stato un solo giorno, il primo in assoluto della vita di Cathy, in cui non sapeva assolutamente dove fosse stata; nonostante la tenerissima età, non era escluso che qualcosa di quei momenti le fosse rimasto nella memoria.

La ragazza non poteva negarlo: trovarsi lì, in un mondo che non le apparteneva e la spaventava, era l’ultima cosa che avrebbe voluto. Probabilmente Cathy non le avrebbe neppure chiesto di accompagnarla, se il suo tutore non avesse risposto con un secco “assolutamente no” quando l’aveva proposto a lui. Il fatto che fossero in quel posto a causa sua la innervosiva ancora di più: quell’uomo, che nascondeva la sua identità sotto il termine generico di “tutore” e trattava tutti come fossero gentaglia, rivendicava dei diritti su Cathy e li otteneva facilmente solo perché ricco. Catherine lo odiava, almeno quanto detestava il signor Bennett e il suo maledetto attaccamento al denaro.

“Come fai a fidarti di lui?” La domanda le venne alle labbra spontaneamente, mentre rimuginava sulla causa dei suoi fastidi. “Il tuo tutore” aggiunse poi, notando che Cathy non aveva capito.

“Non mi ha mai mentito” spiegò la ragazzina. “Mi aveva detto che questa strada esisteva, come ci si arrivava, ed è stato così. Mi aveva detto di Hogwarts, che avrei ricevuto una lettera di ammissione, ed è successo. Parla poco, ma quel che dice è vero”.

“Può darsi” replicò Catherine “ma è sempre così duro con te… E invece sembra che tu gli voglia bene. Mi chiedo come mai”.

Cathy si distolse finalmente dalle vetrine e la guardò negli occhi, con uno spirito di decisione che raramente si vedeva in lei. “Perché è un uomo buono, lo so. Prima o poi dovrà ammetterlo anche lui”.

Era un tono che non ammetteva repliche, men che meno tentativi di farle cambiare idea. Quando la vedeva così, Catherine si chiedeva se quella che aveva davanti fosse la stessa bambina che aveva cresciuto, introversa e spaventata dal buio, indecisa praticamente su tutto e sempre pronta a chiederle un consiglio. Quell’uomo, chiunque fosse, l’aveva cambiata, o stava solo riportando a galla ciò che era alla nascita, prima dell’orfanotrofio e della sua vita con lei. Cathy era una strega, anche se questa parola le faceva accapponare la pelle ogni volta che ci pensava. Non c’era altra spiegazione al suo essere diversa, speciale. Ma ciò che davvero la feriva non era questa consapevolezza, o il timore per quello che sarebbe diventata frequentando quella scuola; Cathy si stava allontanando da lei, ed era questo che sopra ogni cosa si rifiutava di accettare.

Quelle furono comunque le ultime parole che si scambiarono riguardo l’argomento; subito dopo, Cathy tirò fuori la lista degli oggetti da comprare e non pensò a nient’altro. Furono necessari almeno tre andirivieni lungo la strada per scovare i negozi giusti: non bastava una libreria qualunque per trovare i volumi della scuola, e come disse loro una gentile, anziana signora, nessun altro confezionava le divise come Madama McClan. Alla fine, comunque, gran parte delle voci sulla lista furono cancellate, e lo zaino di Cathy divenne così pieno che le fu necessario comprare anche un baule. Fortunatamente, i galeoni che il tutore le aveva consegnato sembravano bastare per tutto.

“Sembra che tu possa portare un animale” disse pensierosa Catherine, sbirciando la lista al di sopra della spalla di Cathy.

“Già! Ho sempre desiderato un gatto, e all’orfanotrofio non me l’hai mai lasciato tenere…”

“Sono le regole, lo sai. Non dipendeva da me… Comunque, ho visto un negozio di animali proprio da quella parte” ammiccò, indicando il lato opposto della strada. Cathy sorrise e le prese la mano di slancio, avviandosi con lei in quella direzione. L’unica altra voce ancora non barrata, oltre all’animale da compagnia, era la bacchetta; l’acquisto a cui Cathy teneva di più e che aveva di proposito lasciato alla fine.

Dall’esterno, il negozio sembrava vendere quasi esclusivamente gufi di ogni razza, e non a caso l’insegna in alto recitava la scritta L’emporio del Gufo. Cathy sapeva che i gufi erano molto utili per le comunicazioni tra i maghi, perciò non si stupì del fatto che fossero così in grande numero. Avvicinandosi di più, però, notò che a pochi metri dall’emporio c’era un altro ingresso, denominato Serraglio Stregato, e a giudicare dai rumori provenienti dall’interno doveva vendere molti tipi di animali. Un’idea iniziò a farsi strada nella sua mente e la ragazzina si fermò a pochi metri dall’ingresso, con aria pensierosa. Prima che Catherine potesse chiederle spiegazioni, però, era già partita di filato verso il negozio, immergendosi nel fiume di bambini che fissava gli animali ammirato.

“Ehi, scusa… Posso chiederti una cosa? Ehi, dico a te!”

Il ragazzino sobbalzò sentendosi chiamare, preso com’era dal gufo bruno che reggeva sulla mano. Si voltò e incontrò gli occhi curiosi di Cathy, che si soffermavano ora sul volatile ora sulla strana capigliatura del suo padrone.

“Ciao…” la salutò lui, ancora piuttosto sorpreso. Non era abituato a trovarsi davanti una coetanea vestita in quella maniera, come una qualsiasi Babbana londinese.

“I tuoi capelli sono azzurri” constatò Cathy, come se non fosse abbastanza evidente di per sé.

“Sono un Metamorfomagus, li cambio quando voglio” spiegò lui, con l’aria di chi l’aveva ripetuto migliaia di volte. “È questo che volevi chiedermi?”

“No. Volevo chiederti se questi bastano per comprare un gufo e un gatto” e senza dargli il tempo di replicare, gli ficcò nella mano libera una saccoccia piena di denaro.

Leggermente esitante, il ragazzino l’aprì. Diede un rapido sguardo a quello che c’era all’interno e, quando rialzò il capo, aveva gli occhi spalancati per lo stupore: “Cavolo! Con questi potresti comprare l’intero negozio… La tua famiglia deve essere molto ricca”.

“È il mio tutore che è ricco” spiegò brevemente lei, riprendendosi subito i galeoni. “Be’, grazie. Ci vediamo”.

Si era già voltata verso l’ingresso, ma il suo coetaneo la trattenne. “Come mai compri due animali?” gli venne spontaneo chiedere.

“Per Hogwarts” rispose lei.

“Anch’io devo andare a Hogwarts! Questo è il mio gufo… Ti piace? Si chiama Ninfadora”. Di tutta risposta l’uccello iniziò a beccargli le dita, ma era difficile dire se fosse un gesto d’affetto o piuttosto di ripicca. Era parecchio buffa, con quei cornini sulla testa che la facevano assomigliare a una lumaca mal riuscita.

“Ninfadora?” chiese Cathy, scioccata. “Che razza di nome è Ninfadora?”

Il ragazzo parve alquanto imbarazzato. “Era il nome di mia madre…” confessò, abbassando lo sguardo sulle proprie scarpe.

“Oh… Scusa”.

“Non fa niente. Non è mai piaciuto nemmeno a lei” alzò le spalle come se non gli importasse, ma era evidente che si aspettava una reazione diversa. “Comunque… Non puoi portare più di un animale a Hogwarts!”

“Ah, no? E perché? Qui c’è scritto chiaramente: sono accettati gufi, gatti e rospi!” gli mise la lista sotto il naso con aria corrucciata, come a dargli prova che aveva ragione.

“Eh, no… Ce l’ho anch’io quella lista, evidentemente non l’hai letta bene. Gli studenti possono portare anche un gufo, OPPURE un gatto, OPPURE un rospo!” recitò a memoria, con l’aria di chi la sapeva lunga. “Quell’oppure non sta messo lì a caso!”

“Oh, no…” Cathy manifestò in un attimo tutta la sua delusione per quel piano mal riuscito. “E adesso?”

“Adesso scegli. Prendi quello che preferisci e lo porti con te”.

La ragazzina restò a rimuginare, come se da quella piccola scelta dipendesse la sua esistenza. “Ho sempre desiderato un gatto, questa è l’occasione per averlo con me…”

“Allora prendilo”.

“…Ma il mio tutore ha detto che i gufi sono utili, portano la posta e il giornale!”

“Allora prendi un gufo” replicò secco lui.

“Uffa!” sbottò Cathy alla fine. “Non sei di alcun aiuto!”

Il ragazzino si preparò a ribattere, ma prima che potesse scatenarsi una vera lite si sentì chiamare da una voce nota: “Teddy, sono qui! Allora, hai trovato il gufo?”

Un giovane dai capelli neri e arruffati si avvicinò al bambino, che distolse l’attenzione da Cathy e gli fece un gran sorriso. “Sì, ho scelto una femmina! L’ho chiamata Ninfadora… Grazie, Harry, è un bellissimo regalo”.

“Di niente! Io ho trovato il tuo libro…” Allungò la mano verso il baule di Teddy, e solo allora fece caso alla ragazzina che li fissava con aria accigliata. “Tu invece hai trovato un’amica, a quanto pare! Io sono Harry” si presentò, stringendole la mano.

“Cathy” rispose lei, osservandolo curiosa.

“Non è un Harry qualunque, è Harry Potter! Il mio padrino!” aggiunse Teddy con orgoglio, aspettandosi una reazione da parte di Cathy che però non arrivò. La ragazzina si limitò a guardarlo nello stesso modo di prima, come se quel nome non le dicesse assolutamente nulla.

“Be’, Teddy, non tutti sanno chi sono… Forse la tua amica è cresciuta con i Babbani, vero?”

Cathy annuì, leggermente risentita di non possedere quelle informazioni.

“Eppure è strano, sai?” continuò Harry. “Perché sono sicuro di averti già vista da qualche parte”.

“Non credo, me ne sarei ricordata” rispose lei. Era molto difficile che un mago famoso come quell’Harry Potter si fosse avvicinato a un inutile orfanotrofio Babbano, pensò con amarezza.

“Ma non puoi non conoscere Harry!” aggiunse Teddy, pronto a onorare le gesta del suo padrino. “Ha combattuto la guerra magica, ha sconfitto il…”

“Basta, dai, quando sarà a Hogwarts ne avrà fin sopra le orecchie di questa storia” lo interruppe Harry. Teddy ammutolì, un po’ deluso. “Piuttosto… Di cosa si parlava prima del mio arrivo?”

“Cathy non sa scegliere se portare con sé un gufo o un gatto” replicò velocemente il ragazzino, senza nascondere la sua irritazione. “Ma ha abbastanza galeoni per tutti e due”.

Sentendosi accusata, Cathy si difese nello stesso modo in cui aveva fatto con Teddy: elencando i motivi per cui era essenziale averli entrambi. Sorprendentemente, Harry sembrava avere pronta una soluzione.

“Per la posta potrai usare i gufi della scuola” le disse. “Se è solo questo che ti preoccupa, scegli un gatto”.

Cathy soppesò quella possibilità per qualche istante, fino a quando sembrò finalmente decidersi. Mormorò un “grazie” e si avviò verso il Serraglio Stregato, mentre Harry e Teddy aspettavano di vederla uscire con il suo animale. Teddy non l’avrebbe mai ammesso, ma era curioso di vedere che cosa avrebbe portato fuori.

“Visto? Hai già trovato un’amica, e non sei ancora sull’Espresso per Hogwarts!” gli disse Harry, riferendosi al discorso di non molto tempo prima.

“Quella non è mia amica!” si affrettò a rispondere Teddy. “È solo una ragazzina viziata piena di soldi, che non sa scegliere un animale e li pretende tutti!”

Harry sorrise, pensando che il suo figlioccio fosse vittima di un vero e proprio attacco d’invidia. Non si poteva dire che Andromeda fosse povera, ma di certo non gli avrebbe concesso di comprare due animali. “Non giudicarla troppo in fretta! È cresciuta tra i Babbani, si sentirà un po’ spaesata. Magari non sa quanto può chiedere e quanto no, deve solo farci l’abitudine…”

Ma Harry non poteva sapere che, nella sua ingenuità da undicenne, Teddy avesse individuato con esattezza il principale difetto di Cathy: non essere in grado di scegliere.


Note:

Ciao a tutti! Penso sia abbastanza chiaro, ma lo specifico comunque: l'avventura a Diagon Alley non finisce qui, ma gli eventi erano così tanti che ho dovuto dividerli in due capitoli! Presto, comunque, conoscerete l'amico peloso di Cathy.

Che i Babbani possano entrare l'ho dedotto dal fatto che i genitori di Hermione l'accompagnavano senza difficoltà. Nonostante l'ingresso sia invisibile per loro, suppongo che possano attraversarlo in compagnia di un mago.

Ultima nota, che è più che altro una curiosità: di solito preferisco scrivere in silenzio (più ce n'è meglio è) perchè musica e rumori mi distraggono, ma questo capitolo l'ho scritto con in sottofondo la colonna sonora di Harry Potter (i primi film naturalmente) che mi hanno fatto sentire di più l'atmosfera di Diagon Alley.

Al prossimo aggiornamento, e ancora grazie a tutti voi (pochi ma buoni) che date fiducia a questa storia!

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Capitolo 6
*** Tutti amano Potter ***


6


Teddy si sarebbe aspettato di vederla uscire con un gatto molto appariscente, come un persiano dal lungo pelo o un bianchissimo chinchilla, perciò si stupì non poco nello scoprire l’esserino che teneva tra le braccia: era un piccolo, anonimo micetto nero dai grandi occhi gialli, persino un po’ spelacchiato. Eppure, Cathy lo accarezzava con dolcezza e sembrava essersi già affezionata a lui.

“Vi presento Harry” disse, andando incontro ai due che l’aspettavano. Teddy gridò letteralmente per lo stupore: “Harry?! L’hai chiamato Harry?”

“Mi sembrava giusto, visto che è qui grazie a lui. E poi mi piace”.

“Oh… ehm, grazie del pensiero, ma chiunque ti avrebbe dato quel consiglio” balbettò Harry, fissando la creaturina che portava il suo nome.

“La negoziante ha detto che è un orfano” aggiunse Cathy. “Come me… non potevo lasciarlo solo”.

Nessuno dei due aprì più bocca, colto dallo stesso pensiero: a quanto sembrava, c’erano ben quattro orfani fuori da quel negozio.

A toglierli dall’imbarazzo arrivò Catherine, trascinando con sé il pesante baule di Cathy e piuttosto risentita dal comportamento della bambina. “Sei qui, eh? Non potevi aspettarmi?” le chiese, nervosa.

“Scusa. Volevo comprare due animali, ma lui” e indicò Teddy “mi ha detto che non potevo, così ecco Harry”.

Ci vollero un bel po’ di presentazioni e spiegazioni perché Catherine potesse capire, ma alla fine riuscì a collegare ogni nome ad un viso. Teddy intanto sembrava essersi ammutolito, non rispondeva neanche più alle provocazioni di Cathy; proprio non riusciva a digerire che quel gatto si chiamasse Harry.

“Ci resta ancora la bacchetta e non sappiamo dove trovarla. Dai, muoviamoci” la incitò Catherine, ansiosa di allontanarsi da quel posto.

“Olivander è qui vicino!” le venne incontro l’Harry umano. “Se volete vi accompagniamo”.

Teddy e Catherine non sembravano averne la minima voglia, ma l’entusiasmo di Cathy li costrinse ad acconsentire. Tutto sommato, dopo tanto viavai, fu un sollievo dirigersi verso un negozio dove avrebbero trovato con sicurezza ciò che cercavano.

Quando furono davanti all’ingresso, fu chiaro quanto quel posto non avesse risentito di innovazioni: l’insegna che capeggiava sulla porta, scrostata e cadente, sembrava essere vecchia di secoli, e quel che s’intravedeva all’interno – buio e cupo, in effetti – contrastava visibilmente con i vivaci colori della strada. Catherine e Cathy si bloccarono sulla soglia, ma il ragazzo chiamato Harry Potter le superò ed entrò senza esitare.

“Signor Potter! Lieto di rivederla!” L’uomo che li accolse non sembrava vecchio come il suo negozio, tutt’altro: era sulla trentina, energico e con un sorriso contagioso.

“Salve, Olivander” lo salutò Harry, stringendogli la mano.

“E bentornato anche a te, Teddy! Fammi indovinare… salice e crine di unicorno, molto flessibile, dieci pollici esatti!”

A giudicare dalla frase, doveva essere la descrizione della sua bacchetta. Tuttavia il ragazzino non rispose nello stesso tono cordiale, né cancellò dalla faccia la sua espressione scontrosa: “Non era difficile, l’ho comprata l’altro ieri”.

“Hai ragione! Ma, sai com’è, non ho proprio lo stesso dono di mio padre…”

“Come sta suo padre, a proposito?” chiese Harry Potter. L’espressione di Olivander si incupì all’istante.

“Non molto bene, purtroppo. Alla sua età anche un’influenza può essere un duro colpo, figuriamoci l’infezione dalla linfa di tasso… Senza contare tutto quello che ha passato negli ultimi anni. Per il momento, sarà difficile rivederlo in negozio”.

“Mi dispiace” rispose Harry, e sembrava sincero. “Me lo saluti appena lo vede”.

“Sarà fatto! Mi parla sempre di lei, dice che gli deve la vita. Come noi tutti, in effetti”.

Harry sorrise e chinò il capo, perdendosi in chissà quali ricordi. A quanto sembrava, tutti adoravano quel Potter e onoravano le sue gesta, quasi fosse una specie di eroe. Cathy però non ebbe modo di rifletterci su, perché improvvisamente Olivander si rivolse a lei.

“Ma non perdiamoci in chiacchiere! Qui c’è una bacchetta da scegliere o sbaglio? Un modo di dire, naturalmente… è la bacchetta a scegliere il mago, come lei saprà di certo. Signorina..?”

“Scott” rispose Cathy, che non aveva poi le idee così chiare ma era ben decisa a non darlo a vedere.

“Bene. Si segga pure, iniziamo subito”.

C’era un’unica sedia polverosa al centro della stanza; Cathy prese posto intimidita, stringendo ancora il gattino tra le braccia, mentre Olivander camminava da un lato all’altro del negozio raccogliendo bacchette. Non sapeva cos’avrebbe dovuto fare e si sentiva in ansia; Harry, tuttavia, le sorrideva incoraggiante, e questo riuscì a tranquillizzarla un po’. Fu un bene che almeno lui la confortasse, dato che Teddy se ne stava chiuso nel suo mutismo e Catherine non sembrava meno scontrosa di lui, mentre fissava gli scaffali colmi di bacchette e storceva le labbra. Era evidente che quel posto non le piaceva, ed era difficile darle torto: tutto sembrava antico e sporco, come neppure il più caotico sgabuzzino del Saint George era mai stato. Eppure, per qualche strana ragione, Cathy ne era affascinata: sembrava impregnato di magia più di tutti i luoghi che aveva visitato quel giorno, e persino in quel silenzio credette di sentire una strana energia muoversi nell’aria. Aveva come la sensazione che molte di quelle bacchette avrebbero potuto raccogliersi nelle sue mani, se solo l’avesse voluto, e generare così il vento più forte che fosse mai riuscita a sollevare, come quello di una tempesta.

Pochi minuti dopo, Olivander fu di ritorno con una manciata di scatole che adagiò ai suoi piedi. “Ecco” spiegò “ho raccolto tutte le tipologie di legni e nuclei che solitamente propongo ai giovani maghi. Non si preoccupi se nessuna sarà quella giusta, succede spesso! Le prime prove servono solo a indirizzarci verso quella che potrebbe essere…”

Non poté finire di parlare; fugacemente, sibilando nell’aria, una delle bacchette si liberò dalla sua custodia e volò dritta nella mano destra di Cathy, che immediatamente l’afferrò. Harry il gatto miagolò e drizzò il pelo spaventato, abbandonando con un balzo le gambe della sua padrona. Tutti erano voltati verso la bacchetta, sconcertati: non avevano mai assistito, o quasi, a un evento del genere.

“Oh…” fece Olivander, avvicinandosi meglio per osservare il bastoncino prodigioso. Emetteva una luce bianca e intensa a contatto con le dita di Cathy. “Insolito, davvero… Credo sia successo solo due volte in passato. Ma questa è proprio la sua bacchetta, non c’è dubbio”.

“La vite: un legno affascinante come pochi, difficile da domare se non si è il mago o la strega adatti a lui. Eppure, quando trova il suo proprietario ideale lo sceglie ancor prima che io glielo proponga, come è successo oggi. Ma la cosa più strana…” continuò, riprendendo la bacchetta dalle mani di Cathy e avvicinandola al viso “è il nucleo. Piuma di fenice… raro quasi quanto il legno. Credo che anche mio padre abbia venduto pochissime bacchette di questo tipo. Due materiali difficili da gestire, eppure uniti insieme!”

Quella parole intimorirono non poco Cathy, che domandò: “Ma allora sarà un problema utilizzarla? Potrei non riuscirci mai?”

“Oh, no, questo è escluso! Potrebbe volerci un po’, ma alla fine si piegherà al suo volere. L’ha scelta, non lo dimentichi; in un modo che, aggiungerei, ha strabiliato tutti i presenti me compreso!”

Cathy sorrise debolmente, sperando in cuor suo che Olivander avesse ragione. Se davvero quella bacchetta era così straordinaria, voleva esserne all’altezza.

“Ah, dimenticavo” aggiunse il venditore, mentre riavvolgeva la bacchetta nel suo panno decorato. “Undici pollici e mezzo, una buona lunghezza. E leggermente flessibile. Ottima scelta, davvero!”

“Certo che è ottima, è di fenice. Come la tua, Harry”. Teddy aveva aperto bocca all’improvviso, quando nessuno se lo aspettava. Possibile, pensò Cathy, che anche quello lo infastidisse?

“Sì, ma non è mica l’unica! Il signor Olivander sicuramente può dirti quante ne ha vendute…”

Ma il negoziante, non conoscendo la suscettibilità di Teddy, rispose probabilmente nel modo più sbagliato: “In realtà non molte, signor Potter! È un nucleo raro!”

E fu allora che, probabilmente, Teddy dichiarò davvero guerra alla sua coetanea. La fulminò con uno sguardo e uscì dal negozio, dicendo a Harry che l’avrebbe aspettato fuori. Cathy pagò e scosse la testa, pensando che con lui non c’era proprio niente da fare.

“Non preoccuparti troppo di Teddy” le disse Harry con dolcezza, “ha un bel caratterino, ma col tempo capirà. Non dipende certo da te se quella bacchetta ti ha scelto in maniera così… eclatante. In passato, mi è capitato di litigare con gli amici più cari solo per una fama che non ho mai voluto”.

Cathy sorrise, sentendo da qualche parte dentro di sé di avere molto in comune con lui. D’un tratto, però, i suoi occhi vagarono per la stanza e sul viso le si dipinse un vero panico.

“Harry!” gridò.

“Cosa c’è?”

“No… Il gatto!” indicò la porta, da dove l’animale era certamente uscito da un bel po’ di tempo. Presi com’erano dal volo prodigioso della bacchetta, nessuno ci aveva fatto caso. Prima che Harry o Catherine potessero replicare o seguirla, trascinando gabbia e bauli, Cathy era già uscita in tutta fretta alla ricerca della bestiola.

“Hai visto il mio gatto?” chiese a Teddy non appena fu fuori. Lui se ne stava appoggiato al muro con le braccia conserte e la guardò con sufficienza.

“No, non l’ho visto. L’hai perso, eh? Eri troppo presa dalla bacchetta!”

“Invece di accusare aiutami a cercarlo!” gridò lei, impaziente.

“E perché dovrei? Usa la bacchetta di fenice, magari con un incantesimo lo riporta da te…”

“Finiscila con questa bacchetta! Ti darò tre galeoni se lo trovi, va bene?”

Teddy sembrò pensarci su, valutando se potevano bastare. “Forse” decise, infine. “Solo se mi prometti che, dopo, tu e la tua amica Babbana ve ne tornerete a casa!”

“Ok!” acconsentì Cathy, esasperata. “E ora muoviamoci!”

Percorsero Diagon Alley in lungo e in largo, chiamando a gran voce il gatto. Teddy non nascose la sua riluttanza nel chiamarlo per nome e, a sua discolpa, disse che l’animale non poteva già riconoscerlo, dal momento che era stato battezzato così da meno di un’ora. In effetti, però, chiamarlo 'gatto' era piuttosto ridicolo, così suo malgrado dovette farci l’abitudine.

Si divisero e poi si rincontrarono un paio di volte, sfilando tra i mantelli dei maghi adulti e ponendo l’attenzione su ogni macchia nera della strada. Dovettero subire parecchi improperi dalla gente che spintonavano, ma Cathy non se ne curò: la sua unica preoccupazione era ritrovare il gattino, tutto solo e spaventato. Quando riconobbe i capelli azzurri di Teddy tra la folla i due si rivolsero la stessa domanda all’unisono: “L’hai trovato?” Non servirono risposte; Cathy sbuffò e si contorse le mani, senza smettere di guardarsi attorno.

“Andiamo di là” decise infine, indicando un viottolo stretto.

“Sei pazza?!” sbottò Teddy. “Quella deve essere Notturn Alley!”

“E allora? Comunque si chiami, è l’unica strada che non abbiamo ancora setacciato!”

“Ma è una via terribile! La gente per bene non la frequenta, non…” Teddy tentava di protestare ancora, ma ben presto si ritrovò a parlare da solo. Cathy, che non conosceva la brutta fama di Notturn Alley, si era già avviata verso di essa e non avrebbe fatto marcia indietro. Superando la propria riluttanza, Teddy la seguì.

La differenza tra quella strada cupa e Diagon Alley era molto evidente: la luce, lì, sembrava arrivare con più difficoltà, e persino l’aspetto dei maghi che la percorrevano era piuttosto sinistro. Una vecchia strega rivolse un ghigno sdentato ai due ragazzini, che dal canto loro cercavano di concentrarsi sulla ricerca senza dare importanza al resto. Anche Cathy, per quanto non lo desse a vedere, era spaventata: la penombra non le andava a genio, ed era certa di aver visto qualcosa di molto simile a un teschio passando accanto alle vetrine.

Per loro fortuna, non dovettero inoltrarsi per più di qualche metro: un miagolio familiare catturò la loro attenzione e interruppero di botto la corsa. Sulla destra, un’inconfondibile codina nera scomparve dietro un vicolo.

“Harry! È lui!” esclamò Cathy.

Sollevato di aver finalmente trovato il gatto, Teddy si precipitò con lei verso il punto in cui avevano visto la coda. Raggiunsero l’angolo talmente in fretta, però, che non notarono assolutamente la persona che veniva dalla direzione opposta: lo scontro fu di una violenza tale da farli cadere entrambi a terra, senza sapere chi o cosa li avesse colpiti. Riaprendo gli occhi, scoprirono la figura alta e imponente di un uomo vestito di nero.

“Cosa ci fate voi qui? Non è un posto per bambini” disse. Il suo tono era così freddo che li raggelò, ma mai quanto riuscirono a fare i suoi occhi: erano chiarissimi e penetranti, quasi color del ghiaccio, e brillavano in maniera evidente sotto il cappuccio scuro.

“Ci scusi…” disse Teddy massaggiandosi la testa.

“Non l’abbiamo vista” aggiuse Cathy. “Stavamo cercando il mio gatto”.

“Intendi questo?” L’uomo si voltò, chinandosi verso qualcosa che da quella prospettiva non potevano vedere. Si rivelò poi essere Harry, afferrato per la collottola e miagolante. Fu lanciato letteralmente in braccio a Cathy, che lo strinse forte per non farlo fuggire di nuovo.

“Grazie…” mormorò la ragazzina.

“E adesso andate via”. Senza aggiungere altro, l’uomo girò sui tacchi e continuò a camminare per la sua direzione. Solo quando fu sparito i due ragazzi si alzarono da terra.

“Te l’avevo detto che era un brutto posto!” borbottò Teddy, scrollandosi di dosso il terriccio. “Vedi che tipo di gente lo frequenta?”

Cathy alzò le spalle, accarezzando il gatto sulla testa. “È un buon posto se sei spaventato e vuoi nasconderti, proprio come il mio Harry!”

Teddy si rabbuiò di nuovo, fece un lungo sospiro e poi le si parò davanti. “Senti” le disse, con decisione, “Harry è il mio padrino, chiaro? Si occupa di me, mi vuole bene come ai suoi figli e così sarà sempre! È inutile che usi certi mezzucci per compiacerlo, solo perché è famoso! Tu non lo conosci!”

Cathy lo fissò sconcertata: non sapeva se ridere o piangere, perché non aveva mai lontanamente pensato di 'conquistare' quel Potter. “Infatti, non lo conosco! Non so chi sia e non m’importa di rubartelo, niente del genere! È solo stato gentile con me, punto. Non lo rivedrò mai più”.

“Meglio per te” aggiunse Teddy, minaccioso. Non era del tutto convinto della cosa, ma la speranza che fosse davvero il loro ultimo incontro lo rincuorava. “Ora andiamocene di qui”.

Cathy lo seguì, a pochi passi di distanza. Entrambi erano silenziosi e chiusi nei loro pensieri, aspettandosi lo stesso trattamento. Senza dubbio sarebbero stati sgridati per quella pazza fuga, che poteva rivelarsi più pericolosa del previsto, ma per un tacito accordo non avrebbero rivelato il particolare di Notturn Alley, nella speranza che non venisse mai alla luce. Era a tutti gli effetti il loro primo segreto, anche se non lo sapevano; e non immaginavano neppure che quello, contrariamente alle loro intenzioni, sarebbe stato il primo di una lunga serie d’incontri.


Note:

Con grande ritardo rispetto alle previsioni, riesco finalmente a pubblicare il seguito! Speriamo che almeno vi piaccia!

Un paio di note per quanto riguarda Olivander e le bacchette. Perché ho fatto ammalare il povero vecchio? Non c'è una ragione precisa, solo mi sembrava assurdo che dopo tanti anni fossero ancora tutti vivi e in perfetta salute. Per la scelta delle bacchette invece mi è stato molto utile Pottermore, la particolarità della bacchetta di vite non è una mia invenzione ma l'ho presa da lì, e mi è piaciuta l'idea di darla a Cathy.

I ragazzi hanno già vissuto la loro prima avventura insieme, anche se non si stanno molto simpatici. Ovviamente, a Hogwarts avranno modo di rivedersi e non è escluso che le cose possano cambiare. Grazie e a presto!

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Capitolo 7
*** Verso Hogwarts ***


7


Il primo settembre arrivò sotto una fitta nebbiolina, rendendo l’aria più fresca di quanto normalmente fosse in un giorno d’estate. Come ogni anno, la stazione di King’s Cross pullulava di giovani maghi accompagnati dalle loro famiglie, da bauli e gufi starnazzanti che facevano voltare incuriositi i Babbani. Davanti alla barriera che divideva i binari nove e dieci, Cathy sapeva esattamente cosa fare: attraversarla fingendo che non ci fosse, come le aveva detto l’uomo buono qualche giorno prima augurandole “buona fortuna”. Sulle prime era stata restia a crederci, ma dopo aver visto un paio di ragazzi farlo con nonchalance si era convinta che non fosse poi così difficile. Catherine, che l’aveva accompagnata fin lì, non poteva proseguire.

“Hai preso tutto?” le chiese, per l’ennesima volta. Cathy sapeva bene che quel ‘tutto’ significava principalmente due cose: lo spray per l’asma e la luce notturna. Erano così importanti che non avrebbe mai potuto dimenticarli.

“Sì, stai tranquilla”.

“Mi raccomando” aggiunse poi la ragazza, appoggiandole le mani alle spalle, “comportati bene… E scrivimi spesso. Credo di aver capito come fare a risponderti”.

Cathy le aveva spiegato dei gufi, e pur non avendone mai usato uno sperava che entrambe ci sarebbero riuscite. Catherine non l’avrebbe perdonata se non si fosse fatta viva e, probabilmente, anche il suo tutore avrebbe avuto da ridire. Annuì e l’abbracciò di slancio, sperando che bastasse a farle pesare di meno la sua assenza. Catherine rispose con molta energia, forse persino troppa.

“Ci vediamo a Natale” le disse, staccandosi a fatica.

“Certo” rispose Cathy. Si voltò, prima che potesse commuoversi o esitare ancora, e camminò a grandi passi verso la barriera. Quel distacco era molto difficile anche per lei, che non aveva mai passato un solo giorno lontana da Catherine. L’idea di affrontare la scuola senza poterle chiedere consigli, o rifugiarsi da lei in caso di problemi, la spaventava non poco. Ma sarebbe stata forte, avrebbe dimostrato a se stessa e all’uomo buono che non era un’inetta completa, che poteva farcela. Fu con questo pensiero che spinse il carrello verso la barriera, mentre il gatto Harry miagolava nel suo trasportino in cima al baule.

Aveva ragione: fu più facile del previsto. Un attimo prima aveva davanti una solida parete, un attimo dopo l’Espresso per Hogwarts sbuffava vapore dal binario nove e tre quarti. Cathy si guardò intorno, stordita. Innumerevoli ragazzi di tutte le età salivano sul treno, altri erano ancora fermi sulla banchina per gli ultimi saluti. Sebbene fosse circondata da una vera folla, iniziò a sentirsi sola; non conosceva nessuno, e se anche qualcuno le avesse parlato era sicura di sapere troppo poco della magia per reggere la conversazione. In ogni caso, si disse, non c’era tempo per pensarci, perché l’orologio della stazione segnava già le undici meno dieci e doveva affrettarsi a salire.

Sbirciò verso l’interno dei finestrini alla ricerca di uno scompartimento vuoto, ma sembravano tutti già occupati. Le saltò all’occhio un folto gruppo di ragazze della sua stessa età che emettevano risolini eccitati, in particolare una, che accompagnava alle risa il gesto di spingere all’indietro i suoi folti capelli castani. Il primo pensiero di Cathy nel vederle fu che non erano poi molto diverse dalle compagne di orfanotrofio, dalle quali si teneva volentieri alla larga. Aveva quasi perso le speranze quando, alla coda del treno, intravide uno scompartimento occupato da due soli ragazzi. Pensando di non poter trovare di meglio, raggiunse la porta della carrozza e issò sul treno il trasportino di Harry, cercando poi di trascinare il baule su per i gradini. Purtroppo, pesava troppo per lei da sola; dopo uno o due tentativi mal riusciti si costrinse a guardarsi attorno, nella speranza che qualcuno di buon cuore le desse una mano.

Non aveva neanche iniziato a cercare, però, che il baule si sollevò sul treno apparentemente da solo. Sbalordita, Cathy guardò in alto e scoprì che era stato un ragazzo di circa sedici anni ad aiutarla; portava già la divisa della scuola e sul petto gli brillava un distintivo a forma di 'P'.

“Grazie!” gli disse, raggiungendolo sul treno.

“Figurati. Sono un Prefetto, il mio compito è anche questo”.

“Potresti aiutare anche me, però!” una vocina squillante venne da qualche parte dietro di loro. “Oppure, siccome sono tua sorella, sei esonerato dal compito?”

“Tu sei solo pigra, è quello il problema!” Dopo quella protesta, comunque, il ragazzo gentile andò incontro anche a lei e l’aiutò a spostare il baule, che nel suo caso necessitava solo di una piccola spinta per avvicinarsi alla parete. Cathy non sapeva dire se fosse davvero pigra, perché il suo bagaglio era grande almeno due volte il proprio.

“Sempre così, lui! Fa il gentile con le altre e poi devo pregarlo per aiutare me!” sbuffò la ragazzina bionda e boccolosa. Portava un lungo vestito a fiori e un cappello con la stessa fantasia, che la facevano assomigliare a una bambola di porcellana. “Comunque, io sono Maggie. E lui è Gary, mio fratello”.

“Io sono Cathy” rispose lei.

“È il tuo primo anno?” le chiese, e senza attendere la risposta aggiunse: “Anche il mio! Vieni, cerchiamo uno scompartimento”.

Prima di allontanarsi con lei, Cathy lanciò un ultimo sguardo al Prefetto e lo vide scuotere la testa, guardando con affetto la sorella. Doveva essere bello avere un fratello maggiore, pensò.

“Il prossimo è quasi vuoto…” suggerì a Maggie, notando la velocità con cui apriva e chiudeva tutte le porte una dopo l’altra.

“Dici? Speriamo! C’è un sacco di brutta gente in questo posto… non vorrei mai incontrare quella serpe della Wilkinson!”

Cathy si chiese come facesse a conoscere già tanta ‘gente’, dal momento che era il primo anno anche per lei. Ma poteva darsi che i maghi si conoscessero tutti da sempre, e per evitare di fare domande stupide preferì tacere.

Entrò prima di Maggie nello scompartimento che aveva visto dal finestrino; i due ragazzi che lo occupavano sembravano avere la loro stessa età, anche se erano molto diversi l’uno dall’altro. Uno era magro con i capelli neri, l’altro più rotondo e bassino con dei ricci biondo-oro. Sorrisero debolmente alle due ragazze, ma Maggie si bloccò sulla soglia. Gli occhi le si spalancarono come non avevano mai fatto negli altri scompartimenti, si portò le mani alla bocca e poi disse piano a Cathy: “Be’, vai pure, io ho dimenticato di dire una cosa a mio fratello… Ci vediamo, eh?”

Si allontanò in tutta fretta, come se la vista dei ragazzi l’avesse terrorizzata. Cathy, che era ormai dentro e non voleva fare la figura della stupida, proseguì e si sedette di fronte a loro.

“Ciao” disse, leggermente in imbarazzo.

“Ciao” risposero i due all’unisono. Non sembravano troppo stupiti dello strano comportamento di Maggie.

Per diversi minuti regnò il silenzio. Il treno prese a sferragliare e Cathy capì che stava succedendo davvero, il viaggio era iniziato. Guardò la stazione allontanarsi sempre di più, mentre diversi maghi e streghe salutavano i propri figli con la mano, e si sentì pervasa da una strana eccitazione. Quando vivevi in un orfanotrofio, l’evento più degno di nota che potesse capitarti era una gita in aperta campagna, e senza dubbio in un castello a nord della Scozia le cose sarebbero andate diversamente. Avrebbe capito chi era veramente, cosa era in grado di fare… E all’improvviso, il fatto di non conoscere nessuno non le sembrò più così importante.

“Vuoi una Cioccorana?”

Era talmente assorta a guardare fuori che non si era accorta di chi avesse parlato. Si voltò e vide il ragazzo dai capelli neri tenderle una busta colorata.

Cathy aveva già fatto colazione prima di uscire, e all’orfanotrofio non le era concesso di mangiare altro prima di pranzo. Ma lì, su quel treno, non c’era nessuno che potesse dirle cosa fare o vietarle niente… Così, ringraziò il ragazzo ed estrasse dalla busta la sua Cioccorana, pur non sapendo assolutamente cosa fosse.

Tentò di nascondere la sua sorpresa, ma fece molta fatica. Sembrava a tutti gli effetti una rana vera che voleva sfuggirle di mano. Sentiva gli sguardi curiosi dei due su di sé, così se la ficcò in bocca senza tante cerimonie. Per fortuna, al gusto sembrava semplice cioccolato.

“Che figurina ti è uscita?” chiese l’altro ragazzo, quello piccolo e biondo. Cathy fece ancora finta di capire e scrutò attentamente l’incarto del dolce, sperando di trovarvi qualcosa. Con sollievo, si accorse che all’interno c’era effettivamente una figurina, e che raffigurava un mago con gli occhiali a lei ben noto: Harry Potter.

“Ehi, lo conosco!” esclamò. “È Harry Potter!”

“Certo che lo conosci” fece il ragazzo bruno, “lo conoscono tutti. Ne avrò almeno dieci delle sue figurine… quella che mi manca è Circe, non riesco mai a trovarla!”

“No, intendo dire che lo conosco di persona! L’ho incontrato a Diagon Alley”.

Questa volta, i due mostrarono un sincero stupore. “Ah… e com’è dal vivo?”

“Simpatico” rispose lei, senza aggiungere altro. Si era improvvisamente ricordata che anche Teddy doveva essere da qualche parte sul treno.

“So che gli hanno dedicato una targa enorme nella sala dei trofei” disse il biondo, con un certo disappunto dato probabilmente dall’invidia. “Esagerati…”

“E sarà una delle prime cose che ci mostreranno” aggiunse l’altro, annoiato. Cathy fu colta da un’illuminazione dopo quelle parole.

“Siete anche voi del primo anno?” domandò. I due annuirono.

“Evan Gregory” si presentò il bruno, tendendole una mano magra e curata. Lei l’afferrò, dicendo a sua volta: “Catherine Scott… ma per tutti sono Cathy”.

Subito dopo, si voltò istintivamente a guardare l’altro ragazzino. Lui però non tese la mano, e si limitò a dire: “Jason”.

Cathy approfittò del momentaneo silenzio che ne seguì per dare un’altra occhiata alla figurina: Harry le sorrideva con un certo imbarazzo e salutava con la mano, spostandosi di tanto in tanto dalla sua cornice. Cathy era sempre più curiosa di sapere cosa avesse fatto per meritarsi tanta fama, ma per qualche strana ragione non voleva rivelare ai ragazzi la sua poca conoscenza in materia di magia; aveva come la sensazione che l’avrebbero apprezzata molto meno.

Eppure, la verità era più vicina di quanto immaginasse. Le bastò voltare la figurina per leggere le frasi che tanto sperava di ascoltare:

Harry Potter, attuale Capo del Dipartimento Auror al Ministero della Magia, è considerato il protagonista indiscusso della storia moderna. Conosciuto anche come il Bambino Sopravvissuto e il Prescelto, è l’unico mago noto al mondo che sia sopravvissuto – per ben due volte – a un Anatema Che Uccide. A lui si attribuisce il merito di aver sconfitto definitivamente il Mago Oscuro Lord Voldemort. Abilissimo Cercatore, nel tempo libero ama giocare a Quidditch e dedicarsi alla sua famiglia.

C’erano un bel po’ di parole in quella descrizione che Cathy non aveva mai sentito, ma di due cose poteva essere sicura dopo averla letta: esistevano incantesimi in grado di uccidere e maghi definiti 'oscuri', che non dovevano essere l’emblema della bontà. Il Ministero le era stato nominato un paio di volte dall’uomo buono, mentre del Quidditch aveva sentito parlare quando era stata a Diagon Alley; da ciò che aveva recepito, doveva essere uno sport che si praticava a cavallo di una scopa.

Infilò furtivamente la figurina in tasca e rialzò gli occhi, riprendendo il suo solito piglio deciso. Solo allora si accorse che Evan la stava osservando e sembrava ben poco convinto da quella falsa sicurezza.

*

Il resto del viaggio trascorse nella più completa serenità. Fuori dal finestrino si susseguivano i paesaggi più disparati, dai pascoli e i campi di grano a una natura più aspra e selvaggia. Cathy trascorse tutto il tempo a guardare fuori, finché non divenne troppo buio per distinguere qualsiasi cosa. Di tanto in tanto, ascoltava sprazzi di conversazione dei due ragazzi che confermavano le sue sensazioni: si conoscevano da molto tempo, probabilmente appartenevano a famiglie di maghi che si frequentavano ancor prima della loro nascita. Quando furono stufi di parlare di Quidditch – sembrava che tifassero per due squadre diverse – Jason tirò fuori quella che sembrava una normalissima scacchiera Babbana, se non fosse stato che i pezzi sembravano vivi quanto le Cioccorane. Era ancora assorta a guardarli giocare, quando fu annunciato che il treno stava per entrare in stazione.

“Dobbiamo cambiarci” disse Evan, alludendo alla divisa scolastica. Prima ancora che si rivolgesse a Cathy per chiederle di uscire, la ragazzina si era già avviata verso la porta; aveva completamente dimenticato quella fase del viaggio, insieme alla sua divisa sul fondo del baule.

Mentre percorreva il corridoio a ritroso, sperò vivamente di incontrare di nuovo Maggie o suo fratello, per chiedere loro un suggerimento su dove potesse cambiarsi; ma, per sua sfortuna, non intravide né l’uno né l’altro, solo ragazzi di tutte le età che si preparavano a scendere dal treno. Era quasi arrivata al punto in cui aveva lasciato le sue cose, quando sentì un colpetto sulla spalla che cercava di attirare la sua attenzione: era Teddy.

“Ah, sei tu…” gli disse, mal nascondendo la sua delusione. “Non dovevamo evitarci per tutta la durata dell’anno?”

“Era quello che volevo, ma sfortunatamente dobbiamo parlarci un’altra volta. Hai dimenticato qualcosa…” rispose lui, un sorriso finto e altezzoso stampato sulla faccia.

“Cioè?” Cathy non sapeva a cosa alludesse, ma non si aspettava niente di buono.

“I miei tre galeoni”.


Note:

In questo periodo di feste l'ispirazione mi accompagna più del solito, così ecco un piccolo aggiornamento! Il viaggio per Hogwarts è iniziato e si comincia a conoscere qualche viso, ma il fatto principale che caratterizza questa storia (ovvero lo Smistamento) avverrà nel capitolo successivo.

Di solito non lo scrivo perché lo do per scontato, ma visto che questa storia è poco seguita rispetto ad altre, ricordo che ogni commento di qualsiasi tipo è ben accetto :) Mi piacerebbe sapere cosa vi piace e cosa magari non vi convince, ma se non aveste tempo sono contenta comunque che la seguiate! A presto.

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Capitolo 8
*** Molto più di una Testurbante ***


8


“Per la centesima volta…” ripeté Cathy, mentre a fatica cercava di infilarsi la divisa sopra i vestiti Babbani, “No, non ti darò neanche uno zellino!”

“Me li avevi promessi! Ti ho aiutato a trovare il gatto!” Teddy sembrava fuori di sé e aveva abbandonato del tutto la falsa gentilezza iniziale.

“Avevo promesso di darteli se tu avessi trovato Harry! Invece, l’abbiamo trovato insieme!”

“Ma sono stato io a vederlo per primo…”

“E questo chi lo dice? Per non parlare del fatto che tu non volevi neanche passarci, in quella strada!”

Discutevano in quel modo da almeno cinque minuti, tanto che Cathy si era rassegnata a vestirsi alla bene e meglio. Il treno era quasi in stazione e non c’era assolutamente tempo per trovare uno scompartimento adatto. Quando ebbe completato l’opera, aveva il colletto distorto e il viso rosso dal caldo e dalla rabbia.

“Sei una bugiarda” le stava dicendo Teddy, più rosso di lei. “Spero solo di non capitare nella tua stessa Casa… Sarà già una seccatura vederti tutti i giorni in Sala Grande”.

Quelle parole servirono a farla infuriare ancora di più; non tanto per l’accusa, che riteneva priva di fondamento, quanto per il sottile tentativo di farle pesare maggiormente la sua ignoranza, nominando quei particolari di Hogwarts che lui conosceva a menadito. Stava per rispondergli per le rime quando sopraggiunse Gary, radunando gli studenti ancora in giro nei corridoi.

“Che succede qui?” chiese, notando gli sguardi infiammati che si rivolgevano i ragazzi. “Non è il momento di litigare, siamo arrivati! Lasciate i bagagli qui, li ritroverete nella vostra stanza”.

Cathy e Teddy raccolsero i propri animali e lasciarono lì i bauli, senza smettere di lanciarsi sguardi torvi. Gatto e gufo soffiavano e tubavano rispettivamente, anch’essi stufi di quella situazione e di trovarsi rinchiusi. Alla fine, i due si unirono agli altri studenti in fila e uscirono dalla carrozza.

Fuori era così buio che non si riusciva a distinguere nulla, tranne le luci del treno e lo stretto marciapiedi su cui poggiavano i piedi. Cathy sentì un familiare senso di oppressione premerle sul petto, ma sapeva che finché c’era anche una sola fonte di luce non correva un vero pericolo. Il freddo era comunque pungente e, per la prima volta, fu contenta di indossare un doppio strato di vestiti.

“Primo anno! Primo anno!” Un omone grande e grosso li stava richiamando verso quello che sembrava un sentiero stretto e ripido. Improvvisamente, Teddy si staccò dal gruppo e lo raggiunse di corsa, chiamandolo 'Hagrid' e abbracciandogli le gambe. Cathy pensò che dovesse volerci coraggio, perché il tipo era davvero spaventoso.

“Teddy! Non vedevo l’ora di vederti… Ti ci troverai bene qui, sicuro”. L’uomo adesso lo stava abbracciando a sua volta e il corpicino del ragazzo era praticamente sparito sotto il suo pastrano. La parte più cattiva di Cathy sperò che lo soffocasse.

“Ciao!” D’un tratto, di fianco a lei, era spuntata di nuovo Maggie. Un cappello nero a punta aveva sostituito quello tondo e floreale che portava poco prima. “Com’è andato il viaggio? Scusa se sono scappata, ma sai… Quei due non mi piacciono, proprio no!”

“Li conoscevi già?” le chiese, senza riuscire a trattenersi. Non le sembravano così male, anche se erano decisamente più discreti di Maggie.

“Non personalmente, ma conosco le loro famiglie. Che cos’hai fatto alla divisa?” Come sempre, non attese risposta; le sue mani erano già partite verso il colletto, tentando di aggiustarglielo.

“Niente, ho dovuto metterla in fretta. Cos’hanno le loro famiglie che non va?”

Maggie si allontanò appena da lei, rimirando la sua opera. “Così va meglio… Tu non sei cresciuta tra i maghi, vero?”

“No. Altrimenti lo saprei, questo vuoi dire?”

“Be’…” per un attimo, Cathy era riuscita a frenare la sua loquacità. “Hanno un passato poco rispettabile, i loro cognomi sono tristemente famosi per fatti accaduti tanto tempo fa”.

“Tanto tempo fa? E i ragazzi che cosa c’entrano, allora?”

“Oh, tu non puoi sapere… Certe cose si trasmettono di padre in figlio. È una questione di sangue, capisci?”

Cathy avrebbe voluto risponderle che no, non capiva. In effetti, fare di tutta l’erba un fascio le sembrava uno stupido pregiudizio. Ma non poterono approfondire il discorso, perché avevano raggiunto una costa e l’omone le stava invitando a salire in barca. “Solo quattro posti!” specificò.

Dall’acqua scura e immobile che ospitava le piccole imbarcazioni, decorate con luci di vario colore sui bordi, Cathy dedusse che si trovavano nei pressi di un lago. Ironia della sorte, ad occupare la loro barca c’erano già due ragazzi: uno era Teddy, l’altro un rosso pieno di lentiggini. Un secondo viaggio in compagnia di quel tipo proprio non le andava giù, ma essendo poco confortante anche l’idea di contraddire il gigante, Cathy si decise a salire. Maggie occupò l’ultimo posto disponibile.

Da lì, sollevando la testa, potevano già vedere il castello di Hogwarts troneggiare in cima a una scogliera. Era una visione spettacolare: le luci accese dalle finestre lo rendevano brillante nell’oscurità della notte, e a Cathy ricordò l’illustrazione di un libro di fiabe. Poi, con un sussulto, sentì che si stavano spostando; le barche si allontanavano dalla riva apparentemente da sole, scivolando sull’acqua.

“Voi in che Casa vorreste essere Smistati?” Era stata Maggie a parlare, naturalmente; chiunque altro, ad eccezione forse del ragazzo rossiccio, avrebbe cominciato con un’offesa. “Io spero proprio di essere una Grifondoro! Mio fratello è già Prefetto di quella Casa, e poi lo dicono tutti che è la migliore!”

“Lo dicono anche i miei” la interruppe il rosso. “Mi piacerebbe essere un Grifondoro, ma chissà… Bisogna essere coraggiosi, e non mi sento proprio tale io”.

“È vero! Oh, speriamo di esserlo!”

“E tu, Teddy? Non mi hai ancora detto dove speri di andare…”

Teddy passò in rassegna i volti del ragazzo e di Maggie, evitando accuratamente quello di Cathy. Poi abbassò lo sguardo e rispose: “Non lo so. Comunque vada, deluderò qualcuno. Mia nonna era Serpeverde, mio padre Grifondoro e mia madre Tassorosso… Vorrei solo non diventare Corvonero, ecco”.

“Ehi, aspetta un attimo…” s’intromise Maggie, osservandolo con attenzione. “Tu sei il figlio di Lupin, vero? Ted Lupin?”

“Sì…” rispose Teddy con aria mesta.

“Ma è fantastico! Speravo proprio di incontrarti! Sai, a casa sappiamo tutto di tuo padre…” Alla parola ‘tutto’ Teddy aveva deglutito. “Ma non c’importa, anzi! Mia madre dice che era un ottimo professore e un bravo combattente… E che questo è tutto ciò che la gente deve ricordare di lui!”

“Già. Sono fiero di essere suo figlio”. Teddy sembrava leggermente rincuorato, dopo quelle parole. Cathy si chiese perché i pregiudizi legati alla famiglia dovessero valere per gli altri e non per lui.

“Be’, manchi solo tu!” le disse Maggie, d’un tratto. Aveva già dimenticato tutto il discorso delle Case.

“Non lo so, per me una vale l’altra” rispose, mostrando indifferenza. Fino a quel momento, niente di ciò che aveva sentito la faceva protendere per l’una o per l’altra.

“E figuriamoci…” s’intromise Teddy, cinico. Cathy lo ignorò.

“Davvero? Proprio nessuna preferenza? Meglio per te, comunque vada non resterai delusa!”

In effetti, pensò, poteva essere un punto a suo favore. Non avrebbe voluto perdere nessuna delle possibilità che ogni Casa poteva offrirle, ma da come ne parlavano sembrava che fosse necessaria una scelta e che, comunque, non dipendesse da lei. Subito dopo, Maggie chiese a Teddy di Harry Potter e il discorso si spostò nuovamente su di lui, infervorando il piccolo Lupin. Cathy iniziava a stancarsi di sentirlo nominare e, in quel momento, comprese appieno la noia di Evan e Jason.

Passò il resto del tempo ad osservare l’acqua scura sotto di loro; di tanto in tanto, allungava la mano verso di essa e si divertiva a scoprire le reazioni date dalla sua magia. Le avevano detto che una volta imparato a usare la bacchetta non ci sarebbe più riuscita, e la cosa le dispiaceva. Si riscosse solo quando la barca toccò finalmente la riva; uno alla volta, i ragazzi scesero sull’erba umida e s’incamminarono dietro il gigantesco Hagrid, fino a raggiungere il portone di quercia.

Quando furono dentro, le luci della Sala d’Ingresso diedero loro il benvenuto assieme a una strega anziana e dall’aria severa, che si presentò come professoressa McGranitt. Li accompagnò in una piccola sala vuota, accogliendoli con un accorato discorso.

“Benvenuti a Hogwarts. Come alcuni di voi sapranno, prima del banchetto avrà inizio la cerimonia dello Smistamento. Si tratta di un evento importante, perché per tutto il tempo che sarete qui la vostra Casa sarà un po’ come la vostra famiglia. Frequenterete le lezioni con i vostri compagni e condividerete con loro il dormitorio. Tuttavia…” e lì fece una piccola pausa, prendendo fiato per continuare. “Quest’anno c’è una piccola novità”.

I ragazzi che fino a quel momento erano stati distratti si riscossero all’istante; il gruppo di ragazze dai risolini eccitati che Cathy aveva visto sullo scompartimento smise di ciarlare, e tutta la loro attenzione fu rivolta verso l’insegnante.

“È mio dovere informarvi che, purtroppo, il nostro Smistatore ha subito un incidente. Una buona dose di pozione ancora in fase sperimentale si è inavvertitamente versata su di esso, il che ha portato a delle conseguenze. I nostri migliori insegnanti hanno passato l’estate a esaminarlo, e sono certi che sia ancora in grado di svolgere il suo compito – d’altra parte, è un oggetto di grande valore e fabbricato dagli stessi fondatori della scuola. Tuttavia, preferiamo evitargli l’ulteriore sforzo di cantare, e spero che per voi non sarà un problema”. A giudicare dalle scarse - per non dire nulle - reazioni, nessuno era molto interessato a sentir cantare quell’essere. “L’unica differenza che noterete rispetto agli altri anni sarà una maggiore predisposizione ad ascoltare le vostre scelte. In parole povere, c’è una possibilità in più che ciascuno venga Smistato nella Casa che preferisce”.

Questa volta, alla notizia si sollevò un vero e proprio tripudio. Un ragazzo alto con l’aria di leader arrivò a lanciare in aria il proprio cappello, mentre le ragazzine accanto a lui applaudivano eccitate. Tutti erano entusiasti di ciò che avevano sentito, con l’unica eccezione di Cathy.

La professoressa McGranitt continuò a parlare di Case, punti e coppe, ma l’attenzione generale era di nuovo calata. Sebbene nessuno osasse più fiatare in sua presenza, era evidente che non avevano altro pensiero al di fuori dello Smistamento. Quando il discorso finì, furono finalmente accompagnati fuori dall’aula e verso la Sala Grande. La grandezza, i candelabri, la magia del cielo incantato ebbero infine il potere di ammutolire tutti i presenti, più di quanto avesse fatto la severità dell’insegnante.

I quattro tavoli erano, come ogni anno, già allineati e pieni dei rispettivi studenti, che scrutavano curiosi i nuovi arrivati. Quello al centro era occupato dagli insegnanti, un insieme di visi sconosciuti e di tutte le età che sorridevano ai bambini spaventati. A Cathy saltò all’occhio l’uomo che sedeva nel mezzo, data la sua incredibile statura: era così piccolo che necessitava di un altissimo sgabello per raggiungere il tavolo.

“Quello è Vitious, il Preside” le sussurrò Maggie all’orecchio. Cathy non riuscì a crederci.

“Il Preside? Quello?

“Proprio così! È molto intelligente, è stato un Corvonero alla nostra età”.

Poteva essere vero, ma quelle parole non bastarono a convincerla. Non si capacitava di come un Preside del genere potesse essere rispettato, quando persino una donna gelida come quella McGranitt trovava delle difficoltà.

“Ci siamo…” aggiunse Maggie, con un tremito nella voce.

Quando la professoressa lo ripose su uno sgabello tremolante, Cathy scoprì finalmente che cos’era lo Smistatore: un cappello vecchio e consunto, pieno di toppe, con uno strappo sul lato; uno strappo dal quale parlava.

“Io sto benissimo, è chiaro? Sono perfettamente in grado di adempiere ai miei doveri! E pretendo di cantare, come ogni anno…”

“Basta così” lo interruppe la McGranitt. “Abbiamo già deciso. Adams Matthew! Avanti, prego”.

Il primo ragazzino, colto di sorpresa, si avvicinò allo sgabello e vi si sedette tutto ingobbito e tramolante. La professoressa McGranitt gli pose il cappello sulla testa, che gli stava talmente largo da ricadergli sugli occhi. Dopo pochi minuti, Cathy lo sentì gridare: “Corvonero!”

Il tavolo che doveva essere dei Corvonero esplose in un boato di applausi. Matthew, senza più tremare, si liberò del cappello e corse verso i suoi compagni, occupando uno dei posti vuoti.

“Anderson Gracie” fu la seconda Corvonero dell’anno; di nuovo, si levò un coro di applausi e la ragazzina raggiunse il suo coetaneo allo stesso tavolo.

Quando anche una terza ragazza di fila divenne Corvonero, tra gli studenti in attesa di essere Smistati si sollevò un mormorio perplesso; forse, quel coso non funzionava poi così bene come dicevano.

“Brown Philip!” Un altro undicenne esitante prese il posto del precedente, sul viso la stessa espressione di ansia e timore. Quando il cappello lo dichiarò Tassorosso, anche la McGranitt sospirò di sollievo.

“Collins Samuel!” Il ragazzo dai capelli rossi che li aveva accompagnati sulla barca si staccò dal gruppo, per prepararsi al momento tanto temuto. Con lui il Cappello impiegò più tempo per decidere, ma alla fine optò per Grifondoro. Samuel alzò il pollice in direzione di Teddy in segno di vittoria, prima di prendere posto al suo tavolo.

Il primo Serpeverde dell’anno rispose invece al nome di Dolohov, Jason, nonché il ragazzino biondo che aveva condiviso lo scompartimento con Cathy. Uno strano mormorio sommesso accolse il suo nome e cognome, mentre Maggie si portava nuovamente le mani alla bocca. Ma la reazione in assoluto più imprevedibile fu quella di Teddy: continuò a fissarlo con disprezzo per tutta la durata del suo Smistamento, e le nocche gli divennero bianche per quanto teneva le mani strette a pugno. La rabbia che provava verso Cathy non era niente in confronto a quella che mostrò in quel momento.

Più tardi, anche Evan Gregory divenne un Serpeverde come il suo amico; nel suo caso, però, non si sollevò alcun mormorio rilevante, e la stessa attenzione venne data alle due successive Grifondoro – Jennifer e Susan Hill, probabilmente sorelle.

Dopo Lauren Jackson e Pamela Loogan (rispettivamente, Tassorosso e Serpeverde) arrivò il turno di Teddy. Il suo nome suscitò un certo interesse nella Sala, specie da parte dei professori; dal canto suo, il piccolo Lupin ritrovò tutta la paura che aveva dimenticato, preso com’era a fissare Jason.

Il suo Smistamento durò circa tre minuti, dopodiché il Cappello gridò: “Grifondoro!” e, visibilmente felice, il ragazzo raggiunse i suoi nuovi compagni di Casa.

“Ce l’hanno fatta tutti e due…” sussurrò Maggie di risposta. “Spero che resti un posto anche per me!”

Dopo che Macdonald Abbie divenne Serpeverde, Cathy smise di seguire con attenzione il resto dello Smistamento. Non era preoccupata fino a poche ore prima, ma tutta l’ansia che circondava quell’evento stava iniziando a coinvolgerla. Anche se non capiva perché fosse così importante (l’uomo buono non le aveva mai raccomandato nulla in tal senso) aveva come la sensazione che molto della sua vita scolastica dipendesse da quel momento. Quando la McGranitt chiamò il suo nome, stava ancora cercando di tranquillizzarsi senza successo.

La prima cosa che notò avvicinandosi allo sgabello fu il volto del professor Paciock, che le sorrideva dall’estremità sinistra del tavolo; poi, voltandosi, incrociò parecchi sguardi curiosi rivolti nella sua direzione, fino a che il Cappello Parlante non le oscurò la vista con la sua enorme tesa.

“Bene, bene… Cos’abbiamo qui…” il Cappello stava parlando con lei, ma sembrava quasi che lo sentisse nella sua testa; davvero poteva leggere i suoi pensieri, scoprire cose di Catherine Scott che neppure lei sapeva? “Molto interessante… vedo tantissime caratteristiche!”

“Da... Davvero?” balbettò lei.

“Certamente! Determinazione, intraprendenza, voglia di mettersi in gioco… Staresti bene in Serpeverde, senza dubbio”.

“Ah…” la decisione non le dispiaceva e non l’entusiasmava, voleva soltanto togliersi al più presto quel coso dalla testa.

“Eppure… Eppure vedo qualcos’altro che non posso ignorare. Una traccia… Una traccia evidente di sangue Grifondoro!”

“Sangue? Riesci a leggere nel mio sangue?!”

“Non è una cosa che faccio di solito, ma quella pozione deve avermi rinvigorito! Comunque, dicevo… C’è molto di Grifondoro in te, piccola. Una buona dose di audacia, lealtà nei confronti degli amici… Difficile, davvero difficile. Dove ti metto?”

Cathy alzò le spalle, lasciando intendere che non aveva preferenze. “Fai tu, è uguale”.

“Uguale? Nessuna scelta tra queste due Case storicamente in contrasto tra loro?” Persino un cappello non riusciva a crederci.

“No” ribatté Cathy, sperando che quel coso si desse una mossa. Anche se aveva il viso coperto sentiva addosso gli sguardi della folla.

“Potrei… Potrei scegliere io, ma mai come questa volta temo di fare un grosso errore. Troppo dipende da questa scelta… Troppa grandezza, o forse una reale rovina!”

“Non ti sembra di esagerare?!”

“No, so bene quello che dico. Allora, dove vuoi andare?”

Continuò a chiederglielo per almeno una decina di volte, senza mai ottenere una risposta diversa da “non lo so”. Intanto, il tempo si allungava a dismisura e la parola Testurbante iniziava a farsi eco nella sala.

Cathy provò a mettere insieme tutte le informazioni che aveva raccolto su entrambe le Case: secondo Maggie, Grifondoro era la migliore, ma c’era anche da dire che poteva essere stata influenzata da suo fratello, e in ogni caso aveva un po’ troppi pregiudizi per i suoi gusti. Se avesse scelto la stessa Casa di Teddy l’avrebbe fatto certamente infuriare, ma non voleva dargli la soddisfazione di rinunciare solo per farlo contento. Quanto a Serpeverde, sapeva veramente poco; sembrava raccogliere tutti i maghi con un passato oscuro alle spalle, ma tutto sommato questo l’affascinava. Sarebbe stato più facile decidere senza tutta quell’ansia che il Cappello le aveva messo addosso, ma dopo la parola 'rovina' era diventata un’impresa impossibile. Così restò ancora in silenzio, a lungo, fino a segnare un nuovo record nella storia di Hogwarts.

Quando il Cappello non aveva più considerazioni da fare, quando Cathy si era arresa alla sua incapacità di scegliere e la curiosità della sala si era trasformata in una noia mortale, lo Smistatore sembrò finalmente decidersi; alzando il tono di voce, in modo che tutti potessero sentirlo, dichiarò: “Non mi lasci altra scelta… Grifondoro e Serpeverde!”

Nella Sala Grande, all’improvviso, calò un silenzio che non si sentiva da molto tempo. La professoressa McGranitt si abbassò fino all’altezza del Cappello, chiedendogli in un sussurro: “Che cosa, prego?”

“Ho detto” ripeté quello “Grifondoro e Serpeverde!”

La reazione questa volta fu completamente diversa; l’insegnante afferrò il Cappello per la punta e con un colpo secco lo allontanò dalla testa di Cathy, che fu investita dalla luce abbagliante delle candele. Un coro di “Oooh” accompagnò quel gesto aggressivo.

“Che cosa significa, si può sapere?”

“Significa” continuò il Cappello impassibile “che non me la sento di prendere una decisione. Troppo può dipendere da questa scelta e non voglio nessuna responsabilità a riguardo. Ho chiesto alla ragazza di scegliere e non aveva alcuna preferenza, per cui questa è l’unica opzione possibile. Trascorrerà un mese in ciascuna delle due Case, a turno, fino a quando non avrà preso una decisione. E – prima che lei lo insinui – no, non c’entra nulla l’incidente di quest’estate!”

“Questo non ha alcun senso!” urlò la McGranitt, visibilmente scioccata. “A Hogwarts nessuno studente è mai stato Smistato in due Case diverse!”

“Lo sappiamo, Minerva, calmati”. D’un tratto, il minuscolo Preside si era alzato in piedi (non che facesse molta differenza) e aveva preso la parola. “Sarebbe una situazione del tutto nuova e richiederebbe delle disposizioni mai considerate, ma… D’altra parte, non possiamo ignorare le decisioni del Cappello”.

“Se lei è d’accordo, non sarò certo io ad oppormi. Ma non può chiedermi di considerare questa una decisione!”

“Continuiamo con lo Smistamento, dopodiché prenderemo i provvedimenti necessari” concluse il Preside, sedendosi di nuovo. L’insegnante recuperò la sua compostezza e invitò Cathy ad andare. La ragazzina, tuttavia, non sapendo ancora quale fosse la sua destinazione, restò in piedi a guardare alternativamente i due tavoli di Grifondoro e Serpeverde. Solo quando la McGranitt la sospinse verso il primo si decise ad andarsi a sedere.

Dal tavolo verso cui si stava dirigendo, così come da tutti gli altri, non l’aspettava alcuna esultanza. I tanti volti la fissavano con curiosità, alcuni persino con stizza; forse, tutti avrebbero preteso che scegliesse la loro Casa piuttosto che l’altra. Ci furono solo alcuni timidi applausi al suo arrivo, iniziati dal Prefetto Gary, a cui Cathy tentò di rispondere con un sorriso. Teddy, qualche posto più in là, la guardava come fosse un extraterrestre.

“Thompson Margaret!” Lo Smistamento riprese, all’apparenza come nulla fosse successo. Maggie si sedette sullo sgabello e dopo qualche istante divenne, come desiderava, una nuova Grifondoro. Raggiunse suo fratello di corsa e l’abbracciò, per poi prendere posto tra lui e Cathy.

“Ce l’ho fatta! Non ci credo ancora! Certo che quello che è successo a te è incredibile!” esclamò, gesticolando più del solito.

“Me ne sono accorta. Non era mai successo, vero?”

Maggie scosse la testa con vigore. “Assolutamente no! Hai stabilito un nuovo record”.

Tra una chiacchiera e l’altra furono raggiunte anche da Eliza Williams, una morettina silenziosa che si sedette di fronte a Maggie col capo chino. Dopo di lei, fu chiamata Vera Wilkinson; Cathy scoprì che la ragazza mal sopportata da Maggie era la stessa che aveva visto dal finestrino, mentre rideva e gettava all’indietro i capelli. Come ormai si aspettava, fu Smistata in Serpeverde.

L’ultimo ragazzo convocato fu Zabini Alexander, anche lui Serpeverde. Cathy lo riconobbe come il tipo che aveva gettato all’aria il cappello durante il discorso della McGranitt. Non aveva abbandonato la sua aria trofia neppure un attimo prima di essere Smistato, come se non avesse alcun dubbio sulla sua destinazione.

“Sarà dura dividere il dormitorio con quella gente…” commentò Maggie, che guardava in direzione dei Serpeverde con evidente disgusto.

“Non piacciono neanche a me, almeno non tutti. Mal che vada, sceglierò di restare qui”. Cathy non aveva alcuna intenzione di decidere prima del tempo, non ora che aveva la possibilità di dividersi tra le Case.

“Bene, bene…” il Preside si alzò di nuovo in piedi, per prendere la parola. “Un altro anno è arrivato, miei cari ragazzi. Ne approfitto per dare il benvenuto ai nuovi arrivati e un bentornato a tutti gli altri. Vi ricorderò solo un paio di regole della scuola prima di dare inizio al banchetto. Gli studenti del primo anno sappiano che è vietato l’accesso alla Foresta Proibita, così come è fatto divieto di aggirarsi fuori dai dormitori nelle ore notturne – con l’unica eccezione della festa della Conciliazione e l’anniversario della Rinascita, qualora dovessero prolungarsi più del dovuto. Per ogni dubbio, il regolamento completo è disponibile nell’ufficio del nostro guardiano. E… Ecco, non sono molto bravo con le parole, quindi… Buon appetito a tutti!”

Non appena ebbe finito di parlare, i piatti si riempirono di tutti i generi di pietanze che Cathy potesse immaginare; tra un’emozione e l’altra aveva dimenticato quanta fame avesse, ma il pollo e le patate arrosto glielo ricordarono immediatamente. Il cibo sembrava moltiplicarsi per magia ogni volta che i piatti venivano svuotati, fino a soddisfare anche i ragazzi più insaziabili.

“Che fine hanno fatto i fantasmi?” domandò Samuel, tra un boccone e l’altro.

“Da quando sono arrivato qui non partecipano più al banchetto di inizio anno. La ragione ufficiale è che spaventano i figli dei Babbani… ” Era stato Gary a rispondere.

“Che sciocchezza!” s’intromise una delle ragazze, Jennifer Hill. “Ci sono stati per anni ed è sempre andata bene a tutti!”

“Non è proprio così, invece”. Pulendosi la bocca con il tovagliolo, anche Maggie aveva preso la parola. “Qualche anno fa, una ragazza è svenuta dopo che il Barone Sanguinario le è passato attraverso! Non è vero, Gary?”

“Sì” confermò il Prefetto. “In effetti è successo”.

“Anche i figli dei Babbani frequentano Hogwarts?” chiese Cathy, scegliendo quella tra mille domande.

“Sì, se nascono con poteri magici. A volte, la magia si manifesta dopo generazioni e generazioni di Babbani che non l’hanno mai praticata”.

“I tuoi genitori in che Casa erano?” chiese ancora Maggie, con l’intento di arricchire il suo già grande bagaglio d’informazioni. Cathy si aspettava una domanda del genere prima o poi, e decise che era il momento di rivelarsi.

“Non lo so” ammise. “Non li ho mai conosciuti”.

“Mi dispiace…”

Cercando di non apparire come una vittima le disse dell’orfanotrofio, del suo tutore e del momento in cui aveva capito di essere una strega. I suoi compagni di Casa ascoltarono rapiti, dimenticando per un attimo il pudding e i pasticcini. Ma, mentre parlava, Cathy scoprì di non sentirsi affatto sfortunata o strana come gli altri la consideravano; la sua mente era altrove, e continuava a tornare su quelle due parole che il Cappello Parlante si era lasciato sfuggire: sangue Grifondoro.


Note:

Eccoci arrivati allo Smistamento, dove in effetti ho sviluppato un'idea che avevo in mente da un po': e se per una volta il Cappello fallisse, rifiutandosi di prendere una decisione? Ecco cosa ne è uscito fuori, a voi dire se è un'idea carina o una cavolata completa! Per chi non lo sapesse, la parola Testurbante viene invece da Pottermore e indica una persona che è rimasta sotto il Cappello per moltissimo tempo.

Hogwarts è un po' cambiata dopo la guerra, come penso si capisca già qui. I figli dei Babbani sono trattati con rispetto e viceversa sono i discendenti dei Mangiamorte a essere additati, se a torto o a ragione è ancora da vedere. Teddy reagisce a quel modo perchè, ho immaginato, sa che un certo Dolohov è stato l'assassino di suo padre.

È stato un capitolo piuttosto lungo, ma dovevano succedere parecchie cose! Grazie per essere arrivati fin qui^^

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Capitolo 9
*** La prima notte ***


9


Fu una cena piuttosto interessante e istruttiva, sotto vari punti di vista. Dopo che Cathy ebbe concluso il suo racconto, Maggie prese di nuovo la parola e sembrò non voler più smettere. Si definì una Mezzosangue, nonché figlia di maghi con qualche Babbano tra gli avi, e specificò che negli ultimi tempi era diventato molto difficile trovare dei cosiddetti Purosangue, discendenti di maghi da generazioni. A suo dire, gli unici che fossero stati Smistati quel giorno erano Jason Dolohov, la Wilkinson e il ragazzo di nome Zabini, tutti Serpeverde. Ma sottolineò anche che non c’era alcuna differenza tra loro e gli altri studenti, e che anzi era giusto riservare un trattamento speciale ai figli dei Babbani dopo tutto ciò che avevano subito. La famiglia di Maggie ammirava molto i Babbani, specie per il loro modo di vestire (e questo la diceva lunga sull’abito a fiori in stile Ottocento).

Quando prese finalmente fiato, anche gli altri ragazzi poterono rivelare qualcosa sulle loro famiglie. Si scoprì che erano tutti Mezzosangue: Samuel Collins aveva i nonni materni Babbani, la madre delle sorelle Hill (fu confermato che erano sorelle, pur se non si assomigliavano neanche un po’) era anch’ella Babbana, e lo stesso Teddy aveva dei Babbani tra i suoi bisnonni. L’unica a non partecipare alla conversazione fu Eliza Williams, apparentemente concentrata solo sul cibo.

Quando tutti furono sazi fino a scoppiare, il Preside invitò i ragazzi a recarsi nei rispettivi dormitori, accodandosi ai Prefetti che avevano il compito di accompagnarli. Ma per Cathy si prospettava qualcosa di diverso; prima che potesse avviarsi, fu richiamata dalla professoressa McGranitt verso la stessa sala dov’era stata qualche ora prima, allo scopo di "definire i dettagli della sua condizione”. Alla riunione partecipò anche un altro insegnante, un tipo anziano e alquanto in sovrappeso ma con l’aria simpatica.

“Bene” cominciò la professoressa, a braccia conserte contro una cattedra. “Questo è il professor Lumacorno, direttore della Casa dei Serpeverde. Essendo io direttrice dei Grifondoro, ho ritenuto opportuno prendere con lui le decisioni che ti riguardano”.

“Fa' pure, Minerva, fa' pure!” commentò lui, fissando Cathy con occhi curiosi.

“Signorina Scott, devi sapere che in questa scuola nessuno studente è mai stato Smistato in due Case diverse. Questo ci impone di ridefinire alcune regole, in termini di punti, lezioni e molto altro”.

“Com’è stato proposto dal Cappello, trascorrerai un mese in una Casa e il successivo nell’altra fino alla fine dell’anno. Per il tempo in cui sarai assegnata a una delle due, ti comporterai come se ne fossi a tutti gli effetti una componente. Dormirai con i tuoi compagni di Casa, seguirai con loro le lezioni e i punti ti verranno dati o sottratti a seconda di quale sarà la tua sistemazione al momento. Tuttavia, ci sarà una segretezza da rispettare: entrambi i dormitori necessitano di una parola d’ordine per accedervi, ed è fatto assoluto divieto di divulgarla agli studenti delle altre Case. Ciò significa che, pur conoscendole entrambe, non potrai rivelare la parola d’ordine dei Grifondoro ai Serpeverde e viceversa. Va da sé che è ugualmente proibito lasciar entrare di persona un ragazzo di un’altra Casa, salvo motivi eccezionali”.

Cathy annuì più volte durante quel discorso, sperando di tenere a mente tutte quelle raccomandazioni. Più l’insegnante parlava, più aveva come l’impressione di essersi cacciata in un grosso guaio.

“Tuttavia, le regole formali non saranno il problema principale. Da tempo immemore, le due Case a cui appartieni sono divise da una rivalità innata, di cui avrai modo di accorgerti con il passare del tempo. Ciò significa che potrebbe essere difficile per i tuoi compagni accettare questa situazione e, quando dico difficile, mi riferisco a molti ambiti, dalle partite di Quidditch alle questioni personali dei ragazzi… In parole povere, ti consiglio di essere quanto più discreta possibile”.

“Per ogni dubbio potrai rivolgerti a me o al professor Lumacorno. Dato che si tratta di una situazione nuova tollereremo qualche errore iniziale, ma ci auguriamo di poterti trattare al più presto come una studentessa qualsiasi. Per questo mese resterai nella mia Casa, dopodiché ci occuperemo di spostarti. E questo è tutto; se non ci sono domande, ti accompagno al dormitorio”.

Cathy rispose che no, non aveva alcuna domanda da fare, e si accorse di essere così stanca da voler rimandare ogni preoccupazione al giorno dopo. Tuttavia, mentre seguiva la professoressa fuori dall’aula, sentì Lumacorno avvicinarsi.

“Non preoccuparti troppo, non sarà così dura come dice!” le sussurrò, facendole l’occhiolino. “Toglimi una curiosità, i tuoi genitori sono persone famose nel mondo dei maghi?”

“Non lo so” rispose Cathy, e per la seconda volta quella sera aggiunse: “Non li ho mai conosciuti”.

“Oh… Ma allora… Non sarai mica la ragazza del Saint George, quella che il professor Paciock è andato a trovare quest’estate?”

Cathy confermò e immediatamente dopo vide Lumacorno impallidire; sembrava che il collegamento all’orfanotrofio l’avesse traumatizzato ed esaltato al tempo stesso.

“Ah… Interessante, davvero! Mi piacerebbe che partecipassi alle mie cene qualche volta… Niente di speciale, delle piccole riunioni tra studenti per conoscerci meglio! Cosa ne dici?”

“Va bene, Professore, ci sarò” tagliò corto Cathy. “Ma ora andrei a dormire, se non le dispiace”.

“Certo, certo, sarai stanca… Ci vediamo a lezione di Pozioni, allora!” e le fece un altro occhiolino, prima di allontanarsi nella direzione opposta.

*

Per l’intero tragitto, la professoressa McGranitt l’accompagnò senza proferire parola. Cathy, tuttavia, avrebbe avuto mille cose da dire e altrettante da chiedere, per lo stupore che provava a ogni angolo del castello. Le scale immense che si spostavano da sole, gli enormi quadri abitati da maghi sonnecchianti e le luci provenienti da una fonte sconosciuta erano più di quanto potesse immaginare, più incantati di quanto avesse mai sperato. Dovettero salire centinaia di gradini, ma lei non vi badò; davanti al ritratto della Signora Grassa, infine, la professoressa le rivelò la parola d’ordine (Burrobirra) e le augurò buona fortuna, in un tono che ricordava molto quello del suo tutore.

La sala comune era grande e accogliente, benché al momento deserta. Le pareti erano coperte di stendardi rosso e oro con lo stesso simbolo che decorava il tavolo in Sala Grande, un leone con le fauci spalancate. L’unica fonte di luce proveniva dal camino ancora acceso, un residuo di braci anch’esse scarlatte che le permisero di vedere la scala a chiocciola sulla destra, dove si trovava il suo dormitorio.

La stanza delle ragazze del primo anno era ugualmente buia e silenziosa; i letti a baldacchino avevano tutti le tende tirate ad eccezione del suo, naturalmente vuoto e intatto, e quello di Maggie, che dormiva con un braccio penzoloni. Sul suo comodino c’era una strana lampada a forma di sfera, che cambiava colore almeno ogni trenta secondi. Con grande sorpresa, Cathy si accorse solo allora che il proprio baule era già pronto ai piedi del letto; si sedette e lasciò finalmente libero Harry, che con un miagolio di disappunto scappò via per le scale senza concederle neppure una carezza. Infine, cercando di essere più silenziosa possibile, cominciò a rovistare nel bagaglio e ne tirò fuori tutto quello che le serviva, dal pigiama alla luce notturna.

Già… La luce notturna. Se la rigirò un momento tra le mani e si chiese se fosse davvero utile, dato che la lampada di Maggie emetteva luce a sufficienza. Ma poi, pensò anche che avrebbe potuto spegnersi da un momento all’altro, e la sola possibilità di svegliarsi nel buio più completo le faceva mancare già il respiro. Si rialzò quindi dal letto e cominciò a tastare le pareti alla ricerca di una presa di corrente, convinta che fosse il gesto più naturale del mondo.

Aveva ispezionato quasi metà della stanza quando iniziò a preoccuparsi; possibile che in quel posto non ci fosse elettricità? Eppure, era sicura che quello che aveva visto accanto alla porta fosse proprio un interruttore… Si avvicinò alla lampada di Maggie per scoprire a cos’era collegata e, sorprendentemente, si accorse che non aveva fili: all’interno non c’era alcuna lampadina, ma una polvere colorata e vorticante che sembrava brillare di luce propria. Quando fu certa che non avrebbe trovato quello che cercava, la paura cominciò a impossessarsi di lei; che cosa avrebbe fatto, come poteva dormire nel terrore di ritrovarsi al buio totale? Alla fine, non trovando altra soluzione, decise che avrebbe lasciato la stanza. Portò con sé la coperta del letto, la lampadina inutile che ancora stringeva tra le mani, lo spray per l’asma e un oggetto che non aveva più utilizzato dal giorno del suo acquisto: la bacchetta di vite.

Che cosa ci avrebbe fatto, non lo sapeva. Le sue conoscenze in termini di magia erano praticamente nulle, mai sarebbe riuscita ad accendere una luce o a ravvivare il fuoco, eppure… Tenere con sé la bacchetta riusciva a darle un senso di sicurezza, quasi fosse una vecchia amica pronta a vegliare su di lei. Così, stringendo a sé tutti i suoi preziosissimi oggetti, si raggomitolò sulla poltrona più vicina al camino e s’infilò sotto la coperta, ormai rassegnata a passare la notte insonne. Sperava vivamente che nessuno scendesse in sala comune prima del mattino, per non fare la figura della bimbetta stupida e fifona, ma ancora di più sperava che quelle ultime braci non si spegnessero del tutto. Strinse forte la bacchetta tra le dita, ammirando le rifiniture del legno chiaro e puntandola ingenuamente verso il fuoco, come nella speranza che potesse ravvivarlo. Purtroppo, quell’oggetto tanto magico non aveva più dato prova delle sue prodezze una volta fuori dal negozio, e persino quel calore che sprigionava a contatto con le sue dita sembrava essersi affievolito. Forse, pensò con amarezza, la bacchetta si era accorta di aver scelto la persona sbagliata, e che lei non aveva alcuna capacità di usarla. Le stava venendo una gran voglia di piangere, ma proprio in quel momento un inaspettato amico venne a farle compagnia: Harry il gatto, improvvisamente tutto fusa e miagolii, saltò con un balzo sulla poltrona e le si acciambellò accanto, rubandole parte della coperta e del calore.

“E così adesso non sei più arrabbiato, eh?” gli sussurrò, mentre già accarezzava quel pelo soffice. Pazienza se si era avvicinato solo per il suo interesse e non per affetto verso la padrona; al momento, Cathy sapeva solo di aver bisogno di quel gattino quanto lui ne aveva di lei.

Riuscì a rilassarsi così, con una mano che circondava Harry e l’altra che stringeva la bacchetta, fissando la brace incandescente e ascoltando il silenzio della notte. Chissà come le sarebbe apparsa quella stessa stanza l’indomani, illuminata dal sole e affollata di ragazzi entusiasti… Sperava solo di poterla vedere così al più presto. Quante ore potevano mancare all’alba, tre, quattro? Forse sarebbe andato tutto bene, forse la luce non l’avrebbe abbandonata del tutto… Non ti spegnere, ripeté più volte nella mente, come in una muta preghiera. Non ti spegnere.

*

Fu svegliata dal rumore improvviso di un oggetto che rotolava sul pavimento. Quando aprì gli occhi, la figura sfocata di una ragazza bruna apparve davanti a lei. Un attimo prima era in piedi a fissarla, un attimo dopo si calò verso terra per raccogliere l’arnese misterioso. Cathy, ormai completamente ridestata, si sedette in maniera più dignitosa e mise a fuoco la sua coetanea, riconoscendola solo in quel momento come Eliza Williams.

“Mi dispiace, non volevo svegliarti” le disse la ragazza, sollevandosi e guardandola negli occhi. Aveva iridi di un verde brillante che la sera prima Cathy non aveva notato. “Ma ti è caduto questo… E, comunque, credo che non ti servirà”.

La sua mano si allungò verso Cathy per restituirle l’oggetto, che si rivelò essere l’inutile luce notturna. Cathy capì che doveva esserle scivolata durante il sonno.

“Grazie” le disse. “Qui non c’è elettricità, vero?”

Eliza scosse la testa, manifestando un certo rammarico: “No. Ho provato a portare con me il cellulare, ma si è rotto prima ancora di raggiungere il cancello. Credo che magia e apparecchi Babbani non siano molto compatibili… Anche la tua lampadina sembra fuori uso”.

Cathy abbassò gli occhi verso di essa e scoprì che Eliza aveva ragione: i contatti sembravano bruciacchiati, ed erano innaturalmente piegati l’uno verso l’altro.

“Ma… Come può esserci allora un interruttore nella nostra stanza?” Quella domanda aveva un duplice scopo; da un lato, Cathy cercava davvero la risposta a quella misteriosa questione, dall’altro sperava di ritardare il momento in cui avrebbe dovuto spiegare la sua presenza lì.

“È magico” spiegò ancora Eliza, paziente. “Ieri sera, Maggie ci ha spiegato che è stato costruito così per i figli dei Babbani, in modo che sia più facile per loro abituarsi alla magia. In effetti mi è stato utile…” abbassò lo sguardo e arrossì di colpo, dopo quella rivelazione. “I miei sono Babbani, è per questo che conosco l’elettricità. Credo che qui nessuno l’abbia mai vista, a parte noi due”.

Cathy annuì, dopo quell’affermazione che chiariva i suoi dubbi. E così, Eliza era figlia di Babbani… Chissà perché non ne aveva parlato la sera prima, dato che nessuno sembrava avere dei pregiudizi. Ma preferì non approfondire l’argomento, e piuttosto le domandò che ore fossero.

“Sta albeggiando” rispose Eliza, facendo un cenno in direzione della finestra. “Mi sono svegliata presto e ho pensato di guardare il cielo”.

Ora che ci faceva caso, la stanza non era assolutamente più buia come poco prima; una luce tenue e crescente proveniva dall’esterno, e non era la sola a illuminarla. Nel camino, si accorse solo allora, le braci erano state sostituite da un bel fuoco scoppiettante.

“Ehi!” esclamò “Il fuoco è acceso! Sei stata tu?”

“Io? No, era già così quando sono arrivata… Devi essere stata tu”.

“Ma io non…” proprio mentre stava spiegando che non ne sarebbe mai stata in grado, il suo sguardo andò automaticamente alla bacchetta: era ancora rivolta verso il camino, così come l’aveva lasciata, unica testimone e forse complice di quel miracolo.

“Magari l’hai fatto senza rendertene conto” ipotizzò Eliza, con un sorriso. “Capita di fare magie senza aver studiato, l’ho letto all’inizio del libro di Incantesimi. Forse lo desideravi tanto, e così…”

“Ieri sera lo desideravo tanto!” sbottò Cathy, amareggiata per il suo fallimento. “Ma non ha funzionato… Come posso esserci riuscita proprio mentre dormivo?”

“Forse perché prima eri troppo agitata. Il libro scrive che una delle prime regole per riuscire è avere fiducia in se stessi. Le bacchette percepiscono i nostri stati d’animo, forse la tua ti ha sentito insicura e non è riuscita a fare quello che le chiedevi”.

“L’hai letto proprio tutto, quel libro” la interruppe Cathy.

“No, solo l’introduzione!”

“Ah. Comunque, non ero insicura”. Inconsapevolmente, il suo sguardo calò verso il pavimento mentre pronunciava quella bugia. “Be’, andiamo a vedere quest’alba”.

Si liberò definitivamente dalla coperta e si avvicinò alla finestra, con l’intenzione di far terminare quella discussione. Eliza era gentile, ma sembrava capire un po’ troppo di lei e la cosa non le piaceva affatto. In più, quegli occhi verdissimi davano l’impressione di leggerle dentro, e di voler accedere ai pensieri più nascosti che lei stessa non rivelava a nessuno.

Lo spettacolo, tuttavia, meritava davvero di essere guardato. Dall’alto della torre era possibile ammirare l’intero esterno di Hogwarts, dai cortili più vicini alle lontane cime degli alberi, la superficie immobile del lago e persino una capanna al limitare della foresta. In alto il cielo era ancora scuro, ma verso l’orizzonte si schiariva fino a prendere un piacevole color arancio. Il sole stava per sorgere, spazzando via tutti gli incubi che l’avevano perseguitata quella notte.

“Non c’è niente di male ad aver paura del buio” sussurrò Eliza, che l’aveva raggiunta alla finestra. “La gente ha paura di un sacco di cose, e non ammetterlo non fa che ingigantirle. Io, per esempio, ho una tremenda paura di fallire in questa scuola… Quasi tutti provengono da una famiglia di maghi, già esperta e conoscitrice del loro mondo, mentre io lo sto scoprendo per la prima volta. È per questo che sono stata zitta ieri: tutte quelle conoscenze di Maggie mi mettevano in difficoltà”.

“Sì, ma è diverso. La tua è una paura che gli altri possono capire, la mia non la capisce nessuno. Tutti mi credono una fifona, una che non sa crescere… Non sanno che la mia è una malattia. Il buio mi provoca l’asma”.

“Lo immaginavo” rispose ancora Eliza, senza mai stupirsi. “Ho visto lo spray”.

Era fatta, pensò Cathy, a quel punto non poteva più mentire. Ma sotto sotto non le dispiaceva così tanto, soprattutto dopo la comprensione che le era stata dimostrata.

“Non dirlo a nessuno, ok?” le chiese, infine.

“Certo, se proprio non vuoi… Ma potresti chiedere a Maggie di prestarti la lampada. Altrimenti cosa vuoi fare, dormire in poltrona tutte le notti?”

“Sì, se la bacchetta me lo permetterà. E comunque sono affari miei”. Si accorse troppo tardi di essere stata brusca, ma non si scusò; per qualche strana ragione non le andava di farlo.

“Ok, come vuoi”. Eliza non se l’era presa, tutt’altro. “Allora ti conviene mettere a posto la coperta, prima che scendano gli altri”.

In effetti aveva ragione. Cathy decise di seguire il consiglio e andò a recuperare tutti gli oggetti sparsi sulla poltrona. Se qualcuno meno comprensivo di Eliza l’avesse scoperta e l’avesse presa in giro – magari uno come Teddy – non avrebbe resistito a puntargli contro la bacchetta; e quella volta, pensò con un sorriso furbo, l’insicurezza non l’avrebbe fermata.


Note:

Perdonatemi per l'immenso ritardo con cui aggiorno, purtroppo gli esami mi stanno portando via un sacco di tempo e sono costretta a scrivere con meno frequenza.

Detto ciò, le solite due paroline sul capitolo. Innanzitutto la presenza di Lumacorno, che forse può sembrare un po' stonata data la sua veneranda età, ma ci sono vari motivi per cui ho voluto inserirlo: primo perché le sue riunioni con gli studenti mi saranno utili in seguito, secondo perché non avevo voglia di invertarmi un altro insegnante nuovo (dopo Incantesimi e Difesa) e terzo perché mi sta simpatico :) Quanto ai personaggi nuovi, spero che la loro quantità non vi stia spaventando! I principali resteranno quattro o cinque, ma per il resto si tratterà di semplici comparse.

A presto!

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Capitolo 10
*** La lezione di Difesa ***


10


Quella mattina, a colazione, il soffitto della Sala Grande era azzurro e luminoso esattamente come il cielo di fuori. Cathy ed Eliza raggiunsero il tavolo dei Grifondoro in netto anticipo rispetto agli altri studenti, ma il loro arrivo fu comunque accompagnato da mormorii sommessi e incuriositi. Dopo l’eccezionale Smistamento della sera precedente, Cathy era stata ufficialmente etichettata come la ‘ragazza delle due Case’, e in quanto tale suscitava particolare interesse in tutti coloro che l’additavano. La maggior parte dei bisbigli proveniva dal tavolo dei Serpeverde, dov’erano in molti a chiedersi quando si sarebbe unita a loro e perché non avesse scelto immediatamente la loro Casa. L’unico a non fare commenti e a salutarla con un semplice cenno fu Evan Gregory, il ragazzo dalle oscure origini; incrociando il suo sguardo, Cathy abbandonò per un attimo la solita espressione corrucciata e gli concesse un sorriso.

“Mi guardano come fossi un’aliena” si lamentò con Eliza, davanti al pane tostato e a un bicchiere di succo di zucca. “Neanche avessi deciso io di appartenere a due Case…”

“Non ci far caso. È che quest’anno il Cappello non era in sé, ha dato più ascolto alle nostre scelte e tutti si chiedono perché non ne hai approfittato” le rispose lei, tentando di rincuorarla. Ma fu subito chiaro che non aveva ottenuto l’effetto sperato, così aggiunse: “Nemmeno io avrei saputo decidere, comunque… Di questa scuola ne so quanto te”.

Continuarono a fare colazione in silenzio, osservando la Sala che si riempiva a poco a poco. I primi a raggiungerle furono Teddy e Samuel, seguiti a ruota da Maggie e le sorelle Hill. Mentre i ragazzi biascicarono un “ciao” poco convinto, Maggie non si preoccupò minimamente di nascondere il proprio entusiasmo e le abbracciò con calore, come se non si vedessero da una vita. Subito dopo, inondò gran parte del tavolo con una serie di spille rosse e rotonde raffiguranti il simbolo di Grifondoro, gentilmente offerte dalla famiglia della ragazza. Prima che potessero anche solo ringraziare, Maggie gliele stava già appuntando sulla divisa.

“Sono perfette!” esclamò. “Per Merlino, non sapete quanto sono felice di essere qui… Voi non siete eccitate? È il nostro primo giorno, finalmente conosceremo gli insegnanti! E le materie, non vedo l’ora di scoprirle tutte! Sono talmente fusa che ieri sera ho dimenticato la lampada accesa, spero non vi abbia dato fastidio. A proposito… Come mai siete scese così presto?”

L’attenzione di Cathy, che si era persa più o meno alla parola ‘Merlino’, si riscosse improvvisamente dopo l’accenno alla lampada. “Ci siamo svegliate prima” rispose meccanicamente, ed Eliza la supportò annuendo con energia. La risposta sembrò soddisfare Maggie, che si decise finalmente a sedersi e a fare colazione.

Al tavolo sembrò tornare un minimo di pace e tranquillità, dopo che la Thompson si fu riempita la bocca di porridge, ma non durò molto; qualche istante dopo, uno stormo di gufi di ogni specie e colore fece irruzione nella Sala Grande, lasciando cadere una miriade di lettere e pacchetti sulle teste degli ignari ospiti. Cathy balzò letteralmente dalla sedia quando un gufo bruno, con due strani cornini sulla testa, calò a picco tra un piatto di bacon e il suo succo di zucca.

“Ninfadora!” esclamò Teddy, seduto di fronte a lei, afferrando la bestiola. “Porti già notizie, eh?” In effetti, sembrava che il gufo portasse più di messaggio: alla sua zampa destra era legata una pergamena, mentre l’altra ospitava un giornale arrotolato. Teddy sfilò per prima la lettera e la lesse tra sé, mostrandosi via via più entusiasta.

“Mia nonna mi fa i complimenti!” disse poi al suo nuovo amico, Samuel. “E anche Harry! Sono contenti che sia un Grifondoro”.

La lesse ancora una volta prima di ripiegarla e metterla in tasca, poi aprì il giornale. Vinta dalla curiosità, Cathy si sporse leggermente fino a leggerne il titolo: La Gazzetta del Profeta.

“Oh, ti sei fatto portare il quotidiano!” notò Maggie con vivo interesse. “Che cosa dice?”

“Niente di particolare. C’è un elenco delle nuove misure di sicurezza decretate dal Ministero, un articolo sui calderoni urticanti di Brubo il Bischero, e... Oh”. Si interruppe di colpo, gli occhi puntati sull’angolo in basso a destra della prima pagina.

“E poi?” chiese ancora Maggie. Ma Teddy questa volta non rispose direttamente a lei; sorprendentemente, quando alzò lo sguardo, era a Cathy che si stava rivolgendo: “Parla anche di te. Ti hanno dedicato un trafiletto”.

Per un attimo si chiese se stesse scherzando, ma subito dopo l’incredulità che gli lesse sulla faccia bastò ad assicurarle che fosse tutto vero. Gli strappò letteralmente il giornale dalle mani, ignorando le sue proteste, e cercò con gli occhi l’articolo che parlava di lei.


CLAMOROSO AVVENIMENTO ALLA SCUOLA DI HOGWARTS: IL CAPPELLO PARLANTE FALLISCE!

Risale a poche ore fa la notizia ufficiale, riportata da un membro del corpo insegnanti, del primo Smistamento fallito nella storia di Hogwarts. Nelle prime ore della sera, in occasione della cerimonia annuale, una ragazza di nome Catherine Scott in attesa del verdetto è rimasta sotto il Cappello Parlante per quasi quindici minuti, fino a che il ‘giudice’ non ha comunicato la sua stravagante decisione: non una ma due Case, Grifondoro e Serpeverde, fino alla fine dell’anno. Notizia che ha scioccato tutti i presenti e che ha sollevato non pochi dubbi sulle effettive capacità dello Smistatore, attualmente utilizzato – si ricorda – dopo secoli dalla sua fabbricazione.

“È senza dubbio un evento senza precedenti” dichiara il professor Vitious, attuale Preside della scuola. “Tuttavia, mi sento di escludere che il Cappello Parlante possa aver smesso di funzionare a dovere da un momento all’altro. Faremo tutti i controlli del caso per assicurarci che non capiti di nuovo, ma al momento la situazione è sotto controllo”.

Può darsi che il Preside abbia ragione, ma resta il fatto che nessuno è attualmente in grado di spiegare l’accaduto. Se non si tratta di un fallimento, è possibile che questo particolare Smistamento avrà particolare rilevanza nel futuro? E chi è questa ragazza, in grado di far parlare di sé alla tenera età di undici anni? Molti sono pronti a scommettere che il suo nome apparirà ancora sulle pagine dei giornali. Per il momento, tuttavia, le nostre domande restano senza risposta.


Arrivò all’ultima riga più o meno contemporaneamente agli altri Grifondoro del primo anno, che le si erano stretti attorno a mo’ di barriera per leggere il fantomatico articolo. Nessuno ebbe il coraggio di commentare; Cathy non sembrava molto entusiasta della fama acquisita.

“Che bello…” disse poi, con evidente sarcasmo. “Ora anche i giornali pensano che sia speciale o qualcosa del genere”.

“Ma come avranno fatto a saperlo così in fretta?” domandò Maggie. “Chissà quale professore ha parlato… E per fortuna che non ha raccontato dell’incidente al Cappello! Avrebbero sicuramente gettato fango sulla scuola…”

A Cathy non importava poi molto del parere dei giornali su Hogwarts, pensava piuttosto a sé e al fatto che non amava stare al centro dell’attenzione. Per esperienza personale, sapeva che quando tutti si aspettano qualcosa da te diventa molto più difficile non deluderli. Le tornarono in mente le parole che le aveva rivolto Harry Potter, nel negozio di Olivander: mi è capitato di litigare con gli amici più cari solo per una fama che non ho mai voluto. Già, forse solo lui l’avrebbe capita.

“Ehm… Cathy…”

Assorta nei suoi pensieri, non si era accorta che Eliza cercava di reclamare la sua attenzione. Si voltò scoprì che le stava indicando qualcosa di piccolo e peloso, con una zampina tesa verso di lei nel disperato tentativo di farsi notare. Sembrava che l’animale le avesse portato una pergamena, non molto diversa da quella che aveva ricevuto Teddy.

La sfilò meccanicamente dalla zampa del gufo senza sapere cosa aspettarsi; di sicuro, non immaginava di ricevere una lettera così presto. La srotolò e scoprì una grafia obliqua, piuttosto elegante, che recitava solo poche parole:


Se c’era qualcosa di cui ero assolutamente sicuro, era la Casa in cui saresti stata Smistata. A quanto pare mi sbagliavo: sei stata una sorpresa anche in questo, per non dire una delusione. Non montarti troppo la testa con quello che dicono i giornali, perché non ho dubbi che quel Cappello sia decisamente impazzito. Fammi sapere come vanno le lezioni, e mi raccomando: studia.

Saluti,

il tuo tutore.


“Simpatico…” Teddy si era calato verso di lei e aveva letto la lettera al contrario, ma a quanto sembrava cogliendone perfettamente il senso. Cathy arrossì fino alle orecchie e l’allontanò dalla sua vista, intimandogli di farsi gli affari propri.

“Tu mi hai strappato il giornale dalle mani!” replicò giustamente lui.

“Perché parlava di me!” gli fece presente, altrettanto giustamente, lei.

“Oh, insomma, smettetela!” alla fine arrivò Gary a sedare la rissa, spuntato apparentemente dal nulla com’era già accaduto sul treno. “La professoressa McGranitt sta distribuendo gli orari, dovrebbe interessarvi di più delle lettere altrui”.

In effetti, dopo che ognuno ebbe avuto quella novità tra le mani, l’attenzione generale cambiò direzione per concentrarsi unicamente sulle lezioni: Erbologia, Incantesimi, Storia della Magia e Difesa contro le Arti Oscure erano ciò che li aspettava il primo giorno. Come inizio, era tutt’altro che rassicurante.

*

Le lezioni di Erbologia si svolgevano sul retro del castello, nelle serre che ospitavano le più disparate specie di piante. Un’ora dopo, il professor Paciock condusse lì i Grifondoro e i Tassorosso del primo anno per quella che rappresentava la loro – e la sua – primissima lezione. L’insegnante era piuttosto nervoso, chiunque se ne sarebbe accorto; dovette ripetere tre volte l’incantesimo Alohomora prima che la porta si spalancasse, e una volta dentro inciampò vistosamente in un tentacolo lungo due metri. Poi, finiti gli incidenti, rivelò ai ragazzi che non aveva mai tenuto una lezione prima d’allora, e che per questo motivo si sentiva agitato quanto loro. Raccontò che, quando aveva la loro età, non era affatto uno studente modello, e mai avrebbe immaginato di diventare un giorno un insegnante. Ma poi, lo studio dell’Erbologia aveva iniziato ad appassionarlo fino al punto di sceglierla come professione, nella speranza di trasmettere il fascino delle piante magiche anche ai suoi giovani studenti.

I ragazzi si guardarono l’un l’altro perplessi, senza sapere bene cosa rispondere. Dopo quel discorso, comunque, il professore si mostrò subito più tranquillo e li invitò a indossare dei guanti spessi, per trasferire piccole piantine da un vaso all’altro. Non era un compito particolarmente difficile, anzi; dopo un primo momento di ansia e incredulità, i ragazzi presero a svolgere quel lavoro con ben poco entusiasmo, iniziando a chiacchierare l’un con l’altro e lasciandosi andare a qualche sbuffo.

Dal canto suo, Cathy non vedeva molto di magico in quelle piante: erano dei bulbi piccoli e insignificanti, del tutto simili a quelli che coltivavano i Babbani. Secondo Paciock, comunque, avrebbero rivelato il meglio di sé una volta cresciuti, quando dalla loro linfa si sarebbero potute raccogliere le sostanze più disparate. Alla fine della lezione, disse loro che la prossima volta avrebbero già potuto vedere i frutti del loro lavoro, e che ciascuno avrebbe potuto “crescere” il suo bulbo. Cosa significasse esattamente, nessuno lo sapeva; i ragazzi si limitarono ad annuire fingendo un minimo di interesse, poi si prepararono a tornare al castello. Ancora una volta, tuttavia, Cathy fu trattenuta da un insegnante: Paciock le si avvicinò mentre riponeva il suo vaso, e sembrava di nuovo nervoso come all’inizio della lezione.

“Ciao, Scott…” cominciò, nonostante all’orfanotrofio l’avesse chiamata per nome. “Ti è piaciuta la lezione?”

“Molto interessante, signore” rispose meccanicamente lei, anche se col viso diceva tutt’altro.

“Lo sarà ancora di più la prossima volta, vedrai. Ti svelo un segreto…” Si avvicinò piano al suo orecchio, in modo che nessun altro potesse ascoltare. “Si tratta di fiori. Fiori molto belli e molto speciali”.

“Ah”. Questo non cambiava molto la sua opinione, ma preferì non infierire; il povero insegnante sembrava già troppo preoccupato di per sé.

“Senti, Scott…” continuò Paciock, in un tono piuttosto strano e quasi dispiaciuto. “Devo chiederti scusa”.

“Scusa?” Cathy era una maschera di incredulità; un professore che le chiedeva scusa? “E perché?”

“Ho visto che hai letto il giornale, stamattina. Mi dispiace doverlo dire, ma è colpa mia se la notizia del tuo Smistamento è venuta fuori tanto in fretta. Ieri sera stavo tornando a casa e ho incontrato un conoscente lungo la strada. Sai come succede in questi casi, si parla del più e del meno, mi è venuto spontaneo raccontargli di quello che era appena successo. Sì, insomma, te l’avranno detto mille volte, ma è davvero un evento senza precedenti! Non ho pensato che quel mago avesse amici nella redazione della Gazzetta, altrimenti avrei tenuto la bocca chiusa. Mi dispiace, forse non volevi che si sapesse”.

Cathy annuì. Così, era lui il membro del corpo docenti citato nell’articolo… Strano: la notizia non le faceva né caldo né freddo.

“Non importa” rispose con sincerità. “Prima o poi si sarebbe saputo comunque. E poi non è colpa mia se il Cappello ha voluto così”.

“No, certo che no!” confermò Paciock. “Meglio così, avevo paura di aver combinato un bel guaio!”

“Non si preoccupi. Vorrei solo che la gente non mi considerasse famosa o speciale: non mi ci sento e non lo sono”.

L’insegnante le sorrise con dolcezza, intuendo le preoccupazioni della ragazzina. Cathy non poteva saperlo, ma la questione dello Smistamento non era la sola a sollevare curiosità attorno a lei, almeno per chi conosceva il passato del suo orfanotrofio. “La gente ha bisogno di qualcosa di cui parlare” le rispose, per tranquillizzarla. “Vedi, il fatto che il Cappello abbia semplicemente sbagliato non piace abbastanza, non fa notizia. Ma gli insegnanti sono tutti convinti che sia l’unica spiegazione, nessuno sano di mente si aspetterebbe chissà cosa da te… Hai solo undici anni, sei una strega come tutti gli altri che ha tanto da imparare”.

Cathy sorrise a sua volta, in maniera del tutto spontanea. Molto strano, pensò: proprio un professore come quello, bizzarro e alquanto impacciato, era riuscito a dirle le parole giuste.

*

Dovette correre un po’ per ritrovare i compagni, già diretti all’aula di Incantesimi, ma riuscì a raggiungerli su una scala diretta al terzo piano. A insegnare loro formule magiche e movimenti di bacchetta era la professoressa Holland, una donna minuta con gli occhi azzurri e un bel sorriso. Descrisse il programma del corso con dolcezza e serietà, spiegando che quella era sì la materia più apprezzata dagli studenti, ma non per questo meno complessa e impegnativa. Prima che si accingesse a spiegare l’argomento del giorno, Eliza alzò sorprendentemente la mano: le chiese se potevano iniziare dall’incantesimo Lumos, quello utilizzato per far luce con la bacchetta. La Holland le spiegò che era un incantesimo ancora troppo avanzato e che avrebbero dovuto aspettare almeno un paio di mesi prima di padroneggiarlo. Cathy si voltò verso Eliza e le riservò uno sguardo pieno di gratitudine, ben sapendo che quel tentativo era stato fatto per lei.

Dopo Incantesimi, fu il turno di Storia della Magia. Superato lo shock iniziale dato dal fantasma che teneva il corso, Cathy poté rendersi conto che non era molto meno noiosa della storia normale: le date e i nomi da imparare restavano gli stessi, con la differenza che alle guerre mondiali si sostituivano le rivolte dei Goblin e dei giganti. L’unico momento interessante fu la fine della lezione, quando Ruf li accompagnò – esattamente come avevano previsto Evan e Jason – nella Sala dei Trofei, mostrando loro un’enorme targa d’oro con su inciso il nome di Harry Potter, Salvatore del Mondo Magico. Teddy si inorgoglì come ogni volta che lo sentiva nominare, mentre Ruf spiegava loro che la vita attuale dei maghi e la possibilità di frequentare la scuola erano tali proprio grazie a Potter, il quale un giorno del 1998 aveva debellato il più grande pericolo mai esistito. Avrebbero studiato particolarmente bene quella parte della storia moderna, aggiunse, affinché tempi come quelli potessero non tornare mai più.

Ma la lezione che tutti aspettavano con ansia, ancora più di Incantesimi, era Difesa contro le Arti Oscure. Si teneva in un’aula piuttosto diversa dalle altre, più cupa e con una strana luce azzurrina che aleggiava nell’aria. Fu la prima occasione in cui, oltretutto, l’insegnante era già alla cattedra quando gli studenti arrivarono; Cathy, che stava ascoltando le chiacchiere allegre di Maggie e Susan Hill, alzò lo sguardo verso di lui nello stesso momento in cui entrava dalla porta e la reazione fu immediata: sbiancò, mentre la borsa le scivolava via spargendo a terra libri e pergamene. Pur avendoli visti una sola volta, avrebbe riconosciuto tra mille quegli occhi chiari come il ghiaccio.

“Teddy! Teddy!” Recuperate le sue cose alla buona, si sedette proprio vicino a chi di solito ignorava. Il ragazzo spalancò gli occhi per la sorpresa. “Hai visto chi è?”

“L’insegnante? Sì, l’avevo già visto la prima sera. Era seduto a tavola con gli altri”.

“Ah…” Certo, se era un professore doveva essere al suo tavolo durante lo Smistamento. Come aveva fatto a non notarlo?

“Ma, ma…” Non sapeva come esprimere quanto la cosa la preoccupasse, ora che quell’uomo inquietante che vagava per Notturn Alley si rivelava essere proprio il loro insegnante. “È sicuro che possiamo fidarci di lui?”

Teddy lo guardò con aria assorta, come a valutare quanto poteva essere pericoloso. Aveva indosso una lunga veste nera, esattamente come nel giorno in cui l’avevano incontrato. Osservava gli studenti con aria impassibile, aspettando che fossero tutti seduti, e con le dita si accarezzava la corta barba brizzolata. Di sicuro, non era un tipo a cui giustificare la mancanza dei compiti con la morte del proprio gatto.

“Be’…” disse infine Teddy, piuttosto dubbioso, “Non credo che il Preside avrebbe assunto un tipo pericoloso, ti pare? Forse è solo apparenza”.

Il discorso non faceva una piega, tuttavia non bastò a tranquillizzarli. Sembrava che quell’uomo facesse lo stesso effetto a tutti i presenti, dato che nell’aula era improvvisamente calato il silenzio.

“State parlando di quello?” Maggie, sportasi improvvisamente dal banco dietro di loro, fece sobbalzare sia Cathy che Teddy. “Oh, io lo so chi è! Era un Auror una volta, ma pare che si sia licenziato…”

“Ah. E come mai?” chiese Teddy, col tono di chi non è tanto certo di voler sentire la risposta.

“Era eccessivamente violento contro i nemici, così gli hanno impedito di andare in missione. Lui però non voleva un lavoro d’ufficio e ha preferito andare via”.

“E l’hanno mandato da noi?” Teddy era troppo sconvolto per accorgersi di aver alzato la voce. Cathy e Maggie gli fecero segno di abbassarla, ma l’uomo si era voltato già nella loro direzione; con un tuffo al cuore, Cathy si chiese se li avesse riconosciuti.

“Sembra strano anche a me” sussurrò Maggie, più piano che poteva. “Comunque era un Auror, dovrebbe essere una brava persona… Almeno lo spero”.

Pochi istanti dopo, tutti i ragazzi furono finalmente seduti e l’insegnante si alzò in piedi, lasciando occhi sbarrati e tremore su ogni studente che incrociava il suo sguardo. Solo quando li ebbe osservati uno a uno iniziò a presentarsi.

“Buon pomeriggio. Il mio nome è Albert Young e sono il vostro insegnante di Difesa contro le Arti Oscure, nonché Direttore della Casa Corvonero. In questo corso, apprenderete tutti gli incantesimi di base per difendervi dalla magia oscura di tutti i livelli, a partire dalle creature meno nocive fino alle maledizioni. Ora, per prima cosa: chi sa dirmi qual è la differenza tra un incantesimo comune e le cosiddette Arti Oscure?”

La tensione si fece se possibile più diffusa, dato che nessuno si aspettava un’interrogazione ancor prima dell’appello. Nessuno osava dare la risposta; Teddy, a giudicare dalla sua espressione, doveva star immaginando la reazione di Young a un possibile errore.

“Allora? Mi basta una vaga idea…” ripeté quegli, voltando lo sguardo da un lato all’altro dell’aula. Cathy e le altre ragazze si abbassarono sui banchi per non essere interpellate, ma neppure i ragazzi mostravano molto coraggio. Poi, finalmente, qualcuno trovò il coraggio di alzare la mano: era un ragazzino di Corvonero dall’aria impaurita, ma leggermente più sicura degli altri.

“Sì?” chiese Young, con lo stesso tono impassibile che aveva a Notturn Alley.

“Ecco… Io credo che siano incantesimi particolarmente malvagi. Che mirano a fare del male” .

Young allacciò le dita l’una all’altra e si appoggiò alla scrivania, osservando lo studente con un misto di curiosità e incertezza. Cathy non sapeva assolutamente quale fosse la risposta, ma quella che era stata data le sembrava piuttosto banale e poco articolata.

“Bene” dichiarò infine il professore, a sorpresa. “Come ti chiami, ragazzo?”

“Matthew Adams”.

Young annuì e si rivolse nuovamente alla classe: “Il nostro Matthew ha individuato esattamente quello che ci serviva sapere: una risposta concisa ed essenziale su ciò che la magia oscura rappresenta. Ci sono molte definizioni in proposito, alcune citate anche sui vostri libri di testo, e mi duole dire che sono anche in molti a condividerle. Se fate in giro la domanda che ho fatto a voi, sentirete le risposte più disparate: vi parleranno di dominio dei quattro elementi, esaltazione del potere assoluto e ricerca dell’immortalità. Ma queste belle parole non vi aiutano a riconoscere la magia oscura per quello che è, rischiano di attirarvi nella sua tela e di non farvene comprendere il pericolo. Tutto ciò che dovete sapere è questo: le Arti Oscure sono malvagità. Fisica o psicologica, contro gli altri e contro voi stessi. Cinque punti a Corvonero”.

Il lato dei Corvonero si rianimò dopo quella bella sorpresa, e Matthew fu elogiato con sonore pacche sulle spalle. Cathy approfittò della momentanea esultanza per chiedere a Maggie e Teddy cosa significasse ‘dominio degli elementi’, poiché il modo in cui Young ne parlava le aveva causato un groppo alla gola.

“Se qualcuno ha domande, può farle a voce alta”. Anche se Cathy aveva solo sussurrato, l’insegnante l’aveva sentita benissimo. I suoi occhi di ghiaccio si puntarono nuovamente su di lei, facendola sbiancare una seconda volta. “Come ti chiami?”

“Catherine Scott, signore” rispose lei in un bisbiglio.

“Molto bene. Vuoi gentilmente porre a me la domanda che stavi facendo ai tuoi compagni?”

Cathy deglutì prima di parlare di nuovo. Nonostante il tono cortese, quella richiesta aveva un che di raggelante.

“Mi chiedevo… Che cosa significa dominio dei quattro elementi”.

La sorpresa sul volto dell’insegnante fu evidente, mentre aggrottava le sopracciglia e la fissava con sguardo indagatore. “Dominio degli elementi, eh? Deduco che tu non abbia ascoltato ciò che ho appena detto sulle definizioni”.

“Sì che l’ho ascoltata” affermò subito lei. “La mia era solo curiosità”.

In realtà era ben altro che l’aveva spinta a parlare, ma non era il caso di svelarlo. Young sembrò abbastanza convinto da quella motivazione, così rispose ai suoi dubbi: “Se proprio ci tieni a saperlo, posso dirtelo. Dominio significa capacità di gestire i quattro elementi a piacimento, e mi riferisco chiaramente all’acqua, alla terra, all’aria e al fuoco. Provocare un incendio, un terremoto o una tempesta sono esattamente le azioni che la magia oscura è in grado di intraprendere, con conseguenze disastrose. Ma questa non è che una piccola parte delle Arti Oscure, oserei dire anche la più innocua”.

“Capisco. Ma…” A quel ‘ma’ l’attenzione della classe raggiunse il culmine; tutte le orecchie erano tese ad ascoltare. “Non deve essere per forza un atto malvagio, no? Si potrebbe generare anche un vento leggero o una piccola onda”.

Alcuni ragazzi annuirono, concordando con quell’ipotesi. Tuttavia, Young sembrava ancora molto scettico.

“Sì, in teoria può essere vero. Peccato che, nella pratica, i maghi in grado di dominare gli elementi siano stati i più terribili della storia. Nessuno sfrutta un tale potere per rinfrescarsi durante l’estate, Scott; mi auguro che nessuno di voi lo scriva in un compito”.

Dalla parte dei Corvonero qualcuno rispose con un risolino, ma i Grifondoro erano totalmente ammutoliti. Cathy aveva seriamente rischiato di far arrabbiare Young e, forse, l’idea di perdere punti era quella che li preoccupava di meno.

“E adesso, se nessuno ha più dubbi su ciò che ho detto” esordì di nuovo l’insegnante, “possiamo cominciare”.

*

“Non ci credo, è assurdo!” Una volta fuori dall’aula e lontano dalle orecchie di Young, Teddy si era lasciato andare a un’imprecazione dopo l’altra. “Arti Oscure significa malvagità… E lui allora, che è stato licenziato perché violento? Per di più, l’abbiamo incontrato nella strada simbolo della magia oscura per eccellenza!”

“Chissà cosa ci faceva…” replicò Cathy.

“Vorrei tanto saperlo. Oltretutto è di parte, ha regalato punti a quel ragazzo di Corvonero solo perché è la sua Casa. Se quella risposta l’avessimo data tu o io non sarebbe stata la stessa cosa, sono sicuro!”

Per la prima volta da quando erano arrivati a scuola, i due ragazzi si stavano parlando senza litigare. Infervorato dalla conoscenza appena fatta, Teddy si era momentaneamente dimenticato che Cathy non gli stava simpatica, fino al punto da discutere con lei su Young e lamentarsi dei suoi metodi. Le aveva anche spiegato cos’era un Auror e perché Maggie li riteneva solitamente affidabili, prima che potesse farlo lei stessa con la sua sciolta parlantina. In altri tempi, a Cathy quella rinnovata complicità avrebbe fatto piacere, ma al momento la sua testa era occupata da altri pensieri. Da quando Young aveva parlato di dominio degli elementi, confermando le sue ipotesi su ciò che significasse, non aveva fatto altro che porsi le stesse domande: anche quello che faccio io è dominare gli elementi? Che cosa significa, che diventerò una strega malvagia? Checché ne dicesse quel tipo, non voleva e non credeva di esserlo.

Note

Non c'è niente da fare, oramai sta andando così: capitoli più lunghi e meno frequenti! Una volta iniziati vanno avanti da sé e non riesco a interromperli prima. In compenso, ho cambiato un po' la scrittura ingrandendo i caratteri e giustificandoli, mi sembra che così l'effetto sia migliore. Nell'ipotesi in cui qualcuno volesse recensire, ditemi se è stata una buona idea :)

Nel capitolo succedono parecchie cose, ma quello che mi interessava era per lo più descrivere le lezioni di Neville e di Young, che come avete visto è lo stesso tipo che i ragazzi hanno incontrato a Notturn Alley. Quello che dice sulla magia oscura e il dominio degli elementi non è farina del mio sacco: pare sia proprio questa la caratteristica della cosiddetta magia nera, l'ho appreso grazie alle istruttive ff di Circe che è ferratissima sull'argomento! Viste le idee un po' "estremiste" di Young, Cathy viene presa dal dubbio che quello che è in grado di fare (con il vento, l'acqua o con il fuoco del camino) significhi che lei diventerà malvagia.

Tutto qui... Se ci sono dubbi, domande o quant'altro, sappiate che non vedo l'ora di rispondere! A presto.

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Capitolo 11
*** Conquiste ***


11


Con il passare dei giorni, i Grifondoro del primo anno iniziarono a frequentarsi di più e a tollerare ciascuno i difetti dell’altro, fino a formare un discreto gruppo di studio. Capitava ancora che Cathy e Teddy iniziassero a battibeccare, e le chiacchiere senza sosta di Maggie diventavano talvolta una vera tortura, ma confrontarsi tra loro era comunque più divertente e istruttivo che rintanarsi da soli in un angolo della sala comune. Si capì ben presto che in quella classe non c’erano geni e neppure totali incapaci: Teddy, ad esempio, reagiva piuttosto bene alle pressioni del professor Young, mettendosi d’impegno dopo ogni rimprovero e riuscendo a ottenere risultati discreti, ma in altre materie non mostrava un particolare talento. Durante la prima lezione di Pozioni aveva fuso il suo calderone, e anche in Trasfigurazione la sua partenza non era stata delle migliori: la professoressa McGranitt era entrata in aula proprio mentre il ragazzino si divertiva a cambiare forma alle sopracciglia, e Samuel aveva ipotizzato che per uno come lui non ci fosse neppure bisogno di studiare quella materia. Risultato, la professoressa gli aveva rivolto uno sguardo severo e si era proferita in un lungo discorso sull’importanza delle Trasfigurazione, specificando che quella umana era sì molto più semplice per un Metamorfomagus come Teddy, ma quella degli oggetti o degli animali necessitava lo stesso impegno da parte di tutti. E i ragazzi erano stati costretti a darle ragione, dopo aver passato l’intera ora chini su un ago cercando di trasformarlo senza successo in un fiammifero.

Maggie Thompson era invece piuttosto brava in Erbologia e Pozioni, ma il suo interesse principale consisteva nello scoprire tutto sugli altri studenti e spifferarlo allegramente alle compagne di dormitorio. Ben presto, chi la conosceva aveva imparato a non svelarle niente di troppo privato, perché nel giro di mezza giornata qualsiasi notizia poteva fare il giro di Hogwarts. Tuttavia non c’era malizia dietro le sue azioni, solo una buona dose di ingenuità e un’estrema fiducia negli altri. Nonostante i suoi pettegolezzi fastidiosi, era comunque benvoluta da tutti per la sua indole solare e allegra, sempre pronta a tirarti su il morale quando eri in ansia per un compito o un’interrogazione.

La più dotata tra le ragazze era forse Eliza Williams, che mostrava un vero talento per Incantesimi ed era l’unica a sopportare Storia della Magia, riuscendo persino a prendere appunti quando la lezione si faceva appena più interessante. Parlava sempre poco e solo quando aveva qualcosa d’intelligente da dire, ma non si tirava indietro se i compagni le chiedevano un suggerimento su formule e movimenti di bacchetta. Sembrava nutrire una certa predilezione per Cathy, l’unica alla quale raccontava di sé e offriva aiuto spontaneamente, comportandosi con lei quasi come una mamma o una sorella maggiore. Una notte, mentre dormiva rannicchiata sulla solita poltrona, Cathy aveva sentito qualcuno avvicinarsi e rimboccarle le coperte, ma troppo stanca per aprire gli occhi non aveva fatto caso a chi fosse il benefattore. Eppure, Eliza era l’unica a conoscere il suo segreto, e la mattina dopo si era tradita del tutto chiedendole se avesse preso freddo durante la notte.

Dal canto suo, Cathy si sentiva ogni giorno più confusa. La vita a Hogwarts scorreva piacevole e piena di avvenimenti, quasi tutte le materie riuscivano ad appassionarla e non poteva lamentarsi neppure dei ragazzi, che dopo qualche tempo avevano smesso di additarla e si erano abituati a quella nuova situazione. A darle i maggiori pensieri era però la cosa di cui un tempo andava più fiera, la sua bacchetta di fenice: durante le lezioni era poco più che assente, non riusciva a trasfigurare neanche la metà degli oggetti che le metteva davanti e aveva fallito in tutti gli incantesimi, ad eccezione forse dello spostamento di una piuma di pochi centimetri. Eppure, notte dopo notte, continuava a ravvivare il fuoco per regalarle sogni tranquilli, quasi volesse mostrare le proprie potenzialità solo quando la sua padrona chiudeva gli occhi. A volte, a Cathy veniva voglia di scaraventarla giù della torre tanto era inutile e impossibile da gestire, ma poi capiva che senza di lei la sua stessa permanenza nella scuola avrebbe perso di significato. Così continuava a pazientare, sperando che prima o poi si sarebbe piegata al suo volere.

Quel pomeriggio erano tutti riuniti attorno a un tavolo rotondo, cercando di concentrarsi sul lunghissimo tema sui Vampiri che Young aveva assegnato loro: Cathy, Teddy, Maggie, Eliza e Samuel, investiti dalla luce bassa del sole all’orizzonte che invogliava a chiudere gli occhi. Soprattutto Samuel, già normalmente il più pigro e svogliato del gruppo, teneva la testa mollemente appoggiata su una mano e si era del tutto arreso al sonno incombente. Per di più, il chiasso che proveniva da qualche metro sopra di loro non era affatto d’aiuto a quella precaria concentrazione.

“Basta, non ce la faccio più!” sbottò Maggie d’un tratto, proprio lei che non perdeva facilmente la pazienza. “È tutto il giorno che quelle due litigano! Ma non hanno da studiare, dico io?”

Quelle due erano Jennifer e Susan Hill, le sorelle, che dopo qualche giorno di un rapporto apparentemente pacifico avevano rivelato la profonda ostilità che le divideva, litigando per qualsiasi sciocchezza e tentando persino di lanciarsi addosso fatture. Il mistero della loro diversità fisica aveva fatto discutere per un po’ di tempo, ma a un certo punto – com’era inevitabile – Maggie l’aveva scoperto: le due non erano sorelle di sangue, perché Susan era stata adottata. Questo spiegava i suoi capelli biondo cenere e i tratti sottili, che si discostavano enormemente dai colori scuri di Jennifer e dai suoi lineamenti marcati. Per di più, quando Susan era entrata nella famiglia Hill, non sapeva di essere una strega; l’aveva scoperto dopo, quando sorprendentemente la lettera di Hogwarts indirizzata a Jennifer era stata seguita da un’altra, del tutto simile, destinata a sua sorella. Jennifer non aveva preso bene la notizia, convinta com’era di essere l’unica della famiglia a possedere poteri magici, e questo stava sicuramente alla base delle loro furiose liti. Dividerle era un’impresa impossibile, soprattutto quando Gary non era nei paraggi, così gli altri ragazzi tendevano più che altro a ignorarle e aspettare che la bufera passasse da sé. Quando si trattava di concentrarsi, però, tutte quelle grida diventavano un vero problema.

“Ho deciso” sentenziò Maggie, alzandosi dalla sedia quando proprio non ne poteva più. “Andiamo in biblioteca”.

“Biblioteca..?” chiese Teddy dubbioso.

“Sì. Perché, è un problema? Madama Pince è un po’ scontrosa, ma se studiamo e basta non ci darà alcun fastidio”.

“Lo so, non dicevo per questo. Ma… In biblioteca bisogna stare in silenzio. Lo sai, sì?”

L’aveva detto a bassa voce, forse temendo di offenderla, ma Maggie non afferrò il senso implicito di quella domanda: “E allora? Come se ci fosse qualcuno qui che non sa stare zitto! Andiamo, su”.

La ragazza si voltò per uscire, così non poté vedere i parecchi sguardi eloquenti che furono scambiati nella sala. Subito dopo, comunque, Teddy e Samuel si alzarono per seguirla; Cathy si stava alzando a sua volta, ma Eliza era ancora al suo posto e non dava segno di volerlo lasciare.

“Voi non venite?” chiese Maggie, già accanto al buco del ritratto.

“Io no, preferisco restare. Cathy, mi fai compagnia?” Quella domanda sembrava sottintendere qualcosa, così la ragazza annuì.

“Ok” continuò Maggie “ci vediamo dopo”.

Eliza e Cathy rimasero sole in sala comune, ad eccezione di due o tre gruppi di ragazzi più grandi che tentavano anch’essi di studiare. Di sopra, Susan e Jennifer continuavano a discutere per il presunto furto di un maglione.

“Perché sei voluta restare?” chiese Cathy. “È impossibile finire il tema in queste condizioni…”

“Infatti non voglio finirlo”. Eliza aveva sulla faccia il sorriso furbo di chi sta architettando qualcosa. Chiuse velocemente la sua pergamena e si abbassò verso la borsa, tirandone fuori il volume di Incantesimi. “Per questo non c’è bisogno di molto silenzio!”

“Incantesimi? Ma dobbiamo finire il tema per Young… Due rotoli di pergamena!” ribatté Cathy, per farle capire l’urgenza della questione.

“Lo finirò io stasera, non preoccuparti. Al momento è più importante questo”. Aveva aperto il libro diverse pagine dopo l’ultima che avevano studiato, e all’inizio Cathy non capì dove volesse andare a parare. Ma poi, leggendo l’incantesimo che intitolava il capitolo, ebbe una vera e propria illuminazione.

“Non sono in grado di farlo” dichiarò, con gli occhi bassi e il tono mogio.

“Se non ci provi non lo saprai mai. Non è difficile, guarda, è spiegato tutto qui… Basta puntare la bacchetta con decisione e pronunciare la formula”.

“Ma non sono capace! La mia bacchetta si rifiuta di obbedire, tutto quello che riesce a fare è qualcosa che Young definisce malvagio! E tu, ora, vuoi chiedermi di provare un incantesimo che secondo la Holland è troppo avanzato?”

“Non c’è tutta questa differenza tra un incantesimo e l’altro, può darsi che questo ti riesca. Solo un tentativo, che ti costa?”

Cathy sospirò, sentendosi impotente contro l’accanimento di Eliza. Non le costava nulla fare un tentativo, quello che davvero le costava era un altro fallimento.

“Perché non possiamo aspettare che ce lo spieghi l’insegnante?” chiese ancora, provando a farle cambiare idea.

“Perché dormi tutte le notti su una scomoda poltrona, e non venirmi a dire che ti sta bene così perché non ci credo”. Cathy sentì di detestarla in quel momento, ma non poteva darle torto. Ogni notte non era solo la scomodità ad accompagnarla, ma anche il terrore che il fuoco si spegnesse o che qualcuno la scoprisse. Forse, con un vero incantesimo, sarebbe stata più al sicuro…

“E va bene” acconsentì. “Ma se non ci riesco lasciamo perdere, ok?”

“Promesso!” Eliza riacquistò tutto il suo entusiasmo e sfogliò febbrilmente le pagine per qualche minuto. Infine, risollevò lo sguardo e le spiegò cosa doveva fare: “Punta la bacchetta dritta davanti a te, e di’ Lumos”.

Cathy recuperò il suo strumento e fece come le era stato detto, pronunciando la formula con voce inespressiva; naturalmente non accadde nulla. Eliza scosse la testa e la invitò a riprovare, mettendo più decisione nel tono.

Lumos!” Al terzo tentativo la pronuncia era migliorata, ma la bacchetta continuava a rimanere spenta. Provò un altro paio di volte, fino a rassegnarsi che non ne era affatto capace.

“Basta, finiamola qui” disse, prima di scatenare la sua frustrazione contro Eliza.

“No, no, stiamo sbagliando qualcosa!” La ragazza si alzò dal suo posto e le si accostò dietro la schiena, posando la mano su quella di Cathy che ancora stringeva la bacchetta. “La posizione è giusta, eppure… Facciamo una cosa: prova a chiudere gli occhi”.

Cathy alzò un sopracciglio guardandola con scetticismo. “Cosa? Questo il libro non lo dice”.

“No, ma la cultura Babbana insegna che per concentrarsi meglio è importante chiudere gli occhi. Dai, prova! Solo questo e poi lasciamo stare”.

Cathy si arrese e fece ciò che le veniva chiesto, sperando di concludere al più presto quell’inutile lezione. “Bene, e adesso concentrati” continuò Eliza. “Immagina l’energia che scaturisce dalla tua bacchetta… Pensa alla luce, a tanta luce, come quella del sole. Pensa a come si sta bene d’estate, sulla spiaggia o in un prato, con i raggi che ti riscaldano…”

Cathy pensò davvero a tutte quelle cose, e man mano che Eliza parlava le sembrò di sentire davvero il calore sul viso, quella sensazione di beatitudine che solo il sole o un abbraccio riuscivano a darle.

“…E quando sei pronta” terminò Eliza, “pronuncia Lumos”.

Lumos!” Prima ancora di aprire gli occhi sentì che qualcosa era cambiato: qual calore non lo stava soltanto immaginando, si spargeva dalle sue dita esattamente com’era accaduto nel negozio di Olivander. Quando tornò a guardare la bacchetta, una luce dorata e intensa si sprigionava dalla punta illuminando parte del tavolo e delle pareti. Durò per qualche secondo, poi si spense.

“Ce l’hai fatta!” gridò Eliza, abbracciandola con gioia. “Lo sapevo!”

“Sì… ” Cathy non riusciva a crederci, era la prima volta che un vero incantesimo le riusciva. Sapeva che la bacchetta non avrebbe dovuto spegnersi, ma il solo fatto di averla accesa era una grande conquista. Imbarazzata, dato che Eliza continuava a saltellare e a complimentarsi, minimizzò: “Evidentemente non era così difficile… Chissà quante volte ci sarai riuscita tu!”

“Chi, io?” Eliza si fermò di colpo e la guardò con stupore. “Neanche una!”

*

Caro Signore,

qui a Hogwarts va tutto bene nonostante il mio strano Smistamento, mi dispiace di averti deluso, ma non potevo sapere che il cappello non avrebbe scelto nessuna Casa in particolare. Le lezioni procedono tranquillamente, ho un po’ di difficoltà a padroneggiare la bacchetta ma credo sia normale all’inizio, quasi nessuno dei miei compagni è riuscito a generare un incantesimo alla perfezione. In compenso, quando dormo, riesco non so come a tenere acceso il fuoco del camino, credo che ti farà piacere saperlo. Gli altri Grifondoro sono ragazzi simpatici e mi hanno subito accettata, ho un po’ di timore per il prossimo mese, quando dovrò trasferirmi dai Serpeverde, perché si dice che quella Casa abbia sfornato diversi maghi malvagi… Comunque sarò forte, e continuerò a studiare come mi hai chiesto. A presto, spero che anche tu stia bene.

Con affetto,

Cathy

Cathy rilesse la lettere un paio di volte prima di arrotolarla, chiedendosi se davvero quelle poche righe contenessero tutto ciò che aveva in mente. Senza dubbio aveva tralasciato qualcosa ed era il particolare delle sue origini: solo il suo tutore poteva sapere di quel presunto sangue Grifondoro, ma Cathy aveva come l’impressione che si sarebbe arrabbiato molto per una domanda del genere, a meno che non fosse proprio Grifondoro la Casa che preferiva. Era un rischio alto da correre, così aveva a malincuore deciso di non farne parola e aspettare di rivederlo di persona. Per il resto, aveva cercato di minimizzare sulle sue scarse doti, ponendo l’accento su quello che riusciva a fare e rincuorandosi con il recente successo dell’incantesimo Lumos. Quando si sentì soddisfatta, arrotolò la pergamena e iniziò a scriverne un’altra, più o meno simile, questa volta indirizzata a Catherine. Con lei si sentì più libera di parlare ed esternare le sue paure, ma anche in quel caso decise di non raccontare proprio tutto: il fatto che la luce notturna si fosse rotta era meglio tenerlo per sé, avrebbe avuto solo l’effetto di farla preoccupare, e nel peggiore dei casi di farla precipitare a Hogwarts per riportarsela indietro.

Quando fu abbastanza soddisfatta da quello che aveva scritto, lasciò Eliza a completare il suo ed il proprio tema di Difesa e si avviò verso la Guferia, dopo essersi informata da uno dei ragazzi più grandi sulla sua collocazione. Raggiunse senza troppa difficoltà la Torre Ovest, dove una stanza di pietra circolare piena di spifferi ospitava tutti i numerosi gufi della scuola. Scansò accuratamente gli escrementi degli uccelli e i resti del loro cibo, si spostò al centro della Guferia e alzò gli occhi al cielo, perdendosi tra gufi reali, barbagianni e allocchi di ogni tipo. Dopo che ebbe valutato quale le piaceva di più, scelse un piccolo assiolo dall’aria mansueta che la spiava attraverso le palpebre semichiuse e gli chiese di avvicinarsi. Quello fece finta di non aver sentito, ma al secondo richiamo si sforzò di scendere e le si appollaiò sulla spalla. Cathy legò le due pergamene alle zampe dell’uccello, poi gli spiegò con precisione come doveva comportarsi: “Questa qui è per la mia amica Catherine e quest’altra è per l’uomo buono. Mi raccomando, non confonderti e lascia a ciascuno solo la lettera giusta, non si stanno molto simpatici quei due e non so cosa potrebbe succedere. Intesi?”

L’assiolo sembrò capire, infatti rispose con un’affettuosa beccata sulla mano di Cathy. “Non hai un nome, vero? Ti chiamerò Silver allora, come il colore del tuo pelo. Sì, mi piace! D’ora in poi sarai il mio gufo”.

“Quello non è il tuo gufo, è un gufo della scuola”. La voce era inconfondibile, il tono di rimprovero anche, ma Cathy si stupì comunque di ritrovarselo lì; quando era entrata, non aveva notato assolutamente la chioma azzurra di Teddy accanto a una delle finestre, intento anch’egli a spedire una lettera. Decise di ignorarlo e si avviò verso il lato opposto, lasciando il neobattezzato Silver libero di spiccare il volo.

Non fece in tempo a tornare sui suoi passi, però, che Teddy le fu accanto con aria pensierosa. Restò a fissare Silver che si allontanava, verso il campo di Quidditch e attraverso le cime degli alberi, fino a quando scomparve alla vista.

“Senti” disse Cathy, voltandosi a braccia incrociate verso il ragazzo, “non ho voglia di litigare, ok?”

“Nemmeno io” fece Teddy, e in effetti sembrava sincero. “Ho appena scritto a Harry per chiedergli qualcosa di più su Young, anche se mi ha già detto che possiamo stare tranquilli. Non mi piace proprio quel tipo, né per come parla né per come insegna”.

Per fortuna, il ragazzo aveva scelto un argomento neutrale sul quale potevano discutere serenamente. “Forse è soltanto severo” ipotizzò lei.

“No, la McGranitt è severa! Lui è così… Freddo. Sembra quasi che non abbia sentimenti”.

“Be’, ti ha preso un po’ di mira”. Per quanto Young fosse duro con tutti, era chiaro che per qualche ragione pretendeva molto di più da Teddy.

“Appunto, e non capisco perché. Pensi che ci abbia riconosciuti? Dopo quel giorno a Notturn Alley, intendo…”

“Non penso” sentenziò Cathy con solennità, “ne sono sicura. Quando gli ho consegnato l’ultimo compito mi ha chiesto come stava il mio gatto, e non ho mai portato Harry fuori dalla sala comune”.

Teddy non replicò, ma nel silenzio della Guferia lo si sentì deglutire. “Era quello che temevo” dichiarò infine. “Deve averci etichettati come aspiranti maghi oscuri!”

“O peggio…” continuò Cathy, accorgendosi che ci stava pensando per la prima volta, “Non voleva essere visto in quella strada. Ma noi c’eravamo e sappiamo che c’è stato”.

L’espressione di Teddy si fece se possibile ancora più tesa, mentre quella nuova ipotesi si faceva strada nel suo cervello. “Potrebbe essere… E in quel caso saremmo fortunati a essere ancora vivi!”

“Dai, magari stiamo solo esagerando. In fondo, non era un… Uno di quelli buoni, un Auror?”

“Sì, ma ormai non sono più sicuro di niente. Voglio tenerlo d’occhio, prima che inizi a seminare violenza anche qui. Potrei controllare le sue mosse, magari… Scoprire se e quando esce dalla scuola”.

Teddy sembrava tremendamente serio mentre architettava quel piano e Cathy evitò di contrariarlo. Restarono in silenzio per un po’, poi fu di nuovo lui a introdurre un argomento: “Tu a chi scrivevi? A quel tipo, il tuo tutore?”

Di solito, a una domanda del genere Cathy avrebbe risposto di farsi gli affari suoi, ma quel momento era così stranamente pacifico che non se la sentì di rovinarlo. “Anche” ammise.

“È stato proprio odioso in quella lettera. Al tuo posto non gli avrei mai risposto!”

La ragazza alzò le spalle, consapevole che Teddy non era l’unico a pensarlo. Tutti, all’orfanotrofio, le chiedevano costantemente come facesse a sopportarlo. “È fatto così, ma non è cattivo. In fondo, è grazie a lui se sono in questa scuola ed è anche l’unico al mondo a sapere qualcosa della mia famiglia… Anche se non me lo dice”.

“Non te lo dice? E tu non glielo chiedi?”

Cathy abbassò lo sguardo verso le proprie mani e capì quanto fosse difficile spiegare a qualcuno la sua quotidiana lotta interiore. Se glielo chiedeva? Gliel’aveva chiesto dieci, cento, mille volte, fino a quando non si era arresa a quell’ostinato silenzio. Che cosa poteva fare, a quel punto? Rifiutarsi di parlare, farsi negare quando lui andava a trovarla? Ma così avrebbe perso ogni minimo legame con il suo passato, la speranza anche più vana di conoscere il volto della donna che ogni notte popolava i suoi sogni. E allora andava avanti con pazienza, convincendosi che quell’uomo fosse buono e che prima o poi le avrebbe detto la verità. Non ascoltava le sue parole crudeli, ma guardava i suoi occhi infelici e sperava che dietro ci fosse dell’altro. Doveva esserci.

“È difficile da capire” riuscì solo a dirgli.

Teddy dovette comprendere di aver toccato un tasto doloroso, perché non insisté. Si limitò a guardarla con aria malinconica, compiangendo la situazione che li accomunava: “È ingiusto essere orfani, vero? Sentire gli altri che parlano dei tuoi genitori e non averli mai conosciuti”.

Cathy scosse piano la testa, comprendendo solo in parte il dispiacere di lui. “Non lo so” rispose. “Io darei qualsiasi cosa per sentirne parlare”.


Note

Devo confessare che, scrivendo questa storia, ho spesso l'impressione che succedano troppe cose nei capitoli... Questa volta è il contrario, mi sembra che succeda troppo poco! Comunque non ho voluto cambiarlo perché mi è piaciuto scrivere la scena con Teddy, il finale in particolare, dove finalmente hanno trovato qualcosa in comune.

Per il resto non ho molto da aggiungere, ho introdotto la storia delle sorelle Hill che avevo in mente da un po', ma resterà qualcosa di secondario. A breve ci sarà invece un'altra lite più incisiva ;) A presto!

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Capitolo 12
*** Questioni di sangue ***


12


Lasciarono la torre quando era ormai quasi buio, immusoniti e chiusi nei loro pensieri. Dal basso, li raggiungevano le voci degli altri studenti diretti in Sala Grande per la cena e niente faceva presagire che non fossero soli. Tuttavia, mentre ancora scendevano le scale a chiocciola, due figure piccole e ammantate spuntarono nell’ombra a pochi passi da loro; solo quando passarono sotto una torcia illuminata divennero riconoscibili. L’espressione tranquilla e malinconica di Teddy si trasformò di colpo in una maschera di rabbia.

“Ehi, Serpedoro!” fece Evan sorridendo, rivolto a Cathy. L’attenzione di Jason Dolohov era invece concentrata su Teddy e sullo sguardo furioso che lui gli lanciava.

“Serpedoro?”

“Zabini ti ha battezzata così. Carino, no?”

“Mah, forse”. Cathy non sapeva dire se lo fosse, tutto dipendeva dalle intenzioni che c’erano dietro. “Come mai qui?”

“Accompagno Jason a spedire una lettera”. Solo in quel momento si voltò verso il suo amico e sembrò accorgersi di ciò che stava succedendo: Jason accoglieva la sfida di Teddy fissando i suoi occhi fiammeggianti.

“Oh, interessante” esordì Teddy. “Deve scrivere a suo nonno, forse? Meglio che stia attento, la posta per Azkaban è sorvegliata”.

La parola ‘Azkaban’ scatenò reazioni piuttosto diverse tra i ragazzi: Cathy aggrottò le sopracciglia, Evan trasalì e la pelle di Jason divenne color rosso scarlatto.

“Senti, che problema hai? Non sono affari tuoi quello che scrivo e a chi!” replicò il ragazzino, punto sul vivo.

“Volevo solo darti un consiglio. Hai avuto fin troppa fortuna a essere ammesso a scuola, ti conviene non sprecare l’occasione”. Teddy parlava con voce strascicata e il tono di chi si sente mille volte superiore. Cathy non l’aveva mai visto così, neppure quando litigava con lei.

“Ho diritto di essere a Hogwarts almeno quanto te, Lupin, che ti piaccia o no. Se non ti sta bene, puoi benissimo ignorarmi. Io sarò felice di fare lo stesso”.

“Lascialo perdere” s’intromise Evan. “Non vale la pena di perdere tempo con uno così. Scott, quando verrai nella nostra Casa capirai la differenza tra noi e loro. Andiamo”.

Jason fu trascinato dall’amico verso la Guferia, ma fino all’ultimo non distolse lo sguardo inferocito da Teddy. Quella famosa rivalità tra Grifondoro e Serpeverde di cui tutti parlavano sembrava essersi manifestata e, come la McGranitt aveva predetto, Cathy ci si era ritrovata proprio in mezzo. Avrebbe voluto rincuorare Teddy, ma era combattuta: non capiva quella reazione esagerata contro un ragazzo che non gli aveva fatto nulla.

“Andiamocene” lo invitò, per distoglierlo dalla sua collera. “Arriveremo in ritardo per la cena”.

Ma Teddy non la stava ascoltando. Continuava a fissare i due Serpeverde su per la scala a chiocciola e quasi tremava dalla rabbia repressa. Poi, prima che Cathy potesse accorgersene o tentare di fermarlo, era già corso a raggiungerli.

“Perché non lo ammetti?” gridò, ancora rivolto a Jason. “Tu non ti vergogni di essere suo nipote, vero? Pensi ancora che quegli assassini avessero ragione, che le loro idee fossero giuste! È per gente come tuo nonno che molti, qui, hanno perso un genitore o entrambi. Non avrebbero mai dovuto ammetterti!”

“Quello che penso io non è affar tuo!” Jason era livido e aveva pericolosamente avvicinato la mano destra alla tasca. Evan e Cathy li fissarono e si guardarono l’un l’altro, senza sapere come evitare il peggio. “Mio nonno sta già pagando per quello che ha fatto, io non c’entro niente con lui!”

“No, certo, ma stai ancora dalla sua parte! Ti ho sentito parlare, durante le lezioni, di quello che pensi dei Nati Babbani… E d’altra parte sei un Serpeverde, già questo dice tutto”.

“Ehi, adesso calmati” fece Evan di rimando. La generalizzazione sulla sua Casa doveva averlo infastidito, sebbene fosse stato il primo ad accusare i Grifondoro. “È da quando siamo arrivati a scuola che tutti ci trattate come se non lo meritassimo. I nostri parenti sono in carcere, e allora? Gliel’abbiamo detto noi di fare quello che hanno fatto? Anche mio nonno è morto in quella guerra, Lupin. Non siamo noi ad avere pregiudizi”.

Teddy respirò profondamente e sembrò calmarsi un po’, forse sconfitto dalla ragionevolezza di Evan. Anche la sua mano tuttavia era in tasca, pronta a rispondere a un eventuale attacco magico.

“E se vogliamo dirla tutta” continuò Jason, “non siamo gli unici a non avere discendenze pulite, ti pare? Vogliamo parlare di tuo padre, Lupin?”

Quello fu probabilmente un grosso errore, la goccia che fece traboccare un vaso già colmo. Se mai c’era stata la possibilità di una marcia indietro, svanì in quel momento.

“Non nominare mio padre!” Teddy scattò in avanti, la bacchetta puntata a un centimetro dal viso di Jason, che impallidì. “Non–osare–nominarlo, proprio tu! Era un grande mago, è chiaro? Lui stava dalla parte giusta!”

“Teddy, calmati…” La voce di Cathy era flebile e si percepì appena in tutta quell’agitazione. Sapeva che nessuno dei due era tanto abile con la magia da farsi male, ma sapeva anche che la rabbia generava effetti inaspettati.

“Era anche un ibrido!” Jason pronunciò quella frase con enorme disprezzo e, subito dopo, qualcosa accadde: il corridoio si riempì di una luce intensa e accecante, impedendo a Cathy di capire quale delle due bacchette l’avesse causata. Nello stesso momento, una forza violenta scaraventò i due ragazzi da un lato all’altro della scalinata: Jason, che era più su di qualche scalino, fu scagliato verso l’alto e si ritrovò seduto a terra, gemendo di dolore; a Teddy toccò una sorte peggiore, poiché era rivolto con le spalle verso il basso e rotolò giù per parecchi gradini. Quando la luce si spense, Evan e Cathy tentarono di soccorrere i rispettivi compagni di Casa.

“Teddy… Teddy, stai bene?” Lo scosse più volte, ma lui non si muoveva. Riuscì ad aprire gli occhi per guardarla, ma li richiuse subito dopo e reclinò il capo all’indietro.

Di sopra, invece, Jason si stava rialzando. Cathy sentì che Evan lo aiutava a risalire i gradini, dicendo di sbrigarsi e che non dovevano farsi scoprire. Non sapeva cosa significasse e non le interessava: sentiva solo una gran rabbia montarle dentro, ora che quei due non si davano neppure la pena di aiutarla. Teddy intanto sembrava svenuto.

“Devo portarti in infermeria” affermò, più a se stessa che a lui. “Se solo sapessi come ci si arriva…”

Si guardò intorno, alla disperata ricerca di qualche mago adulto, ma tutto ciò che vide fu la scala a chiocciola che si snodava nel buio. Poi, quando stava per alzarsi e gridare aiuto, finalmente sentì dei passi; furono preceduti da una gatta raggrinzita e soffiante, che si sedette a poca distanza dal capo di Teddy. Cathy allora capì chi stesse arrivando e si rese conto di quanto fossero nei guai. A detta di molti, essere scoperti da Gazza in una situazione come quella era peggio che beccarsi un maleficio in pieno petto.

*

“È inammissibile!”

La professoressa McGranitt era fuori di sé e le sue mani che colpivano la scrivania ne davano conferma. Gazza aveva scortato i ragazzi nel suo studio dopo essere riuscito a beccarli, rinunciando a portarci anche Teddy solo perché non era in grado di stare in piedi. Adesso, li osservava con un sorriso maligno da un angolo della stanza, dopo aver suggerito due o tre punizioni tali da far accapponare la pelle.

“Mettersi a duellare a meno di un mese dall’inizio della scuola, senza esperienza e per giunta sulla scala di una torre! È un miracolo che siate tutti vivi!”

“Non stavamo duellando!” replicò subito Jason, che pur nelle situazioni più disperate non perdeva la sua imprudenza. “È stato Lupin a provocarmi, mi sono soltanto difeso!”

“È vero” confermò Evan. “Ce ne stavamo andando e lui ha iniziato a insultarlo”.

“Non mi interessa chi ha cominciato” sbottò la McGranitt. “Ted Lupin ora è infermeria con la spina dorsale fratturata e decine di contusioni. Non potete farmi credere che è solo colpa sua!”

Questa volta, Evan abbassò il capo e Jason fece lo stesso. Seguirono istanti di silenzio teso, dopodiché fu ancora il giovane Dolohov a prendere la parola: “Comunque, non sono stato io a colpirlo. Non so neppure come si fa”.

“Di questo non ne dubito” disse la professoressa, riferendosi naturalmente alla seconda frase. “E tu, Scott? Non ci hai ancora detto niente in proposito. Qual è la tua versione dei fatti?”

Cathy era stata effettivamente zitta fino a quel momento e temeva più che mai di essere interrogata. La verità era che Evan e Jason avevano ragione: era stato Teddy a cominciare, aveva fatto tutto lui. L’unica cosa che poteva scagionarlo, l’incantesimo sprigionato da chissà quale bacchetta, era anche l’unico dettaglio che non aveva percepito.

“Non so chi ha usato la magia” ammise, non trovando altra via d’uscita. “Ho visto solo la luce e loro due scaraventati all’indietro”. Si sentì osservata dalla McGranitt mentre pronunciava quella verità e, come nel loro primo incontro, ebbe la netta sensazione di non esserle simpatica.

“Va bene” decretò infine la donna. “Ammettiamo pure che sia così, anche se potreste starvi coprendo a vicenda. Spiegatemi almeno le ragioni di questa lite così assurda. Anzi, spiegamele tu, Scott. Dovresti essere la più imparziale, data la tua situazione”.

Si riferiva sicuramente al suo essere Serpedoro, o forse anche al fatto che lei e Teddy non erano mai stati amici. Tuttavia, ora che aveva passato così tanto tempo con lui e gli altri compagni di Casa, le veniva naturale stare dalla loro parte.

“Ecco…” iniziò, sentendo addosso gli sguardi ansiosi di Evan e Jason, “Si parlava dei loro parenti. Teddy ha accusato Jason di scrivere a suo nonno ad Alcatraz e di condividere le sue idee, poi Jason gli ha risposto che suo padre era un infimo… O qualcosa del genere”.

Improvvisamente, dal silenzio teso e impenetrabile si sollevò il rumore tipico di una risata soffocata. Il professor Lumacorno era rimasto fino ad allora ad ascoltare e, come Direttore dei Serpeverde, si era detto molto deluso dai suoi studenti; ma adesso, a quanto sembrava, le imprecisioni di Cathy sul racconto avevano avuto la meglio sulla sua severità. Persino la McGranitt sollevò un angolo delle labbra senza riuscire a trattenersi.

“Horace, per favore” disse poi, rimproverando il collega. “La prigione dei maghi si chiama Azkaban e probabilmente il padre di Lupin è stato accusato con un appellativo diverso. Il punto della questione mi sembra comunque chiaro: ci sarà molto da lavorare per la festa della Conciliazione, quest’anno”.

Lumacorno riuscì a smettere di ridere con la bocca e annuì, ma il suo sguardo era ancora visibilmente divertito. Cathy sentiva nominare quella festa per la seconda volta e, pensando di non poter formulare più sciocchezze di quelle che aveva già detto, domandò: “Mi scusi, Professoressa… Cos’è esattamente la festa della Conciliazione?”

L’insegnante alzò gli occhi al cielo, esasperata da una tale ignoranza. Forse non ricordava che Cathy provenisse da un orfanotrofio Babbano, pensò lei con un moto di stizza. “La festa della Conciliazione” le spiegò “è un’usanza che si ripete ogni anno, allo scopo di avvicinare i ragazzi di Case diverse. Ci sono ancora molti pregiudizi e miscredenze in questa scuola, come ti sarai appena accorta, ed è compito nostro riuscire a ridimensionarli. A dicembre riceverete un invito con i dettagli dell’incontro, e mi auguro che non mancherà nessuno… Soprattutto voi”.

I tre ragazzi annuirono meccanicamente: dopo quello che avevano combinato, partecipare a una festa per farla contenta era il minimo che potessero fare.

“Permettimi, Minerva…” s’intromise Lumacorno, anche lui leggermente intimidito dalla freddezza della collega, “A questo punto, credo sia il caso di invitare il nostro ospite speciale. I ragazzi lo ascolterebbero molto più di quanto ascoltano noi, amano sentirne parlare”.

“Ospite speciale..?” sussurrò Jason, immediatamente messo a tacere. Evan gli tirò una gomitata nelle costole per intimargli di stare zitto.

“Ne parleremo in privato, Horace. Ora è meglio lasciar andare i ragazzi”.

Cathy tirò un sospiro di sollievo: finalmente avrebbero lasciato quella stanza e l’interrogatorio sarebbe finito. Ma le sembrava tutto troppo semplice, doveva esserci qualche tassello che mancava…

“Tolgo trenta punti a Grifondoro e Serpeverde per il vostro indegno comportamento!” decretò l’insegnante, come a rispondere a quella muta domanda.

“Trenta?!” esclamò Jason, con gli occhi fuori dalle orbite.

“Più una settimana di punizione con il vostro Direttore, per te e per Ted Lupin! E ti consiglio di tacere, Dolohov, prima che i punti sottratti diventino quaranta!”

Jason finalmente tacque, ma con molta fatica. I ragazzi furono congedati e condotti da Gazza ai rispettivi dormitori, ma, prima di lasciare la stanza, Cathy non poté non notare il modo in cui la stava guardando la McGranitt: anche se era innocente, si sentì più colpevolizzata e punita di quanto non fossero stati gli altri.

“Bel guaio, eh?” Evan le si avvicinò mentre camminavano, quel tanto che bastava per non essere sentito dal guardiano. Cercava l’approvazione di Cathy, ma lei non era disposta a dargliela.

“Meglio se stiamo zitti. Quello lì è già abbastanza inferocito per non averci appesi a testa in giù”. In effetti, Gazza aveva perso tutta la sua verve dopo che la McGranitt gli aveva ordinato di accompagnarli ai dormitori.

“Non mi importa di lui. Vorrei solo che la gente smettesse di additarci”.

“Non mi sembra che tu sia stato additato, veramente”. Cathy si voltò verso Evan e i pensieri rabbiosi che l’avevano accompagnata fino ad allora ebbero la meglio. “Sei solo intervenuto per difendere Jason. E, visto che hai l’animo così generoso, potevi aiutare anche Teddy dopo l’incidente invece di scappare!”

Evan restò piuttosto sorpreso; aveva dato per scontato che Cathy stesse dalla sua parte. “Perché avrei dovuto aiutarlo? Non è mio amico, è solo uno pieno di pregiudizi. E non capisco perché tu lo difenda…”

“Ma è ovvio!” rispose subito lei, e mentre lo diceva capì che non lo era così tanto. Già, perché prendeva le sue difese, se non erano mai stati amici e se aveva palesemente torto? “Perché era ferito, doveva essere soccorso” aggiunse timidamente.

“Tu non capisci” ribatté Evan, serio. “Questa sera è stato Jason a essere accusato, ma se Lupin fosse stato meglio informato se la sarebbe presa anche con me. Lui non avrebbe mai aiutato uno di noi, un imparentato con i Mangiamorte”.

“Mangiamorte?” Ma Cathy non ottenne risposta a quella domanda, non quella sera. Gazza s’intromise nel loro discorso, afferrandoli per le spalle e allontanandoli l’uno dall’altra: “Se i signori hanno finito di discutere, è il momento di dividersi. Da questo punto in poi sapete come continuare, non è vero?”

La risposta fu sì per entrambi, ma le intenzioni del guardiano erano sicuramente maligne. Forse, sperava che si perdessero per poterli acciuffare di nuovo.

“Buonanotte” disse Jason a mezza voce, mentre si preparava a scendere nei sotterranei. Un attimo dopo, Evan aggiunse: “Buonanotte, Catherine”.

Catherine. Strano sentirsi chiamare con il suo nome completo, non ci era abituata. Restò inebetita per qualche secondo, fino a che rimase sola con il guardiano. Il suo ghigno perfido e quella gatta odiosa la convinsero infine ad allontanarsi.

*

Cathy tornò al dormitorio con la testa piena di pensieri e parole non sue, che si aggrovigliavano le une alle altre impedendole di farsi un’opinione propria. Improvvisamente, non era più così sicura di voler difendere Teddy; l’evidenza era contro di lui e, dopo ciò che aveva detto Evan, il suo torto marcio era ancora più palese. Quel ragazzo aveva ragione, Teddy non avrebbe mai soccorso Jason se ci fosse stato lui al suo posto. Non dopo le parole che gli aveva rivolto, quell’attacco insensato e dovuto a una mera questione di origini. Eppure, per quanto lo trovasse antipatico, Cathy non aveva mai notato in lui un carattere violento e irascibile, anzi. Si comportava in maniera gentile quasi con tutti, difficilmente lo si sentiva criticare qualcuno e ancor meno attaccava brighe con i ragazzi delle altre Case. Solo Jason sembrava fargli quell’effetto, e benché questo non fosse una giustificazione doveva senza dubbio nascondere delle ragioni profonde.

Ma non ebbe molto tempo per rifletterci, una volta oltrepassato il buco del ritratto; fu letteralmente assalita dai suoi compagni che non l’avevano più vista dal pomeriggio. In sala comune erano arrivate notizie parziali e non del tutto corrette su ciò che era successo: un duello nei corridoi, Teddy in infermeria e una manciata di punti in meno per i Grifondoro. Maggie la trascinò di forza su una poltrona, Eliza e Samuel la guardarono con espressione carica d’ansia e tutti gli altri le si strinsero attorno per ascoltare il racconto. A poco a poco, Cathy riuscì a chiarire i loro dubbi e a tranquillizzarli; il risultato fu una serie di imprecazioni a danni dei Serpeverde.

“Lo dicevo io, che da quella gente bisogna stare alla larga! Povero Teddy, chissà come sta…” commentò Maggie.

“Ho provato a fargli visita prima, ma l’infermiera mi ha cacciato fuori” s’intromise Samuel. “Dice che ha bisogno di riposare e non deve vedere nessuno prima di domani”.

“Voi non capite!” Cathy si lasciò andare a quell’esclamazione di punto in bianco, lasciandoli sconcertati. Tutto potevano aspettarsi meno che un rimprovero da parte sua. “Teddy ha le sue colpe, se l’è cercata! Non so chi abbia lanciato l’incantesimo, ma è stato lui a provocare Jason per primo, ve l’ho spiegato. Non potete difenderlo come se fosse l’unica vittima!”

“Cathy, andiamo” le rispose Maggie, che per la prima volta appariva risentita, “sappiamo tutti che tu e lui non vi state simpatici, ma da qui a dargli le colpe…”

“Non si tratta di questo. Quel ragazzo non gli aveva fatto nulla e lui ha cominciato a sfidarlo. Voi siete pronti a dargli ragione perché è un Serpeverde, perché porta questo o l’altro cognome, ma tutto ciò non significa niente per me! Vengo da uno stupido orfanotrofio dove le persone non ce l’hanno nemmeno una famiglia, sono abituata a giudicarle per come si comportano! E, se non capite questo, è inutile parlarne. Vado a dormire”.

Si alzò dalla poltrona senza guardare nessuno, diretta verso le scale del dormitorio. Solo Eliza cercò di raggiungerla e farla calmare: “Cathy… Aspetta. Scusali, sono così abituati a pensare da maghi che a volte si dimenticano delle nostre origini”.

“Allora potrebbero scusarsi loro direttamente. Buonanotte, Eliza”.

Continuò per la sua strada senza voltarsi, ben sapendo che di sopra non sarebbe riuscita a dormire. Poco importava quanto avrebbe dovuto aspettare per scendere nella sala comune vuota, o quanti tentativi di Lumos ci sarebbero voluti per accendere quella benedetta bacchetta; il suo solo desiderio al momento era quello di restare sola.

*

Samuel Collins non aveva mentito riguardo le condizioni di Teddy: il mattino seguente, Madama Chips fu piuttosto restia a concedere visite, e solo dopo molta insistenza da parte dei ragazzi permise loro di entrare in piccoli gruppi. Cathy, che era ancora in collera per la discussione della sera prima, preferì aspettarli in un angolo ed entrare per ultima.

L’infermeria era una stanza piuttosto ampia, con le pareti bianche e una serie ordinata di letti vuoti. L’unico occupante sembrava essere proprio Teddy, appoggiato su un paio di cuscini e intento a ripassare Pozioni. Aveva il capo fasciato, ma per il resto sembrava illeso; vedendo arrivare Cathy, si mostrò piuttosto stupito.

“Ehi, ciao” la salutò, chiudendo il libro.

“Ciao”. Cathy prese posto su una sedia accanto a lui. “Come ti senti?”

“Mah, non male. Quella Chips è una carceriera, ma sa il fatto suo. Ci ha messo pochissimo tempo a sistemarmi le ossa”.

“Mi fa piacere. Allora non resterai qui per molto”.

“Stasera dovrei tornare al dormitorio. Me ne andrei già adesso, ma lei dice che è più prudente aspettare qualche ora. Intanto, cerco di non restare indietro con lo studio” e indicò il libro, una delle materie che gli andavano meno a genio.

Seguì qualche istante di silenzio. Cathy non sapeva che cosa dire, anche se durante la notte insonne aveva rimuginato a lungo sulle domande da fargli. Come sempre, nel momento in cui si trovava faccia a faccia con qualcuno, temeva di mostrarsi troppo impertinente o troppo stupida.

“Non sono stato io”. D’un tratto Teddy ruppe il silenzio, con quella dichiarazione di innocenza del tutto improvvisa.

“A fare cosa?”

“A lanciare l’incantesimo, quello che mi ha fatto cadere. Non so neppure come si fa”.

Cathy annuì con poca convinzione. “È la stessa cosa che ha detto Jason” osservò.

“Davvero? Non è stato lui?” Teddy sembrava sinceramente sorpreso. “E allora chi? Per me quello ha mentito… C’eravamo solo noi quattro là sopra e stavo discutendo con lui”.

La ragazzina non rispose, ma la sua faccia mostrava chiaramente quel che stava pensando. Voltò lo sguardo verso una delle finestre ed evitò di incrociare gli occhi di Teddy.

“Tu non mi credi, vero?”

Quelle precauzioni non erano servite allo scopo, perché lui aveva capito comunque. “No, Teddy” confessò. “Sinceramente, non ho ancora capito perché l’hai attaccato in quel modo”.

Per un attimo aveva creduto che lui si sarebbe arrabbiato, ma non fu così. Sembrava che se l’aspettasse e che fosse pronto a rispondere a una domanda del genere. “Ci sono cose che non sai” le disse.

“Come il fatto che suo nonno era un Mangiamorte?”

Teddy si mostrò stupito per la seconda volta. “Sì” rispose. “E come il fatto che ha ucciso mio padre”.

Quel particolare lei non lo conosceva, non ancora. Avrebbe voluto dirgli quanto le dispiaceva, ma non ci riuscì. Tutto ciò che fece fu restare in silenzio e lasciar parlare lui.

“I Mangiamorte erano gli uomini di Voldemort. Sai, il mago oscuro che Harry ha sconfitto nel 1998. I miei genitori facevano parte della squadra addestrata a combatterlo e quella notte hanno lottato con tutte le loro forze, ma purtroppo non è bastato: mio padre è stato ucciso da Dolohov, che adesso è in carcere, e mia madre da un’altra Mangiamorte che è morta poche ore dopo. So che l’hanno fatto per il mondo magico e anche per me, sono orgoglioso di loro. Ma a volte mi mancano, e altre volte penso che la loro morte non era necessaria”.

Cathy annuì piano, senza parlare. I passi concitati dell’infermiera in una stanza accanto erano l’unico intermezzo tra i loro discorsi.

“Non è giusto che Jason sia qui, non lo accetto. Quelle persone non dovrebbero neppure avvicinarsi alla scuola dopo quello che è successo, è un insulto alla memoria dei miei genitori! Invece niente, i professori si comportano come se fossimo tutti uguali. Difendono persino un razzista come Dolohov, che si permette di offendere mio padre con degli aggettivi orribili”.

“Intendi quando ha detto…” L’aveva dimenticato per la seconda volta, e in effetti non era neanche così sicura di volerlo ripetere.

“Ibrido, sì. Mio padre era un Lupo Mannaro, ha avuto la sfortuna di essere morso da bambino ed è stato contagiato. Non era cattivo come quelli che studieremo nei libri, anzi… Ha fatto di tutto per non essere un problema per gli altri, ha persino cercato di allontanare mia madre da sé anche se l’amava. Ma per la gente come Jason questo non ha nessuna importanza: loro sanno distinguere solo tra ciò che è ‘puro’ e ciò che non lo è. Si credono superiori a chiunque, solo per il fatto di discendere da maghi da generazioni”.

Quelle informazioni erano davvero troppe tutte insieme, per qualcuno che era abituato a riceverle a spezzoni. Adesso, Cathy riusciva a comprendere meglio i sentimenti di Teddy, ma non poteva comunque giustificarlo. A poco a poco, raccolse il coraggio necessario per dirgli quello che pensava: “Mi dispiace per tuo padre, davvero. Jason sbaglia se pensa questo di lui, ma resta il fatto che sei stato tu a insultarlo per primo. Quel Dolohov è un assassino ed è nel posto dove deve essere, giusto? Di suo nipote non sappiamo niente, però. Non ha ucciso nessuno, fino a prova contraria è innocente quanto me e te. Non puoi pretendere che lo espellano solo per il suo cognome”.

“Ma è come lui, Cathy! Se non ha ucciso nessuno è solo perché non può farlo, non ci sono più maghi oscuri a prendere le difese dei Purosangue e ogni azione del genere gli costerebbe Azkaban”.

“E perché ne sei così sicuro?” chiese lei, ancora. “Per le solite questioni di sangue?”

Teddy fece un respiro profondo e quella volta Cathy temette davvero di averlo offeso. Sembrò raccogliere i propri pensieri prima di rispondere, ma quando lo fece il suo tono era ancora calmo e riflessivo: “Sai chi era quella strega che ha ucciso mia madre? Sua zia. Sì, proprio sua zia, la sorella di mia nonna Andromeda. Non ha avuto nessuna pietà per lei, anche se era sua parente. E tutto ciò perché era figlia di un Nato Babbano e moglie di un Lupo Mannaro! Il sangue è così importante per loro da annullare qualsiasi legame, se un familiare si permette di ‘tradire’ le sue origini. Quella gente è pazza, non perdona. Non sa cosa siano l’affetto, l’amore, tutte le cose veramente importanti. La famiglia di Jason non fa eccezione in questo, te ne accorgerai”.

Anche se non l’avrebbe ammesso, Cathy restò piuttosto sconvolta dopo quella confessione. Ancora più del fatto che il padre di Teddy fosse un Lupo Mannaro o di come lui e sua moglie fossero morti durante la battaglia, la spaventava l’idea che una persona potesse uccidere un suo familiare per un tradimento di sangue. Perché era così importante discendere dai cosiddetti Purosangue? E, soprattutto, da che tipo di famiglia veniva lei? Sarebbe diventata come Jason, se solo avesse avuto dei genitori come i suoi? Interrogativi che si aggiungevano a molti altri senza risposta e le facevano un gran male.

“Anch’io potrei essere figlia di un Mangiamorte”. Lo disse così, senza pensarci troppo. Per la prima volta da quando fantasticava sui suoi genitori, considerò la possibilità che non fossero brave persone.

“Tu? Ma scherzi! I Mangiamorte sopravvissuti sono tutti ad Azkaban. E poi perché dovresti?”

“Beh, non lo so. Magari proprio per questo sono cresciuta in orfanotrofio”. Quell’idea appena partorita le sembrava incredibilmente realistica.

“No, senti” iniziò Teddy con tono convinto, “i Mangiamorte li odiavano i Babbani, ancora più dei loro figli maghi! Nessuno di loro ti avrebbe mai lasciata in un posto del genere, fidati”.

Il suo discorso sembrava sensato, senza contare che l’idea di un genitore Mangiamorte contrastava non poco con ciò che sapeva di sua madre. “Speriamo” gli disse, alla fine. “So talmente poco di loro che non posso escludere niente”.

“Non sei come loro, ne sono sicuro”.

“Ma come fai a esserne così sicuro?”

“Be’…” In un attimo sembrò anch’egli dubbioso, nonostante la certezza di un istante prima. “Perché non sei così male, ecco”.

Quella frase ebbe per Cathy l’effetto di uno trauma, forse maggiore di tutti quelli subiti fino a quel momento. Sentirsi dire ‘non sei così male’ proprio da Teddy equivaleva a un elogio in piena regola.

“Davvero?”

“Già. Voglio dire, sei viziata, arrogante e non mantieni le promesse, per non parlare del fatto che non sai neppure scegliere tra una Casa e l’altra… Però qualcosa di buono c’è”.

“Ah, grazie!” Cathy si accigliò, ma non era arrabbiata come voleva sembrare. “E questo ‘qualcosa’ cosa sarebbe?”

“Per esempio, il fatto che non mi hai lasciato solo sulla torre quando ero ferito. Oppure che poco fa, quando ti ho detto di mio padre, non hai fatto nessun commento. Non è da tutti, e sicuramente non da Mangiamorte”.

Suo malgrado, Cathy si accorse di arrossire. Quei comportamenti non li aveva tenuti di proposito, erano semplicemente dovuti alle circostanze e alle sue scarse conoscenze, eppure Teddy sembrava apprezzarli. “Be’, grazie, Teddy” ripeté, questa volta in maniera completamente diversa.

“Di niente. Stai guadagnando la mia stima, vedi di non farti sfuggire l’occasione. E a proposito… Potresti anche chiamarmi Ted”.

“Ted?” Quella richiesta le sembrava del tutto fuori dal comune, nessuno chiamava il ragazzino con il suo nome reale. “Ma ti chiamano tutti Teddy…”

“Già, è quello il problema. Lo fa Harry, lo fanno i suoi amici e adesso anche i miei. Non importa, va’, chiamami come vuoi”.

Chissà se accennando ai suoi amici si stesse riferendo anche a lei, pensò. Ma, in fondo, non era così importante il nome che si dava a qualcuno: un mezzo complimento valeva già più di mille parole.


Note

Approfitto della malattia che mi costringe a casa per aggiornare un po', visto che non lo facevo da parecchio. Non ho molto da aggiungere qui dato che è il capitolo è abbastanza auto-esplicativo, quindi ne approfitto per ringraziare chi ha iniziato a seguire la storia con lo scorso aggiornamento (qualcuno l'ha anche abbandonata in realtà, ma pazienza)! So che forse non è ben riuscita come altre, ma mi ci sono affezionata e quando trovo il tempo devo continuarla! Grazie anche a tutti gli altri, naturalmente.

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Capitolo 13
*** Nel covo delle serpi ***


13


Il ritorno di Teddy al dormitorio portò una ventata di allegria e una rinnovata serenità, dopo le discussioni che l’incidente aveva generato. Maggie ricominciò a parlare con Cathy come nulla fosse accaduto, Eliza si mostrò la gentile ragazza di sempre e persino le sorelle Hill sembrarono dimenticarsi dei loro litigi. Teddy, dal canto suo, fu ben felice di raccontare agli altri la sua versione dei fatti, condendola con dettagli inverosimili che rendevano più eroica la sua caduta per le scale. Il peggio arrivò dopo, quando iniziò la settimana di punizione con la McGranitt: ogni sera, la donna lo costringeva a trattenersi un’ora nel suo studio per suddividere in varie ampolle gli insetti da Trasfigurare il giorno dopo, che a detta di Teddy erano di quanto più viscidi e disgustosi ci si potesse immaginare. Chiaramente poteva essere un caso, e non avere nulla a che vedere con l’amarezza di aver sottratto punti alla sua stessa Casa.

Ma ancora più delle punizioni e dei postumi dell’incidente, fu un’altra cosa a sconvolgere enormemente il piccolo Lupin. A colazione, durante l’usuale consegna della posta, lo si vide prendere in mano una lettera e sbiancare fin dalla prima riga, aprendo e chiudendo la bocca senza emettere alcun suono. Se la infilò in tasca come un ladro, non permise a nessuno di leggerla e l’unica cosa che rivelò agli amici fu il suo mittente: mia nonna. Quando Samuel gli fece notare che, se non altro, non aveva ricevuto una Strillettera, Teddy spiegò che Andromeda non era tipo da fare certe scenate, ma che quando fosse tornato a casa per Natale gliel’avrebbe senza dubbio fatta pagare. Più tardi, mentre si avviavano a lezione, incrociarono i Serpeverde del primo anno e Teddy si ritrovò più vicino a Jason di quanto fosse stato dal giorno dell’incidente, ma finse di non vederlo. Qualunque cosa sua nonna gli avesse scritto in quella lettera, doveva averlo convinto a non attaccare briga mai più.

Passò così il primo mese dei ragazzi nella scuola, tra lezioni sempre più impegnative e una temperatura mano a mano più rigida. Cathy aveva quasi dimenticato di dover cambiare Casa, fino a quando la McGranitt non la informò che il giorno dopo sarebbe stata accompagnata al nuovo dormitorio. Quella sera osservò a lungo i suoi compagni mentre ridevano e scherzavano insieme, e per la prima volta si pentì di non aver fatto un’altra scelta. Chissà quante cose si sarebbe persa mentre era via, e se l’avrebbero accolta allo stesso modo anche dopo essere stata con i Serpeverde. Più che far parte di due Case sentiva di non appartenere realmente a nessuna, e in questo senso capì cosa intendeva la McGranitt quando le aveva detto che sarebbe stato difficile.

I suoi compagni fecero comunque di tutto per tirarla su: si trattennero più del solito in sala comune prima di andare a letto, nonostante di tanto in tanto si sentisse il suono di uno sbadiglio, e Maggie fece del suo meglio per convincerla che i Serpeverde non erano poi tanto male.

“C’è una certa Abbie Macdonald che non so come ci sia finita, lì” spiegò. “I suoi genitori sono brave persone e nessuno di loro è mai stato in quella Casa… Deve essere stato un errore, senza dubbio. Quel cappello ha proprio qualcosa che non va”.

Cathy annuì, concordando con la tesi sul cappello ma non avendo mai sentito nominare quella Abbie prima di allora. Era evidente che Maggie stesse facendo uno sforzo enorme per non criticare ogni singolo componente di quella Casa.

“Ma guardati da Zabini e la Wilkinson, mi raccomando” continuò. “E se ti danno problemi vieni a dircelo subito, mio fratello saprà come metterli al loro posto”.

“Grazie” le rispose Cathy, “ma spero che non ce ne sarà bisogno”.

Andarono avanti in quel modo per una buona mezz’ora, facendo una lista di tutti i pro e i contro di quella nuova sistemazione e ideando tattiche per evitare i secondi. Quando poi il sonno si fece troppo incombente perché potessero continuare, Maggie si alzò dalla poltrona per dare la buonanotte e tutti gli altri la seguirono a ruota, dopo aver augurato a Cathy buona fortuna.

“Per qualsiasi cosa, noi siamo qui” ripeté un’ultima volta Eliza. “Non te lo dimenticare”.

“Non potrò più entrare fino al mese prossimo, è contro il regolamento. Comunque, ci vediamo in Sala Grande e a qualche lezione”.

Eliza le sorrise con poca convinzione, poi si decise ad andare anche lei. Ben presto, nella stanza rimasero solo Cathy, il suo gatto che sonnecchiava accanto al fuoco e… Teddy.

“Non vai a dormire?” gli chiese, notando che era ancora seduto sulla sua poltrona.

“Prima volevo darti una cosa… Sai, visto che è l’ultima sera che passi qui”. Si avvicinò timidamente e le mostrò un piccolo pacco a forma di globo, avvolto in una carta da regalo. Cathy, decisamente sorpresa, allungò la mano e lo afferrò: pesava più o meno quanto una vera sfera di vetro.

“Non ce n’era bisogno” gli disse, mentre lo scartava. Immaginò qualcosa come una palla di neve, magari con l’aggiunta di qualche magia che creava un vortice perenne, ma quando lo aprì capì di essersi decisamente sbagliata: era una luce. Una fiammella azzurra e immobile, posta all’interno della sfera, che generava un bagliore mite e piacevole.

“Dove l’hai presa?” sussurrò, mentre cercava di capire il motivo di quel regalo.

“L’ho fatta io” rispose Teddy con una punta d’orgoglio. “C’è un’amica del mio padrino, sai, si chiama Hermione Granger… Be’, lei è sempre stata un genio con la magia e ha cercato di insegnarmi un sacco di cose, ma questa è l’unica che sono riuscito a imparare. Parlo della fiammella, il resto è stata una mia idea. Ho visto la lampada di Maggie e ho pensato che anche questa sarebbe stata bene in una sfera”.

Cathy la rigirò tra le mani più volte, esaminandola da tutte le angolazioni e accorgendosi che la fiamma non si spostava di un millimetro. “Brucia senza ossigeno…” osservò, ricordando le lezioni di scienze di quando studiava ancora le materie Babbane. “Incredibile”.

“E il bello è che non si spegne mai!” aggiunse il ragazzo. “Proprio mai, a meno che il vetro non si rompa”.

“Davve…” L’entusiasmo di Cathy si esaurì di colpo, l’espressione docile e incredula si trasformò in un cupo sospetto. “Perché me l’hai regalata?”

“Te l’ho detto, è l’ultima sera che passi qui e mi sembrava carino…”

“Non me ne vado per sempre, torno solo tra un mese”. Si alzò dalla poltrona e diede le spalle a Teddy, fissando il camino. “E poi perché proprio questo? Perché una luce?”

“Perché è l’unico incantesimo che so fare, ti ho detto anche questo. Qual è il problema, non ti piace?”

“Oh, piantala Ted, dimmi la verità!” si voltò di nuovo e sembrò che i suoi occhi avessero assunto lo stesso colore del fuoco. “È stata Eliza, ti ha detto tutto! Mi aveva promesso che non l’avrebbe fatto!”

“Ah…” Teddy abbassò lo sguardo, confermando così che Cathy aveva fatto centro. “Sì, in effetti Eliza c’entra qualcosa. Mi ha visto creare una di queste fiamme una volta e ha detto che sarebbe stata una buona idea regalartela… Io le ho detto che non ci pensavo proprio, sai, all’epoca non andavamo molto d’accordo. Poi però le cose sono cambiate, mi sono ricordato di quel consiglio e l’ho messo in pratica. Mi dispiace, credevo che ti sarebbe piaciuta”.

“Ti ha detto solo questo?” chiese ancora Cathy, questa volta più calma.

“Sì, certo. Che altro doveva dirmi?”

I suoi occhi sembravano sinceri e la ragazza si convinse che doveva essere così. Eliza non gli aveva rivelato il suo segreto, ma aveva comunque trovato un modo per aiutarla. Avrebbe dovuto esserle grata, eppure si accorse di provare un certo fastidio. Aveva sperato, per qualche istante, che quella fosse davvero una casuale idea di Teddy.

“Mi piace” gli confessò, alla fine. “Mi piacciono tutti i tipi di luce”.

“Ah, menomale! Allora è tutto a posto?”

“Certo. La porterò con me dai Serpeverde. Scusami”.

“Non ti preoccupare” la tranquillizzò Teddy, visibilmente sollevato. “Meglio così, ne ho talmente tante che sarebbe stata di troppo nella mia stanza!”

Stava già minimizzando il suo gesto gentile di un attimo prima, con la scusa che si stava solo disfando di un oggetto di troppo. Era un comportamento tipico di Teddy e le venne spontaneo sorridere.

“Senti” continuò poi il ragazzo, “se lì non ti trovi bene, puoi sempre tornare da noi. Non fa niente se non puoi entrare in sala comune, possiamo sempre vederci in biblioteca o da qualche altra parte. Ormai ti consideriamo una Grifondoro, non cambierà nulla”.

“Sul serio?” Cathy si sentì più felice per quelle poche parole che dopo tutti i discorsi fatti quella sera. “Anche se sono una… Una che non sa scegliere?”

“Be’, adesso hai tutte le informazioni per farlo. Hai conosciuto noi, conoscerai loro… Dipenderà da te”.

“Già, hai ragione. Grazie” ripeté.

“Di niente. Buonanotte, Cathy”.

Sarebbe stata davvero una buona notte, pensò, mentre saliva le scale del dormitorio femminile. Nonostante le preoccupazioni per il giorno dopo, Teddy le aveva inconsapevolmente regalato ciò di cui aveva più bisogno: una bella dormita in un letto vero, finalmente.

*

Fu molto strano, il mattino dopo, dirigersi verso un tavolo che non era quello di sempre. I nuovi compagni si presentarono uno ad uno con fredda cortesia, alcuni con uno sguardo accigliato nei confronti della sua divisa, e dopo che si fu seduta ricominciarono a parlare tra loro come se non ci fosse. Solo quando abbassò gli occhi verso la colazione Cathy si accorse di aver dimenticato una cosa fondamentale: la spilla di Grifondoro era ancora appuntata in bella vista sul suo petto. La staccò e se la mise in tasca immediatamente, certa di aver iniziato quella convivenza con i Serpeverde nel peggiore dei modi. Sospirò e lanciò un’occhiata al suo vecchio tavolo, dove gli altri compagni sembravano più allegri e uniti che mai; strano, poiché non le erano mai apparsi così simpatici prima di quel giorno.

Il resto della giornata fu, se possibile, ancora peggiore. Nessuno le rivolse più di due parole ad eccezione di Zabini, che tra la lezione di Incantesimi e quella di Erbologia iniziò a tartassarla di domande sui Grifondoro. Voleva sapere tutto, da una descrizione accurata della loro sala comune alle persone che ci vivevano, come passavano il loro tempo, se parlavano delle altre Case e cosa pensavano – soprattutto – dei Serpeverde. Cathy non era autorizzata a rispondergli e neppure voleva farlo, le sarebbe sembrato come un tradimento nei loro confronti. Si limitò a dirgli che dormivano in una torre (con tutte quelle che c’erano a Hogwarts era difficile individuare quale) con una bella vista sull’esterno e che con gli altri ragazzi si era trovata bene, ma non aggiunse altro. Con tutte quelle domande le ricordava tanto il suo tutore, che dopo la prima lettera aveva insistito per sapere nome e cognome di tutti i suoi amici, resoconti dettagliati sulle lezioni e qualsiasi altra cosa le passasse per la testa. A lui l’aveva raccontato, perché non poteva fare altrimenti, ma con il ragazzo più spavaldo dei Serpeverde nonché quello detestato da Maggie era molto diverso; l’unico svantaggio fu che, quando Zabini si arrese al suo silenzio, Cathy restò nuovamente sola.

“Eccole qui!” All’inizio della lezione, il professor Paciock si mostrò sorridente ed entusiasta come se li stesse preparando a qualcosa di spettacolare. Dietro di lui, allineati lungo la serra, c’erano i bulbi che i ragazzi avevano travasato durante la prima lezione. Adesso avevano iniziato a svilupparsi, generando steli verdi e sottili.

“Rose Cangianti! Questo è il nome delle piantine che avete davanti. Non ve lo aspettavate, vero?”

Dalle facce inespressive e piuttosto disinteressate la risposta veniva fuori da sé: non se lo aspettavano, e probabilmente nessuno di loro aveva idea di cosa fossero. Cathy sapeva che si trattava di fiori perché Paciock gliel’aveva rivelato, ma quel particolare nome non le diceva assolutamente nulla.

“Ok, credo che non siate ancora arrivati a questo capitolo del libro” notò giustamente Paciock. “Leggiamolo insieme… Qualcuno l’ha portato?”

I Serpeverde si guardarono l’un l’altro perplessi, ma dal lato dei Tassorosso una ragazza alzò la mano. Aveva un libro stretto al petto da quando era entrata nella serra.

“Molto bene, Jackson, molto bene. Pagina 44, prego”.

La ragazzina aprì il libro con aria febbrile, poi iniziò a leggere: “Rose Cangianti. Del tutto simili alle comuni rose, ma con uno sviluppo più lungo e complesso, generano sostanze diverse a seconda del loro trattamento. Esse vengono impiegate nei campi più disparati della magia, dalla cura delle ferite magiche a quella dei capelli, dalla manutenzione dei tessuti pregiati a…”

“Ok, fermiamoci un attimo qui, grazie. Quello che dice il vostro volume è vero: gli estratti delle Rose Cangianti sono di vario tipo e tutti utilissimi, ma prima che possano generarsi c’è bisogno che le rose fioriscano. Ecco, questo sarà il vostro scopo per le prossime lezioni: accudire la vostra piantina fino a farla germogliare. Sarà una meraviglia, vedrete!”

“Vuol dire che dobbiamo innaffiarla?” s’intromise Jason. “Non vedo acqua qui…”

“Infatti” rispose Paciock con aria eccitata, “l’acqua non vi servirà”.

Tirò fuori dal mantello una grossa pergamena e iniziò a srotolarla davanti agli studenti sbalorditi, che a quel punto erano pieni di curiosità. A poco a poco, sulla carta apparve una lunga lista di tutte le bevande che si potessero immaginare: latte, tè, caffè, succo di zucca, vino, idromele, acquaviola, burrobirra, whisky… Tutto meno che semplice acqua. E quando le bevande non bastavano più, venivano sostituite da altre sostanze più dense, come miele, olio e albume d’uovo.

“Come vedete, le nostre rose si accontentano di poco. Ci sono abbastanza liquidi perché ognuno di voi possa sceglierne uno diverso, così scopriremo insieme quanti aspetti diversi possono assumere. Su, venite qui uno alla volta e scegliete il vostro ingrediente!”

Dapprima timidamente, poi con maggiore coraggio, i ragazzi si avvicinarono alla pergamena e presero a cancellare ciascuno la propria scelta. Intanto, il professore aggiunse che per quella prima volta gli avrebbe fornito lui le sostanze da usare, ma nelle prossime lezioni avrebbe lasciato loro il compito di procurarsele. Dopo quell’annuncio, la folla attorno alla pergamena si strinse e le bevande più semplici da trovare si esaurirono alla velocità della luce. Cathy, rimasta indietro, si rassegnò all’idea che le sarebbe capitato qualcosa d’impossibile.

“Ecco, lo sapevo… Miele! Dove ne troverò così tanto da innaffiare una pianta?”

“A colazione ce ne sarà di sicuro. Invece guarda il mio… Albume! Bleah!”

Cathy si era soltanto lamentata tra sé e sé, ma qualcun altro aveva colto l’occasione per compiangersi a sua volta. A quanto sembrava, anche Evan si era attardato nell’avvicinarsi, fino a doversi accontentare dell’ultimo ingrediente rimasto.

“Come faranno delle rose a crescere con questa roba?”

“Non ne ho idea, ma se lo dice Paciock… Be’, sempre meglio questo che sporcarsi le mani di terra”.

I due ragazzi si avvicinarono al tavolo degli ingredienti, incrociando Zabini che si pavoneggiava con una bottiglia di Whisky Incendiario. Cathy raccolse quello che sembrava un barattolo di miele e cominciò a versarlo nella sua piantina, mentre Evan faceva del suo meglio per aprire le uova senza lasciar cadere il tuorlo. Sembrava proprio che stesse preparando una torta, e a Cathy scappò una risatina.

“Ti diverti?” le chiese lui, più perplesso che arrabbiato.

“No, scusa, è che… Nel mondo Babbano è abbastanza buffo quello che stai facendo”.

“Lo era anche nel mio mondo, fino a ieri. Comunque, meglio così, credevo ce l’avessi ancora con me”.

“Con te?” Si era già dimenticata della loro ultima discussione, la sera dell’incidente. “Ah, per quello che è successo sulla torre… No, non importa. Ormai hanno avuto la loro punizione, non credo che si scontreranno di nuovo”.

“Lo credo anch’io. Jason però non se la passava tanto male… Dopo ogni punizione con Lumacorno tornava con le tasche piene di caramelle e dolcetti”.

“Davvero?” A Cathy era venuta l’improvvisa voglia di assaggiare un po’ di quel miele. “Allora le sue cene non saranno così male!”

Evan la guardò con tanto d’occhi e un frammento di guscio gli finì nel vaso. “Ha invitato anche te?”

“Sì, la sera dello Smistamento. Non invita tutti gli studenti?”

“No, solo quelli che hanno dei parenti famosi o qualche abilità speciale. Mio padre per esempio è un pozionista di professione, lui e Lumacorno si conoscono da anni. Zabini ha una zia molto bella, Adams di Corvonero è il primo della classe e stai certa che anche Lupin non mancherà all’appello, con i genitori e il padrino che si ritrova”.

“Ho capito”. Cathy svuotò il barattolo dal poco miele rimasto con una certa noncuranza: quell’attività era improvvisamente diventata molto meno divertente. “Quindi, considerando che nessuno conosce i miei parenti e non ho abilità degne di questo nome, immagino che mi avrà invitata per la questione delle due Case”.

“Penso di sì” confermò Evan, accrescendo in quel modo il suo malumore. “Comunque sarà una noia. Io ci vado solo perché spero di convincerlo a far brevettare la pozione di mio padre…”

All’improvviso, il chiacchiericcio nella serra si interruppe e tutte le teste si voltarono meccanicamente verso la porta. Era appena entrato il professor Young, con l’usuale veste nera e lo sguardo glaciale.

“Buongiorno” salutò, e tutti i ragazzi gli risposero in coro. Neville sembrò più turbato di loro per quella visita.

“Buongiorno, Albert… Hai bisogno di qualcosa?”

Young non rispose, ma si limitò a fare il giro della serra osservando le Rose Cangianti. Di tanto in tanto arricciava il naso con disappunto, forse per il miscuglio di odori che proveniva dai vasi.

“Rose, eh?” esordì, rivolto a Paciock. “Interessante. Anche se sarebbe più utile studiare i Tentacoli Velenosi o il Tranello del Diavolo. Sai, piante che è bene riconoscere quando le si ha davanti”.

Il tono polemico era evidente, ma Neville non si lasciò intimidire. Era un uomo mite e cordiale, eppure quando si toccava il suo insegnamento sapeva diventare molto serio. “Non siamo ancora arrivati a quella parte del programma, è solo il secondo mese. E, comunque, dubito che in questa scuola si possa venire in contatto per caso con quel genere di piante. Hai bisogno di qualcosa?” ripeté.

“Purvincolo. Te l’ho già chiesto la settimana scorsa e sto finendo le mie scorte. Anche del Dittamo, se ne hai”.

“Qui qualcuno si è fatto male!” Paciock tentò di scherzare sul fatto che entrambe le piante generavano essenze curative, ma Young non sorrise nemmeno. “D’accordo, vado a prenderne un po’ nell’altra serra. Aspettatemi qui, ragazzi”.

Gli insegnanti si allontanarono insieme, Young davanti con passo solenne e Paciock dietro nel tentativo di non inciampare. Quando si chiusero la porta alle spalle, il chiacchiericcio tra studenti tornò a regnare sovrano.

“Parli del diavolo…” esclamò Evan, in tono esasperato. “Proprio quello, Young, si è opposto per primo al brevetto di mio padre. Vede pericoli ovunque e ha convinto gli altri membri del Consiglio che la sua pozione potrebbe avere effetti disastrosi. Come se non fosse completamente innocua!”

Cathy ascoltò attentamente le sue parole e giunse ad un’indubbia conclusione: il professor Young non stava simpatico proprio a nessuno. “Davvero le pozioni possono essere brevettate? Esiste un Consiglio?”

“Certo. È così che tutte le pozioni esistenti sono finite nei nostri libri. Qualcuno le inventa, le presenta al Consiglio e se non ci sono rischi vengono brevettate. Lumacorno fa parte del Consiglio e mio padre era piuttosto sicuro del suo giudizio, ma non aveva fatto i conti con Young”.

Cathy annuì. Non era poi così diverso dal brevettare un’invenzione Babbana, erano altre le caratteristiche del mondo magico che ancora riuscivano a stupirla. “Quelle piante che ha nominato… Dittamo e qualche altra cosa… Sono curative?”

“Sì, a quanto ne so. Spero che non voglia usarle su di noi dopo qualche esercizio, non mi stupirebbe così tanto”.

Era esattamente la stessa cosa che stava pensando lei, e il fatto che Evan condividesse le provocò un groppo alla gola. Chissà se Teddy era a conoscenza di quelle piante, ora che si sentiva così deciso a tenere d’occhio l’insegnante… Forse era il caso di informarlo.

*

Fino alla fine della giornata, Evan si rivelò una presenza discreta ma comunque di compagnia. Non sembrava aver legato particolarmente con gli altri ad eccezione di Jason, così dedicò parecchio tempo a Cathy e le si sedette accanto durante la cena. Mentre le spiegava come stare a cavallo di una scopa in vista delle lezioni di volo, a Cathy non sfuggì uno sguardo sprezzante che proveniva dall’altro lato del tavolo, e più precisamente da Vera Wilkinson: la ragazza dalla risata facile e con i nastri colorati tra i capelli non la vedeva di buon occhio, qualunque fosse il motivo. Bastò quello per capire che la convivenza con lei al dormitorio si sarebbe rivelata difficile, molto più di quanto lo era stato dormire sul divano. Maggie poteva avere mille pregiudizi e sbagliare altrettante ipotesi, ma forse quella volta ci aveva indovinato.

Il Prefetto dei Serpeverde era un tipo alto e robusto, dai modi molto più rudi di quelli di Gary. Diede a Cathy il benvenuto nella loro Casa con una stritolante stretta di mano, poi guidò i ragazzi verso un punto imprecisato di Hogwarts dove si trovava la loro sala comune. L’impressione fu quella di scendere decine e decine di scale, e Cathy si ritrovò a pensare che stessero addirittura lasciando il castello, magari attraverso un passaggio sotterraneo. Ma non fu così; a un tratto, gli studenti si raccolsero di fronte a quella che sembrava una parete di pietra non diversa dalle altre, ma alla quale il Prefetto presentò una parola d’ordine: Serpentese. Le mura si spostarono lateralmente e rivelarono una stanza lunga e bassa, irradiata da una cupa luce verde.

“Siamo nei sotterranei…” bisbigliò Cathy, entrando e notando con disappunto che quel luogo era molto più buio della torre.

“Sì” le rispose Evan, per nulla turbato dalla cosa. “Sotto il lago, per la precisione. Dalle finestre puoi vedere l’acqua che sbatte sui vetri. Figo, vero?”

Dal suo punto di vista era piuttosto inquietante, ma non glielo disse. Sperò soltanto che quei vetri fossero abbastanza spessi da non rompersi mai, altrimenti l’intera Casa dei Serpeverde avrebbe fatto una fine atroce.

Al di là del fattore lago, comunque, era una sala comune del tutto normale. C’era un bel fuoco scoppiettante esattamente come in quella dei Grifondoro, innumerevoli tavoli e tavolini dove poter fare i compiti e altrettante poltrone per rilassarsi. Zabini si catapultò immediatamente su una di esse, mostrandosi stanco come se avesse camminato per l’intera giornata. Vera gli si sedette sulle gambe in maniera civettuola, prendendolo in giro per quella totale mancanza di forze: “Tutta qui la tua energia? E dire che ti definisci un uomo!”

“Che vuoi farci, troppo Whisky Incendiario mi dà alla testa!”

“Ma smettila” lo apostrofò Pamela, l’altra ragazza Serpeverde che aveva confabulato con Vera tutto il giorno. “Se non ne hai bevuta neanche una goccia!”

“Solo per colpa di quell’idiota di Paciock… Non appena ci provavo era lì a fermarmi, non mi ha tolto gli occhi di dosso!”

E a ragione, pensò Cathy, dato che alla loro età bere alcolici era fortemente sconsigliato. Ricordava ancora quanto tempo ci aveva messo per convincere Catherine a lasciarle bagnare le labbra con lo spumante, una notte di Capodanno.

“A me non sembra così idiota” le scappò, prima che potesse tenere a freno la lingua.

“Ah, no?” Zabini parve ricordarsi solo allora che anche lei era lì. Dopo la lezione di Erbologia non si erano più rivolti la parola neanche per sbaglio. “Forse non sai che parla con le piante… Va a controllarle tutte le sere, dice loro come siete cresciute piccoline mie! A qualcuna ha dato anche un nome! Quei tentacoli enormi su cui inciampa ogni volta li chiama Fred e George!”

Tutti risero, ma Cathy non ci trovò proprio nulla di divertente. C’era qualcosa nel suo modo di scherzare che le sembrava profondamente meschino.

“Ragazzi, io vado a letto. Al contrario di Alex sono stanco davvero”. Era stato Evan questa volta a parlare. Di tutta risposta, Vera smise di ridere e lasciò le gambe di Zabini, andandogli incontro. “Così presto? Perché non ti trattieni un po’, facciamo due chiacchiere!”

“No, grazie, magari domani. Buonanotte”. Tutti risposero al saluto meno Vera, che sembrò quasi offesa per quel rifiuto. Per qualche istante nessuno parlò più, finché Cathy, sentendosi in difficoltà ora che Evan era andato via, disse a sua volta di voler andare a letto.

“Ti accompagniamo” decise Vera, mentre Pamela scattava in piedi come un soldato all’ordine. “Così ti facciamo vedere la nostra stanza”.

Cathy le seguì un po’ incerta verso la porta a sinistra, che conduceva in un altro corridoio. Su ciascuna delle altre porte era infissa una targhetta con l’anno di appartenenza; chiaramente, tutte e tre entrarono in quella del primo. Una volta dentro si scoprì che Harry era lì ad aspettare la sua padrona, trasferito magicamente nella nuova stanza assieme al baule.

“Ehi!” lo salutò, lasciando che il micio si strusciasse sulle sue gambe. Subito dopo recuperò una ciotola e iniziò a riempirgliela di croccantini. Harry doveva essere affamato quella sera, perché ignorò totalmente le ragazze nella stanza concentrandosi solo sul suo pasto.

“Bene” esordì Vera, nell’improvvisata veste di guida turistica. “Dal lato della parete dormiamo io e Pamela, mentre quello vicino alla finestra è il tuo letto. Non ti dà fastidio il rumore del lago, vero?”

In realtà, tenere migliaia di litri d’acqua così vicini al cuscino la preoccupava, ma non lo diede a vedere. Si limitò a dire di no, mentre con un gesto rassicurante e inconsapevole portava la mano al taschino, dove teneva il regalo di Teddy. La stanza aveva comunque un che di elegante, con le pareti rivestite di arazzi e i baldacchini color verde smeraldo. Stranamente, però, quei letti non erano soltanto tre: ce n’era anche un altro, vuoto e intatto, nell’angolo più buio della camera. Le tornarono alla mente i discorsi della sera prima e il nome di una certa Abbie Macdonald.

“Non dovrebbe esserci anche un’altra ragazza?” chiese alle due. “Si chiama Abbie, credo…”

Pamela lanciò un’occhiata strana e furtiva in direzione della sua amica, come per chiederle il permesso di rispondere. Fu Vera a farlo, prima ancora che l’altra ci provasse: “Ah, sì, è una Serpeverde. Comunque non la vediamo dal giorno dopo lo Smistamento, pare che sia in infermeria”.

“Capisco”. Un attimo dopo, però, la cosa non le sembrò poi così banale. Era passato molto tempo da allora, forse troppo perché la ragazza potesse essere ancora ferita; senza contare che, quando aveva fatto visita a Teddy, non c’era nessun altro studente in infermeria. “Si è fatta molto male?” domandò.

Le ragazze alzarono le spalle. “Te l’ho detto, non sappiamo niente. La sera prima stava bene e il giorno dopo è sparita. Perché t’interessa tanto?”

“Solo curiosità”. Più Cathy parlava con Vera, più aveva l’impressione di non piacerle affatto. A dispetto di come voleva sembrare, c’era ben poco di gentile in quel modo di scrutare ogni suo movimento e ancor meno nell’indagare per ogni semplice domanda. Stava diventando imbarazzante svuotare il baule e infilarsi il pigiama sotto gli sguardi curiosi di quelle due, ma per fortuna ci pensò qualcun altro a distogliere l’attenzione da lei: il gatto, senza apparente motivo e senza neppure aver terminato la sua cena, balzò sul letto vuoto di Abbie Macdonald e iniziò a soffiare verso la parete, con la schiena arcuata e i peli ritti dallo spavento.

“Harry!” Cathy cominciò ad accarezzarlo per farlo calmare, ma la bestiola non abbandonò la sua aria atterrita. Poteva sembrare che avesse visto un fantasma, se non fosse stato che gli unici veri fantasmi di Hogwarts erano perlacei e non invisibili. “Harry, che succede?”

“Il tuo gatto si chiama Harry?” chiese Vera, dopo un iniziale gridolino di panico.

“Sì. Non so cosa gli ha preso, di solito è molto tranquillo”.

Ma la ragazza sembrava più interessata al nome del micio che non al suo comportamento. “In onore di Harry Potter, per caso? Va di moda ultimamente, tutti chiamano i loro gatti o gufi Harry. E di solito il vero Potter non l’hanno neanche mai visto!”

“Ah, sì? Io comunque l’ho conosciuto davvero. È stato lui a consigliarmi di comprare un gatto”. Non sapeva bene perché, ma provava una certa soddisfazione nel dirlo alla gente.

“Ah”. Vera incassò il colpo e tacque, infastidita e forse invidiosa per quel risvolto inaspettato. Sembrò volerla interrogare ancora, magari per sapere come e quando si erano incontrati, ma alla fine scelse la strada dell’indifferenza. Infilò il pigiama e si rivolse di nuovo a Pamela, avviando un pettegolezzo maligno su Lauren Jackson di Tassorosso.


Note

Eccoci arrivati al primo mese di Cathy nella Casa dei Serpeverde. L'accoglienza è stata un po' diversa da quella dei Grifondoro, ma - ci tengo a specificarlo - non perché io creda che i Serpeverde sono tutti brutti e cattivi, solo perché è arrivata in un gruppo già unito e che fa più fatica ad accettarla. Vera è un caso a parte, prova una certa antipatia nei suoi confronti e credo si sia capito anche il perché... :)

La descrizione della sala comune viene ancora una volta da Pottermore, da cui ho saputo dell'acqua sui vetri (e ammetto di averlo trovato inquietante, anche se molto originale!) Avrete notato anche che i nomi che Paciock dà alle sue piante non sono proprio nomi qualsiasi, ma quelli dei suoi ex compagni. I tentacoli che lo fanno inciampare come per fargli uno scherzo, quindi, non potevo che collegarli ai gemelli Weasley!

Ultima nota e non per importanza, questo capitolo è tutto dedicato a Fanny Lestrange che ultimamente sta leggendo e commentando tutti i capitoli, con una precisione ammirevole! Grazie di nuovo, perché mi hai dato tanta ma proprio tanta voglia di scrivere. E grazie naturalmente anche a tutti coloro che leggono/commentano/aggiungono la storia alle liste! A presto!

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Capitolo 14
*** Sopra le nuvole ***


14


Non vedeva neppure dove stava andando. Ogni volta che quel malefico arnese sfuggiva al suo controllo, trascinandola più in alto o più in basso di parecchi metri, l’aria fredda le sferzava sul viso costringendola a chiudere gli occhi. Riuscì a restare ferma solo pochi istanti, quanto bastava a rendersi conto di ciò che le accadeva intorno: due o tre ragazzi erano ancora a terra senza riuscire a sollevarsi, ma altri, tra cui Evan e Vera, volteggiavano allegramente sopra di lei come se non avessero mai fatto altro in vita loro, e una furiosa Madama Bumb cercava di riportare giù i Serpeverde più indisciplinati. Anche i Grifondoro non se la cavavano male, comunque; Teddy e Maggie si stavano rincorrendo da circa dieci minuti e sembravano divertirsi un mondo. Peccato che per lei, Cathy, quella prima lezione di volo si stesse rivelando un autentico disastro.

Quando riuscì finalmente a dirigere la scopa verso il suolo, questa ebbe almeno la decenza di farla atterrare con grazia. Non che qualcuno se ne sarebbe accorto, dato che era stata la prima a raggiungere terra dopo il fischio di Madama Bumb. A poco a poco, mentre Cathy li osservava irritata, anche gli altri si decisero a tornare giù.

“Ehi! Com’è andata?” Maggie la raggiunse sorridendo, seguita da Teddy, con le guance ancora rosse per l’impetuosa volteggiata.

“Male” confessò lei, lo sguardo a terra come il suo umore.

“Davvero? Oh, mi dispiace, non ce ne siamo accorti! Sai, stavamo giocando e…”

“Ho visto” tagliò corto Cathy. Maggie restò perplessa per il suo discorso lasciato a metà e pensò bene di allontanarsi, prima di peggiorare le cose. “Vado a vedere come sta Eliza, ci vediamo dopo”.

I ragazzi raccolsero le proprie scope per riportarle nella stiva. Teddy lanciava di tanto in tanto occhiate esitanti in direzione della sua amica, come se volesse parlare ma non ne trovasse il coraggio. Non era la prima volta che il nervosismo di Cathy lasciava inebetiti gli altri, che anche quando volevano aiutarla temevano di dire qualcosa di sbagliato. Alla fine, fu lei a toglierlo dall’imbarazzo, confessando per prima ciò che si portava dentro.

“Sono una totale incapace. Nemmeno una cosa stupida come il volo mi riesce, mentre voi siete già bravissimi alla prima lezione! Menomale che ero la Serpedoro, l’evento senza precedenti della scuola… Forse il Cappello ha sbagliato solo perché non sono adatta a nessuna Casa!”

“Ehi, non esagerare!” Com’era prevedibile, dopo quell’autocommiserazione Teddy ritrovò immediatamente la parola. “Non sei un’incapace, pensa ai tuoi successi in Astronomia e Pozioni! Per questo ci vorrà solo più tempo e, comunque, non sei la sola… Susan non si è neppure alzata da terra! Io e Maggie ce la caviamo bene perché non facciamo altro da quando eravamo bambini, un po’ come succede in tutte le famiglia di maghi. Poi ho avuto un maestro speciale, sai, Harry è un talento sulla scopa e mi porta con sé da quando ero piccolo. E, come mi aveva avvisato, le scope che usano qui per noi del primo anno sono di pessima qualità. Guarda, la mia ha tutti i rametti storti!”

In effetti era vero, sia la sua scopa che quella di Teddy sembravano vecchie e consumate. Questo però non la faceva stare meglio, perché provava a maggior ragione che il ragazzino era molto più in gamba di lei. In ogni caso, il solo fatto che lui cercasse di consolarla era da ammirare, dato che fino a un mese prima l’avrebbe piuttosto presa in giro.

“Non importa” gli disse, suonando più dura di quanto avrebbe voluto. Gettò la propria scopa nel mucchio sperando di dimenticarsene al più presto.

“Ma sei ancora arrabbiata…”

“Mi passerà”. Per convincere lui e se stessa della cosa, si sforzò di sorridere. “Davvero Harry ti porta con sé sulla scopa?”

“Certo! Anche mia nonna lo fa ogni tanto, ma lui ha più pazienza con me. A volte voliamo fin sopra le nuvole, dove nessuno può vederci, e mi racconta di quando aveva la mia età e ha iniziato a giocare a Quidditch. Oppure, rincorriamo gli uccelli come fossero Boccini e ci divertiamo tanto. Altre volte restiamo solo in silenzio a osservare il mondo, ma mi piace anche così. Gli voglio molto bene, sai… So che non dovrei dirlo per rispetto al mio vero padre, ma quasi mi dispiace di non essere suo figlio”.

Era evidente che gli volesse bene, gli brillavano gli occhi al solo raccontare dei loro momenti insieme. Harry non era suo padre, ma lo riempiva di affetto come se lo fosse. Fu una delle poche volte in cui Cathy si sentì arrabbiata, arrabbiata davvero, verso i suoi genitori e il suo tutore, per averla abbandonata da bambina e allontanata dal mondo magico per così tanto tempo. Se non l’avessero fatto, forse quel giorno avrebbe potuto rincorrere anche lei Teddy e Maggie invece di affaticarsi per restare in sella. Forse, avrebbe potuto raccontare a Teddy che anche suo padre la portava con sé sulla scopa, e che le voleva un gran bene.

“Devo andare” disse a malincuore, notando che i compagni Serpeverde si erano già avviati al castello.

“Ok, ci vediamo a cena allora. A proposito, come va con quelli?”

Cathy li guardò. Vera si pavoneggiava come al solito con Alex, Pamela trotterellava qualche metro dietro di loro ed Evan chiacchierava animatamente con Jason, forse commentando la volteggiata. Nessuno si era accorto che lei non c’era. “Tutto bene” mentì.

Voglio tornare da voi, era quello che avrebbe voluto dire. Invece salutò Teddy, girò sui tacchi e raggiunse il suo gruppo attuale, pensando che quello fosse il prezzo da pagare per la sua indecisione.

*

Durante tutta la lezione di Pozioni Cathy non aprì bocca. Restò concentrata sul suo calderone, pestando e tagliuzzando gli ingredienti con più energia del necessario, e il risultato fu una Pozione Scacciabrufoli migliore del solito. Lumacorno annusò estasiato i vapori che ne fuoriuscivano e, davanti a tutta la classe, si complimentò per quel risultato eccellente. “Potrebbe curare le vesciche, oltre che i foruncoli!” esclamò elettrizzato, e regalò cinque punti a Serpeverde.

Quel successo la rincuorò un pochino, dopo il recente disastro del volo, ma non migliorò i suoi rapporti con i compagni. Vera la fissò con più astio del solito, e Cathy ebbe la netta sensazione che quella sera i discorsi sulla piovra gigante che poteva perforare le finestre sarebbero triplicati. Solo Evan le fece dei complimenti sinceri e, in cambio, lei gli diede delle dritte su come migliorare il proprio risultato.

Alla fine della lezione, Lumacorno chiese a Cathy, Evan e Alex di trattenersi qualche minuto. Arrivò così l’invito che tutti loro si aspettavano, la cena degli ‘eletti’ nello studio del professore.

“Pensavo di invitarvi stasera, se siete d’accordo. Ho già avvisato gli altri insegnanti che potreste non cenare in Sala Grande, quindi non preoccupatevi. C’è da mangiare per tutti, gli elfi domestici hanno preparato un assortimento di dolci molto speciale!”

Tutti e tre si leccarono i baffi al solo pensiero. I dolci normalmente non mancavano mai a Hogwarts, se in questo caso erano addirittura ‘speciali’ valeva proprio la pena di assaggiarli. Nessuno dei tre aveva un valido motivo per rifiutare: Lumacorno vide accettata la sua proposta e assegnò – senza ragione alcuna – un’altra manciata di punti a Serpeverde.


All’usuale ora di cena, i tre ragazzi si divisero dal gruppo per raggiungere l’ufficio del loro Direttore. Vera non aveva preso bene la notizia dell’invito nel quale lei non era compresa, pur se aveva cercato di nascondere il suo disappunto. Ufficialmente aveva detto che sarebbe stata una noia per loro, costretti a perdersi la serata con gli amici per cenare con un vecchio insegnante, e che non li invidiava di certo; ma poi, dopo aver girato l’angolo, Cathy l’aveva sentita lamentarsi con Jason dell’ottusità di Lumacorno, il quale avrebbe dovuto invitare per primi dei Purosangue come loro invece di accontentarsi di Mezzosangue qualunque. Anche Evan dovette sentirla, a giudicare da come parlò di lei.

“Vera si vanta tanto del suo essere Purosangue” esordì, “ma non so se si sottoporrebbe a un test per provarlo. Se solo la pozione di mio padre fosse legalizzata… Verrebbero fuori un sacco di bugie”.

Zabini annuì come se fosse già a conoscenza della cosa. “Già. Io non avrei problemi, la mia famiglia è Purosangue praticamente da sempre! Ma sulla madre di Vera si sono dette strane cose in passato… Secondo me hai ragione, avrebbe paura di sottoporsi al test”.

Cathy restò stupita di quanto fosse facile per loro parlare così alle spalle, quando con quella ragazza scherzavano e ridevano tutti i giorni come fossero amiconi, specialmente Alex. Ma di Vera, tutto sommato, le interessava poco.

“Quindi è questo che fa la pozione di tuo padre…” disse a Evan, “Rivela lo stato di sangue!”

“Esatto! Te l’avevo detto che non è pericolosa”. Il ragazzo si animò nell’accorgersi che c’era un’altra persona interessata alla cosa. “Si chiama Pozione Rivelatrice. Basta una goccia del tuo sangue mescolata al filtro per capire quanto di puro c’è in te. È un sistema che non sbaglia mai, l’abbiamo sperimentato più volte”.

“Wow”. La cosa le appariva estremamente interessante, anche se legata alle solite questioni di purezza. La domanda successiva le venne alle labbra spontaneamente: “L’hai provata anche su di te?”

“Certo. Ha rivelato quello che sapevo già, e cioè che sono Mezzosangue. Quasi puro, però, come dice mia madre… Dal suo lato ci sono stati Purosangue per generazioni, finché lei non ha sposato un Mezzosangue. È una delle poche cose che le rimprovero”.

“Che vuoi farci” s’intromise Zabini, “a volte i genitori fanno strane scelte!”

“Ma che cosa state dicendo? Se non si fossero sposati Evan non sarebbe neanche qui adesso!” Quella volta Cathy non riuscì a soprassedere; lamentarsi dei propri genitori davanti a un’orfana, e in più per una ragione tanto stupida, era un gesto intollerabile. “Perché è tanto importante il sangue di un mago, si può sapere? Anche i figli dei Babbani riescono a fare incantesimi… Eliza Williams è la più brava dei Grifondoro!”

Evan e Alex rimasero per un attimo intontiti. Non si erano ancora abituati ai cambiamenti d’umore della loro compagna. “Non è tanto un fatto di bravura, ma di tradizioni” rispose poi Alex, stranamente serio come non l’avevano mai visto. “Anche se mio padre dice che un bravo mago Purosangue riuscirà sempre meglio di uno ugualmente bravo, ma Nato Babbano. Molto dipende dall’esperienza e da quanto si crede in se stessi… E poi, non dimentichiamoci il passato! Se hai sentito qualche lezione di Ruf, avrai visto come ci hanno trattati i Babbani nel Medioevo. Mescolarsi a loro è un insulto alla nostra razza, non dovrebbe mai succedere. Salazar Serpeverde, il fondatore della nostra Casa, era molto severo su questo punto. Con il tempo è cambiato tutto, troppo a mio parere… La scuola si sta babbanizzando”.

“Hai ragione” continuò Evan, ugualmente serio e posato. “Quegli interruttori nelle stanze sono ridicoli, messi lì solo per far sentire a loro agio i figli dei Babbani. E i fantasmi, poi, mandati via dal banchetto di inizio anno per non spaventarli! Invece di metterci tutti sullo stesso piano, non fanno che aumentare le differenze e la nostra intolleranza verso di loro. Sono in una scuola di Magia, devono adeguarsi alla Magia!”

“Vero. Può esserci anche una via di mezzo tra cacciarli dalla scuola e cambiare le nostre abitudini per le loro… Alla Festa della Conciliazione lo dirò!”

Se non altro, non avevano parlato di eliminazione fisica come Teddy le aveva preannunciato e la questione dell’espulsione era stata soltanto sfiorata. Sembravano un po’ meno terribili di quanto Cathy si aspettava, anche se era lontana dal capire le loro motivazioni.

“Ci siamo”. L’arrivo allo studio fece terminare quell’accesa conversazione. Alex bussò e dieci secondi dopo un cordiale Lumacorno gli aprì la porta, nel suo completo migliore con i bottoni dorati sul panciotto. Li invitò a entrare e a raggiungere gli altri; il tavolo, già imbandito con varie e profumate pietanze tra cui troneggiava un grosso tacchino, era occupato da circa una decina di persone, la maggior parte ragazzi del sesto o del settimo anno. I più piccoli erano Teddy e Matthew Adams, seduti l’uno accanto all’altro in evidente imbarazzo; Teddy salutò Cathy con la mano, la quale prese prontamente posto tra lui ed Evan per evitare situazioni spiacevoli.

“Eccoci qui, mancavate soltanto voi! Vi presento i nostri nuovi ospiti, ragazzi: questo è Alexander Zabini, si è già fatto notare nella scuola per il suo carattere – come dire – piuttosto energico... Qui abbiamo anche Evan Gregory, suo padre è il famoso pozionista Gregory che trovate citato nei libri di testo, un mio vecchio e caro amico… E infine, chi non conosce Catherine Scott, la prima studentessa a mettere in crisi il Cappello Parlante! Voi tre dovreste già conoscere Ted Lupin e Matthew Adams, sono del vostro anno. Quanto agli altri, sono un po’ più grandi di voi, ma qui non facciamo differenze….”

Seguì una lunga serie di strette di mano e nomi che Cathy dimenticò dopo due secondi, e molto probabilmente anche Alex ed Evan. Fu un sollievo terminare le presentazioni e dedicarsi finalmente al tacchino, reso ancora più squisito dall’attesa.

“Delizioso, vero? Stavamo giusto parlando degli assenti di stasera, che si sono persi una piacevole chiacchierata… Ma non importa, abbiamo abbastanza ospiti per non sentire la loro mancanza! Allora, Alex, dicci un po’… Come sta tua zia?”

“Molto bene, signore” Zabini riuscì ad ingoiare il boccone giusto in tempo per rispondere a Lumacorno. “Le ho fatto visita quest’estate e sembrava proprio ringiovanita. Dice che la sua Pozione Antirughe fa miracoli!”

Lumacorno rise sotto i lunghi baffi d’argento. “Come sempre troppo buona, davvero! È che la sua bellezza è tale da non poter essere scalfita neppure dagli anni! E a proposito di pozioni, Evan… Che mi dici di tuo padre? Non lo sento da un po’ di tempo, strano da parte sua!”

“In effetti, non sta molto bene”. Il rumore di forchette si arrestò per un attimo e tutti guardarono il ragazzo: chiunque si sarebbe aspettato una risposta di circostanza.

“Oh, mi dispiace immensamente… Come mai, che cos’ha?”

“È depresso, signore. L’ultima sconfitta gli ha tolto ogni fiducia nel suo lavoro. Io e mia madre facciamo di tutto per tirarlo su, ma c’è solo una cosa che potrebbe farlo star meglio. Se solo lei potesse aiutarlo, ecco, gliene saremmo davvero grati…”

Ora Cathy aveva capito dove volesse andare a parare: aveva preparato quel discorso da giorni, in attesa di quella domanda di rito, per portare la conversazione sul brevetto.

“Io? Ma certo, caro, se posso fare qualcosa…”

“Dovrebbe brevettare la Pozione Rivelatrice”. Quella volta, il silenzio divenne totale e tutti gli occhi, in primis quelli spalancati di Lumacorno, si puntarono su quell’audace ragazzino.

“Ah… Beh, forse non sai che ho già dato il mio appoggio, ma non posso fare altro che questo. Purtroppo non dipende solo da me, ci sono altri membri del Consiglio che…”

“Lo so cosa credono gli altri membri. Ma lei, con la sua influenza, può sicuramente convincerli che la Pozione Rivelatrice non è affatto pericolosa e può essere molto utile. L’abbiamo provata, non farebbe male neppure a un insetto!”

“Non esistono solo i pericoli fisici, Gregory. Ci sono anche quelli di pensiero, che sono forse i peggiori. Il professor Young non ha tutti i torti nel dire che quella pozione potrebbe far risorgere un senso di superiorità che combattiamo da undici anni. Non è certamente colpa di tuo padre, ma purtroppo è già successo. Sappiamo tutti quali conseguenze ha portato”.

“Quindi la pensa come Young, è questo il problema. Ha finto di stare dalla parte di mio padre e invece è come tutti gli altri!” Evan si stava dimostrando un perfetto avvocato difensore, forse dimenticandosi di avere davanti un insegnante. Quella volta Lumacorno non rispose con gentilezza: si alzò dalla sedia e abbassò lo sguardo torvo verso di lui, come a ribadire la differenza tra le loro posizioni.

“Ascoltami bene, ragazzo” lo ammonì, “questo non è né il momento né il luogo per certi discorsi. Tuo padre sa bene quanto io ammiri il suo lavoro e sa anche che ho fatto del mio meglio perché quella pozione venisse accettata. In più, ha convenuto con me che dopo l’incidente di quest’estate non è proprio il caso di rischiare ancora. Quanto a te, non dimenticare che sei solo uno studente e certe cose non ti competono”.

“Questo lo so, signore”. Evan capì che si stava spingendo troppo oltre e cercò di rimediare, chiamandolo di nuovo ‘signore’. “Ma…”

“Basta così, Gregory. Non costringermi a prendere provvedimenti spiacevoli”.

Lumacorno tornò a sedersi per finire la sua cena e tutti i ragazzi a poco a poco lo imitarono. Subito dopo, il professore interrogò Teddy su Harry Potter per sviare il discorso, ma l’atmosfera era irrimediabilmente cambiata. Persino l’entusiasmo di Lupin risultò ammorbidito a causa della tensione.

Si salutarono un’ora dopo, in netto anticipo – secondo i ragazzi più grandi – rispetto all’usuale durata di quelle cene. Incredibilmente, Cathy non era stata interpellata neanche una volta, forse perché c’era poco da chiederle o perché la sua vicinanza a Evan aveva scoraggiato Lumacorno. In ogni caso, per lei era meglio così; la ragazzina ebbe un sacco di tempo per riflettere su tutte le questioni che si erano sollevate quella sera. In particolare, quando il professore aveva citato un certo incidente estivo, le sembrava di aver già sentito qualcosa del genere legato a una pozione. Fu un attimo: i tasselli si riunirono l’un con l’altro in maniera apparentemente perfetta. Cathy si bloccò sul posto, fino a quando Evan e Alex si accorsero che non stava più camminando con loro e si voltarono all’indietro, perplessi.

“Il Cappello!” gridò, con il rischio che tutta la scuola la sentisse. “L’incidente! È così che è andata, vero? È stata la Pozione Rivelatrice a cadere sul Cappello Parlante, rendendolo quello che è adesso!”

“Sì…” Evan confermò, sotto lo sguardo indagatore e visibilmente sconvolto di Cathy. “Come l’hai capito?”

Lei gli andò più vicino e questa volta sussurrò, in modo che solo lui e nessun altro potesse udirla: “Evan, c’è una cosa che ti devo dire”.

*

“È successo nello studio del Preside. Erano tutti lì riuniti a discutere della pozione: mio padre, Lumacorno, Vitious, la McGranitt e Young. Il Preside la stava esaminando in una provetta, mentre Young continuava a sbraitare e a dire che quel filtro non doveva essere assolutamente accettato. Lui non avrebbe mai cambiato idea, ma mio padre sperava che una buona parola di Vitious servisse almeno ad ammorbidirlo. Purtroppo non ha fatto neanche in tempo a dire la sua che è avvenuto l’incidente: Young si è infervorato così tanto contro mio padre che ha fatto cadere la provetta, senza accorgersi che il Cappello Parlante era proprio lì sotto. Se c’è qualcuno che dovrebbe essere espulso è proprio lui!”

Evan e Cathy avevano aspettato fino a tardi per parlare da soli in sala comune, ignorando le lamentele di Alex che sperava di essere ammesso alla riunione. Purtroppo per lui, le questioni da discutere erano troppo private perché entrambi se la sentissero di includerlo. Alla fine, con un ultimo sbuffo si era deciso ad andare a letto, borbottando qualcosa su quanto fosse stupido tenere dei segreti.

“Nessuno si aspettava una cosa del genere” continuò Evan, questa volta sorridendo. “Il Cappello che riesce a riconoscere il sangue dei maghi… È incredibile! Prova ancora una volta che la pozione funziona perfettamente!”

“Quindi, tu dici che aveva ragione? Ha visto davvero del sangue Grifondoro dentro di me?”

“Certo che aveva ragione! Sicuramente hai qualche parente Grifondoro e lui è riuscito a leggerlo… È fantastico, davvero. Nemmeno mio padre si sarebbe aspettato un tale risultato!”

Era difficile dire chi dei due fosse più entusiasta. Se Evan aveva ottenuto una conferma in più sull’efficienza di quella pozione, Cathy aveva adesso una certezza, seppur piccola, sulle sue origini. Gli occhi di lei si spostarono frenetici dal fuoco alle pareti buie della stanza, percorrendo pensieri e idee insondabili per chiunque. Infine si soffermarono su Evan, contemplandolo come un inaspettato regalo da scartare.

“Ascolta” gli disse, “credi che potrei, in qualche modo… Provare anch’io la Pozione Rivelatrice?”

Evan si mostrò incredulo e la sua esaltazione ebbe un brusco calo. “Davvero vorresti? Non lo so, è difficile… Dopo l’incidente ci è stato vietato di farla entrare a scuola. E poi, tu non eri quella disinteressata allo stato di sangue?”

Cathy rispose alla provocazione con un sorriso furbo. “Dicevo solo che non è importante, non che non sono curiosa di scoprire il mio. E poi sarebbe un altro indizio verso la mia famiglia… Ti prego, ci sarà sicuramente qualcosa che puoi fare! Chiedila in prestito a tuo padre!”

“Non voglio metterlo nei guai…”

“E allora prendine un po’ senza che se ne accorga! Tornerai a casa per Natale, no?”

“Ehi, vacci piano!” Evan adesso era quasi spaventato dalla sua irruenza. “Farò quello che posso, va bene? Ma non voglio rischiare più del necessario. Certo che ci tieni proprio tanto a toglierti questa ‘curiosità’, vista la tua insistenza…”

Cathy sospirò, certa che lui non potesse capirla. Per anni aveva cercato briciole di verità sul suo passato, abituata all’idea di non poter chiedere di più, e quando le capitava un’occasione era disposta a tutto pur di non lasciarsela scappare.

“Vorrei solo sapere qualcosa in più sui miei genitori. Erano un mago e una strega, ma non so neppure se sono vivi o morti… I Purosangue sono diventati rari ormai, non è così? Se io lo fossi, per esempio, avrei qualche possibilità in più di scoprire chi erano”.

“Forse” ammise Evan, ma il tono tradì le sue perplessità. “Ma non è più semplice cominciare dal tuo cognome? Ci sono vari libri in biblioteca che elencano le famiglie magiche, dal Medioevo fino a…”

Ma dilungarsi sui contenuti e l’accuratezza di quei libri non serviva a nulla: Cathy stava già scuotendo la testa. “Il mio cognome non significa niente” spiegò. “L’hanno scelto all’orfanotrofio in maniera casuale, un po’ come in Oliver Twist, hai presente?”

“Ehm… No. Non lo conosco, è un ragazzo famoso?”

Cathy sospirò una seconda volta. “Sì, ma solo tra i Babbani che leggono. Non importa”.

Evan si rilassò sul divano fissando il soffitto, in maniera apparentemente pensierosa. Iniziava a formulare a sua volta le ipotesi più disparate su chi fosse davvero la ragazza che aveva davanti. Nel frattempo, la grande pendola scandiva le ore ormai successive alla mezzanotte. Nessuno dei due aveva voglia di andare a letto.

“Dimmi qualcosa della tua famiglia” gli chiese lei, cogliendolo di nuovo impreparato. Evan si alzò a sedere.

“C’è poco da dire. Di mio padre già sai, mentre mia madre appartiene a una di quelle famiglie Purosangue citate nei libri. Si chiama Helena Rosier”.

Cathy gli credette sulla parola, ma un qualsiasi cognome per lei non avrebbe fatto differenza. “Hai detto che tuo nonno era un Mangiamorte. Parlavi del padre di tua madre?”

“Sì”. Evan aveva risposto senza esitazione. “Si chiamava Evan, proprio come me. È morto durante un attacco degli Auror quando mia madre era ancora una bambina. Da quel momento, lei ha sempre detestato la guerra, non ha voluto saperne di schierarsi da nessuna delle due parti e ha tenuto me lontano da quella gente. Forse è grazie a lei che ho smesso di chiedermi chi ha ragione e chi no… Uccidere è sempre sbagliato, che lo faccia un Mangiamorte come uno del Ministero”.

Quel ragazzo aveva qualcosa, nel modo di parlare, che riusciva sempre a farsi dare ragione. Se Cathy avesse dovuto scegliere una verità assoluta, tra tutte le opinioni che aveva ascoltato nelle sue due Case, sarebbe stata sicuramente quella.

“Ehi!” Un rumore improvviso proveniente dal dormitorio femminile fece sobbalzare entrambi. Sembrava che qualcosa di molto pesante fosse crollato sul pavimento. “Cos’è stato?”

Un attimo dopo, un micio nero dai grandi occhi gialli spinse la porta e irruppe nella stanza, raggiungendo con un balzo le gambe di Cathy. Ancora una volta sembrava confuso e spaventato.

“È solo Harry che fa disastri! Si comporta in maniera strana ultimamente, forse questa sala comune non gli piace… E prima che tu me lo chieda” aggiunse, dato che Evan stava per aprire bocca “sì, si chiama così in onore di Potter”.

“Potter… Buffo, stavo pensando proprio a lui”.

“A lui? Perché?”

Il ragazzo prese a fissarla con aria strana, quasi guardinga. Sembrava che la stesse osservando per darle una valutazione finale e, in quel momento, le ricordò molto l’uomo buono durante i loro primi incontri. La differenza stava nel fatto che Evan non la considerava degna di valore quanto un tappo di sughero.

“Allora?” lo incalzò, stufa di quell’attesa.

“Niente, sembra che tu abbia molto in comune con lui”.

Quell’idea le appariva del tutto nuova. Non aveva mai realmente pensato che qualcosa potesse accomunare un’anonima orfana con il famosissimo, eroico e pluri-acclamato Harry Potter.

“Sul serio?” gli chiese.

“Be’, pensaci. Tu sei stata divisa tra Grifondoro e Serpeverde, primo caso al mondo in cui il Cappello non se l’è sentita di decidere. E sai chi, nonostante fosse Grifondoro, aveva un sacco di qualità in comune con i Serpeverde quando era a scuola? Proprio Harry Potter. Un tempo si diceva che fosse l’erede di Serpeverde in persona, parlava persino con i serpenti…”

“Cosa? Ma anch’io parlo con i serpenti!”

Dopo quella frase, Evan restò letteralmente a bocca aperta. “Stai scherzando? Vuoi dire che parli il Serpentese?!”

“Non lo so… Parlo con loro come con tutti gli animali, riescono a capirmi. Ai serpenti però dico di andare via, non mi piacciono molto e ho paura che mi mordano”.

“Ah, ho capito”. Evan tornò a mostrarsi tranquillo dopo quella spiegazione, e ciò fece intuire a Cathy che il suo modo di parlare con i serpenti non era eccezionale come quello di Potter. “Comunque, non è solo questo che vi accomuna. Tutti e due siete orfani, famosi a scuola fin dal primo giorno per qualcosa che non dipende da voi, e ora che ci faccio caso vi assomigliate pure!”

“Io gli somiglio? Tu dici?”

“Già. Hai capito a cosa sto pensando, vero?”

Il cuore di Cathy ebbe un tuffo. Aveva capito, ma le sembrava assurdo il solo ipotizzarlo. “Che potrei essere sua figlia” sussurrò.

“Esatto. Hai una bacchetta di fenice speciale, vero? Ce l’aveva anche lui. Poi mi hai detto che vi siete incontrati, è stato gentile con te e tu hai dato il suo nome al gatto. Magari non sono solo coincidenze”.

Cathy non sapeva cosa dire, cosa pensare, cosa sperare. L’idea di essere sua figlia le sembrava improvvisamente la più bella del mondo. Possibile che lui lo sapesse, e che per questo fosse stato tanto gentile con lei? Possibile che anche Teddy ne fosse a conoscenza, e che per questo motivo fosse così geloso? Forse il loro incontro non era stato un caso, era dovuto al destino. Ripensò a quando Harry le aveva detto che si ricordava di lei… O a quando, nel negozio di Olivander, era rimasto lì a consolarla piuttosto che correre fuori a rincuorare Teddy. Gli indizi a favore non mancavano, eppure ce n’erano altrettanti contro. Purtroppo.

“Non può essere” decretò infine, accarezzando quel gatto che la legava così tanto a lui. “Era a Diagon Alley solo per accompagnare Teddy ai negozi. E poi, se così fosse e se lui lo sapesse, perché non dirmelo? Perché lasciarmi sola in un orfanotrofio Babbano per undici anni? No, Evan, ti sbagli sicuramente… Se fosse suo quel sangue Grifondoro, mi avrebbe sicuramente trasmesso le sue capacità. Invece Harry è bravissimo a volare e io faccio pena”.

Lentamente, in un gesto che non ripeteva da molto tempo, tirò fuori dalla tasca la figurina delle Cioccorane che aveva scartato sul treno. Da quel giorno l’aveva portata sempre con sé, come se in qualche modo la vicinanza di Harry Potter riuscisse a rasserenarla. Tornò a guardare la sua immagine esattamente come quella volta, e si stupì nel notare quanto quel sorriso sembrava ora simile al proprio.

“Qualcosa avrai preso anche da tua madre” continuò Evan, nel frattempo. “Se sei davvero la figlia di Potter, è probabile che non ti abbia avuta da sua moglie, altrimenti non avrebbero avuto motivo di nasconderti. Sai, avere un figlio da un’altra donna potrebbe distruggere l’immagine perfetta che tutti abbiamo di lui. Quando è nata Vera, girava voce che sua madre si fosse unita a un Babbano e che poi avesse fatto finta di niente, mentendo a suo marito. Con il tempo quell’ipotesi è caduta per mancanza di prove, ma secondo mia madre i Wilkinson sono usciti molto danneggiati da questa storia. Pensa se una cosa del genere fosse successa proprio a Harry Potter, l’eroe, di cui abbiamo una targa enorme nella sala dei trofei… Neppure con tutto il suo coraggio se la sentirebbe di farla uscire fuori”.

Quella teoria rendeva più plausibile il fatto che fosse cresciuta in orfanotrofio, ma d’altra parte rovinava la sua idea di Harry. Se davvero teneva così tanto alla propria immagine pubblica, al punto di rinunciare a sua figlia, era molto diverso dall’uomo che voleva sembrare. Il suo, anzi, le appariva un gesto vigliacco e meschino.

“Spero che non sia così” disse. “Non è bello che un padre si vergogni di sua figlia”.

“Magari mi sbaglio, dai. Può darsi che non sappia neanche di avere un’altra figlia. Se riesco a procurarmi la Pozione Rivelatrice sapremo qualcosa di più… E chissà, magari quando lo rivedi potrai chiederglielo direttamente”.

Evan, pensò Cathy, doveva essere totalmente impazzito. Metteva in dubbio che Harry potesse sapere di lei, ma non il fatto che fosse realmente suo padre. E le sue ipotesi, per quanto interessanti, non potevano dare alcuna certezza. Improvvisamente, realizzò quale fosse la prima cosa da fare: evitare di mettersi nei guai con una teoria del tutto campata in aria.

“Senti” lo avvertì, seria, “non so se hai ragione, potrebbe essere come dici, ma potremmo anche sbagliarci. Non ne parlare con nessuno, ok? Non voglio che questo discorso esca fuori. Me lo prometti?”

“Certo, te lo prometto” le assicurò lui, senza tentennamenti. “Ma perché hai tanta paura, in fondo sono solo ipotesi…”

“Perché c’è qualcuno che mi odierebbe se lo venisse a sapere. Ho fatto tanta fatica a diventargli amica, non voglio rovinare tutto”.

Evan annuì, comprendendo ogni cosa in un lampo. “Ted Lupin” affermò, come se stesse pronunciando qualcosa di piuttosto sgradevole.

“Già. Lo so che non ti piace, ma non dirgli niente, ti prego. Ci siamo già messi abbastanza nei guai con lui e Jason”.

Evan decise di obbedirle praticamente subito: restò in silenzio. Fuori, intanto, il colore dell’acqua del lago era diventato più luminoso grazie alle prime luci dell’alba. Ancora una volta, nessuno se la sentiva di andare a letto. Cathy arrivò alla conclusione che per quella notte la lampada non sarebbe servita.

“Io sono sicuro che qualcosa di speciale ce l’hai” disse improvvisamente lui, distogliendola da pensieri sempre più fitti. “Lo pensavo già prima, ma quello che mi hai raccontato dello Smistamento me l’ha confermato. Se il Cappello non se l’è sentita di smistarti c’è una ragione, anche se non sappiamo quale sia. Forse diventerai una strega molto potente, e a seconda della Casa che sceglierai potresti esserlo in modo diverso. Mi raccomando, decidi bene quando sarà il momento! Non voglio che Serpeverde perda una come te”.

Cathy arrossì, e per una volta ringraziò la penombra che nascondeva le sue emozioni. Che cosa stupida credere che lei fosse speciale, e che potesse diventare una strega potente quando neppure gli incantesimi più elementari le riuscivano bene. E ancor più stupido era supporre che fosse figlia di Harry Potter, il mago più noto e stimato dell’intera Gran Bretagna. Sciocco almeno quanto immaginare se stessa stretta a lui, a cavallo di una scopa, sopra le nuvole più alte, dove nessuno poteva vederli.


Note

Questa volta ce l'ho fatta, sono riuscita ad aggiornare nel mese canonico! E ho smesso di aggiungere interrogativi per darvi finalmente qualche risposta, in primis sul Cappello e sulla Pozione Rivelatrice. Quello che non ho ancora svelato sono chiaramente le origini di Cathy, anche se Evan ha avuto un'intuizione piuttosto curiosa. Nell'ultima parte ho voluto specificare che Cathy si rende conto di quanto quell'ipotesi non sia solida, ma una parte di lei vuole crederci, perché Harry l'ha colpita dal primo momento e sa che sarebbe bellissimo essere proprio sua figlia. Se sia vero o no e quali conseguenze porterà lo scoprirete tra qualche capitolo. Grazie sempre per la pazienza!

Ah, mi sono accorta solo ora - visto che di solito non rileggo i capitoli già pubblicati - che qualcuno ha messo "mi piace" alle pagine! Non so chi l'abbia fatto ma ne approfitto per estendere i ringraziamenti anche a voi ^^ A presto!

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Capitolo 15
*** La vendetta di Vera ***


15


Nei giorni seguenti, Catherine Scott divenne a tutti gli effetti irriconoscibile. Durante le lezioni era sempre distratta, preda di un’aria sognante che non le era mai appartenuta, e quando gli insegnanti la riprendevano per questo suo comportamento rispondeva con delle scuse e un sorriso. Sorrideva a molti e molto di più, in effetti; le malignità di Vera non riuscivano a sfiorarla, si mostrava dolce e disponibile con tutti i compagni e Maggie arrivò persino a dire che la convivenza con i Serpeverde le aveva giovato. Nel dormitorio iniziò a spargersi la voce che si fosse innamorata, probabilmente di un certo H. che si trovava sempre più spesso annotato sulle sue pergamene. Cathy non confermò e non smentì queste teorie, divertendosi a scoprire fin dove sarebbero arrivate. Nel frattempo, passava molto più tempo davanti allo specchio della sua camera, pettinando i lunghi capelli già perfettamente lisci e lasciando Vera e Pamela a rodersi nei propri dubbi.

“Non è Evan” diceva qualche volta Pamela alla sua amica. “Non inizia per H”. Allorché Vera rispondeva con una smorfia, sostenendo che di chiunque si fosse innamorata Cathy non le importava nulla. Poi però non perdeva occasione per sminuirla davanti agli altri, che fosse per il suo essere orfana o per le sue scarse conoscenze magiche. Soprattutto, cercava in ogni modo di allontanare Evan da lei e di coinvolgerlo nelle proprie scorribande, tentativi che però riscuotevano sempre meno successo.

Ma la verità, il solo e reale motivo di quei cambiamenti così drastici, era molto diversa da quella che tutti immaginavano. Risiedeva nella sua anima ed era sì un amore, ma un amore speciale, verso un uomo che considerava ogni giorno di più suo padre. Per quanto all’inizio avesse cercato di mantenere i piedi per terra, ripetendosi che non aveva alcuna prova per ciò che pensava, alla fine i suoi desideri avevano avuto la meglio sulla razionalità, e a poco a poco ogni minimo dettaglio era diventato ai suoi occhi una prova schiacciante.

“Gli assomiglio” ripeteva davanti al proprio riflesso, assumendo tutte le posizioni e le espressioni facciali che sembravano ricordare quelle di Potter. “Evan ha ragione, gli assomiglio!” Poi correva dal suo gatto e lo stritolava tra le braccia, accontentandosi di un semplice omonimo di chi davvero avrebbe voluto abbracciare. Di notte, Harry faceva sempre più spesso capolino nei suoi sogni, dicendole che era una bambina bellissima e chiedendole di perdonarlo per il suo abbandono. Cathy lo perdonava ogni volta, andava a vivere con la sua famiglia e finiva per essere benvoluta da tutti. Al mattino, le sembrava di sentire ancora quei capelli neri e scompigliati che le solleticavano le guance.

Eppure, ogni ossessione ha i suoi svantaggi e quella di Cathy non faceva eccezione. Per l’intero mese dimenticò completamente di scrivere a Catherine, l’unica persona che realmente le era stata accanto tutta la vita, e che passava i giorni in attesa di vedere un gufo volare su Londra. La ragazzina sapeva di essere importante per lei, ma non fino a che punto; quando pensava a Catherine non la immaginava di certo accanto a una finestra, incantata a fissare un cielo grigio, con una tazza di tè tra le mani che non riusciva a scaldarla. E non immaginava neppure che Bennett, passandole accanto, le dicesse con tono paterno: “Ti avevo avvisata, Catherine. Non sei sua madre. Non dovevi legarti così tanto a quella bambina”.

Anche l’uomo buono ebbe di che lamentarsi per le lettere sempre più rare e smilze di Cathy. Non perse tempo però a metterla in guardia, ricordandole che si trovava in quella scuola grazie a lui e che con uno schiocco di dita poteva riportarsela indietro. La ragazzina fu così costretta a dargli maggior considerazione, ma decise – e fu molto risoluta su questo – di non parlargli assolutamente di Harry Potter. Qualunque cosa le avesse risposto poteva non essere la verità, e quella volta non era proprio disposta a veder crollare i suoi sogni per colpa di un vecchio intrattabile.

In realtà, quando Cathy prendeva in mano una pergamena, iniziava quasi sempre a scrivere le stesse due parole: Caro Harry. Poi restava imbambolata per un paio di minuti, giocherellava con la piuma e infine accartocciava la lettera per buttarla via, incapace di mettere su carta ciò che si portava dentro. Un paio di volte rischiò che Teddy la scoprisse, e almeno in quelle occasioni ritrovò la lucidità necessaria per accampare una scusa. Il loro rapporto si era mantenuto piuttosto amichevole dopo il suo trasferimento dai Serpeverde, e questo, in aggiunta a tutto il resto, la rendeva felice; non voleva che scoprisse la verità, almeno finché non ne avesse avuta assoluta certezza. I loro litigi erano un lontano ricordo che ancora la infastidiva, soprattutto considerando che Teddy era la persona più vicina a Harry Potter che conoscesse.

Ma ogni sogno, anche il più bello, prima o poi ha una fine, e quello di Cathy finì con un brusco risveglio. Accadde in un pomeriggio come tanti, durante l’intervallo tra Incantesimi e Trasfigurazione, quando per ironia della sorte i Grifondoro e i Serpeverde del primo anno sedevano nella stessa aula. Varcato l’ingresso, Cathy ed Evan furono immediatamente raggiunti da risate più acute del solito, provenienti soprattutto dal banco di Pamela e Vera.

“Ma guarda chi si vede…” l’apostrofò quest’ultima, con un guizzo maligno negli occhi come non si era mai visto. “La figlia segreta di Harry Potter! Proprio non riesci a non stare al centro dell’attenzione, eh, Serpedoro?”

Cathy avvampò, furiosa e atterrita al tempo stesso, mentre Vera le porgeva una copia ripiegata del Settimanale delle Streghe. Glielo strappò via dalle mani, sentendosi addosso gli sguardi di tutta la stanza, e con gli occhi corse al titolo che aveva suscitato tanta ilarità: La figlia segreta di Harry Potter, di Rita Skeeter, che occupava quasi l’intera pagina della rubrica Indiscrezioni & Sortilegi.


Ancora una volta la scuola di Hogwarts torna a far parlare di sé. Dopo il clamoroso flop del Cappello Parlante durante lo scorso Smistamento, Catherine Scott, undici anni, prima studentessa al mondo ad essere divisa tra due Case, rivela una scioccante verità: Harry Potter è mio padre, il Cappello ha visto il suo sangue dentro di me. La bambina, cresciuta in un orfanotrofio babbano e dalle origini finora sconosciute, ha mostrato fin da subito un temperamento fuori dal comune, arrogante e poco incline alla socializzazione. Questo potrebbe sembrare solo il suo ennesimo tentativo di mettersi in mostra, se non fosse supportato da una quantità di prove a dir poco esorbitante.

“Porta sempre in tasca una sua figurina” dichiara Pamela Loogan, una graziosa coetanea Serpeverde “e ha chiamato il suo gatto Harry. Pare che si siano incontrati a Diagon Alley e che lui l’abbia riconosciuta”. Aggiunge poi un’altra compagna, Vera Wilkinson: “Quando è arrivata pensavamo che fosse un po’ matta. Poi abbiamo saputo dell’incidente al Cappello e abbiamo dovuto darle ragione: è davvero la figlia di Potter!”

Sì, perché la prova più schiacciante che sta alla base di questa teoria è ben lontana da un innocente gruppo di ragazzi, e trova radici tra le alte sfere di Hogwarts e del Ministero. A causare il malfunzionamento del Cappello Parlante è stato infatti un filtro ancora in fase sperimentale, denominato Pozione Rivelatrice, in grado di rivelare lo stato di sangue di un mago con una semplice goccia. Incidente messo immediatamente a tacere dalla scuola e dal gruppo di esperti che avrebbero dovuto rilasciare il brevetto, per cause non difficili da immaginare – ricordiamo quanto la questione classista dei maghi Purosangue fosse cruciale durante il dominio di Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato. Il Ministero dovrà ora rispondere di questa scioccante verità e di come la pericolosa pozione possa essere entrata nella scuola, venendo a contatto proprio con l’oggetto più tradizionale e critico di Hogwarts. Intanto, le circostanze sembrano favorire Catherine Scott, che resta libera di dare credito al Cappello e fantasticare sul suo oscuro passato.

Quanto a Harry Potter, il Bambino Sopravvissuto, eroe del mondo magico dopo la vittoria del 1998 e attuale Capo del Dipartimento Auror al Ministero, è certamente tra i maghi più noti al mondo. Ci si domanda ora quanto di ciò che sappiamo di lui sia vero e quanto invece sia una proverbiale bugia, nascosta sotto la facciata impeccabile di marito e padre di tre bambini. Se davvero la piccola Scott è sua figlia, chi è la donna con cui l’ha concepita, costretta a nasconderla in un orfanotrofio per proteggere l’immagine di Potter? Certamente non Ginevra Weasley, sua moglie, che non avrebbe avuto motivo di ricorrere a un tale gesto. Forse Hermione Granger, sua ex fidanzata ai tempi del Torneo Tremaghi, con cui ha combattuto fianco a fianco fino alla fine della guerra? Oppure Cho Chang, altra ex ragazza dei tempi della scuola, attualmente sposata con un uomo babbano? Domande che restano per il momento aperte, dato che il signor Potter si è rifiutato di rilasciarci un’intervista. Il suo silenzio non fa che aumentare i nostri dubbi, e dà, ancora una volta, ragione a Catherine Scott, la misteriosa e ambigua ragazzina che ha fatto della fama uno stile di vita.


Scorse quelle righe con gli occhi più e più volte, stentando a credere che fosse tutto vero. Misteriosa e ambigua? Poco incline alla socializzazione e in cerca di notorietà? Sembrava quasi che l’articolo parlasse di un’altra persona, una che condivideva con lei solo il nome e qualche dettaglio. Non riuscì ad aprire bocca, subendo ancora le risate malevole delle sue compagne ma senza realmente sentirle. Evan, che aveva letto la rivista dietro di lei, era bianco come un lenzuolo.

“Ehi, che succede qui?” Maggie intanto aveva notato il chiacchiericcio e si era avvicinata, tra lo stupore dei Serpeverde che sembravano non aver mai visto una Grifondoro a meno di cinque metri di distanza. Dopo di lei, anche Eliza si fece coraggio e tentò di capire cosa stesse succedendo.

“Solo uno scoop di Rita Skeeter” disse Vera, che dall’euforia si concesse di parlare con Maggie e le passò sottobanco l’articolo. La ragazza s’illuminò.

“Davvero? Oh, io adoro Rita!”

“Come sarebbe a dire l’adori?!” Anche Samuel Collins era improvvisamente sbucato dal nulla. “Scrive solo una marea di fandonie!”

“Lo so” gli rispose candidamente Maggie “ma lo fa maledettamente bene! L’avete letto quello su Celestina Warbeck l’anno scorso? Sembrava uscito da un romanzo rosa, ma decisamente più credibile! Dicono che si sia sposata almeno quattro volte, e che ciascuno dei suoi mariti sia…”

“Basta, Maggie, falla finita!” Quell’inaspettato grido di protesta ammutolì di colpo l’intera classe. Incredibile a dirsi, proveniva proprio da Eliza Williams, la ragazza normalmente più silenziosa e mansueta tra i primini di Hogwarts. Fu l’unica ad accorgersi dello stato in cui si trovava Cathy, e si fece strada nel gruppo per domandarle se si sentisse bene. La sua amica non rispose; passò in rassegna i numerosi volti che la circondavano, notando che i Grifondoro del primo anno erano al completo ad eccezione di Teddy, e poi, con uno scatto quasi violento, si voltò indietro, lasciandosi andare a un grido disperato: “Me l’avevi promesso!”

Evan non capì, non subito. Era talmente stravolto da tutto ciò che aveva letto che non credeva possibile di esserne addirittura accusato. Ma poi, gli occhi fiammeggianti di Cathy gli ricordarono che era l’unico a condividere con lei quel segreto, e che questo faceva di lui il peggior indiziato. Non fece in tempo a rispondere, a dirle che non c’entrava niente; Cathy fece dietrofront e corse via, fuori dall’aula, incrociando una sconvolta McGranitt che entrava in quel momento dalla porta. A nulla valsero i tentativi dell’insegnante di richiamarla indietro, né di impedire che Evan la seguisse nel tumulto generale, disposto a perdersi la lezione pur di dichiarare la sua innocenza.

“Non sono stato io!” Lo gridò più e più volte, rincorrendo Cathy sulle scale magiche del castello che prendevano ogni volta una direzione diversa, e faticando per questo a seguire i suoi spostamenti. “Quell’articolo è un bel problema anche per me! Mio padre mi ucciderà quando verrà a saperlo… Credi che sarei stato così stupido da metterlo nei guai? Quella Skeeter è una iena, ti ha usata per tirare in ballo la scuola e il Ministero! Se scopro chi è stato, io…”

La ragazza si fermò finalmente per tirare il fiato. Lasciò che Evan la raggiungesse, non si voltò a guardarlo e neppure gridò, ma la calma gelida della sua voce atterrì anche due anziani maghi nei ritratti: “Solo tu lo sapevi. Non lo avevo detto a nessun altro, nessuno. La teoria su Harry l’abbiamo elaborata insieme, non ho mai detto che il Cappello ha visto il suo sangue dentro di me. E della figurina che mi dici? Nessuno a parte te l’aveva vista!”

“Lo so, sono sorpreso anch’io. Forse qualcuno ci ha sentiti parlare... Deve aver spifferato qualcosa in giro, sarà arrivato in qualche modo a Rita Skeeter e poi lei ci ha ricamato sopra”.

“Non c’era nessun altro!” Cathy gridò di nuovo, e questa volta Evan fece automaticamente un passo indietro. Nello stesso istante, sembrò che un terremoto improvviso stesse facendo tremare il castello: il pavimento vibrò sotto i loro piedi e le enormi cornici oscillarono pericolosamente. Non erano scosse particolarmente forti, ma perdurarono per diversi istanti. Entrambi si appoggiarono con la schiena a una parete spoglia.

“Forse sì… Quella sera abbiamo sentito un rumore, ricordi? Forse non era il tuo gatto”. Il ragazzo era visibilmente spaventato, ma non fuggì e non smise di parlarle. Sembrava aver capito che quell’inaspettato sisma non era casuale. “Io scommetto che è stata Vera! È gelosa di te dal giorno che sei arrivata”.

“Gelosa?” Cathy non ci aveva mai pensato. “È per questo che non mi sopporta?”

“Già. Non dirmi che non lo sapevi…”

“No” rispose subito lei. “Non vedo perché dovrebbe, a scuola sono un disastro e dividermi tra due Case non mi ha aiutata neanche un po’”.

“Be’…” Evan abbassò lo sguardo e, inaspettatamente, arrossì. “Credo di essere io il problema. Vedi, Vera piace a tutti: ad Alex, a Pamela, persino ai ragazzi degli altri anni. E proprio ieri Jason mi ha confessato di avere una cotta per lei. Sono l’unico che preferisce te, e questo lei non lo sopporta”.

Cathy non replicò, ma le scosse di terremoto si interruppero. In lontananza, si sentirono voci concitate che commentavano l’accaduto.

“Sei…” Evan avrebbe voluto tacere, ma la curiosità ebbe la meglio sulla prudenza. “Sei stata tu?”

La ragazza lo guardò finalmente negli occhi, di nuovo calma e di nuovo infelice. “Forse. Ero molto arrabbiata. Scusa”.

“Non fa niente. Comunque non preoccuparti, se la colpa è di Vera lo scopriremo. Ora che ci penso, ha anche una sorella più grande che lavora per quel giornale… Sì, sarebbe stato fin troppo facile per lei. Le daremo una bella lezione”.

Ma Cathy non stava pensando a Vera, né a un possibile modo per vendicarsi. Era triste, afflitta come non si era mai sentita, perché sapeva cosa sarebbe successo di lì a poco e sapeva anche di non poterlo evitare.

“Lui mi odierà” sussurrò, come se dirlo a voce alta potesse renderlo ancora più reale e terribile. “Non mi crederà mai, penserà che sono stata io a rilasciare quell’intervista. Ha sempre creduto che sono arrogante e voglio trovarmi al centro dell’attenzione, proprio come dice quella Skeeter. E soprattutto che voglio rubare il suo Harry…”

“Se è così, allora non ti conosce. Al tuo posto non mi farei tanti problemi a lasciarlo perdere”. Come ogni volta in cui si parlava di Ted, Evan si accigliò. Cathy realizzò definitivamente che era la persona meno adatta a cui chiedere consigli, per lo meno in quell’ambito. Così, lasciò che una preoccupazione dopo l’altra si facesse spazio nella sua testa, ciascuna più terribile della precedente, finché non sopraggiunse qualcuno a salvarla da quell’angoscia. La professoressa Holland, sbucata improvvisamente da un angolo e sconvolta come non si era mai vista, corse incontro ai ragazzi e se li strinse fortemente al petto, come una madre avrebbe fatto con i suoi bambini. I capelli le erano sfuggiti quasi del tutto dall’acconciatura solitamente curata, ma lei non sembrava preoccuparsene.

“State bene? Avete sentito le scosse, vero?” Cathy ed Evan annuirono a entrambe le domande. “Oh, ero così spaventata quando vi ho visti qui! Che cosa ci facevate in mezzo alle scale? Non dovreste essere a lezione a quest’ora?”

Si guardarono l’un l’altra senza sapere cosa rispondere, e infine abbassarono lo sguardo. Per fortuna, l’insegnante non insisté e offrì loro una tazza di tè caldo nel proprio studio, allo scopo di rincuorarli. I ragazzi acconsentirono laconicamente e seguirono i suoi passi, sperando che il terremoto avesse reso più comprensiva anche la McGranitt. Quando però erano sul punto di riprendersi, dalle scosse come da tutto il resto, il viso di Cathy improvvisamente sbiancò: a pochi passi da loro, un altro studente in giro per i corridoi era stato raggiunto da Gazza, che lo scortava in tutta fretta verso uno studio o un’aula. Il ragazzo era Ted Lupin.

“Non dovete preoccuparvi” li assicurava intanto la Holland. “La scuola è a prova di qualsiasi terremoto… Andrà tutto bene”.

Ma a Cathy bastò un istante, incrociando gli occhi del suo ex compagno di Casa, per capire che niente sarebbe andato più bene. Teddy aveva letto l’articolo, era evidente dal modo in cui la stava fissando, come se volesse ridurla in cenere. E quella volta, pensò con amarezza, non sarebbe bastato un incontro alla Guferia per tornare a essere amici.

*

Nei giorni seguenti, l’articolo della Skeeter e il successivo terremoto divennero gli eventi più chiacchierati della scuola. Il Preside e gli insegnanti si rifiutarono di parlare di quanto era stato scritto ne Il Settimanale delle Streghe, sostenendo che si trattasse solo di inutili pettegolezzi e che non c’era alcuna prova di una potenzialità simile da parte del Cappello. Quando qualche studente più ardito menzionò il tema della pozione, i professori furono ugualmente furbi nel non lasciar trapelare nulla, affermando che la questione non doveva interessare i ragazzi e sarebbe stata affrontata solo su piani più seri e autorevoli. Purtroppo, tutto ciò non valeva per Evan Gregory, che come unico ragazzo al corrente della situazione fu condannato senza appello, e dovette subire parecchie angherie da parte di Lumacorno per la sua lingua troppo lunga. Il risultato fu un nuovo decreto didattico che impediva agli studenti di rilasciare interviste all’interno della scuola, provvedimento non molto utile se si pensava che Rita Skeeter non metteva più piede a Hogwarts dall’ultimo Torneo Tremaghi.

Ma la vittima principale di tutta quella situazione fu ancora una volta Cathy, che si ritrovò suo malgrado al centro di quelle chiacchiere. Chi la conosceva poco, come gli studenti di Tassorosso e Corvonero, finì per dare credito a ciò che era stato scritto nell’articolo, credendola una svitata con le manie di grandezza o una reale figlia illegittima di Harry Potter. In ogni caso, per lei era una vera seccatura girare l’angolo e sentire che un chiacchiericcio s’interrompeva di colpo, lasciando il posto a sguardi furtivi che si concentravano nella sua direzione. Dire a tutti la verità sarebbe stato troppo complicato, e tutto sommato non le importava nemmeno. Ciò che contava era chiarirsi con i compagni Grifondoro, il che per fortuna si rivelò abbastanza facile. Eliza non avrebbe mai dubitato di lei, Maggie sapeva bene di cosa era capace la Skeeter e i meno informati si fidarono ciecamente del suo giudizio. Quello di Teddy era però un discorso a parte; Cathy cercò più volte di avvicinarsi a lui, durante i pasti in Sala Grande o alla fine delle lezioni, ma il ragazzo si comportava come se lei non ci fosse. Arrivò persino a chiedere a Eliza di fare da intermediaria, di dirgli che era innocente e non si credeva affatto figlia di Harry, ma lui sviò il discorso rifiutandosi di rispondere.

“Io credo che sappia che non sei stata tu” la rassicurò Eliza una mattina, infiltratasi con nonchalance al tavolo dei Serpeverde. “Solo che non vuole ammetterlo. Vedere il tuo nome affiancato a quello di Harry lo ha fatto arrabbiare parecchio, e non può prendersela con nessun altro all’infuori di te. È molto geloso, ultimamente scatta al solo sentirlo nominare, e va e viene dalla Guferia per scrivergli delle lettere. Forse vuole sapere la verità”.

Cathy annuì, continuando a rigirare il cucchiaio nel porridge senza neppure assaggiarlo. “Lo so bene che è geloso. È proprio per via di Harry che all’inizio non mi sopportava”.

“Già. Ma tu, invece…” la esortò “Dimmi la verità, che cosa pensi di questa storia?”

Cathy evitò di guardarla negli occhi prima di rispondere; aveva, ancora una volta, l’impressione che Eliza riuscisse a leggere nei suoi pensieri più intimi. “Quello che vi ho detto. La storia del sangue è vera, quella di Harry no. Potrei essere figlia sua come di qualsiasi altro Grifondoro”.

“Questo lo so. Ma voglio capire che cosa senti… Dentro di te”.

E che cosa importa?, avrebbe voluto risponderle. Non importava più nulla se sentiva di essere così simile a lui, se per giorni aveva sognato di vivere con la sua famiglia e aveva cercato allo specchio dei tratti in comune. Ora la verità era venuta fuori nel peggiore dei modi, Harry si era rifiutato di rilasciare una qualunque dichiarazione e Teddy la odiava. Sarebbe stato meglio se Evan non avesse mai pensato quelle cose. “Niente” disse soltanto. “Non sento niente. E adesso basta parlare di questa storia, per favore”.

Eliza sospirò. “Come vuoi”.

Nel frattempo, il mattino avanzava e studenti sempre più numerosi prendevano posto a tavola. Le due persone meno apprezzate da Cathy in tutta Hogwarts, Pamela e Vera, si fecero avanti mano nella mano e lanciarono occhiate di disgusto in direzione di Eliza. La ragazza si stava già alzando quando Vera l’apostrofò: “Che ci fai tu qui? Cos’è, non piaci nemmeno più alla tua gente?”

Pamela rise come se quella fosse una divertentissima battuta. Eliza non si scompose e disse soltanto: “Stavo andando via”.

“Oh, menomale! Perché sai, qui accettiamo solo ragazzi di un certo livello… A cominciare dalla Serpedoro, con il padre che si ritrova!”

Cathy non rispose nemmeno, abituata com’era a quel genere di provocazioni. Eliza, al contrario, fissò Vera negli occhi e le parlò con un astio che la sua amica non le avrebbe mai attribuito: “Proprio perché a questo tavolo c’è Cathy mi chiedo cosa ci faccia tu. Forse il povero Cappello sperava di alzare un po’ la media, ma non aveva considerato che tu l’abbassi di parecchio”.

Vera spalancò la bocca per la sorpresa e l’indignazione. Da che Cathy ricordasse, nessuno le aveva mai risposto così. “Ma come ti permetti? Tu, con la famiglia che ti ritrovi, osi insultare me, una Wilkinson? Si vede proprio che non sai niente di magia… E d’altra parte chi poteva insegnartela? Non certo mamma e papà!”

“Forse no” continuò Eliza, impassibile “ma mi hanno insegnato molte altre cose. Per esempio il valore dell’amicizia, e che rilasciare orribili interviste a nome di qualcun altro non è una bella cosa”.

Questa volta anche Cathy era sconcertata. Le aveva rivelato i suoi dubbi sulla possibile colpevolezza di Vera, ma le aveva anche detto di non avere alcuna prova. Invece, in barba a ogni comportamento razionale, Eliza la stava accusando apertamente.

“Che stai dicendo? Io e Pamela abbiamo solo detto la nostra! Il resto è tutto uscito dalla bocca di Serpedoro!”

“Certo, che guarda caso non sa nemmeno chi sia Rita Skeeter. Complimenti, siete state brave almeno quanto lei a rigirare i fatti!”

Vera aprì e chiuse la bocca un paio di volte senza emettere suono, finendo così per mostrarsi più spaventata che indignata. Pamela si guardava intorno più o meno allo stesso modo, senza sapere come aiutarla.

“Non hai alcuna prova per quello che dici” decretò infine, aggrappandosi a ciò che aveva dalla sua parte. Eliza non trovò altri argomenti per replicare e sembrò che Vera fosse riuscita ad avere la meglio. Ma poi, inaspettatamente, Cathy si alzò; prese a fissare le due Serpeverde con tutta la rabbia che aveva in corpo, il senso di solitudine e di amarezza che si portava dentro da giorni esplose in un colpo solo, e in un attimo raccolse tutte le prove che bastavano ad accusarle.

“Ah no? E allora ditemi una cosa…” iniziò, rivolta principalmente a Vera. “Come sapevate della pozione? Evan non ve l’ha detto e ai professori era proibito parlarne”.

La ragazza aggrottò le sopracciglia, i suoi bei tratti si mutarono in una maschera di ira e disprezzo. “Ne ho sentito parlare in giro” replicò, vaga. “Non ricordo da chi. E comunque non tutti gli insegnanti rispettano gli ordini”.

Cathy non si lasciò scoraggiare. Passò con gli occhi da lei a Pamela e a quest’ultima rivolse un’altra domanda, più tagliente della precedente: “E tu? Come sapevi che porto in tasca una figurina? E che ho incontrato Harry a Diagon Alley?”

Per sua fortuna, la Loogan non possedeva lo stesso piglio deciso della sua amica. Si limitava ad agire come fosse la sua ombra, ma, in occasioni come quella dove non poteva chiederle consiglio, si ritrovava spaesata. “Io…” balbettò, visibilmente in difficoltà. “Ce l’hai detto tu, no?”

“No”. Cathy sorrise con aria falsa e vittoriosa. “Vi ho detto che l’ho incontrato, ma non dove. E la figurina non l’ho neanche mai nominata”.

Il dubbio di Pamela divenne così una completa certezza, e la ragazza, priva di qualsiasi scusa credibile, si limitò a guardare Vera in cerca di aiuto. Probabilmente nessuna delle due si era preparata una risposta, convinte com’erano che una sciocca Serpedoro non le avrebbe mai scoperte.

“E va bene!” Vera infine si rivelò, le sue guance erano così rosse che sembrava stessero per esplodere. “Ti ho sentito dire quelle cose a Evan e le ho riferite a mia sorella, che a sua volta ha proposto l’articolo a Rita. E con questo? Sono sempre parole uscite dalla tua bocca! Dovresti ringraziarmi, ho dato un po’ di notorietà al tuo scialbo cognome da orfanotrofio!”

Per un momento, Cathy restò così sconvolta da quel patetico tentativo di difesa che non riuscì a replicare. Lo fece Eliza al suo posto, di nuovo combattiva e inarrestabile: “Spero che tu stia scherzando. Hai fatto una cosa gravissima, Vera! Non solo hai raccontato fatti privati di Cathy senza il suo consenso, ma li hai anche ricostruiti a tuo piacimento! Hai messo in difficoltà un sacco di persone della scuola! Possibile che non ti vergogni neanche un po’?”

“Non accetto insegnamenti da te, sporca…” Ma Eliza non seppe mai quale epiteto le stava rivolgendo, perché da quel momento i suoi atteggiamenti cambiarono del tutto. Cathy si stava avvicinando a Vera, che dal canto suo iniziò a indietreggiare. Una paura palpabile, reale, si sprigionò dal suo sguardo, che in un attimo perse tutta la sua ostentata superbia per diventare quello di una bambina spaventata.

“Quindi è tutta colpa tua” stava dicendo Cathy, straordinariamente calma e rigida. “Per un tuo capriccio sono diventata lo zimbello della scuola, gli insegnanti mi credono una pazza e Ted non vuole più parlarmi. Cosa credi che dovrei fare adesso, eh? Che cosa dovrei fare?”

Vera cominciò a tremare, indietreggiò così tanto che travolse un ignaro ragazzo di Tassorosso diretto al proprio tavolo. Finirono entrambi a terra, ma, mentre lui si rialzò subito, Vera sembrò non trovarne la forza. “Niente!” gridò, con tutto il fiato che aveva in corpo. “Mi dispiace, va bene? Ho sbagliato, ti chiedo scusa! Ma smettila di fare così, mi stai spaventando!”

Cathy non capì. La sua bacchetta era al sicuro nella tasca, non l’aveva neppure sfiorata, eppure Vera si stava comportando come se gliel’avesse puntata contro. “Non sto facendo niente!” gridò infine, credendo che quello fosse un altro dei suoi trucchetti. “Ora non rigirare di nuovo i fatti dicendo che ti ho minacciata!”

“Non sto rigirando nulla! Guarda, anche la tua amica ha paura!”

Cathy, sempre più perplessa, guardò Eliza, che a sua volta fece un passo indietro. Non era terrorizzata come Vera, ma negli occhi le si leggeva comunque un’ombra di panico. “Cathy…” sussurrò. “Calmati, stai…”

“Non sto facendo niente!” Adesso si sentì in collera anche con lei, che l’accusava di qualcosa di inesistente. Si chiese se la terra avesse ripreso a tremare, ma la sentì ben salda sotto i propri piedi. Il vento non penetrava più forte del solito dalle finestre e nessun altro evento atmosferico anomalo poteva esserle attribuito. Era arrabbiata, e molto anche, ma mai come quella volta non c’erano stati effetti collaterali. Eppure, a poco a poco, l’intera scuola sembrava paralizzarsi; tutti la fissavano con la stessa espressione impaurita e non le dicevano perché. Nel frattempo, le urla avevano attirato anche un certo numero di insegnanti, che si fecero avanti per capire cosa stesse succedendo. In prima linea c’era Young, che si intromise tra lei e Vera con la bacchetta puntata chiedendole spiegazioni. Improvvisamente, anche Cathy ebbe paura.

“È tutto a posto” rispose, con voce flebile. “Stavamo solo discutendo…”

Il professore abbassò piano la bacchetta. Vera, dietro di lui, afferrò la mano di Pamela per rialzarsi. Infine, la consueta voce glaciale di Young pose fine a quella drammatica scena: “Catherine Scott. Nel mio ufficio, immediatamente”.


Note

Questa volta non sono proprio riuscita a rispettare i tempi, causa due settimane di vacanze che mi hanno tenuta lontana dal pc! Mi faccio perdonare (spero) con questo capitolo un bel po' lunghetto dove fa la comparsa niente meno che Rita Skeeter, uno di quei personaggi negativi ma così ben fatti che non posso fare a meno di adorare. Spero che l'articolo sia alla sua altezza, ho cercato di rifarmi a quelli presenti nei libri e a ciò che lei sapeva e non sapeva di Harry (il presunto fidanzamento con Hermione era una sua idea).

Vi ringrazio di nuovo per i mi piace allo scorso capitolo (quota 8, incredibile!) e in particolare grazie di nuovo a Fanny per la recensione. Buone vacanze, se siete ancora al mare (me lo auguro) e non nella calura cittadina come me! A presto.

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Capitolo 16
*** Il segreto di Young ***


16


Lo studio del professor Young era situato in cima a una torre, di gran lunga più alta di quella che ospitava i Grifondoro. Almeno, questa era l’impressione che si aveva, percorrendo i numerosi gradini della scala a chiocciola sempre più buia e angusta. Era l’ultimo posto in cui Cathy si sarebbe aspettata di finire quel giorno, eppure era successo; camminava dietro di lui, quell’uomo capace di raggelarti per una parola di troppo, verso un destino che non riusciva proprio a immaginare, e da cui comunque nessuno poteva salvarla. Avrebbe tanto voluto Ted o Evan accanto a lei, a condividere quel momento spiacevole e per potersi confortare a vicenda; ma, per una volta, Evan non era finito nei guai a causa sua, e pensare a Teddy aveva ormai solo l’effetto di contrarle le viscere.

Con un ultimo sospiro varcò la porta che Young aveva aperto per lei, in un gesto insolitamente gentile. All’interno trovò una stanza circolare, piuttosto piccola, con tre finestre ad arco che davano su una vista spettacolare del parco. L’arredamento era scarno ed essenziale: una scrivania d’ebano, con su una pila ordinata di libri e pergamene, un armadio dalle ante impolverate e dal contenuto imprecisabile, un paio di mensole piene di ampolle e bottigline. Su una di queste, Cathy lesse: Essenza di Dittamo.

“Siediti” la esortò Young, in un tono che sembrava più un ordine che un invito. Cathy obbedì, aspettando che il professore prendesse posto di fronte a lei. Notò che in quella stanza saltava incredibilmente all’occhio l’assenza di colore: tutto era bianco e nero come in un vecchio film, rispettando precisamente il modo di vestire del suo occupante. Persino una foto incorniciata sulla scrivania sembrava appartenere ad un’altra epoca: ritraeva una donna, alta e sorridente, che teneva per mano un bambino di circa due anni o poco più. E, stranamente, i due non si muovevano com’erano soliti fare nelle foto magiche: se ne stavano immobili a fissare l’obiettivo, in una maniera non dissimile dalle classiche fotografie babbane.

“Bene”. L’insegnante si era accorto che Cathy stava fissando la cornice, e la ragazza si affrettò a distogliere lo sguardo. Aveva come l’impressione di aver peggiorato ulteriormente la sua situazione.

“Hai qualcosa da dirmi, Catherine Scott? Qualcosa da rivelare, prima che cominci a chiedere io?”

Cathy deglutì. Benché quelle domande annunciate fossero molto preoccupanti, non aveva proprio niente da riferirgli per evitarle. Ci pensò su un istante, poi disse: “No, signore”.

“D’accordo”. Sembrava che Young se l’aspettasse, perché non insisté. Allineò le pergamene già ordinate e continuò con la massima calma, come se si trattasse di un comune colloquio con uno studente. “Allora partiamo dall’inizio. Ricordi il nostro primo incontro, vero?”

Cathy deglutì una seconda volta. Se lo ricordava fin troppo bene, anche se avrebbe voluto dimenticarlo.

“Il primo in classe, intendo” continuò lui, sciogliendole in minima parte la tensione. Sembrava lo facesse di proposito a metterla in difficoltà. “Immagino di sì. Dunque, ricorderai anche cos’ho detto durante quella lezione, sulla magia oscura e sul comando degli elementi”.

“Sì, signore” ripeté, chiedendosi ora dove volesse arrivare. La questione ‘elementi’ era proprio quella che non l’aveva resa particolarmente gradita ai suoi occhi.

“Bene. Che cosa pensi adesso di quello che ho detto? Sei ancora convinta che sia un tipo di magia lecito e innocuo?”

“No”. Cathy rispose meccanicamente per non contrariarlo, ma in verità non ci aveva più pensato. C’erano altre cose che avevano occupato la sua mente negli ultimi tempi.

“E allora, sii così gentile da spiegarmi” e rialzò gli occhi di ghiaccio dalle pergamene, puntandoli in quelli scuri di lei “perché hai provocato un terremoto”.

Era più, molto di più di quanto si aspettasse. Si erano dette varie cose su quelle scosse improvvise, di come fossero state avvertite solo in una parte del castello, ma mai erano state associate al suo nome. “Come sa che sono stata io?” non poté trattenersi dal chiedere.

“Vedi, Scott… La caratteristica principale di un Corvonero è l’ingegno, e senza troppa modestia posso dire di non esserne privo. Quelle scosse mi sono sembrate strane fin dall’inizio, abbiamo magie molto avanzate per prevenire i terremoti e nessuna di queste l’aveva rilevato. In più, ho saputo che si erano localizzate solo nell’ala est, e da questo ho intuito immediatamente che fossero opera di un mago. Oggi ne ho parlato casualmente con la collega Holland e toh, guarda caso, è venuto fuori che c’eri proprio tu in quello che abbiamo identificato come l’epicentro. La stessa ragazzina che nella mia classe aveva difeso il dominio degli elementi”.

Cathy capì che su una cosa Young non aveva torto: era davvero molto ingegnoso. Negare sarebbe stato inutile, sapeva benissimo di essere lei la causa di tutto ciò e lo sapeva anche l’insegnante. Scelse la strada della verità.

“Non l’ho fatto di proposito. Mi succede spesso quando sono arrabbiata, a volte con il vento o con l’acqua, altre con la terra. Quel giorno lo ero e non sono riuscita a controllarmi”.

Young annuì, nuovamente non sorpreso. Cathy sperò che quella confessione gli bastasse, perché parlare di nuovo dell’articolo era l’ultima cosa che voleva fare.

“Sì, in effetti la magia minorile è spesso involontaria e non può essere controllata, anche se non ho mai sentito di conseguenze tanto devastanti. Eppure, alla tua età… Quanti anni hai, undici, dodici?”

“Dodici a dicembre”.

“Ecco. A quasi dodici anni, specie dopo aver iniziato la scuola, questi incantesimi accidentali dovrebbero cominciare a scemare. Sembra che con te non stia succedendo”.

Cathy non sapeva cosa dire. Non era la prima volta che sentiva quella teoria, ma non si era mai chiesta quando si sarebbe concretizzata. Forse dipendeva dalle sue capacità? Se era piuttosto in gamba a maneggiare la bacchetta avrebbe smesso di fare magie senza di essa? Poteva darsi, dato che il suo bastoncino si rifiutava troppo spesso di collaborare.

“Mi dispiace, signore. Forse per me è ancora troppo presto. Però non è successo niente di grave, vero? Nessuno si è fatto male e la scuola è rimasta intatta…”

“Non è questo il punto!” Young si stava alterando e Cathy capì di aver detto la cosa sbagliata. Ormai era troppo tardi per rimediare. “Se parli ancora di gravità o meno significa che non hai afferrato il concetto. La magia oscura è pericolosa, Scott, ed è illegale. Qualche anno in più e un tranquillo soggiorno ad Azkaban non te l’avrebbe tolto nessuno. Se questa volta non è successo niente non significa che non potrebbe accadere la prossima. Io posso aiutarti a frenare questi incantesimi, ma è importante che tu lo voglia. Come ti senti quando generi un terremoto? Forte, potente?”

Cathy scosse immediatamente la testa. Non aveva mai sentito niente del genere, soprattutto in quell’occasione. Certo, le piaceva vedere l’acqua incresparsi sotto le sue dita, e il vento soffiare leggero tra le foglie degli alberi… Ma mai aveva desiderato di far male a qualcuno, nemmeno a persone come Vera. Catherine le aveva insegnato che la violenza era un male, e lei non l’aveva mai dimenticato. Si augurò che Young lo capisse.

“Se è così, non ti dispiacerà troppo liberarti di questi… Poteri, se così vogliamo chiamarli. Imparerai molto di più con l’uso della bacchetta, incantesimi più nobili e onorevoli. Mi dai la tua parola che lo farai?”

Sembrava che la questione fosse molto seria per Young. Cathy non volle contraddirlo e accettò, dichiarando: “Se per lei è così importante, lo farò”.

Il professore sembrò sollevato. Si rilassò sulla sedia e cominciò a spiegarle ciò che avrebbe dovuto fare: “Quello che ti servirà è innanzitutto l’autocontrollo. Ogni volta che senti che sta per succedere, devi smettere di pensare alla tua rabbia e concentrarti su qualcosa di diverso. Un volo sulla scopa o una giornata piacevole con i tuoi amici dovrebbe bastare”.

Cathy fece un sorriso amaro. La seconda poteva anche andare, se tra gli amici si escludeva Teddy, ma il volo sulla scopa avrebbe trasformato un venticello in una tormenta.

“Con il tempo non sarà più necessario, perché riuscirai a controllare le emozioni senza sostituirle con altre, ma per adesso devo chiederti di farlo. La rabbia tornerà quando sarai più calma e potrai agire con lucidità. Un’altra precauzione è allontanarti dalle persone quando succede, nel caso non riuscissi a frenarti”.

Cathy annuì, comprendendo le sue preoccupazioni. Ora che ci pensava, Evan aveva corso un pericolo non da poco restandole accanto durante le scosse.

“Seconda cosa, devi imparare in fretta a utilizzare la bacchetta. La professoressa Holland può aiutarti molto in questo, anche dandoti lezioni private se necessario. A questo punto non puoi seguire i tempi degli altri studenti, hai bisogno di apprendere velocemente”.

Questa raccomandazione le sembrava più difficile della precedente. Con tutta la fatica che faceva per stare a passo con gli altri, anticiparli le appariva impossibile. “Questo potrebbe essere un problema, signore. Ho parecchie difficoltà con la bacchetta, l’uomo che me l’ha venduta ha detto che si tratta di un materiale raro e complicato da gestire. Sono pochi gli incantesimi che mi riescono”.

Young rifletté per qualche istante. Con le dita si accarezzò la barba brizzolata, scrutò le pareti della stanza e infine le domandò: “Che tipo di nucleo ha?”

“Piuma di fenice”.

“Bene”. Sembrò piuttosto contento di quella risposta, e Cathy tirò un sospiro di sollievo. “Non sarà un problema, è solo questione di tempo e impegno. Rivolgiti pure a me e alla collega di Incantesimi per qualunque dubbio. Conto che per Natale avremo raggiunto l’obiettivo”.

Quel proposito in verità le sembrava troppo ambizioso, ma preferì tacere. Cavarsela così, con qualche istruzione e nessun punto in meno per Serpeverde, era già un miracolo.

“Ho un’ultima domanda prima di lasciarti andare. È successo altre volte, da quando sei a scuola, di generare magie senza volerlo? Anche se non avevano nulla a che fare con gli elementi?”

Cathy ci pensò su. Sicuramente era riuscita ad accendere il fuoco mentre dormiva, ma oltre a questo non ricordava nient’altro. Dirglielo le sembrava quasi un affronto alla propria bacchetta, che in quell’occasione l’aveva aiutata non poco, e d’altra parte non aggiungeva niente a ciò che Young già sapeva. Così, non si sentì poi tanto in colpa a rispondere di no.

“D’accordo. Tienimi informato se dovesse capitare”. L’insegnante si alzò e le aprì di nuovo la porta, segno che poteva lasciare lo studio. Una volta sulla soglia, Cathy si ricordò che a quella domanda non era l’unica a poter rispondere, e che forse proprio Young avrebbe potuto toglierle un dubbio.

“Professore… Anch’io avrei una cosa da chiederle. Poco fa, mentre discutevo con Vera… È successo qualcosa? Voglio dire, come le scosse e roba simile… Io non ho notato niente, ma gli altri si sono spaventati”.

Young le rispose con un’espressione perplessa: “Poco fa? No, non è successo niente”. Sembrava piuttosto sicuro di ciò che diceva, e questo la rincuorò. Qualsiasi cosa avessero pensato gli altri, lei era innocente e non stava impazzendo. Per quella volta si ritrovò ad apprezzare, seppure in minima parte, il suo insegnante di Difesa, che dopotutto le aveva offerto un aiuto e non l’aveva punita. Eppure, mentre ritornava in Sala Grande, si chiese come potesse parlare di giusto e sbagliato un uomo allontanato dal lavoro proprio a causa della sua violenza.

*

Negli ultimi giorni di ottobre, il rapporto tra Cathy e Vera si modificò radicalmente. Se in un primo momento quest’ultima l’aveva ignorata, per poi passare a una finta cortesia e finire con lo screditarla in tutti i modi, adesso era tornata a ignorarla. Ma era un atteggiamento dovuto alla paura più che al disprezzo, come dimostrava il suo allontanarsi da una stanza non appena Cathy ci entrava e sobbalzare quando sentiva la sua voce. Tutto sommato, a lei questo non dispiaceva: sapeva, grazie alla conferma di Young, di non aver fatto nulla di male, e non doversi più preoccupare di Vera restava così un semplice sollievo. Chiese comunque ad Eliza, non appena la rivide, spiegazioni sul suo comportamento, che in ogni caso non riusciva a spiegarsi.

“No, Young ha ragione, non hai fatto niente. Eri solo un po’… Minacciosa, ecco. Sembrava che stessi per colpirla”. La ragazza replicò così ai dubbi di Cathy, ma quel tentativo di minimizzare il tutto non la convinse. Le mani le tremavano mentre parlava e il suo sguardo era stranamente sfuggente, come se avesse paura di rivelare troppo. Per un attimo pensò di guardarla negli occhi e pretendere la verità, ma poi capì che sarebbe riuscita solo a spaventarla di nuovo. Purtroppo, sapeva per esperienza che quando qualcuno si rifiuta di parlare non c’è modo di costringerlo, e – altra ragione non da poco – quella spiegazione era così rassicurante da stare bene anche a lei.

Passarono così le settimane che la separavano dal ritorno ai Grifondoro, tranquille seppur impegnative a causa delle lezioni extra con la Holland. Alla fine del mese, dopo l’usuale banchetto di Halloween, Cathy ritrovò tutto l’entusiasmo e l’affetto in cui aveva sperato, da ciascuno dei suoi vecchi compagni ad eccezione di Teddy. Il ragazzo non modificò il suo atteggiamento, neppure quando fu costretto a mangiare e fare i compiti al suo stesso tavolo. Si comportava con indifferenza e parlava il meno possibile non solo con lei, ma con tutti i coetanei. Era strano da parte sua isolarsi a tal punto, quando nei primi tempi si era mostrato così socievole. Neppure Samuel, il suo amico più stretto, riusciva a spiegarselo, e dopo una serie di interrogativi senza successo i suoi dubbi si erano trasformati in rancore.

“Non ci credo, non è qui neanche oggi!” Durante la prima partita di Quidditch della stagione, a pochi minuti dal fischio d’inizio, l’assenza di Teddy era più che mai sospetta. Il cielo cupo e il freddo pungente non invitavano certo a stare all’aperto, ma nonostante ciò nessuno studente si sarebbe perso l’incontro tra Grifondoro e Serpeverde. Cathy, per evitare problemi, aveva annodato una sciarpa rossa e oro con una verde e argento e se l’era strette entrambe intorno al collo, così che nessuno potesse accusarla di tradire l’una o l’altra Casa.

“Ha detto che aveva di meglio da fare. Di meglio, cioè… Cosa può mai esserci di meglio del Quidditch?” Samuel era decisamente in collera con l’amico a causa di quell’assenza. Dopo aver passato mesi a parlare di scope e squadre del cuore, il suo sentirsi tradito era più che comprensibile.

“Forse è andato in biblioteca a ripassare” ipotizzò Eliza, non troppo convinta. “Ultimamente Young lo interroga tutti i giorni, non trova più il tempo di stare a passo con le materie…”

“Sì, figurati se studia durante la partita! Quello lì sta architettando qualcosa, ve lo dico io”. L’idea di Maggie generò una serie di sorrisi sarcastici, ma la ragazza l’aveva detto con molta serietà. Anche Cathy sorrise spontaneamente, prima di ricordarsi che Teddy stava davvero architettando qualcosa non molto tempo prima.

“Ehi, ci siamo!” Il fischio di Madama Bumb riportò l’attenzione di tutti alla partita. Nello stesso momento, quattordici ragazzi infagottati nelle rispettive divise si alzarono in volo, pronti a prendere i loro posti nel campo. Fu spettacolare, bisognava ammetterlo: vedere uno sport giocato a quindici metri d’altezza non era cosa da poco, soprattutto per chi proveniva da famiglie babbane. Ciononostante, Cathy cominciò ad annoiarsi dopo i primi dieci minuti; una volta abituatasi alle scope che fendevano l’aria, una partita di Quidditch non era molto più entusiasmante del classico football. Alla fine decise di andarsene, pensando di sfruttare quella mattina per esercitarsi negli incantesimi accanto al tepore del fuoco. Erano tutti così presi dall’incontro che non fecero neppure caso alla sua sparizione.

Era quasi alla porta d’ingresso quando vide qualcuno uscirne. Avvolto in un grosso cappotto, con la faccia nascosta sotto la sciarpa, tentava di non farsi riconoscere. Purtroppo per lui, i capelli azzurri da Metamorfomagus erano un tratto inconfondibile.

“Ted!” Cathy gli corse incontro, incurante del fatto che lui prendeva la direzione opposta. Iniziò a trotterellargli dietro senza intenzione di perderlo di vista. “Si può sapere che fine avevi fatto? Dove stai andando, lo stadio è di là!”

“So benissimo dov’è, non sto andando alla partita!” Teddy liberò la bocca dalla sciarpa quanto bastava a liberarsi di lei. “Non è affar tuo quello che faccio”.

“Invece sì! Ho il sospetto che tu stia andando a infrangere qualche regola, e se fai perdere punti alla Casa è anche affar mio”.

“Ah, sì? Da quando in qua ti preoccupi del Grifondoro? Pensavo fossi più interessata al prestigio personale…”

Cathy sospirò, alzando gli occhi al cielo. Tornare a parlare con Teddy come due persone normali sarebbe stato difficile, ma battibeccare di nuovo era già un punto di partenza.

“Ancora con questa storia? Ti ho detto un milione di volte come stanno le cose, è stata tutta colpa di Vera e…”

“Shhh!” Teddy le premette improvvisamente una mano davanti alla bocca, costringendola al silenzio. Cathy guardò davanti a sé e capì dove stavano andando, o meglio, chi stavano seguendo.

“Lui!” sussurrò, per quanto possibile, alla vista di Albert Young nel suo fluttuante mantello nero. “Lo sapevo che stavi per cacciarti nei guai!”

“Ecco, e allora è meglio se torni dentro prima di trovarti nei guai anche tu”.

“Non se tu non vieni con me” proclamò, decisa. “Senti, l’ho conosciuto un po’ meglio ultimamente… Forse ci siamo sbagliati a giudicarlo troppo in fretta, non è una cattiva persona”.

“Non è quello che ho scoperto con le mie ricerche”. Teddy continuò a camminare, a qualche metro dall’insegnante, in direzione del cancello di Hogwarts. Tirò fuori la bacchetta e la tenne dritta davanti a sé, pronto ad usarla in chissà quale modo.

“Mio Dio, Ted! Ricerche! È già un miracolo se non ti hanno scoperto… Essere beccato fuori dalla scuola vuol dire espulsione, lo sai questo?”

“Sì che lo so! So molte più cose di te su Hogwarts! È proprio per questo che ti conviene tornare indietro”.

Cathy si bloccò sul posto, furiosa. Teddy non aveva intenzione di mollare, qualunque fosse il suo diabolico piano, e avrebbe corso qualsiasi rischio pur di portarlo a termine. La ragazzina era combattuta: se, da un lato, l’idea di una tranquilla esercitazione al caldo era molto allettante, dall’altro le sembrava scorretto lasciare Teddy al proprio destino. Pochi secondi dopo, il suo spirito intraprendente ebbe la meglio.

“Vengo con te”. Gli si affiancò e dichiarò così la sua decisione, senza ammettere repliche. Teddy la fissò stralunato.

“Cosa?” Non ci fu tempo per discutere oltre. Ormai, a pochi passi dai cinghiali alati, Young stava pronunciando la formula per aprire il cancello. Teddy intimò a Cathy di stare giù, nascondendosi con lei dietro un cespuglio. Tenne la bacchetta puntata verso l’ingresso, mentre le inferriate si spalancavano e il professore ne usciva. Questi non si preoccupò di tornare indietro a richiuderle: qualche istante dopo, si avvicinarono automaticamente l’una all’altra.

“Senti, non so quale sia il tuo piano” sbottò Cathy, schiacciata sotto il peso del compagno. “Ma credo che se vuoi seguirlo dovremmo farlo adesso…”

“Sta’ zitta!” le intimò lui, senza mollare la presa sulla bacchetta. “Dobbiamo aspettare il momento giusto. Si girerà indietro fino all’ultimo, per controllare di non essere seguito”.

Sembrava molto convinto di quello che diceva, come se avesse ripetuto quel pedinamento diverse volte. Eppure, i cancelli erano quasi sul punto di chiudersi…

“Ted… Non per insistere, ma…”

Shhh! Ci siamo. Tre, due, uno…” Teddy chiuse gli occhi, più concentrato che mai. Mancavano solo pochi centimetri alla chiusura totale dei cancelli. In quel preciso istante, il ragazzo gridò: “Immobilus!

L’incantesimo funzionò: le inferriate si immobilizzarono, lasciando uno spazio quasi invisibile tra l’una e l’altra. Teddy esclamò: “Sì!”, uscendo finalmente allo scoperto e avvicinandosi cauto all’uscita. Cathy lo seguì, suo malgrado elettrizzata per quel successo. Sbirciarono nello spiraglio per scoprire che Young procedeva a distanza, senza essersi accorto di nulla, e spalancarono i cancelli per uscire. In un attimo furono fuori, pronti a dare inizio a quella rischiosissima avventura.

“Ce l’ho fatta! Lo sapevo, avrà pensato che essendo tutti alla partita nessuno avrebbe fatto caso a lui! Finalmente scoprirò che cosa sta tramando”.

“Già… Ehm, complimenti”. Cathy era piuttosto perplessa, ma non volle esternare i suoi dubbi. Sembrava che Teddy avesse per un attimo dimenticato le loro ostilità, e in un certo senso era così. Solo in quel momento, sentendo la sua voce, sembrò ricordarsi che lei era lì. Riprese il cammino senza più parlare, rimettendole il muso, e si concentrò sull’inseguimento di Young.

La strada si faceva sempre più impervia e il cielo più nuvoloso. Si ritrovarono in una terra brulla lontana dal sentiero principale, quello che portava alla stazione di Hogsmeade, senza la minima idea di quando Young si sarebbe fermato. L’idea che potesse passare molto tempo, fino a farsi buio, cominciò a terrorizzare Cathy, che dal canto suo cominciò a chiedersi chi gliel’avesse fatto fare. Per placare l’angoscia decise che avrebbe parlato: meglio un monologo, se necessario, piuttosto che lasciarsi prendere dal panico.

“Ho capito che non mi ascolterai mai” iniziò, partendo proprio dall’argomento che l’avrebbe fatto arrabbiare. “Tu già sai che sono innocente, non è così? Solo che non lo vuoi accettare, proprio come dice Eliza. Sei geloso marcio di Harry e pretendi che nessuno gli si avvicini. Ma, anche se non sono davvero sua figlia, ci sarà sempre qualcuno che…”

“Non lo sei. Me l’ha assicurato lui, quindi è inutile che ti fai illusioni”.

Qualcosa dentro di lei fece male, più di quanto avrebbe creduto. Non aveva mai abbandonato del tutto quella dolcissima idea, nemmeno dopo la pubblicazione dell’articolo.

“Va bene” continuò, affranta. “Ma lui di figli ne ha tre, è inevitabile che a loro dedicherà più tempo. Che farai allora, metterai il muso anche a loro? Te la prenderai con dei bambini piccoli? Dammi retta, è meglio se ti abitui all’idea che non sei il solo a cui vuole bene”.

Teddy la fissò di sottecchi senza replicare. Poi, i suoi occhi si spostarono più in basso, verso le due sciarpe intrecciate. “Quella cosa è ridicola” commentò.

“Questa..?” Cathy guardò il proprio collo, presa alla sprovvista. Quel risultato spartano, ottenuto senza l’uso di bacchetta, non le era sembrato poi così male. “Ho dovuto farlo. Sai cosa sarebbe successo con una sciarpa sola”.

“Ah, certo, lo so. Avresti fatto una scelta. Gravissimo, davvero!”

“Mi avrebbero criticata!” Quell’attacco su una cosa tanto futile le sembrava cattivo e insensato. Possibile che lui non riuscisse a capirla?

“A volte è meglio correre il rischio, piuttosto che non schierarsi da nessuna parte”. Quelle parole suonavano amaramente reali, e la cosa la disturbò. Si stava quasi pentendo di aver aperto bocca. “Vedi, sei la prima ad avere difetti e poi pretendi di giudicare me. Risolvi i tuoi problemi e poi parleremo dei miei”.

Percorsero ancora un po’ di strada, tenendosi a debita distanza dalla loro preda. L’insegnante era cauto e sospettoso, come se temesse di essere spiato. Di tanto in tanto si voltava indietro, con la bacchetta alla mano, costringendoli a nascondersi tra gli alberi. Più andavano avanti, più Cathy pensava che non avessero alcuna speranza di cavarsela.

“Ok, l’argomento Harry è out. Allora parliamo di Young. Se anche non ci scoprisse, e la vedo molto dura, che cosa speri di ottenere? Può scomparire da un momento all’altro… Magari usando uno di quei mezzi magici per spostarsi velocemente”.

Teddy si morse il labbro, dimostrando che quella era anche una sua preoccupazione. Se non si era mai avventurato fin lì, non poteva sapere come Young proseguiva la sua strada. “Spero che non lo faccia. Seguirlo è l’unico modo per scoprire dove va”.

“Sì, ma perché ti interessa? Sono stata nel suo studio tempo fa. Ho visto che ha una famiglia, magari va a trovarli… Non è detto che faccia qualcosa di losco!”

“Ci sono stato anch’io in quello studio, il giorno del terremoto. Voleva interrogarmi. Ho visto che ha anche del Dittamo e altre essenze curative… Le porta sempre con sé durante queste spedizioni, è chiaro che qualcuno si fa del male. Se torturasse la gente per avere informazioni? È così ossessionato dalla magia oscura che la vede ovunque! E non abbiamo ancora scoperto che cosa ci facesse a Notturn Alley”.

Cathy non sapeva cosa dire. I dubbi di Teddy erano leciti e comprensibili, mentre lei si basava soltanto su una sensazione. Eppure, dopo aver parlato a tu per tu con quel professore, avrebbe giurato che non era una persona cattiva. Inquietante, sì, e talvolta eccessiva, ma malvagia… No, non l’avrebbe mai detto.

“Il punto è che Harry e mia nonna non vogliono parlarne” continuò Teddy, sfogando il proprio rancore. “Continuano a dirmi che non devo preoccuparmi, ma non mi spiegano chi è Young e che cosa nasconde. Harry lo conosce, hanno anche lavorato insieme… Eppure non mi dice cos’è successo, perché è stato licenziato. Credono che sia troppo piccolo, forse. Ma io non ho paura di lui, non ho paura della verità… So che cosa sono stati i miei genitori e so che cosa voglio diventare da grande. Odio le Arti Oscure almeno quanto le odia lui. Se davvero non ha secondi fini, può star certo che starò dalla sua parte”.

“Che cosa vuoi dire…?” Cathy non l’aveva mai sentito parlare così, come se avesse già deciso del proprio futuro. “Vuoi diventare un Auror anche tu?”

“Sì” dichiarò, senza incertezza nella voce. “Voglio vendicare i miei genitori, combattere lo stesso male che li ha uccisi. I Mangiamorte non esistono più, ma altri maghi oscuri nascono ogni giorno. Non avrò pietà per loro”.

Teddy era così serio da far paura. Sembrava che, da un momento all’altro, potesse impugnare la bacchetta e far fuori un mago più grande di lui. A Cathy tornarono in mente i suoi strani poteri, tutto ciò che pensava Young in proposito, e fu felice che il ragazzo non ne sapesse niente.

“Ehi, dov’è andato?”

Guardarono a destra e a sinistra, tra gli alberi, persino dietro le spalle, ma dell’insegnante non c’era più traccia. Erano soli in quel territorio sconosciuto, lontani dal castello e probabilmente al limitare della Foresta Proibita. Cathy iniziò a sentire la familiare morsa sul petto che la coglieva quando era al buio.

“Dannazione, l’abbiamo perso!” Teddy si mosse in tutte le direzioni, agitato e confuso, senza sapere come ritrovare la strada. Cathy seguì i suoi passi sempre più turbata, sperando di convincerlo a fare dietrofront.

“Non lo troveremo più” gli disse, quasi sul punto di piangere. “Per favore, torniamo a scuola… Siamo soli, potrebbe spuntare un animale selvatico da un momento all’altro. La partita sarà finita ormai, ci staranno cercando...”

“Ora che sono arrivato fin qui non torno indietro. Vai tu, se vuoi”.

“Non ricordo neanche la strada!” Gli afferrò un braccio, costringendolo a guardarla. Era spaventato anche lui, ma non quanto Cathy. Lui non provava un senso di soffocamento quando il buio si avvicinava, e non teneva l’unico oggetto che potesse salvarlo a chilometri di distanza. “Ti prego, torniamo indietro! Teddy… Ho paura…”

Il ragazzo si ritrasse dalla sua stretta, ma solo allora sembrò capire quanto lei fosse terrorizzata. La vide tremare e piangere, e finalmente il suo tono divenne appena più comprensivo: “Perché sei venuta con me, si può sapere?”

Cathy abbassò lo sguardo. Era troppo orgogliosa per dirglielo così apertamente, voleva almeno sottrarsi ai suoi occhi indagatori. “Perché speravo di far pace con te” confessò, realizzandolo solo in quel momento.

Teddy ammutolì, arrossendo, e prese a calci qualche pietra del sentiero. “Be’, non potevi trovare un modo più stupido” aggiunse. “Facciamo così, procediamo ancora un po’ e se non lo troviamo torniamo al castello. Conosco la strada, non preoccuparti. Va bene?”

Cathy annuì, cercando di frenare le lacrime e fidarsi di lui. Essere in sua compagnia in quel posto era sempre meglio che da qualche parte da sola.

“Ok. Andiamo, credo abbia girato di lì”.

Proseguirono per una buona mezz’ora senza parlare, cercando di tenere duro e non farsi sopraffare dalla paura. Per farla stare tranquilla, Teddy segnò con la bacchetta tutti i tronchi degli alberi che avevano superato, in modo da ritrovare agevolmente la strada per il ritorno. Cathy ricordò la favola di Hansel e Gretel e pensò di esporgli quel paragone, ma era certa che lui non potesse conoscerla. In ogni caso, il pensiero di Catherine che le leggeva quel libro prima di dormire, e della luce carezzevole della sua stanza in orfanotrofio, erano ricordi che riuscirono in qualche modo a scaldarla. La morsa sul petto si allargò e capì che mancava ancora tanto, troppo, al calare della notte.

“Ehi, sento qualcosa! Vieni qui!” La trascinò di colpo dietro un grosso arbusto, fermandosi ad ascoltare. A pochi metri da loro provenivano delle voci: una era quella di Young, riconoscibile dal solito tono freddo. L’altra era una voce femminile.

“Alzati” diceva lui, perentorio, allo stesso modo in cui interrogava gli studenti. Cathy sbirciò tra le foglie e lo vide in piedi, accanto a una donna accovacciata.

“Non posso…” rispose lei, la voce flebile e sofferente. “Non ci riesco, io…”

“Ho detto alzati!” Quell’immagine metteva i brividi: come poteva Young trattare così una signora indifesa, visibilmente priva di forze? “È tutto qui quello che sai fare? Vuoi prostrarti davanti al tuo assassino senza combattere?”

LASCIALA STARE!!” Accadde tutto in una frazione di secondo, qualcosa che né Cathy, né Young, né la donna potevano prevedere. Teddy era spuntato fuori dal cespuglio con la bacchetta puntata, frapponendosi tra la strega e il suo aguzzino. Un tale coraggio era ammirevole, ma incredibile, se si pensava che stesse difendendo una sconosciuta. Solo che, per lui, quella donna era tutt’altro che una sconosciuta.

“Non torcerai neanche un capello a mia nonna, hai capito? Prima dovrai uccidere me!”

“Ted!” esclamò Andromeda, a metà tra lo stupita e l’emozionata. “Che cosa ci fai qui?”

“Abbassa quella bacchetta, Lupin” gli intimò Young, che invece sembrava soltanto irritato. “Non dovresti affatto essere qui”.

“Invece ci sono venuto e ti ho scoperto!” gridò Teddy, senza obbedire al comando. “Dirò a tutti la verità, sapranno chi sei veramente!”

“Ted, ti stai sbagliando… Lui non vuole farmi del male, è solo…”

“Abbassa quella bacchetta” replicò Young, ancora. “Fallo e ti spiegheremo tutto con calma”.

Teddy si voltò a guardare Andromeda, che gli sorrideva rassicurante. Allora si fidò, ripose la bacchetta in tasca e l’aiutò ad alzarsi. Cathy assisté commossa alla scena, colpita dall’incredibile dolcezza che sembrava permeare il viso di quella donna.

“Era solo un’esercitazione” gli spiegò, appoggiandogli le mani alle spalle. “Non voleva farmi del male, gli ho chiesto io di insegnarmi a combattere. Sono quasi tre mesi che mi dà lezioni”.

“Lezioni… Combattere… Allora è per questo che non eri mai a casa! Ma…. Ma perché?” Teddy balbettò, incapace di apprendere quelle verità tutto insieme. Erano molto diverse da quelle che si aspettava, eppure combaciavano con la scena appena vista.

“Per proteggerti! Per essere pronta a tutto, se qualcuno osasse metterti in pericolo. So che per te è difficile capire…” Si abbassò alla sua altezza e lo guardò negli occhi, mentre Young assisteva in silenzio a quell’accorato discorso. “Da quando ho perso tuo nonno e poi tua madre, non ho più avuto pace. Se sono tanto dura con te è perché ho troppa paura di vederti soffrire, o affrontare cose che non saresti in grado di superare. Pensa a oggi! Ti rendi conto di cosa poteva succedere, del pericolo che hai corso uscendo dalla scuola?”

“Ma nonna…” Teddy si liberò da quel contatto, leggermente imbarazzato. “Non c’è nessun pericolo qui, solo alberi ed erba secca. Contro chi vorresti combattere? Siamo al sicuro, non c’è…”

“Non siamo mai davvero al sicuro”. Young aveva improvvisamente preso la parola, avvicinandosi ai due. Cathy, dal suo nascondiglio, si chiedeva se dovesse uscire allo scoperto, ma più tempo passava più non le sembrava una buona idea. “Il pericolo può essere ovunque, Lupin, anche dove non avresti mai immaginato. E adesso spostati, devo medicare tua nonna”.

Teddy rispose con uno sguardo imbronciato, poi si fece da parte controvoglia. L’insegnante teneva in mano un’ampolla di Dittamo, la stessa che Cathy aveva notato nel suo studio, e con essa iniziò a curare le ferite di Andromeda. La donna aveva molti graffi su gambe e braccia, ma dopo il passaggio di quell’unguento la pelle ritornò come nuova. Era strano vedere Young alle prese con un gesto del genere, così premuroso, verso qualcuno che un attimo prima stava quasi minacciando.

“Albert, ti prego…” La donna allungò una mano e con essa strinse il polso del suo guaritore, mentre Teddy osservava la scena con sospetto. “So che mio nipote ha sbagliato, merita senza dubbio una punizione, ma… Non farlo espellere. Sono più tranquilla nel saperlo a scuola, e in più ha appena iniziato la sua educazione… Per favore, dagli una possibilità”.

Young valutò quella richiesta per qualche istante, tenendo sulle spine il povero Teddy. Per quanto il ragazzo si mostrasse scontroso e arrabbiato, di sicuro temeva la propria espulsione più di qualsiasi altra cosa.

“Il tuo ragazzo ha molto da imparare, Andromeda. Innanzitutto a fidarsi delle persone giuste, e seconda cosa il rispetto delle regole. Confesso che, se non fosse tuo nipote, non mi troverebbe così indulgente”.

La donna sorrise: quelle parole ambigue dovevano suonare alle sue orecchie come un sì. “Grazie. Forse siamo stati imprudenti anche noi a scegliere questo posto… Troppo vicini alla scuola, qualcuno poteva sentirci. Ted, come sei arrivato fin qui?”

Il ragazzo biascicò un imbarazzato “ehm”, ma fu Young a rispondere per lui: “Mi ha pedinato, semplicemente. Sono settimane che segue i miei spostamenti, credendo che io non lo sappia. Deve avermi scambiato per un ex Mangiamorte in incognito. Certo, non credevo che si sarebbe spinto fino a questo punto”.

A quelle parole, l’espressione di Andromeda parlò dall’ansioso all’infuriato: di sicuro non si aspettava che suo nipote si fosse improvvisato spia. Teddy arrossì fino alle orecchie. “Ma che cosa mi fai sentire? È la verità, Ted? Hai sospettato del tuo professore? Rispondimi!”

Cathy provò pena per lui, costretto a doversi giustificare davanti alla nonna. Probabilmente aveva violato una decina di regole della scuola, ma l’aveva pur sempre fatto a fin di bene. Forse fu questo a dargli coraggio, perché ancora una volta affrontò i due a testa alta e non si vergognò di ammettere i propri errori: “Sì, è vero, ho sospettato di lui. Ho sbagliato, ma come puoi darmi torto? Non fa che terrorizzarci durante le lezioni, e a scuola gira la voce che sia un tipo violento. Dice di odiare le Arti Oscure ma va in giro per Notturn Alley!” Si accorse troppo tardi della gaffe: Andromeda non aveva mai saputo di quell’incursione e del salvataggio di Harry il gatto.

“Notturn Alley? E tu cosa ne sai di quella strada?”

“Ehm… Ne ho sentito parlare da qualcuno che c’è stato” si giustificò, vago. Fu un miracolo che Young non lo smascherasse, soprattutto dopo le accuse che gli aveva rivolto. “E poi perché io devo spiegare tutto e lui niente? Come faccio a fidarmi, con quello che fa e che dice?”

“Ted, ma non hai nessun ritegno!” gridò Andromeda, sempre più sconvolta. “Si può sapere che cosa ti succede? Da quando sei a Hogwarts non ne combini una giusta! Prima quello scontro con Jason Dolohov, adesso questo! Non mi avevi già delusa abbastanza con quell’assurdo comportamento? Possibile che non ti renda conto che tu non sei un Auror e non c’è nessuno con cui combattere?”

Teddy assunse un aria colpevole e infelice: era evidente che il ricordo di Dolohov e della lettera di Andromeda gli bruciava ancora. “Faccio le stesse cose che fai tu, mi sembra. Perché devo preoccuparmi di non deluderti, quando tu ti fai quasi ammazzare da questo qui?”

Quella volta aveva davvero esagerato. Sua nonna si avvicinò con uno scatto e l’avrebbe sicuramente colpito, se Young non si fosse intromesso e l’avesse fermata: “Lascia stare, Andromeda. Te l’ho detto che ha ancora molto da imparare, non si rende nemmeno conto degli anni che ha e di ciò che può e non può fare. Se proprio insiste, comunque, c’è una cosa che posso dirgli: il motivo per cui sono stato a Notturn Alley”.

Teddy e Andromeda assunsero la stessa espressione scioccata. Neppure Cathy, a cui ormai facevano male le ginocchia, si sarebbe aspettata una tale disponibilità da parte di Young.

“Vedi, Lupin…” Cominciò, tenendo tutti col fiato sospeso. “Odiare e combattere le Arti Oscure non significa non conoscerle. È necessario studiarle nei minimi dettagli per sapere come contrastarne gli effetti, altrimenti le mie lezioni non avrebbero senso. Notturn Alley, come saprai di certo, è la strada di Londra più intrisa di magia oscura e pericolosi artefatti. Se la visito di tanto in tanto è solo per documentarmi, per sapere di quali armi è in possesso il nemico prima di affrontarlo. Non mi aspetto che tu capisca, ma ti assicuro che è la verità”.

Teddy era ancora corrucciato, ma sembrò convincersi di quella versione. In effetti, era così ovvia e banale che né lui né Cathy, con la loro fantasia fin troppo vivida, l’avrebbero mai ipotizzata. “Sì, ho capito” replicò. “Ma allora perché l’hanno licenziata come Auror?”

Questa volta Young non si mostrò ugualmente aperto al confronto: “Non credo tu debba sapere altro della mia vita, ragazzo. Sono stato fin troppo indulgente a giustificare le mie azioni e a non espellerti. Sono il tuo insegnante di Difesa e sarò disposto a dimenticare quanto accaduto, per tua nonna e per la tua educazione. Se non sei d’accordo, nessuno ti obbliga a restare”.

Teddy non se la sentì di aggiungere altro. Abbassò il capo e decise così di fidarsi di lui, benché non gli avesse detto tutto quello che voleva sapere. Andromeda, più calma ma non meno severa, gli impose di chiedere scusa a Young.

“Mi scusi” obbedì lui. “Non farò più niente del genere”.

Subito dopo, Andromeda e l’insegnante capirono che era tempo di salutarsi. La donna gli strinse di nuovo la mano e lo ringraziò con aria appassionata, poi salutò Teddy con un bacio sulla guancia. Cercava di apparire fredda e impassibile, ma quello che i suoi occhi comunicarono appena prima di Smaterializzarsi fu qualcosa di diverso: orgoglio e gratitudine, per il gesto coraggioso con cui suo nipote aveva tentato di salvarle la vita.

“Ora che siamo soli” riprese Young un attimo dopo “puoi anche uscire da quel cespuglio, Scott”.

Cathy si alzò con le guance rosse dall’imbarazzo e le ginocchia scricchiolanti, a causa di tutto il tempo che aveva passato in quella posizione. Si chiese come facesse quel tipo a sapere sempre tutto, quasi riuscisse a leggere nel pensiero.

“Mi chiedo perché quando succede qualcosa ci sia sempre tu di mezzo. Immagino che volessi aiutare il tuo amico, ma avresti fatto meglio a riportarlo indietro”.

Per un attimo fu tentata di dire che ci aveva provato, ma qualcosa la fece desistere. Forse era il mezzo sorriso di Teddy, amichevole e nuovamente complice, che si complimentava con lei e con se stesso per essere usciti dai guai una volta di più. “Ci scusi” disse soltanto. “D’ora in poi ci fideremo di lei. Adesso può riportarci a scuola, per favore?”

Young annuì e subito dopo fece cenno ai due di seguirlo. Cathy, con il cuore leggero, fu felice per la prima volta di trovarsi in sua compagnia. Forse quel gesto era stato stupido, come Teddy l’aveva definito, ma sembrava essere servito allo scopo.

“Ancora non riesco a credere che mi tu mi abbia minacciato con la bacchetta” disse poi l’uomo, rivolto a Ted. “Che tipo di incantesimo avresti usato?”

Il silenzio che seguì sottintendeva una risposta ben precisa: non ne aveva la minima idea. “Ecco… Credo che avrei improvvisato, Professore”.

Young piegò un lato delle labbra come se stesse per sorridere. “Ne conoscevi almeno uno? Un semplice incantesimo di Disarmo, magari?”

“Ehm…”

“Immaginavo. Credo sia il caso di aprire il Club dei Duellanti anche ai ragazzi del primo anno”.

Cathy e Teddy non sapevano come ribattere se non annuendo. Man mano che il tempo passava, prendevano coscienza del pericolo appena corso e di quanto fossero stati fortunati nell’incontrare Andromeda. Non avrebbero più contrariato Young per almeno un mese, ma almeno per il momento non ce ne fu più bisogno. L’uomo fece qualcosa di completamente assurdo, imprevedibile, qualcosa assolutamente non da Young né da qualsiasi professore agghiacciante come lui: iniziò a ridere. Una risata autentica, piena di vita, che non aveva niente a che fare con quella amara e folle dell’uomo buono. Anche leggermente sinistra, come se non uscisse fuori da quella bocca da almeno cent’anni. Cathy e Teddy si guardarono l’un l’altra perplessi, poi quel riso li contagiò e non riuscirono più a smettere. Una mano di Young, che si protese a scompigliare quasi con affetto la chioma azzurra del ragazzo, fu l’ultimo miracolo di quella giornata.


Note

Questo capitolo è stato un parto difficile, ma finalmente eccolo qui! Era da tanto che avevo in mente questa scena, dove ho potuto svelare che cosa nascondevano Andromeda e Young e il rapporto difficile, seppure pieno d'affetto, che lega Teddy a sua nonna. Spero che il segreto di Young non vi risulti fin qui troppo banale (perché c'è ancora da raccontare, in effetti) e che tutti i retroscena (uscita dal castello e annessi) siano abbastanza credibili. Non ho voluto far cimentare i ragazzi in cose più grandi di loro, come una Passaporta o la Metropolvere, così ho trovato questo espediente.

Perdonatemi per il ritardo, ma è stato un periodo più impegnativo del solito anche su Efp! Per chi volesse darci un'occhiata, sto pubblicando anche un'altra storia breve su Lucius e Narcissa, e una su Bellatrix è in arrivo tra poco :) Ciao a tutti e grazie!

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Capitolo 17
*** Quasi puri ***


17


“Asfodelo. Ha detto sicuramente asfodelo”.

“Ma sei scema? L’asfodelo è una radice, Lumacorno ha parlato di un infuso! È artemisia, ne sono sicura”.

Jennifer intinse la piuma nell’inchiostro e scrisse il nome della pianta sulla propria pergamena. Nella fretta, alcune gocce macchiarono vistosamente il suo tema di Pozioni, mentre la ragazza si lamentava di quanto fosse ingiusto pretendere la ricetta di un filtro che non era neanche sul libro di testo. Cathy guardò Maggie e quest’ultima scosse la testa, incapace nonostante gli sforzi di creare una collaborazione pacifica, almeno quando c’erano di mezzo le sorelle Hill.

“Io dico che era asfodelo” sussurrò poi Susan nell’orecchio di Cathy, non avendo il coraggio di ripeterlo a voce alta “ma lei non mi crederà mai. Deve mostrarsi contraria per principio”.

Forse era vero, ma Jennifer non avrebbe ammesso una cosa del genere neppure sotto tortura; neanche quando c’erano di mezzo i suoi voti, sempre più carenti, in Pozioni. Cathy ci pensò su qualche istante, poi si abbassò sulla propria pergamena e scrisse, abbastanza convinta di se stessa, aconito.

“Ragazze, lo sapete che a breve ci sarà la Festa della Conciliazione? Sono proprio curiosa di scoprire cosa ci diranno, per convincerci che i Serpeverde sono delle brave persone… Oh, a parte te, Cathy”.

La ragazzina non badò al fatto che quelle parole potevano risultare offensive: con il tempo, si era abituata ai pregiudizi di Maggie quanto alla sua lingua più veloce del cervello. “Si tiene tra poco, vero?”

“Due settimane” puntualizzò. “Non ho ancora capito dove, però… Parlano di Stanza della Conciliazione, ma io non l’ho mai vista nel castello! Voi?”

Jennifer alzò il capo dalla pergamena, fingendo di rileggerla alla ricerca di eventuali errori. “Io penso che sia un’usanza inutile. Se la Casa di Serpeverde è detestata da tutte le altre praticamente da sempre, si vede che c’è un motivo. È inutile che vengono a dirci che sono tutti buoni e innocenti, se poi non perdono occasione per sminuirci!”

“Non lo fanno tutti!” Susan s’intromise e immediatamente sua sorella la fulminò. “Passi per Zabini e Dolohov, ma Evan Gregory non ci ha mai dato fastidio… È anche tuo amico, non è vero, Cathy?”

“Sì, lui è un po’ meglio degli altri”. Era facile definirlo suo amico dopo tutto quello che avevano vissuto insieme, ma la realtà era che da tempo non parlava con lui. Più o meno dal giorno del terremoto, e da quando un articolo aveva fatto crollare tutti i suoi sogni.

“Se ti sei presa una cotta per un Serpeverde tienitelo per te” replicò Jennifer, la lingua tagliente più di tutti coloro che disprezzava. Susan arrossì e ribatté che non era vero, che Jenny doveva smetterla di criticarla su tutto. A quel punto, le accuse si sprecarono e il tranquillo pomeriggio di studio che si era prefissato divenne solo un lontano ricordo.

“Già, che cosa insulsa cercare di conciliare Case diverse, quando all’interno di una sola si va così d’amore e d’accordo!” A Cathy scappò un sorriso, nonostante ci fosse ben poco da stare allegri. Maggie aveva il dono di saper sdrammatizzare anche nelle situazioni più incresciose.

“Pazienza, qualcuno litiga e qualcuno fa pace. Sono contenta che tu e Teddy vi siate chiariti! Certo, ci siamo chiesti tutti dov’eravate finiti… Vi siete persi una partita incredibile! Abbiamo stracciato i Serpeverde come non succedeva da anni, la loro squadra è veramente una mammoletta in confronto alla nostra! Vinceremo la Coppa, me lo sento!”

Cathy notò il suo entusiasmo e tentò di non essere da meno, anche se reputava l’avventura con Teddy molto più appassionante del Quidditch. Inoltre, era servita a rendere Young leggermente più umano e Ted un po’ meno ossessionato da lui, pur se lo considerava ancora eccessivo negli atteggiamenti e pericoloso per sua nonna. Di certo aveva smesso di pedinarlo e parlarne in continuazione, e in cambio aveva ottenuto una certa indulgenza da parte del professore. Oltre a non averli puniti in alcun modo, infatti, si mostrava anche meno duro durante le lezioni, arrivando a congratularsi apertamente dopo una risposta corretta. Da Cathy, poi, voleva solo una cosa: che continuasse a esercitarsi con la bacchetta e smettesse di provocare disastri. Gliel’aveva ribadito così tante volte che ormai era diventato più importante del suo stesso rendimento in Difesa. Qualche risultato, seppur piccolo, l’aveva ottenuto: riusciva a spostare e sollevare gli oggetti più di quanto avesse mai fatto, e la Holland si era mostrata molto compiaciuta davanti alla sua esecuzione dell’incantesimo Lumos.

“Ci saremo sicuramente alla prossima” rispose a Maggie, che era stata sapientemente tenuta all’oscuro dell’accaduto. “Grifondoro contro Corvonero, giusto?”

Ma la ragazza si bloccò prima di confermare, con gli occhi azzurri spalancati che fissavano qualcosa alle sue spalle. Persino Jenny e Susan, tutte prese ad azzuffarsi, si bloccarono con una mano sul colletto dell’altra e un pugno pronto a colpire. Susan arrossì più di prima, Cathy si voltò e comprese la ragione di quello shock: Evan Gregory si era avvicinato al loro tavolo.

“Ciao” disse, intimidito dalle stesse persone che sembravano spaventate da lui. Aveva un aspetto piuttosto trasandato, con la divisa male abbottonata e gli occhi gonfi di chi ha passato una notte insonne.

“Lo sapevo che studiare in Sala Grande non era una buona idea…” sussurrò Maggie, ma non abbastanza perché lui non la sentisse.

“Ciao. Come stai?” gli chiese Cathy, sperando che quell’accoglienza non avesse peggiorato il suo umore.

“Bene. Volevo dirti una cosa”.

Le ragazze restarono in attesa, ma Evan si fermò lì. Il suo sguardo si spostò nervosamente dall’uno all’altro viso, facendo intendere che non avrebbe parlato davanti a tutte loro.

“Facciamo due passi” propose Cathy, ma Maggie le afferrò un braccio con forza costringendola a rimanere seduta.

“Qualunque cosa tu voglia dire puoi farlo davanti a noi! Cathy non ha segreti, ci dice tutto!”

Non era esattamente così, ma era un bene che Maggie lo pensasse. Evan sembrò in difficoltà, poi aggiunse vago: “È una cosa privata. Se vuole potrà dirvelo dopo”.

Cathy si liberò dalla stretta e riuscì finalmente ad alzarsi, ignorando l’espressione contrariata dell’amica. Più tardi avrebbe inventato qualcosa da dirle, ma per il momento era solo impaziente di ascoltare. Salutò le ragazze e si allontanò con lui, ma un ultimo commento di Maggie non sfuggì alle sue orecchie: “Sarà anche carino, Susan, ma ha dei segreti! Detesto le persone che non parlano!”

Evan e Cathy uscirono dal castello e si diressero verso il parco, dove scarsi gruppi di studenti trascorrevano il pomeriggio libero. Quel giorno, il cielo era limpido e il sole scaldava appena le loro pelli infreddolite. Si fermarono sulla riva del lago, che era ormai diventato simile a una lastra di metallo. Evan si stringeva addosso il mantello e ancora non parlava.

“Come va con tuo padre?” gli chiese Cathy, pensando fosse quello il motivo del suo malumore. Il signor Gregory non gli aveva ancora perdonato di aver spiattellato in giro i dettagli della sua invenzione.

“Dice che non ha più fiducia in me. Gli ho spiegato che cosa è successo, ma ormai è convinto che sveli i suoi segreti a chiunque e mi tiene all’oscuro di tutte le sue nuove pozioni. Volevo solo aiutarlo, ma questo lui non lo capisce”.

“Mi dispiace. Forse, se non l’avessi detto a nessuno di noi…”

Evan alzò le spalle, simulando un’indifferenza che non provava. “Non sono pentito di averne parlato con te e Alex. È stata Vera a rovinare tutto, non glielo perdonerò mai. Dice che non voleva parlare della pozione, la Skeeter ne ha solo approfittato per portare avanti il suo scoop e accusare la scuola, ma è comunque stata lei a spifferare tutto. Può insistere quanto vuole, non tornerò ad esserle amico”.

Cathy immaginava perfettamente la scena di Vera che, tutta sorrisi, implorava Evan di perdonarla. Purtroppo per lei, aveva scelto il modo peggiore per avvicinarlo a sé, finendo per ottenere l’effetto contrario.

“Era questo che volevi dirmi?” A costo di risultare indelicata, Cathy non riusciva più a tenere a freno la curiosità. Per sua fortuna, Evan rispose con un sorriso e sembrò altrettanto felice di cambiare argomento.

“No. Si tratta della Festa della Conciliazione. Ricordi quella sera in cui ci portarono nell’ufficio della McGranitt? Lei e Lumacorno parlarono di un ospite speciale che sarebbe stato invitato”.

Cathy ci pensò su, ricordando solo allora quel particolare. “Sì…” rispose, chiedendosi dove volesse arrivare.

“Be’, ho scoperto chi sarà quell’ospite”. Si voltò a guardarla con l’aria di chi annuncia una bellissima notizia. “Harry Potter!”

“Ah…” Cathy restò senza parole, indecisa se gioire o meno per quella novità. Le avrebbe fatto piacere rivederlo, per non dire che le batteva il cuore alla sola idea, ma aveva anche paura di tornare ad illudersi. Dopo la rivelazione di Teddy era finalmente riuscita a mettere una pietra sopra a quella storia, e riaprire la ferita sarebbe stato troppo doloroso.

“Allora, non sei contenta? È la tua occasione per parlargli e sapere la verità!”

Cathy scosse la testa. Un tempo lo sarebbe stata, ma l’occasione era arrivata troppo tardi. “È inutile. Ted mi ha detto che non è lui mio padre”.

“E tu gli credi?” Evan si incupì immediatamente, la sua era una reazione istantanea. “Voglio dire… Non sarebbe meglio chiederglielo di persona? L’hai detto tu che è geloso, magari se l’è inventato…”

“Non mi avrebbe mentito”. Non sapeva da dove le venisse quella sicurezza. Forse, voleva solo evitare di tradire ancora la fiducia di Teddy, dopo che era riuscita così faticosamente a farsi perdonare. L’idea che potesse averle detto una bugia non la sfiorò minimamente.

“Be’, fai come vuoi. Io ti ho avvisata”. Evan afferrò un sasso dalla riva e lo lanciò nel lago, andando a frantumare la sottile lastra di ghiaccio. Cathy ebbe come l’impressione che l’avrebbe tirato volentieri addosso a Ted.

“Come l’hai saputo?” gli chiese poi.

“I Serpeverde hanno le loro armi. Quando si tratta di questa festa, poi, siamo sempre i primi ad essere informati. Chissà perché, i professori sono convinti che siamo noi i più difficili da conciliare”. Lanciò un altro sasso nel lago, che ricadde più lontano del precedente. Cathy non poté fare a meno di notare che aveva parecchia energia, per un ragazzo della sua età.

“Allora saprai anche dove si svolge… Questa Stanza della Conciliazione non la conosce nessuno, neppure Maggie sa dove si trova”. Era una provocazione, tanto per dimostrargli che neppure un Serpeverde poteva sapere tutto. Eppure, Evan la stupì un’altra volta.

“Certo che lo so” rispose, provocatorio quasi quanto lei. “Una volta la chiamavano Camera dei Segreti”.

*

Era la stanza più strana che si fosse mai vista a Hogwarts. Vi si accedeva dal primo piano, attraverso una parete magica che nessuno studente aveva mai notato, forse perché era nascosta da un quadro cupo e silenzioso che non attirava certo l’attenzione. Proprio di fianco, c’era il bagno delle ragazze guasto dalla notte dei tempi che tutte le studentesse erano abituate a ignorare: dalla porta s’intravedevano lavandini sbreccati e un pavimento perennemente coperto d’acqua. Qualche volta Cathy si era chiesta perché non venisse mai riparato, prima di sentir dire da ragazze più grandi che era infestato da un fantasma raccapricciante. Da quel momento, ogni volta che ci passava vicino si affrettava a distogliere lo sguardo.

Dopo il passaggio nel muro si accedeva a un tunnel lungo e basso, per attraversare il quale era necessario mettersi in fila. Si snodava per diversi metri, conducendo a un luogo del castello sicuramente più profondo dei sotterranei. Il Prefetto dei Serpeverde spiegò che era così stretto perché era stato costruito velocemente, in modo da permettere ai ragazzi di raggiungerlo in tempo per la festa. Fino all’anno prima, aggiunse, l’evento si svolgeva in Sala Grande, ma poi gli insegnanti avevano deciso di ristrutturare quella vecchia Camera perché la ritenevano più attinente al significato della festa. Che cosa volesse dire, nessuno l’aveva ancora capito.

Il passaggio era buio e freddo, nonostante le bacchette accese e qualche fiaccola alle pareti, e Cathy si chiese che senso avesse condurli in un posto del genere. Alla fine, però, raggiungendo lo sbocco di quel tunnel interminabile, capì che ciò che aveva davanti agli occhi era una stanza accogliente, calda e luminosa. Era molto ampia, forse più della Sala Grande stessa, e le statue dei quattro fondatori di Hogwarts davano il loro benvenuto all’ingresso. Sul pavimento lucido erano disposte centinaia di sedie, tutte rivolte verso una sorta di palchetto che avrebbe probabilmente ospitato i professori. In fondo alla sala c’era anche un unico tavolo, lungo almeno quattro volte quelli usuali, che avrebbe accolto tutti i ragazzi al momento della cena. L’intento degli insegnanti era chiaro: volevano che, almeno per una volta, venisse dimenticata l’appartenenza all’una o all’altra Casa, per considerarsi semplicemente alunni della stessa scuola.

Ammirata, Cathy si allontanò dal suo gruppo per dare un’occhiata in giro, e osservando l’ultima parete ancora nascosta al suo sguardo scoprì che le sorprese non erano finite: attaccato magicamente al muro, tre o quattro metri sopra le teste degli studenti, c’era lo scheletro di quello che sembrava un gigantesco serpente. Dalla bocca spalancata mancavano un certo numero di zanne, ma anche così restava una creatura impressionante. Tutti i ragazzi lo fissavano con gli occhi spalancati, ringraziando il cielo che quel mostro fosse morto. Alex Zabini si distinse come al solito, affermando che con la giusta spada avrebbe ucciso un serpente come quello ad occhi chiusi. Molti ragazzi risero, Cathy non capì il senso della battuta.

Quando tutti ebbero esplorato ogni angolo della stanza, Prefetti e Capiscuola indicarono ai ragazzi dove sedersi, tentando – con pochi risultati – di mescolare studenti di Case diverse. A Cathy fu concesso di sedere vicino a Evan, con cui aveva rinsaldato i rapporti dopo essere tornata tra i Serpeverde. Si sentirono dei movimenti provenire dall’ingresso e il suo cuore fece un tuffo: insegnanti e ospiti speciali li stavano raggiungendo.

Era incredibile quanto il tempo fosse passato in fretta, dopo che Evan le aveva detto chi sarebbe stato presente alla festa. Aveva cercato in tutti i modi di non pensarci, convinta che da quell’incontro non poteva ricavare niente di buono, ma l’ansia si era accumulata per tutti i giorni a seguire fino a quella data fatidica. E adesso, in attesa che quel palco diventasse meno vuoto, l’emozione di rivedere Harry Potter prendeva il sopravvento su ogni altro pensiero.

Fu il primo ad arrivare, precedendo i professori e generando un incredibile effetto sorpresa. Cathy riconobbe subito i suoi capelli neri e scompigliati e l’andatura un po’ incerta, come se non fosse ancora abituato a stare al centro dell’attenzione. Sorrise in direzione dei ragazzi, e Cathy si sentì felice all’idea che quel sorriso fosse rivolto anche a lei.

“Ciao a tutti!” esordì, e il tono di voce tradì la sua emozione. “Sono Harry, Harry Potter. Penso che i vostri insegnanti vi abbiano parlato di me, ma ci tenevo a conoscervi di persona in quest’occasione speciale. Spero che non vi darà fastidio se rubo un po’ del vostro tempo…”

A giudicare dagli applausi che seguirono, la risposta era sicuramente no. Solo Alex, Jason e Vera si trattennero dal fare quel gesto, e qualche altro Serpeverde - tra cui lo stesso Evan - applaudì con meno vigore.

“Sapete… È molto strano per me trovarmi qui, a pretendere di insegnarvi qualcosa, quando fino a poco fa ero uno studente come voi. Potete pensare che sia solo un modo di dire, ma per me è davvero così: mi sembra ieri che sedevo in Sala Grande per la cena e entravo in aula con il terrore delle interrogazioni. Perciò, se ci riuscite, consideratemi uno studente un po’ troppo cresciuto che è venuto a farvi compagnia, perché non mi sento davvero niente più di questo”.

Il secondo applauso fu più forte del precedente: gli studenti apprezzavano la sua umiltà, e la stessa Cathy, avendolo già conosciuto, sapeva che quel modo di fare non era una finzione, ma gli apparteneva davvero.

“Come qualcuno di voi saprà già, questa non è una stanza qualunque. Un tempo si chiamava Camera dei Segreti, ed era stata costruita per accogliere una creatura mostruosa in grado di uccidere. Ma non voglio parlare di cosa ha rappresentato per me, o di come ho ucciso il Basilisco che adesso vedete alle vostre spalle – anche perché, come dico ogni volta, ho avuto solo tanta fortuna. Voglio parlare di cosa rappresenta adesso, e di cosa deve significare per voi. Se i vostri professori hanno deciso di ricostruire la camera, dandone tutto un altro senso, c’è una ragione: hanno voluto restaurare la pace sulle ceneri della guerra, dimostrare che cambiare è possibile e che questo cambiamento dipende solo da noi. Tutti sapete cos’è successo undici anni fa, quando un mago di nome Voldemort ha minacciato di distruggere il nostro mondo e sostituirlo con uno fatto di odio, pregiudizi e vendetta. Ma chi di voi sa qual è stata l’arma principale, la vera forza che ci ha permesso di sconfiggerlo?”

Seguì un silenzio teso in cui ciascuno aspettava di sentirlo continuare, ma Harry si interruppe. Invitò i ragazzi a dare delle risposte, e ben presto qualche mano coraggiosa iniziò a sollevarsi.

“La bacchetta di Sambuco!” gridò un Grifondoro del terzo anno, alzandosi i piedi. Harry gli sorrise, ma lasciò intendere che non era la risposta corretta.

“Il tuo mantello!”

“L’astuzia!”

“Il coraggio!”

Seguirono altre risposte sulla scia della prima, ma nessuna era quella corretta. Alla fine, Harry riprese la parola e spiegò loro cosa aveva in mente: “Sono tutte risposte corrette, ma nessuna di queste era quella che intendevo. Avere una bacchetta potente a disposizione è sicuramente importante, ma non garantisce la vittoria. Così come il coraggio e le altre qualità, che in fondo tutti possediamo senza neppure saperlo. Vedete… Una volta un uomo saggio mi disse che nessuna magia è potente come l’amore. Sembrerà una cosa banale e melensa, lo so, ma un giorno vi accorgerete che è vero. Solo se restiamo uniti possiamo affrontare qualsiasi pericolo, perché l’amore è tutto ciò che i nemici sottovalutano e non possono comprendere. Non sarei qui se non fossi stato aiutato da persone più in gamba di me, che sono tuttora i miei migliori amici. A molti devo la mia stessa vita”.

Quasi la totalità della sala pendeva ora dalle sue labbra, e lo guardava come fosse una divinità scesa in terra. Tuttavia, Cathy si stupì nel notare che proprio Gary Thompson, il fratello di Maggie, si alzò in piedi e trovò qualcosa da ribattere: “I Serpeverde però non ti hanno aiutato. Sappiamo tutti come stanno le cose: hanno tentato di consegnarti a Voldemort, e quando non ci sono riusciti hanno abbandonato la scuola. A loro non devi niente”.

“Sbagli”. Harry si mostrò appena più severo dopo l’intervento di Gary, lasciando l’intera scuola col fiato sospeso. Il ragazzo tornò al proprio posto e si limitò ad ascoltare. “È stato proprio un Serpeverde a proteggermi mentre ero a scuola e indicarmi la strada giusta, ed era l’uomo più coraggioso che avessi mai conosciuto. L’unico rammarico che ho è averlo scoperto troppo tardi, e non averlo potuto onorare di più che con un quadro affisso nello studio del Preside. Anche una donna Serpeverde ha salvato la mia vita rischiando la sua. E potrei raccontarvi di molti altri casi del genere, ma come dicevo prima non è di me che voglio parlare. Voglio farvi capire che, se quella forza ha davvero sconfitto il più pericoloso mago oscuro di tutti i tempi, è fondamentale preservarla. In fondo, proprio dietro le vostre spalle…” indicò la parete del Basilisco e tutti si voltarono a guardare, benché l’avessero già osservata più volte. “C’è il tavolo a cui cenerete stasera. È un modo semplice per farvi sentire uniti, per ricordarvi che l’orgoglio di appartenere a una Casa è bello, ma disprezzare le altre è ingiusto e meschino. Non pretendo che alla fine di questa serata sarete amici anche di quel tipo che vi ruba l’astuccio, ma vi chiedo di provare a conoscervi, più di quanto abbiate mai fatto. Sedete accanto a persone che non avete mai salutato, commentate con loro la festa e la vostra vita di tutti i giorni. Potreste scoprire qualcosa di bello a cui non avevate mai pensato. Provenire da famiglie ed esperienze diverse è un dono, non qualcosa di cui vergognarsi. Fate come ho fatto io e molti altri prima di me: state uniti. Vincerete ogni giorno”.

L’ultimo applauso fu il più fragoroso, accompagnato da un boato che inondò tutta la sala. Capiscuola e Prefetti si alzarono in piedi, inducendo così tutta la scuola ad imitarli. Gary applaudì come tutti gli altri e i Serpeverde più restii fecero almeno finta di approvare. Il discorso di Harry, semplice e diretto al cuore, aveva colpito tutti: che fosse o meno sua figlia, Cathy non si era mai sentita tanto orgogliosa di lui.

*

Le parole di Potter avevano senza dubbio sortito qualche effetto: durante la cena, ragazzi che non si erano mai visti prima se non per sbaglio parlavano tra loro come fossero grandi amici, incuranti del fatto che uno di loro fosse di Serpeverde e l’altro di Tassorosso. Fu una serata allegra e piacevole, accompagnata da un suono d’arpe e violini che sembrava diffondersi dalle pareti. Gli insegnanti sedevano allo stesso tavolo degli studenti, riuniti ad una delle due estremità, e Harry Potter aveva preso posto accanto a loro. Con lui c’era anche la moglie, una ragazza carina dai folti capelli rossi e l’aria socievole.

Il cibo era squisito come al solito, ma Cathy non mangiò quasi nulla. Continuava a sbirciare in direzione di Harry, cercando di carpire qualche stralcio della sua conversazione, e rispondeva a monosillabi a una loquace Lauren Jackson. In un altro momento le avrebbe fatto piacere conoscere quella ragazza, che più di una volta le aveva dato una mano a curare le rose per Paciock, ma quella sera era troppo distratta per darle ascolto. Sapeva bene cosa doveva fare di lì a poco, e non avrebbe cambiato idea nonostante l’ansia le chiudesse lo stomaco; l’aveva deciso quando Harry aveva terminato il suo discorso, o forse anche prima, quando per via di Evan quell’uomo era tornato prepotentemente nei suoi pensieri. Che cosa aveva pensato di lei, dopo aver letto quel maledetto articolo? Teddy gli aveva mai spiegato come stavano le cose? C’era un solo modo per saperlo, ed era seduto a pochi metri da lei.

Dopo il dolce, il Preside si alzò in piedi – non che facesse molta differenza, data la statura – e concesse così a tutti di lasciare il proprio posto, sebbene la festa non fosse ancora finita. Le sedie furono messe da parte e la grande sala vuota divenne il luogo ideale per ballare: dapprima timidamente, poi con maggior energia, coppie di ragazzi dal quarto anno in su scesero in pista e aprirono le danze. Gary trascinò con sé la sorella, che per l’occasione indossava un largo abito verde smeraldo. A poco a poco, anche i professori si lasciarono coinvolgere dall’atmosfera, e le coppie più incredibili si riunirono sulla pista: Lumacorno invitò la McGranitt per un valzer, la Holland convinse Paciock a farla volteggiare e Young acconsentì di danzare con la professoressa Sinistra. Harry restò in disparte in un angolo della sala, chiacchierando amabilmente con sua moglie. Teddy era accanto a loro e sembrava raggiante per quella visita. Cathy si fece coraggio e decise che era il momento giusto per agire.

Quando la vide avvicinarsi, il ragazzo cambiò di colpo espressione. Il suo sguardo passò da lei a Harry, che non aveva notato ancora nulla, come comprendendo le sue intenzioni. Tuttavia, non fu a Potter che Cathy parlò per prima; oramai aveva imparato dai suoi errori.

“Ciao, Ted”.

“Ciao”. Vedendo che si era rivolta a lui sembrò rasserenarsi. Subito dopo, però, diventò sospettoso: “Non vorrai chiedermi di ballare, vero?”

“Certo che no! Volevo chiederti di parlare con il tuo padrino”.

“Ah…” Era riuscito a coglierlo di sorpresa: non si aspettava che gli avrebbe chiesto il permesso per una cosa del genere. “Dillo a lui allora, no?”

“L’avrei fatto” ribatté lei, decisa “ma non volevo correre il rischio di litigare di nuovo con te. Allora, ti dispiace se gli dico qualcosa in privato?”

Teddy si mostrò combattuto: di sicuro non gli faceva piacere, ma si rendeva conto che rifiutare sarebbe stato un atto ignobile. Dopo che lei gliel’aveva chiesto con tanta gentilezza, non poteva dirle di no senza passare dalla parte del torto. Acconsentì con un cenno del capo.

“Grazie”. Non se lo fece ripetere due volte: si voltò, con il cuore che le batteva all’impazzata, e avanzò verso la giovane coppia. Erano così presi dalla loro conversazione che si accorsero di lei solo quando la ebbero a un palmo dal naso. Harry si mostrò dapprima sorpreso, poi quasi spaventato; Cathy non si aspettava di fargli un tale effetto.

“Ciao, Cathy… Come stai?” La salutò timidamente, lanciando sguardi timorosi alla moglie come se le stesse facendo un torto. Anche se non capiva la ragione di quel comportamento, la ragazzina s’illuminò: Harry ricordava il suo nome.

“Cathy?” La donna si era intromessa, storcendo il labbro. Irritata com’era sembrava improvvisamente molto meno affabile. “Sarebbe la ragazzina che dicono essere tua figlia?”

“Ginny, andiamo! Lo sai che Rita Skeeter scrive solo spazzatura. Scommetto che Cathy non l’ha neanche mai vista, non è vero?”

“No, infatti! Io non ho mai detto tutte quelle cose!” Cathy tirò un primo sospiro di sollievo: Harry non era arrabbiato con lei e credeva alla sua innocenza. Tuttavia, non poteva lasciare che il discorso finisse lì, o non avrebbe mai scoperto quello che voleva sapere.

“Visto? Quella Skeeter non cambia mai, è disposta a tutto pur di portare avanti i suoi scoop! Durante il Torneo Tremaghi fece passare me per un ritardato e Hermione per una… Donna scarlatta. Per non parlare di quello che scrisse di Silente nel suo libro”. Da come ne parlava, era evidente che il ricordo gli bruciava ancora. Ginny però non parve ancora convinta.

“Sì, ma aveva i suoi motivi – per quanto assurdi – per avercela con te e Hermione. E nella storia di Silente c’era comunque un fondo di verità…. Adesso mi chiedo che scopo ci fosse nel metterti in mezzo”.

“Ma non ne ho idea!” sbottò Harry, con l’aria di chi lo ripete per la milionesima volta. “Forse le serviva solo un nome famoso da tirare in ballo. Non la immaginavo neppure io così fantasiosa, ma…”

“Veramente, non si è inventata proprio tutto”. Cathy s’intromise in quel momento, senza pensarci troppo, o non avrebbe avuto il coraggio di continuare. Harry restò a bocca aperta senza terminare la frase, mentre Ginny sembrava ancora più infuriata. Cathy non voleva creare loro dei problemi, ma doveva sapere.

“Harry, per favore… Posso parlarti un attimo in privato?”

L’uomo boccheggiò senza riuscire a decidersi, temendo più che mai ciò che poteva uscire dalla bocca di quella ragazzina. Ginny non gli rese le cose più facili, mettendolo alle strette: “Bene. Che cosa mi dici ora, eh? C’è qualcosa che devo sapere, Potter?”

A quel ‘Potter’ lo sbigottimento di Harry raggiunse il culmine. Forse, a Ginny capitava di chiamarlo così solo quando era molto arrabbiata. Subito dopo però si ricompose, rispondendo alla donna con la stessa dignità che aveva caratterizzato il suo discorso: “Niente che sappia io, Ginny. Ma se Cathy mi vuole parlare non ho nessun motivo per dirle di no. Hai sempre detto di avere fiducia in me, non è così? Dimostralo adesso. Scegli se credere a me o a Rita”.

Ginny incassò il colpo, abbassando lo sguardo e tacendo. Quando, però, Harry circondò le spalle di Cathy con un braccio e si allontanò con lei, alla ragazza non sfuggì lo sguardo pieno di amarezza che la rossa le stava rivolgendo. Nessuno, a parte l’uomo buono durante i loro primi incontri, l’aveva mai fissata così.

Si avvicinarono alla parete del Basilisco, rimasta vuota dopo che tutti i ragazzi avevano cominciato a ballare o ad osservare gli altri farlo. Cathy prese fiato e iniziò a raccontargli tutto: di Evan, della sua folle idea, dei particolari che sembravano combaciare e di come tutto era finito su quell’articolo. Riuscì a lasciare Harry basito, e nel suo smarrimento lesse la conferma che lui non era suo padre. O, almeno, non aveva mai saputo di esserlo.

“Mi dispiace di averti fatto litigare con tua moglie. Non voglio crearti altri problemi, ma voglio sapere la verità. Se davvero potresti essere mio padre, se sai qualcosa del mio passato… Dimmelo, ti prego. Non ti odio se mi hai lasciata in quell’orfanotrofio, avrai sicuramente i tuoi motivi. Ti ho sentito parlare stasera e sono sicura che sei una persona buona. Ma per favore, aiutami a capire chi sono”.

A quel punto, l’espressione di Harry si addolcì. Sentirla parlare a quel modo, con più pacatezza e decoro di quanto avrebbe fatto una donna adulta, riuscì a toccare il suo cuore. Le sorrise, poi scelse con cura le parole da rivolgerle per non ferirla: “Cathy, sei una bambina molto dolce e saggia per la tua età. Mi piacerebbe essere tuo padre, ma purtroppo non lo sono. Non posso esserlo, sono sicuro di questo, e non ti avevo mai incontrata prima di quel giorno a Diagon Alley. Se non ho risposto a Rita è solo perché la ritengo una persona troppo infima, che non merita nemmeno di ottenere un’altra intervista da me. Se avessi saputo tutto questo, però, e ciò che significava per te, l’avrei fatto. Mi dispiace se l’hai creduto per così tanto tempo”.

Cathy scosse la testa, tentando di frenare le lacrime che le pizzicavano gli occhi. “Non importa” gli rispose. “In fondo l’avevo sempre saputo. Volevo solo sentirlo da te”.

“So che cosa vuol dire crescere senza una famiglia. Ti assicuro che dove vivevo io era anche peggio di un orfanotrofio, non avevo nessuno che mi volesse bene come tu hai Catherine. Spero che ritroverai i tuoi genitori, chiunque essi siano”.

Il suo augurio era sincero e Cathy l’apprezzò, sebbene l’idea di cercarli dopo aver ricevuto una delusione tanto forte non le sfiorasse nemmeno la mente. Harry era un ragazzo leale, di buon cuore, e i suoi bambini sarebbero stati i più fortunati del mondo. Non resistette all’impulso: l’abbracciò. E Harry, dopo un attimo di sorpresa, circondò a sua volta la bambina con le braccia. Cathy chiuse gli occhi, chiedendosi cosa avrebbero pensato Ted e Ginny nel vederli così, insieme, senza sapere ancora come stessero le cose. Decise che non le importava: quel momento era soltanto suo.

*

Rientrò al dormitorio da sola, mentre tutti gli altri continuavano a godersi la festa e quell’unica possibilità di stare in giro fino a tardi. Rifiutò l’invito di Eliza e Maggie a trattenersi con loro, perché dopo tutto ciò che era successo non era dell’umore giusto per ridere o ballare. Il tunnel per risalire al castello era ancora buio e freddo, ma non le faceva paura: il vuoto che sentiva dentro, come se fosse stata appena abbandonata una seconda volta, era un dolore molto più grande di un possibile attacco d’asma.

Era sicura di non trovare nessuno nella sala comune, una volta attraversato il passaggio nel muro. Invece, con sua grande sorpresa, un ragazzo balzò su dalla poltrona non appena la vide: “Ehi, finalmente sei tornata!”

“Evan! Che cosa ci fai qui?” Mentre glielo chiedeva, fece caso al fatto che non l’aveva più visto dopo il discorso di Harry.

“Avevo qualcosa d’importante da fare, così me ne sono andato. Allora, com’è andata con Potter?”

La sorpresa aveva sovrastato il dolore per qualche attimo, ma adesso non c’era più niente a frenarlo. Cathy si sedette vicino a lui, pregando in cuor suo che non la costringesse a raccontare tutto.

“Male. Non è mio padre, ci siamo sbagliati. Ma non mi va di parlarne adesso, scusa”.

“Mi dispiace. Comunque, qui ho qualcosa che ti tirerà su!”

Cathy lo guardò incredula, mentre Evan le faceva un occhiolino. Teneva una mano dietro la schiena, e in quel momento la tirò fuori rivelando una piccola ampolla. Un liquido color rosa pallido faceva la sua bella figura alla luce del fuoco.

“Che cos’è?”

“Non è ovvio? La Pozione Rivelatrice!”

“Eh?” Cathy spalancò gli occhi come avrebbe fatto Maggie davanti a un articolo di Rita. “Ma come hai fatto a trovarla? Avevi detto che non poteva entrare a Hogwarts, che tuo padre è ancora arrabbiato con te e…”

“L’ho presa dallo studio di Lumacorno” rispose Evan, come se stesse raccontando di aver fatto una passeggiata. “Ero sicuro che ne avrebbe conservato almeno un po’, in barba alle regole della scuola. Quell’uomo apprezza le invenzioni di mio padre, solo che è troppo vile per ammetterlo. Ed è stato così scontato da tenerla insieme alle altre pozioni. Sono sicuro che sia questa, nessun altro filtro ha un colore del genere”.

“Tu sei matto!” replicò Cathy, nascondendo il suo entusiasmo sotto quel rimprovero. “E se qualcuno ti avesse visto? Saresti rimasto in punizione fino alla fine dell’anno!”

“Vedermi durante la Festa della Conciliazione, quando l’intera scuola era nella Camera? Impossibile. Nemmeno Gazza pattugliava i corridoi, amareggiato com’era per non poterci punire stasera. È stato fin troppo facile!”

Cathy non era convinta che non avesse corso proprio nessun rischio, ma non insisté. Ormai ci era riuscito, e a quanto sembrava l’aveva fatto per lei. Gli sorrise spontaneamente, proprio nella sera in cui non avrebbe mai creduto di farlo.

“Allora, la vuoi provare?”

“Certo! Che devo fare?”

“Mi servirà una goccia del tuo sangue”. Evan si alzò, si avvicinò a uno dei tavolini e tornò con un piccolo spillo. Cathy lo riconobbe come uno di quelli che venivano usati durante Trasfigurazione.

“Dammi la mano” le disse. Istintivamente, Cathy invece la ritrasse. Farsi trafiggere da quell’oggetto non doveva essere una bella esperienza.

“Andiamo, non ti farà niente! Fidati di me”.

Lo guardò negli occhi e si chiese se poteva davvero farlo. Ma la risposta era davanti a lei, in quel liquido rosa pallido che Evan era riuscito a recuperare. Se aveva rischiato tanto solo per soddisfare una sua richiesta, di sicuro non le avrebbe fatto del male.

“D’accordo”. Allungò la mano sinistra ed Evan l’afferrò, tenendo il palmo rivolto verso il basso. Sul bracciolo della poltrona, proprio sotto il pollice di Cathy, la pozione aspettava l’ultimo ingrediente per mostrare i suoi effetti. Evan tenne ferma la boccetta con una mano, con l’altra avvicinò lo spillo al pollice di lei e si tenne pronto a pungerlo. Cathy chiuse gli occhi; il dolore arrivò, ma fu molto più lieve di quello di una siringa. In un attimo era già passato, e la ragazza ritrovò il coraggio di guardare. Qualche goccia cadde all’interno dell’ampolla e, subito dopo, il liquido iniziò a scurirsi.

“Guarda, ora cambierà colore. Si fermerà solo quando avrà stabilito il tuo stato di sangue”.

Cathy osservò attentamente la pozione e capì che Evan aveva ragione. Il rosa pallido si era già trasformato in fucsia, e a poco a poco diventò rosso scarlatto. Passò a una tonalità via via più scura, fino al carminio, per acquisire infine delle sfumature lavanda. Si fermò quando era ormai più vicino al blu che al rosso: ricordava un po’ il colore dei fiordalisi.

“Lo sapevo” affermò Evan soddisfatto, quando ormai la pozione non dava più segni di cambiamento. “Sei come me. Quasi pura”.

“Quasi pura? Che cosa significa?”

“Che un ramo della tua famiglia era certamente Purosangue. Poi dev’esserci stato qualche Babbano che si è mescolato ai tuoi parenti, ma ha lasciato poco di sé. Quando il liquido diventa completamente blu significa che sei Purosangue, e a te mancavano solo un paio di tonalità”.

Cathy adesso capiva perché Evan era tanto soddisfatto, anche se non riusciva a stabilire l’importanza di quel risultato. Aveva appena avuto la conferma che Harry non era suo padre, ritornando così al punto di partenza sulle proprie origini. Che cosa cambiava se quel liquido era diventato blu oppure no? Eppure, Evan le aveva appena rivelato che quel colore aveva un significato preciso, e questa volta non poteva sbagliarsi. Per quel che potesse valere, e per quanto piccola potesse essere, ora Cathy aveva una certezza: uno dei suoi genitori era Purosangue.


Note

Questa volta sono riuscita a pubblicare un po' prima, forse perché mi sto avvicinando a un capitolo - il prossimo - che attendo di scrivere da un sacco di tempo. Anche di questo comunque sono abbastanza soddisfatta, è stato bello ricostruire la Camera dei Segreti e inventare il discorso di Harry, spero che sia piaciuto anche a voi^^

Non mi dilungo troppo, ma come avrete notato le risposte stanno a poco a poco aumentando. Un grazie particolare questa volta va a chi ha cominciato a seguire la storia di recente, perché diciamo che 16 capitoli lunghi non sono proprio una passeggiata! Se non ci foste voi a contagiarmi con il vostro entusiasmo non so se sarei mai arrivata a questo punto, quindi spero solo che la storia resti all'altezza delle aspettative! Un bacio a tutti, e a presto.

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Capitolo 18
*** A casa per Natale ***


18


Il treno proseguì sferragliando tra campi innevati, mentre il sole s’innalzava a poco a poco nel cielo. Jennifer e Susan, pacifiche come non si erano mai viste, sonnecchiavano l’una accanto all’altra per recuperare il sonno perduto, dopo la levataccia che aveva preceduto quel viaggio. Maggie, al contrario, sembrava eccitatissima, e aveva coinvolto Eliza in un’animata conversazione sulle usanze tipiche dei Babbani. Erano iniziate le vacanze di Natale e Cathy, insieme alla quasi totalità degli studenti, stava ritornando a casa. Aveva lasciato con qualche rimpianto la Sala Grande di Hogwarts, già riempita da dodici alberi sfavillanti e pronta ad ospitare un sontuoso banchetto. Tuttavia, non poteva neanche pensare di rimanere; non vedeva Catherine dal primo settembre, quando si erano salutate nella stessa stazione dove ora era diretta, e prolungare ulteriormente quel distacco sarebbe stato un dispiacere per entrambe. In più, Cathy si sentiva in colpa: aveva promesso di scriverle spesso per poi dimenticarsene subito dopo, non appena Harry Potter era diventato più importante di lei grazie a una semplice supposizione. Aveva come la sensazione di averla messa da parte, ed era intenzionata a recuperare il tempo perduto. Quell’occasione sarebbe stata perfetta per riavvicinarsi a lei, raccontarle le cose fantastiche che aveva visto e spiegarle che, al di là di tutto, le era mancata.

Quello che proprio non le andava giù era tornare all’orfanotrofio. Aveva paura che, dopo l’incanto di un castello scozzese popolato da maghi e streghe, il luogo in cui era cresciuta le sarebbe apparso squallido ed estraneo. Non aveva nessun altro a parte Catherine con cui parlare della magia, non poteva esercitarsi negli incantesimi perché le era stato espressamente vietato e non riusciva a immaginare come avrebbe trascorso le giornate. Era abituata da sempre a vivere sola in quel posto, leggendo un libro all’ombra del gazebo o fantasticando nella sua camera, ma sentiva che quella volta non le sarebbe bastato. Quella che prima era la sua vita ora non le apparteneva più, avrebbe finito per contare i giorni che la separavano al ritorno a scuola e avrebbe così ferito Catherine una seconda volta. Purtroppo, non era in grado di fingersi felice quando non lo era, e su questo non sapeva proprio come fare a non deluderla.

Stava ancora rimuginando su tutto ciò quando il treno si fermò alla stazione. Salutò le sue compagne non appena scesero sulla banchina, riscoprendo volti che aveva già visto il primo settembre e associandoli ora ai rispettivi figli. La famiglia più vivace, come c’era da aspettarsi, era quella dei Thompson: la madre di Maggie indossava una larga veste rosso rubino, qualcosa che avrebbe disdegnato anche Maria Antonietta di Francia, finendo per rendersi incredibilmente vistosa anche in un luogo affollato da maghi; il padre, al contrario, era un uomo serio e posato, come una versione più vecchia di Gary. Entrambi abbracciarono con gioia i loro ragazzi, e la piccola Maggie scomparve tra le ingombranti balze di sua madre. Nello stesso istante, Cathy voltò loro le spalle con un’urgenza eccessiva.

Notò anche i genitori delle sorelle Hill, la cui madre spiccava per il suo abbigliamento tipicamente babbano, e la famiglia di Vera Wilkinson, che fissava tutti dall’alto in basso come se solo loro avessero diritto di stare su quel binario. Eliza si allontanò da lei per ultima per raggiungere una coppia di coniugi, i quali si guardavano attorno nervosamente e sussultavano ad ogni starnazzo di gufo. Avrebbe voluto salutare Teddy e magari conoscere sua nonna, ma non lo vide da nessuna parte. Anche Evan era del tutto assente, e Cathy sperò che non fosse davvero rimasto a Hogwarts da solo come aveva ipotizzato di fare. Quando non ci fu nessun altro a cui dire arrivederci, superò il muro di pietra e si preparò a rientrare nel suo vecchio mondo.

Una volta fuori, scoprì di sentirsi esattamente come aveva temuto: le persone comuni le apparivano spente, concentrate nei loro affari babbani così privi di importanza e ignare che lì, a pochi passi da loro, ci fosse un mondo strepitoso dal quale erano escluse. Quando però incrociò lo sguardo di Catherine, un volto amato tra la folla sconosciuta, capì che c’era ancora qualcosa che la legava ai Babbani; avvolta in un cappotto azzurro cielo, la ragazza agitava le mani guantate per farsi notare. Cathy le corse incontro, felice, e si lasciò abbracciare.

“Quanto mi sei mancata!” La giovane la strinse a sé per lunghi istanti, poi la lasciò andare e le baciò le guance. Cathy notò che i suoi occhi erano arrossati e stranamente lucidi, come se avesse pianto. Non riuscì a spiegarselo; era sicura che quello fosse un momento felice anche per lei.

“Perché mi hai scritto così poco? Non ho avuto più tue notizie da ottobre, fino a quando non mi hai mandato la lettera con il giorno e l’ora del tuo arrivo. Sono stata in pensiero”.

Aveva ragione ad essere risentita, e Cathy si era aspettata una domanda come quella. Si morse il labbro, poi provò a darle una breve motivazione: “Lo so, mi dispiace. È che sono successe tantissime cose, la scuola è più impegnativa di quanto immagini e non avevo molto tempo per le lettere. Comunque è andato tutto bene, non preoccuparti”.

Catherine aggrottò le sopracciglia, mostrandosi restia a crederle. “Sicura? Mi avevi detto della doppia classe e degli incantesimi che non ti riuscivano bene… Oddio, incantesimi… È ancora così strano da dire!”

La ragazzina rise, accorgendosi che la sua amica non era poi tanto arrabbiata. “Si chiamano Case, e comunque non è più un problema; mi ci sono abituata. Per gli incantesimi sto prendendo lezioni extra e a poco a poco sto migliorando. Sai, Hogwarts è una scuola davvero incredibile… Ci sono fantasmi, scale incantate, quadri che parlano e passaggi segreti! Ho così tanto da raccontarti che ne parlerò per tutte le vacanze…”

Catherine sorrise a sua volta, ma era solo un modo per celare l’amarezza. Prima che Cathy potesse chiederle spiegazioni, un uomo massiccio e poco cortese si fece largo tra la gente dandole un brusca spinta, e la ragazzina perse quasi l’equilibrio; notando che le persone in entrata e in uscita dalla stazione si accalcavano sempre di più, le venne spontaneo proporre: “Perché non andiamo a casa? Così ti racconto tutto con calma!”

Ma Catherine non si mosse di un millimetro, e non rispose con l’entusiasmo che avrebbe mostrato in un’occasione del genere. Al contrario, abbassò lo sguardo e le disse: “Non torniamo all’orfanotrofio”.

“Cosa? E dove, allora?”

La tristezza s’impadronì del volto della ragazza, rivelando finalmente la causa di quegli strani atteggiamenti. “Il tuo tutore ha chiesto di averti con sé per le vacanze di Natale” spiegò. “Il Direttore ha accettato”.

*

Percorsero quasi l’intero tragitto in silenzio, poiché l’inaspettata notizia aveva smorzato l’entusiasmo di entrambe. Avevano solo poche ore per stare insieme, ma non riuscivano ad approfittarne. L’idea di allontanarsi così presto e per l’intero periodo di vacanza era stato un brutto colpo. Cathy si sentiva preda di emozioni contrastanti: se, da un lato, quella era l’occasione giusta per non trascorrere il Natale all’orfanotrofio, dall’altro non era così sicura che passarlo con l’uomo buono sarebbe stato piacevole. Per quanto fosse stato onesto con lei e le avesse concesso molte cose, infatti, quel tipo era pur sempre insopportabile. Non ce lo vedeva ad addobbare la casa con decorazioni natalizie e svegliarla il mattino dopo con un gigantesco regalo, tutte cose che aveva fatto Catherine per lei e che rappresentavano la sua idea del Natale. Il suo brutto carattere poteva essere tollerabile per qualche pomeriggio, ma reggerlo per interi giorni di festa era troppo anche per lei. Amaramente, Cathy si domandò quanto avrebbe resistito alle sue frecciatine prima di puntargli contro la bacchetta, e ricevere così una minacciosa lettera da parte del Ministero della Magia.

L’uomo buono abitava fuori città, per questo le due ragazze furono costrette ad affrontare un altro viaggio in metropolitana. Cathy era stanca e si appisolò con il capo contro il finestrino, ma finì per avere un incubo: sognò che il tutore la chiudeva in una tetro sgabuzzino, senza la sua preziosa lampada, sostenendo che doveva smetterla di aver paura del buio. In più, le diceva che i suoi genitori erano persone cattive e che lei sarebbe diventata come loro, che non aveva niente di speciale. Si svegliò con il cuore in tumulto e una sensazione d’angoscia nel petto. Nello stesso momento, Catherine la scosse e le disse che dovevano scendere: erano arrivate.

Percorsero qualche miglio tra prati e ruscelletti, mentre Cathy si ripeteva che sarebbe andato tutto bene e doveva smetterla di angosciarsi. La luna piena illuminava la strada davanti a loro, il che era un vero toccasana per la sua paura del buio. Poi, finalmente, la sagoma scura di una grande casa apparve all’orizzonte.

Era una villa molto bella, signorile, di quelle che era sempre più difficile vedere nei dintorni di Londra. Da un paio di finestre ad arco proveniva una luce, segno che la casa era abitata da almeno una persona. Cathy sapeva che il suo tutore era un uomo molto ricco, eppure non aveva idea che la sua residenza fosse tanto sfarzosa; dal suo aspetto poco curato dava l’idea di vivere in un tugurio, era difficile immaginarlo a occuparsi di quella casa quando si occupava così poco di se stesso. Mai come in quel momento, Cathy si rese conto di quante poche cose sapesse di lui.

Il cancello era aperto, così attraversarono il giardino delimitato da siepi e raggiunsero il grosso portone. Sul batacchio era scolpito il volto di un serpente, e Catherine esitò con la mano a mezz’aria prima di bussare. Poi scosse la testa, dandosi probabilmente della stupida, e batté con forza due volte.

Pochi istanti dopo, il tutore di Cathy apparve sulla soglia. Era molto cambiato dall’ultima volta che si erano visti: si era sbarbato, mostrando così l’interezza del suo volto, e indossava abiti nuovi e puliti. A casa sua non si dava pena di mescolarsi ai Babbani, preferendo un abbigliamento da mago che gli dava sicuramente maggiore dignità. Guardandolo alla luce delle torce, Cathy pensò che non sembrava più tanto vecchio.

“Buonasera” salutò gentilmente Catherine, e l’uomo buono rispose allo stesso modo. La sua espressione era seria e posata, come se si stesse preparando a ospitare un’autorità. Si scostò di lato e fece cenno a Cathy di entrare, ma la ragazzina esitò; l’invito non era stato esteso anche a Catherine.

“Ascoltami bene” le disse la ragazza, abbassandosi alla sua altezza e parlando come se l’uomo non fosse lì. “Se non dovessi trovarti bene qui, se succedesse qualcosa – qualsiasi cosa – di spiacevole, chiamami subito. Verrò a prenderti immediatamente”.

Cathy annuì, sperando che quella raccomandazione non peggiorasse l’umore del suo tutore. L’uomo, tuttavia, a modo suo sorrise, e rispose a Catherine con molta calma: “Non succederà niente, glielo assicuro. Ma adesso le conviene andare: è già buio e la strada per Londra è molto lunga”.

Era vero, e se la ragazza si fosse trattenuta di più avrebbe rischiato di perdere il treno. Abbracciò Cathy con impeto, poi si staccò da lei a fatica; era una fortuna che fosse buio, perché adesso entrambe avevano le lacrime agli occhi.

“Vengo a trovarti domani” sussurrò Catherine, in modo che l’uomo non sentisse. Poi salutò e ritornò verso il cancello, con le spalle che ancora le tremavano per l’ansia e per i singhiozzi. Cathy si fece coraggio ed entrò finalmente in quella casa, scoprendo con sollievo un ingresso ampio e ben illuminato. Il gatto Harry, stanco di quel viaggio interminabile, miagolò nel suo trasportino per reclamare libertà e Cathy lo fece uscire. Stranamente, sembrò trovarsi subito a suo agio in quella casa, molto più di quanto lo fosse nel dormitorio dei Serpeverde. Questo la rincuorò e le fece sperare di trovarsi altrettanto bene.

“Hai un gatto nero”. L’uomo buono si lasciò sfuggire quel commento in tono sorpreso, come se Cathy si fosse appena presentata con un coccodrillo. La ragazzina si ricordò solo allora che il tutore non aveva mai visto Harry, perché non le era permesso tenerlo in stanza all’orfanotrofio.

“Sì” rispose, colta dall’improvviso timore che non lo volesse in casa. “È un problema?”

“No”. L’uomo osservò il micio con divertita curiosità, poi Harry si allontanò per esplorare la villa e lui si rivolse di nuovo a Cathy. “Andiamo di sopra. Ti mostro la tua stanza”.

Cathy fece per sollevare il baule e trascinarlo con sé, ma il suo tutore le evitò quell’inutile sforzo. Con un movimento rapido sfilò dalla tasca una bacchetta scura e spessa, e agitandola con semplicità innalzò il bagaglio a mezz’aria. Mentre saliva le scale, il baule lo seguì volando come un buffo animale di compagnia. Cathy era stupefatta: non aveva mai visto quell’uomo fare magie, e adesso le sembrava disinvolto come se non avesse mai fatto altro in vita sua. Arrivò alla conclusione che dovesse essere un mago molto esperto.

Di sopra, il lungo corridoio rispecchiava la stessa sobria eleganza dell’ingresso, con lampade a gas che si accendevano da sole mano a mano che lo percorrevano. Si respirava un’aria nuova in quella casa, lontana anni luce da quella dell’orfanotrofio e molto più simile all’atmosfera di Hogwarts. Cathy si sentì attraversata da una strana sensazione e ricordò di essersi già sentita così, non molto tempo prima: era accaduto nel negozio di Olivander, quando migliaia di bacchette avevano permeato il luogo con il loro potere e una sola, infine, l’aveva scelta come sua proprietaria. Era facile capire cosa rendesse quei posti così speciali: la magia. Sebbene fosse tanto meschina e sfuggisse così spesso al suo controllo, Cathy sapeva di possederla come ogni mago e strega della sua età. La sentiva scorrere nelle vene, pronta a colpire quando ne aveva più bisogno, e riconosceva un luogo abitato da maghi non appena ci metteva piede. L’aria sembrava improvvisamente elettrizzarsi, come attraversata da una scarica potente; era una sensazione meravigliosa.

Davanti a una delle tante porte, finalmente l’uomo buono si fermò. Abbassò la maniglia e precedette Cathy nella stanza, la quale avanzò timorosa e al tempo stesso impaziente. Quando poté guardare all’interno, ne restò stupefatta.

Era una camera immensa, grande almeno due volte quella dell’orfanotrofio. Il letto era foderato di coperte morbide e ricamate, sicuramente di costosa manifattura. Ai suoi piedi, il baule atterrò con un tonfo sordo, come se sapesse riconoscere da solo il proprio posto. C’era un armadio intarsiato in legno chiaro, un comodino occupato da una lampada antica e diversi cassettoni per contenere i vestiti. Sopra di essi, un bellissimo specchio ovale le avrebbe permesso di pettinarsi al mattino. In più, c’era anche un balcone: tende color smeraldo lo nascondevano alla sua vista, ma Cathy volle esplorarlo subito. Si affrettò a spostarle e uscì all’aperto, nella notte fredda; da lì, riusciva a scorgere tutto il giardino che circondava la casa, la strada che aveva percorso con Catherine e le colline buie in lontananza. Si sentì improvvisamente felice e al tempo stesso stupida: come aveva potuto credere, anche solo in sogno, che il suo tutore l’avrebbe rinchiusa in una specie di cella? Quella casa era splendida, molto di più di quanto avesse osato sperare. Doveva solo essergli grata per tutto ciò.

“Potrò davvero dormire qui?” chiese all’uomo, che l’aveva seguita sul balcone e si era appoggiato alla balaustra. Notò che fissava la notte con insolita malinconia.

“Certo. Non ti piace? Se è così puoi sceglierne un’altra, la casa ha moltissime stanze”.

“No! È bellissima, davvero… Grazie, signore”.

L’uomo annuì distrattamente, forse senza comprendere che il suo entusiasmo era sincero. Cathy non aveva mai avuto una stanza tutta per sé, da non condividere con le altre ragazze dell’orfanotrofio o con le compagne di Hogwarts. Avere un posto dove tenere le sue cose, senza timore che capitassero nelle mani sbagliate, e ammirare un paesaggio come quello tutto da sola erano lussi che non credeva di potersi permettere. Invece, grazie a quell’inaspettata vacanza, erano diventati realtà. Cathy avrebbe voluto dimostrargli la sua gratitudine, ma non sapeva come.

“Signore…”

Improvvisamente, sulla soglia, comparve l’essere più strano che Cathy avesse mai visto. La ragazzina soffocò un grido, arretrò fino a toccare la balaustra con la schiena e lo fissò spaventata: aveva occhi azzurri sporgenti come palle da tennis e grandi orecchie da pipistrello, una delle quali percorsa interamente da una cicatrice. Indosso portava uno straccio logoro, bucato nei punti dove la creatura infilava le braccia. Cathy guardò il suo tutore, che al contrario non sembrava affatto intimorito; scrutò l’essere con aria severa, non molto diversamente da come faceva con lei. Poi gli chiese: “Che cosa vuoi, Wolly?”

“Chiedere se posso preparare la cena, signore”. L’esserino aveva una voce stridula e servile. Da come parlava sembrava essere una specie di domestica.

“D’accordo. Cucina quello che abbiamo concordato”.

“Va bene, signore”. Wolly però non si mosse. Il suo sguardo si era spostato su Cathy con vivace curiosità. Guardandola meglio, sembrava tutt’altro che minacciosa.

“Ti serve altro?”

“Vorrei… Vorrei conoscere la bambina, signore”.

L’uomo buono si corrucciò ancora di più, ma un attimo dopo sembrò acconsentire. Finalmente, spiegò a Cathy chi era l’esserino che avevano davanti: “Lei è Wolly, la nostra elfa domestica. Se ti serve qualcosa – cibo, vestiti, oggetti di vario genere – puoi chiederlo a lei. Ti obbedirà senza battere ciglio”.

Wolly sembrò più inorgoglita che mai per quelle parole, e si prostrò ai piedi di Cathy come fosse una principessa. “Certo, padroncina Catherine! Chiedetemi pure qualsiasi cosa! È un piacere per me conoscervi!”

Cathy era piuttosto imbarazzata, ma un’accoglienza tanto calorosa la rendeva felice. Cercò di mostrarsi più amichevole possibile e le rispose: “Ciao, Wolly. Anche per me è un piacere conoscerti, non avevo mai visto un elfo domestico!”

“Davvero, padroncina? Eppure so che a Hogwarts ce ne sono molti! Si occupano della cucina e preparano il banchetto per gli studenti!”

Cathy era stupefatta. Non si era mai chiesta chi cucinasse a scuola, e di certo non si aspettava che fossero creaturine come quelli. Da come si mettevano a disposizione, però, capì che doveva essere stata una scelta saggia.

“Bene, ora che l’hai conosciuta puoi tornare ai tuoi doveri”. L’uomo buono si era intromesso, quasi frettoloso di terminare la conversazione. Wolly gli fece un profondo inchino, poi aggiunse: “Certo, signore, vado subito. Bentornata a casa, signorina Catherine!”

“Wolly!” L’uomo buono la sgridò come se avesse appena fatto cadere un bicchiere. “Ricordati cosa ti ho ordinato. Finché vivo in questa casa, sono io il tuo unico padrone”.

“Certo, signore” ripeté di nuovo l’elfa, questa volta con meno entusiasmo. Poi si voltò e rientrò nella stanza, lasciandoli soli.

“Wolly obbedirà ai tuoi ordini, ma solo perché gliel’ho imposto io. Gli elfi domestici sono obbligati per loro natura a fare ciò che gli si dice, e riconoscono come padroni gli adulti che vivono nella loro casa. Questo significa che potrai chiederle ciò che vuoi, tranne quello che va contro la mia volontà. In tal caso, non potrà obbedirti”.

Cathy annuì, realizzando di colpo l’efficacia di quel sistema. Le famiglie di maghi che avevano un elfo domestico potevano in quel modo controllare i propri figli, evitando che le loro marachelle venissero coperte dal loro dipendente. Ma che cosa poteva chiedere lei a Wolly, che era appena arrivata in quella casa e ci sarebbe rimasta solo pochi giorni? E, soprattutto, che cosa nelle sue richieste poteva andare contro la volontà del tutore? Poi, d’improvviso capì. C’era stata una strana luce nello sguardo dell’uomo, un lampo di paura, quando l’elfa aveva detto benvenuta a casa. Anzi, le sue esatte parole erano state: bentornata a casa. Come se non fosse la prima volta che Cathy ci metteva piede. E il motivo era molto semplice: Wolly la conosceva. Sapeva chi era, conosceva l’identità del suo tutore e considerava quella la loro casa. Qualunque parentela ci fosse tra lei e l’uomo buono, l’elfa li considerava parte della stessa famiglia. E, naturalmente, il padrone le aveva ordinato di non svelare niente. Cathy si morse il labbro e si sentì improvvisamente in collera, poiché ancora una volta quell’uomo le celava la verità. E lei, pensò con amarezza, ancora una volta non poteva farci nulla.

*

Per cena, Wolly aveva preparato un banchetto degno di un re. C’erano almeno cinque portate tra zuppa, carne, verdure e un succulento dessert. Cathy, che a pranzo aveva mangiato soltanto un panino, si servì avidamente di tutto, ma nel frattempo cercò anche di fare qualcosa di utile. Osservò attentamente la sala da pranzo, cercando indizi delle persone che ci vivevano, ma per sua sfortuna non trovò niente di esplicito. Non c’era neppure un quadro o una fotografia, come se la casa fosse disabitata da tempo e l’uomo buono fosse lì solo di passaggio. In realtà, Cathy supponeva che il tutto fosse stato premeditato, che il suo tutore avesse nascosto ogni singolo oggetto potenzialmente rivelatore delle proprie origini. Si era dimostrato astuto come sempre, non lasciandole alcuno spiraglio per scoprire la verità. Il fatto di trovarsi in quella splendida casa diventava adesso molto meno elettrizzante, perché, sebbene il suo tutore si mostrasse gentile, continuava a imporle il suo volere, facendola sentire poco più importante della tappezzeria.

Eppure, nel breve lasso di tempo che era trascorso dal suo arrivo, Cathy aveva elaborato una specie di piano. Sapeva quanto l’uomo buono fosse cocciuto a restare in silenzio, ma ricordava molto bene di quando, due anni prima, si era maldestramente tradito dicendole che era figlia di maghi. Tutto ciò che doveva fare era sondare il terreno, investirlo di domande apparentemente innocenti e spingerlo così a fare un passo falso. Di certo non le avrebbe rivelato il suo nome o quello dei suoi genitori, ma qualsiasi indizio era importante. In più, si sarebbe aggiunto a quelli che Cathy aveva già, grazie alla pozione di Evan e al Cappello Parlante.

Finita la cena, Wolly cominciò a sparecchiare. Cathy notò che l’uomo buono era ancora seduto al suo posto, e pensò di approfittare di quel momento per parlare con lui. Iniziò da un terreno sicuro e piuttosto accomodante: “Questa casa è molto bella. Non sapevo che le famiglie di maghi vivessero in posti del genere”.

“Non tutte” rispose lui, tranquillo. “Solo quelle più ricche e antiche. È naturale che ti piaccia, sei una strega”.

Cathy non era sicura di capire cosa volesse dire, ma non approfondì. Il fatto che avesse voglia di conversare era già un ottimo segno. “Tu vivi qui?” domandò. “Da solo?”

“Sì. Questa casa appartiene alla mia famiglia da generazioni. Sono stato lontano per molti anni, in viaggio per l’Europa, e nel frattempo Wolly ha tenuto la villa al sicuro, evitando che degli estranei la occupassero”.

“Non l’avrei mai permesso!” Wolly s’intromise, gli occhi azzurri le brillavano di gioia. “Sono stata così felice di rivedere il padrone qui, dopo tanti anni! Non ci speravo più davvero! E adesso c’è anche la signorina, non posso crederci! Finalmente la casa sta tornando viva!”

Cathy le sorrise, evitando di dirle che se ne sarebbe andata di nuovo. Ci pensò l’uomo buono, senza troppi scrupoli, a riportare l’elfa alla realtà: “La signorina si trattiene qui solo qualche giorno, per le vacanze di Natale. Poi dovrà tornare a Hogwarts”.

“Oh, lo so” rispose Wolly abbassando il capo, mentre le orecchie da pipistrello le ricadevano pigramente all’ingiù. La cicatrice era ancora più evidente alla luce dei candelabri, e Cathy si domandò come se la fosse procurata. “Ma poi ci saranno le vacanze estive, non è vero? Tornerà per le vacanze estive?”

Cathy non aveva ancora pensato a quell’eventualità. Si trovava in una casa sconosciuta da appena due ore, quando credeva di trascorrere in Natale all’orfanotrofio con Catherine, ed era decisamente presto per pensare all’estate. L’uomo buono l’avrebbe costretta a passare anche quella a casa sua? Lo guardò, e vide che alzava le spalle: “Se vuole, potrà tornare”.

Wolly fece un largo sorriso e ricominciò a sparecchiare con allegria. Cathy aveva perso il filo del discorso, così si concentrò su un altro argomento che le stava a cuore: “A proposito del Natale… Non c’è niente qui, neanche un piccolo albero o qualche luce. Non sono abituata a trascorrerlo in questo modo, è molto triste”.

L’uomo buono non si scompose: “Io non credo a queste sciocchezze, e non ti ho fatta venire qui per addobbare la casa. Comunque, se ci tieni così tanto, puoi chiedere a Wolly di occuparsene. Un abete nella stanza non mi darà fastidio, per una volta”.

Era stranamente conciliante, forse persino troppo. Cathy si chiese cosa stesse architettando e che cosa volesse da lei, perché ci teneva tanto a trascorrere il Natale insieme se poi non credeva in quella festa. La risposta arrivò subito dopo.

“Adesso ascoltami. Se ti ho invitata in questa casa non è solo per risparmiarti dal tornare in quel lurido luogo babbano, ma perché voglio approfondire la tua istruzione. Mi hai fatto capire che hai qualche problema negli incantesimi ed è mia intenzione aiutarti a superarli. Ci eserciteremo qui, insieme, nel tempo che avremo a disposizione”.

Cathy fece un sorriso amaro. Non poteva certo aspettarsi che il suo tutore volesse semplicemente stare un po’ con lei, visto che dal primo momento si era mostrato interessato solo al suo rendimento. Comunque, esercitarsi le piaceva e tutto sommato non le sarebbe pesato. Però… C’era un problema.

“Forse non ne sei al corrente” gli disse, dandosi un po’ di arie “ma non ci è permesso fare incantesimi fuori dalla scuola. Rischiamo addirittura un’espulsione”.

Il tutore rispose con una risatina, una delle solite risate sarcastiche e senza allegria. “Ho avuto a che fare con la Traccia Magica molti anni prima di te, ragazzina. Come potrei non saperlo? Ma si dà il caso che conosca anche un modo per evitarla. Te lo spiegherò al momento opportuno, comunque. Gli incantesimi non sono l’unica cosa che mi interessa, anche se è importante”.

Cathy aspettò il seguito, chiedendosi che cos’altro volesse da lei. Temeva che l’aspettasse qualcosa di peggio, e purtroppo non si sbagliava: “Voglio anche parlare con te di Hogwarts in generale. I tuoi compagni, le persone che frequenti, i professori, tutto. Mi hai scritto troppo poco nelle lettere, ma ho l’impressione che tu stia sbagliando direzione. Hai bisogno di capire quali sono gli amici adatti a te e a quali insegnanti dare maggior credito. La vacanza ci aiuterà ad approfondire anche questo”.

Quelle parole la irritarono più di qualsiasi altra cosa. Che cosa voleva dire, che non vedeva di buon occhio la sua amicizia con Teddy? O con Evan, o con Eliza? E cos’era tutto quel discorso sui professori? Era abituata a tenerli in conto tutti, rispettando la loro autorità anche se non le andavano a genio. Non poteva chiederle qualcosa che andava contro ciò che le era stato insegnato da sempre, non ne aveva il diritto.

“Senti” gli intimò, senza preoccuparsi di farlo arrabbiare. “Gli amici me li scelgo io, grazie. Vivo da sola da quando sono nata e riesco benissimo a cavarmela. Sei comparso all’orfanotrofio solo da qualche anno, non so nemmeno come ti chiami e mi hai costretta a passare il Natale con te, senza neppure chiedermi se per me andava bene. Non puoi da un giorno all’altro comportarti come fossi mio padre e impormi la vita che vuoi tu! Qualunque cosa mi dirai, farò di testa mia. Non rinuncerò ai miei amici solo perché lo dici tu e non mancherò di rispetto a nessun professore!”

Era sicura di farlo infuriare, eppure, con sua grande sorpresa, non accadde. Avvertì solo un leggero movimento nella tempia dell’uomo, poi lo sentì rispondere con lo stesso tono pacato: “Infatti, non voglio importi proprio nulla. So che non mi staresti mai a sentire, piuttosto faresti il contrario. Perciò, ti darò solo qualche informazione in più su di loro. Qualcosa che io so e che tu ancora non sai. Poi, sarai libera di decidere da sola cos’è meglio per te”.

Cathy era stupita. L’uomo buono non si era mai mostrato così diplomatico, e cominciò a chiedersi cosa ci fosse sotto. Eppure, dopo qualche istante di silenzio, non le venne in mente nulla; sembrava che davvero volesse lasciarla libera.

“Adesso è tardi, continueremo il discorso domani. Trattieniti quanto vuoi, ma non esagerare; domani ci sarà molto da fare”.

Cathy gli diede la buonanotte, ancora troppo sconvolta per aggiungere altro. Si aspettava che le avrebbe imposto di andare nella sua stanza, perché, anche se non era suo padre, la stava comunque ospitando nella propria casa. Invece, era andato a dormire da solo dandole la possibilità di scegliere quando coricarsi. E l’aveva lasciata sola con Wolly.

L’elfa domestica stava lavando i piatti, limitandosi cioè a spostarli nel lavabo con la magia e a insaponarli mentre volteggiavano a mezz’aria, con un semplice movimento del dito. Era divertente vederla lì a smacchiare e fischiettare, tutta contenta per il suo arrivo. Cominciava a starle simpatica.

“Wolly, senti un po’…”

La danza dei piatti si bloccò di colpo e per un momento l’elfa rischiò di farli cadere. Appena in tempo, riuscì a concentrarsi quanto bastava per farli atterrare lentamente nel lavabo. Si voltò verso Cathy, interrompendo il proprio lavoro: “Sì, signorina, so già cosa mi volete dire! Domani comprerò un albero bellissimo, vedrete. Lo decorerò con nastri blu e argento, il colore preferito del padrone, così piacerà anche a lui! Aggiungeremo palline di cristallo e angeli che canteranno quando qualcuno si avvicina, e poi…”

“Sì, Wolly, ti ringrazio, ma non era di questo che volevo parlarti”. L’elfa si bloccò e sembrò diventare preoccupata. Guardò a destra e sinistra evitando gli occhi di Cathy, poi domandò con cortesia: “E che cosa allora, signorina?”

“Volevo chiederti…” Le disse, sperando di indovinare l’argomento che il suo tutore poteva aver dimenticato di vietarle. “Se i miei genitori sono mai stati qui”.

L’elfa abbassò lo sguardo sui propri grossi piedi, afferrando lo straccio che indossava come per forzarsi a tacere. “Di loro non posso parlare, signorina. Il padrone mi ha evitato di nominarli, di mostrarvi una loro fotografia, di farvi capire in qualche modo chi erano. Mi dispiace tanto, davvero tanto”.

Wolly sembrava dispiaciuta davvero, e in quel senso le fece anche un po’ pena. Era frustrata, ma scaricare la propria rabbia addosso a quell’esserino indifeso non avrebbe avuto alcun effetto. Si inginocchiò davanti a lei e cercò di farle capire che non era arrabbiata, che voleva esserle amica.

“Non importa, Wolly, non piangere”. Dai grandi occhi era in effetti scesa qualche lacrima. “Non è colpa tua, so che sei obbligata a obbedire. Ma tu non vorresti, vero? Se potessi scegliere, mi diresti la verità, non è così?”

“Sì!” esclamò l’elfa senza esitazione. Evidentemente, esternare le sue emozioni non le era stato vietato. “Io penso che la signorina dovrebbe sapere tutto dei suoi genitori! Erano grandi maghi, ne sarebbe orgogliosa! Ma purtroppo, il padrone non vuole. E Wolly deve tacere”.

Cathy capì che convincerla a confessare sarebbe stato tempo sprecato. Ma poi, rifletté, se l’elfa non poteva parlare… Forse poteva agire.

“Anch’io vorrei poter essere orgogliosa di loro, Wolly, ma purtroppo non so niente. Pensaci bene… C’è qualcosa che potresti fare per aiutarmi? Qualcosa che il tuo padrone non ti ha esplicitamente vietato e che potrebbe farmi piacere?”

Wolly restò perplessa, poi sembrò riflettere su quella possibilità. Si asciugò le lacrime sullo straccio, smise di mostrarsi afflitta e infine sorrise: Cathy aveva fatto centro.

“Allora, c’è qualcosa?”

Wolly annuì, ma subito dopo girò sui tacchi e uscì dalla stanza. Cathy la seguì e vide che stava salendo le scale, ma non riuscì a raggiungere il primo gradino che l’elfa le fece cenno di fermarsi a stare zitta. Sparì per un lunghissimo tempo, in cui Cathy cominciò a chiedersi se non si fosse semplicemente addormentata. Ma, alla fine, la vide ricomparire in cima alle scale: stava ancora sorridendo e teneva in mano un mantello.

“Che bello!” esclamò Cathy, prendendolo dalle sue mani e fissandolo avidamente. Era nero con striature verde smeraldo, lo stesso colore delle tende, e non meno costoso del resto della casa. “Questo più aiutarmi a capire, Wolly? Posso tenerlo?”

L’elfa annuì due volte, ma non disse più nulla. Cathy capì che aveva già fatto troppo e non volle metterla nei pasticci. Infine, Wolly fece un profondo inchino e ritornò in cucina, lasciandola sola accanto alle scale e immersa nei suoi pensieri. Il mantello era morbido e caldo, ma sembrava assolutamente privo di poteri magici. Non sapeva che cosa rappresentasse e come potesse aiutarla, eppure, tenerlo tra le mani le dava una curiosa sensazione di benessere. Poi l’orologio a pendolo risuonò e Cathy capì che era passata la mezzanotte: doveva ritirarsi. Portò il mantello con sé sulle scale, continuando a riflettere sul suo significato, e domandandosi se quella notte sarebbe mai riuscita a dormire. Forse, la convivenza con l’uomo buono non sarebbe stata così terribile come aveva temuto; di certo, però, sarebbe stata tutt’altro che facile.


Note

Ebbene sì, era questo (insieme al prossimo, che sarà ugualmente incentrato sulle vacanze) il capitolo che tanto attendevo di scrivere, dove ci allontaniamo un po' dalla scuola e torniamo invece a parlare del cosiddetto uomo buono. E' un bene che sia arrivata a scriverlo quasi a Natale, così è stato più facile immergermi nell'atmosfera^^ Spero che faccia piacere anche a chi legge cambiare un po' ambientazione!

Solo una nota per quanto riguarda Wolly, che è stata la mia ispiratrice principale del capitolo: non sono sicurissima che gli elfi debbano obbedire principalmente agli adulti della casa, ma mi pare di averlo letto in uno dei libri (anche la mia memoria fa le bizze qualche volta...) e, comunque, ha anche senso per i ragazzini che altrimenti verrebbero coperti per qualsiasi marachella. In questo caso il tutore sfrutta la cosa a suo vantaggio, perché - come sempre - vuole celare a Cathy le sue origini. Se ho fatto qualche errore perdonatemi, mi serviva ai fini della trama! Al prossimo capitolo!

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Capitolo 19
*** Giorni di neve ***


19


La mattina del 24 dicembre iniziò a nevicare. Fiocchi candidi ricaddero sempre più fitti sul giardino e sulle colline in lontananza, trasformando di colpo un inverno senza colori in un chiarore abbagliante e spiccatamente natalizio. L’uomo buono si alzò presto, scostò le tende della sua stanza per guardare fuori e storse immediatamente il naso: un tempo del genere era poco adatto alle esercitazioni, lui e Cathy avrebbero dovuto aspettare almeno mezza giornata prima di poter uscire. Per di più, tutta quella luce gli faceva male agli occhi; era ormai abituato a vivere nell’ombra, come un animale notturno che usciva solo per procurarsi una preda e tentare così di sopravvivere. Quell’idea lo fece sorridere; in effetti, era ciò che avrebbe fatto anche quel giorno.

Dopo essersi vestito, scese dabbasso per la colazione. Era ancora sulle scale quando sentì la voce stridula di Wolly, che canticchiava qualche buffa canzone da elfi e si spostava nel salone facendo un gran baccano. Quando la raggiunse restò di sasso: l’elfa doveva essersi alzata molto prima di lui, perché aveva già procurato un abete che toccava quasi il soffitto e lo stava decorando con nastri blu e argento. Lo salutò con un “Buongiorno, signore!” e riprese subito ciò che stava facendo, dimenticandosi che c’era una colazione da preparare. L’uomo buono, comunque, non la sgridò, pensando di controllare prima se Cathy fosse già sveglia.

“La bambina è qui?” le chiese, sbrigativo.

“No, padrone, è ancora di sopra. Volete che vada a chiamarla?”

L’uomo gettò un’occhiata frettolosa alle finestre: la neve stava aumentando. “No, non importa. Può dormire ancora un po’”.

Wolly annuì e aprì una scatola piena di palline colorate, che spedì con un movimento delle dita sui rami dell’albero. Il suo padrone era sempre più sbigottito: le vacanze, la neve, Cathy in quella casa, Wolly che sembrava come impazzita. Da quanto tempo non trascorreva un Natale così? Probabilmente da quando era bambino, e sua madre si ostinava a celebrare ogni anno quella festa come se facesse parte delle loro tradizioni. In realtà, non era che una stupida usanza babbana che tutti gli uomini della famiglia aborrivano, e col tempo l’aveva capito anche lui. Eppure, stranamente, era stato più felice prima di comprenderlo; era allettante aspettare quel giorno per ricevere un mucchio di regali, vedere le persone sorridenti attorno a lui e, almeno apparentemente, serene. Quando era cambiato tutto? Forse all’età di dodici anni, quando suo padre, sorprendendolo a giocare nella neve con i bambini del vicinato, gli aveva detto che era ora di crescere e di diventare un uomo. Ricordava molto bene quel giorno; era ritornato a casa, aveva preso in mano la sua bacchetta e aveva giurato a se stesso che sarebbe diventato un grande mago, uno adulto di cui suo padre potesse andare orgoglioso. Era riuscito nel suo intento; la magia aveva dato ottimi risultati nelle sue giovani mani, e nessuno si era più permesso di dirgli che si comportava come un bambino. Eppure, negli anni a venire, aveva ripensato molte volte a quando si era rotolato nella neve, e aveva compreso che una spensieratezza come quella non sarebbe tornata mai più.

Pensieri del genere erano inutili e sciocchi, si disse, specialmente dopo tanti anni. Dimenticò quel momento di follia e si avviò verso la cucina per prepararsi un tè. Poi, però, qualcuno bussò alla porta.

L’uomo buono si bloccò sul posto fissando l’ingresso, e lo stesso fece Wolly, spalancando per la sorpresa i suoi già grandissimi occhi. Fece per avviarsi alla porta, ma il padrone la bloccò con un cenno; allora l’elfa si ritirò, intimorita, e lasciò che andasse da solo. L’uomo aveva il batticuore, ma cercò di mantenere la calma. Chi poteva essere? Le poche persone che sapevano della sua presenza lì erano state avvertite di non fargli visita, e qualcuno che si presentasse con cattive intenzioni non si sarebbe scomodato a bussare. Per precauzione, l’uomo buono afferrò la bacchetta e la tenne stretta nella tasca. Poi, quando fu a pochi metri dalla porta, domandò: “Chi è?”

“Sono io, Catherine”.

Al diavolo, pensò. Quella sciocca ragazza babbana era riuscita a spaventarlo. Spalancò la porta con rabbia, incurante dei propri modi bruschi e dello sguardo scontroso che la giovane gli restituì. “Come mai qui?”

“Sono venuta a trovare Cathy. Ho un regalo per lei”.

“Lo vedo”. In effetti, tra le braccia teneva un enorme pacco rettangolare racchiuso in una carta natalizia. Aveva avuto fegato a portarlo fin lì da Londra e per giunta sotto la neve. “Ma Natale è domani”.

“Oh, lo so”. La ragazza, impertinente come poche, gli rispose con un sorriso sarcastico. “Ma oggi è il suo compleanno. Compie dodici anni”.

Con quella frase riuscì a sorprenderlo. Sapeva che Cathy era nata all’incirca in quel periodo, ma non conosceva la data esatta. “Davvero?” chiese, sentendosi preso in contropiede.

“Certo. Si definisce il suo tutore e non sa nemmeno in che giorno è nata? Mi meraviglio di lei. La conosce meno di quanto pensassi”.

Adesso stava davvero esagerando. L’uomo buono provò il forte impulso di estrarre la bacchetta e farle capiva chi comandava, ma riuscì a trattenersi; un gesto del genere avrebbe fatto arrabbiare la bambina, e mettersela contro era l’ultima cosa che doveva fare in quel momento.

“Senta” le disse, sforzandosi di restare calmo. “Forse io la conosco poco, ma ha detto bene: sono il suo tutore, nonché l’unico che può avanzare diritti su di lei, e avrò tutto il tempo per approfondire il nostro rapporto. Non dimentichi cosa le ha detto Bennett quando mi ha concesso di portare qui la bambina: per i giorni stabiliti, resterà affidata unicamente a me. Quando Cathy non è in orfanotrofio, lei non ha alcun motivo né facoltà di occuparsene. Se le permetto di venire a trovarla è solo per pura gentilezza”. Si sentì orgoglioso di sé: stava togliendo a quella ragazza un privilegio che aveva da tutta la vita, eppure riusciva a metterla nelle condizioni di essergli addirittura grata. Quella Catherine aveva fatto fin troppi guai, era il momento di toglierla di mezzo. Eppure, con quel suo carattere fastidiosamente ribelle, non sarebbe stato facile.

“Il Direttore può dire quello che vuole, ma io non credo a una sola parola! Non sono tipo da farmi abbindolare per quattro monete, signor uomo buono. Bennett potrà aver fatto l’enorme sbaglio di concederle questi diritti, ma questo non cancella la realtà e il passato. Dov’era lei, in tutti gli anni che Cathy è cresciuta lontano dai suoi familiari? Se davvero vuol bene alla bambina e non ha secondi fini, perché non rivela a tutti il suo nome e la sua storia invece di continuare a nascondersi?”

“Questi non sono affari suoi! Come gestisco il mio rapporto con lei e i miei dati personali non la riguarda affatto”.

“Oh, dice che non mi riguarda, vero? Certo! In fondo, lei è il suo unico tutore… E io, chi sono io? Solo quella che si è occupata di Cathy dal giorno in cui è nata! Quella che davvero le ha voluto bene e l’ha cresciuta come una madre, mentre quella naturale l’aveva abbandonata! Se non fosse stato per me, lei sarebbe…”

“Adesso basta!” Catherine aveva davvero superato ogni limite. Un’altra parola del genere e tutto il suo buonsenso sarebbe andato a farsi benedire. “Vada via di qui, subito”.

Ma qualcosa impedì che quell’ipotesi tanto bramata si avverasse. In cima alle scale, una vestaglia blu notte sopra il pigiama bianco e un gatto nero ai suoi piedi, Cathy aveva visto la ragazza. Prima che l’uomo buono potesse dire o fare alcunché, corse incontro alla sua amica per ricevere gli auguri e il suo regalo, oltre a un nauseante abbraccio. Quando Catherine strinse la bambina, non fece più caso a lui nemmeno di sfuggita; semplicemente, non esisteva più.

*

“Sono contenta che ti piaccia”. Cathy aveva appena scartato il regalo di fronte al camino, mentre un bel fuoco scoppiettante riscaldava l’ampio salone. Sedeva sul divano accanto alla sua educatrice, dove sia l’uomo buono che Wolly avevano avuto il buonsenso di lasciarle sole per un po’. Sulle gambe di Catherine si era acciambellato Harry, il quale sonnecchiava beato come se fosse rimasto sveglio tutta la notte. La ragazza lo accarezzava distrattamente, ma i suoi sguardi erano tutti rivolti a Cathy e alla sua reazione dopo l’apertura del pacco; negli occhi, le lesse esattamente l’espressione che ogni volta sperava di vedere.

“Scherzi, è fantastico! Non mi avevi mai fatto un regalo così!” In effetti, quell’anno Catherine non si era risparmiata: più che un singolo dono, la scatola conteneva un serie di oggetti di vario tipo e utilità. C’erano una gonna e un maglione, un nuovo pettine d’avorio, un ciondolo poco prezioso che brillava alla luce del fuoco, un paio di scatole di cioccolatini e, infine, un carillon. Cathy fu entusiasta soprattutto di quest’ultimo: le erano sempre piaciuti i carillon, da quelli più classici con la giostra dei cavalli a quelli più originali e moderni. Tuttavia, ne possedeva soltanto uno piccolo e con la musica guasta; quello nuovo, che riproduceva con sorprendente fedeltà la ruota panoramica di Londra, avrebbe aggiunto un secondo pezzo alla sua collezione.

“Dev’esserti costato una fortuna…” aggiunse, sapendo che Catherine non navigava nell’oro.

“Non importa, li meriti tutti. Dodici anni si compiono una volta sola, dico bene?”

Cathy le sorrise con dolcezza. “È quello che dici ogni anno!”

“Perché ho sempre ragione. E, comunque, vale anche come regalo di Natale. Non credo che riuscirò a venire anche domani”.

Cathy guardò la porta della cucina e immaginò che lì dietro, fingendo indifferenza, il suo tutore stesse origliando la conversazione. Farlo andare d’accordo con Catherine sarebbe stata un’impresa. Era questo, più che la neve e la distanza, a tenere la ragazza lontana da quella casa.

“Sai, ho avuto più difficoltà a scegliere i regali quest’anno. Hai vissuto lontana così tanti mesi, e in un posto così particolare, che non sapevo più cosa ti sarebbe piaciuto. Scommetto che non tocchi più le bambole, da quando sei lì”.

Su quel punto aveva ragione. Non c’era molto tempo per giocare a Hogwarts e, comunque, i ragazzi passavano la maggior parte del tempo libero con qualche passatempo magico. Per di più, aveva smesso di toccare le bambole molto prima di andare a scuola, anche se forse Catherine non l’aveva notato.

“Sono sempre la stessa” le rispose, sapendo che a Catherine avrebbe fatto piacere. “Adoro i carillon e ho sempre bisogno di vestiti. Anche il ciondolo è molto bello”.

Lo mise al collo e Catherine, sollevandole i capelli, le aiutò a chiudere la catenina. Dopo che l’ebbe indossato, sembrò quasi brillare di più; aveva assunto una tonalità viva, rosso fuoco, che lo faceva sembrare più prezioso di quanto fosse in realtà. Senza dubbio, quella era un’altra conseguenza di quanto la magia di Cathy riuscisse a condizionare gli elementi.

“Allora, com’è vivere qui?” Catherine si fece improvvisamente seria, lasciando uscire dalle labbra la domanda che si era posta dal primo istante. “Lui, il tuo tutore… Ti tratta bene?”

“Sì, stai tranquilla. È sempre acido, ma non vuole farmi del male. Mi ha permesso di dormire in una stanza bellissima”.

Quelle parole sembrarono confortare un po’ la ragazza. Cathy le si avvicinò di più e poi, teneramente, appoggiò il capo sulla spalla dell’educatrice. Sorpresa e felice di quel gesto, Catherine le accarezzò i capelli. Un attimo dopo, sentì che la bambina le stava chiedendo qualcosa: “Catherine… Parlami di mia madre”.

La mano le si bloccò di colpo. L’abbandonò sul grembo che il gatto aveva appena lasciato, senza riuscire a nascondere la propria amarezza. “Perché? Ti ho detto tante volte quello che so”.

“Sì, ma voglio sentirlo ancora”. Catherine esitò. “Ti prego”.

La ragazza abbassò il capo, come se quella richiesta le costasse più di tutti i regali che aveva comprato. Seguì qualche istante di silenzio, riempito solo dallo scoppiettio del fuoco e dal respiro pesante di Harry. Infine, Catherine ricominciò a parlare.

“Era una donna molto bella, proprio come te. La incontrai sul London Bridge, il ponte che collega la City a Southwark, mentre lo attraversavo per tornare in orfanotrofio. La signora Davies aveva appena dato alla luce un bambino in ospedale e aveva deciso di affidarlo alle nostre cure. Il signor Bennett, che all’epoca non era il direttore ma un semplice dipendente, era stato incaricato di recarsi sul posto per prendere il neonato e mi aveva portata con sé. All’ultimo momento, però, la madre cambiò idea: si era intenerita così tanto alla vista del piccolo che decise di tenerlo, nonostante avesse già tre figli. Mi fece imbestialire e glielo rinfacciai; dopo averci costretti a uscire la sera della vigilia, per di più con quel freddo pungente, stava bellamente invitandoci ad andarcene senza il bambino. Bennett mi rimproverò duramente, dicendomi che non erano affari miei e non avevo il diritto di contrastare la scelta della donna, pur se questa era cambiata all’ultimo minuto. Adesso capisco che aveva ragione, ma allora avevo solo quindici anni; quando qualcosa rovinava i miei schemi andavo su tutte le furie, e in quel caso ero già così abituata all’idea di avere il bambino con noi da non capire che sarebbe stato meglio con sua madre. Me ne andai da sola, rifiutando il passaggio di Bennet, anche se faceva freddo e avrei dovuto fare molta strada a piedi”.

“La città era deserta, era la sera di Natale e tutte le famiglia erano riunite per la cena. Per questo, mi stupii nel vedere una donna appoggiata al parapetto del ponte, che teneva in braccio un fagottino di stoffa. Mi avvicinai per guardare meglio e scoprii che, avvolto in quella coperta, c’era un neonato piccolissimo, che doveva avere solo poche ore di vita. Nello stesso momento, anche tua madre alzò gli occhi su di me: aveva uno sguardo dolce e profondamente infelice. Le chiesi se andava tutto bene, se potevo fare qualcosa per lei. Allora mi rispose che quella bambina, sua figlia, era nata quel giorno stesso nella periferia della città, e che lei, disperata, non sapeva come occuparsene. Mi disse che era molto povera, ed io capii che non mentiva dal momento che indossava un vestito logoro e sporco di sangue. Allora le parlai del Saint George; le dissi che vivevo lì da quando ero bambina, che avevo visto crescere tanti ragazzi sani e lo ritenevo un ottimo posto anche per sua figlia. In più, avevo già deciso che ci sarei rimasta anche dopo la maturità per continuare a lavorare con i bambini, e in quel modo avrei potuto occuparmi personalmente della sua. Le assicurai che, quando ne avesse avuto la possibilità, sarebbe potuta tornare a prenderti”.

“Tua madre rifletté sulla mia proposta. All’inizio sembrava contraria, perché non voleva separarsi da te, ma poi si rese conto che non aveva altra scelta. Allora ti consegnò a me, che ti avvolsi nella coperta di lana che doveva servire per l’altro bambino. Tu eri profondamente addormentata e non ti accorgesti di nulla. Chiesi alla donna che nome ti avesse dato, ma lei disse che non ci aveva ancora pensato. Mi domandò come mi chiamassi io e le risposi Catherine, raccontandole della passione che mia madre nutriva per Cime Tempestose. Allora decise di chiamarti allo stesso modo, e mi pregò di prendermi cura di te finché avessi potuto. Glielo promisi, e le chiesi se potessi aiutarla in qualche altro modo. Ma lei disse che bastava così; sembrava certa di riuscire a cavarsela, per cui non volli insistere. Mi voltai e proseguii per la mia strada tenendoti stretta tra le braccia. Ti portai con me all’orfanotrofio e non rividi quella donna mai più”.

La storia era sempre la stessa e Cathy la conosceva a memoria. Erano passati molti anni dall’ultima volta che Catherine gliel’aveva raccontata, eppure sembrava ricordarla perfettamente. Non aggiungeva né toglieva mai nessun particolare, benché Cathy si augurasse ogni volta che le venisse in mente qualche dettaglio in più. Purtroppo non succedeva mai; Catherine aveva scavato nella propria memoria più a fondo possibile, e non era mai riuscita a ricordare nient’altro.

“Chissà cosa sarebbe successo, se mia madre non ti avesse incontrata. Forse sarei cresciuta con lei”.

Catherine le fece un’altra carezza e sembrò addolcirsi, sebbene di solito non le piacessero discorsi del genere. “Non credo che saresti stata felice. Forse ti avrebbe lasciata comunque, oppure ti avrebbe cresciuta tra gli stenti. Una donna povera, che non ha la forza di occuparsi di se stessa, non è in grado di crescere un bambino. So che avresti voluto vederla, sapere chi era… Ma adesso, dopo tutto questo tempo, è ancora così importante?”

Cathy la guardò; non si aspettava quella domanda. Avrebbe voluto dire che sì, lo era, perché se anche non aveva più voluto vederla, quella donna era sua madre e lo sarebbe stata per sempre. Con questo però non intendeva certo sminuire l’affetto che la legava a Catherine e, temendo che la ragazza potesse capire ciò, tacque.

“So cosa significa crescere senza una madre. La mia è morta quando avevo solo otto anni, ho passato il resto della mia vita al Saint George proprio come te. Lì però sono cresciuta bene, ho conosciuto persone di cuore e con il tempo ho smesso di soffrire. Ormai non penso quasi più a lei, se non con rassegnazione e un sorriso per ciò che è stato. Credevo che sarebbe stato lo stesso anche per te”.

Conosceva la storia della sua educatrice, ma era completamente diversa dalla sua. Catherine, seppure per poco, aveva vissuto con sua madre e l’aveva persa per una tragica fatalità. Poteva ricordare il suo viso quando voleva e portare fiori sulla sua tomba. Cathy, invece, non conosceva né il suo nome né il suo aspetto, e tantomeno sapeva se nutrisse una passione per qualche romanzo. Come poteva non capire?

“Io non ho perso solo una famiglia, quel giorno” le spiegò. “Mia madre apparteneva a un altro mondo, uno che sto imparando a conoscere solo adesso e di cui faccio parte anch’io. Ritrovarla significherebbe scoprire chi sono, capisci? Sono stata benissimo con te in questi anni, ma adesso non mi basta più. Voglio sapere che cosa ho perso e se c’è un modo per recuperarlo”.

Catherine annuì con aria sconfitta. “Quindi vuoi cercarla, è così?”

Cathy rispose senza esitazione: “Sì”.

“Allora ti aiuterò, se è veramente quello che vuoi. Ma ti avverto che non sarà facile, perché tutto quello che ho è un vago ricordo del suo viso. Sono tornata molte volte su quel ponte e non l’ho più vista, probabilmente non viveva neppure in città”.

La ragazzina però si era concentrata solo sulla prima parte della frase, tralasciando le difficoltà che avrebbe dovuto affrontare. “Davvero vuoi aiutarmi?”

“Certo. Io voglio il tuo bene, lo sai, anche se ho paura che una ricerca infruttuosa ti farà soffrire. Però, se può consolarti, chi sei lo sappiamo già: una ragazza speciale, e non solo perché possiedi la magia”.

Allora sorrisero entrambe, unite da quel proposito nonostante le loro idee opposte. Cathy sapeva che la sua amica non aveva torto: il ricordo di come aveva sperato che Harry Potter fosse suo padre, per poi subire una cocente delusione, non l’avrebbe mai abbandonata. Ma quella volta si sarebbe basata solo su indizi certi, in modo da non illudersi nuovamente. E, per quanto sarebbe stato difficile, sentiva che ne valeva la pena.

Poco dopo, l’uomo buono abbandonò il suo rifugio in cucina e interruppe quel momento toccante. Affermò che era ormai mezzogiorno e non nevicava più da quasi un’ora; Catherine lo prese come un invito ad andarsene.

“Ti riaccompagnerò a King’s Cross quando dovrai ripartire” le disse, abbracciandola un’ultima volta. “Buon compleanno, Cathy”.

*

Dopo pranzo, l’uomo buono insisté perché lui e Cathy uscissero di casa subito. Diede alla ragazza appena il tempo di prepararsi e portare con sé le cose necessarie, spiegandole in modo sbrigativo che avrebbero dovuto esercitarsi. Cathy preferì non fare domande e accettò di vestirsi come una vera strega, il che per l’uomo significava indossare una veste nera non dissimile dalla divisa scolastica e, sopra di essa, un pesante mantello dello stesso colore. Quell’abbigliamento le sembrò ingombrante finché era a casa, ma una volta fuori scoprì che era piacevolmente caldo. Non nevicava più, ma i fiocchi avevano lasciato a terra una coltre bianca alta una decina di centimetri e, ad ogni passo, i suoi stivali affondavano pesantemente. In compenso, la villa appariva molto più bella e luminosa di giorno di quanto lo fosse stata di notte, e Cathy si ripropose di visitare il giardino alla prossima occasione.

Avevano quasi raggiunto il cancello quando la ragazza, che cominciava a sentirsi affaticata e risentita, domandò: “Allora, si può sapere dove stiamo andando?”

L’uomo buono si voltò verso di lei. Aspettò che lo raggiungesse tra un affondamento e l’altro nella neve, poi replicò ai suoi dubbi: “In un posto dove la Traccia non ti seguirà”.

Cathy si mostrò perplessa. “Davvero? E come fai a dirlo?”

“Ti svelo un segreto, ragazzina. La Traccia individua le magie compiute nelle zone in cui si trova un minorenne, ma non può rivelare chi ha effettivamente compiuto l’incantesimo. Questo significa che i luoghi frequentati abitualmente da maghi non sono neppure controllati; per il Ministero sarebbe solo una gran perdita di tempo”.

“Oh”. Cathy era sinceramente sorpresa. Non si sarebbe aspettata che un ostacolo come quello potesse essere superato con tanta facilità. “Quindi stiamo andando in un luogo affollato che il Ministero non controllerà?”

L’uomo fece una specie di sorriso. “Esatto. Vedo che cominciamo a capirci”. Una volta fuori, si aggirò guardingo con la bacchetta stretta in pugno e scrutò tutti i lati della strada, come se sospettasse di essere seguito. Infine, sembrò tranquillizzarsi; tese la mano sinistra in direzione di Cathy, con il palmo rivolto verso l’alto, e le disse: “Afferrala”.

La ragazza esitò, incapace di interpretare quel gesto. Voleva forse aiutarla ad attraversare la strada? Impossibile, dato che si trovavano ancora in aperta campagna. E allora cosa?

“So camminare da sola, grazie” gli disse, a metà tra l’offeso e il sospettoso. L’uomo buono non fu da meno.

“Non fare la stupida. Mi sembra ovvio che non andremo a piedi”.

Cathy a quel punto si mostrò ancora più incerta. Aveva dato per scontato che avrebbero preso il treno, senza pensare che molto difficilmente il suo tutore si sarebbe abbassato all’uso dei traporti babbani. Ma allora, come si sarebbero spostati? Non avevano portato neppure una scopa… Possibile che lui volesse…

“Sto perdendo la pazienza”.

Preoccupata che l’uomo fosse davvero sul punto di perderla, Cathy si lasciò convincere. Fece un respiro profondo, si ripeté che non c’era ragione per non fidarsi e finalmente gli prese la mano. L’ultima cosa che pensò, prima che tutto divenisse buio e il petto le si schiacciasse come in una morsa, fu che quello era stato il loro primo contatto fisico.

Fu una sensazione terribile, seppur breve. Il suo corpo era compresso da ogni lato e non riusciva a respirare, vedere o sentire nulla, mentre una forza misteriosa la trascinava verso una meta sconosciuta. Quando poté riaprire gli occhi, si accorse di trovarsi in un luogo diverso e curiosamente familiare: era un vicolo cupo e angusto, sui cui lati emergevano le vetrine di qualche negozio magico. Prima che potesse ricordarsi dove le aveva già viste, fu assalita da un gran senso di nausea; dovette fare un enorme sforzo per non vomitare sul lastricato.

“Immagino che fosse la tua prima Materializzazione”. L’uomo buono, per niente preoccupato, stava quasi ridendo di lei. “Gli effetti sono questi all’inizio, è del tutto normale”.

Cathy tossì un paio di volte e si rivolse a lui, con voce debole ma palesemente irritata: “Tu sei matto! Ho solo dodici anni, a scuola ci hanno spiegato che è pericoloso Materializzarsi prima dei sedici! Potevo finire in ospedale! Possibile che non te ne importi niente? Sei un insensibile!”

“Può darsi. Oppure, ti conosco abbastanza per sapere che ne sei in grado. Questione di punti di vista”. Quel discorso non la convinse affatto; parole ambigue come quelle la rendevano solo più infuriata. “Pensala come vuoi. Magari, è la volta buona che ti convinci che non sono un uomo buono”.

La ragazza si calmò leggermente. Quando la metteva su quel piano, auto-definendosi il malvagio per eccellenza, a lei veniva spontaneo controbattere. In effetti, le basi per appoggiare quella teoria c’erano tutte, ma paradossalmente era proprio questo a non convincerla: i veri cattivi non dicevano mai di esserlo, nelle favole come nella vita.

“Lo sei invece, anche se non ti comporti da tale. Al momento giusto lo dimostrerai”. Mise in quella frase più sicurezza di quanta ne avesse realmente. Il suo tutore, comunque, non dovette accorgersene, perché replicò con un ghigno seccato.

“Ho già visto questo posto”. Cathy si guardò attorno e notò che la strada non era poi così affollata. Nel vicolo c’era soltanto loro due, e nella via di fronte s’intravedeva di tanto in tanto un mago o una strega incappucciata. Improvvisamente, ricordò perché le era tanto familiare. “Siamo a Notturn Alley, vero?”

L’uomo restò sorpreso, al punto di fare due cose che solitamente evitava: dire qualcosa di positivo sul suo conto e chiamarla per nome. “Non sapevo che frequentassi certi posti, Catherine… Forse ti sto sottovalutando”.

“È stato un incidente” puntualizzò lei. “Stavo facendo acquisti a Diagon Alley e il mio gatto si è allontanato. Ho dovuto seguirlo”.

“Lo immaginavo. Comunque, la ritengo la scelta migliore: qui la gente cammina a testa bassa e si fa gli affari propri”.

Cathy appoggiò a terra la borsa che si era portata dietro e iniziò a rovistarci dentro, per recuperare la bacchetta. Provava un certo timore a infrangere la legge in quel modo, nonostante l’uomo buono sembrasse tanto sicuro di sé. Dopotutto, non era certo lui a rischiare l’espulsione, pensò con un moto di stizza. “Allora, cosa vuoi che faccia?” gli chiese, sperando che l’allenamento durasse il meno possibile.

Il tutore ghignò di nuovo e guardò verso il cielo, che era di un bianco perlaceo. “Tempo secco oggi, non trovi? Ci vorrebbe un po’ di pioggia, dopo tutta questa neve”.

Cathy aggrottò la fronte, chiedendosi se aveva capito bene. “Vuoi che faccia piovere?”

“Chiaro. Ti lamenti di non essere all’altezza dei tuoi compagni, ma non hai mai pensato di essere tu quella speciale? Chi di loro riesce ad accendere il fuoco o provocare un terremoto senza neppure volerlo? Nessuno, lo so, non c’è bisogno che me lo confermi. Forse è la scuola a non essere alla tua altezza, mia cara. Il loro metodo è adatto a maghi mediocri e senza esperienza, non a te, che hai più potere di un qualsiasi coetaneo. Devi solo imparare a usare la magia in modo diverso”.

Le stava facendo un elogio in piena regola, cosa assolutamente non da lui, e solo questo bastava a rendere sospetto quel discorso. In più, Cathy si stava impegnando per tenere a freno quello che lui chiamava ‘potere’, ed era impensabile che ora dovesse ricominciare da capo per imparare a usarlo. Iniziò a sentirsi esasperata: che cosa volevano tutti da lei?

“La mia magia involontaria ha causato un sacco di problemi, non ci trovo proprio niente di speciale. E non voglio rischiare di far male a qualcuno per esercitarmi, è pericoloso”.

“Proprio per questo” continuò l’uomo impassibile “è importante che impari a controllarla. Non deve esplodere solo quando sei arrabbiata, ma quando lo vuoi. In questo modo non ci saranno più incidenti”.

Cathy ci pensò su. La cosa era abbastanza convincente, ma non era l’unico problema: aveva promesso a qualcuno che si sarebbe liberata di quel tipo di magia. “Il professor Young non vuole che la usi” spiegò.

“Albert Young è un assassino”.

Quella rivelazione improvvisa la colpì come un pugno allo stomaco. Certo, non si era mai fidata fino in fondo di lui e temeva ancora che fosse una persona crudele, ma sentirlo definire assassino con tanta veemenza era comunque un duro colpo. Dopotutto era un insegnante, qualcuno che non aveva punito lei e Teddy dopo una gigantesca infrazione delle regole e che si era offerto di darle una mano. No, non riusciva proprio a immaginarlo uccidere qualcuno.

“Non mi credi, vero?” L’uomo buono sembrò intuire i suoi pensieri. “Immagino che sia cambiato molto da quando è a scuola, costretto a insegnare le Arti Oscure a un gruppo di ragazzini. Dev’essere frustrante per un uomo abituato a combattere, tremendamente. Forse non sai che era un Auror una volta; ha ucciso più uomini lui di quanto abbia fatto un qualsiasi Mangiamorte”.

Cathy tentennò, colta dall’improvvisa voglia di non ascoltare il resto. “Sapevo che era un Auror… E che è stato allontanato dalle missioni…”

“Esatto. A un certo punto, persino il Ministero ha capito con chi aveva a che fare e si è limitato a spostarlo dietro una scrivania. Al loro posto l’avrei sbattuto ad Azkaban, ma naturalmente la legge per gli Auror è diversa: loro sono i buoni, quelli che vengono perdonati per qualsiasi azione. Giustizia meravigliosa, non è vero?”

Se era come diceva, Cathy non poteva che dargli ragione. Ma com’era possibile che un pluriomicida restasse impunito, Auror o meno? Non riusciva a capire.

“Ma l’omicidio è reato, anche nel mondo dei maghi! Perché non l’hanno fermato subito?”

“C’è stato un tempo” continuò lui, riecheggiando antichi ricordi “in cui uccidere era un reato anche per gli Auror. Potevano combattere, imprigionare i nemici, ma non utilizzare le Maledizioni Senza Perdono. Durante la prima guerra, però, il Ministero cambiò idea. I Mangiamorte prendevano potere senza che nessuno riuscisse a fermarli, così fu deciso di dare agli Auror licenza di uccidere. Alcuni ne approfittarono solo in caso di necessità, altri si sentirono in diritto di fare qualsiasi cosa. Young era tra questi ultimi”.

Cathy era scioccata e restò in silenzio. Si sentiva delusa dal suo professore e si stava pentendo di avergli dato fiducia. Come aveva osato dire che la sua innocente magia era il male, se lui per primo aveva commesso delitti atroci? Certo, c’era anche la possibilità che il suo tutore mentisse; ma non l’aveva mai fatto, e per di più la sua versione combaciava con quella di Maggie.

“Adesso sai chi è davvero il tuo insegnante” concluse l’uomo. “Scegli se dare fiducia a me o a lui”.

La ragazza cominciava a sentirsi preda di una rabbia incontrollata, per la verità non avrebbe voluto fidarsi di nessuno. Ma si rendeva conto di dover fare una scelta e che sarebbe stata una delle più difficili. Facendo un grande sforzo su se stessa, mise a nudo gli ultimi dubbi che le impedivano di dargli fiducia: “Hai detto che posso imparare a controllare i miei poteri, d’accordo. Ma quanto ci vorrà? Nel frattempo, qualcuno dei miei amici potrebbe farsi male. Perché devo continuare a dominare gli elementi, a che cosa serve?”

“A cosa serve?” sembrava scioccato per quella semplicissima domanda. “Tu non ti rendi conto del potere che hai, di come potresti svilupparlo! Provocare la pioggia o far tremare la terra è solo l’inizio… Tutti gli incantesimi che facciamo sfruttano le capacità proprie degli elementi, tutti. Chi ha una tale affinità con loro può accrescere le sue potenzialità in tempi brevi e con risultati eccezionali. Prendiamo la tua abilità con il vento, ad esempio. Ti sei mai chiesta cosa può portare, cosa potresti riuscire a fare?”

Cathy replicò con un secco: “No”. L’uomo buono esitò, come se non fosse certo di volerglielo dire. Poi, prima che la ragazza dirigesse la sua rabbia anche contro di lui, decise per il sì.

“Volare. Potresti volare”.

“Che cosa? Intendi senza una scopa?”

“Senza alcun mezzo. Solo con il tuo corpo. Ma Young naturalmente non voleva che tu lo sapessi, altrimenti ti saresti rifiutata di rinunciarvi. Il suo scopo è tarparti le ali, in tutti i sensi”.

Cathy era senza parole. Quell’idea le sembrava fantastica, un’opportunità che certamente non tutti i maghi avevano. Young l’aveva costretta ad accettare la sua proposta dicendole dei pericoli che comportava quella magia e non dei benefici, in maniera assolutamente scorretta. Cosa poteva esserci di male nel volare, senza rendersi ridicola a cavallo di una scopa che non si faceva governare? Proprio niente. L’ultima barriera che la legava alla sua promessa era caduta.

“D’accordo, allora. Un po’ di pioggia non farà male a nessuno”.

Qualche piccola goccia stava già cadendo sulle loro teste, come conseguenza della rabbia che provava. Per la prima volta da quella mattina, Cathy si accorse che l’uomo buono stava sorridendo davvero: finalmente era contento di lei.


Note

Speravo di pubblicare il capitolo proprio il 24 dicembre e ci sono riuscita, anche se purtroppo la giornata non è finita qui. Devono accadere un bel po' di cose, ma mano a mano che scrivevo mi sono accorta che le pagine aumentavano a dismisura e ho preferito dividere il tutto in due capitoli.

Qualche piccola nota come al solito: all'inizio avrete notato che ho cambiato un po' il punto di vista, ma era necessario per raccontare qualcosa che solo l'uomo buono poteva sapere (spero che non risulti un elemento di disturbo, anche perché ce ne saranno altri); i luoghi di Londra che ho citato esistono davvero, compresa la ruota panoramica del carillon che non è altro che la London Eye, una delle più alte del mondo (e che vorrei tanto visitare, insieme alla città!) Infine, il fatto di volare senza alcun mezzo può sembrare una cosa un po' trash, ma la Rowling ha detto che è possibile (Voldemort e Piton lo fanno) per cui ho sfruttato la cosa anche per Cathy.

Be', finisco col ringraziarvi ancora una volta, il capitolo precedente ha ricevuto tantissime visite in poco tempo e la cosa mi ha riempito di gioia. Spero che anche questo si mantenga all'altezza! A proposito, a chi avreste dato fiducia tra Young e l'uomo buono? :) Buon compleanno a Cathy e soprattutto buon Natale a voi!

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Capitolo 20
*** Il mantello ***


20


Le esercitazioni di Cathy si protrassero per almeno due ore di fila, fino a quando non divenne troppo buio per poter continuare. L’uomo buono era un insegnante singolare, utilizzava un metodo completamente diverso da quelli di Hogwarts: secondo lui, quando si praticava un qualunque incantesimo, l’ingrediente principale era la volontà. Bisognava desiderare profondamente ciò che si stava per fare e, al tempo stesso, credere di riuscirci. L’insicurezza non aiutava la magia, anzi, rendeva tutto più difficile. Era un po’ lo stesso concetto di Eliza, che nell’insegnarle l’incantesimo Lumos le aveva fatto chiudere gli occhi e immaginare la luce sprigionarsi. Era sorprendente vedere come un effetto totalmente involontario potesse in qualche modo essere controllato: bastava afferrare la bacchetta al momento opportuno e diffondere l’energia attraverso di essa, continuando consapevolmente ciò che era iniziato da sé. Un giorno, le disse l’uomo, sarebbe riuscita a provocare quegli eventi direttamente con la bacchetta; ci sarebbe però voluto del tempo e molto esercizio.

“Come primo giorno è andata bene, non possiamo lamentarci. Ora è il caso di rientrare”.

Cathy sorrise per quella specie di complimento, ma un attimo dopo rabbrividì: l’uomo buono le stava tendendo di nuovo la mano.

“No, te lo scordi!” gridò, pensando che non avrebbe retto a un’altra Materializzazione. “Trova un altro modo per viaggiare, altrimenti non vengo!”

Il tutore la fissò con aria severa, dimenticando in un istante tutte le belle parole che aveva avuto per lei. “E che cosa vorresti fare, dormire qui? Non essere sciocca, non c’è altro modo”.

“Sì che c’è!” insistette Cathy. ”I maghi hanno tantissimi mezzi di trasporto, lo so bene. Non possiamo usare un camino o una Passaporta?”

“No” rispose subito lui, senza darle alternativa. “I camini appartengono ai negozianti e le Passaporte hanno bisogno di un’autorizzazione per essere create. Come vedi, è l’unico modo possibile”.

Cathy si morse il labbro nervosa. Un altro modo c’era, in realtà, anche se non era certamente tra i suoi preferiti e di sicuro lui non avrebbe approvato. Decise comunque di tentare: qualsiasi cosa era meglio di Materializzarsi.

“Allora cerchiamo una scopa” propose, in un tono che era piuttosto un’imposizione. “Ce ne sarà qualcuna in vendita da queste parti. Possiamo volare fino a casa”.

“E poi il matto sarei io…” L’uomo buono sbuffò, guardandola con aria di sufficienza. “Vuoi sul serio volare con questo freddo?”

“Sì, lo sopporterò. Oltretutto, è una di quelle cose per cui non sono portata e devo migliorare”.

Il tutore esitò, il che significava che le stava dando un’opportunità. Dopo qualche istante, lo sentì borbottare: “Non so nemmeno perché ti sto a sentire…”

Ma non si mosse di un passo e non entrò in alcun negozio. Alzò il braccio sinistro, mentre con l’altra mano impugnava la bacchetta, e pronunciò un incantesimo a fior di labbra. Un attimo dopo, una scopa sferzò l’aria a tutta velocità e finì nella sua mano, come se l’avesse richiamata da qualche luogo remoto. Cathy aveva sentito parlare di incantesimi di Appello e pensò di avervi assistito per la prima volta.

“Sali davanti a me” le disse, poggiando a terra la scopa nuova e perfettamente funzionante. “Ti mostrerò come fare a guidarla”.

Cathy obbedì, ma nel frattempo non poté fare a meno di chiedergli: “Da dove salta fuori? Non l’avrai rubata?”

“Senti, ragazzina, volevi una scopa o no? Eccola. Impara a non fare domande, una buona volta”.

Insistere non le conveniva, non ora che aveva acconsentito alla sua richiesta. Tuttavia, il dubbio che l’avesse sottratta a qualcuno con la forza non smise di tormentarla; quella vacanza era una continua infrazione di regole.

L’uomo buono salì dietro di lei e la scopa si alzò in volo all’istante. Le mani di Cathy tremavano sul manico per la paura ed il freddo, poi lui le coprì con le proprie. Le sue dita erano fredde e ruvide, ma in qualche modo le fornivano protezione; di colpo, un ricordo dolce le accarezzò la memoria.

“Andiamo sopra le nuvole” gli disse. “Dove nessuno potrà vederci”. Il suo tutore non rispose, ma iniziò a dirigere la scopa sempre più in alto. Nonostante la notte incombente e l’altezza vertiginosa, Cathy si accorse che i suoi timori iniziavano a scemare.

“Devi tenere il manico fermo verso l’alto, così. Non tremare, falle capire chi è che comanda. Devi essere tu a guidare la scopa, non il contrario. Esatto, brava: dirigiti a nord”.

Dopo qualche aiuto iniziale, Cathy riuscì a pilotare il manico da sola. Ogni tanto, la scopa vibrava pericolosamente e tentava di cambiare direzione, ma sia lei che l’uomo buono l’afferravano con energia costringendola a mantenere la rotta. A poco a poco, Cathy si sentì più sicura di sé e riuscì ad apprezzare anche le vedute portentose che accompagnavano quel viaggio: le prime stelle che apparivano nel cielo, le nuvole rade e inconsistenti come nebbia, le luci della città sempre più piccole sotto di loro. Adesso capiva cosa doveva provare Teddy quando era in volo con il suo padrino: una sensazione unica e irripetibile, di libertà e di profonda unione.

Per la prima volta dopo tanto tempo, si chiese se l’uomo buono nutrisse anche solo un po’ d’affetto per lei. Dai suoi atteggiamenti traspariva il contrario, ma allora perché teneva così tanto a istruirla personalmente? Le aveva dato soldi, informazioni preziose e un futuro che un tempo non avrebbe mai immaginato; tutto questo doveva pur significare qualcosa. Forse, per qualche motivo, non riusciva ad ammettere che le voleva bene. Era un’idea azzardata, ma era pur sempre meglio pensare questo piuttosto che a una qualche preoccupante alternativa. A quanto ne sapeva, l’uomo poteva anche essere l’ultimo suo parente rimasto in vita.

Rimuginò su quelle cose per tutta la durata del viaggio, anche perché il vento rendeva difficile comunicare. Poi, poco prima che scendessero a terra, Cathy avvertì qualcosa di strano: l’uomo buono si era avvicinato con il capo al suo, fino ad appoggiare la fronte alla sua nuca e ad affondarle il naso tra i capelli. Aspettò di sentirlo sussurrare qualcosa, ma non accadde; sembrava quasi che volesse soltanto annusarla. Perplessa, non parlò né si mosse, chiedendosi se quello fosse o meno un gesto d’affetto. In ogni caso, non durò molto: l’uomo si scostò bruscamente qualche istante dopo, mentre la scopa atterrava dolcemente davanti alla villa. Cathy scese a terra, le ginocchia leggermente dolenti per quella posizione scomoda. L’uomo buono si avviò a passo svelto verso il cancello e la precedette nel viale, senza mai voltarsi a guardarla. Solo quando furono accanto al portone, sotto la luce delle torce, non poté più nasconderle il suo viso. Allora Cathy lo guardò, scrutò quel volto scavato e burbero e si accorse che era di nuovo arrabbiato. Ma perché? Che cosa aveva fatto di sbagliato quella volta? Per un momento, esercitandosi insieme e poi volando sulla scopa, le era sembrato che andassero finalmente d’accordo. Adesso, invece, era tornato quello di sempre, perennemente in collera con lei e con il resto del mondo. Decise che non era colpa sua e che non poteva farci niente, anche se per un attimo aveva sperato che le cose cambiassero. Entrò in casa senza parlare e andò in cucina a salutare Wolly, mentre lui saliva le scale verso la propria stanza. Ma più tardi, mentre annusava gli odori prelibati della cena, capì di essersi sbagliata: quell’espressione non era la stessa del loro primo incontro, né quella che le rivolgeva ogni volta che si mostrava deluso. Assomigliava di più a quella di Catherine quando lei le aveva chiesto di sua madre. No, concluse, l’uomo buono quella sera non era arrabbiato: era infelice.

*

Le luci magiche che decoravano l’albero di Natale erano davvero speciali. Come quelle babbane, emettevano mille colori diversi a intermittenza e si spegnevano periodicamente, dando nell’insieme un effetto armonioso. A differenza loro, però, non erano collegate ad alcun filo: si muovevano liberamente tra le foglie, quasi danzando, si nascondevano nelle profondità buie dell’abete per poi riapparire come luminose farfalle. Sembravano quasi delle piccole fate, o forse lo erano davvero.

Wolly aveva fatto davvero un buon lavoro, pensava Cathy. Dopo cena, quando ancora una volta il suo tutore era salito di sopra lasciandola sola, aveva deciso di trascorrere un po’ tempo in soggiorno, seduta sul divano. Grazie alle luci dell’albero e a quella del fuoco, la notte aveva qualcosa di rassicurante. Persino in quella casa, dove sembrava regnare un clima fatto di sole regole e nessuno svago, Cathy riusciva a sentire l’atmosfera del Natale. L’orologio a pendolo segnava pochi minuti alla mezzanotte, il che significava che il suo compleanno stava finendo per lasciare spazio alla nascita di Gesù. Non sapeva mai come doveva sentirsi in quell’occasione, se felice per la ricorrenza imminente o triste per quella che se ne andava. Di solito, però, c’era almeno Catherine a sollevarla da quei dubbi, mentre adesso era da sola con i suoi pensieri. Lei le aveva fatto dei regali bellissimi, ma non era riuscita a darle ciò che la consolava di più, ovvero la sua presenza costante. L’uomo buono, poi, non le aveva fatto neanche gli auguri. Sapeva che era il suo compleanno? Dove si trovava il giorno della sua nascita? Ogni volta che pensava a lui, le domande aumentavano e non giungeva alcuna risposta. Forse sarebbe rimasto sempre un’incognita per lei, un individuo dal passato burrascoso e inaccessibile. Aveva sperato che, col tempo, si sarebbe ammorbidito, fino ad affezionarsi a lei e raccontarle finalmente la verità. Ma forse si era sbagliata; quell’uomo era del tutto incapace di amare.

Cercò di concentrarsi su qualcosa di più sensato, come sua madre e la strategia migliore per ritrovarla. Aveva portato con sé anche il mantello che le aveva dato Wolly, sia per scaldarsi che per sperare in qualche potere nascosto. Ma purtroppo, mentre per il primo scopo si era rivelato efficace, per il secondo non aveva dato alcun segno di vita: se ne stava immobile sulle sue spalle, bello e silenzioso quanto il resto della casa. Eppure, non le andava di metterlo via, perché ricordava benissimo lo sguardo pieno di aspettative che aveva Wolly quando gliel’aveva consegnato. Forse il mantello non era la strada giusta per arrivare alla verità, ma nel frattempo sarebbe rimasto un compagno fedele.

Poi, d’un tratto, Cathy sentì dei passi. Provenivano dalle scale ed erano senza dubbio quelli di un uomo. La ragazza si strinse nel mantello, ripiegando il suo bordo riccamente decorato e facilmente riconoscibile e sperando che il suo tutore non si fermasse accanto a lei; non poteva immaginare la sua reazione nello scoprire che aveva preso quell’oggetto. Purtroppo, le sue speranze furono disilluse: l’uomo si fermò esattamente dietro il divano, come se fosse venuto lì apposta.

Cathy non si voltò a guardarlo, fingendosi molto interessata al camino, e lo sentì sedere accanto a lei. Infine, lui l’apostrofò: “Ancora qui?”

La ragazza si tenne a distanza più che poteva e replicò con una scusa: “Non ho sonno. Vado a letto tra un po’”.

“Curioso. Nemmeno io riesco a dormire”.

Era già un bene che lui non volesse sgridarla; in quella risposta, però, Cathy lesse un pretesto falso quanto il proprio.

“Sei stata molto brava oggi. Hai ancora tanto da imparare, ma credo che allenandoci tutti i giorni possiamo ottenere grandi risultati. Diventerai la migliore della scuola, non sei contenta?”

C’era poco da stare allegri, visto che la sua concezione di ‘migliore’ era molto diversa da quella degli insegnanti. Non lo capiva, oppure si rifiutava di farlo. “Perché dovrei esserlo? Non lo sei nemmeno tu”.

Riuscì a sorprenderlo, lo capì dal suo tono di voce. “Io? Io lo sono, Cathy. La tua istruzione è l’unica cosa che mi interessa, lo sai. Non devi fare altro per soddisfarmi”.

La ragazza non riuscì più a trattenersi: doveva guardarlo, vedere se quelle cose le pensava davvero. Anche allora, però, si accorse che quella presunta contentezza stonava tremendamente con la sua espressione.

“Invece sei sempre triste” gli disse, sicura della propria teoria. “Anche oggi, quando abbiamo smesso di volare… Non hai parlato più e ti sei chiuso di sopra per tutto il pomeriggio. Io cerco di comportarmi bene, di ubbidirti, ma tu sei sempre più scontroso. A che serve diventare la migliore della scuola, se poi non rende felice nessuno dei due? Io…” esitò, temendo di sbilanciarsi troppo. “Vorrei che diventassimo amici”.

Si aspettava un sorriso sarcastico o una presa in giro, ma non arrivò né l’uno né l’altra. L’uomo buono sembrò prenderla stranamente sul serio. “Tu non sai quello che dici. Io, proprio io… Essere tuo amico. Non lo vorresti se sapessi chi sono. Mi terresti il più lontano possibile”.

“Lascialo decidere a me. Dimmi chi sei e poi vedremo chi ha ragione. Io non sono come quei miei compagni che giudicano le persone dal loro passato… Ti giudicherei solo per quello che vedo adesso”.

Nei suoi occhi c’era una luce diversa, una dolcezza che non gli era mai appartenuta. Per la prima volta, l’uomo le stava mostrando il suo lato più umano e incredibilmente fragile. Cathy l’osservò da vicino come non aveva mai fatto: gli occhi nocciola, i capelli castani e cespugliosi intervallati da qualche filo d’argento, le rughe sul volto che testimoniavano antiche sofferenze. Per un attimo, la ragazza pensò che si sarebbe svelato.

“Cathy” le disse, pronunciando ancora il suo nome. “Io…”

Ma poi, come un lampo nella notte silenziosa, cambiò tutto. Il suo sguardo si spostò sul margine del mantello, che era ormai troppo bene in vista perché Cathy potesse nasconderlo. La ragazza cercò di impedire che accadesse, ma era troppo tardi: il suo volto era nuovamente una maschera di rabbia.

“Dove l’hai preso?” le chiese, allungando una mano tremante verso l’oggetto.

“Io… Ti prego, non ti arrabbiare!”

“Ti ho chiesto dove l’hai preso!”

Glielo strappò via con violenza, così tanto che la stoffa rischiò di lacerarsi. Lo ripiegò e lo gettò sul bracciolo del divano, tenendolo a debita distanza da lei. Impaurita, Cathy non ebbe la forza di mentire: “Me l’ha dato Wolly. Non sgridarla, non farle male, per favore! In fondo non gliel’avevi vietato. E io non so nemmeno cosa potrei farci”.

L’uomo si alzò, prese a misurare la stanza a grandi passi e a riflettere tra sé. Cathy era terrorizzata all’idea che Wolly venisse punita al suo posto. Non riusciva a non pensare alla sua lunga cicatrice, possibile conseguenza di una pena troppo dura.

“Quell’elfa… Anni di servizio e ancora non sa stare al suo posto. Dovevo immaginare che si sarebbe inventata qualcosa. Sapeva bene quel che stava facendo, avrà quello che si merita”.

“No!” Cathy iniziò a piangere, prima che potesse trattenersi. “No, per favore! Lei non c’entra niente, è stata tutta colpa mia. Le ho chiesto di fare qualcosa che non le avevi vietato, qualcosa che potesse condurmi ai miei genitori, e lei mi ha dato quel mantello. Mi dispiace, ma tu non vuoi mai dirmi la verità… Devo scoprirla da sola in qualche modo!”

Il suo tutore fremeva ancora d’ira, forse verso l’elfa o forse verso lei. “Vuoi la verità? Bene, allora stammi a sentire: inizia a smettere di cercare tua madre, e di’ alla tua amica babbana di fare lo stesso. Non vi porterà a niente”.

Adesso era lei a sentirsi arrabbiata: il suo dubbio di quella mattina si era rivelato fondato. “Quindi hai origliato!” lo accusò, indispettita. “Hai sentito la nostra conversazione!”

“Sì, ragazzina, ho sentito! E ho tutto il diritto di farlo. Io sono il tuo tutore, devo sapere quello che ti metti in testa ed evitare che tu faccia sciocchezze. Ascolta il mio consiglio, non sprecare il tuo tempo”.

“Perché dovrei starti a sentire?” gridò la ragazza, poco incline a fidarsi di lui un’altra volta. “Tu non vuoi che la ritrovi, per questo non mi dici niente di lei! Perché dovrei crederti? Perché non dovrei pensare che lei è qui da qualche parte, che la tieni lontano da me?”

“Perché io non ti ho mai mentito!” L’uomo si era avvicinato di nuovo e la fissò negli occhi fiammeggianti, afferrandole le spalle e costringendola così a ricambiare il suo sguardo. “Non ti ho mai mentito” ripeté, senza più urlare. “È vero, non voglio che tu sappia chi sono né dei tuoi genitori, questo l’ho sempre ammesso. Ma non ti ho raccontato bugie e non voglio farlo, anche se potrei. E questo perché hai il diritto di sapere, ma solo quando verrà il momento. Adesso è troppo presto, sei troppo piccola e inesperta. Perciò, fidati di un uomo che quando ha potuto ti ha sempre detto la verità: lei non è qui. Lei non è in nessun posto”.

Le lacrime continuarono a bagnare il viso di Cathy, ma questa volta per un motivo diverso. Sapeva che aveva ragione, che non le stava dicendo bugie. Forse, stava solo confermando ciò che lei sapeva da sempre. “Vuoi dire che è morta. È così?”

L’uomo non abbassò gli occhi dai suoi, come per starle accanto nel dolore che egli stesso le stava procurando. Poi, lentamente, annuì.

Cathy chiuse gli occhi, si sottrasse al suo sguardo e affondò il viso nella vestaglia. Se l’aveva sempre saputo, perché faceva così male? Perché quella era la fine dei suoi sogni, della sua più piccola speranza. Non avrebbe mai trovato sua madre, non avrebbe mai saputo com’era il suo sguardo e il suo sorriso. Tutto ciò che le restava era nelle parole di un uomo di cui poteva fidarsi solo a metà. Non gli chiese cosa ne fosse stato di suo padre: non voleva saperlo, non in quel momento.

Piangere era un segno di debolezza, come le aveva detto molte volte, ma quella sera l’uomo buono glielo lasciò fare. Forse per pietà, o perché era dispiaciuto di ciò che le aveva detto. In ogni caso, qualcosa cambiò in lui, rendendolo più simile a ciò che era stato qualche minuto prima. Ricominciò a parlare, a darle risposte che Cathy non aveva chiesto: “Quel mantello apparteneva a lei. Era il suo preferito, lo indossava ogni volta che ne aveva l’occasione e diventava una furia se qualcuno glielo sgualciva. È un oggetto di manifattura antica, cucito con una stoffa tanto preziosa quanto sensibile alle macchie. Lo aveva con sé anche quando nascesti e lo usò per coprirti. Capisci? Il suo mantello preferito. Lo imbrattò di sangue rovinandolo per sempre, al solo scopo di avvolgerci te”.

Cathy rialzò il capo lentamente. Quelle parole le donavano qualcosa, proprio quando credeva che più niente l’avrebbe consolata. Improvvisamente, ricollegò la storia appena udita alla versione di Catherine.

“Quindi era un mantello… Era lì che mi avvolgeva, non in una coperta. Catherine si era sbagliata”.

“Sì, si era sbagliata”.

La ragazza tornò a fissare l’oggetto, guardandolo ora con occhi completamente diversi. Certo che era importante, come aveva potuto dubitarne? Era un segno, una prova inconfutabile dell’amore di sua madre. Anche se l’aveva abbandonata, doveva averle voluto bene.

“Dimmi qualcos’altro di lei” lo supplicò, come aveva fatto quella mattina con la sua educatrice. “Ti prego, anche una sciocchezza. Era bella? Io le assomiglio?”

L’uomo la studiò, come valutando la questione per la prima volta. In realtà, quella risposta era sulle sue labbra da sempre: “Come una goccia d’acqua”.

Cathy si asciugò gli occhi con le mani e tentò di trovare conforto in quel dettaglio, che per quanto ininfluente l’avrebbe legata per sempre a sua madre. Non si sarebbe più guardata allo specchio allo stesso modo, da allora: avrebbe visto anche un’immagine di lei.

“Dimmi che cosa le piaceva” aggiunse, con una voglia irrefrenabile di conoscere ogni minimo particolare. “Una cosa qualsiasi”.

L’uomo si voltò verso il fuoco, incerto su cosa rispondere. Per un momento, Cathy temette che non conoscesse abbastanza sua madre da sapere quelle cose, ma un attimo dopo fu smentita.

“Studiare” rispose, con calma e naturalezza. “Le piaceva imparare la magia, era tra le migliori della sua classe. Pretendeva il massimo da se stessa, non si accontentava di essere una fra tante e i suoi sforzi alla fine la premiarono: uscì da Hogwarts con il massimo dei voti. Solo per una cosa non era molto portata”. Guardò di nuovo Cathy, con aria quasi divertita. “Volare. Le ho insegnato io ad andare sulla scopa, proprio come ho fatto oggi con te”.

Anche se aveva la morte nel cuore, la ragazza riuscì a sorridere. Era incredibile quante cose avesse in comune con quella donna, pur senza averla mai incontrata.

“Quindi la conoscevi” affermò, come logica conseguenza. “Scommetto che viveva qui con te, per questo hai il suo mantello”.

“Sì, viveva qui molti anni fa. Ho perso il conto del tempo che è passato… Ma è stato un bel periodo. Forse il migliore della mia vita”.

Avrebbe potuto chiedergli mille cose di quel passato accennato, ma la mente di Cathy stava già navigando verso altri lidi. Voleva sentire sua madre vicina nelle cose che viveva ogni giorno. Per questo gli chiese: “Qual era la sua Casa a Hogwarts?”

A quel punto, l’uomo buono esitò di nuovo, come aveva fatto prima di rivelarle la sua possibilità di volare. Stava pretendendo troppo? Cathy sperò con tutto il cuore che non fosse così, che lui non avrebbe smesso di parlare proprio allora. Il tutore si prese il suo tempo, ma alla fine scelse di non deluderla: “Serpeverde”.

“Ma è una delle mie!” esclamò lei, improvvisamente eccitata. “Forse dormiva nella mia stanza o addirittura nel mio letto!”

“Può darsi” replicò l’uomo con un mezzo sorriso. “Se ricordo bene, la sua camera era la seconda a destra”.

Cathy non riuscì a crederci: era davvero la sua. Il cuore le batté più forte, nell’attesa di conoscere anche l’ultimo dettaglio. “E il suo letto? Ti ricordi qual era?”

L’uomo rifletté, poi disse: “Dormiva vicino alla parete, in un angolo appartato. Credo che di fronte a lei ci fosse una finestra, perché le piaceva osservare il lago al mattino”.

Provò un senso di delusione misto ad euforia: non era il suo letto, era quello di Abbie Macdonald. Il posto rimasto vuoto dalla prima volta che aveva messo piede in quel dormitorio. Un’idea iniziò a farsi strada nella sua mente: se Abbie non fosse tornata neanche dopo le vacanze, forse…

“Adesso capisci qual è la tua vera Casa?” quell’improvvisa domanda mise fine ai pensieri galoppanti della ragazza. L’uomo era tornato serio e autoritario come suo solito. “È a Serpeverde che appartieni, l’unica che avresti dovuto scegliere. Tua madre è cresciuta moltissimo in quella Casa e, se fosse qui, vorrebbe lo stesso per te. Merlino in persona non sarebbe diventato quello che era in un posto diverso. Sono i Serpeverde i compagni giusti da frequentare, non i figli di Babbani e Lupi Mannari. Lei era una Purosangue, una strega vera, e ti avrebbe detto esattamente le stesse cose”.

Cathy sapeva che avrebbe dovuto irritarsi, perché ancora una volta il tutore stava offendendo i suoi amici. Eppure, oramai era troppo concentrata sul resto per attaccarsi a quel particolare. I tasselli si stavano lentamente ricomponendo fino a formare un quadro preciso: sua madre era una Serpeverde Purosangue, il che significava – per ovvia associazione di idee – che suo padre era un Grifondoro Mezzosangue. Solo così trovavano conferma la teoria del Cappello e quella della pozione. Si sentì infervorata come forse non era mai stata: era vicinissima a scoprire i loro nomi, le proprie origini.

“Mio padre però era un Grifondoro, non è vero?” glielo rivelò senza pensarci troppo. Fino a quel momento aveva desistito, per timore di venire disillusa, ma quella sera l’uomo era così accomodante che se la sentì di rischiare. Capì che l’aveva colto alla sprovvista, glielo lesse negli occhi; perché non lo sapeva o perché non credeva che lei sapesse?

“Stai scherzando, spero” replicò, irritato più del previsto. “Chi ti ha messo in testa certe sciocchezze?”

“Non sono sciocchezze! Il Cappello Parlante ha detto…”

“Speravo ci fossimo chiariti per quanto riguarda quell’articolo”. La fulminò con lo sguardo, ricordandole di quando avevano affrontato la questione per lettera. “Non c’era niente di vero, quella giornalista voleva soltanto uno scoop. L’unica Casa a cui appartieni è Serpeverde”.

“Non lo dico solo per l’articolo. Ci sono cose che non sai, e…”

Ma l’uomo buono non le lasciò finire la frase. Sembrava non voler sentire ragione, sicuro che quell’ipotesi fosse sbagliata. “So tutto quello che c’è da sapere di te, e devi credermi quando ti dico qual è la strada giusta. Quando il tuo primo anno finirà, sai cosa dovrai scegliere”.

A quella decisione non pensava da molto tempo, men che meno quella sera. Il fatto che sua madre appartenesse a quella Casa cambiava le cose, gliela faceva sentire più affine al proprio essere, ma non avrebbe sostituito i suoi compagni e i rapporti che aveva con loro.

“Non credo che reggerei ad altri sei anni con Vera” gli rispose, sincera. “Ho solo un amico in quella Casa”.

“Uno è meglio di niente. E in più, scommetto che quando ti arrabbi la patetica figlia dei Wilkinson scappa a gambe levate”.

Quella volta fu lui a sorprenderla. Cathy non gliel’aveva mai detto, e fissò il suo ghigno altezzoso con tanto d’occhi. “Come fai a saperlo?”

“Te l’ho detto: io so tutto di te. Ma adesso…” gettò un’occhiata all’orologio a pendolo, che segnava ormai l’una di notte. “È ora di andare a letto. Abbiamo parlato anche troppo”.

“Va bene”. Cathy avrebbe voluto che quella conversazione non finisse mai, ma acconsentì e lasciò il suo posto ugualmente. Era stata fin troppo fortunata a sentirlo parlare e non voleva rovinare tutto. Mentre girava l’angolo del divano, gli occhi le ricaddero sul mantello di sua madre. Era ancora lì sul bracciolo, dove l’uomo buono l’aveva lasciato.

“Signore…” lo richiamò, senza osare dirgli quello che avrebbe voluto. “Il mantello… Devo metterlo da qualche parte?”

Il suo tutore si voltò un’ultima volta, intuendo i pensieri che lei cercava di nascondere. In un aspettato gesto di generosità, le concesse quello che più desiderava al momento: “Tienilo tu. Consideralo un regalo di compleanno”.

“Grazie…” Cathy restò ferma sul primo scalino, emozionata e confusa, aspettando che lui la precedesse.

Quella notte era venuta a conoscenza di molte cose, alcune terribili, altre profondamente significative. Non sapeva che cosa avrebbe fatto adesso, come sarebbero continuate le sue ricerche e fino a che punto poteva dare credito a quelle parole. Sapeva soltanto che non avrebbe rinunciato alla verità, non ora che era tanto vicina a scoprirla.

Eppure, nell’ingenuità dei suoi dodici anni appena compiuti, Cathy non si domandò ciò che sopra ogni cosa avrebbe dovuto insospettirla: perché una donna che viveva in una casa come quella, visibilmente e innegabilmente ricca, fosse invece tanto povera da dover rinunciare a sua figlia.


Note

Ho riletto e corretto questo capitolo almeno dieci volte prima di pubblicarlo, perché essendo uno dei miei preferiti ci tenevo che venisse davvero bene. Non so se sono riuscita nell'intento, ma a un certo punto ho dovuto farmi forza e pubblicare o altrimenti non l'avrei più fatto^^

Che dire, neppure questa volta l'uomo buono si è rivelato, ma ha comunque raccontato molte cose sulla madre di Cathy. In ogni caso, non preoccupatevi, perché alla verità manca sempre più poco e da un momento all'altro avrete tutte le risposte. Non ho molto da aggiungere, spero solo che il capitolo vi piaccia. E vi ringrazio ancora per il vostro affetto!

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Capitolo 21
*** Il vero responsabile ***


21


Dopo la fine delle vacanze, Cathy tornò a Hogwarts profondamente cambiata. Nelle ultime due settimane aveva conosciuto un modo di vivere che fino a quel momento le era sempre stato estraneo, uno che le sarebbe spettato di diritto se solo sua madre avesse potuto crescerla. Vivere in una casa, in una famiglia vera, era di per sé il desiderio più ambito di qualsiasi orfano; se, poi, a questo si aggiungeva che la villa era abitata da un mago e una simpatica elfa, le cose diventavano ancora più interessanti. L’energia magica che si respirava nell’aria non era la sola caratteristica a rendere speciale quel luogo: la differenza con gli ambienti Babbani era palese in ogni angolo, ma non per questo meno sorprendente.

Per cominciare, alcune stanze erano interamente dedicate alla magia. Quella delle pozioni l’aveva colpita particolarmente, con un lungo tavolo per appoggiare calderoni e ingredienti ed un armadio stipato di boccette. Sulle pareti erano presenti aloni sbiaditi color verde e rosa, e da qualche parte il soffitto era crollato lasciando ampie zone scrostate. L’uomo buono aveva spiegato il tutto dicendole che non sempre le pozioni riuscivano come dovevano, e che, poiché la casa era rimasta disabitata a lungo, nessuno si era mai preoccupato di annullarne gli effetti. Cathy, comunque, non trovava affatto fastidioso quell’aspetto della stanza; testimoniava che era stata vissuta, che qualcuno si era esercitato lì compiendo quei disastri e che magari era stato sgridato dai suoi genitori. Molto meglio del bianco immacolato dell’orfanotrofio, dove i bambini si succedevano l’uno all’altro senza mai lasciare una vera traccia di sé e sognavano soltanto di andare via, verso una nuova famiglia dove poter dimenticare il passato.

C’era anche una sala dedicata agli incantesimi, abbastanza spaziosa perché potesse svolgersi un duello, e librerie colme di tomi sulla magia. Niente era ordinario in quella casa e tantomeno nel giardino, dove una volta Cathy, attirata da uno strano rumore che proveniva dai cespugli, aveva scoperto uno gnomo imbronciato che faticava a farsi strada nella neve. Ogni giorno c’erano nuovi oggetti da conoscere e realtà da svelare, il tutto senza necessità di lasciare la villa. A volte, Cathy restava incantata per ore davanti alle attività domestiche di Wolly che, se per l’elfa erano banali azioni quotidiane, per lei rappresentavano un particolare in più di quel mondo straordinario.

Cominciava a capire quali fossero le tradizioni delle famiglie Purosangue a cui Evan e Alex davano tanta importanza. Per chi cresceva in un ambiente come quello, dove gli incantesimi erano all’ordine del giorno e rendevano inutile l’utilizzo di qualsiasi oggetto Babbano, doveva risultare fastidioso e ingiusto rinunciarvi in nome di un principio. Le sembrava più corretto che fossero i figli dei Babbani ad adeguarsi alla magia, dato che erano a Hogwarts per studiarla, piuttosto che il contrario. In più, non capiva perché i maghi adulti come il suo tutore fossero costretti a nascondersi come criminali, quando la loro unica ‘colpa’ era essere nati con un potere che i Babbani non avevano. Continuava, però, a non condividere il senso di superiorità con cui Zabini si rivolgeva ad altri compagni, solo perché non erano cresciuti con quella stessa fortuna.

Ma più che ai Purosangue, agli incantesimi e a tutte le cose magnifiche che aveva scoperto negli ultimi tempi, Cathy pensava ogni giorno di più a sua madre. Ora che aveva un volto simile al suo, delle passioni e delle capacità con cui si era misurata prima di lei, la sua immagine era diventata molto più vivida e reale. La sognava di notte e, di giorno, non riusciva a restare concentrata sui compiti, poiché ogni nuovo argomento studiato la portava a chiedersi se l’avesse conosciuto anche lei e se fosse diventata brava a padroneggiarlo. Ora che sapeva che non ci sarebbe stato alcun futuro per loro due insieme, avrebbe fatto il possibile per ricostruire il passato. Ogni sera, quando le lezioni terminavano e tutti i compagni si ritiravano in sala comune, Cathy si tratteneva in biblioteca per delle ricerche personali. Madama Pince, seppure con una certa riluttanza, le aveva mostrato uno scaffale che conteneva gli archivi consultabili della scuola, comprensivo di tutti gli studenti che l’avevano abitata negli anni. Da allora, non si era più liberata della sua presenza: Cathy aveva individuato tutti i volumi dal 1958 al 1993, supponendo che sua madre potesse avere dai quindici ai cinquant’anni quando l’aveva data alla luce, e aveva iniziato a segnarsi tutti i nomi e cognomi delle studentesse Serpeverde. Il secondo passo sarebbe stato mostrare quella lista a Evan e chiedergli se, tra i tanti cognomi, ne conoscesse qualcuno che appartenesse a una Purosangue.

Era lì anche quella sera, china sul registro degli studenti ammessi nel ’64, quando Ted Lupin entrò in biblioteca alla ricerca di un libro sulle pietre Bezoar. Madama Pince, che era solita gettare occhiate sospette in direzione di Cathy mentre fingeva di sistemare i volumi, dovette distrarsi da quell’ingrato compito per rispondere alle domande del ragazzo. Poi, quando la donna gli liberò la visuale, gli occhi di Teddy si posarono sorpresi sulla figura curva di Cathy, che gli rivolse un debole sorriso. Quando la raggiunse con il suo libro sottobraccio, la ragazza si sentì di colpo meno sola.

“Stai ancora studiando?” le domandò, come se la sola idea di farlo a quell’ora lo traumatizzasse.

“Non proprio” rispose lei, coprendo istintivamente la sua pergamena con la mano. “Sto facendo delle ricerche”.

“Be’, non esagerare. Con tutto quello che ci danno da studiare non è il caso di fare del lavoro extra”.

Shhh!” La bibliotecaria li richiamò immediatamente all’ordine, ricordando loro con un dito sulle labbra che non era il luogo giusto per fare conversazione. Quando si fu allontanata, Cathy sussurrò: “Non preoccuparti”.

“Io non mi preoccupo, figurati. È Eliza ad essere in pensiero… Dice che da quando sei tornata a scuola ti trova diversa. Non chiedermi in che senso”.

“Ah…”

Anche se il ragazzo non capiva, Cathy credeva invece di sapere quale fosse il problema. I suoi amici erano stati deliziosi come al solito dopo le vacanze, compreso Ted, che si era comportato come se le loro divergenze non fossero mai esistite; ma questo, se da un lato la rendeva felice, dall’altro alimentava un crescente senso di colpa. Per la prima volta da quando era arrivata a Hogwarts, infatti, Cathy non era felice di trovarsi tra i Grifondoro. Avrebbe voluto tornare immediatamente tra i tanto odiosi compagni Serpeverde, rivedere il letto dove aveva dormito sua madre a affondare il viso in quel cuscino, come se dopo tanti anni potesse ancora conservarne il profumo. Le chiacchiere di Maggie erano diventate noiose alle sue orecchie e neppure gli argomenti di Eliza, che come lei era cresciuta tra i Babbani, riuscivano più a interessarla. Approfittava di ogni momento possibile per avvicinarsi a Evan e discutere con lui della sua famiglia, dei piani per ricostruire la propria e di tutto ciò che poteva accomunare le loro origini. Con gli altri, purtroppo, sentiva di avere ormai poco o niente in comune; e non era strano che Eliza, con il suo spiccato sesto senso, l’avesse intuito.

“Come sono andate le tue vacanze?” le sussurrò poi Ted, facendola ridere perché stava chiaramente imitando il tono cavernoso della Pince. Cathy allora gli raccontò del suo inaspettato soggiorno, dell’uomo buono e di Wolly, tralasciando solo la parte delle esercitazioni e di sua madre. Aveva come la sensazione che Teddy l’avrebbe rimproverata, mostrandosi più propenso a credere a Young piuttosto che al suo tutore.

“Be’, almeno hai visto qualcosa di nuovo” commentò lui, con l’aria di chi non ha trascorso proprio un bel Natale. “Io sono stato a casa di Harry il 25, ma la sera prima sono rimasto con mia nonna. E sai chi era il nostro ospite speciale?”

Cathy scosse la testa, non conoscendo abbastanza i parenti di Teddy per avere un’idea. Poi, il ragazzo la stupì: “Il professor Young”.

“Ah!” Le uscì un’esclamazione più forte del previsto e si tappò immediatamente la bocca, sperando che Madama Pince non avesse udito. Ormai le veniva spontaneo agitarsi ogni volta che sentiva nominare quell’uomo.

“Già” continuò Ted, mesto. “Mia nonna ha detto che non era educato lasciarlo solo la sera della vigilia, dopo tutto quello che sta facendo per lei eccetera eccetera… Così ho dovuto sopportarlo anche a casa. Ma non avevi detto che aveva una famiglia?”

“Be’… Sì. Ho visto la foto di una donna e un bambino sulla sua scrivania, ma forse non sono quello che pensavo”. Dopo quello che aveva saputo di lui, cominciava a credere di essersi sbagliata sul serio. Si chiese se dovesse parlarne con Teddy. “Comunque, come si è comportato?”

“Al solito modo. Freddo come l’antipasto di tacchino. Per fortuna non ha tirato in ballo i miei risultati in Difesa, durante la cena… Eppure, a mia nonna sta simpatico. Non capisco cosa le piaccia di lui”.

A Cathy venne un pensiero divertente e allo stesso tempo preoccupante, se si fosse rivelato fondato. “Forse si sono innamorati…” ipotizzò, con lo stesso tono che aveva Catherine quando rispondeva alle sue domande imbarazzanti.

“Cosa?!” Ted diventò paonazzo. Anche lui aveva alzato la voce più del consentito, ma non era l’unica cosa che lo impensieriva. “Ma dai, non può essere! Voglio dire, lei è mia nonna e lui è il mio professore! E poi alla loro età…”

“Cosa c’entra l’età? Alcune persone si fidanzano anche molto tardi. Tua nonna è vedova e abbiamo appena scoperto che Young non è sposato. Non sarebbe così strano”.

Teddy incrociò le braccia fissando gli scaffali. I suoi capelli, che per scelta aveva reso rossi durante le vacanze, si accesero di una tinta ancora più viva. “Loro non si fidanzeranno, ok? Non se vogliono che continui ad abitare in quella casa!”

Cathy soffocò una risata. Era così buffo, quando si metteva in testa qualcosa e nessuno riusciva a fargli cambiare idea… Pensare che un tempo l’aveva considerato arrogante.

Si chiese seriamente se avesse dovuto dirgli quello che sapeva. In realtà, moriva dalla voglia di condividere con lui i dubbi e le paure riguardo Young, come avevano sempre fatto. Eppure, a discapito delle apparenze, notava anche che Teddy sembrava molto più sereno. Il suo Natale non poteva essere stato un disastro come voleva dimostrare, non per una vigilia passata con il loro professore. Se i rapporti tra Young e Andromeda erano così buoni, al punto di condividere una festa di famiglia, significava che la donna si fidava di lui. Magari era a conoscenza del suo passato e l’aveva perdonato, sicura che non avrebbe mai fatto del male a lei o a Ted. In fondo, se Cathy era disposta a sorvolare sugli evidenti difetti dell’uomo buono, non poteva che concedere il beneficio del dubbio anche a Young. Decise, pur con una certa difficoltà, che era meglio tenere le cose per sé: non era il caso di allarmarlo per una questione infondata.

“Allora, che cosa stai combinando?” Prima che Cathy se ne accorgesse, Ted le aveva sfilato la pergamena dalle dita e la stava esaminando sotto la luce. “Chi sono tutte queste persone?”

“Ehi, ridammela!” Cathy allungò la mano d’istinto per riprendersi la lista, ma poi la ritrasse sentendosi in colpa. Ora che avevano un buon rapporto, doveva pur renderlo partecipe di quello che faceva. “D’accordo” gli concesse. “Ma non dirlo a nessuno, ok? Sono…” esitò, chiedendosi quale potesse essere il termine più adatto. “Le mie possibili madri”.

“Ehi, c’è anche mia nonna qui!” esclamò Ted, indicando la riga di Andromeda Black. Solo un istante dopo sembrò capire ciò che Cathy aveva detto. “Che cosa?”

Iniziò così la seconda parte del racconto. Gli disse le poche cose che sapeva di sua madre e gli spiegò come era arrivata a quegli archivi. Lui ascoltò serio e impensierito, come se l’essere figlia di una Serpeverde potesse avere cattive conseguenze. In realtà, proprio perché Andromeda stessa era appartenuta a quella Casa, i pregiudizi di Ted erano un po’ meno forti di quelli degli altri.

“Quindi stai cercando le ex studentesse della scuola, dagli anni ’60 in poi?”

“Anche prima, in realtà”. Cathy si sentì arrossire, temendo di aver fatto male i conti. Non aveva mai sentito di madri più vecchie di cinquant’anni, ma… Se in qualche caso fosse stato possibile? Sarebbe stato imbarazzante che un ragazzo ne sapesse più di lei su certe cose. “Pensi che non basti?”

“Veramente mi sembra troppo” rispose lui, ugualmente in difficoltà. “Ci metterai una vita. Poi, lei è mia nonna, quindi… Però tutto è possibile” aggiunse, non più sicuro di ciò che stava dicendo. Era chiaro che nessuno dei due aveva le idee precise, ragione in più per allargare l’arco di tempo entro il quale cercare.

“C’erano diversi Black in quegli anni, tutti a Serpeverde” disse lei, per cambiare argomento. “Forse, alcune di queste erano sue sorelle o cugine…”

“Narcissa e Bellatrix, già. Le sue tenere sorelline, di cui la prima l’ha rinnegata e la seconda ha ucciso mia madre. Quando ci penso, sono ben contento di essere figlio unico”.

Cathy si accorse troppo tardi di essere stata indelicata; aveva tentato di coinvolgere Teddy nelle sue ricerche e l’aveva fatto nel modo peggiore. “Scusami” gli disse, profondamente dispiaciuta. “L’avevo dimenticato”.

“Non importa”. Il ragazzo scosse la testa minimizzando, ma Cathy sapeva bene quanto quel ricordo gli facesse male. “È solo che è difficile conviverci. Sai, quando penso a quello che è successo, ai miei genitori che sono morti combattendo, mi viene una gran voglia di vendicarli. Poi, però, mi ricordo che sono già stati vendicati e non posso più fare nemmeno quello. È per questo che voglio diventare un Auror, per sentirmi utile. Tutti gli altri mestieri mi sembrano insignificanti a confronto”.

Parlare di ‘mestieri’ alla loro età sembrava piuttosto eccessivo a Cathy, i cui obiettivi al momento non andavano oltre la fine dell’anno scolastico. Non si era mai chiesta cosa avrebbe fatto da adulta nel mondo magico, non sapeva neppure quali fossero le alternative; Teddy, al contrario, sembrava avere le idee fin troppo chiare. Forse, se avesse saputo che i suoi genitori erano morti per mano di qualcun altro, anche lei sarebbe stata dello stesso parere.

“Spero che mia madre fosse una Serpeverde un po’ diversa” si augurò, tornando sull’argomento principale della conversazione. “Una come tua nonna, magari. È bello che s’impegni tanto per proteggerti”.

“Che si faccia quasi uccidere senza motivo, vorrai dire! Comunque, sarà stata sicuramente più simile a lei che alle sue sorelle. Non dimenticare che ti ha fatta crescere tra i Babbani”.

“Già…” Era incredibile come il fatto di averla abbandonata, unica ragione che la ragazza avrebbe avuto per odiarla, diventava invece una testimonianza della bontà di sua madre. Ma non era certo l’unica; Cathy non avrebbe mai dimenticato la storia del mantello, che adesso le teneva compagnia negli antri freddi del castello.

“I Serpeverde non sono tutti così male, sul serio. Lo dice persino Harry, quindi dev’essere così. A proposito, mi ha chiesto di salutarti”.

“Grazie… È molto gentile”. Anche Ted doveva essere cambiato parecchio, durante quelle settimane: un tempo non le avrebbe mai mandato i saluti di Harry con tanta nonchalance. Tuttavia, quella debole difesa dei Serpeverde la convinse molto poco. “Però tu non ci credi, non è vero? Odi praticamente tutti i miei compagni di quella Casa…”

“È solo che non riesco a dimenticare da dove vengono, quello che hanno fatto i loro parenti” si giustificò il ragazzo, chinando la testa. “Soprattutto Jason Dolohov… Mi ha quasi ucciso, capisci? Madama Chips, l’ultimo giorno che passai in infermeria, mi confessò che l’incantesimo con cui ero stato colpito non era roba da ragazzi del primo anno. E se lui sapeva usarlo… Mi chiedo cos’altro gli abbiano insegnato a casa”.

Era da tempo che non parlavano più di quell’incidente, ormai Cathy l’aveva quasi dimenticato. Eppure, ascoltando per la prima volta quel particolare, si ricordò che il vero artefice dell’incantesimo non era mai stato smascherato.

“Jason ha sempre negato, veramente…”

“Sì, ma non avevo dubbi che fosse stato lui e non li ho adesso. Un vortice esplosivo, l’ha definito l’infermiera. Decisamente roba da Mangiamorte!”

Prima che la conversazione potesse continuare, una Madama Pince più furiosa che mai fu attirata nuovamente dalle loro chiacchiere e venne ad allontanare Ted con la forza. La sua espressione sconvolta dimostrava che l’ultima parola pronunciata non era sfuggita alle sue orecchie.

“Pensavo di avervi detto che in questo posto non si parla!” gridò, infrangendo la legge del silenzio che lei stessa tutelava. “Di certe cose, poi, che non vengono più nominate dai tempi dalla vostra nascita! Tu, ragazzo, non avevi una ricerca da completare?”

“Ehm… Sì, infatti”. Teddy rivolse uno sguardo al suo libro e decise di alzarsi, sotto l’occhio attento della bibliotecaria. “Allora ci vediamo a cena? Cathy?”

La ragazza si era distratta. La sua piuma, intinta nell’inchiostro qualche istante prima, ora gocciolava senza controllo sulla lista delle ‘madri’. Lei non se n’era neppure accorta.

“Eh? Sì, certo, a cena. Ciao”.

Sguardi perplessi, da parte di Ted come della donna, si soffermarono su di lei per alcuni istanti. Infine, dopo un tempo che sembrò lunghissimo, Cathy fu lasciata sola; e comprese il terrore che le dilagava dentro come un fiume in piena, mentre parole sempre uguali continuavano a tormentare la sua coscienza.

Un vortice esplosivo, aveva detto Ted.

Dominio degli elementi, Arti Oscure… Il male.

E poi la voce di Young, che le chiedeva: È successo altre volte, da quando sei a scuola, di generare magie senza volerlo?

No, signore.

Invece sì, si disse, mentre le lacrime si mescolavano all’inchiostro rendendo illeggibile qualsiasi nome. Sono stata io. Io ho provocato l’incidente sulla torre.

*

Camminava avanti e indietro di fronte al muro di pietra, riscaldata solo dalle rare torce del corridoio e dal mantello che si stringeva sulle spalle. L’ingresso alla sala comune dei Serpeverde non le era mai piaciuto, ma quella sera appariva tanto sinistro da mozzarle il respiro. Quando Vera e Pamela uscirono dal passaggio, mano nella mano come al solito, le lanciarono solo una rapida occhiata e un saluto accennato. Cathy fu felice che non badassero a lei: a fatica era riuscita a smettere di piangere, ma sentiva di avere gli occhi ancora rossi e gonfi dopo il suo terribile sfogo. Un incontro con la Wilkinson, seguito da domande troppo curiose, era proprio l’ultima cosa che voleva, anche perché non era affatto certa di riuscire a trattenere i suoi impulsi.

Evan, che di solito scendeva per cena piuttosto puntuale, quella sera era stranamente in ritardo, e ogni minuto trascorso ingigantiva l’angoscia di Cathy. Gli andò incontro quasi rabbiosa, quando lo vide uscire allegro con Jason e Alex; ignorando le loro espressioni soprese, lo chiamò da parte e gli disse che doveva parlargli. Non poteva più aspettare, lui era il solo con cui potesse sfogarsi.

Perplesso, il ragazzo acconsentì. Aspettò che i suoi compagni riprendessero la loro strada, poi notò che l’amica gli stava tendendo un fascio di pergamene; lo prese dalla sua mano tremante e lo portò sotto la luce, ma per riuscire a leggere qualcosa dovette scartare il primo foglio: la scrittura era così sbiadita che sembrava essere stata immersa nell’acqua.

“Hai già finito la lista?” le domandò, riconoscendo la lunga serie di nomi femminili. “Sei stata veloce!”

“Non ho finito, è solo una prima parte”.

“E allora perché…” Lasciò la frase a metà, notando gli occhi rossi e infelici della ragazza. “Cathy, è successo qualcosa?”

“Ho sbagliato tutto, Evan” gli confessò, trovando solo allora il coraggio di ammetterlo a se stessa. “Non avrei dovuto ascoltare il mio tutore. Young aveva ragione, la mia magia… È il male!”

“Ma che dici?” Il ragazzo non capiva e lei non poteva dargli torto: fino ad allora, erano stati entrambi d’accordo sul fatto che i suoi poteri fossero innocui, se non addirittura utili, stando a quello che aveva detto l’uomo buono. Evan non aveva mai nascosto il suo dissenso nei confronti di Young ed era chiaro, viste le sue origini, che approvasse molto di più le idee di un Purosangue tradizionalista. Tuttavia, notando quanto Cathy fosse sconvolta, la prese sul serio. Si guardò intorno e infine le propose, incurante di qualsiasi norma della scuola: “Perché non vieni dentro? Parliamo lì”.

“Evan, non posso. Sono una Grifondoro per questo mese”.

“Lo so, e allora? Sai benissimo dov’è la nostra sala comune e tra pochi giorni sarai di nuovo qui. Che senso ha?” insisté, sordo alle sue proteste.

“Non lo so, ma la McGranitt mi aveva avvisata. Potrei essere punita, e anche tu”.

“Non m’importa. Non lo saprà mai”. Evan aveva un modo di parlare che lo faceva apparire sempre sicuro di sé, al di sopra delle regole che gli venivano imposte. Anche quella volta la sua forza la rassicurò, e Cathy finì per dargli ragione. Non c’era niente di sbagliato ad entrare, concluse, né era possibile che la McGranitt la scoprisse: le uniche persone che avrebbero potuto parlare erano uscite di lì solo pochi minuti prima.

“Va bene” acconsentì, lasciando che il ragazzo pronunciasse la parola d’ordine e seguendolo attraverso la parete che si apriva. All’interno, furono accolti dalla familiare luce verde e dall’acqua del lago che sbatteva dolcemente contro i vetri.

“Sono stata io”. Glielo disse dopo qualche istante, rompendo un silenzio carico d’attesa. Avrebbe parlato rivolta alla finestra, senza guardarlo, per non vedere la delusione sul volto dell’amico. “Ricordi l’incidente nella torre? Jason diceva di non aver lanciato l’incantesimo, Ted lo stesso… Adesso ho capito perché. Sono stata io a farlo, anche se non volevo”.

“Tu?” Evan sembrava sbalordito. “Ma dai, come avresti fatto?”

“Esattamente come faccio muovere il vento e tremare la terra! Come Young mi dice di non fare e il mio tutore mi spinge a disobbedirgli! Non so come ci riesco, ma faccio del male alle persone. Ted e Jason potevano morire per colpa mia…” Dovette frenarsi prima di ricominciare a piangere. Evan approfittò di quella pausa per tentare di rincuorarla.

“Cathy, non sei stata tu. Che cosa c’entrano i quattro elementi con quello che è successo? Era un incantesimo potente, poteva essere lanciato solo con la volontà…”

“Un vortice esplosivo, giusto? Vortice! È fatto d’aria… Sono io la responsabile. Non ricordavo di essere arrabbiata, ma evidentemente lo ero. Non mi piaceva come si stava comportando Ted, devo aver parteggiato per te e Jason durante la discussione… E così è successo!”

“Ma non può essere!” Evan aveva gridato troppo forte, quasi come se Cathy stesse accusando lui. La ragazza, stupita, trovò la forza di voltarsi e guardarlo. “Non sei stata tu” ripeté il compagno.

“Come lo sai?”

“Ne sono sicuro!”

Non si sarebbe accontentata di una presa di posizione, non quella volta. Dopo che le idee di Evan l’avevano spesso portata sulla cattiva strada, ci sarebbe voluto molto di più per convincerla che aveva ragione.

“Dimmi come lo sai!” ripeté, a braccia incrociate e con un’espressione dura in volto. Quella di Evan, invece, improvvisamente cambiò: lo vide incupirsi e mordersi il labbro, agitato.

“Perché sono stato io” dichiarò in sussurro.

“Che cosa?”

“Sono io il vero responsabile. Jason aveva offeso il padre di Ted ed ero certo che lui avrebbe reagito, perciò l’ho preceduto: ho scagliato l’unico incantesimo che conoscevo nella sua direzione, cercando di non ferire anche te. Ma l’ho diretto male, così Jason ci è andato di mezzo. Mi dispiace, io volevo solo proteggerlo”.

“Non può essere…” Aveva dubitato di Ted, di Jason, persino di se stessa; ma mai, neanche per un attimo, aveva creduto che Evan potesse arrivare a tanto.

“Invece sì. Non te l’ho detto perché sapevo che ti saresti arrabbiata: eri troppo amica di Lupin in quel periodo”.

“Veramente lo sono ancora”. Lo puntualizzò amara, con la precisa intenzione di ferirlo. L’aveva appena delusa profondamente e non si rendeva neppure conto della gravità del suo gesto.

“Be’, mi dispiace. Te l’ho detto, volevo difendere Jason. Ho sbagliato, ma le mie intenzioni erano buone”.

“Certo, le tue intenzioni!” Prima che se ne accorgesse, Cathy aveva ricominciato a gridare. Il suo dolore si era trasformato in rabbia e disgusto, ingigantiti dal fatto Evan non si mostrasse per nulla pentito come voleva sembrare. “E io che ti credevo diverso… Invece sei come tutti gli altri! Un Serpeverde pieno di sé che se ne frega di far male al prossimo! Che importa se Ted ci poteva morire, in quella torre? Tu stavi difendendo Jason, il tuo compagno di Casa! Chi se ne importa di un Grifondoro qualunque?”

“Stai esagerando” le disse, con aria contrita. “Lo sai che non sono così”.

“Oh, invece lo sei! Ricordi quando ne parlammo, prima che Gazza ci separasse? Avrei dovuto capirlo allora… Dicesti che non eri pentito di non averlo soccorso, perché Ted con te non lo avrebbe fatto. Io invece credo di sì, Evan. Credo che lui sia molto migliore di te”.

Con quelle parole l’aveva ferito davvero. Sapeva bene quanto Evan non sopportasse Ted, e sentirsi dire che era inferiore a lui doveva essere molto frustrante. Ma non le importava: l’aveva delusa, che ora ne pagasse le conseguenze.

“Eri quello che diceva che uccidere è sempre sbagliato, chiunque lo faccia” continuò, implacabile. “Ci avevo anche creduto. Pensavo che fossi l’unico sopra le parti, così ti ho confidato i miei segreti e le mie paure riguardo Harry, e poi mia madre... Che stupida sono stata. Siete tutti uguali, qui dentro”.

“Non dire così. Per favore…”

“Vattene, Evan. Lasciami sola”.

“Ma…”

“Vattene!” Non era solo per rabbia che lo stava mandando via; l’acqua del lago, prima così tranquilla, sbatteva adesso con troppa violenza contro i vetri e rischiava di provocare una catastrofe. Da quando aveva iniziato a esercitarsi con il suo tutore, Cathy non era più in grado di controllarsi.

“Sento che sta per succedere” gli disse, e indicò la finestra. Evan guardò lei, poi il lago, infine indietreggiò con un moto di paura: la stessa che Cathy aveva letto negli occhi di Vera durante la loro lite. Un attimo dopo, il ragazzo non c’era più; e la sala comune era tornata silenziosa, occupata dall’unica persona che non avrebbe dovuto essere lì.


Note

Per una volta, permettetemi di mettere le "mani avanti": questo capitolo non mi soddisfa. Sono giorni e giorni che lo rileggo e non capisco cosa ci sia che non va, quindi alla fine ho deciso di pubblicarlo comunque (anche per non farvi aspettare troppo, che ho già sforato!) e mettere questo dubbio al vostro giudizio ^^ Può anche darsi che sia solo una mia paranoia, non so, o che non regga il confronto con quelli precedenti... Comunque sia, spero che il prossimo riesca meglio!

Chiusa questa parentesi, l'episodio è servito per lo più a chiudere la questione dell'incidente e a mostrare come Cathy stia a poco a poco cambiando a causa dell'influenza dell'uomo buono. Verranno periodi difficili per lei, purtroppo, e la lite con Evan è solo l'inizio. Be', avevate capito chi era il responsabile o è stata una sorpresa? :) Grazie a tutti ancora una volta, in particolare a chi si è aggiunto negli ultimi tempi!

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Capitolo 22
*** Buio e luce ***


22


La lite tra Cathy ed Evan sancì l’inizio di un periodo piuttosto difficile, sotto vari punti di vista. La ragazza, separata dall’unico amico con cui volesse davvero parlare, era tornata chiusa e scontrosa come nei suoi primi giorni a Hogwarts, quando non sapeva di chi potersi davvero fidare. Ted tentò più volte di avvicinarsi a lei e chiederle spiegazioni, ma Cathy resistette all’impulso di sfogarsi e replicò con una scusa qualsiasi. Non gli avrebbe mai detto chi era stato davvero a colpirlo, per nessuna ragione; se si era faticosamente convinto a lasciar correre la cosa, pensando che il vero artefice dell’incantesimo fosse Jason, non era affatto detto che riaprire l’argomento non lo invogliasse a vendicarsi. Oltre a metterlo di nuovo nei guai, poi, avrebbe rischiato di litigare anche con lui, pur di mantenere fermi i suoi principi di non-violenza.

Ma i rapporti con i compagni non furono l’unico equilibrio che rischiò di spezzarsi. Il professor Young, sempre così curiosamente attento a lei, notò il suo cambiamento e non mancò di farglielo notare: la convocò una seconda volta nel suo studio, quello con la foto in bianco e nero della donna e del bambino, e le chiese cosa stesse succedendo. Abituata a mentire, Cathy non trovò difficoltà nel dirgli che era solo preoccupata per gli esami, sebbene mancasse ancora tantissimo tempo alla fine dell’anno. Non poté negare, però, di aver saltato più volte le sue esercitazioni di Incantesimi, e che i piccoli progressi ottenuti stessero subendo un brusco calo. Tentò di motivare la cosa con la stanchezza, ma fu chiaro che non lo convinse: il professore si limitò a guardarla, palesemente irritato, cercando di comunicarle in quel modo il suo disappunto e di farla sentire in colpa. Ma a Cathy quella tattica non faceva alcun effetto, non più; da quando aveva saputo che quell’uomo non era altro che un assassino, il rispetto per il suo ruolo d’insegnante era diventato qualcosa da simulare, ben lontano dall’autorità autentica che riusciva ad imporle un tempo. Non le faceva neppure più così paura, dopo aver riflettuto a lungo su ciò che poteva e non poteva permettersi con gli studenti. Se davvero aveva ucciso delle persone, pensava, probabilmente i suoi colleghi ne erano a conoscenza; e, se a un ragazzo fosse accaduto qualcosa di brutto, sarebbe stato certamente lui il primo a essere nei guai.

Apparentemente rassegnato alla sua indifferenza, Young la congedò dopo neppure mezz’ora di colloquio. Quando Cathy era già sulla porta, però, le fece una strana domanda, qualcosa che riuscì a coglierla totalmente impreparata: “Dove hai passato le vacanze di Natale, Scott?”

Si bloccò sulla soglia, incerta su cosa rispondere. Prima che il suo silenzio si allungasse tanto da diventare sospetto, si affrettò a dirgli: “All’orfanotrofio, signore. Come sempre”.

Young replicò con un cenno del capo, accarezzandosi la barba come ogni volta in cui tramava qualcosa. Se non le aveva creduto, non lo diede a vedere. Confermò il suo congedo e la lasciò andare, mentre lei si domandava perché mai gli avesse mentito anche quella volta. Il fatto che esistesse un tutore non era certo un mistero, a scuola: lo sapeva il professor Paciock, il Preside e sicuramente anche il resto degli insegnanti. Ma era lo stesso carattere schivo dell’uomo buono, unito al suo nome ancora misterioso, a suonarle quasi come un avvertimento: non parlare di me, delle cose che ci diciamo. Lui doveva sapere tutto di Cathy e di ciò che succedeva a Hogwarts, ma non voleva comunicare nulla di se stesso. Per quanto ingiusto potesse sembrare, ormai la ragazza aveva accettato la sua presenza nella propria vita e, in qualche modo, doveva attenersi alle sue strambe regole.

L’unica consolazione, in quel periodo così buio, fu tornare finalmente al dormitorio dei Serpeverde. Si precipitò nella sua stanza quasi di corsa, la sera del primo febbraio, con Harry che la precedeva di qualche passo e le chiacchiere animate di Vera e Pamela che l’attendevano dietro la porta. Interruppe bruscamente la loro conversazione, riuscendo quasi a spaventarle, e domandò: “Abbie Macdonald è tornata dall’infermeria?”

Le ragazze si lanciarono uno sguardo strano, come se nella stanza fosse appena entrata una mezza matta. Poi, Pamela l’apostrofò: “Intanto ciao, eh?”

Vera diede di gomito all’amica, come preoccupata di un’eventuale reazione di Cathy. Non le diede il tempo di rispondere che s’intromise nella conversazione: “In realtà no, non è mai tornata a dormire. Ma Pamela l’ha vista qualche giorno fa a lezione di Erbologia… Non è vero, Pam?”

“Ehm… Sì, è vero, subito dopo le vacanze. Il tempo di innaffiare la sua rosa ed è sparita di nuovo. Strana tipa, eh?”

Tutta quell’agitazione era paradossale e Cathy finì per sentirsi ancora più infastidita. Senza dire una parola, trascinò il suo baule dai piedi del proprio letto verso quello di Abbie.

“Perché ce l’hai chiesto?” domandò Vera, senza abbandonare quell’aria commiserevole di fanciulla in pericolo. “Cosa le vuoi fare?”

“Proprio niente! Ma vorrei dormire nel suo letto, dato che non lo usa nessuno”. Fece una pausa a effetto, mentre il baule raggiungeva la nuova postazione. Poi aggiunse, sollevando verso di loro lo sguardo più minaccioso di cui fosse capace: “Sempre che per voi non sia un problema”.

La risposta di Vera fu istantanea: “No, certo che no!”

“Bene”.

Ma qualcun altro sembrava contrario a quella decisione: Harry, cresciuto di svariati centimetri durante quei mesi, si parò davanti alla padrona e iniziò a soffiarle contro, come per impedirle di avvicinarsi al letto. Era un comportamento piuttosto strano, dal momento che, di solito, tendeva a stare alla larga da quel lato della stanza.

“Che ti prende? Smettila di avere paura, non succede niente se mi siedo lì!” Cathy tentò di scansarlo, ma ottenne solo che il gatto si sollevasse su due zampe e minacciasse di graffiarla. Sbalordita, si accovacciò accanto a lui e tentò di spiegargli la verità, come se potesse capire: “Harry, sta’ calmo. Lo so che non ti è mai piaciuto, ma era il letto di mia madre… Voglio solo dormire dove ha dormito lei. Cosa c’è di male in questo?”

Vera e Pamela non potevano sentire i suoi sussurri, ma vedendola parlare con un gatto si convinsero ancora di più della sua insanità mentale. Eppure, inaspettatamente, il micio sembrò comprendere: con un miagolio rassegnato si fece da parte, lasciando Cathy libera di raggiungere la sua meta. La ragazza gli fece una carezza e poté finalmente stendersi su quel letto, che da tanto tempo sognava di occupare. Incurante dei bisbigli delle sue compagne, scostò il baldacchino di seta verde e si tuffò sul copriletto ricamato d’argento, affondando il viso nel cuscino. E fu allora, in quei pochi istanti che separarono il contatto del suo corpo dalle coperte, che i suoi occhi notarono un particolare curioso: qualcosa sembrò sferzare violentemente l’aria, tanto da far sollevare il lato opposto del baldacchino come se qualcuno gli avesse appena dato una spinta. Ma non c’era nulla che avrebbe potuto causare un tale effetto, anche un fantasma avrebbe palesato la sua presenza in modi più evidenti. Così, cullata dai propri sogni qualche attimo dopo, Cathy se ne dimenticò.

*

Evitare un contatto con Evan si rivelò più difficile del previsto. Il ragazzo mostrava tutte le intenzioni di far pace con lei, seppure Cathy reagisse ogni volta con un ostinato rifiuto. Cercò di fermarla nelle pause tra una lezione e l’altra, di avvicinarla in sala comune e di sedersi accanto a lei durante i pasti, ma fu tutto inutile. Cathy aveva programmato i propri orari in modo da non incrociarsi con i suoi e, quando non poteva evitare di incontrarlo, diventava sorda a ogni tentativo di approccio. L’amicizia di Evan le mancava, e non poco; ma era ancora ferita dalle sue bugie e dalla sua indifferenza, quando le aveva detto di aver colpito Ted come se si fosse trattato di uno scherzo. Qualcosa, tra di loro, si era inesorabilmente spezzato, e non era certa che sarebbero riusciti a ricostruirlo. Una sera, dopo un ultimo e debole tentativo di conversazione, Evan aveva lasciato il suo posto accanto a lei e si era seduto vicino a Vera, divenuta improvvisamente raggiante. Cathy gli aveva rivolto uno sguardo triste e l’aveva distolto subito dopo, affinché lui non capisse che gliene importava davvero qualcosa.

Dopo un primo periodo di pausa in cui si dedicò soltanto allo studio, la ragazza riprese a pieno ritmo la sua attività in biblioteca. Anche se non c’era più nessuno a cui mostrare quelle liste, non riusciva neanche a pensare di smettere: le sembrava di fare un torto a sua madre, dopo aver promesso a lei e a se stessa che avrebbe scoperto il suo nome. Aveva anche pensato a una serie di persone che avrebbero potuto sostituire Evan nel suo compito, ma nessuna le era sembrata all’altezza: con gli altri Serpeverde non era in buoni rapporti, mentre tra i Grifondoro non abbondavano gli esperti di famiglie Purosangue. L’unica eccezione era Maggie, che sarebbe riuscita a stilare un albero genealogico completo dell’intera Gran Bretagna; tuttavia, rivolgersi a lei era totalmente da escludere, a meno di accettare il fatto che metà della scuola, insieme a Cathy, avrebbe finito per sapere chi era sua madre. Così, la ragazza aveva capito di non avere scelta: una volta finita, la lista sarebbe rimasta intatta e imperscrutabile a tempo indeterminato.

Quella sera non aveva fame, così si era trattenuta in biblioteca durante e oltre l’orario di cena. Madama Pince era stranamente più assente del solito, non si avvicinò al suo tavolo per invitarla a togliere le tende e Cathy non fece neppure caso al tempo che passava. Quando ormai le palpebre iniziavano a chiudersi e le scritte a sovrapporsi l’una all’altra, guardò l’orologio e capì che doveva assolutamente andare a letto, se non voleva beccarsi una punizione da Gazza. Ancora assonnata e con la testa pesante, fece fatica a rendersi conto che a pochi metri da lei, appena fuori la biblioteca, c’era Evan Gregory ad aspettarla.

“Sapevo di trovarti qui!” Al contrario di lei, il ragazzo sembrava sveglissimo. Per la prima volta dopo tanto tempo non le si rivolse con la solita aria da cane bastonato, ma con l’entusiasmo che aveva caratterizzato i primi tempi del loro rapporto.

“Che vuoi?” gli chiese, brusca, senza accennare a dargliela vinta. “Stavo andando a letto”.

“Devi ascoltarmi un attimo”.

“Mi sembra di averti detto che non ho intenzione di…”

“Non si tratta di me!” Ecco spiegata la ragione di un tale impeto: ne aveva appena pensata una delle sue e voleva sfruttarla per riavvicinarsi a lei. Cathy aveva dodici anni, ma era cresciuta in un ambiente dove ogni ragazzino cercava di accaparrarsi la stanza e il piatto migliore: non era un’ingenua.

“E di che cosa, allora?” domandò, ma senza il minimo interesse.

“Ho scoperto una cosa. È da quando abbiamo litigato che ci penso, ne sono sempre più sicuro. Cathy, so chi è tuo padre! O almeno, so con chi è imparentato. Sembra assurdo, ma… È l’unica spiegazione…”

Qualcosa si accese al suono di quelle parole, un fuoco vivo e bruciante sembrò perdere possesso del suo corpo e lei non poté negarlo. Tuttavia, fu un attimo: il tempo di rendersi conto che proprio lui, Evan, era stato altrettanto sicuro di una teoria sbagliata.

“Certo, ci credo. Come non potrei? Immagino che tu abbia delle prove certe per questa teoria, non è vero? Non sarà mica come quella volta in cui credevi che Harry fosse mio padre… E l’avevi fatto credere anche a me…”

Evan apparì improvvisamente smarrito, preso in contropiede. I suoi occhi vagarono ansiosi nel corridoio isolato e in quell’incertezza Cathy lesse la sua amara verità.

“Appunto. Dovevo immaginarlo. Buonanotte, io torno al dormitorio”.

“Ehi, aspetta!” la trattenne per un braccio, impedendole di muoversi. Furiosa, Cathy gli diede uno strattone e si liberò della sua presa, seppure con una certa fatica.

“Che cosa vuoi da me, si può sapere? Dirmi che mio padre è un parente di Potter, di uno dei nostri insegnanti, o magari che sei mio fratello? Be’, mettitelo in testa: non mi interessa! Qualunque sia la tua versione questa volta, non la voglio sapere! Sono stufa di illudermi… Stufa di credere a qualcosa che non è vero…”

Non l’aveva mai ammesso a se stessa, ma in realtà non aveva mai perdonato a Evan quella delusione. Era stato troppo bello e troppo stupido credere di essere figlia di Harry, finché tutto non si era concluso nel dolore e nell’imbarazzo. Era stato, forse, il periodo migliore della sua giovane vita: una felicità autentica basata su una menzogna.

“Mi dispiace di averti fatta illudere, davvero. Ma questa volta è diverso… Non ho prove certe, ma gli indizi tornano tutti! C’è una cosa che non sai… Una che nessuno vuole dirti…”

“Anche l’altra volta c’erano mille indizi, non ti ricordi? Senti, Evan, basta: sono stanca. Ne parliamo domani, ok?”

Dall’espressione che aveva non sembrava molto d’accordo, ciononostante annuì. Il fatto che lei gli stesse offrendo una possibilità futura doveva averlo indotto a rinunciare. Non che Cathy avesse davvero intenzione di riprendere l’argomento, tutt’altro; semplicemente, aveva bisogno di un modo per liberarsi di lui.

Camminò a passo svelto per le scale e i corridoi, sperando che Evan avesse il buonsenso di non seguirla, e dopo alcuni metri capì di averlo seminato: non c’era alcun rumore di passi che rincorrevano i suoi, così, sollevata, si apprestò a scendere gli ultimi scalini in direzione del dormitorio.

Vedere una figura che, nell’ombra, si materializzava improvvisamente di fronte a lei e le sbarrava la strada fu un vero colpo al cuore: avrebbe gridato, se la ragazza non avesse appena in tempo mostrato il suo viso e rivelato la sua identità. Gli occhi verdi e grandi, seminascosti dalla frangetta corvina, le fecero capire che si trattava di Eliza.

“Mi hai fatto prendere un colpo!” l’ammonì, cercando di tenere un tono basso per non svegliare l’intera scuola. “Che cosa ci fai qui?”

“Scusami” disse subito la ragazza, mortificata. “Volevo parlare un po’ con te e non riuscivo mai a farlo. Così ho pensato di cercarti qui”.

Cathy sospirò, rassegnata al fatto che quella sera nessuno voleva lasciarla dormire. “Non dovresti sapere dove si trova la sala comune dei Serpeverde…”

“In effetti, no. Ma qualcuno lo sapeva ed è stato così gentile da dirmelo”.

Maggie, si disse mentalmente, senza bisogno di conferme. Ci mancava solo che qualcuno accusasse lei di aver rivelato il segreto, dopo il periodo orribile che stava passando…

“Senti, non possiamo parlare domani? È tardi e dovremmo già essere a letto…”

“Solo pochi minuti” la pregò Eliza. “È che ti vedo strana… Volevo sapere come stai”.

“Sto bene” rispose meccanicamente, ben sapendo che si trattava di una bugia. Mentire a Eliza non era mai stato facile, ma non vedeva ragione di affrontare quell’argomento: non c’era niente che lei potesse fare per cancellare le azioni di Evan, né tantomeno poteva aiutarla a cercare sua madre.

“Io non credo. Negli ultimi tempi sei diversa, più assente… Come se non ti trovassi più bene con noi. Che succede, abbiamo fatto qualcosa di male?”

“No, Eliza, non avete fatto niente. Sono solo stanca”. Accusarla di essere distante non faceva che peggiorare il suo umore. Come poteva non capire?

“Però, con i Serpeverde ci stai bene. Non vedevi l’ora di tornare in quella Casa, ogni volta che ne parlavi ti brillavano gli occhi. Vera e Pamela sono diventate tue amiche, forse? Non credi più che siano due stupide galline?”

“No, lo penso ancora”. Il tono di Eliza non era polemico, sembrava sinceramente interessato e piuttosto infelice. Tuttavia, la infastidì: non aveva mai sopportato che cercasse di entrare nella sua mente come una psicologa, men che meno in un momento come quello. “Ci sono cose che non sai, va bene?”

“Potresti spiegarmele, allora”.

“Non devo dirti sempre tutto”.

Si stava comportando in maniera sleale, lo sapeva. Gli eventi di quegli ultimi mesi l’avevano resa più acida del solito, ma non riusciva a farne a meno: dopo le delusioni ricevute da Young, da Evan, dall’uomo buono che si ostinava a non dirle la verità, aveva perso la fiducia in chiunque. Persino in chi, come Eliza, si era sempre mostrata dalla sua parte.

“Non ti fidi di me?” le chiese, come se riuscisse a leggerle nel pensiero ancora una volta. “Non ci siamo mai nascoste nulla, Cathy… Siamo amiche…”

“Veramente, non mi sembra che tu mi abbia sempre detto tutto”. Vide l’incredulità farsi strada sul volto della ragazza: non capiva di cosa stesse parlando.

“Sì, non ti ricordi? Quando abbiamo litigato con Vera e lei si è spaventata. Hai detto che non stavo facendo niente, ma non era vero: avevi paura anche tu”.

“Ma era la verità…” biascicò Eliza, spostando lo sguardo a terra in maniera sospetta. “Avevi un’aria molto arrabbiata, come se volessi colpirla. Solo questo”.

Era la stessa, poco credibile giustificazione che le aveva già fornito. Non la convinse neanche quella volta. “Sì, certo. Peccato che non ho nemmeno sfiorato la bacchetta. Posso andare, adesso? Hai finito?”

“No, accidenti!” Eliza si frappose tra lei e la parete magica, impedendole di accedere al dormitorio. Cathy la guardò più da vicino e ne restò turbata: non l’aveva mai vista così, a parte quel giorno in cui aveva risposto a Vera per le rime. “Vedi, stai diventando come loro. È colpa di quei Serpeverde, lo so… Ti stanno influenzando! Tra un po’ smetterai di parlarmi solo perché sono figlia di Babbani…”

“Eliza, ma che dici?” Adesso stava davvero esagerando. Le pensava sul serio quelle cose, proprio di una come lei? “Io non sono una Purosangue, sono cresciuta con i Babbani proprio come te! Te lo sei dimenticato?”

“Io no” replicò subito Eliza, seria, “ma sembra che tu l’abbia fatto. Una volta non sapevi neanche cosa significasse ‘Purosangue’ o ‘Mezzosangue’, mentre adesso non parli d’altro… Tu sei una Grifondoro, Cathy, ti abbiamo sempre considerata una di noi al di là della doppia Casa! E anche tu hai sempre voluto questo…”

“Be’, forse adesso non più”. Si morse il labbro per trattenere le parole, che ormai stavano sgorgando da sé prima che potesse evitarlo. Non avrebbe voluto dire tutto a Eliza, le sembrava di farlo sotto costrizione; tuttavia, a quel punto non aveva scelta.

“Mia madre era una Serpeverde Purosangue. L’ho scoperto da poco, è tutto quello che so di lei. Perciò, quella è anche la mia Casa, e io non posso e non voglio dimenticarmene!”

“Davvero?” Eliza assunse la stessa espressione commiserevole di Ted, forse persino peggiore. Le sembrò di averle appena detto di avere una malattia incurabile. “Ma non sei costretta a seguire le sue orme, in fondo non l’hai mai conosciuta...”

“E con questo?” La fissò negli occhi con rabbia e sconcerto, stentando a credere che adesso si permettesse di giudicarla. “Era mia madre, basta questo a creare un legame con lei! Che cosa ne sai, tu, che sei cresciuta con i tuoi genitori e non hai mai dovuto elemosinare informazioni su di loro? Che ne sai di quello che si prova?”

Gli occhi di Eliza divennero improvvisamente umidi, eppure le lacrime non frenarono quel fiume in piena che era ormai diventato il suo discorso. Scuotendo la testa, addolorata e impotente, pronunciò le ultime frasi che avrebbero decretato la sua condanna: “Non lo so, è vero. Ma conosco i Serpeverde e so che tu non sei come loro… Cathy, per favore, ascoltami. Maggie ha ragione, non c’è niente di veramente positivo in quella Casa e nei suoi ospiti, si può solo scegliere chi è il meno peggio… Anche Evan Gregory ti ha delusa, non è vero? Ho notato che non parli più nemmeno con lui… Mi dispiace, ma tua madre non poteva essere diversa. Non diventare come lei, sei ancora in tempo… Torna quella di prima!”

“Tu non la conosci neanche!” Cathy avrebbe voluto aggiungere che non poteva permettersi di giudicarla, che non doveva impicciarsi di ciò che succedeva con Evan e tante altre cose, ma non poté farlo; perché, non appena smise di parlare, sentì che un vento impetuoso quanto inusuale si sollevava nel corridoio, scuotendo le deboli fiamme delle torce e rischiando quasi di farle perdere l’equilibrio. Ma l’effetto più devastante di quella magia si ritorse contro Eliza, che fu scagliata a gran velocità verso l’alto e poi contro la parete. Cathy, immobilizzata dalla paura, assisté all’intera scena senza quasi respirare: vide la sua amica sbattere con un tonfo sordo contro la dura pietra, poi il suo corpo ricadere fino a terra e restare lì, scomposto e immobile, con la testa ripiegata su una spalla e gli occhi chiusi. Attese per qualche istante, sperando di vederla alzarsi o accennare qualche movimento, ma fu un’aspettativa vana: la ragazza era ferita, forse gravemente, e non si sarebbe mai risollevata senza un aiuto esterno. Le mancò il coraggio di avvicinarsi, di controllare se respirasse ancora o se perdesse sangue dalla testa: la visione del suo corpo immobile, la consapevolezza di essere stata lei a causare tutto ciò, furono un dolore troppo grande da sopportare. Si voltò, resa ormai quasi cieca dalle lacrime che le velavano gli occhi, e corse via con tutta la forza che le restava, senza neppure sapere dove stesse andando. Sulle scale si scontrò con un ragazzo diretto nella direzione opposta, probabilmente Evan che tornava al dormitorio, ma solo una minima parte della sua coscienza si accorse che lui era lì: il resto era concentrato sull’immagine di Eliza, sul suo sorriso sincero che forse non avrebbe rivisto mai più.

Che cosa ho fatto… Che cosa ho fatto… Questa volta non ci sarebbe stato nessuno a dirle che non era colpa sua, ad assumersi la responsabilità dell’accaduto: era lei l’unica colpevole, la ragazza che non aveva ascoltato i suoi professori fidandosi di un uomo sconosciuto. Adesso, sapeva che Young aveva sempre avuto ragione e l’aveva scoperto nel modo peggiore. Sarebbe stata espulsa, questo era certo; forse persino incarcerata, se Eliza fosse davvero… Ma non voleva pensarci, non poteva pensarci. In una tale eventualità sarebbe morta anche lei, perché il senso di colpa le avrebbe senz’altro impedito di vivere. Una minima parte di sé, la stessa che aveva riconosciuto il ragazzo sulle scale, si accorse di star lasciando il castello: le sue mani spalancarono il portone di quercia e le sue gambe la condussero all’esterno, nella notte gelida.

La luna totalmente assente e le nuvole a coprire le stelle rendevano il parco terribilmente buio, perciò l’effetto fu immediato: il senso di oppressione al petto arrivò puntuale, dopo tanto tempo che aveva smesso di tormentarla, e Cathy fu costretta a respirare più forte per riempire d’aria i suoi deboli polmoni. Non aveva con sé lo spray per l’asma né la lampada di Teddy, che per proteggere da cadute accidentali teneva sempre sul comodino. Ciononostante proseguì, verso i primi alberi della Foresta Proibita e incontro al buio sempre più fitto, pericolosa minaccia per la sua salute. Non le importava: forse voleva davvero star male, punirsi per ciò che aveva fatto. Sentiva di essere una persona orribile e di non meritare nient’altro che questo.

Ben presto, la mancanza d’aria le impedì di continuare a correre e anche di camminare, per il troppo sforzo che aveva richiesto a se stessa. Le gambe smisero di reggerla e Cathy si accovacciò a terra, respirando l’aria umida della notte e l’odore di muschio selvatico. In un ultimo, disperato momento di lucidità unito allo spirito di autoconservazione, recuperò la bacchetta dalla tasca e mormorò un flebilissimo Lumos. L’incantesimo, tuttavia, non funzionò, né al primo tentativo né a quelli successivi. Cercò di concentrarsi, di chiudere gli occhi come le era stato insegnato a fare, immaginando un sole pieno e caldo riscaldarle la pelle e il cuore… Ma la luce aveva gli occhi di Eliza, il suo sguardo pieno di forza e aspettative mentre la incitava a non mollare, e senza di lei non sarebbe mai tornata a brillare. Si abbandonò sull’erba, mentre le ultime forze le dicevano addio, ripensando all’affetto che quella ragazza le aveva dimostrato e che lei aveva buttato via. Infine, il buio l’invase, senza più darle scampo.


Note

Questa volta sono riuscita a scrivere un capitolo che mi piacesse di più, anche se l'inizio è un po' pieno di avvenimenti e durante la fine stavo quasi per piangere con Cathy... Ecco, parlando di momenti difficili mi riferivo soprattutto a questo. Spero possa piacervi nonostante la drammaticità, era un punto della trama a cui prima o poi dovevo arrivare.

Be', altre spiegazioni non credo servano, ma in ogni caso sono disponibile a qualsiasi domanda^^ Alla prossima, spero abbiate passato buone feste!

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Capitolo 23
*** Abbie Macdonald ***


23


Quando Cathy riaprì finalmente gli occhi, tutto ciò che vide fu un immenso spazio bianco. Il suo primo pensiero fu di essere arrivata in Paradiso; il secondo, che se lo aspettava molto diverso e più luminoso; l’ultimo, che probabilmente non meritava nemmeno di finirci, non dopo ciò che aveva fatto a Eliza. Poi, i contorni si fecero più nitidi e si accorse di star guardando semplicemente le pareti dell’infermeria, su uno dei cui letti era distesa lei. Si alzò a sedere e si accorse di respirare senza fatica: l’asma era passata, qualcuno doveva averla trovata lì nell’erba e riportata al castello. Chiunque fosse stato, gli doveva la vita.

Dalle finestre penetravano i raggi di un sole pieno, il che significava che doveva essere più o meno mezzogiorno. La stanza era silenziosa, e difatti sembravano esserci soltanto due occupanti: Cathy e un ragazzo che lei non aveva mai visto, placidamente addormentato nella fila di fronte. La cosa le provocò un improvviso vuoto allo stomaco: Eliza non c’era, il che non era affatto un buon segno. Dato che si sentiva decisamente meglio, pensò di lasciare immediatamente quel letto e di andare a cercarla; non riuscì neanche a poggiare i piedi a terra, però, che una donna vestita di bianco le corse incontro agitata.

“Sta’ giù, benedetta ragazza! Ci manca solo che mi svieni una seconda volta!”

La costrinse a stendersi nuovamente e le rimboccò le coperte fino al collo, come se in quel modo potesse impedirle di alzarsi. Imbarazzata, Cathy balbettò: “Scusi, è che mi sentivo molto meglio…”

“Certo, dicono tutti così. Ma qui l’infermiera sono io e sta a me decidere di quanto riposo hai bisogno. Nel tuo caso, direi al minimo altre ventiquattr’ore”.

Fu il tono autoritario e senza ammissione di repliche, più che il suo aspetto, a far intuire a Cathy che si trattava di Madama Chips. La stessa donna che aveva curato Teddy e che adesso, a quanto sembrava, si era presa cura di lei.

“Ma dico io…” continuò l’infermiera, sconcertata, “Possibile che nessuno mi abbia detto del tuo problema? Avrei dovuto tenerti costantemente sotto controllo, l’intera scuola avrebbe dovuto fornire un’illuminazione adeguata in ogni angolo! Hai corso un rischio enorme!”

Era proprio per evitare tutta quell’attenzione su di sé che non ne aveva parlato con nessuno, ma preferì evitare di dirglielo. Aveva come l’impressione che la donna si sarebbe infuriata di più.

“Comunque, se proprio ti senti meglio… Potresti ricevere almeno una delle visite che mi sono state richieste”.

Cathy spalancò gli occhi per la sorpresa: “Visite? Ci sono delle visite per me?”

“Sicuro! Prima i tuoi compagni Grifondoro, poi quel ragazzo di Serpeverde e infine il professor Young che voleva sottoporti a un interrogatorio… Come se non fossi rimasta in stato di incoscienza fino a pochi minuti fa!”

L’idea che Young fosse dietro la porta in attesa di interrogarla era abbastanza angosciante, tuttavia Cathy riuscì a sorridere: Evan era venuto a cercarla, così come gli altri suoi amici. Se erano lì per lei, forse Eliza stava meglio del previsto.

“Sì, vorrei vederli. Be’, magari non Young… Non subito…”

“Non ne avevo intenzione”. Madama Chips le fece l’occhiolino, poi si allontanò in direzione della porta e aggiunse: “Ma solo pochi minuti, mi raccomando!”

Non appena l’infermiera li ebbe lasciati entrare, cinque ragazzi fecero il loro ingresso chiassoso nella stanza: Maggie in prima linea, che si precipitò in direzione di Cathy riempendola di domande, poi Susan, Jennifer, Samuel e infine Ted, che le rivolse un sorriso timido.

“Come stai? Ci hai fatto preoccupare, sai? Potevi dircelo che avevi paura del buio, non c’è niente di cui vergognarsi! Ti avrei prestato la mia lampada…”

“Infatti, anche a me non piace dormire al buio… Ho sempre paura che un Letalmanto mi aggredisca mentre dormo!” Susan aveva frenato la parlantina di Maggie con quell’osservazione, ma fu a sua volta interrotta da Jennifer, che la prese in giro: “Oh, come se non ti avessi detto mille volte che i Letalmanti si trovano solo nelle zone tropicali! Che pensi, che ci siano tali mostri nel castello?”

Prima che iniziasse una diatriba su quali animali potessero esserci a Hogwarts e quali no, Cathy pose finalmente la domanda che le stava più a cuore: “Dov’è Eliza?”

Tutti rimasero spaesati dopo quelle parole, come se da lei non se le aspettassero. Fu Maggie a rispondere per prima: “Hai già saputo? Ha avuto un incidente ieri sera, proprio come te. La tengono in una stanza separata e non ci permettono di vederla. Vogliono tenerla lontana dagli altri ospiti dell’infermeria, anche se non conosciamo il motivo…”

O meglio, pensò Cathy, vogliono tenerla lontana da me. La cosa non faceva una piega, anche se i ragazzi sembravano all’oscuro di tutto. Young, che aveva certamente individuato la colpevole, doveva aver tenuto per sé le sue considerazioni.

“È stato Evan Gregory a trovarla e portarla qui” aggiunse poi Susan, facendosi improvvisamente rossa in viso. “Eliza era stranamente fuori il dormitorio dei Serpeverde, forse stava aspettando te. Comunque, qualcuno o qualcosa l’ha colpita e lei ha riportato diverse ferite. Madama Chips ha detto che avrà bisogno di lunghe cure, ma si riprenderà. Evan l’ha soccorsa appena in tempo: qualche altro minuto e sarebbe stata spacciata”.

Una piacevolissima sensazione di sollievo le attraversò tutto il corpo: Eliza era salva, ed era stato proprio Evan a soccorrerla. Pensò che questo fosse stato un ottimo modo per riscattarsi, dopo l’errore che aveva commesso con Ted. La prossima volta che l’avesse incontrato, decise, sarebbe stata più disponibile con lui.

“E io?” chiese poi, ripensandoci solo in quel momento. “Chi mi ha portata qui?”

“È stato Hagrid, il guardiacaccia” spiegò Maggie, visibilmente entusiasta di dar voce a ciò che sapeva. “Il suo cane ti ha fiutata, per fortuna eri abbastanza vicina alla loro capanna. A proposito… Che ci facevi, lì?”

Non era preparata a quella domanda. Sentendosi seriamente in difficoltà e senza una scusa decente, si limitò a dire: “Non lo so, non ricordo molto di ieri sera. Ero arrabbiata e volevo starmene per conto mio. Non mi sarò accorta di starmi inoltrando nella foresta”.

Era una spiegazione penosa, ma nessuno se ne curò. Forse perché, a quanto sembrava, c’erano ancora altre cose che dovevano essere riferite.

“È arrivata una lettera per te” disse Ted, che fino a quel momento era rimasto in silenzio. “Madama Chips non vuole gufi in infermeria, così l’ha spedito al nostro dormitorio… Solo, ha fatto un po’ di confusione con la Casa in cui stai adesso”.

“Non importa, meglio così”. Allungò la mano verso quella del ragazzo e afferrò la pergamena arrotolata. Non ebbe neanche bisogno di arrivare alla firma per sapere di chi si trattava:


Si può sapere cosa diavolo ti è saltato in testa? La prossima volta che decidi di suicidarti abbi almeno il buonsenso di farmelo sapere! Una letterina d’addio non si nega a nessuno e soprattutto non a me. Detto ciò, pretendo spiegazioni immediate per il tuo comportamento. Niente lettere, vieni a casa mia. Trova una scusa qualsiasi e lascia il castello. E spera di avere un’ottima motivazione per ciò che hai fatto, perché di sicuro non mi troverai indulgente.

Il tuo tutore


Ma come diavolo faceva a sapere sempre tutto e subito? Cathy accartocciò la lettera e la gettò in un angolo, con l’umore nuovamente a terra. Era lui il principale responsabile di tutto ciò che era successo, aveva un bel coraggio a mostrarsi arrabbiato. Naturalmente, poi, il fatto che si fosse preoccupato per una sua eventuale perdita non era nemmeno stato accennato. Cominciava a sentirsi veramente stufa ed era decisa a non soddisfare la sua richiesta. Se voleva vederla, pensò, che venisse a Hogwarts.

“Brutte notizie?” chiese Ted timidamente.

Cathy scosse il capo, cercando di mostrarsi distaccata: “Niente di importante”.

Ma l’espressione più cupa nella stanza divenne improvvisamente quella di Maggie, come se la ragazza stesse per annunciare un evento funebre. Si sedette ai piedi del letto, con una gamba ripiegata sotto il corpo e l’altra penzoloni, e dichiarò: “C’è un’altra cosa che dobbiamo dirti… Forse la peggiore di tutte”.

Cathy annuì, in attesa che continuasse e preparandosi al peggio. Anche se in realtà, dopo ciò che aveva appena affrontato, niente le sembrava più così tragico.

“Il professor Young ce l’ha a morte con te. Continuava a sbraitare che non l’hai ascoltato, che hai fatto di testa tua e che qualcuno ti sta influenzando. Non so cosa volesse dire, ma faceva veramente paura. Qualcun altro, non so chi, gli ha riferito proprio ieri che sei entrata nel dormitorio dei Serpeverde senza permesso, quando stavi nella nostra Casa. Voleva già interrogarti per questo, ma con quello che è successo non ha fatto in tempo. E il peggio è che…” esitò, spalancando gli occhi azzurri e timorosi, “Ti crede coinvolta nell’incidente di Eliza!”

Quella che doveva essere la grande rivelazione non la toccò più di tanto, anche se fece del suo meglio per mostrarsi sorpresa. Ciò che invece la stupì fu la prima parte delle parole di Maggie, quella sul suo ingresso nel dormitorio. Aveva quasi dimenticato di esserci entrata quando non doveva, la sera in cui aveva litigato con Evan, ma era certa che non ci fosse nessuno a parte loro due. Che fosse stato lui a tradirla era totalmente da escludere, non avrebbe mai agito in quel modo se voleva far pace con lei e soprattutto non ne avrebbe parlato con Young, che gli stava decisamente antipatico. Ma, allora… Chi?

I suoi compagni continuavano a discutere di come Young potesse arrivare a tanto e di come Cathy avrebbe potuto difendersi, ma lei non li ascoltava. Improvvisamente, aveva guardato di nuovo i letti dell’infermeria per assicurarsi che fossero davvero vuoti, concludendo che nessuna ragazza fosse ospitata lì da tempo immemore. Le tornarono alla mente molte cose: l’ultima lezione della professoressa Holland, in cui si era parlato di incantesimi di Dissimulazione per rendersi invisibili; il vento improvviso che aveva sollevato il baldacchino del letto di sua madre; Harry, il suo gatto, che era spaventato da quel lato della stanza e aveva cercato di tenerla lontana. Allora capì: Abbie Macdonald non era mai stata in infermeria. Abbie Macdonald, in realtà, non aveva mai lasciato il dormitorio dei Serpeverde.

“Devo andare”. Lo disse prima di rendersene propriamente conto, si alzò e recuperò la divisa dalla sedia per poi vestirsi dietro un paravento. I suoi compagni, sbigottiti, stentarono a capire.

“Dove...?” osò domandare Maggie.

“Devo fare una cosa. Per favore, intrattenete Madama Chips mentre sono via. Tornerò presto”.

“Se proprio devi… Ma non metterti nei guai, hai già Young alle costole!”

Qualche istante dopo, Cathy usciva dalla stanza indisturbata e le ragazze chiamavano a gran voce l’infermiera, sostenendo che l’altro ragazzo degente fosse in preda a un collasso. Quando Madama Chips fu così indaffarata da non sentirli, si scambiarono dei sussurri.

“Tornerà, secondo te?” chiese Maggie a Ted.

Il ragazzo scosse la testa, rassegnato. “Non lo so, ma è quello che spero”.

In realtà, nessuno di loro avrebbe rivisto Cathy per molto tempo.

*

A quell’ora del giorno, Hogwarts era più che affollata, sebbene la maggior parte degli studenti e insegnanti fosse a pranzo in Sala Grande. Raggiungere i sotterranei senza farsi vedere fu veramente un’impresa: Cathy dovette nascondersi in più di un’occasione in un’aula vuota o dietro un’armatura, ogniqualvolta uno studente in ritardo o un fantasma di passaggio decideva di percorrere il suo stesso corridoio. Mancò poco che Pix la scoprisse, mentre lanciava palle da tennis contro la sfortunata gatta di Gazza; i suoi occhi maligni notarono uno strano movimento dietro la statua di un gargoyle e, per un momento, Cathy si sentì in trappola. L’avrebbe probabilmente vista, se la gatta non l’avesse distratto fuggendo giù per le scale e facendo rimbalzare una pallina. Quando il poltergeist decise di tornare alla sua preda precedente, la ragazza tirò un sospiro di sollievo.

Stava correndo un rischio enorme e non sapeva neppure perché lo stesse facendo. La verità era che, realizzando di colpo ciò che per tanto tempo le era sfuggito, le sembrava di avere una grande opportunità tra le mani e di non doverla sprecare. Forse, voleva solo ritardare il momento in cui avrebbe dovuto parlare con Young, o quello in cui Eliza sarebbe guarita e lei avrebbe dovuto guardarla di nuovo negli occhi. Le questioni da affrontare erano tante e Cathy aveva paura: di venire espulsa, di essere accusata dall’intera scuola, anche di poter ferire qualcun altro. Per il momento, era più facile occuparsi della misteriosa Abbie Macdonald.

Quando rientrò nella propria stanza trovò solo Harry ad aspettarla, il quale si precipitò a farle le fusa dopo la sua prolungata assenza. Cathy, però, adesso sapeva che non erano soli.

“Abbie, sei qui?” chiese alla stanza vuota, sentendosi un po’ sciocca. “Avanti, lo so che ci sei. Fatti vedere”.

Per qualche istante ci fu solo silenzio. Poi, a poco a poco, la figura di una ragazza iniziò a ricomporsi sul letto di Cathy, come se si stesse liberando di un manto invisibile: la testa dal caschetto castano, il corpo esile sotto la divisa di Hogwarts, le gambe accavallate che si muovevano ritmicamente per il nervosismo. Benché se lo aspettasse, Cathy restò comunque turbata da quell’improvvisa apparizione. Harry, al contrario, si precipitò verso Abbie e iniziò a fare le fusa anche a lei.

“Dissimulazione?” domandò, pensando di aver fatto centro.

“No, Mantello dell’Invisibilità” rispose la ragazza, indicando un fagotto grigio perla ripiegato nel suo grembo. “Non è dei migliori, appartiene alla mia famiglia da anni e col tempo si è opacizzato. Come mi hai scoperta?”

“Indizi” spiegò semplicemente Cathy, sentendosi incredibilmente simile a Evan nelle sue attività di detective. Si sedette sul secondo letto, quello che aveva occupato nei primi mesi, e tentò di placare l’emozione. “Comunque, direi che funziona bene. Tutti ti credevano in infermeria”.

Abbie alzò le spalle, come se fosse ben poco orgogliosa di quella sua capacità. Poi aggiunse: “Non è difficile nascondersi quando per gli altri sei già invisibile. Nessuno voleva vedermi e nessuno mi ha vista, tutto qua”.

Cathy non fu sicura di capire ciò che intendeva, ma non approfondì. La questione che le interessava, al momento, era un’altra.

“Sei stata tu a dire a Young che sono entrata qui senza permesso, vero?”

“Beh, sì”. Non tentò nemmeno di negare, anzi, affermò tutto con noncuranza. Cathy restò colpita da tanta onestà.

“Perché l’hai fatto?” la incalzò.

“All’inizio non volevo. Sai, tu mi eri simpatica… Cioè, simpatica è dire troppo, ma almeno non eri una serpe come le altre due. Poi, però, da un giorno all’altro ti sei presa il mio letto e mi hai costretta a spostarmi nel tuo. Questo non mi è piaciuto”.

“Bene, e quindi ti sei vendicata”. Improvvisamente, Abbie le sembrò più simile a Vera di quanto lei stessa credesse. Possibile che le ragazze di quella Casa risolvessero i problemi sempre allo stesso modo? “Mi dispiace, ma non potevo sapere che dormissi lì. Te l’ho detto, credevo che fossi in infermeria”.

Abbie non rispose, ma si accovacciò vicino a Harry per accarezzarlo. Cathy rimase sorpresa di quanto i due andassero d’accordo e osservò la scena con le sopracciglia aggrottate.

“Il tuo gatto è molto intelligente” disse la ragazza, notando la sua espressione. “Ha capito che c’era qualcosa di strano in questa stanza, anche se non poteva vedermi. All’inizio era spaventato da me e io da lui, perché temevo che mi facesse scoprire. Poi, però, ho iniziato a togliermi il mantello quando eravamo soli e siamo diventati amici. Quando hai cercato di prenderti il mio letto voleva impedirtelo: sono sicura che l’ha fatto per me”.

Quella spiegazione era assurdamente realistica, ma la innervosì: Harry era il suo gatto, non le piaceva che si affezionasse così tanto a qualcun altro. Tanto per chiarire il concetto, si fece avanti e lo prese tra le braccia, allontanandolo da quelle di Abbie.

“Be’, insomma, perché ti nascondi?” le domandò, per distanziare l’ora in cui Young o Madama Chips sarebbero tornati ad acciuffarla.

“Non che debba dirtelo…” replicò Abbie, con la solita aria indifferente, “Ma se proprio ci tieni te lo spiego. Quando sono arrivata qui non credevo di finire a Serpeverde: tutta la mia famiglia è stata in Grifondoro e avevo dato per scontato che sarei finita lì anch’io. Invece, il Cappello Parlante ha detto che c’era molto di Serpeverde in me, che ero abbastanza determinata e ambiziosa per arrivare in alto, così mi sono fatta convincere. Ho accettato la sua scelta, ben sapendo che i miei ci sarebbero rimasti male. Non m’importava: per una volta, ho voluto fare di testa mia”.

“I problemi sono arrivati dopo, quando ho conosciuto i miei compagni di Casa. Quelle due, Pamela e Vera, hanno cominciato subito a prendermi in giro e a dirmi che non meritavo di essere qui. Secondo loro, ero una raccomandata che aveva sfruttato la notorietà di suo padre per decidere in che Casa stare, poiché il Cappello non mi avrebbe mai smistata qui di sua volontà. Non ero alla loro altezza, dicevano; la figlia di un mago mediocre e arricchito grazie al Ministero non era certo degna della nobile casata del serpente”.

“Quindi, tuo padre…” domandò Cathy, sperando di non apparire troppo indiscreta “È una persona famosa? Lavora al Ministero?”

“Sì” rispose subito Abbie. “Charles Macdonald, Indicibile dell’Ufficio Misteri e assistente del Ministro in persona. Se ha tutti questi ruoli è per un colpo di fortuna: ha salvato causalmente la figlia del Ministro da un brutto incidente ed è stato ricompensato. La gente, però, continua a parlarne male, dicendo che non meritava quel posto. Non riescono a dimenticare che prima faceva il falegname”.

“Falegname?” Ogni parola di Abbie era per lei una nuova scoperta. “Ne esistono anche nel mondo dei maghi?”

“Certo! Be’, non un falegname che intaglia mobili, ovviamente… Uno particolare, di quelli che forniscono il legno ai fabbricanti di bacchette. Mio padre ne è sempre stato orgoglioso, ma in molti lo considerano un lavoro umile perché non richiede grandi abilità. La parte più difficile è quella del fabbricante”.

“Capisco” ribatté Cathy, a cui in realtà qualche concetto era sfuggito. “Siamo alle solite, insomma: le persone vengono giudicate per il loro passato e non per gli atti eroici che hanno commesso. Mi dispiace”.

Abbie alzò le spalle una seconda volta, rassegnata. “Cose che capitano. La gente è invidiosa, ecco cos’è. Comunque, a un certo punto non ne potevo più delle frecciatine di Pamela e Vera e nemmeno di quelle di Zabini, che pure non si è risparmiato. Così ho deciso di sparire, nascondendomi sotto il Mantello tutto il giorno e dicendo agli altri di essere in infermeria. Ho seguito le lezioni mentre ero invisibile, con la complicità degli insegnanti, e mi sono fatta portare qui colazione e cena dagli elfi domestici. Nessuno mi ha mai scoperta, fino a oggi”.

Cathy era esterrefatta di come una ragazza della sua età avesse portato avanti un tale piano e ne parlasse con nonchalance, come se fosse una sciocchezza. Non riusciva a credere che i professori l’avessero appoggiata in un’idea del genere.

“Come mai te l’hanno lasciato fare?” le chiese, sempre più curiosa. “Immagino che questa cosa infranga un bel po’ di regole della scuola!”

“In effetti, sì. Gli insegnanti si lamentavano di non potermi interrogare davanti agli altri studenti e temevano che combinassi qualche guaio, approfittando della mia invisibilità. È stato mio padre a convincerli, dicendo che ero affetta da una grave depressione e che stare a contatto con gli altri poteva nuocere alla mia salute. Per una volta, la sua autorità mi è stata utile”.

Il racconto finì lì, con Abbie che si guardava attorno pensierosa e Cathy che cercava di assimilare quella novità. Per quanto la spiegazione stesse in piedi, continuava a sembrarle assurdo che una ragazza potesse fare tutto ciò che voleva mentre era nascosta sotto il Mantello. Catherine l’avrebbe definita violazione della privacy.

“Non ti senti sola, a vivere così?” La domanda le sorse spontanea qualche attimo dopo, mentre cercava di immaginare se stessa nei panni di Abbie. “Non parli mai con nessuno, sei amica solo del mio gatto… Non è triste?”

La ragazza alzò le spalle una terza volta, come se fosse la risposta a tutto. “Sempre meglio che avere amiche come quelle. A questa Casa, comunque, non ci rinuncio: quello che mi interessa è fare del mio meglio per arrivare in alto, come ha detto il Cappello. Il resto vada come vada”.

Cathy annuì, seppure con poca convinzione. Al posto di Abbie, non avrebbe mai permesso che delle ragazze della sua età condizionassero a tal punto la sua esistenza. “Secondo me dovresti provare a ribellarti” le suggerì, in maniera disinteressata. “Vera e Pamela sanno essere terribili quando vogliono, ma prima o poi si stancano. E Alex ha da ridire praticamente su tutti, si crede il migliore della scuola”.

Abbie alzò un sopracciglio, come se quel consiglio fosse del tutto inapplicabile. “Dovrei reagire come hai fatto tu, dici? Mi dispiace, ma non ho il tuo stesso ascendente su di loro. Qualche giorno fa ho provato a togliermi il Mantello a lezione di Erbologia ed è stato un disastro. Il professor Paciock è sempre molto gentile con me, al contrario degli altri, ha insistito così tanto nel dirmi che non dovevo vergognarmi di niente che ho voluto accontentarlo. Vera e Pamela hanno ricominciato subito a insultarmi, chiedendo se era stato il mio paparino a guarirmi, così mi sono distratta per rispondere e la mia povera Rosa Cangiante è quasi morta. No, penso proprio che non ci riproverò”.

La ragazza sembrava seriamente preoccupata solo della propria rosa, come se le offese ricevute non la ferissero minimamente. Per quanto strano, lo studio e la magia dovevano essere davvero il suo unico interesse.

“E comunque” continuò Abbie “non sei la persona adatta a darmi consigli. Io mi nascondo sotto un mantello e non ho amici, ma qui l’unica insoddisfatta della sua vita sei tu. Sbaglio o non sai nemmeno chi sono i tuoi genitori, perché il tuo tutore non vuole dirtelo?”

Cathy, quasi offesa, aprì la bocca per chiederle come facesse a saperlo, ma subito dopo la richiuse. Era abbastanza ovvio, visto che ne parlava con Evan quasi tutti i giorni. “Mi piacerebbe che non origliassi le mie conversazioni mentre sei invisibile, grazie!”

“È un po’ difficile, quando l’unico modo per non farlo è uscire dalla stanza. Una porta che si apre da sola non fa una bella impressione, neanche in una scuola di magia”.

Cathy era irritata, ma non poté non ammettere che Abbie aveva ragione. Ora che sapeva della sua presenza lì, comunque, sarebbe stato tutto diverso.

“Non capisco come lo sopporti, sai? Al tuo posto avrei usato la stessa influenza che hai su Vera anche su di lui, in modo da costringerlo a parlare. Non dovrebbe essere difficile”.

“Che cosa intendi con ‘influenza’?” Era la seconda volta che Abbie ne parlava, ma Cathy non era certa di aver colto il senso. Vide la ragazza abbassarsi verso di lei con il viso poggiato sulle nocche, come faceva Maggie quando stava per rivelare un’indiscrezione, e un attimo dopo la sentì sussurrare: “Lo sai di che parlo. La prima volta che è successo Vera era sconvolta, continuava a dire che tu sei il demonio e non avrebbe mai dovuto sfidarti. Non sai quanto ti ho ammirata, quel giorno… Avrei voluto essere in Sala Grande a godermi lo spettacolo!”

Con quella frase, ebbe la certezza di aver capito. Abbie sembrava entusiasta del fatto che Vera si fosse spaventata, ma Cathy continuava ad avvertire un nodo alla gola. La paura che aveva instillato nella Wilkinson somigliava troppo a quella di Eliza, e riportò la sua mente al drammatico avvenimento di qualche ora prima.

“Tu sai cosa ho fatto, per spaventarle tanto?” domandò, sperando vivamente che Abbie avesse la risposta. Purtroppo, la vide scuotere la testa.

“Mi dispiace. Entrambe sapevano di cosa stavano parlando, quindi non l’hanno detto. Perché non chiederlo al tuo tutore, comunque? Lui lo saprà”.

Certo che lo sapeva, pensò Cathy con rabbia. L’unica fonte di informazioni certe era anche l’unica inaccessibile. Ma non aveva voglia di spiegarlo a Abbie, sarebbe stato troppo lungo e complicato. Così, si limitò a dirle: “Grazie del consiglio. Ci penserò”.

La ragazza si alzò dal letto e spiegò il mantello, con il quale rese invisibile la parte inferiore del suo corpo. Ora che Cathy sapeva, si accorse di riuscire a intravedere comunque una sorta di ombra lì dove dovevano esserci le gambe di Abbie. “Be’, io adesso ho lezione di Incantesimi, quindi ti saluto. Spero che non dirai a nessuno quello che hai scoperto”.

Cathy non vedeva alcun motivo per rivelarlo. “No, tranquilla”.

“Ah… E scusa per la denuncia. Spero di non averti messa nei guai”.

“Non preoccuparti. In fondo hai ragione, ho ben altri problemi da risolvere”.

Abbie le sorrise per la prima volta, poi si sistemò il mantello sulla testa e le spalle fino a nascondersi completamente. La porta del dormitorio si aprì apparentemente da sola e si richiuse con un tonfo, ricordando a Cathy tutti i rumori misteriosi che aveva avvertito in quella stanza senza mai darvi peso. Non è difficile nascondersi quando per gli altri sei già invisibile. Sì, cominciava a capire cosa volesse dire.

Rimasta sola in quella stanza, rifletté sulle ultime parole che lei e Abbie si erano scambiate. Sarebbe dovuta tornare immediatamente in infermeria, salvare gli amici dalla situazione in cui li aveva messi e affrontare le conseguenze della propria irresponsabilità. Tuttavia, parlare con Young le sarebbe stato davvero utile? Sapeva già perché era successo quel che era successo, si sentiva abbastanza in colpa senza che lui la sgridasse e sapeva anche cosa doveva fare perché quell’incidente non si ripetesse. Con un po’ di fortuna, sarebbe riuscita a parlare anche con Evan e chiedergli che cosa aveva scoperto, sperando che quella volta non si sbagliasse. Eppure, nemmeno questo le sembrava davvero utile. Proprio come aveva detto Abbie, una ragazza appena conosciuta che sapeva pochissimo di lei, la ragione di tutti i suoi problemi era l’ignorare le sue origini, il non sapere perché la gente aveva paura di lei e come riuscisse a causare quegli incidenti. Più ci pensava, più farsi interrogare da Young le appariva la cosa meno giusta da fare. Dopo ciò che era successo con Eliza, non aveva più niente da perdere. Così, quando lasciò il dormitorio qualche istante dopo, aveva deciso.

*

“Professor Paciock! Professor Paciock!”

Incontrare proprio lui, tra tutti gli insegnanti di Hogwarts in circolazione, le sembrò un vero colpo di fortuna. Proprio come Abbie aveva detto, era tra le persona più buone e disponibili con gli studenti. Sperò che questo bastasse a portare a termine il suo piano.

“Scott!” L’uomo si voltò verso di lei, colpito dal suo tono concitato. “Che ci fai qui, non eri in infermeria?”

“Sì, ma sono scappata”.

Paciock strabuzzò gli occhi, forse più sorpreso dalla sua onestà che dal fatto in sé. “Per Morgana!” esclamò, visibilmente preoccupato. “Non avresti dovuto, Madama Chips…”

“Non importa di Madama Chips” replicò subito Cathy, sperando che i sospetti di Young non fossero già arrivati alle orecchie del suo collega. “Ho saputo una cosa, una cosa terribile… Catherine, la mia tutrice dell’orfanotrofio, sta male! Devo andare subito da lei!”

Chiese mentalmente perdono a Catherine per quella bugia, ma era la scusa migliore che fosse riuscita a trovare. Tuttavia, Paciock non fu propenso ad aiutarla come lei aveva sperato: “Oh, capisco… Mi dispiace, ma nessuno studente può uscire dalla scuola da un giorno all’altro, sono le regole!”

Cathy non si lasciò scoraggiare. “Nemmeno se un suo familiare sta male? Per favore, non posso lasciarla da sola proprio adesso! Ci dev’essere qualche eccezione in questi casi, no?”

Fa’ che ci sia, pregò in cuor suo. Se avesse perso quell’occasione, sicuramente non ce ne sarebbero state altre.

Paciock ci pensò su, per qualche istante che a Cathy parve un’ora. Poi, finalmente le disse: “Sì, in effetti esistono casi del genere in cui uno studente può uscire. Ma la scuola non è stata ancora informata di questo problema, bisognerebbe parlarne con il Preside…”

“Non c’è tempo per parlare con lui!” Cathy continuò a mostrarsi molto preoccupata, sperando che bastasse. Era la sua ultima carta. “Per favore, Professore, mi aiuti lei… È sempre stato buono con me, non mi deluda proprio adesso. Conosce Catherine, è come una madre per me… Il Preside non capirebbe, penserebbe che è solo una ragazza dell’orfanotrofio come tutte le altre e che non vale la pena lasciare la scuola per lei. La prego, mi aiuti…”

Si aggrappò al suo mantello e lo guardò con occhi supplichevoli, mettendo a dura prova la tenacia dell’insegnante. Approfittare così della sua generosità le sembrava un gesto meschino, ma non c’erano alternative. Dovette reprimere un grido di trionfo, quando lo sentì capitolare: “D’accordo, hai vinto. Vieni con me”.

*

Lo seguì fuori dal castello e in direzione della Foresta Proibita, temendo che il professore volesse condurla proprio lì. Poi, per fortuna, fu smentita: lo vide costeggiare gli alberi e raggiungere il tronco di una grossa quercia, sulla quale era impressa una X non particolarmente evidente. Da lì cominciò a girare in tondo, guardando attentamente i sassi e le foglie della radura e fermandosi, di tanto in tanto, come se avesse trovato qualcosa; poi scuoteva la testa e riprendeva a camminare, borbottando qualcosa come: “Non riesco mai a trovarla, accidenti! Odio queste stupide leggi del Ministero!”

Cathy era nervosa. Più il tempo passava, più era alto il rischio che Young la trovasse e la riportasse immediatamente al castello, per poi attuare chissà quale terribile punizione. Stava peggiorando ulteriormente la sua condizione, ne era consapevole; tuttavia, non poteva più aspettare. Quella follia le sembrava l’unico gesto sensato, qualcosa che avrebbe dovuto fare già da molto tempo.

“Eccola, finalmente!” Il professor Paciock, sorridendo soddisfatto, le si avvicinò tenendo in mano una pietra perfettamente rotonda. Non era molto diversa dalle altre, se non per il suo colore azzurro pallido.

“Che cos’è?” chiese Cathy, curiosa.

“Una Passaporta. È con questa che torno a casa da mia moglie, basta toccarla e ti porta dove vuoi. È programmata per attivarsi ogni sera alle nove, al momento conduce dritta dritta al Paiolo Magico. Se per te va bene, posso modificarla in modo che ti porti all’orfanotrofio tra due minuti”.

“Sì, è perfetto!” Cathy era entusiasta e impaziente, tuttavia lo sguardo del professore diventò improvvisamente severo.

“Un’ora, siamo intesi? Solo un’ora. Se non torni entro questo termine sarò costretto ad avvisare il Preside… E sarò punito almeno quanto te”.

Cathy annuì, promettendogli qualcosa che non avrebbe mantenuto. Il suo senso di colpa s’ingigantì al pensiero che Paciock ci sarebbe andato di mezzo a causa sua, tuttavia non sarebbe mai riuscita a tornare in tempo. La sua vera meta era molto distante dall’orfanotrofio, ma non poteva rivelarglielo.

“Ha la mia parola” gli disse.

Sorridendo di nuovo, il professore agitò la bacchetta e mormorò Portus, mentre la pietra nella sua mano si accendeva di una luce azzurra e intensa. La porse a Cathy e lei l’afferrò, sentendosi allo stesso tempo grata e meschina. I restanti due minuti trascorsero tra ringraziamenti e raccomandazioni, fino a che Paciock contò gli ultimi secondi che la separavano dalla partenza. Al suo tre, Cathy avvertì uno strappo all’altezza dell’ombelico e gli alberi della foresta sparirono, lasciando intorno a lei solo un turbinio di colori. Si sentì percuotere da raffiche di vento, ma non mollò la presa sulla pietra; alla fine, i suoi piedi tornarono a toccare terra con una tale violenza da farle perdere l’equilibrio. Era sul marciapiede di fronte all’orfanotrofio e, quando si rialzò, poté rivedere il familiare cancello e l’edificio bianco, stagliato su un cielo grigio di pioggia. Si concesse solo pochi istanti per osservare la sua vecchia casa, chiedendosi se Catherine era là dentro, se aveva già saputo dell’incidente e se stava cercando di contattarla proprio in quel momento. Prima che l’ennesimo senso di colpa le facesse cambiare idea, si costrinse a fare dietrofront, voltando le spalle al cancello. Aveva la strana sensazione che ogni cosa, dopo quel giorno, sarebbe cambiata.

Il resto fu facile, una serie di gesti meccanici che Cathy aveva compiuto mille volte. Recuperò i pochi soldi Babbani che aveva sempre con sé – mai restare senza un penny, le aveva insegnato Catherine – e s’incamminò verso la metropolitana più vicina, pronta a percorrere lo stesso tragitto che aveva fatto con la sua educatrice. In un tempo che le sembrò più breve del solito, era di nuovo davanti a quella villa e al suo misterioso occupante. I ruscelli, il giardino, il batacchio a forma di serpente; nel momento in cui bussò, fu colta dal dubbio di star facendo qualcosa di totalmente inutile. Anche quella volta, in fondo, c’era la possibilità di non cavare un ragno dal buco.

*

Nello stesso momento, a diversi chilometri di distanza, casa Potter era luminosa e accogliente. Harry si era messo in testa di preparare la cena al posto di sua moglie, e chissà per quale strampalato motivo aveva deciso di non usare la magia. A nulla erano valsi i tentativi di Ginny di fargli cambiare idea: l’uomo sembrava intenzionato a mostrare le sue doti in cucina, per la quale – sosteneva – non c’era alcuna necessità di sventolare bacchette. Ginny sospettava che la colpa fosse di Hermione, la quale, pur essendo eccezionale in tutti gli incantesimi, preferiva lasciare intatte le tradizioni di famiglia quando si trattava di pelare patate e tagliuzzare carote. Che fosse per quel motivo o per un imperscrutabile segno del destino, Harry aveva vinto la sua battaglia: se ne stava lì, accanto al ripiano della cucina, impugnando un coltello che sapeva a malapena maneggiare.

Ma, si sa, quando si è alla prima esperienza in qualcosa la possibilità di sbagliare è dietro l’angolo, e il caso di Harry non fu un’eccezione: l’uomo affondò la lama nel proprio pollice invece che nella carota, lasciando uscire un grido che fece accorrere immediatamente sua moglie. Quando Ginny lo raggiunse, il sangue sgorgava copiosamente dalla ferita; lo prese in giro, mentre cercava tra gli scaffali un unguento con cui medicarlo: “Il famoso Harry Potter, ex Prescelto che sconfisse il più pericoloso Mago Oscuro di tutti i tempi, non è in grado di tagliare una carota con il coltello!”

Ma Harry non rise, né dava segno di averla sentita. Si avvicinò al rubinetto, lasciando scorrere l’acqua fredda sulla ferita, e fissò il proprio dito con espressione indecifrabile. Ginny, impensierita dal suo silenzio, si avvicinò con un barattolo di Dittamo e lo guardò negli occhi, restandone sconcertata.

“Harry! Che ti prende, ti senti bene? Sei pallido…” Prese il suo volto tra le mani per far sì che la guardasse, ma Harry era come assente. Continuava a fissare l’acqua che scorreva, mescolata al proprio sangue.

“Harry… È solo un taglio…”

La donna era preoccupata. Suo marito finalmente la guardò, ma era ancora immerso in chissà quali pensieri. Sembrava sconvolto.

“Il mio sangue…” mormorò, come se fosse la prima volta che lo vedeva.

“Certo che è il tuo sangue. E con questo?”

“Ginny… Il mio sangue!” ripeté, come se il significato fosse scontato. “Adesso capisco… Quella ragazzina, Catherine Scott… Capisco perché mi era familiare! Quello che ha detto il Cappello Parlante, sul suo sangue Grifondoro, era vero… Lei aveva ragione, capisci? È mio quel sangue!”

Sul volto di Ginny passarono molte emozioni: timore, sconcerto, poi rabbia. Le sue mani presero a tremare e fu costretta ad appoggiare il barattolo sul ripiano per non farlo cadere. “Harry… Tu… Tu mi avevi giurato!” gridò, incapace di contenere la sua indignazione.

“No, Ginny!” si affrettò a rispondere lui, posando le mani sulle sue spalle. “Non ti ho mai mentito, lei non è mia figlia”.

“E allora di chi?” Adesso, i suoi occhi fiammeggianti erano anche velati di lacrime. “Non prendermi in giro, Potter! Tu non hai parenti, tu non…”

“Non è un mio parente. È qualcuno che utilizzò il mio sangue, quindici anni fa, per rinascere da un calderone”.

Per un momento, la donna non capì. Continuò a mostrarsi imbronciata, fino a quando la consapevolezza non si fece strada in lei e trasformò nuovamente le sue emozioni. Rabbia, sconcerto, paura; si portò una mano alla bocca per non urlare. Un grido muto riempì la cucina, mentre realizzava che i fantasmi del passato stavano tornando prepotentemente nel suo presente.

*

L’uomo buono lasciò attendere Cathy sulla soglia più del necessario, ingigantendo il suo già enorme fastidio nei suoi confronti. Quando finalmente aprì il portone, non si mostrò sorpreso; le fece un mezzo sorriso, uguale e quelli che le rivolgeva sempre, e l’apostrofò: “Già qui? Hai fatto presto, le tue doti mi stupiscono ogni giorno di più”.

Cathy non si lasciò abbindolare: “Risparmia il fiato per dirmi tutto quello che sai!”

L’uomo restò colpito da tanta fermezza, ma recuperò in breve tempo la sua tranquillità. Si spostò dall’uscio per farle spazio, facendole cenno di entrare. Cathy percorse l’ingresso a grandi falcate, come un soldato in missione.

“Forse mi sono perso qualcosa” iniziò lui “ma, che io ricordi, eri tu a dovermi delle spiegazioni. Sbaglio?”

In un gesto improvvisato e privo di senso, Cathy impugnò la bacchetta e la tirò fuori dalla tasca, puntandola contro il suo tutore. Colpito da tanta irruenza, l’uomo indietreggiò; poi, forse constatando che Cathy aveva poche possibilità di fargli del male, tornò sereno. La mano della ragazza tremava come una foglia al vento, ma lei si costrinse a restare calma.

“Vuoi combattere contro di me, Catherine? Sei proprio certa di saperlo fare?”

“Voglio solo la verità!” gridò, senza ormai più contenere le sue emozioni. “Lo vuoi sapere perché ho cercato di uccidermi, eh? Perché mi sentivo in colpa! Per dare ascolto a te e non trattenere i miei poteri ho quasi ucciso la mia amica Eliza!”

“La Williams? La tua amica Mezzosangue?”

“La mia amica e basta!” Cathy non abbassò la mira né lo sguardo, decisa ad andare fino in fondo. “Non mi importa cosa pensi di quelli come lei, Eliza mi ha sempre voluto bene e io le ho fatto del male! È tutta colpa tua!”

“Veramente, non direi”. L’uomo era ancora tranquillo, ma aveva smesso di sorridere. “Io ho solo cercato di insegnarti a usare i tuoi poteri, non ho mai detto che non dovevi controllarli. Se mi avessi ascoltato fino in fondo e ti fossi esercitata di più, forse a quella ragazza non sarebbe successo niente”.

Cathy ignorò la parte della sua coscienza che gli dava ragione, concentrandosi solo sul male che lui le aveva fatto. “Questo non cambia le cose! Il problema è che tu non mi hai mai detto la verità, mi hai costretta a fare quello che volevi senza spiegarmi perché ne ero in grado! Come mai Vera e tutti gli altri hanno paura di me, quando mi arrabbio? Tu lo sai, non è vero?”

“Certo che lo so” rispose lui, senza scomporsi. Naturalmente non aggiunse altro.

“E allora spiegamelo! Dimmelo adesso, altrimenti non ti starò mai più a sentire! Potrai dimenticarti di me, è chiaro?”

“Se credi di ottenere qualcosa con le minacce, ti sbagli di grosso. Non funzionano con me, ho altri mezzi per esercitare potere. Credo di avertelo dimostrato… Il Direttore del tuo orfanotrofio stravede per me, chi credi che ascolterebbe? E abbassa quella bacchetta, per favore… Non vorrei fare la fine di Eliza Williams”.

Cathy, sentendosi morire dentro, abbassò la bacchetta e seppe di aver perso. Se neanche le minacce funzionavano, non c’era alcun modo di ottenere la verità. Aveva fatto un viaggio a vuoto.

“Si può sapere cosa vuoi da me? E, soprattutto, chi diavolo sei?”

L’uomo la guardò di nuovo sorridendo, rilassato dall’assenza di bacchette e effetti metereologici inaspettati. Poi aggiunse: “Ecco, così va meglio. Avrei evitato il ‘diavolo’, ma va meglio”.

Cathy lo fissò senza capire. L’uomo continuava a sfidare il suo sguardo, tanto sicuro di sé da risultare irritante. Infine, parlò.

“Mi chiamo Rodolphus Lestrange. Ero il marito di tua madre”.


Note

Ehm... Ehm. Non so cosa dire, ecco. Nella mia mente vedo già cosa potreste star pensando: dopo tutti 'sti misteri sull'identità della ragazzina, te ne esci con un cliché usato e stra-abusato nel fandom? Ecco, sì. A mia discolpa posso solo dire che, quando ho avuto l'idea, non sapevo ancora che fosse un cliché. La paura di deludervi è tanta, soprattutto dopo l'insperato successo di visite e recensioni che ha avuto l'ultimo capitolo pubblicato... Mi avete resa molto felice, non era mai capitato che gli accessi superassero le centinaia prima di aver pubblicato il successivo, vi ringrazio di cuore. Per questo, spero tanto che questa rivelazione non vi abbia deluso troppo e che abbiate ancora voglia di seguire la storia. Se così non fosse, comunque, capirò^^

Per chi resterà, sappiate che le cose - ovviamente - non finiscono qui. Ci saranno altre sorprese, ma continueranno nel prossimo capitolo che questo è già un bel mattone! Molti particolari di questa storia sono anche legati alla mia long precedente, "Storia di una Mangiamorte", ma chiarirò nelle note tutti i collegamenti necessari per chi non l'avesse letta. Nel frattempo, spero anche che i pretesti che ho usato per far arrivare Cathy dal tutore non siano troppo assurdi, e che la storia di Abbie Macdonald vi sia sembrata credibile. Inutile dire che sono molto curiosa di sapere se ci avevate preso su Rod e sul sangue Grifondoro... Per eventuali pomodori, sono qui!

Infine, una nota di tipo tecnico: i Letalmanti (Lethifold in inglese) sono citati in "Animali Fantastici: dove trovarli", si tratta di creature molto pericolose che, come un velo nero, soffocano la vittima mentre dorme. Mi hanno affascinato quando l'ho letto, così li ho citati anche qui :) Non credo ci sia altro da aggiungere... Per dubbi di qualunque tipo, chiedete pure! A presto.

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Capitolo 24
*** L'ultimo Mangiamorte ***


24


Nell’esatto istante in cui quelle parole giunsero finalmente al suo orecchio, riempiendola di sconcerto e meraviglia, Cathy realizzò di non aver mai sperato di udirle davvero. Quando quel giorno, motivata da una rabbia cieca quanto improvvisa, si era precipitata dal suo tutore, non credeva di convincerlo a dirle tutta la verità. Voleva solo sputargli in faccia tutti i suoi dubbi, le angosce che la tormentavano da troppo tempo e farlo sentire responsabile per tutti i problemi che le aveva causato. Si aspettava il solito, sprezzante silenzio, accompagnato da un mezzo sorriso di scherno e i commenti sul fatto che facesse troppe domande. Così, quando lui le aveva rivelato il suo nome e la sua identità, aveva impiegato qualche secondo a capire che facesse sul serio.

Rodolphus Lestrange. Un nome insolito, ma che tutto sommato le diceva poco. Se anche si fosse chiamato John Smith non avrebbe fatto alcuna differenza. Eppure, c’era ben altro di esplicito nella sua frase, un particolare di gran lunga più rilevante: sua madre. Il rapporto che c’era tra loro era ormai definito, ogni cosa acquisiva tutt’altro significato alla luce di quella nuova informazione. E allo stesso tempo, come ogni risposta attesa troppo a lungo, anche quella portava con sé una miriade di altre domande, che Cathy non fu capace di formulare. Forse perché non sapeva da dove cominciare, o per timore di scegliere le parole sbagliate, non riuscì a dire nulla; un silenzio che Rodolphus interpretò come paura.

“Cos’è, ti ho lasciata senza parole?” la schernì. “Se avessi saputo che bastava così poco per frenare la tua lunga lingua, te l’avrei detto prima. Il mio nome non ti è nuovo, forse?”

“Non ho mai neanche sentito il tuo nome”.

“Oh”. Sembrava quasi dispiaciuto, come se quel colpo di scena non avesse sortito l’effetto sperato. Cathy era turbata, sì, ma non da quel nome e cognome del tutto sconosciuti; lo era piuttosto da ciò che potevano significare.

“Sì, immagino che i Lestrange abbiano smesso di far parlare di loro all’interno di Hogwarts. Sono lontani i tempi in cui la nostra fama faceva tremare le mura del castello, e anche quelli in cui occupavamo le prime pagine dei giornali. È sempre una delusione scoprirlo, anche adesso che va tutto a mio vantaggio. Ma prima che ti dica altro, è meglio se ti siedi”.

Ogni minuto più perplessa, Cathy obbedì, seguendo l’uomo verso lo stesso tavolo da pranzo su cui avevano consumato tutti i pasti di Natale. Wolly non c’era, ma una teiera fumante accanto a due tazze vuote testimoniava che l’elfa non doveva essere andata via da molto. Mentre prendeva posto, Cathy osservò attentamente i gesti di Rodolphus e ne dedusse che era stranamente nervoso: nonostante cercasse di mostrarsi deciso come poco prima, la mano gli tremava leggermente mentre versava il tè e gli occhi si spostavano dalle tazze al viso di Cathy in maniera troppo repentina. Si chiese se quello che stava per dirle lo mettesse in agitazione quanto lo era lei.

Entrambi avevano le tazze piene, ora, ma nessuno bevve. Troppo impazienti di dire e di ascoltare, trovare un buon punto di partenza era estremamente difficile. Fu Cathy, da Grifondoro o quasi che era, a recuperare il coraggio necessario; le ultime parole di Rodolphus le avevano fornito un nuovo indizio.

“Eri un Mangiamorte, vero?”

L’uomo le sorrise benevolo. Sul suo volto non c’era più traccia di derisione. “Sì, lo ero. E tu sei una ragazza sveglia, non credo che dovrò spiegarti quello che significa. Forse, non proprio tutti mi hanno dimenticato”.

“Mi avevano detto che i Mangiamorte erano tutti ad Azkaban” continuò Cathy, il cui cervello si districava tra centinaia di domande e tentava di organizzarle in un filo logico. “Come mai tu no? Sei fuggito?”

“Sì e no. Fuggii con tutti gli altri, una prima volta, dopo quattordici anni di reclusione. E fuggii anche una seconda, grazie all’aiuto dell’uomo che un tempo chiamavo Signore Oscuro. Ma alla fine, poco prima che l’ultima battaglia cessasse e che venissimo sconfitti definitivamente, fui io ad allontanarmi. Prima di sapere se avremmo realmente vinto oppure no, la mia battaglia personale era già persa. Non avevo più niente per cui combattere e decisi di abbandonare il campo. È per questo che gli Auror non mi hanno preso: ero scomparso molto prima che cominciassero a cercarmi”.

“Quindi sei un ricercato” dedusse Cathy, tralasciando per un attimo le motivazioni che dovevano aver spinto Rodolphus a quel gesto. “È per questo che non esci mai da questa casa, e quando lo fai sei sempre attento che non ti veda nessuno?”

“Sì, esatto. Dopo dodici anni di ricerche infruttuose il Ministero si è quasi dimenticato di me, ma la prudenza non è mai troppa. Senza contare che un particolare Auror non ha mai smesso di cercarmi, facendo della mia morte la sua ragione di vita. Sono sicuro che non esiterebbe a farmi fuori, anche adesso che non ne ha più l’autorizzazione. Visto lo spiccato intuito che hai dimostrato finora, credo tu sappia di chi sto parlando”.

Guardò Cathy, come aspettandosi una risposta da lei. Ma la ragazza non aveva capito, o forse si rifiutava di ammetterlo.

“Albert Young” continuò per lei, togliendole ogni dubbio. “Il tuo stimato professore di Arti Oscure. A meno che tu non voglia vedermi morto, farai bene a non dirgli dove mi trovo”.

L’idea quasi la stuzzicava, considerando che il suo tutore si stava placidamente dichiarando un ex assassino evaso dal carcere ben due volte, tuttavia non l’avrebbe mai fatto. Erano ancora troppe le informazioni che poteva fornirle e troppo forte il legame che aveva con sua madre.

“Ma perché vuole ucciderti?” gli domandò, non capacitandosi di tanto odio. “Potrebbe arrestarti come tutti gli altri, mandarti ad Azkaban…”

“Perché è un bastardo” l’interruppe Rodolphus, mentre gli occhi gli brillavano d’ira. “Non sopporterebbe l’idea di un processo in cui potrebbe essermi ridotta la pena o addirittura annullata. Per lui i Mangiamorte sono tutti uguali e meritano di morire. Non importa quanto gravi siano le loro azioni, che io avessi una mia morale e non sia mai stato un animale come Macnair… Ha sempre cercato di ucciderci, tutti. Se mai dovesse trovarmi, non avrà alcuna pietà e io non l’avrò per lui”.

La durezza di quelle parole e del suo sguardo inquietarono Cathy al punto di farle dimenticare, per un attimo, la sequela di domande che stava per porgli. Aveva conosciuto quei due uomini tanto a lungo senza sapere chi fossero in realtà, né che si conoscessero e provassero tanto odio l’uno verso l’altro. Non poteva giustificare Rodolphus per essere stato un Mangiamorte e aver compiuto chissà quali delitti, ma neppure poteva appoggiare il professor Young nella sua folle idea di sterminare lui e quelli come lui. Per una volta, la ragione non stava da nessuna delle due parti. Era una situazione disperata, pericolosa e senza una via d’uscita.

“Però, alla fine hai rinunciato” aggiunse, con voce flebile, aggrappandosi a quel poco di buono che aveva trovato nelle parole di lui. “Questo significa che ti sei pentito, che forse hai capito i tuoi errori. Gli Auror dovrebbero tenerne conto, così come Young…”

“Il motivo per cui ho abbandonato la battaglia” aggiunse, interrompendola una seconda volta, “è troppo complesso perché tu possa capirlo. Non starò qui a spiegarti ragioni più grandi di te che nessuna dodicenne potrebbe concepire. Però, prima che tu inizi a darmi dell’uomo buono o altro, sappi che non ero pentito. Ho fatto del male, sì, talvolta ho causato la morte e sofferenze anche peggiori; ma l’ho fatto per un motivo, per salvaguardare qualcosa di molto più importante della vita di quella gente. Ci sono situazioni in cui un uomo non può tirarsi indietro, non dopo aver giurato fedeltà a un mago più potente di lui e che può togliergli ciò che ha di più caro. Solo quando ho capito di non aver più nulla da perdere sono scappato. Non sapevo ancora che tua madre sarebbe morta, e che io non sarei stato con lei”.

A sentir nominare la madre, Cathy ricordò improvvisamente ciò che davvero le stava a cuore. Qualsiasi fossero le motivazioni del suo strano tutore, non le interessavano poi così tanto. Ma lei, sua moglie… Cosa c’entrava in tutta quella storia?

“Dimmi di lei” gli chiese subito, per non sprecare quell’improvvisa occasione. “Come si chiamava, se era lì con te, cosa…”

“Prima di andare avanti, c’è una cosa che devi sapere”. Colpita da quel cambio di tono, Cathy aggrottò le sopracciglia. Cercò di non perdersi nemmeno una parola di ciò che il suo tutore le stava rivelando.

“Quello che sto per dirti non ti farà piacere. Non è così che immaginavi tua madre, lei non è quello che ti hanno insegnato a pensare. Non era una persona buona, non più di quanto lo sia io. Detto questo, sei sicura di voler sapere?”

Se lo aspettava, ma fece male comunque. Il sospetto che ci fosse della malvagità anche in lei non l’aveva mai abbandonata del tutto, dal momento in cui aveva scoperto che era una Serpeverde. Si aggrappò ai racconti di Catherine, alla storia del mantello macchiato di sangue, sperando con tutta se stessa che ciò che stava per sentire non li cancellasse. Infine, raccomandandosi di essere forte, disse di sì.

“D’accordo”. Rodolphus trasse un profondo respiro, facendo roteare la tazza con il tè ormai freddo al suo interno. Sembrava star raccogliendo i suoi pensieri e dosare con cura ciò che le avrebbe riferito.

“Tua madre era una Mangiamorte. Non una qualsiasi, ma di quelle più temute nell’intera Inghilterra. Molti, tra i maghi e le streghe più esperti, sono caduti sotto la potenza dei suoi incantesimi, alcuni di loro tremano ancora nel sentirla nominare. Credeva profondamente nella nostra causa e l’avrebbe difesa a qualsiasi costo, fino a sacrificare la sua stessa vita. Odiava i Babbani e i Mezzosangue molto più di me, il suo incarico preferito era eliminare i traditori o torturarli finché non implorassero pietà. Questo era Bellatrix, e io non voglio mentirti. Se non te lo dicessi ora, lo sapresti comunque da qualcun altro”.

Bellatrix. Ignorò l’orrore di ciò che aveva appena sentito per concentrarsi solo su quel nome, che le appariva stranamente familiare. Provò una sensazione d’angoscia ancor prima di sapere perché.

“Bellatrix…” mormorò, mentre un cognome si accostava a quella parola con sconcertante naturalezza. “Bellatrix Black? Una delle zie di Teddy?”

“A lei non piaceva definirsi tale, però sì. Sorella di Andromeda Black, la quale disonorò la sua famiglia sposando un Mezzosangue. Ebbero una figlia, Ninfadora, da cui a sua volta nacque Ted Lupin. Sei imparentata con quel mezzo lupo che hai iniziato a chiamare amico”.

Bellatrix e Narcissa. Ora ricordava distintamente entrambi i nomi e li associava alle azioni che avevano compiuto. Ma c’era qualcosa, qualcosa di terribile, che si rifiutava di pensare… Quale delle due aveva semplicemente abbandonato la sorella e quale ne aveva ucciso la figlia? No, non è lei… Non può essere lei… Tutto era riuscita a sopportare, fino a quel momento. Che fosse un’assassina, una persona orribile, una torturatrice… Ma non che avesse ucciso proprio la madre di Ted. Si coprì gli occhi con le mani per non guardare, come se in quel modo potesse allontanare la realtà che lei stessa aveva voluto vedere. E pianse; pianse con tutta la disperazione che aveva in corpo, come se non fosse mai stata tanto infelice in vita sua.

“Ti avevo detto che sarebbe stato difficile” continuò Rodolphus, con un tono più conciliante che accusatorio. “Avrai saputo perché Ted è un orfano, in quali circostanze è morta sua madre… E mi dispiace essere io a dirti chi è la responsabile. Ma la causa, per lei, era più importante dei legami familiari”.

“Basta, basta!” All’improvviso, l’enormità di ciò che stava ascoltando la fece scoppiare. Come quando ci si trova davanti a un trauma troppo grande da sopportare, fece l’unica cosa che poteva fare in quella situazione: negò. Rispose al dolore con la rabbia, alla verità con le sue convinzioni, convincendosi che la teoria dell’ex uomo buono non stesse in piedi. Si alzò, dando sfogo anche fisico ai suoi sentimenti, e accusò il suo tutore così come aveva fatto quand’era arrivata.

“Tu mi stai dicendo solo bugie! Mia madre non poteva essere così, e sai perché? Perché una Mangiamorte non mi avrebbe mai lasciato in un orfanotrofio Babbano! Non avrebbe mai trattato Catherine con gentilezza, non mi avrebbe affidata a lei! Mia madre mi voleva bene, l’hai detto tu… Ha macchiato il suo mantello per avvolgermi! Lei non è… Lei non può…”

Rodolphus la lasciò parlare, aspettando che si sfogasse e sbollisse la sua collera. Allontanò gli occhi dai suoi, come se il solo guardarli gli facesse male, e rispose solo quando Cathy si fu un po’ calmata. Allora riprese, con molto tatto, a raccontarle la sua verità: “Imparerai che voler bene non significa sempre essere una brava persona, e che il suo modo di farlo era molto diverso dalla maggior parte della gente. Si può amare immensamente qualcuno e odiare qualcun altro con la stessa intensità, anche se individui come Young sono troppo ottusi per comprenderlo. Quanto all’orfanotrofio, hai ragione: io stesso mi sono stupito di come Bellatrix abbia preso una decisione del genere, credevo che fosse uscita di senno. Finché non ho collegato il nome di quell’istituto con uno che aveva un significato particolare per lei, poiché rappresentava un legame con… Con tuo padre. Ma una cosa non è esatta: non ha mai, e dico mai, trattato Catherine con gentilezza. La detestava come qualsiasi Babbano, l’ha lasciata in vita solo per servirsi di lei”.

“Cosa..?” Cathy emerse piano dal suo fiume di lacrime, aspettandosi che ci fosse una ragione a tutto, ma non che Rodolphus avrebbe contraddetto Catherine. “Che stai dicendo? Lei mi ha detto che era gentile, buona…”

“Lei ha mentito”.

“No!” gridò, forte di quella convinzione più che delle precedenti. “Lei non mi mentirebbe mai!”

“Invece l’ha fatto. Ho sentito, quella mattina del 24 dicembre, i dettagli zuccherosi con cui ha infarcito il racconto del tuo primo giorno di vita. Gli occhi di Bellatrix non sono mai stati dolci, te lo assicuro, né lei ha mai detto di essere povera e aver bisogno d’aiuto. E non avrebbe mai pensato di affidarti a Catherine se la ragazza non avesse, per puro caso, nominato il Saint George. So quello che dico, puoi fidarti di me”.

“Non capisco…” Il solo fatto che Catherine le avesse mentito era assurdo, ma più assurdo ancora era che non c’era motivo per farlo. Perché illuderla che sua madre fosse gentile, quando non lo era stata? Perché, se modificava di così poco la realtà?

“Sono dettagli stupidi” osservò, infine, “ma la sostanza non cambia, giusto? Le ha proposto di affidarmi all’orfanotrofio e mia madre ha accettato. Non vedo perché doveva inventarsi quelle cose…”

“Perché c’è qualcos’altro”. La voce dell’uomo, adesso, era carica d’ansia. Sembrava che dovesse ancora rivelare il dettaglio più difficile, quello che le avrebbe inferto il colpo definitivo. Ogni parola da lui pronunciata, da quel momento in avanti, ebbe il peso di un macigno: “Non era un caso che tua madre fosse, quel giorno, appoggiata al parapetto di un ponte. Era vero che non poteva tenerti, anche se non per la ragione che ti ha detto Catherine. Per questo, aveva deciso di ucciderti. Ti teneva protesa verso l’acqua e forse ti avrebbe lasciata andare, se solo Catherine non l’avesse fermata. Nessuno può dire con certezza cosa sarebbe accaduto, ma credo che, da qualche parte dentro di lei, volesse già tenerti in vita; altrimenti, non mi spiego perché ti abbia fatta nascere”.

La sua sensazione fu confermata: quello era davvero il peggio, la cosa più crudele che potesse ascoltare. Per anni aveva creduto in una madre che l’aveva abbandonata perché costretta, ma che l’amava come qualsiasi madre normale e che non avrebbe voluto lasciarla andare. Adesso, invece, veniva a sapere che era stata sul punto di ucciderla e che forse l’avrebbe fatto senza rimorso. Come se non bastasse, la donna che l’aveva cresciuta era anche una grandissima bugiarda. Si rifiutò di rifletterci oltre: temeva di non sopravvivere ai suoi stessi pensieri.

“E mio padre?” gli chiese, arrivando all’ultimo argomento che le era ancora oscuro. “Se non sei tu, allora chi è?”

Vide il volto di Rodolphus adombrarsi ancora di più, in un crescendo di sofferenza che sembrava profonda quanto la propria. Incredibilmente e senza ragione alcuna, le tornò alla mente un episodio banale di qualche anno prima: una sera, prima che Catherine la scoprisse e la mandasse a letto di corsa, si era trattenuta più del consentito davanti al televisore della sala di ritrovo, rapita da una telenovela americana fatta di personaggi molto belli e molto stupidi. La protagonista, Leslie, aveva scoperto di essere incinta e aveva paura di confessarlo al marito, colta dal dubbio che potesse non essere suo. E aveva fatto bene, perché quando infine gliel’aveva rivelato l’uomo si era arrabbiato non poco, assumendo poi la stessa espressione che si leggeva adesso sul viso di Rodolphus. Sebbene l’idea che Cathy aveva dei tradimenti fosse ancora molto acerba, sapeva che avere un figlio da un altro uomo non era esattamente rispettoso nei confronti del marito, e che questa doveva essere la ragione per cui anche Rodolphus soffriva tanto. Furono chiari, in un solo istante, tutti i suoi scatti d’ira e i suoi indecifrabili silenzi.

“Ho impiegato molto tempo prima di scoprirlo. Per diversi anni, ho girato il mondo senza sapere della tua esistenza. Fui costretto a fuggire dall’Inghilterra, quando seppi cos’era successo e che mi davano la caccia, nascondendomi negli angoli più remoti d’Europa. Poi, quando ero stanco di scappare e sentivo nostalgia di casa, corsi il rischio di rientrare nel mio Paese nella speranza che avessero smesso di cercarmi. Ebbi fortuna: scoprii che i pochi manifesti con il mio volto ancora in giro per la città erano ormai ingialliti o strappati, e che la gente sembrava aver dimenticato quell’ultimo Mangiamorte ancora in libertà. Ripresi contatto con le persone di cui potevo ancora fidarmi, tornai in questa casa e Wolly mi raccontò ciò che era successo in mia assenza. Ma nessuno, di coloro che erano rimasti, sapeva di te. Finché un giorno, riordinando gli affetti personali di mia moglie, scoprii qualcosa che mi condusse alla verità: una testimonianza certa della tua esistenza, nascosta per otto anni in un cassetto. Raggiunsi l’orfanotrofio e chiesi di poterti conoscere, aiutandomi con la magia quando il tuo Direttore si mostrava contrario. Tuttavia, non ho saputo chi fosse tuo padre ancora per molto tempo, fino a che non me ne hai dato la prova”.

“La prova? Io?”

“Sì, proprio tu. I tuoi occhi, Cathy. Non ti sei mai vista allo specchio, quando ti arrabbi? Ti arrabbi davvero, intendo, come lo eri poco fa e come lo sei stata a scuola, con i ragazzi che hai spaventato. E come lo sei stata con me, quando ti dissi che vivevi con dei Babbani e ti sentisti offesa. Allora ebbi la conferma di ciò che avevo sempre sospettato, perché i tuoi occhi cambiarono colore. Diventarono rossi, ardenti come l’Ardemonio, uguali a quelli di tuo padre. Guardati: anche se di un rosso meno acceso, lo sono ancora”.

Con un movimento rapido della bacchetta, Rodolphus fece apparire dal nulla un piccolo specchio, nel quale Cathy poté osservare la propria immagine. Le bastò un’occhiata per capire che l’uomo aveva ragione: le sue iridi non erano del consueto colore nero, ma di una curiosa tonalità bordeaux. Non se ne sarebbe neppure accorta se lui non gliel’avesse fatto notare, ma, a quanto diceva, quello era solo un effetto sbiadito della sua rabbia; quando era davvero su tutte le furie doveva acquisire una tinta scarlatta. Non si sarebbe spiegata, altrimenti, la reazione atterrita di Vera Wilkinson e degli altri ragazzi.

“Okay, ora so perché le persone si spaventano. Ma non mi hai detto ancora chi è mio padre”.

“Lui è proprio il motivo per cui si spaventano, Cathy. Ma prima di dirtelo, voglio fare un’ultima prova”. Agitò nuovamente la bacchetta e mormorò un incantesimo a lei sconosciuto: Serpensortia. Subito dopo, dalla punta si generò una piccola esplosione e sul pavimento si materializzò un lungo serpente, nero e sibilante. Impaurita, Cathy indietreggiò; Rodolphus, invece, le sorrideva incoraggiante, aspettandosi da lei tutt’altra reazione.

“Non ti farà del male, tranquilla. Tu, e solo tu, puoi ordinargli cosa fare. Avanti, prova a dirgli qualcosa”.

Dirgli qualcosa? Per un momento, pensò che il suo tutore fosse totalmente impazzito. Poi, però, ricordò che non era la prima volta che parlava con i serpenti, e che questi si erano sempre mostrati stranamente ubbidienti. Così, superando lo spavento, gli impose con voce chiara: “Vattene. Esci da questa stanza”.

Di tutta risposta, il rettile fece dietrofront e si allontanò in direzione dell’ingresso, come se avesse capito. Soddisfatto, Rodolphus commentò: “Visto? Parli Serpentese. Come tuo padre e il suo celebre antenato prima di lui”.

“Ma cosa dici?” ribatté lei, rafforzando la sua ipotesi sulla mancanza di senno dell’uomo. “Io ho parlato inglese!”

“Assolutamente no. Non ho capito nulla di ciò che hai detto, perché parlavi la lingua dei serpenti. Non te ne accorgi nemmeno, probabilmente, ma lo fai. È nella tua natura”.

Era difficile da credere, ma era altrettanto improbabile che fosse una bugia. Prendendo di nuovo posto alla sua sedia, Cathy si mise in attesa dell’ultima verità. Qualcosa le diceva che non sarebbe stata piacevole.

“Il Signore Oscuro, l’uomo che io, tua madre e molti altri chiamavamo padrone, aveva questo stesso dono. Era l’erede di Serpeverde, uno dei quattro fondatori di Hogwarts, nonché il mago più potente del suo tempo. Ha trasmesso queste doti anche a te, così come la capacità di controllare gli elementi. Questo è il motivo per cui, fin dalla nascita, i tuoi poteri si sono dimostrati superiori a qualsiasi mago o strega della tua età. Se utilizzati nel modo giusto, potrebbero indurti a diventare più abile del Signore Oscuro stesso. Capisci, adesso, chi sei veramente?”

Capiva tutto, capiva persino troppo. Era stata generata dal male puro, il nome che la gente aveva ancora paura di pronunciare. Il mago più pericoloso di tutti tempi, colui che Harry Potter aveva sconfitto diventando così un eroe. Si chiese se poteva esserci qualcosa di peggio e preferì non darsi una risposta.

“Lord Voldemort” sussurrò, quasi intimorita a sua volta dal pronunciare quel nome. Rodolphus sussultò appena, probabilmente non abituato a sentirne parlare.

“Sì, esatto. Questo spiega molte cose, in primis perché tua madre ha nascosto la gravidanza. Avere un figlio da me sarebbe stato naturale, ma da lui… Ti avrebbe uccisa, se solo avesse saputo della tua esistenza. Forse avrebbe ucciso anche lei, i suoi comportamenti erano spesso disumani e imprevedibili. A modo suo, Bellatrix ha voluto proteggerti, nascondendosi tra i Babbani e partorendoti da sola, fino al famoso incontro con Catherine. Per questo, non escludo che ti avrebbe lasciata in vita comunque. E credo di sapere anche perché: eri una creatura sua”.

Fu il turno di Rodolphus, quella volta, di alzarsi e dare le spalle a Cathy, come per nasconderle le sue emozioni più profonde. Tuttavia, alla ragazza non sfuggirono le spalle curve e tremanti e le mani sul viso, in un gesto molto simile a quello che aveva compiuto lei poco prima.

“Il Signore Oscuro non voleva eredi” proseguì l’uomo, dopo aver ripreso il controllo di sé. “Avere qualcuno che mandasse avanti la sua opera poteva essere un vantaggio per chiunque, ma il suo modo di pensare era diverso da tutti gli altri. Lui non credeva di dover morire; aveva preso le precauzioni necessarie, a suo dire, per raggiungere la vita eterna. Un’ambizione troppo alta persino per un mago tanto esperto, sconfitto infine dai suoi stessi errori. Mi chiedo, ancora oggi, come siamo stati così stupidi da credergli, da pensare che davvero avrebbe potuto regalarci l’immortalità e il potere. Non è riuscito ad ottenerlo nemmeno per se stesso…”

Ormai, Rodolphus parlava più tra sé e sé che direttamente a Cathy, la quale aveva perso i fili di quell’intricato discorso. Le era chiaro soltanto che i suoi genitori erano il peggio che potesse immaginare, detestati da qualsiasi mago e strega che non fosse Rodolphus e macchiati dal sangue innocente di innumerevoli vittime. E, come se non bastasse, lei stessa era anche l’erede di Serpeverde, il fondatore della Casa malvagia per eccellenza da cui aveva inizialmente cercato di distaccarsi. I tentativi di frenare i suoi poteri e le loro conseguenze potevano essere del tutto inutili, perché la crudeltà ce l’aveva nel sangue e non sarebbe mai riuscita a cancellarla del tutto. Forse, Ted e Maggie avevano sempre avuto ragione: era tutta una questione di sangue. Per questo aveva fatto del male a Eliza e avrebbe continuato a farne, in una lotta impotente contro la sua stessa natura. Immaginava già le reazioni dei suoi compagni quando l’avrebbero saputo: nella migliore delle ipotesi, sarebbe stata allontanata da tutti e costretta alla sola compagnia del suo gatto, come Abbie Macdonald; nella peggiore, sarebbe stata espulsa da Hogwarts definitivamente. Era un incubo, un sogno terribile dal quale non vedeva l’ora di svegliarsi.

*

Trascorsero lunghi minuti, forse delle ore. Rodolphus aveva esaurito le sue parole e Cathy la propria voglia di ascoltarle, preferendo di gran lunga il silenzio rassicurante della cucina. Tuttavia, era una tranquillità solo apparente, e non soltanto a causa della pendola che rintoccava energicamente nella stanza accanto: la sua stessa mente era affollata di pensieri angosciosi e, quanto più cercava di allontanarli, tanto più essi si ripresentavano violentemente. Tentò anche di ragionare in maniera costruttiva, di accettare la realtà per quello che era e pianificare le sue future mosse, così da arrecare a se stessa e agli altri meno dolore possibile; ma, ogni volta che ci provava, capiva che non sarebbe resistita neanche un istante davanti ai suoi compagni, che agire come se nulla fosse successo era impensabile e che si sarebbe tradita molto in fretta. Così tornava la disperazione, l’impotenza e la sensazione di star scivolando in un baratro senza fine.

Per distrarsi, si concentrò di nuovo sull’unica persona che occupava quella stanza con lei e che le dava ancora le spalle, apparentemente assorto nel contemplare la finestra. Rodolphus; la persona che aveva fatto carte false per essere il suo tutore, che l’aveva per anni tenuta all’oscuro di una realtà così importante, si chiamava Rodolphus. Chissà se adesso avrebbe potuto usare il suo nome o se lui avrebbe preteso ancora quel freddo ‘Signore’, si domandò, non senza un certo sarcasmo.

“Perché hai deciso di dirmelo proprio ora?”

La domanda giunse inaspettata, lo riscosse da quello stato di torpore in cui era caduto dopo la lunga discussione. Si voltò e le fece un sorriso strano, tirato, come se rispondere a quel semplice interrogativo gli costasse fatica.

“Perché era il momento giusto” le disse, riuscendo tuttavia ad apparire naturale. “Ti avevo promesso che sarebbe arrivato e così è stato. Un po’ prima di quanto mi aspettassi, devo ammetterlo, ma la tua scenata mi ha colpito. Se eri così decisa a voler sapere, significa che eri anche pronta”.

La spiegazione sembrava un po’ labile, ma Cathy non se ne preoccupò poi molto: era abituata, ormai, alle stranezze e ai cambi di rotta del suo tutore. “Non so se lo ero veramente” ammise, comprendendo a malincuore che quella verità era davvero troppo da sopportare. In un attimo di pura follia, desiderò di non aver mai lasciato Hogwarts e di non aver mai saputo nulla di tutto quello.

Rodolphus si avvicinò, con un’espressione stranamente dolce e confortante. E, come se i suoi comportamenti di quel giorno non fossero stati già abbastanza curiosi, prese ad accarezzarle i capelli, riunendoli insieme in una lunga ciocca.

“Sei più forte di quanto pensi, Cathy” continuò, lasciandola se possibile ancora più sconcertata. “Ho sbagliato a sottovalutarti la prima volta, dovevo capire che era solo questione di tempo. Una strega come te non poteva rivelarsi mediocre, il talento aveva solo bisogno di crescere giorno per giorno. Il tuo temperamento deciso ti rende in grado di sopportare cose a cui ragazzi più grandi cederebbero, compresa la delusione di oggi. Ti conosco, so che supererai anche questa prova nel modo migliore. Sei la degna erede di tua madre, una Black combattiva e incrollabile”.

“Io non voglio essere degna di lei!” Un ulteriore scatto d’ira la costrinse ad alzarsi e a liberarsi di quello strano gesto, che non riusciva neppure a definire ‘affettuoso’. In qualche modo, Rodolphus finiva sempre per inculcarle le sue idee assurde sotto una parvenza di lusinghe. “Perché dovrei cercare di assomigliarle, eh? Era un’assassina, una torturatrice, una pazza che voleva liberarsi anche di me! Cosa può mai esserci di buono in una persona del genere?”

Era indubbiamente difficile darle una motivazione convincente, ma l’uomo non si scoraggiò. “Capirai” le disse soltanto, in tono quasi profetico. “Un giorno, troverai da sola la risposta che cerchi. Se tentassi di spiegartelo ora non avrebbe nessun effetto. Certe cose non vanno ascoltate, ma sentite”.

Cathy scosse la testa, incapace di comprendere il significato di quella non-risposta. Tuttavia, non sembrava che Rodolphus si aspettasse una reazione diversa. Riprese il suo accorato discorso, dando ancora l’impressione di star parlando davvero per il suo bene: “Accettare una realtà come questa è difficile, soprattutto nell’ambiente in cui sei cresciuta. Ai tuoi occhi siamo stati identificati come il male assoluto, capisco che tutto ciò che vorresti fare ora è scappare da quella porta e dimenticare ciò che ti ho detto. Ma non si può fuggire da se stessi, dal nostro passato e da ciò che siamo; accettarlo è l’unico modo per riuscire a trovare del buono anche nelle situazioni peggiori. Anche se adesso ti sembrerà impossibile, io non sono un mostro e non lo era neppure lei. Vedere le cose dall’esterno è molto diverso dal viverle in prima persona. Capirai anche questo, con il tempo”.

Cathy non era convinta, affatto. L’uomo continuava a parlare di tempo, accettazione e cambio di opinioni, ma tutto ciò che lei vedeva nel suo futuro erano drammi e disperazione. E neppure troppo lontani, dato che bastava rivedere Ted Lupin per perdere di nuovo una persona cara. Gli si era affezionata, troppo per sopportare lo sguardo carico d’odio che riservava a Jason posarsi, adesso, su di lei. Improvvisamente, capì qual era la prima cosa e la più importante da fare.

“Non voglio tornare a Hogwarts” gli comunicò, sperando con tutto il cuore che lui non si opponesse. Rodolphus ne fu sorpreso, ma non si alterò.

“Cosa? Non vuoi ritornare a scuola?”

“Non ora, almeno. Non ce la farei a rivedere i miei compagni, Young e l’altro professore che ho ingannato per venire qui. Per favore, non costringermi”.

Il tono era così pacato e supplichevole che neppure un ex Mangiamorte se la sarebbe sentita di negarglielo. Pur se non contento, Rodolphus valutò la sua richiesta, informandosi sui dettagli: “E dove vorresti andare? In orfanotrofio?”

“No!” gridò subito Cathy, pensando che quello era l’ultimo posto in cui voleva mettere piede. “Non voglio rivedere Catherine dopo quello che mi ha fatto. Posso… Posso restare qui?”

Rodolphus cercò di mostrarsi impassibile, ma un leggero movimento alla tempia tradì la sua preoccupazione. Cathy pensò che la sua latitanza potesse diventare un problema, dovendo nascondere nella propria casa anche una ragazza.

“Certo” sentenziò infine, lasciandola troppo stupita anche solo per ringraziarlo. Un attimo dopo la salutò, uscì dalla cucina e si diresse verso le scale, come se avesse una certa urgenza di restare da solo.

*

Il consenso di Rodolphus a tenerla lì con lui, in segreto, fu l’unica nota positiva di quella giornata orribile. Sapere di non dover tornare a Hogwarts ed affrontare Ted, o almeno non subito, riuscì a darle la forza per uscire in giardino e concedersi un po’ d’aria fresca. Non appena ebbe messo piede all’esterno, però, qualcosa di piccolo e leggero le cadde sulla testa, per finire poi a terra a pochi passi da lei. Cathy alzò la testa e vide un gufo bruno che le svolazzava attorno, prima di trovare riparo sotto le tegole del portico. Raccolse la lettera con una brutta sensazione addosso, che trovò conferma quando ne lesse il contenuto: era di Catherine. Come si poteva immaginare, aveva saputo dalla scuola che Cathy non si era presentata all’orario stabilito e, di conseguenza, la sua bugia era stata smascherata. Irritata per un tale comportamento, Catherine le chiedeva spiegazioni e affermava di sapere dove fosse andata, aggiungendo che l’avrebbe raggiunta subito. Terminava con qualche nota sull’incidente, che pure le era stato comunicato, e sperava con tutta se stessa che stesse bene.

Cathy era fuori di sé. Rientrò in casa, prese la prima penna e l’inchiostro che riuscì a trovare e voltò la lettera di Catherine, scribacchiando lì la sua breve e brutale risposta:


Non venire. Non cercarmi, non parlarmi, dimenticati che esisto. Sei solo una bugiarda e non voglio rivederti mai più!

Cathy


Nello stesso momento, nella sua stanza accuratamente chiusa con la magia, anche Rodolphus stava scrivendo una lettera. L’avrebbe consegnata ad un gufo comune e veloce, in grado di passare inosservato. Come quella di Cathy, la sua era ugualmente concisa, sebbene molto meno chiara ad un osservatore esterno. Quando la rilesse, si ritenne soddisfatto.


La bambina sa tutto. Avrei dovuto aspettare ancora, ma è successo qualcosa che mi ha convinto ad agire. Procederò oggi stesso con quello che sai. Tieniti pronto.

R.


Note

Dunque, questa volta devo proprio scusarmi per il ritardo con cui ho pubblicato, dopo avervi lasciati con la frase shock (?) alla fine dello scorso capitolo. Il motivo principale per cui ho sforato il mese è, ehm, una vecchia passione ritrovata che mi ha fatto dedicare a lei piuttosto che alla scrittura, e non è escluso che prima o poi ci scriva su una fanfiction... Ma va beh, tralasciamo queste precarie giustificazioni e veniamo alle note serie!

Questo che avete letto doveva essere metà del capitolo che avevo in mente, ma il dialogo Cathy/Rodolphus si è dilungato più del previsto, e in effetti la ragazza aveva bisogno di parecchie risposte. Spero di non avervi annoiato e/o ripetuto fatti già noti, alcuni sono talmente chiari nella mia testa che a volte dimentico se li ho già scritti o meno. Il fatto che Rod sia scappato prima della fine della battaglia si ricollega ancora a Storia di una Mangiamorte, quando dice che non ha più nulla da perdere si riferisce chiaramente a sua moglie, che vive solo per Voldemort. Di come Cathy sia nata e stata poi consegnata a Catherine se saprete di più verso la fine, per ora spero che la storia generale sia abbastanza credibile.

Ho reso Cathy volutamente poco informata sugli argomenti sessuali, non vogliatemene. So bene che al giorno d'oggi le dodicenni ne sanno più delle donne adulte, ma questa cosa francamente non mi è mai piaciuta e ho voluto che la mia protagonista fosse più ingenua, anche perché cresciuta in un orfanotrofio di alto rigore morale. Per quanto riguarda il finale, so di aver aggiunto altri interrogativi con la lettera di Rodolphus, ma il prossimo capitolo sarà dedicato al suo POV e prometto che saprete tutto. Finisco qui, se ho lasciato altri punti oscuri chiedete pure! Grazie a tutti gli affezionati lettori ^^

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Capitolo 25
*** Neri come l'inchiostro ***


25


A poche ore dall’avvenimento che avrebbe concluso un progetto durato anni, Rodolphus si sentiva nervoso. Scese in salotto, si affacciò alla finestra, recuperò dalla dispensa una vecchia bottiglia di Whisky Incendiario e se ne versò un numero imprecisato di bicchieri, buttandoli giù come fossero acqua. Ancora adesso, dopo aver preso parte a innumerevoli azioni pericolose e trascorso lunghissimi anni ad Azkaban, le ore che precedevano una missione riuscivano a fargli perdere il controllo. Non aveva alcuna voglia di sentirsi così, se mai ne aveva avuta un tempo. Era ormai vecchio, stanco di intrighi e lotte per il potere, tutto ciò che desiderava era di essere lasciato in pace. C’era riuscito, per un certo periodo; aveva lasciato l’Inghilterra e con essa i suoi antichi legami, consapevole che tornandovi avrebbe trovato la morte o la reclusione. Senza più una causa per cui lottare, senza una famiglia da difendere, mettere radici in un nuovo Paese gli era sembrata la scelta più facile e sensata. Invece, non ci era mai riuscito; tutto ciò che aveva fatto era stato spostarsi di terra in terra come un vagabondo, incapace di allontanare i ricordi e di non cercare in ogni angolo del mondo notizie su coloro che aveva lasciato. Sempre più spesso, pensava a suo fratello: l’ultimo legame di sangue, il vecchio, collerico Rabastan a cui non rimaneva che il carcere a vita, il giusto prezzo per aver combattuto fino all’ultimo istante. Che cosa avrebbe fatto, lui, se fosse stato libero? Di sicuro non avrebbe sprecato l’opportunità in quel modo, si sarebbe costruito una vita altrove dedicandosi ai suoi passatempi preferiti, le risse e le donne. Avrebbe scelto la Germania, terra che da sempre progettavano di visitare assieme, nella quale si praticava la magia più antica e i Purosangue godevano ancora di un certo rispetto, seppure non esercitassero un vero e proprio potere. Se suo fratello fosse stato con lui, forse anche Rodolphus sarebbe uscito dal suo torpore e avrebbe guardato avanti, riuscendo finalmente a dimenticare. Così, aveva fatto ritorno a casa. Voleva rivederlo, spiegargli i motivi del suo abbandono e cercare un modo per tirarlo fuori da Azkaban. Questa era la ragione per cui era tornato, nonché l’unica che ammetteva a se stesso. L’altra, molto più intima e priva di senso, lo tormentava nei momenti in cui era meno vigile, come quando era sul punto di addormentarsi o la testa gli girava per il troppo alcool, esattamente come quella sera.

Lei. Il pensiero di lei non gli aveva mai dato pace, neppure dopo aver saputo che era morta. Saperlo, anzi, era stato anche peggio, perché aveva reso più cruciale e definitiva la sua scelta di allontanarsi. Bellatrix era morta da sola, combattendo per l’unico essere vivente di cui davvero le importasse, come Rodolphus aveva più volte predetto. Si diceva che, dopo che era caduta a terra, il Signore Oscuro avesse cercato di vendicarla; l’unico atto di gentilezza mostrato nei suoi confronti era anche quello che Bellatrix non avrebbe visto mai. Avrebbe dovuto provare pena per lei, sperare che, almeno nell’altro mondo, i suoi desideri irrealizzabili trovassero un po’ di sollievo. E invece no; malgrado tutto ciò che quella donna gli aveva fatto, malgrado avesse sempre avuto ragione sul suo conto e i fatti l’avessero dimostrato, quello che nutriva per lei era ancora un miserabile amore. Aveva speso tutte le lacrime trattenute nella sua vita su una tomba soltanto immaginata, poiché visitarla di persona sarebbe stato troppo rischioso. L’aveva rivista bambina, ragazza e poi donna, ripercorrendo ogni momento passato con lei con insopportabile rimpianto. I ricordi gli apparivano più felici di quanto lo fossero realmente stati, in confronto al vuoto assoluto che ora lo circondava. La loro storia maledetta, sbagliata e incompleta sin dal principio, gli mancava come mai avrebbe creduto possibile. E così iniziavano i se ed i ma, ipotesi più o meno plausibili su come tutto avrebbe potuto essere diverso, se la strada da loro scelta fosse stata un’altra… Ma, per scegliere una strada diversa, bisognava che loro stessi fossero persone diverse. E loro erano Rodolphus e Bellatrix, discendenti di due famiglie e di una sola causa che aveva segnato per sempre il loro destino. Poi, finite le domande, erano cominciati i sogni.

Veniva a trovarlo ogni notte, dapprima con i contorni sfocati di un vecchio ricordo, poi con la concretezza di una persona reale. Sembrava così vera, con il suo corpo caldo e l’espressione impertinente, che delle volte Rodolphus apriva gli occhi convinto di trovarla lì accanto a sé. Non erano sogni piacevoli, come si sarebbe potuto immaginare, e non solo perché il risveglio causava un insopportabile disincanto; sembrava che lei volesse dirgli qualcosa, spronarlo ad aiutarla ancora, come se la sua morte non avesse posto la parola fine sul loro legame. Forse stava impazzendo, ma notte dopo notte aumentava quella sensazione che Bellatrix avesse lasciato qualcosa dietro di sé, e che fosse compito suo andare a recuperarlo. O, forse, era solo una scusa che dava a se stesso per nascondere la vera ragione per cui voleva tornare: rivedere la loro casa, i luoghi in cui avevano vissuto, annusare gli oggetti e i vestiti ancora impregnati dell’odore di lei fino a stare male. Tornare per dirle addio, quell’addio che era stato troppo vigliacco per pronunciare quando ancora poteva e che adesso gli impediva di vivere una vita normale. Non aveva detto niente di tutto ciò a Rabastan e neppure ai Malfoy, che avevano accolto il suo ritorno con gioia; ma era stata questa, in fondo, la causa scatenante di tutto ciò che gli era capitato.

Scoprire dell’esistenza di Catherine era stato un fulmine a ciel sereno e, al tempo stesso, la conferma di quelle sensazioni che l’avevano condotto a casa. Grazie a un messaggio gelosamente nascosto nella sua scrivania, Bellatrix aveva fatto in modo che quella bambina abbandonata non restasse taciuta per sempre, quasi predicendo che un giorno o l’altro qualcuno l’avrebbe trovata. Nei ricordi che aveva lasciato non si accennava al padre di Catherine, ma Rodolphus sapeva con assoluta certezza di non essere lui. Innanzitutto, perché nel periodo in cui Cathy era stata concepita si trovava ancora ad Azkaban, e poi perché, nei giorni che avevano preceduto la nascita, Bellatrix si comportava in modo strano e aveva preteso di allontanarsi da tutti per un paio di mesi, scelta assolutamente poco da lei. Se si fosse trattato del frutto di un amante occasionale, sua moglie non avrebbe avuto tanta premura nel nascondere la gravidanza, senza contare che avrebbe potuto sbarazzarsi del feto molto prima di partorirlo. No, se era arrivata al punto di allontanarsi dal suo amato padrone per salvarle la vita, quella bambina doveva avere per lei un valore inestimabile. E, mettendo sulla bilancia tutto questo, la soluzione non poteva essere che una: quella che conosceva da sempre, ma di cui, masochista, aveva voluto la conferma.

Trovare Catherine Scott si era rivelato estremamente facile, era bastato riferirne il nome e l’anno di nascita al direttore del Saint George perché egli lo indirizzasse verso di lei. Vederla, quel primo giorno che non avrebbe mai dimenticato, era stato come tornare indietro nel tempo: la bambina era identica a Bellatrix. L’espressione corrucciata e un po’ intimidita, la regalità del volto tipica dei Black, il fisico magro e il portamento fiero… In ogni tratto era la fotocopia di sua madre bambina, quando Rodolphus l’aveva conosciuta a soli undici anni. E, se anche non fosse stata così simile a lei, l’avrebbe individuata soltanto dai capelli, lisci e neri come l’inchiostro, dalle punte ribelli che si protendevano sul suo viso e sui vestiti. Quante volte li aveva visti accanto a sé, sparsi sul cuscino, irriverenti come artigli che gli rapivano gli occhi e l’anima… Abbastanza da poterli riconoscere in qualsiasi luogo e situazione, anche straordinaria come quella.

Le iridi erano ugualmente nere, seppure non si poteva dire con certezza che appartenessero ai Black. Sapeva bene che anche gli occhi del Signore Oscuro, prima di diventare rossi per gli incantesimi a cui si era sottoposto, fossero dello stesso colore cupo di Bellatrix. Solo in un tratto Catherine era completamente diversa da sua madre: le labbra. Troppo piene per essere state ereditate da Bella, le loro origini andavano senz’altro ricercate nel ramo paterno. Le labbra dei Riddle. A quel pensiero, si era ridestato dall’incanto che lo avvolgeva e aveva lanciato alla bambina uno sguardo rabbioso, che di certo lei non avrebbe saputo interpretare.

Era tornato a farle visite a cadenze regolari, senza sapere come gestire quell’incredibile scoperta. L’osservava per lungo tempo, combattuto tra l’estasi di rivedere quei tratti e la furia per quelle labbra carnose, ma non parlava mai. D’altronde, cosa avrebbe dovuto dirle? Ogni parola rivelata poteva avere effetti imprevedibili, bisognava dosare con cura la verità e decidere cosa fare di lei. Prima di tutto, era intenzionato a conoscere con certezza la sua paternità, ma non sapeva come riuscirci. Fu proprio Cathy, incredibilmente, a dargliene l’occasione, il giorno in cui gli raccontò delle sue magie accidentali.

Da ciò che la bambina gli disse, fu chiaro che la sua somiglianza con Bellatrix non andava oltre l’aspetto fisico. Le sue idee erano incredibilmente filobabbane, non sembrava una strega particolarmente prodigiosa e come erede di Salazar Serpeverde era davvero una delusione. L’avesse vista sua madre, le avrebbe fatto cambiare totalmente opinione a suon di Cruciatus. Ma d'altronde, volendo essere realistici, era stata Bellatrix stessa a lasciarla crescere in un orfanotrofio, dove i Babbani erano le uniche persone che conosceva e l’ambiente poco adatto a sviluppare la magia. Forse, frequentando Hogwarts, la sua vera natura sarebbe riemersa e Catherine si sarebbe trasformata nella bambina che doveva essere, una strega orgogliosa e dall’immenso potere; d’altra parte, Rodolphus non era affatto certo che ci sarebbe andata.

Tutto cambiò alla fine della loro conversazione, quando le parole di lui fecero infuriare Catherine e gli occhi della bambina gli rivelarono ciò che aspettava di sapere. La verità fece male, per quanto ne fosse preparato, e lo convinse a prendere una decisione che rimandava da troppo tempo. Si avvicinò alla porta pensando che Cathy non avrebbe potuto essergli di alcuna utilità, che la sua stessa esistenza era un enorme errore e che, se a Bellatrix era mancato il coraggio, sarebbe stato lui a porvi rimedio. La sua mano era già sulla bacchetta, pronta ad agire, quando la bambina se n’era uscita con quella frase stupida: secondo me sei un uomo buono, anche se non lo dai a vedere. Avrebbe dovuto ridere, voltarsi e dimostrarle che gli sbagliava, invece si era fermato. Per qualche strana ragione, quell’opinione espressa dalla sua voce giovane e innocente l’aveva fatto tentennare. La verità era che non se l’aspettava, non da lei, non in quel momento. A dirla tutta, non credeva che nessuno l’avrebbe mai definito tale.

Un uomo buono. Chi gliel’aveva mai detto? Forse suo padre, quando lo scherniva per essere caduto durante un allenamento, mettendolo a confronto con Rabastan e lamentando quanto fosse più debole di lui. O forse proprio suo fratello, quando, di fronte alle loro prime vittime, Rodolphus mostrava esitazione e lasciava a lui il compito di finirle. In ogni caso, l’essere troppo buono era sempre stato qualcosa di cui vergognarsi, e da cui aveva preso le distanze molto tempo prima. Cathy, invece, colei che era nata dagli individui meno buoni della Terra, l’aveva detto come fosse un complimento, come se gli stesse offrendo una possibilità di redimersi; quasi avesse intuito ciò che lui stava per fare, come se avesse potuto guardare nel suo passato e scoprire che, un tempo, per Rodolphus uccidere non era un’abitudine. Il troppo pensare gli aveva tolto la lucidità necessaria, così se n’era andato, limitandosi a dirle che si sbagliava.

Quella notte non aveva chiuso occhio. Ogni suo nervo era teso a ragionare su quale fosse il comportamento migliore da tenere con Cathy, se davvero ucciderla fosse l’unica soluzione. A cosa poteva servirgli una strega bambina del tutto simile alle altre, seppure con delle origini particolari? A nulla, senza dubbio. Porre fine alla sua inutile vita sarebbe stato come togliersi un peso, oltre che una soddisfazione personale. Eppure… Che fosse come tutte le altre, o persino meno dotata, l’aveva scoperto solo dopo averla conosciuta. Inizialmente, si sarebbe aspettato una piccola erede di Salazar di tutto rispetto, con gli immensi poteri dei suoi antenati mescolati al sangue puro dei Black. In effetti, ne aveva quasi avuto paura…

Paura, sì. E cosa teneva le persone soggiogate, costrette a fare il volere di qualcun altro, più della paura? Rodolphus, che aveva trascorso anni al servizio del Signore Oscuro, lo sapeva meglio di chiunque altro. Non erano molti i Mangiamorte realmente dediti alla causa: una buona parte veniva reclutata grazie alle promesse di ricchezza e onore, mentre la maggioranza era semplicemente troppo codarda per sottrarsi. I loro stessi nemici, inclusi i combattenti più valorosi, finivano spesso per piegarsi dopo aver subito minacce ai danni dei propri familiari. Non c’era niente che costringesse le persone alla resa più della paura per coloro che amavano, dettaglio che il Signore Oscuro aveva più volte sfruttato. E allora, ecco la soluzione: bisognava alimentare la paura. Poco importava che fosse tutta una montatura, che scavando a fondo si sarebbe scoperta una bambina ingenua ed innocente; erano i particolari a fare la differenza e, se ben sfruttati, avrebbero fornito a Rodolphus la sua occasione.

Così, alle prime luci dell’alba, i progetti dell’uomo su Cathy erano completamente cambiati. La bambina, inizialmente considerata una seccatura, era improvvisamente diventata una miniera d’oro. Si sarebbe dovuto formarla, senza dubbio; com’era a quell’età, quasi del tutto priva di poteri magici, non avrebbe spaventato neppure un Vermicolo. Di conseguenza, era necessario che frequentasse Hogwarts. Convincere il Babbano Bennett non sarebbe stato difficile: l’uomo si mostrava piuttosto sensibile al fascino della moneta, che nella vecchia camera blindata dei Lestrange non mancava di certo, e nel caso in cui l’oro non fosse bastato c’era sempre la possibilità di piegarlo con la Maledizione Imperius. In seguito, tutto ciò che Rodolphus avrebbe dovuto fare era informarsi su ciò che accadeva a scuola, sia relativamente al profitto di Cathy sia riguardo il resto. Se, come si auspicava, la bambina fosse finita a Serpeverde (non riusciva a immaginare una Casa più adatta a lei), sarebbe già stato un primo passo. Avrebbe avuto modo di avvicinarsi ai discendenti dei Purosangue ed evitare i Nati Babbani, alimentando così le prime dicerie sul suo conto. Era poi quasi certo, data la frequenza con cui Cathy perdeva le staffe, che si sarebbe scatenata almeno una lite furiosa durante la quale i suoi compagni avrebbero scoperto il dettaglio degli occhi rossi. Infine, altro particolare non da poco, la sua capacità di provocare disastri climatici avrebbe potuto mostrare i suoi effetti, che con un po’ di fortuna si sarebbero scatenati ai danni di uno studente.

Non era andato tutto come Rodolphus aveva previsto. Lo Smistamento si era rivelato più che una sorpresa, Cathy aveva disdegnato i Serpeverde preferendo i Mezzosangue Grifondoro e il suo insegnante di Difesa era poco meno che Albert Young, pronto a mettergli i bastoni fra le ruote anche dopo dodici anni. D’altra parte, non si poteva dire che la sua giovane pupilla avesse fallito su tutti i fronti: era riuscita a far parlare di sé sin dal primo giorno, cosa che lui stesso non si sarebbe mai auspicato, ed aveva provocato abbastanza danni da attirare l’attenzione di studenti e professori. Certo, c’era stato bisogno di qualche magistrale spintarella: Rodolphus, grazie alle capacità di persuasione di cui andava particolarmente fiero, era riuscito a convincere Cathy che era lui l’uomo giusto di cui fidarsi e non certo Young, il quale mirava soltanto a tarparle le ali. Del resto, non si trattava di bugie: che l’ex Auror fosse ossessionato dalla magia oscura al punto di vederla ovunque era cosa risaputa, se Cathy fosse stata sua figlia le avrebbe comunque detto di non dargli ascolto. Il fatto che frenare i poteri della ragazzina andasse contro i suoi interessi era secondario, seppure si sposasse incredibilmente bene con l’opinione che aveva di Young. In ogni caso, era riuscito a convincerla a prendere lezioni da lui, quanto bastava perché il dominio sugli elementi si ripresentasse in maniera violenta e incontrollata. E la disgrazia, infine, era successa: in un’occasione incredibilmente fortuita, a venire ferita da Cathy era stata proprio la sua amica Nata Babbana, offrendo a Rodolphus la sua occasione su un piatto d’argento. A quel punto, non c’era più ragione di aspettare; ciò che doveva accadere era accaduto, la ragazzina era libera di conoscere le sue origini e Rodolphus di mettere in atto il suo piano, rivelando l’identità di Cathy alla persona giusta. Non era stato facile scegliere quale: doveva trattarsi di qualcuno che lavorava al Ministero e che avesse abbastanza potere da intercedere presso i piani alti. D’altra parte, non doveva essere un mago troppo coraggioso, ma uno che in passato avesse commesso degli errori preferendo il prestigio personale piuttosto che schierarsi. Uno che fosse sopravvissuto alla Seconda Guerra Magica subendo delle perdite profonde, così che l’idea di un erede del Signore Oscuro potesse fargli rivivere l’incubo di quegli anni. Uno che, nella migliore delle ipotesi, avesse dei figli da mandare a Hogwarts e un conto in sospeso con la famiglia Lestrange. Uno come Percy Weasley.

*

Al momento di agire, Rodolphus si affidò ai gesti meccanici e smise di pensare. Come aveva fatto mille volte anni addietro, allontanò dalla mente ogni possibile imprevisto e si concentrò solo sugli aspetti pratici, così che la paura non potesse prendere il sopravvento. Una buona dose di Polvere Volante era già sulla mensola del camino, pronta a essere utilizzata da tempo immemorabile. Il resto era semplice, una sequenza di azioni banali: pochi granelli di quella sostanza gettati nel focolare, una destinazione pronunciata con voce chiara e una fiamma color smeraldo nella quale lanciarsi, trovando ad attenderlo, dall’altra parte, un luogo che non credeva di dover più rivedere.

Quasi non si accorse del suo arrivo, l’uomo dietro la scrivania, intento com’era a sistemare pile di documenti marchiati con il simbolo del Ministero. D’altra parte, quello era giorno di visite, e il viavai che attraversava la stanza era tale da non destare immediatamente l’attenzione di un alto funzionario come Weasley. Fortunatamente, in quel momento era solo, e Rodolphus non perse tempo: con un incantesimo chiuse a chiave la porta, con un altro serrò temporaneamente l’ingresso del camino e, infine, puntò la bacchetta contro lo sventurato Percy. Preso del tutto in contropiede, l’uomo indietreggiò così tanto da rovesciare la sedia, portandosi dietro anche un mucchio di pergamene che quel giorno sarebbero rimaste in disordine. A quella vista, Rodolphus non poté far altro che rilassarsi e gioire del suo successo, inalterato come se avesse praticato incantesimi di quel tipo fino al giorno prima.

Respirando affannosamente, Percy Weasley alzò le mani e non emise alcun suono, tenendo fisso lo sguardo sulla bacchetta di Rod. Il suo assalitore lo osservò, incuriosito: aveva sostituito i vecchi occhiali di corno con un paio dalla montatura più moderna, ma l’aspetto serio e pomposo era lo stesso di un decennio prima. Avevano persino combattuto l’uno contro l’altro, a Hogwarts, durante l’ultima battaglia; chissà se Weasley lo ricordava ancora.

“Chi sei?” domandò finalmente l’uomo, recuperando un briciolo del suo coraggio e guardandolo negli occhi. “Come osi entrare qui e minacciare un funzionario nel Ministero?”

Rodolphus gli sorrise, chiedendosi quanto avrebbe impiegato a ricordarsi chi era. Forse, la sorpresa di vederlo lì era riuscita a offuscare la sua ragionevolezza.

“Ma come, davvero non ti ricordi di me?” lo schernì, avvicinandosi di qualche passo. “Sono deluso. È bastato così poco perché il Ministero dimenticasse? Proprio di me, l’unico che sia riuscito a sfuggirgli negli ultimi dieci anni?”

Percy aggrottò le sopracciglia, sforzandosi di riconoscere il volto del suo aggressore. Poi, dopo solo pochi istanti, la consapevolezza si fece strada in lui: l’incredulità divenne sconcerto e, infine, paura. Paura e rabbia, per essersi reso così vulnerabile nei confronti di un ricercato proprio quando credeva che qualsiasi minaccia fosse stata sventata. Era dura vedersi traditi quando la vittoria sembrava a portata di mano, Rodolphus lo sapeva meglio di chiunque altro.

“Tu… Tu… Non posso crederci! Come hai osato presentarti qui, nel Ministero? Sei un ricercato! Gli Auror aspettano solo di portarti ad Azkaban con gli altri tuoi compari! Cosa speri di ottenere, la grazia, forse? Se è così, capiti nel posto sbagliato”.

Rodolphus smise di sorridere, adeguando i suoi modi al tono di Weasley. Se era tanto sciocco da credere che lui fosse venuto a chiedere misericordia, era meglio ravvederlo subito e fargli capire con chi aveva a che fare.

“Ti sbagli. Non ho nessuna intenzione di ottenere pietà, tantomeno da un traditore del suo sangue come te. D’altra parte, non voglio neanche continuare a farvi la guerra; sono stanco, sai, di tutto questo sfuggire alla giustizia. Potrei continuare a farlo e sono certo che non mi prendereste mai, ma l’età ha i suoi effetti anche su un mago di esperienza. Quello che vorrei, in realtà, è essere lasciato in pace”.

Percy sondò con gli occhi la stanza, probabilmente alla ricerca della bacchetta o di un qualsiasi modo per fermare Rodolphus. Quando capì che non c’era nulla da fare, si arrese a continuare quella conversazione, seppure il suo sguardo mostrasse un autentico odio nei confronti del nemico.

“Sei uno stupido, allora” commentò, con una tempra invidiabile per un mago disarmato. “Puoi anche uccidermi se vuoi, ma il Ministero non si lascerà intimorire. Sapranno che sei tornato in Inghilterra, ti cercheranno come hanno fatto nei primi tempi e ti troveranno, Lestrange. Fossero queste le mie ultime parole, giuro che ti troveranno!”

“Oh, ma io non voglio ucciderti, tutt’altro. Voglio solo fare due chiacchiere. Nessuno saprà che sono tornato, a meno che tu non glielo dica. E mi sento abbastanza sicuro che non lo farai, Weasley”.

Per rendere più chiare le sue intenzioni, abbassò la mira della bacchetta e se la infilò in tasca, seppur mantenendola prudentemente a portata di mano. Sollevato e sorpreso, Percy si mostrò appena più condiscendente, rimanendo comunque sulla difensiva.

“Dovrai darmi una buona ragione per non farlo, allora” replicò, in tono fermo. “E non sono affatto certo che ne esista una”.

“Tu dici? Potrei stupirti, invece. Sai, oggi mi sento piuttosto magnanimo, il che è un’occasione da non sprecare. Ti darò un’informazione, Weasley; una che qualsiasi uomo del Ministero pagherebbe per riferire ai propri capi. Da quel che ho sentito, non sei il tipo che disdegna una tale possibilità”.

Cercò di non far apparire quella considerazione come un’offesa, ma fece molta fatica. Non gli erano mai piaciuti gli arrivisti, quelli che avrebbero venduto anche la madre pur di ottenere potere. Tutto sommato, stimava maggiormente gli Auror idealisti come Young piuttosto che i leccapiedi del Ministero.

Percy si incupì immediatamente, punto sul vivo dalla sua affermazione, e si affrettò a negare: “Non so cosa ti abbiano detto, ma si sbagliavano. Non sono più quella persona”.

Rodolphus se lo aspettava. Aveva già una seconda carta da giocare, nel caso in cui Weasley avesse assunto la parte dell’impiegato incorruttibile. Con il tono più mellifluo di cui fosse capace, aggiunse: “In effetti hai ragione, non sei più quello di una volta. Non da quando il Ministro ti ha bellamente rimpiazzato con Charles Macdonald, un falegname senza arte né parte che ha ottenuto il suo ruolo grazie a un colpo di fortuna. Dev’essere molto frustrante vedersi sorpassare da un tipo del genere, dopo aver dedicato tutta la vita alla carriera. Hai tutta la mia comprensione”.

“Non m’interessa la tua comprensione, né ho voglia di parlare del mio lavoro. Di’ quello che mi devi dire e facciamola finita”.

Weasley faceva il duro, ma era chiaro come il sole che le sue parole l’avevano ferito. Non a caso, Rodolphus si era documentato per anni prima di organizzare quell’incontro, la sua vita solitaria gli aveva fornito molto tempo per valutare ogni possibile stratagemma. Nessuna delle sue parole era buttata lì a caso, ciascuna aveva un ruolo preciso e avrebbe condotto Weasley, come si auspicava, a fare la scelta giusta.

“D’accordo” acconsentì, prendendo posto di fronte alla scrivania. Percy, che nel frattempo aveva recuperato la sua sedia, lo fissò come un interlocutore seccante che gli stava rubando tempo prezioso.

“Neanche a me piacciono i giri di parole, quindi arrivo al punto. Comincerò a mostrarti questa”.

Infilò la mano nella stessa tasca in cui teneva la bacchetta e Percy si ritrasse una seconda volta, ma tutto ciò che Rodolphus intendeva recuperare era una fotografia. La porse a Weasley ed egli la fissò perplesso, incapace di afferrarne il senso. Dopo averla studiata per qualche istante, commentò: “È una bambina…”

“Sì, è una bambina. Ma non una qualunque, questo è certo. Avrai sentito del primo Smistamento fallito nella storia di Hogwars, di una certa Catherine Scott in grado di provocare tempeste e terremoti. Tutti credono che sia una strega come le altre, ma io conosco la verità. Lei è un’arma pronta a colpire, una che al vostro posto terrei sotto controllo”. Abbassò il tono di voce e il proprio viso verso quello di Weasley, prima di aggiungere: “Una degna erede del Signore Oscuro”.

“Che cosa stai dicendo? Ho sentito parlare di lei, ma da qui a definirla… Be’, pericolosa… Ne passa. È solo una ragazzina, cosa credi che potrebbe…”

“Non mi hai ascoltato bene, Weasley” replicò Rodolphus, fingendosi irritato. “Quando ho detto ‘erede’ non intendevo in senso figurato. È veramente la figlia di Tu-sai-chi. Più chiaro, detto in questo modo?”

La reazione di Percy fu esattamente quella che si era immaginato. Il suo volto roseo impallidì e le lentiggini spiccarono maggiormente sulle guance incavate, invecchiandolo di dieci anni. Poi, dopo la sorpresa, venne il rifiuto.

“Tu sei pazzo!” sbottò, in una reazione del tutto simile a quella che aveva avuto Cathy nell’apprendere la verità. “Azkaban deve averti bruciato il cervello. Come puoi sostenere una cosa simile, con quali prove?”

“Ho tutte le prove del caso, ma so già che se pure te le elencassi fingeresti di non vederle. Per questo, fa’ le tue ricerche autonomamente: informati su di lei, chiedi degli strani avvenimenti che l’hanno vista protagonista, scopri il colore dei suoi occhi quando è arrabbiata e la sua capacità di parlare ai serpenti. Troverai solo la conferma di ciò che ti ho detto, e non potrai più negare”.

A quel punto, Percy ammutolì, tornando a guardare la fotografia come ipnotizzato. Rodolphus immaginò che stesse studiando i tratti di Cathy con più attenzione, cercando in essi una conferma o una smentita della realtà appena appresa. Poco importava che la ragazzina assomigliasse in tutto e per tutto a sua madre: il potere della suggestione era forte come pochi altri al mondo, avrebbe modificato la percezione di Weasley in modo tale da fargli notare analogie inesistenti. Dopo qualche istante, l’uomo allontanò quell’immagine da sé e abbassò il capo, finalmente disposto ad accettare i fatti.

“Mi credi, adesso?” gli domandò Rodolphus, pur essendo già convinto della risposta. “Sai che non sono uno sciocco, né più pazzo di quanto lo sia tu. Se non fosse la verità, non avrei modo di farla franca e non otterrei mai quello che voglio. Sai cos’è successo a Hogwarts, negli ultimi giorni? Te lo anticipo io: la mia adorabile bambina ha attaccato una sua compagna, una figlia di Babbani con cui stava litigando. La ragazza è rimasta ferita, poteva essere spacciata se qualcuno non l’avesse soccorsa. E tu… Tu hai una figlia in età scolare, non è vero? Come si chiama?”

“Molly” rispose Percy, come un automa. “Andrà a Hogwarts il prossimo anno”.

“Come la nonna. Che tenero, Weasley, mi complimento”. Un impeto di rabbia si risvegliò nel suo petto al ricordo di quella donna, ma Rodolphus lo mise a tacere. Non era ancora il momento di lanciare il suo asso nella manica, quello che avrebbe concluso la conversazione. Così, tornò al punto che gli interessava: “Pensa quanto sarebbe divertente, avere gli eredi di coloro che mi vogliono in galera nella stessa scuola della mia pupilla. Lei si fida ciecamente di me, sai? Sono il suo tutore, l’unico che si sia mai occupato di lei e a cui deve riconoscenza. I suoi poteri distruttivi agiscono già bene di per sé, ma se la indirizzassi nella giusta direzione sono certo che farebbero anche di meglio. Ha solo dodici anni e tutto il tempo di crescere…”

“Basta, Lestrange”. Percy rialzò il capo, sostenendo nuovamente il suo sguardo con odio e rabbia. Stringeva così forte il bordo della scrivania che avrebbe potuto frantumarlo. “Che cosa vuoi?”

“Come ti dicevo, oggi mi sento magnanimo. Avrei potuto tenere per me questo bel segreto e sfruttarlo a mio vantaggio, invece sono venuto fin qui per informarti. Che ne dici, qual è il giusto prezzo per questo? La libertà ti sembra sufficiente?”

“Libertà? Non capisco…”

“Te lo spiego io, Weasley. Smettete di cercarmi, dimenticatevi che esisto e lasciatemi in pace. Io non mi farò vedere più in giro e non farò niente che possa nuocere a te o al Ministero. Mi sembra una scelta vantaggiosa, considerando il tempo e le risorse che avete speso per trovarmi, senza successo”.

Percy appoggiò il mento sulle mani e rifletté sulla proposta, visibilmente poco convinto. Lasciare libero un latitante andava certamente contro la sua morale e, se non era del tutto stupido, aveva anche capito che la richiesta di Rodolphus non poteva limitarsi a quello.

“Le dismissioni delle tue ricerche sono già in atto” osservò, infatti, dopo la sua attenta analisi.

“E allora acceleratele! Andiamo, Weasley, non dirmi che uno come te non ha abbastanza potere da intercedere presso l’Ufficio di Legge… Con i parenti che ti ritrovi lì sarà un gioco da ragazzi”.

Rodolphus gli strizzò l’occhio, riferendosi chiaramente al fratello che lavorava come Auror e a Harry Potter, capo del Dipartimento nonché suo cognato ed amico. La sua vicinanza al Ministro in persona, poi, non era neanche da evidenziare: la considerava sottintesa.

“E poi?” chiese Percy, stentando a credere che le proposte finissero lì. “Cos’altro vuoi?”

Rodolphus sorrise, ammirando suo malgrado la furbizia del mago. Tuttavia, decise di tenerlo sulla corda ancora per un po’: “Chi ti dice che ci sia altro?”

“Ne sono certo. Non saresti venuto fin qui a raccontarmi della ragazza solo per questo motivo. A dire il vero, credo che non saresti neppure tornato in Inghilterra”.

Non aveva tutti i torti, per non dire che il suo ragionamento filava liscio come l’olio. Rodolphus era già libero, avrebbe potuto esserlo per tutta la vita finché se ne restava lontano dal Ministero; ma qualcun altro no.

“Voglio anche la libertà per mio fratello” aggiunse, giocando finalmente a carte scoperte. “Rabastan”.

Percy impallidì una seconda volta, incredulo come se gli fosse stata chiesta la luna.

“Tu sei pazzo davvero!” ripeté, giustificando tutto con quell’esclamazione. “Tuo fratello non sarà mai libero, è condannato al carcere a vita! Cosa credi, che potrei aiutare un Mangiamorte a evadere? Sei fuori strada”.

Questa volta, l’uomo si mostrava completamente contrario a prendere in considerazione l’idea. Rodolphus capì che alzando la voce e minacciandolo non avrebbe ottenuto nulla, così continuò in tono pacato: “È una questione di punti di vista. Tu lo chiami Mangiamorte, io lo considero un uomo stanco che ha pagato abbastanza per le sue azioni. Di’, a chi importerebbe davvero se lui fosse dentro o fuori da Azkaban? La guerra è finita da più di dieci anni e né io, né lui abbiamo intenzione di riprenderla. Dovesse nascere davvero un altro Signore Oscuro, questa volta gli volterei le spalle e andrei per la mia strada. Anche un ex Mangiamorte impara dai suoi errori, Weasley. Parola di Lestrange”.

Non aveva fatto fatica a pronunciare quelle parole, a mostrarsi sincero, perché lo era veramente. Seppure in un modo diverso da come sarebbe piaciuto a Cathy, si era effettivamente pentito di aver buttato via la sua vita combattendo per una guerra inutile. Non era certo che Rabastan pensasse lo stesso, ma non lo considerava così incauto da mettersi in gioco senza una guida; e Cathy, non solo per la sua giovane età, era tutt’altro che tale.

“Ci sono ancora le vittime di quella guerra, però” riprese Percy, appena più calmo ma fermo sulle sue posizioni. “A loro importa di avere giustizia, e tuo fratello ha sulla coscienza un numero impressionante di vite rubate. Se il Wizengamot ha deciso che pagherà fino alla morte, io non posso oppormi. Mi dispiace, Lestrange, ma se anche fossi disposto a crederti sulla parola, quello che mi chiedi è troppo. Non lo farò”.

Aveva tutta l’aria di una risposta definitiva, ma Rodolphus non perse la calma. Si alzò in piedi, invece, e, come se la cosa fosse di secondaria importanza, fece per congedarsi: “D’accordo, Weasley. Se non vuoi ripagarmi per la mia preziosa informazione, non posso costringerti. Se dovessi cambiare idea, comunque, saprai cosa fare. Nel frattempo, non posso garantire che Catherine non continui a fare ciò per cui è nata. E adesso, tolgo il disturbo”.

Nell’esatto istante in cui Rodolphus si voltò per raggiungere il camino, un rumore di sedia spostata e di un oggetto che sferzava l’aria anticipò quello che Weasley aveva intenzione di fare. Quando Rodolphus tornò a guardarlo, la bacchetta nelle mani del mago non ebbe tempo di lanciare un incantesimo, perché volò via immediatamente dalle mani del padrone. Quando si trattava di riflessi pronti, un impiegato del Ministero non aveva chance contro un ex combattente.

“Ahia, Weasley. Non ti hanno detto che è poco educato attaccare alle spalle? Fortunatamente per te, mi servi vivo e integro. Pensa alla mia proposta, è la scelta migliore che puoi fare”.

Si servì di una seconda manciata di Polvere Volante e la lanciò nel camino, dopo aver disattivato l’incantesimo di blocco. Poi, un attimo prima di lasciare la stanza, si rivolse di nuovo a Weasley.

“Dimenticavo” disse, in una minaccia velata di cortesia. “Salutami tua madre”.

L’ultima cosa che vide, prima di essere accolto dalla fiamma verde, fu l’espressione terrorizzata di Percy che assorbiva quelle ultime parole. Ricordargli che anche sua madre era un’assassina era stato il modo migliore per concludere quell’incontro, così da metterla sul suo stesso piano e rammentargli di un certo regolamento di conti. Non aveva intenzione di vendicare Bellatrix, per quanto gli sarebbe piaciuto; al momento, sapeva di avere in pugno la vittoria e questo gli bastava.

*

Era solo questione di giorni prima che Percy prendesse la decisione giusta e qualcosa si smuovesse, ne era più che sicuro. Per questo aveva inviato preventivamente una lettera a Rabastan, raccomandandogli di tenersi pronto. Una volta che suo fratello fosse stato libero, l’avrebbe raggiunto a casa e da lì sarebbero partiti insieme, verso la loro nuova vita. Poco importava che la piccola Cathy sarebbe stata nei guai, accerchiata dagli Auror come una criminale; ciò che le accadeva non era più affar suo, dopo averla sfruttata per i propri interessi. In fondo, la ragazza non era che una bastarda dimostrazione dei suoi fallimenti, e tenerla davanti agli occhi ogni giorno si rivelava una vera seccatura.

Quella notte dormì sereno, certo di non ricevere visite inaspettate e di potersi considerare al sicuro. Tuttavia, alle prime luci dell’alba, capelli neri come l’inchiostro tornarono a popolare i suoi sogni, mettendolo in agitazione al punto di svegliarsi di colpo. Lo lasciarono disorientato, spaventato, in un letto umido di sudore: perché non erano quelli di Bellatrix.


Note

Ehm, salve a tutti. Questa volta il ritardo è così tremendo che non c'è giustificazione che tenga, per cui non ci provo nemmeno. Vi dico così, a titolo infomativo, che l'estate e lo studio hanno fatto la loro parte, insieme a una storia che ho scritto per un contest. "Per fortuna" in questi giorni sto poco bene e ho avuto tempo per finire il capitolo e pubblicare!

Riguardo la storia, poco da dire, nella speranza che non vi siate dimenticati i capitoli precedenti e di conseguenza vi sia risultato tutto confuso..! La prima parte spiega finalmente tutti i pensieri e i marchingegni di Rodolphus nei riguardi di Cathy, raccontando anche gli stessi eventi del terzo capitolo ma dal punto di vista opposto. Nella seconda, Rod mette in alto il suo piano scegliendo come vittima Percy Weasley. Mi scuso in anticipo, nel caso ci siano amanti di questo personaggio tra i lettori, di avergli dato una parte indegna, ma mi è sembrato l'unico che potesse ricoprirla. Per inciso, credo veramente che abbia imparato dai suoi errori e sia cambiato, ma ahimé la brutta fama potrebbe continuare a seguirlo. Come al solito, se avete dubbi non avete che da chiedere :) A presto!

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Capitolo 26
*** La parte migliore ***


26


“Regina in E7”.

Cathy osservava con impazienza l’elegante scacchiera davanti a sé, in attesa che i pezzi magici rispondessero al suo comando. Le dita che picchettavano il tavolino scandivano il ritmo della sua concentrazione, assieme alle gocce d’acqua che solcavano lente i vetri della finestra. Era così da giorni: cielo grigio, freddo, pioggia fine e continua, che nell’insieme annullavano ogni interesse a uscire di casa. Gli scacchi erano una di quelle rare attività che riuscivano ad occuparle il tempo senza fargliene sentire il peso, assorbendo la concentrazione della ragazza anche per un intero pomeriggio. E in un periodo come quello, per Cathy, ogni opportunità di distrarsi era vitale come l’aria.

“Ho detto” ripeté, pensando che i pezzi fossero duri di comprendonio, “regina in E7!”

Ma quella non si mosse, mantenendo la sua fiera posizione nell’ultima casella in cui era stata lasciata. Pur se era del tutto inespressiva, Cathy ebbe la strana sensazione che quella donnina di marmo si stesse prendendo gioco di lei.

Di fronte, il suo avversario scosse la testa e ridacchiò. Voleva sembrare esasperato, ma l’ostinazione di Cathy nel ripetere sempre le mosse sbagliate era troppo divertente per rimanere impassibili. Infine le spiegò, ancora: “Quante volte devo dirti che la regina non può saltare gli altri pezzi? Si dà il caso che il tuo cavallo sia proprio sulla sua traiettoria…”

Cathy osservò il punto che Rodolphus le stava indicando e fece una smorfia, accorgendosi che aveva ragione. Era seccante venire sempre interrotta quando era certa di aver trovato la mossa perfetta.

“Ah” mugugnò, delusa. “Comunque non sono così sicura, Evan ha sempre detto che la regina può muoversi come tutti gli altri pezzi!”

“Forse intendeva ‘in tutte le direzioni’, non che può imitare il cavallo. Gioco a scacchi da molto più tempo di te e di lui, ho le stesse probabilità di sbagliarmi quante tu ne hai di vincere: zero”.

Quando se ne usciva con frase come quelle, a Cathy veniva un’irrefrenabile voglia di mandare tutto all’aria e prenderlo a pugni. Non pretendeva che Rodolphus la lasciasse vincere, ma un po’ di comprensione al posto della solita ironia le avrebbe senz’altro fatto piacere. Tuttavia, pur ospitandola nella propria casa, lui non era suo padre e neppure si comportava come tale, rimarcando in ogni momento che il suo unico ruolo nei suoi confronti era quello di tutore. La dolcezza non faceva parte di quell’uomo, questo era chiaro da sempre ed era il caso che Cathy se ne facesse una ragione.

“Beh, comunque potrebbero anche dirmi che sto sbagliando invece di restarsene lì impalati. I tuoi scacchi sono noiosi, non parlano e non combattono… Quelli di Evan fanno molta più scena e danno anche consigli al giocatore!”

Rodolphus alzò le spalle con noncuranza, convinto che la scacchiera, come tutto ciò che possedeva, fosse di qualità nettamente superiore rispetto a quelle degli altri. “Evan ha subito molto l’influenza di suo padre, anche nella scelta degli acquisti” ipotizzò, come c’era da aspettarsi. “Sicuramente li avranno comprati in uno di quei negozi per bambini che scimmiottano gli articoli Babbani. Questi qui sono pezzi rari, tradizionali; solo le famiglie magiche più antiche li possiedono”.

Cathy sbuffò e abbandonò il proprio posto, stufa di sentir parlare di antiche famiglie e purezza di sangue. Si trovava in quella casa da ormai due settimane e tutto ciò che Rodolphus riusciva a ripeterle era quanto dovesse andare fiera delle proprie origini, senza rendersi conto che ogni accenno al suo passato era come una pugnalata al petto. Dopo la batosta che aveva accompagnato il suo arrivo, l’umore di Cathy era passato attraverso vari stadi: dapprima si era sentita stordita, incapace di credere a ciò che era successo e autoconvincendosi che dovesse trattarsi di un brutto sogno; poi, quando le scuse non bastavano più, una disperazione cieca si era impadronita di lei e aveva influito anche sulla sua salute, costringendola a letto per tre giorni con la febbre alta. Infine, una mattina, si era svegliata con la fronte fredda e senza più lacrime a rigarle il viso, grazie agli intrugli che Wolly le aveva somministrato. Si era chiesta il perché di quell’improvviso benessere ed era arrivata alla conclusione che, semplicemente, non c’era più motivo per stare male: il fondo del barile era stato raggiunto, finché fosse rimasta al riparo di quelle mura non ci sarebbero state altre preoccupazioni né pericoli da affrontare. Gli unici suoi nemici erano i pensieri, ragion per cui doveva tenersene alla larga: a questo scopo, aveva cercato mille attività per svagarsi, convincendo persino il suo tutore ad abbandonare la sua consueta solitudine per farle compagnia.

I giochi erano un ottimo antidoto al suo malessere, ma, come tutte le cose, prima o poi avevano una fine. In momenti come quelli, Cathy si ritrovava a pensare alla scuola e agli amici che aveva lasciato con gran nostalgia, rimpiangendo i tempi in cui il suo unico problema era affrontare le lezioni del giorno successivo. Le mancavano le cose più stupide, come i pettegolezzi di Maggie che le venivano a noia dopo trenta secondi, le ripetizioni pomeridiane insieme ad Eliza e le cene chiassose in Sala Grande. In modo particolare, le mancava Evan: il loro litigio sembrava ormai lontanissimo, averlo respinto con tanta freddezza le appariva una scelta stupida e priva di senso. Ma perché ce l’aveva tanto con lui, poi? Perché aveva cercato di fare del male a Ted, certo… Ma lei stessa non era una persona migliore, non dopo aver fatto a un’amica qualcosa di molto peggio. Inoltre, Evan era stato l’unico a starle vicino in quella tana di serpi, l’aveva aiutata a conoscere le sue origini e, in cambio, lei non aveva voluto neppure ascoltarlo quando era così convinto di aver scoperto qualcosa. Chissà se aveva avuto davvero un’illuminazione, la sera prima dell’incidente? Oramai non aveva più importanza, come molte altre cose; tutto ciò che Cathy avrebbe voluto era salutarlo in maniera diversa prima di sparire, ma non c’era più tempo: Evan avrebbe dimenticato in fretta quella ragazza spocchiosa che non aveva voluto perdonarlo, e tutto ciò che le sarebbe rimasto di lui era qualche regola scacchistica imparata male. Non avrebbe mai saputo di essere, come Ted, un suo lontano parente: Evan Rosier, il nonno che gli aveva dato il nome, era infatti cugino di primo grado della madre di Cathy. Gliel’aveva detto Rodolphus in uno di quei pomeriggi, nei discorsi più o meno vari che si frapponevano tra una partita e l'altra. Non parlava mai molto del passato, o forse era Cathy a non voler ascoltare.

“Cos’è, hai perso di colpo la tua adorabile parlantina?”

Non si era neppure accorta che il suo tutore si era alzato. Adesso erano entrambi alla finestra, fissando quella coltre biancastra che rendeva impossibile distinguere il cielo dalla neve. Ancora stizzita, lei gli rispose: “Beh, dovresti esserne contento visto che non la sopporti. Comunque niente, pensavo”.

“A cosa, esattamente?”

“Non credevo che i Mangiamorte giocassero a scacchi”. Si voltò in tempo per scorgere l’espressione sconcertata di Rodolphus, preso in contropiede da quel riferimento al passato. Non era esattamente ciò a cui Cathy stava pensando, ma era pur sempre qualcosa che le era venuto in mente mentre giocavano.

“Non vedo perché la cosa debba stupirti. Non siamo una razza a parte, sai? Mangiamo, dormiamo e facciamo magie come tutti gli altri… Beh, quest’ultima cosa un po’ meglio degli altri, in effetti. E sì, qualche volta ci ritagliamo persino del tempo libero. Il mio era un lavoro duro, ma non esageriamo”.

“Sì, ma non è questo che mi stupisce. È che…” Non sapeva come esprimere le sue perplessità senza offenderlo, ma le risultava davvero difficile immaginare una squadra di assassini che giocavano a scacchi. Il mondo ingenuo di Cathy e quello marcio di Rodolphus erano distanti anni luce, non credeva che potessero incrociarsi neppure in una piccola isola. Non trovando parole adatte per dirlo, lasciò la frase in sospeso.

“Non passavamo tutto il nostro tempo ad ammazzare la gente, se è questo che ti stai chiedendo”. Come succedeva spesso, Rodolphus aveva intuito i suoi pensieri e glieli metteva davanti con naturalezza sfacciata, senza scomporsi. “Avevamo famiglie, bambini, interessi… Le stesse cose che hanno tutti. è solo che questi dettagli non fanno notizia”.

“D’accordo, quindi giocavate a scacchi” tagliò corto Cathy, prima di lasciare che si autocommiserasse di nuovo. “Che altro facevate?”

“Ah, un sacco di cose. A Evan Rosier, per esempio, piaceva la musica. Aveva imparato a suonare l’arpa e lo insegnò anche a sua figlia, nel poco tempo che ebbe a disposizione. I suoi strumenti incantati ci facevano compagnia nei pomeriggi liberi, ma erano anche un buon modo per rilassarci prima di un incarico. Mio fratello Rabastan, invece, era un tipo più materiale: a lui piaceva passare le serate in birreria, giocare a carte e prendersela con chi aveva vinto regolarmente. Con una bella donna a fianco poteva dirsi sempre soddisfatto, anche dopo aver avuto la peggio in uno scontro. E Bellatrix… Lei si distingueva dagli altri, persino nel tempo libero. Certe sere spariva per ore lasciandomi nel dubbio che le fosse successo qualcosa, per poi ritornare e salutarmi come se niente fosse. Dovetti seguirla per capire che cercava il silenzio dei boschi, l’oscurità della notte, il vento sulla pelle: quelle cose a cui siamo legati per natura, da cui la società Babbana ci ha ingiustamente allontanato. Tutti sentivamo la necessità di tornarvi, ma credo che per lei fosse diverso: il suo era un bisogno quasi fisico, vitale”.

L’accenno a sua madre aveva leggermente sciolto il nodo che Cathy si portava nel petto, sfumando i rigidissimi contorni che aveva costruito attorno alla sua figura. Nonostante la paura del buio, doveva ammettere che quelle cose piacevano moltissimo anche a lei: la notte riusciva ad attirarla quasi quanto la spaventava, i rumori indefinibili dei boschi erano un richiamo a cui faceva davvero fatica a non rispondere. Non era un caso che il piccolo gazebo dell’orfanotrofio fosse rimasto per anni il suo posto preferito, piccola oasi di pace in un luogo popolato da bambini urlanti e abbandonati.

Si ridestò subito, però, ricordandosi di chi fosse davvero il suo interlocutore e di che tipo di persone stessero parlando. Senza lasciarsi intenerire, commentò: “Beh, niente di speciale. Forse avevate delle passioni, ma ciò non toglie che passavate gran parte del tempo a svolgere certi incarichi. Dovrai impegnarti di più per mostrarmi il ‘lato buono’ dei Mangiamorte”.

Rodolphus la fissò per qualche istante con aria di sfida, come aveva fatto per tanto tempo quando si rifiutava di parlare. Adesso, Cathy non aveva più otto anni e riusciva a sostenere quello sguardo, seppure le successive azioni dell’uomo le risultassero del tutto imprevedibili. Restò decisamente colpita quando, dopo la sua lunga osservazione, sentì che le rispondeva: “Hai ragione. Vieni con me, c’è una cosa che vorrei farti vedere”.

Cathy lo seguì come in trance, domandandosi se ci fosse davvero un altro angolo della villa che non aveva ancora visto. Ben presto, capì che si stavano dirigendo verso una stanza a lei ben nota, quella delle pozioni. Rodolphus si avvicinò agli scaffali impolverati e iniziò a tirare fuori un libro dopo l’altro, cercando evidentemente qualcosa che non consultava molto spesso. Infine, recuperò un grosso rotolo dal diametro di dieci centimetri e sorrise in direzione di Cathy, facendole cenno di avvicinarsi al tavolo. Quando lei gli fu accanto, cominciò a srotolare la pergamena; e su quel foglio ingiallito e consumato dal tempo apparve il disegno più strano e straordinario che Cathy avesse mai visto.

Sembrava la miniatura di una città, costruita in un luogo naturale di singolare bellezza. Tutto intorno c’era una folta vegetazione, cascate e ruscelli attraversati da piccoli ponti, e la luce del sole era così ben riprodotta da sembrare reale. Tuttavia, a uno sguardo più attento, diventava chiaro che una città del genere non poteva esistere se non in un libro di fiabe: gli edifici erano costruiti a ridosso di un dirupo contro qualsiasi legge pratica, con uno stile architettonico che non era mai stato usato in Inghilterra né in qualsiasi altro luogo del mondo. Proprio per il suo essere irreale e irrealizzabile, il disegno comunicava quel senso di armonia e misticismo che rendeva impossibile staccarne gli occhi senza aver prima percorso ogni angolo del territorio. Le case erano di un bianco perlaceo, ciascuna dotata di una terrazza che si affacciava sul dirupo specchiandosi nell’acqua sottostante; i ponti erano sormontati da archi contigui, anch’essi bianchi, e permettevano di spostarsi da una zona all’altra senza difficoltà. L’intera città era sovrastata da montagne imponenti che sembravano accoglierla come una figlia, un piccolo gioiello incastonato nella natura che accresceva, piuttosto che guastare, la sua originaria bellezza. In ultimo, un tocco di magia conferiva vitalità al paesaggio mostrando che tipo di abitudini avessero i suoi abitanti: piccoli maghi e streghe attraversavano la città dedicandosi alle attività più disparate, dagli incantesimi di combattimento alle fumose pozioni passando per la cucina e i lavori domestici. C’erano persino dei bambini che si rincorrevano sui ponti e gufi che portavano la posta da una terrazza all’altra; nell’insieme, la città appariva piena di vita e assurdamente felice, tanto che Cathy dimenticò di star guardando un disegno e credette, per un attimo, di essere parte di quell’universo.

Quando trovò la forza di staccare gli occhi, Rodolphus stava ancora sorridendo. Sembrava rapito quanto lei da quel paesaggio straordinario, tornato a mostrare le sue magnificenze dopo chissà quanti anni. Lo sentì, infatti, mormorare: “È perfetto… Quasi immacolato, come se fosse stato disegnato ieri. Siamo stati dei veri artisti”.

“Che cos’è?” Cathy non stava più nella pelle: doveva sapere chi aveva ideato quel progetto, se era rimasto tale o se qualcuno era riuscito a realizzarlo. Con la magia, forse, persino quello era possibile.

“Casa nostra” rispose Rodolphus, con una nota appena più malinconica nella voce. “O almeno, quella che avremmo voluto. Se le cose fossero andate diversamente, tutto ciò che vedi sarebbe stato reale. L’avremmo chiamata Libreville, la città libera… I nostri figli sarebbero cresciuti qui, e forse anche tu”.

“Non capisco…” Era confusa davvero, dall’eccezionalità di quell’idea e da chi ne era la fonte. Non riusciva a immaginare che un piano così cristallino fosse stato concepito da Rodolphus. “Quando parli al plurale ti riferisci ai Mangiamorte? Era davvero questo che volevate, costruire una città?”

L’uomo annuì mestamente, sul volto gli si leggeva con chiarezza l’ombra di un sogno mai realizzato. “Non tutti eravamo uguali, naturalmente. Ma noi, quelli che si erano uniti al Signore Oscuro per scelta e non per costrizione, l’avevamo fatto con questa promessa. L’unica nostra volontà era vivere in un luogo che fosse totalmente nostro, non assoggettato ai Babbani e alle loro necessità. Il mondo che tu sei abituata a vedere non è quello per cui siamo nati, è solo ciò di cui abbiamo dovuto accontentarci. Per tornare a essere noi stessi bisognava rovesciare il sistema, distruggere quell’abominevole norma che è lo Statuto di Segretezza e far capire ai Babbani che esistiamo, che la loro vita non deve interferire con la nostra. Non ci sarebbe stata la guerra per sempre, Cathy; la pace sarebbe stata ricostruita, sarebbe diventata migliore di quella che avevamo. La morte e la distruzione erano solo il prezzo da pagare per tutto questo, finché i nostri nemici non avessero capito che avevamo ragione”.

“Non può essere”. Cathy scosse la testa, ritenendo impossibile che le azioni dei Mangiamorte si limitassero a uno scopo come quello. “Ho sentito cose terribili sul vostro conto, cose che mi hanno fatto venire i brividi! Figli di Babbani accusati di aver rubato la magia, famiglie minacciate, persone uccise per divertimento… Non puoi dirmi che tutto questo serviva solo a costruirvi una nuova casa!”

“Come ti ho detto, non eravamo tutti uguali. Personalmente, tutto quello che ho fatto partiva da un obiettivo di pace, ma mi ha condotto a strade che all’inizio non avevo neppure previsto. Arriva un momento in cui le buone intenzioni non bastano più, la gente non vuole ascoltarti e ti addita immediatamente come traditore del Ministero; e allora tutto cambia, capisci che è necessaria un’azione più concreta per far sì che gli altri capiscano. Cerchi una guida, credi di averla trovata, finché ti rendi conto di essere stato raggirato e nonostante ciò devi continuare quello che hai iniziato, anche solo per salvarti la vita. Ma non mi aspetto che tu capisca, sei troppo giovane; volevo solo mostrarti la parte migliore dei Mangiamorte. Di tua madre e me”.

Cathy si sedette accanto al tavolo, gli occhi ancora rapiti dall’immagine di Libreville e il cervello più confuso che mai. Non si spiegava ancora come un fine tanto innocente potesse trasformarsi in una guerra spietata, le cui vittime ricordavano con orrore dopo più di un decennio. Forse era davvero troppo giovane per comprenderlo; si limitò ad approfondire ciò che aveva intuito.

“Quando dici ‘guida’ ti riferisci a lui, non è vero?” chiese a Rodolphus. “Voldemort?”

“Sì. All’inizio si mostrava solidale alle famiglie Purosangue, condivideva i nostri obiettivi e ce ne prospettava ancora di migliori, dimostrando con i fatti che era in grado di raggiungerli. A quel tempo, era difficile non fidarsi; tutti ne erano affascinati e non aspettavano altro che unirsi a lui. Il suo vero volto lo mostrò in seguito, quando fummo vicini a conquistare il Ministero. Allora, capii che la città libera non era e non era mai stata di suo interesse, ma era troppo tardi per tirarsi indietro”.

“Che cosa voleva, allora?” domandò ancora, ormai affamata di conoscenza. Nessuno le aveva mai parlato del passato in quei termini.

“Il potere” rispose, semplicemente, Rodolphus. “Non gli interessava che tutto intorno a noi fosse morte e distruzione, finché ne era a capo. Ho provato a immaginare molte volte come sarebbe stata la nostra vita se avessimo vinto: che tu ci creda o no, ho visto solo rovina”.

“Ti credo”. Non riusciva a fare diversamente; quando Rodolphus le parlava, non poteva fare a meno di pensare che, nel bene o nel male, fosse sincero. Non aveva mai avuto remore nel raccontarle le verità più crude, perché avrebbe dovuto cominciare in quel momento?

“Ma ancora non capisco” aggiunse poi, dopo un’attenta riflessione, “perché c’era bisogno di conquistare il Ministero per costruire una città diversa. Non potevate nasconderla semplicemente ai Babbani, com’è stato fatto con Hogwarts?”

“Perché eravamo stanchi di nasconderci!” Rodolphus aveva alzato la voce, punto sul vivo dal peso che portava addosso da quasi tutta la vita. Subito dopo, se ne pentì. “Occultare un’intera città è molto diverso da nascondere un castello. Inoltre, Libreville sarebbe stato solo l’inizio: tutte le nazioni avrebbero potuto adeguarsi a questa nuova realtà, i maghi e le streghe del mondo sarebbero stati finalmente liberi di vivere come volevano e non come dovevano. Hai mai pensato che le nostre case, le nostre strade, sembrano create apposta per assomigliare a quelle Babbane? In ville come questa c’è ancora una parvenza di magia, ma nelle abitazioni di molti maghi Mezzosangue tutto ciò è andato perduto. Ti chiedo una cosa, Cathy, e vorrei che mi rispondessi sinceramente: credi sia meglio vivere in una città come Londra o nel luogo che ti ho mostrato? Che cosa avresti preferito?”

Cathy alzò lo sguardo e incontrò quello del suo tutore, adesso privo di ogni cenno derisorio. Prese altrettanto seriamente la sua domanda: riportò alla mente le luci di Londra, l’incanto del Tower Bridge, lo strepitoso panorama che aveva osservato dalla London Eye, l’immensità dei parchi e lo splendore di Buckingham Palace. Immaginò di viverci come una qualsiasi ragazza, non come un’orfana del Saint George, e ne dedusse che non era affatto male. Poi pensò a Hogwarts, ai suoi luoghi incantati, e cercò di figurarsi una vita come quella prolungata in una piccola casa affacciata su un torrente. Capì allora di non avere alcun dubbio, non più.

“Londra è molto bella” rispose candidamente, “ma Libreville lo è di più. Anch’io avrei voluto costruirla, se avessi potuto”.

Rodolphus le sorrise di nuovo, ma questa volta non di un sorriso compiaciuto: era soltanto sereno, quasi felice. Temendo che potesse capire male, Cathy si affretto ad aggiungere: “Ma non avrei mai fatto del male a nessuno solo per cambiare modo di vivere! E avrei permesso a chiunque di venirci, non solo ai Purosangue che piacciono tanto a te”.

Il sorriso si tramutò in una risata soffocata che l’uomo nascose con la mano. Quando riacquistò il suo autocontrollo, ribatté: “D’accordo, mi basta. D’altronde sono cose passate, idee morte tantissimo tempo fa. Meglio pensare alla tua vita attuale”.

Riavvolse la pergamena e Cathy provò un moto di nostalgia quando il disegno fu sottratto ai suoi occhi. Seguì Rodolphus con lo sguardo mentre lo rimetteva al suo posto, fissando nella mente il punto esatto in cui lo stava conservando. Credeva di volerlo rivedere in futuro, pur non sapendo bene perché.

“Che cosa hai intenzione di fare? Con la scuola, intendo”.

Cathy alzò le spalle, minimizzando l’importanza di quella domanda. Non era la prima volta che Rodolphus gliela rivolgeva, dopo che lei era guarita dalla febbre. “Per ora niente, te l’ho detto. Non me la sento di ritornarci”.

“Non puoi nasconderti qui tutta la vita a giocare a scacchi, ti pare? Il Direttore del Saint George ha già ricevuto due lettere da Hogwarts, che mi ha prontamente rispedito. Non so cosa succederà se continui a non tornare, potrebbero anche espellerti. È questo che vuoi?”

Cathy se lo domandò: no, non era questo che voleva. Avrebbe voluto tornare a scuola senza la consapevolezza dei suoi natali, senza portare il peso di ciò che i suoi genitori avevano fatto alla povera gente. Avrebbe anche potuto affrontare tutto questo, se si fosse fatta coraggio, ma non lui… Non Ted Lupin.

“Signore… Signorina!” L’arrivo tempestivo di Wolly evitò a Cathy di prendere una decisione. Ferma e ansante sulla soglia, l’elfa sembrava aver corso a perdifiato per portare quella notizia.

“La ragazza Babbana è di nuovo alla porta” spiegò, non ritenendo necessario pronunciarne il nome. “Dice che non se ne va finché non avrà parlato con la signorina!”

Rodolphus divenne improvvisamente furioso. Uscì dalla stanza investendo Wolly e inveì contro di lei come se fosse colpevole: “Non posso crederci, anche oggi! Con questo tempo! Cathy, se proprio non vuoi decidere cosa fare con la scuola, almeno incontra questa pazza e facciamola finita. Non vorrei che facesse qualche sciocchezza, abbiamo già abbastanza problemi”.

Cathy gli corse dietro urlando a sua volta, dicendogli che no, non avrebbe parlato con Catherine a nessun costo. “Lei è una bugiarda!” gli ricordò. “Le ho detto che non voglio più vederla e se ne farà una ragione!”

“Il che sarebbe una condizione ideale anche per me, se vuoi saperlo, ma ho qualche dubbio che ce ne libereremo così facilmente. Perciò, fammi un favore: falla entrare, ascolta quello che ti deve dire e poi mandala via. Non voglio altri fastidi qui intorno, mi capisci?”

Cathy strinse i pugni, si morse le labbra, gli spedì contro un altro paio di insulti e infine si convinse a dare uno sguardo alla finestra. Catherine era lì, fradicia di pioggia, riparata appena sotto il portico e con le spalle che tremavano. Sembrava molto dimagrita dall’ultima volta che si erano viste; Cathy ripensò al giorno del suo compleanno e provò rabbia e dolore assieme, perché quella donna le aveva rovinato anche i suoi ricordi più belli. Si allontanò di nuovo dalla finestra e camminò a passo deciso verso Rodolphus, mettendo in chiaro le sue condizioni: “Se vuoi che le parlo, devi promettermi qualcosa. Qualcosa di molto grosso, visto quanto mi costa farla entrare. Ci stai?”

L’uomo la guardò con sospetto, valutando quella richiesta inaspettata. “Che genere di promessa?”

Cathy prese fiato. Detestava mostrarsi debole, ma in un momento come quello era necessario. “Che non mi lascerai sola. Mai, anche se dovessi tornare a scuola e anche se dovessero espellermi. Ora che Catherine mi ha tradita, non ho più nessuno. A Hogwarts mi odieranno quando scopriranno chi sono. Per favore, promettimi che ci sarai sempre”.

Rodolphus esitò. Non si aspettava una domanda di quel genere, non era preparato a risponderle. Prima che il tempo si allungasse al punto da diventare sospetto, si decise a dirle: “Va bene. Te lo prometto”.

“Grazie”. Cathy sorrise, un breve raggio di luce prima di tornare nell’ombra. Poi si voltò, andò verso la porta d’ingresso e girò la maniglia. “Entra” disse, senza nessuna incrinatura nella voce.

*

“Cathy, ti prego, devi credermi! Sai che ti amo più della mia vita, lo sai che non ti avrei mai detto bugie se non fosse stato necessario! Ma tu mi chiedevi sempre di lei, sempre di tua madre… Che cosa potevo fare, eh? Dirti che aveva cercato di ucciderti, spezzarti il cuore? Eri solo una bambina, non potevi sopportarlo! Quel peso era mio, mio soltanto… E tale sarebbe rimasto, se un uomo con manie di protagonismo non ti avesse inferto il colpo che io ti avevo risparmiato! Lo so che sei arrabbiata, ma cerca di capire…”

Andava avanti così da almeno mezz’ora. Cathy doveva perdonarla, cercare di capire, essere forte e mille altre cose. Mai che qualcuno cercasse di capire lei, invece; mai che la trattasse da adulta, che le dicesse la verità come solo il suo tutore aveva trovato il coraggio di fare. Le illusioni erano state il male peggiore, qualcosa che l’aveva corrosa dentro per dodici anni e che Catherine sminuiva con un semplice ‘era necessario’. Cercava di rigirare la colpa verso Rodolphus, quando in realtà lui non aveva fatto altro che essere sincero, seppure dopo averlo a lungo pregato. Per quanto si sforzasse, e ci aveva provato davvero, Cathy non riusciva a vedere del buono nelle azioni di Catherine. Una bugia era una bugia, qualunque fosse la ragione che l’aveva provocata; e da una persona che le era stata accanto tutta la vita era il gesto più meschino che potesse concepire.

“Potevi dirmelo una volta cresciuta, oppure raccontarmi solo una parte della verità” le rispose, fredda, con un tono che non lasciava speranze. “Hai avuto tanto tempo per farlo, siamo state insieme così a lungo… E invece hai scelto di mentire, di illudermi che mia madre fosse una brava persona. Ti sei inventata tutto, tutto! Hai detto che era povera, che non poteva mantenermi… Una serie infinita di sciocchezze. E io sono stata così stupida da crederci”.

“Non era tutto falso!” si difese Catherine, ancora. “È vero che ci siamo incontrate sul London Bridge, è vero che ti ha dato il mio nome… Lo so che non sei più una bambina, e forse è colpa mia se ho impiegato troppo a capirlo. Ma lo sai, sei come una figlia per me… E le madri tendono a proteggere i loro cuccioli, a difenderli da tutto ciò che può fare loro del male… Anche dalla verità”.

Avvicinò con dolcezza una mano alla guancia di Cathy, ma la ragazza si ritrasse. Non voleva essere toccata, non voleva più niente da quella donna. Consapevole di causarle un dolore, sibilò: “Tu non sei mia madre. Sei solo una ragazza che si occupa dei bambini, di tutti i bambini. Nel mio caso non è diverso”.

Catherine scosse la testa con energia, allontanando da sé quelle parole durissime. “Lo sai che non è così! Tu sei speciale, non ti ho mai mentito su questo…”

“Perché dovrei crederti? Non posso più fidarmi, ormai”.

“Oh, non essere stupida!” Questa volta anche Catherine si stava alterando. Capì di star facendo un errore quando vide che neppure la sua rabbia toccava Cathy, né riusciva a smuoverla dalla cupola di ghiaccio che si era costruita attorno. “Scusami” disse subito, “non intendevo offenderti”.

“Avresti dovuto scusarti molto tempo fa. Anzi, non avresti dovuto mentirmi e basta”.

“Mi dispiace”. Lo ripeteva, probabilmente, per la centesima volta. “Posso scusarmi mille altre volte ancora, ma questo non cancellerà quello che ho fatto. Che cose vuoi fare adesso, Cathy? Vuoi davvero eliminarmi dalla tua vita, fingere che il nostro rapporto non ci sia mai stato?”

“Sei stata tu a distruggerlo, non io. E adesso vattene”.

Catherine era ormai in lacrime e non faceva nulla per nasconderlo. Cathy aveva il cuore a pezzi, ma la rabbia era più forte del dolore che le costava allontanarla. Ci sarebbe stato tempo per piangere, più avanti; adesso non riusciva a sopportare di vederla per un altro minuto.

“Non potrai mai allontanarmi del tutto” replicò Catherine, scuotendo nuovamente la testa ma con meno decisione. “Lavoro nell’orfanotrofio in cui vivi, aspetterò tutto il tempo che sarà necessario finché tu mi perdonerai. Non posso accettare di perderti, non lo sopporto”.

“Non resterò lì per sempre. Il mio tutore vuole adottarmi, sai? E visto che sono affidata a lui già da un po’ non sarà difficile. Così non avrai bisogno di aspettare inutilmente”. La questione dell’adozione se l’era inventata di sana pianta, bisognava ammetterlo. Tuttavia, con la promessa di non lasciarla mai, era come se Rodolphus avesse tacitamente accettato quella condizione.

Quasi avesse sentito, l’uomo entrò improvvisamente nella stanza prima che Catherine potesse replicare ancora. La ragazza, rimasta col fiato sospeso, cambiò di colpo obiettivo ed espressione: il suo sguardo divenne carico di rabbia, con una forza che Cathy non le avrebbe mai attribuito si avventò su Rodolphus e lo afferrò per il bavero della camicia, bloccandolo contro la parete. L’uomo non ebbe il tempo di difendersi, né con la bacchetta né con la forza: Catherine gli stava addosso con tutto il corpo, tutto ciò che poté fare fu rispondere alle sue occhiate con altrettanto disprezzo.

“Tu… Tu, vile serpente che non osi neppure pronunciare il tuo miserabile nome! Oh, io lo so, lo so benissimo che è tutta colpa tua… Hai cercato dal primo momento di allontanarla da me e ci sei riuscito, hai vinto. Ma è solo una battaglia, mio caro tutore… Solo una delle tante battaglie che combatterai contro Catherine Myers!”

Rodolphus restò inebetito per un attimo, poi scoppiò a ridere. “Tu? Una Babbana? Me ne sono capitate di cose, ma questa… Una Babbana che vuole combattere contro di me! Ho sconfitto maghi che riuscirebbero a ridurti in cenere con uno schiocco di dita, credi davvero di farmi paura? Non sai a che gioco stai giocando…. Non immagini neppure il rischio che corri, Catherine Myers”.

“Puoi minacciarmi quanto vuoi, anche con il tuo bastoncino di legno, ma questo non mi fermerà. Giuro su Dio, sull’anima di mia madre, su ciò che ho di più caro che ti pentirai delle tue azioni, signore. Torci un solo capello a Cathy e puoi considerarti morto. Anche i Babbani sono in grado di uccidere”.

“Ora basta”. Cathy s’intromise, turbata dai toni che stava prendendo quella conversazione. “Lui non mi ha fatto niente, lascialo stare. E vattene da questa casa, è meglio per tutti”.

Catherine la guardò e il suo viso cambiò di nuovo espressione, poi assestò un’altra spinta a Rodolphus e infine lo lasciò andare, avvicinandosi alla porta. Si asciugò gli occhi e domandò alla ragazzina, un’ultima volta: “È davvero questo che vuoi?”

“Sì” rispose Cathy. Senza dire più niente, la sua educatrice si voltò. Ma prima che potesse lasciare la casa, due colpi alla porta fecero intuire che qualcun altro era intenzionato ad entrare.

*

“State indietro, indietro!”

Anche se sussurrava, il tono di Rodolphus faceva accapponare la pelle. Cathy non l’aveva mai visto così, sembrava terrorizzato. Improvvisamente, la presenza di Catherine lì era diventata l’ultima delle sue priorità, ed entrambe le ragazze si ritrassero istintivamente contro la parete. Nello stesso momento, l’elfa Wolly comparve nella stanza: Cathy premette una mano sulla bocca di Catherine per impedirle di urlare.

Rodolphus si avvicinò con cautela alla stessa finestra che Cathy aveva ispezionato per prima, scostando appena le tende di seta. “Lumacorno…” mormorò, mentre la sua mano recuperava la bacchetta della tasca. Si rivolse poi a Cathy: “Deve essere qui per te. Wolly, ascolta bene quello che ti dico: aprirai la porta e racconterai che nessuna ragazza è mai stata qui, che la casa è disabitata da anni. Se insiste, gli dirai che le informazioni che ha ricevuto sono false e che non puoi aiutarlo in nessun modo. Siamo intesi?”

“Sì, signore”. L’elfa annuì titubante, poi si preparò a soddisfare l’ordine. Aveva le orecchie basse e lo sguardo triste, come una serva che aveva mentito troppo spesso contro la sua volontà. Cathy si ritrovò a pensare a quanto fosse infelice la vita di un elfo domestico.

“Che accidenti è quella… Quella cosa?” Superato lo shock iniziale, Catherine fu liberata dalla mano opprimente di Cathy e poté finalmente parlare. Per fortuna, si adeguò al tono sommesso che avevano assunto gli altri.

Cathy le rispose seccata: “La nostra domestica, e non è una ‘cosa’ ma un’elfa”, dimenticando che la sua prima reazione alla presenza di Wolly non era stata tanto diversa. La breve conversazione fu comunque interrotta da Rodolphus che puntò la bacchetta in direzione di Catherine, facendola sobbalzare.

“Niente scherzi, Babbana” le intimò, nello stesso istante in cui Wolly alzava la maniglia. “Prova a dire una sola parola e sarai morta prima di pronunciarla”.

Nella stanza scese un silenzio carico d’ansia, dove persino i respiri venivano soffocati per fare meno rumore possibile. Pur se era lontana dall’ingresso, Cathy riuscì a sentire con chiarezza le parole che Wolly e il professor Lumacorno si scambiarono sulla porta.

“Buonasera! Chiedo scusa per il disturbo, sto cercando una ragazza di nome Catherine Scott e mi è stato detto che potevo trovarla qui. È in casa?”

“No, signore” rispose prontamente Wolly. “Qui non abita nessuna ragazza. Non ci sono persone in questa casa, ci vivo solo io da anni, signore”.

“Oh, capisco”. Lumacorno era evidentemente deluso, ma in qualche modo sembrava aspettarsi quella risposta. “Eppure l’indirizzo è questo, sono sicuro…” Si sentì il fruscio di una pergamena che veniva consultata.

“Le avranno dato un’informazione sbagliata, signore”.

“Già, è probabile. Senti, piccola elfa… Se la ragazza dovesse mai passare di qui, puoi almeno lasciarle un messaggio da parte mia e dei miei colleghi?”

Wolly esitò un istante, non avendo ricevuto istruzioni in tal merito. Poi, poiché non le era stato esplicitamente vietato, acconsentì.

“Dovresti dirle” riprese Lumacorno, “che l’intera scuola è preoccupata per lei. Non si presenta più da molto tempo, i suoi compagni vorrebbero rivederla o almeno sapere come sta. Inoltre, assentarsi così a lungo potrebbe avere conseguenze serie sul suo profitto, e non è escluso che debba ripetere l’anno. Un peccato, un vero peccato per una così giovane strega… Ah, dimenticavo: puoi dirle anche che il suo gatto Harry è amorevolmente accudito dalla signorina Macdonald, in attesa che la padrona torni a riprenderselo. Grazie, e speriamo che la ragazza si faccia viva presto”.

Wolly non disse altro, limitandosi a salutare il professore con la solita cortesia. Mentre si allontanava dall’ingresso, lo si sentì parlare a qualcun altro dietro di lui: “Mi dispiace… Te l’avevo detto che quella lettera non era affidabile. Questo non poteva essere il posto giusto in cui cercarla”.

La porta si richiuse e il gruppo restò in silenzio ancora per un po’, fino a che i visitatori si furono allontanati abbastanza da non sentirli. I respiri tornarono finalmente regolari e Cathy si sentì commossa da ciò che aveva appena ascoltato, una richiesta così premurosa di tornare a Hogwarts che non comprendeva nessuna ritorsione per quello che aveva combinato. Non aveva dubbi che Abbie si sarebbe presa cura del gatto: per questo non si era preoccupata di lasciarlo solo, sebbene le mancasse anche lui come molte altre cose che aveva abbandonato.

Quei pensieri confortanti furono però interrotti da una serie di azioni impreviste: Rodolphus, che non aveva mai smesso di tenere Catherine sotto tiro, quella volta sembrò voler fare sul serio. Si scagliò contro di lei, la gettò a terra tenendola ferma per un polso e la ragazza urlò, divincolandosi inutilmente per liberarsi dalla presa. Cathy era paralizzata dal terrore e non riuscì a fare nulla, se non a guardare impotente il volto furioso di Rodolphus e quello spaventato di Catherine.

“Che cosa vuoi, adesso? Non ho detto niente, non ho neanche fiatato!” si difese la ragazza, mentre il suo aggressore continuava a tenerla ferma e a puntarle la bacchetta al petto.

“E hai anche il coraggio di chiedermelo, lurida spia che non sei altro? Non fare finta di niente, tu hai spedito quella lettera! Tu hai avvisato la scuola che Catherine si trovava qui, nella speranza di liberarti di me! Ma hai fatto male i tuoi calcoli…”

La ragazza non negò né ammise le sue colpe, continuando soltanto a urlare. Sbalordita, Cathy domandò: “È stata lei? Come fai a sapere che è stata lei?”

“Certo che lo so! Nessuno, a parte noi in questa stanza, sapeva che tu eri qui. Nemmeno il Direttore dell’orfanotrofio ha mai conosciuto il mio indirizzo… E questa feccia è l’unica che ha sempre causato dei guai, fin dal primo giorno che ti ho conosciuta”.

I lamenti di Catherine divennero più flebili, la ragazza chiuse gli occhi e appoggiò la testa contro il muro cercando di recuperare il controllo di sé. Sul polso apparvero i segni della stretta di Rodolphus, che egli non accennava ad allentare. Poi, di colpo, qualcosa cambiò: Catherine riaprì gli occhi, recuperò l’espressione altezzosa con cui l’aveva minacciato e affermò, impavida: “Sì, sono stata io! Ho letto una delle lettere inviate dalla scuola e ho risposto in maniera anonima, nella speranza che liberassero Cathy dalla tua morsa! Non sono una stupida, ho capito che c’era qualcosa che non andava… Ti nascondi da troppo tempo, devi avere qualcuno alle calcagna per comportarti in questo modo… E chiunque sia, io spero tanto che ti trovi!”

Cathy soffocò un urlo, non per la rivelazione di Catherine quanto per la reazione che Rodolphus poteva avere a quelle parole. Difatti, sentì la ragazza gridare di nuovo, come se lui le avesse lanciato un incantesimo silenzioso.

“Lasciala stare, adesso” s’intromise, sperando che Rodolphus le desse ascolto nonostante la sua furia. “Le stai facendo male!”

“Oh, voglio farle molto più che male… Che t’importa di lei? È una spia, una traditrice! Hai già dimenticato le bugie che ti ha raccontato?”

“No, ma questo è troppo! Lasciala andare, per favore… Ormai siamo al sicuro, Lumacorno se n’è andato! Per favore…” Aveva le lacrime agli occhi. Per quanto fosse arrabbiata con Catherine, non poteva sopportare di vederla soffrire impotente sotto la brutalità del suo tutore.

“Ti rendi conto di cosa poteva accadere, se al posto di Lumacorno fosse venuto qualcun altro?” La domanda era retorica, Rodolphus si stava riferendo indubbiamente a Young. “Lui non si sarebbe fatto ingannare dalle bugie di Wolly, lui sa a chi appartiene questa casa! E se questa storia è arrivata alle sue orecchie, siamo spacciati. Sì, anche tu lo sarai, una volta che avrà scoperto chi sei. Non confidare nella sua pietà, quell’uomo non ha idea di cosa sia”.

“Mi dispiace…” replicò Cathy, la quale era ormai terrorizzata all’idea che a Catherine succedesse qualcosa di serio. “È colpa mia, non dovevo nascondermi qui. Lascia andare Catherine, ti prego... Punirla non serve a niente”.

“Forse no” rispose Rodolphus, riaccendendole un minimo di speranza, “ma almeno mi darà soddisfazione. Fatti da parte, se non vuoi assistere alla scena”.

Sollevò impercettibilmente la bacchetta e, nello stesso istante, Cathy gli fu addosso stringendogli il polso. Non era abbastanza esperta per difendere Catherine con la magia, ma avrebbe usato tutte le armi che aveva a disposizione perché lei vivesse. Tutto ciò che riuscì ad ottenere, comunque, fu che Rodolphus lasciò andare la presa su Catherine e diresse parte della sua collera contro di lei, dopo essersi liberato facilmente da quella debole stretta.

“Basta, ti prego!” lo implorò ancora, consapevole che in una lotta fisica non avrebbe mai potuto avere la meglio. “Non tornare a essere quello che eri, adesso sei cambiato! Ti sei pentito, ricordi? Non sei più quella persona…”

“Ti ho già spiegato che il mio pentimento non ha nulla a che vedere con questo! E non ricominciare con la solita solfa dell’uomo buono… Non lo sono, fattene una ragione!”

“Invece sì…” Cathy gli si avvicinò di nuovo, questa volta lentamente e senza intenzione di attaccarlo. “Guardami, per favore”.

Rodolphus acconsentì almeno a quella richiesta. I suoi occhi furiosi incontrarono quelli di Cathy, imploranti e velati di lacrime. Quella vista dovette infastidirlo, perché se ne sottrasse dopo pochi istanti; contemporaneamente e senza una reale intenzione, la mira della bacchetta si abbassò fino alle gambe di Catherine, rannicchiata ancora contro la parete.

“Ricordi cosa mi hai mostrato poco fa? Volevi farmi vedere la parte migliore dei Mangiamorte… E ci sei riuscito, sai? Ho capito che non siete sempre stati dei mostri. Ho capito che a volte le buone intenzioni si trasformano in qualcosa di terribile, e che la colpa di questo non è stata interamente tua. Ci tenevi così tanto a spiegarmelo, non rovinare tutto così… Forse tu non credi di essere un uomo buono, ma io so che lo sei. La parte di te che sognava una vita diversa esiste ancora, anche se fai finta di averla dimenticata. Dimostralo adesso, fammi vedere che sei cambiato davvero! Hai seguito la guida sbagliata una volta, non ripetere lo stesso errore. Prova ad ascoltare me, anche se ho solo dodici anni… Prova a fare una cosa diversa. Young lo affronteremo insieme, sistemeremo tutto. Fidati di me…”

L’espressione di Rodolphus era difficile da decifrare. Sembrava che la sua rabbia si fosse di colpo addolcita, pervasa da un senso di ilarità che faceva fatica a contenere. Il lato destro delle sue labbra si sollevò come quando Cathy lo faceva ridere, ma lui nascondeva quella reazione per continuare a recitare la parte del mago oscuro e serissimo. Dopo un attimo di esitazione, commentò: “Se devo affidarmi a te per affrontare Young, sono proprio messo male… Che devo dirti, se ci tieni così tanto a lasciar vivere questa Babbana, che sia. Ma se prova a rimettere piede in questa casa, è morta. Accompagnala fuori non appena si riprende, non voglio più vederla qui quando tornerò”.

Si rimise la bacchetta in tasca con un gesto di stizza, poi voltò alle spalle alle ragazze e a Wolly che, per tutto il tempo, era rimasta a guardare impietrita dalla paura. Cathy pronunciò un “Grazie” con un gran sorriso, poi si accovacciò accanto a Catherine per chiederle come si sentiva. La ragazza non rispose, ma sorrise debolmente per farle capire che andava tutto bene. Per un momento, i loro disguidi erano stati accantonati di fronte alla gravità del pericolo affrontato.

“Vado a prendere dell’acqua, signorina”. Improvvisamente, Wolly si era ridestata dal suo stato di torpore ed era tornata a essere l’efficientissima domestica. “Aiuterà la ragazza a riprendersi”.

“Grazie, Wolly” rispose Cathy. “Ah… Aspetta un attimo. Chi c’era con il professor Lumacorno, fuori la porta? Ho sentito che parlava con qualcuno…” Se n’era appena ricordata, ma sospettava che la questione fosse abbastanza importante.

“Oh, era un ragazzo della sua età, signorina. Non so chi fosse, ma… Aveva i capelli azzurri. Sì, proprio azzurri come il cielo d’estate!”

Cathy assaporò quella strana sensazione di felicità e di dolore assieme che l’avvolgeva ogniqualvolta pensava al suo giovane amico. Nonostante la terribile esperienza che aveva appena vissuto, in quel dramma c’era un lato positivo: Ted Lupin era venuto a cercarla.


Note

Buondì e buone feste fatte, ricompaio dopo mesi per farvi sapere che sono ancora viva e lo è anche Cathy, sebbene l'abbia trascurata un po' troppo ultimamente! Se non altro, il capitolo è abbastanza corposo e spero soddisfacente^^

Volevo spendere due parole per quanto riguarda Libreville: la sua invenzione è ovviamente mia, ho voluto dare ai Mangiamorte uno scopo un po' più concreto e accettabile rispetto a un semplice "distruggere Babbani e Mezzosangue", almeno agli inizi e per alcuni di loro. D'altra parte, mi sembra plausibile che maghi così attaccati alle proprie origini non si accontentassero di vivere di nascosto ma volessero farlo a modo loro, sfruttando ampiamente ciò che la magia gli permetteva. Nel caso in cui voleste dare uno sguardo agli anni di cui parla Rod, ho pubblicato una one shot ("Il prezzo di una vita") in cui si trattano più o meno gli stessi argomenti e ci sono vari riferimenti a questa storia.

Infine, per la descrizione della città mi sono ispirata al Gran Burrone di Tolkien, chi di voi ha visto Il Signore degli Anelli potrà capire la meraviglia con cui Cathy guarda il disegno. Non so voi, ma quando ho visto quelle scene mi sono chiesta come mai, con tutte le nostre tecnologie e possibilità, non siamo capaci di costruirci delle case come quelle :) Sul resto non credo ci siano punti da chiarire... Al solito, per qualsiasi dubbio o curiosità non avete che da chiedere. A presto e auguri di buon anno!

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Capitolo 27
*** Svolte inattese ***


27


La visita inaspettata di Teddy e del professor Lumacorno ruppe quello strano equilibrio che si era venuto a creare negli ultimi giorni. Rodolphus, per via dei suoi timori riguardo Young, smise di trascorrere del tempo con Cathy e ritornò l’uomo scontroso e taciturno che era stato, prima che la verità venisse a galla e costringesse la ragazza a farci i conti. Passava più tempo del solito accanto alle finestre, fissando il cielo, come se aspettasse da un momento all’altro un’incursione aerea o più probabilmente l’arrivo di una lettera; poi, quando era stanco di quell’attesa, tornava ad attraversare la casa da una parte all’altra impartendo ordini a Wolly o alla stessa Cathy, a seconda di chi gli capitava prima a tiro. A Cathy, per lo più, imponeva di uscire spesso di casa per non rischiare di essere vista: era atterrito all’idea che qualcuno di Hogwarts potesse tornare a curiosare, con metodi meno ortodossi di un cortese bussare alla porta. Non faceva che ripeterle quanto la sua presenza lì fosse un pericolo e che, se lui fosse stato scoperto e incarcerato, la sorte di Cathy non sarebbe stata granché migliore, sottoposta a un vero e proprio interrogatorio sulla sua identità e sui suoi rapporti con Rodolphus. Quando lo sentiva parlare a quel modo, la ragazza si rendeva conto per la prima volta di quanto il passato del suo tutore fosse un peso grande da sopportare, e quasi comprendeva perché per tanto tempo l’avesse tenuto segreto. Si spaventava, per sé e per lui: temeva di perdere l’unica persona più vicina a un familiare che avesse mai avuto, e soprattutto di poter essere lei stessa la causa di quella perdita. Avrebbe voluto stargli accanto, consolarlo, dirgli di nuovo che potevano affrontare Young insieme e che sarebbe andato tutto bene; quando provava a parlargli, però, tutto ciò che otteneva in cambio era un gesto di irritazione con cui Rodolphus l’allontanava da sé, rispondendole che, se davvero voleva aiutarlo, doveva stare il più lontano possibile da quella casa. Così, rassegnata, Cathy si allacciava il mantello al collo e usciva dalla porta sul retro, preparandosi a una nuova, solitaria esplorazione del mondo.

Tutto sommato, quella situazione ebbe anche dei risvolti positivi: essendosi esercitata molto durante le vacanze di Natale e oltre, Cathy fu ben presto in grado di padroneggiare una scopa da sola e di utilizzarla per i suoi spostamenti. Grazie alle indicazioni di Rodolphus, sapeva esattamente dove dirigersi perché i Babbani non la vedessero e poteva, in tal modo, raggiungere Diagon Alley evitando estenuanti corse in metropolitana. Una volta lì, tra famiglie chiassose e venditori ansiosi di esporre la loro merce, nessuno faceva caso a una strega minorenne che si aggirava da sola per il quartiere magico; Cathy aveva a disposizione tutto il tempo che voleva per bighellonare in strada, osservare le vetrine e la gente e soprattutto per pensare al suo futuro. Rimandava quella decisione da troppo tempo, era finalmente giunto il momento di prenderla. Che cosa doveva fare, tornare a Hogwarts per affrontare il suo destino o rinunciare per sempre alla magia? Se si fosse basata soltanto sui propri desideri, non avrebbe avuto dubbi: era a scuola che voleva tornare, per imparare davvero a utilizzare i suoi poteri e dimostrare a tutti che gli oscuri natali non facevano di lei una persona malvagia. Avrebbe studiato il triplo di quanto avesse mai fatto in precedenza, si sarebbe messa in pari con tutti gli arretrati e avrebbe seguito le indicazioni di Young senza battere ciglio, accettando qualsiasi punizione. Ma… C’era pur sempre un ma, non legato alle questioni didattiche quanto a quelle strettamente personali. Erano troppe le persone da cui farsi perdonare, troppi gli errori che aveva commesso perché un semplice “scusa” potesse bastare. E così, mentre i volti di Ted, Evan, Eliza e del professor Paciock si sovrapponevano come un puzzle malfatto, la sua mente tornava all’orfanotrofio, alla vecchia vita più infelice ma anche più semplice che non aspettava altro che accoglierla. Quando era sul punto di abbandonarsi a quella scelta, però, tornava la consapevolezza che troppe cose erano cambiate da allora, che neppure volendo sarebbe tornata a essere la bambina ingenua del Saint George; e infine ricominciava da capo, desiderando più spazio e altro tempo per pensare, nascondendo il volto sotto il cappuccio e raggiungendo quel luogo in cui nessuno faceva domande.

*

Un giorno tra tanti, il professor Paciock rientrò al castello in tarda serata, liberandosi dal mantello fradicio di pioggia e lasciando dietro di sé un lungo rivolo d’acqua. Si poteva dire che l’accoglienza a lui riservata fosse molto calorosa: tre giovanissimi Grifondoro erano raccolti nell’ingresso in attesa, utilizzando il pavimento come unico sedile e chiacchierando sottovoce l’un con l’altro. All’arrivo dell’insegnante scattarono in piedi come sentinelle: Ted Lupin fu il primo ad avvicinarsi a lui, seguito a ruota da Maggie e dal fedele amico Samuel.

“Buonasera” salutò Ted velocemente, impaziente di passare alla domanda successiva. “Allora, com’è andata?”

Il professore scosse la testa affranto, spegnendo in un secondo tutto l’entusiasmo del ragazzo. “Nessuna novità, purtroppo. Mi dispiace”.

“Oh…” Teddy non fece nulla per nascondere la sua delusione, convinto com’era che quel giorno avrebbero ottenuto qualcosa. “Eppure ci speravo. Credevo che quella della Traccia Magica fosse una buona idea”.

“Lo era, infatti. Ma sembra che la tua amica non abbia eseguito incantesimi negli ultimi tempi, almeno non nei dintorni di quella casa. Continueremo ad alternarci per cercare di scoprire qualcosa, ma le speranze di trovarla iniziano a diminuire”.

“Te l’avevo detto, Ted”. Maggie gli appoggiò con affetto una mano sulla spalla, nel tentativo di consolarlo. “Se avesse voluto farsi viva l’avrebbe già fatto, invece non ci ha mandato neppure un gufo… Dovunque sia adesso, è chiaro che vuole rimanere da sola”.

“E se invece fosse in pericolo?” Ted si liberò da quel contatto e si allontanò di qualche passo, dando prova in tal modo della sua ostinazione. “La lettera parlava chiaro, ricordi? Diceva che Cathy era in quella casa! Scommetto che qualcuno la tiene prigioniera!”

“No, ragazzo, adesso non agitarti” ribatté Paciock. “Si è allontanata di sua spontanea volontà dalla scuola e ha scelto di mentirci, il che significa che probabilmente ha scelto anche di non tornare. Il Direttore del suo orfanotrofio continua a sostenere che è con il suo tutore e non c’è motivo di preoccuparsi. Stiamo sorvegliando la casa ogni giorno, comunque, e se dovesse uscire di lì anche solo per un attimo ce ne accorgeremmo. Non dimenticare che la tua professoressa McGranitt ha un certo talento nei travestimenti…”

Il professore cercava di tranquillizzarlo con considerazioni pacate e ragionevoli, ma anch’esse non erano di molto effetto per il preoccupato Lupin. Da quando il ragazzo aveva realizzato che Cathy era andata via e che forse non l’avrebbe più rivista, il suo spirito valoroso era scattato come una molla e aveva preso il sopravvento su tutto il resto, facendogli dimenticare di essere un semplice studente in una scuola di magia e non un eroe come Harry Potter. Nessuno si era particolarmente allarmato quando, dal Saint George, avevano comunicato che Cathy era soltanto malata, accudita dal misterioso tutore che celava a tutti il proprio nome nonché la propria abitazione, ma l’arrivo di una seconda lettera aveva cambiato le cose: lì, infatti, veniva fornito un indirizzo preciso, indicando molto chiaramente che Cathy si trovava in quella casa e che aveva bisogno di aiuto. Il professor Lumacorno, direttore della Casa a cui Cathy apparteneva quando era sparita, era stato scelto per la spedizione e aveva accettato di portare con sé Ted, che tra i compagni della ragazza sembrava il più ansioso di ritrovarla. Purtroppo, tutto era finito in un buco nell’acqua: solo un’elfa domestica abitava quel luogo da anni e sosteneva di non conoscere nessuna Catherine Scott. Nonostante ciò, i professori della scuola avevano deciso di sorvegliare a turno la villa per accertarsi che la ragazza non fosse davvero tenuta lì contro la sua volontà, ma nel giro di una settimana non avevano scoperto nulla; nessuno, a parte l’elfa, entrava o usciva dalla casa, le finestre non lasciavano intravedere presenze umane ed era stato impedito di Materializzarsi all’interno. Giorno dopo giorno, gli insegnanti tornavano a scuola sempre più insoddisfatti e convinti di star sprecando il proprio tempo, giungendo alla conclusione che quella lettera anonima non era altro che un pessimo scherzo. Solo Teddy non si rassegnava a quella realtà e tempestava gli insegnanti di domande ogni volta che tornavano da un appostamento, proponendo soluzioni più o meno realistiche per ritrovare la ragazza. Il professor Paciock, notoriamente disponibile e comprensivo, non aveva mai smesso di ascoltarlo.

“Siamo tutti agitati, Professore, e stanchi”. Maggie si era intromessa nuovamente nella discussione e tentava di placare le acque, prima che Ted fosse vittima di uno suoi attacchi d’ira e iniziasse a sbraitare che non stavano facendo abbastanza. “Dai, Teddy, torniamo al dormitorio. Penseremo a qualcos’altro”.

“Andate voi” rispose subito lui, “io resto ancora un po’”.

“D’accordo”. Maggie non insisté e si allontanò insieme a Samuel, che salutò l’amico con voce atona. Nessuno riusciva più a capirlo, negli ultimi tempi; era come se i conflitti che l’avevano inizialmente tenuto lontano da Cathy avessero contribuito, in seguito, a creare un legame speciale tra loro, qualcosa che era cresciuto nel tempo e aveva raggiunto il suo culmine con la sparizione della ragazza. Era tornato chiuso e silenzioso come quando si era messo in testa di pedinare Young, senza che nessuno capisse perché lo stava facendo e che cosa sperava di ottenere. Gli altri cercavano di fargli comprendere che erano preoccupati quanto lui, ma la convinzione di essere l’unico a poter trovare Cathy era difficile da scalfire; se avesse davvero delle informazioni in più rispetto agli amici era un mistero per chiunque, ma che sentisse enormemente la sua mancanza e soffrisse per l’assenza di notizie era una realtà innegabile. A poco a poco, tutti i compagni stavano prendendo in considerazione l’idea che Cathy non tornasse più, ma sembrava proprio che Teddy non si sarebbe mai rassegnato.

“Credo che faresti bene a dormirci sopra, Ted” gli consigliò Paciock, una volta che furono rimasti soli. “Tu la conosci molto bene, no? Prova a pensare dove potremmo cercarla... Magari si è nascosta in quella casa per un po’ e adesso è da un’altra parte. Non credo che le incursioni nella villa abbiano più molto senso, ormai”.

Teddy annuì e abbassò lo sguardo sulle proprie scarpe, nel tentativo di accettare quella realtà. Focalizzando l’alternativa peggiore di tutte, domandò: “Che cosa succederà se non la troviamo? Interverrà il Ministero?”

“No, non credo proprio. Tecnicamente non si tratta di sparizione di minore, perché le persone responsabili di Cathy sostengono di sapere dove si trova. D’altra parte, frequentare Hogwarts non è obbligatorio e non possiamo imporglielo con la forza. Se non la troviamo, temo che potremmo non rivederla”.

Dopo quella considerazione giusta quanto infelice, Teddy smise di ribattere. La sua mente stava già rielaborando un nuovo piano, un’alternativa qualsiasi per non abbandonare ogni speranza. Pensò a tutti i luoghi in cui Cathy avrebbe potuto nascondersi, ma nello stesso istante capì di non conoscerla così bene come credeva; non si era mai dato pena di sapere come fosse la sua vita prima di Hogwarts, se avesse amici fuori dall’orfanotrofio e altri posti che era solita frequentare. L’aveva giudicata per i suoi difetti senza chiedersi perché si comportasse a quel modo, senza considerare che la sua vita poteva essere ben più dura della propria. Adesso ne pagava le conseguenze, rischiando di non poter più chiederle quelle cose che proprio ora acquisivano importanza. Finì per sentirsi demoralizzato, senza una via d’uscita.

Dopo qualche secondo di silenzio in cui nessuno riusciva più a trovare le parole giuste, Paciock gli consigliò nuovamente di andare a letto e quella volta Ted acconsentì. Si ritirò a passo lento verso la Torre di Grifondoro, continuando a riflettere su ciò che poteva e non poteva scoprire, cercando di riportare alla memoria i più piccoli dettagli delle sue conversazioni con Cathy. Quando una sola rampa di scale lo separava ormai dalla Signora Grassa, qualcosa di nero e peloso gli tagliò la strada: era Harry il gatto, che da quando la sua padrona era andata via si sentiva libero di scorrazzare per il castello come se ogni angolo fosse casa sua. Ted sorrise e si abbassò per fargli una carezza, notando quanto fosse cresciuto e avesse imparato perfettamente a spostarsi da un dormitorio all’altro. Pensare che, quando era solo un cucciolo, lui e Cathy avevano rischiato di perdersi per Diagon Alley nel tentativo di fermare la sua corsa, finendo anche in luoghi poco raccomandabili che li avevano condotti dritti dritti a quello scontro con Young… Ma il gatto era piccolo, solo e spaventato, non conosceva colei che l’aveva adottato e cercava solo un luogo sicuro dove rifugiarsi.

Spaventato, pensò di nuovo. Soprattutto spaventato.

La mano che ancora accarezzava Harry si fermò a mezz’aria, lasciando il micio deluso e con il naso all’insù ad osservare Teddy. Il ragazzo si alzò e restò fermo sul posto, colpito da un’illuminazione. Poi, un istante dopo, fece dietrofront e corse all’impazzata giù per le scale, incurante delle proteste dei ritratti. Si augurò che il professor Paciock non fosse già tornato a casa, così che potesse condividere con lui quello che aveva appena scoperto. Perché in un attimo, finalmente, tutto era diventato chiaro: Ted sapeva dove trovare Cathy.

*

Nel vicolo cupo di Notturn Alley che la ragazza aveva eletto a sua seconda casa, il tempo sembrava non passare mai. Pochi erano i passanti che si fermavano da quelle parti, trattandosi di una strada chiusa, e le vetrine dei negozi che la occupavano erano così annerite da non permettere di guardare agevolmente all’interno. Era lo stesso luogo in cui si erano svolte le esercitazioni con Rodolphus, in quella che sembrava ormai un’altra vita; Cathy aveva preso l’abitudine di sedersi sul marciapiede con le mani allacciate attorno alle ginocchia, senza far altro che pensare, pensare e pensare, fino a quando il sole lasciava spazio alla sera e lei era costretta a rientrare, consapevole che per il suo tutore sarebbe stato sempre troppo presto. Quel giorno era così assorta che sobbalzò nel sentire un miagolio tanto vicino al proprio orecchio, in una strada che di solito anche gli animali evitavano. Non fece quasi in tempo a riconoscerlo che il gatto le fu in grembo, reclamando le carezze che tanto a lungo gli erano state sottratte.

“Harry!” esclamò, quando infine capì che si trattava davvero di lui. “Oh, Harry... Come hai fatto a trovarmi? Mi sei mancato così tanto! Scusami, scusami, non volevo lasciarti... Perdonami, almeno tu...”

Lo strinse forte davvero, così tanto che la bestiola tentò di divincolarsi. Aveva dimenticato l’odore caratteristico del suo pelo, quel profumo che sapeva di Hogwarts, di affetto e di magia. Solo per un attimo riuscì a chiedersi come fosse arrivato lì, ritenendo impossibile che avesse fatto tanta strada da solo; quando alzò gli occhi verso lo sbocco del vicolo, la risposta era davanti a lei, sollevata e sorridente nella persona di Ted Lupin.

“Ciao”, fu tutto quello che le disse. Cathy fu tentata di scappare, ma sapeva bene che dall’altra parte della strada ci sarebbe stato un muro ad attenderla. Non era preparata a trovarsi davanti tutti i fantasmi che la tormentavano, non così di colpo; ma probabilmente, pensò, non lo sarebbe stata neanche dopo settimane di preavviso.

“Che ci fai qui?” gli chiese, esternando un tono più sconvolto che sgarbato.

“Il tuo gatto voleva rivederti” rispose Ted, “così ho pensato di riportartelo. Sai, è stato poco carino abbandonarlo in quel modo, senza neppure un saluto”.

Quella frase riuscì a farla sentire in colpa più che se Teddy avesse parlato chiaramente, sostituendo il soggetto ‘gatto’ con un più veritiero ‘noi’. Tuttavia, l’amico stava ancora sorridendo e questo rese più sopportabile il groviglio che le si era formato nello stomaco.

“Ho fatto tante cose poco carine” confessò, chiedendosi quante scuse sarebbero seguite a quella prima ammissione. Per il momento, non riuscì a dire altro e continuò a stringere Harry a sé, come per trarne conforto.

Teddy non sembrava avere fretta. Sedette accanto a lei sul marciapiede e Cathy ebbe un brivido, al pensiero di tutte le volte che erano stati così a contatto e al nuovo significato che questo acquisiva. Come si sarebbe sentito Ted, sapendo di avere vicino la figlia di coloro che odiava? Probabilmente sarebbe scappato da dove era venuto, riportandosi anche la compagnia felina che lei non meritava di avere. Si augurò che il momento della verità fosse il più lontano possibile, perché non credeva di riuscire ad affrontarlo.

“Come mi hai trovata?”

Teddy indicò il gatto acciambellato nel suo grembo e spiegò: “Grazie a lui. Mi sono ricordato di quella volta che siamo venuti a cercarlo e di quello che tu avevi detto riguardo Notturn Alley… È un buon posto se sei spaventato e vuoi nasconderti. Come te adesso, giusto?”

L’intuizione era impeccabile, neppure Cathy stessa ricordava di averlo detto. Senz’altro lo pensava, però, perché era esattamente così che si sentiva in quel momento. Annuì piano, ammirando l’intelligenza di Ted e il fatto che fosse venuto fin lì per lei. Si sentì un verme.

“Non so da dove cominciare” affermò, consapevole che il ragazzo aspettava solo di sentirla parlare. “Sono successe così tante cose… E ho fatto un sacco di sbagli, lo so”.

“Potresti iniziare a dirmi perché sei scappata” suggerì Ted. Cathy prese fiato e si accorse di non avere una risposta a quella domanda, almeno non una sola. Erano tanti i motivi che l’avevano spinta a farlo, ma doveva scegliere con cura le parole per aggirare la verità più scottante. Iniziò comunque da una di quelle più difficili da comunicare.

“È stata colpa mia se Eliza ha avuto quell’incidente. Stavamo litigando, non mi ero esercitata abbastanza a tenere a freno i miei poteri e così sono esplosi contro di lei, anche se non avrei mai voluto farle del male. Per questo mi hanno ritrovata al buio nella foresta, ho cercato di autopunirmi. Avevo tanta paura che non si riprendesse mai più…”

Non aveva guardato negli occhi Ted mentre parlava, temendo che un qualsiasi cenno di rancore da parte sua potesse fermarla. Aveva scelto di essere sincera e sarebbe andata fino in fondo, a qualsiasi costo.

“Non lo immaginavo” commentò Ted, senz’altro colpito ma non arrabbiato. “Forse avresti dovuto seguire i consigli di Young, ma in ogni caso non l’hai fatto apposta… Ed Eliza sta bene, ormai. Tra pochi giorni uscirà dall’infermeria”.

“Oh, menomale! Sono proprio contenta”. Era la prima buona notizia da settimane.

“Ti perdonerà” continuò Ted, anticipando il suo pensiero successivo. “Lei perdona tutti, lo sai”.

Forse era vero, rifletté Cathy, ma si trattava solo della punta dell’iceberg. Tra ciò che aveva davvero fatto e ciò che aveva solo subito la lista era molto lunga, e dubitava che la pazienza di Teddy sarebbe resistita a tal punto; ma si sforzò di aggirare ancora quell’ostacolo e continuò a parlare.

“Non si tratta solo di Eliza. Young… ce l’ha a morte con me, ricordi? Scommetto che non ha deciso di lasciarmi in pace solo perché sono scappata, anzi, devo aver aggravato la situazione. E poi c’è Paciock, che ho ingannato per lasciare la scuola. A proposito, come sta? Non l’avranno licenziato, vero?”

“Ha avuto una bella ramanzina dal Preside, questo sì. Ma poi Vitious ha capito che le sue intenzioni erano buone e ha deciso di non licenziarlo. Anche lui ti perdonerà, sta’ tranquilla… È un grande, il mio insegnante preferito. Se non fosse stato per Paciock non ti avrei mai trovata”.

Dopo quella precisazione, Cathy realizzò improvvisamente di non aver approfondito una questione importante e i suoi sensi si allertarono. “A proposito… Cosa sanno gli insegnanti di me e di dove sono stata?”

Teddy iniziò a raccontarle tutto, dalle lettere ricevute agli appostamenti e alla sua intuizione finale. Cathy era già a conoscenza di alcune cose, ma il fatto che i professori avessero sorvegliato a turno la villa fu un vero colpo. Capì che le ansie di Rodolphus al limite del maniacale avevano un fondamento e che, se non fossero stati abbastanza attenti, lui avrebbe rischiato davvero la galera. Da un momento all’altro, Cathy fu in preda al panico.

“Lo sa anche Young?” domandò a Ted, troncando il suo discorso non ancora terminato. “Sa della casa e degli appostamenti?”

Dopo un tempo che le parve infinito, lui replicò: “No. Ultimamente è così fuori di sé che gli altri insegnanti hanno preferito non dirgli niente della lettera anonima. Sai, la sua ossessione per la magia oscura sta raggiungendo livelli epici… Sarebbe stato capace di pensare che quella casa apparteneva a un ex Mangiamorte”.

Cathy non sapeva se ridere o piangere, ma evitò ciascuna delle due cose. Scelse di sentirsi semplicemente sollevata per il fatto che Rodolphus non rischiasse la vita, il che era già tanto, per il momento.

“A proposito…” riprese Ted, “ci stavi davvero in quella casa? È del tuo tutore?”

Cathy eluse la domanda: “Non voglio parlare di lui adesso, ci sono cose più importanti. Dicevamo di Young; lui non mi perdonerebbe, giusto? Se tornassi mi espellerebbe immediatamente, ne sono sicura”.

Ted alzò le spalle, mostrando di non avere una risposta certa come alle domande precedenti. “Lui è imprevedibile, nessuno sa dire il giorno prima come si comporterà il giorno dopo. Passa da momenti di euforia in cui è capace di ridere e scherzare a momenti di isolamento totale, in cui si chiude nel suo studio tutto il giorno e a lezione punisce ogni studente che gli capiti a tiro. Non so proprio dirti come si comporterà con te, sicuramente riuscirà a stupirci. Ad ogni modo, se non torni non lo saprai mai”.

La guardò negli occhi e in quello sguardo c’era una richiesta precisa, una che Cathy riuscì a leggere molto bene senza sentirla pronunciare. Aveva occhi azzurri, Ted, puliti, trasparenti come chi non ha nulla da nascondere. Invidiò il suo status di figlio di eroi della guerra, poiché ovunque andasse era certo di essere accolto con benevolenza e riguardo. Lei, invece, incuteva paura alla gente con i suoi soli momenti di furia, figurarsi se avessero saputo delle sue origini… Non c’era speranza, su qualsiasi cosa concentrasse i pensieri si ritrovava sempre al punto di partenza.

“Non posso tornare”.

Lo disse così, senza averlo premeditato, come una conclusione a cui era giunta dopo settimane di riflessione. Nonostante il suo amico avesse smontato una a una le sue preoccupazioni, Cathy, semplicemente, non poteva tornare. Ted aggrottò le sopracciglia e per la prima volta sembrò risentito.

“Come sarebbe a dire non puoi? C’è una soluzione a tutti i problemi che hai elencato! È per la scuola? Riuscirai a recuperare, c’è ancora tanto tempo prima della fine dell’anno, posso passarti i miei appunti e…”

“Oh, Ted, basta!” sbottò prima di riuscire a contenersi, alzandosi dal marciapiede e lasciando Harry libero di esplorare il vicolo. Percepì addosso tutto il freddo che aveva accumulato durante la giornata e che l’arrivo di Ted, in un primo momento, aveva spazzato via.

“Se ti dico che non posso, non posso” ripeté, sentendo che le giustificazioni credibili iniziavano a scarseggiare. “Non è tutto così semplice come dici, non lo è per niente! Ci sono cose che non sai…”

“E allora spiegamele, no?” replicò ragionevolmente Ted. “Secondo me puoi affrontare qualsiasi cosa, hai solo troppa paura”.

La testardaggine di quel ragazzo iniziava a darle sui nervi. Pretendeva di capire cose che lei non poteva spiegargli, perché nello stesso istante in cui le avesse comprese ogni interesse a tornare con lei a Hogwarts sarebbe svanito. Era una situazione strana, paradossale; sarebbe stato bellissimo cedere alle sue accattivanti prospettive e cancellare l’incubo che aveva vissuto negli ultimi tempi, ma non era possibile. Quanto a lungo poteva durare una menzogna? Proprio lei, che detestava le persone bugiarde, sarebbe riuscita a mantenere quel segreto per sempre? Sapeva che, con tutte le buone intenzioni del mondo, prima o poi avrebbe fallito nell’impresa; e, così come morire sul colpo era preferibile a una lenta agonia, lo sarebbe stato ugualmente tagliare ogni filo prima che la corda diventasse troppo spessa.

“Perché ci tieni tanto che torni a scuola? Non ero quella antipatica, quella che non sapeva scegliere, quella che voleva allontanarti dal tuo padrino?”

Si era distanziata di proposito per evitare di guardare Ted mentre gli parlava, ma dalla sua esitazione capì di averlo confuso.

“Beh… Sì, lo pensavo, ma è stato tanto tempo fa… Poi le cose sono cambiate, no? Credevo che…”

“Che fossimo amici?”

Ted restò in silenzio.

“Non possiamo esserlo. Così come non posso tornare a scuola e non posso spiegarti che cosa è successo. È tutto così… Sbagliato. Ingiusto”.

“Non capisco, Cathy”. Lo affermò con così tanta dolcezza, così diversamente da come avrebbe fatto il Ted di una volta, che lei non se la sentì di tacere ancora. Ricominciò a raccontare, pur senza sapere dove le parole l’avrebbero condotta.

“Quello che ho fatto a Eliza non è l’unico motivo per cui sono scappata. Volevo incontrare il mio tutore e costringerlo a dirmi la verità, non ne potevo più dei suoi silenzi riguardo la mia famiglia. Così, ho inventato una scusa per andare da lui… E l’ho convinto, sai? Ho saputo tutto. Solo che… È stato molto diverso da come mi aspettavo. Mi sono pentita di averlo fatto”.

Ted tacque ancora, forse rimuginando su quelle parole. Cathy si aspettava che le domandasse cosa aveva scoperto, ma il ragazzo la stupì chiedendo: “E cosa c’entra questo con il fatto che non possiamo essere amici?”

“C’entra, Ted. Tu… Tu dovresti odiarmi. Mi odierai!”

Fissava ancora il vicolo cieco e percepiva la presenza del ragazzo dietro di sé, i suoi respiri profondi che ne tradivano l’ansia. “Perché?” le chiese.

“Perché mia madre ha ucciso la tua”.

Fu di nuovo silenzio. Durò così a lungo che Cathy non resisté all’impulso e si voltò, per scoprire la reazione di Ted a quella rivelazione. Restò sconcertata nel vederlo fermo, con gli occhi bassi, senza urlare né prenderla a pugni né tantomeno investirla di altre domande. Nessun “ma cosa stai dicendo”, nessun “sei impazzita?”; Ted era come in trance, talmente sconvolto da non riuscire a emettere suono. O forse era solo arrabbiato? A Cathy, quell’atteggiamento non parve positivo; avrebbe preferito arrivare a uno scontro diretto piuttosto che a quel silenzio insondabile, pieno di nuovi interrogativi. Era sul punto di scuoterlo quando, finalmente, lo sentì parlare di nuovo.

“Lo sapevo”, disse.

Cathy pensò di non aver capito bene. “Che… Che cosa? Tu lo sapevi?”

“Lo sospettavo, in verità. La conferma potevi darmela soltanto tu”.

Quella risposta sconvolse tutti i piani che Cathy si era costruita nella mente, ogni possibile reazione di Ted ed eventuale via d’uscita colò a picco come un castello di carte. Quello era il jolly, l’asso nella manica che non avrebbe mai creduto di possedere; le avessero detto che Ted già sapeva, gli avrebbe probabilmente riso in faccia.

“E come facevi a sospettarlo?”

“Me l’ha detto Harry. Non il gatto, ovviamente, ma il mio padrino”. Alzò di nuovo lo sguardo e sembrò lasciarsi andare a un sorriso, proprio quello che Cathy temeva di non rivedere. Poi aggiunse: “Il sangue Grifondoro, sai. Tanti anni fa, quando… Sì, insomma, Voldemort non aveva più un corpo, usò il sangue di Harry per rinascere con una pozione, che in questo modo dev’essere arrivato fino a te. Era un sangue magico il suo, perché la madre morì per salvarlo quando era solo un bambino. Non chiedermi come abbia fatto Harry a collegare tutto questo a te, non lo so neppure io”.

Il sangue Grifondoro, la rivelazione del Cappello. Aveva archiviato quel particolare tra le tante bugie che le erano state dette, rinunciando alla speranza che potessero avere un fondamento; ciononostante, quella sembrava la giornata delle sorprese.

“Così avete capito che sono figlia sua, certo. Ma mia madre? Come poteva saperlo Harry, non lo sapeva nessuno…”

“Quella è stata un’intuizione di conseguenza. Vedi, dopo che Bellatrix morì, lui raccolse i suoi ricordi in una boccetta e riuscì a visitarli grazie a un incantesimo, o qualcosa del genere. È per questo che aveva l’impressione di conoscerti già, quel giorno a Diagon Alley: si ricordava di lei da bambina. Dice che le assomigli molto”.

“I suoi ricordi?” esclamò Cathy, che non aveva mai sentito di un incantesimo simile. “Ma allora dovevo esserci anch’io, no?”

Teddy scosse la testa e lei, suo malgrado, restò delusa. “No, mi dispiace. Altrimenti l’avremmo capito molto prima”.

“Vorrei vederli lo stesso… Pensi che Harry mi presterebbe quella boccetta?”

“Può darsi, ma non ce l’ha più adesso. È una storia lunga e nemmeno io ci ho capito molto, in verità”.

L’argomento ‘ricordi’ fu temporaneamente archiviato, sebbene Cathy l’avesse fissato nella mente con l’intenzione di riprenderlo. Non le era ancora chiaro quale fosse l’opinione di Ted in tutto ciò, aveva quasi paura ad approfondire qualcosa di cui lui, forse, non voleva parlare.

“All’inizio non voleva dirmelo” riprese poi, liberandola dalla necessità di esporre altri dubbi. “Credeva che… Beh, che non l’avrei presa bene se l’avessi saputo. Ma quando gli ho detto che eri scappata via e non sapevamo dove trovarti, lui ha creduto che potesse avere a che fare con le tue origini e così me ne ha parlato. Ha capito anche questo, alla fine… Un genio, non c’è altra spiegazione”.

Sembrava impossibile, ma le teorie di un tempo avevano dunque una spiegazione: il suo sangue era davvero quello di Harry, sebbene lui non fosse propriamente suo padre, e a quanto diceva Ted sembrava essere di più, molto di più che un semplice sangue Grifondoro. Finalmente il puzzle si ricollegava, ogni pezzo tornava al suo posto nonostante l’apparente incompatibilità con i compagni; ma il particolare più rassicurante, in tutto quello scenario, era che Ted non l’avesse ancora guardata con la stessa rabbia che riservava a Jason.

“Quindi, tu non mi odi?” lo buttò fuori prima che potesse pentirsene, colta dal bisogno irrefrenabile di avere quella risposta. Cercò di nuovo lo sguardo del ragazzo, ma lo trovò sfuggente e insondabile.

“Non ne ho motivo” rispose lui. “All’inizio mi sono un po’ arrabbiato, questo sì... Non mi piaceva l’idea che proprio tu, quella che mi ha salvato dall’incidente sulla torre e mi ha seguito nel pedinamento di Young, fosse figlia di persone del genere. Era come se mi avessi tradito, pur non essendo colpa tua... Ma poi, io e Harry abbiamo parlato tanto. Mi ha ricordato che anche lui fu associato a Voldemort in passato per alcune ‘qualità’ che avevano in comune, e che addirittura lo credettero erede di Serpeverde. Non lo era, certo, ma il punto è che chiunque può essere vittima di pregiudizi. Sai, io odio Dolohov non perché suo nonno ha ucciso mio padre, ma perché è come lui, razzista e arrogante. Il tuo caso è un po’ diverso... Ti ho conosciuta come orfana cresciuta dai Babbani, non ho mai visto in te caratteristiche tipiche di gente come quella. E poi... Poi ho pensato che c’è anche un lato positivo, in tutto questo”. Finalmente alzò gli occhi verso di lei e, miracolosamente, sorrise di nuovo. “Siamo parenti, dato che mia madre era tua cugina. Lo so che può sembrare poco, ma non ho mai avuto familiari all’infuori di mia nonna ed è stata una scoperta incredibile! Per questo ho insistito tanto a cercarti, credo... Non mi piaceva l’idea di perderti proprio dopo aver saputo chi eri in realtà”.

Cathy era così raggiante che gli avrebbe volentieri gettato le braccia al collo, se solo non si fosse sentita troppo in imbarazzo. Improvvisamente, si diede della stupida per aver creduto che Teddy le voltasse le spalle solo per via di un pregiudizio; lei era sua amica da ben prima di conoscere quella verità, gli aveva dimostrato più volte di non avere niente a che fare con gli ideali classisti di certi Purosangue e lui, in quei giorni di lontananza, doveva essere maturato molto, al punto di trovare un lato positivo in quella situazione incresciosa. Paradossalmente, era proprio quella nuova consapevolezza ad aver fatto sì che s’incontrassero, spazzando via tutti i fantasmi con la spontaneità delle parole. Finalmente, grazie a Rodophus prima e a Ted poi, Cathy capiva ogni cosa: sapeva perché il Cappello era stato così indeciso su dove Smistarla, avendo notato le sue oscure origini mescolate a un miracoloso e protettivo sangue Grifondoro; sapeva che scegliere l'una o l'altra Casa equivaleva a decidere da quale parte schierarsi, se restare fedele ai suoi genitori o se rinnegarli in nome del bene; capiva perché le persone tremassero davanti ai suoi occhi fiammeggianti, perché le venisse così naturale giocare con gli elementi e percepire la magia nei luoghi più antichi e tradizionali. Ma ogni dettaglio, anche quello maggiormente sgradevole, diventava di gran lunga più sopportabile all’idea che Ted sarebbe rimasto ad affrontarlo con lei. Era tutto così fantastico e inaspettato che credette di sognare.

“Resterà il nostro segreto” riprese poi Teddy, riportandola alla realtà. “Mio, tuo e di Harry. Sempre che tu sia d’accordo, ovviamente... Non lo diremo a nessuno che non potrebbe capire, come Maggie o Young. Soprattutto non a mia nonna… Lei ne ha passate tante, capisci? Non ti accetterebbe facilmente come nipote...”

Cathy annuì con vigore ed esclamò, entusiasta: “Certo, per me va benissimo!” Non avrebbe potuto chiedere altro, per quel giorno.

“Bene. E allora… Ci torni a Hogwarts con me?”

Cathy non aveva più bisogno di pensarci: annuì una seconda volta e, per chiarire maggiormente il concetto, esternò anche un caloroso “sì!”.

“Fantastico! Il Professor Paciock è qui fuori ad aspettarci, torneremo con lui. Andiamo, dai!”

“Aspetta, Ted”. Il ragazzo si era già avviato verso l’uscita del vicolo e si mostrò deluso. Cathy gli sorrise spiegandogli, serena: “Prima devo fare una cosa. Ma tornerò presto, te lo prometto”.

L’espressione di lui si distese di nuovo, nella certezza che l’impegno preso sarebbe stato mantenuto. Quell’angolo cupo di Notturn Alley, desolato e ignorato dal mondo, non era mai stato così luminoso.

*

A villa Lestrange, intanto, l’unico essere umano rimasto continuava a mentire a se stesso. S’illudeva che mandare via Cathy fosse stata la mossa più saggia, sebbene la ragionevolezza gli suggerisse che all’interno della casa sarebbero stati entrambi al sicuro, grazie agli incantesimi anti-Materializzazione e a quelli anti-spia che aveva applicato alle finestre. Sapeva che il personale della scuola sorvegliava la villa da giorni: lui per primo era stato uno studente della McGranitt, l’aveva vista trasformarsi in un gatto durante le lezioni e riconosceva all’istante quei segni caratteristici attorno agli occhi; aveva anche abbastanza esperienza da individuare gli incantesimi di Disillusione con cui altri maghi occultavano la loro presenza, sapendo bene che essi permettevano di mimetizzarsi ma non di sparire completamente. Era poi certo che, per qualche motivo, Albert Young non fosse al corrente di nulla: lui non sarebbe ricorso a mezzucci come quelli per spiare una casa che conosceva molto bene, né avrebbe avuto alcun dubbio su chi si nascondesse all’interno. Tuttavia, più il tempo passava, più aumentava il rischio che qualcosa cambiasse e, per questo motivo, Rodolphus osservava tanto spesso il cielo, nell’attesa che Rabastan o Percy Weasley gli inviassero notizie.

Quel giorno, però, nessuno sembrava essersi appostato nei dintorni; ciò gli diede modo di distrarre la mente dall’ansia e riflettere su un secondo tarlo, persino più insidioso, che lo disturbava da settimane. Non aveva allontanato Cathy solo per una questione di sicurezza, benché continuasse a ripeterselo come un’arma di difesa: la verità era che la sua presenza lo rendeva nervoso, ma in un modo diverso da come aveva sempre fatto. C’era qualcosa, in quella ragazzina e negli effetti che aveva su di lui, che non gli piaceva affatto; non solo aveva trascorso con lei tanto tempo senza più percepirlo come una noia, ma era arrivato a risparmiare una Babbana solo perché lei gliel’aveva chiesto. Non c’era più motivo di tenerla buona, anzi, sarebbe stato un ottimo modo per togliersela di torno ora che non ne aveva più bisogno… E allora, perché? Si domandava cosa ci fosse di tanto potente in quegli occhi umidi e imploranti da indurlo ad ascoltarla, rinunciando a un’azione che aveva compiuto mille volte senza rimorsi. S’illudeva che fosse la sua somiglianza con Bellatrix a influenzarlo a tal punto, ma mai sua moglie aveva usato quello sguardo e quei toni per ottenere qualcosa da lui. Bella non chiedeva, non supplicava: le bastava provocare o schernire per convincere suo marito a darle ascolto, e non era mai accaduto che lo costringesse a risparmiare qualcuno. Cathy, incredibilmente, con la sua spontaneità riusciva a ottenere da Rodolphus l’esatto opposto di ciò che sua madre avrebbe voluto, riportandogli alla mente ricordi che credeva sepolti per sempre. Un tempo, anch’egli aveva desiderato una moglie dolce e remissiva che riuscisse a tirar fuori il suo lato migliore, prima di innamorarsi di una donna che l’aveva reso più inumano di quanto non fosse già. Aveva vissuto tanto a lungo circondato da odio e vendetta da finire per considerarlo normale, dimenticando quella parte di sé che provava un insano benessere nel lasciare intatta una vita. Cathy lo faceva sentire esattamente così, in pace, nel giusto, riportando a galla un altro Rodolphus, lo stesso che aveva contribuito con entusiasmo al progetto di Libreville senza il desiderio di distruggere il resto del mondo. E il modo in cui si sentiva, quando Cathy lo guardava e gli sorrideva e gli diceva che era buono, lo spaventava più della possibilità di trovarsi davanti Young, con lo sguardo famelico di chi ha atteso troppo a lungo la sua preda. La debolezza uccide, su questo il Signore Oscuro non si sbagliava; per essa era finito ad Azkaban e per essa rischiava di fare un’altra scelta sbagliata, dalla quale non c’era ritorno. Si augurava che Rabastan tornasse libero al più presto, così da lasciare per sempre quella casa e dimenticare gli ultimi momenti che vi aveva vissuto.

L’arrivo di Cathy lo trovò ancora immerso in quei pensieri. Rodolphus capì immediatamente che qualcosa era cambiato: dal modo in cui la ragazza spalancò la porta, con più foga del dovuto, dall’espressione gioiosa con cui gli venne incontro e dal mantello che si lasciò sulle spalle, senza liberarsene subito com’era solita fare. Si avvicinò oltre un limite che non veniva superato da tempo e gli annunciò, raggiante: “Devo dirti una cosa!”

L’uomo ascoltò impassibile dell’incontro con Ted e della decisione di tornare a Hogwarts, che l’avrebbe liberato definitivamente da quella presenza ingombrante. Sollievo e stupore si mescolarono nel suo animo all’idea che di colpo, così presto, ogni pericolo era stato sventato e nulla avrebbe più attirato Young in quella casa. Cathy non l’avrebbe tradito, di questo era certo; avrebbe potuto farlo in qualsiasi momento e l’aveva evitato, probabilmente perché si sentiva in debito verso il suo unico tutore. L’idea che non l’avesse fatto per ragioni diverse e più spontanee non lo sfiorò neppure.

“Bene” le disse, ignorando la curiosa sensazione di vuoto che quella comunicazione gli aveva provocato. “Sei tornata a prendere le tue cose, immagino. Vai pure”.

“Veramente no” Cathy scosse la testa con decisione. “Qui ho solo alcuni vestiti, pensavo di lasciarli per quando tornerò. Sono tornata per salutarti”.

Rodolphus restò più stranito di quanto dovesse per quell’affermazione, come se il distacco con cui l’aveva trattata negli ultimi tempi fosse una buona ragione per non salutarsi. Suo malgrado, le sorrise e rispose: “Giusto. Allora ciao, Cathy”.

Lei, però, non salutò a sua volta. Guardò il pavimento, poi Rodolphus, poi di nuovo il pavimento mordendosi il labbro inferiore; infine, lo fece.

Nell’arco di un istante, ogni distanza fisica tra loro fu annullata da un dirompente abbraccio. Prima che Rodolphus potesse fare alcunché, il viso di Cathy era premuto contro il suo petto e le braccia allacciate attorno alla sua vita, gettando al vento tutti i tentativi che aveva fatto per allontanarla. Disorientato da quel contatto improvviso, avrebbe quasi voluto urlare: perché mi fai questo?

“Grazie” mormorò Cathy, ancora avvinghiata a lui.

“Di cosa?”

“Di avermi tenuta qui con te, anche se rischiavi tanto. Di avermi detto la verità sui miei genitori, insegnato a volare sulla scopa e a giocare a scacchi e tanto altro. E soprattutto, di non aver ferito Catherine; so che l’hai fatto per me”.

Ignorando il fatto che tutte quelle cose, o quasi tutte, avevano motivazioni egoistiche, Cathy era arrivata persino a ringraziarlo. Forse era la gratitudine il motivo di quell’abbraccio, si disse; ciononostante, la ragazza non accennava a mollare la presa. Era chiaro come il sole quello che si aspettava: meccanicamente, senza pensarci troppo, Rodolphus appoggiò le mani sulle sue spalle e ricambiò quello stranissimo gesto. Poi le sussurrò: “Di niente”.

Perdurò per qualche istante, un arco incalcolabile nel tempo e nel silenzio, prima che Cathy si decidesse a scostarsi. Il calore del suo corpo, che aveva usurpato quello di Rodolphus in maniera tanto repentina, sembrò lasciare dietro di sé uno spazio più freddo di quanto non fosse in precedenza. La ragazzina era rossa in viso, ma sorrideva ancora.

“Aspetta” aggiunse poi Rodolphus, colpito da un’idea improvvisa. “Prima che tu vada voglio darti una cosa”.

Evocò dal nulla un piccolo ritratto che era stato occultato molto tempo prima, quando il nome dei Lestrange era ancora un’informazione segreta. Lo porse a Cathy, che poté così specchiarsi in occhi neri come i suoi e ritrovare gli stessi capelli d’inchiostro che scendevano lungo le sue spalle.

“Bellatrix” le spiegò. “Tua madre. Era giusto che la vedessi almeno una volta. Qui era giovane, nel giorno del nostro matrimonio. Azkaban guastò la sua bellezza, almeno per chi non sapesse guardare oltre i segni della prigionia”.

Cathy osservò l’immagine con stupore, notando senz’altro la somiglianza, e si trattenne ancora un po’ per conoscere la donna che l’aveva generata. Quell’espressione rapita era l’ultimo ricordo che gli sarebbe rimasto di lei; quando andò via, ringraziandolo e portando con sé il ritratto, Rodolphus restò a lungo a guardarla correre e alzarsi in volo sulla scopa, fino a quando la nebbia non avvolse anche l’ultimo lembo della veste.


Note

Stavolta, contro ogni previsione, sono riuscita ad aggiornare dopo poco più di un mese... Non ve l'aspettavate, vero? Be', nemmeno io! Ma, complice anche la compagnia della bacheca del forum, l'ispirazione non è mancata, e d'altra parte questo era un punto a cui non vedevo l'ora di arrivare. Finalmente tutto si aggiusta, Cathy sceglie di tornare a Hogwarts e Teddy le sarà accanto nonostante tutto. C'è però bisogno di qualche spiegazione per chi non la letto "Storia di una Mangiamorte", la long che - adesso posso dirlo - ha diversi punti in comune con questa. Quando Ted dice che Harry ha visitato i ricordi di Bellatrix si riferisce proprio a ciò che è raccontato lì, ma tutto quello che dovete sapere se non l'avete letta è che quei ricordi - visitati ovviamente con il Pensatoio - ripercorrevano i momenti principali della vita di lei, senza però alcun accenno a Cathy. Si evinceva un rapporto particolare con Voldemort ma, comunque, Harry non avrebbe mai potuto immaginare che avessero avuto un figlio.

Ah, se poi vi state chiedendo che tipo di cugini siano Ted e Cathy, ho un'unica risposta: non lo so. Ho cercato in lungo e in largo questa informazione, ma pare che i cugini di secondo grado siano i figli dei cugini di primo grado (in questo caso, Ted e un eventuale figlio di Cathy), mentre gli zii di secondo grado non esistono, quindi... Alzo le mani. Solo gli inglesi (come al solito!) hanno una definizione precisa per questo tipo di parentela, che si dice first cousins once removed. Ok, forse non ve ne importa nulla, ma visto che ho perso tempo a cercarla ve la beccate..! Finisco qui, che ho fatto delle note lunghissime: al solito, spero che il capitolo vi sia piaciuto. A presto!

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Capitolo 28
*** Una nuova opportunità ***


28


Ted non si era sbagliato sulla possibile reazione di Neville Paciock: dopo un primo momento di imbarazzo in cui Cathy non trovava il coraggio di guardarlo in faccia, era stato lui ad appoggiarle una mano sulla spalla con fare paterno e a dirle che tutto si sarebbe aggiustato, che l’aveva già perdonata. La ragazza era quindi riuscita a scusarsi apertamente e a confessare il suo inganno, senza cercare giustificazioni nei momenti orribili che aveva attraversato. Era finito così, tra un sorriso e una stretta di mano, l’ultimo giorno di Cathy a Diagon Alley: mentre il sole tramontava, una Passaporta l’aveva ricondotta a Hogwarts in compagnia di Ted e dell’insegnante. Al loro arrivo, il castello non era cambiato, continuando a vegliare sui suoi occupanti come un guardiano attento e silenzioso; lo sguardo di Cathy si era illuminato nel rivederlo e il suo cuore si era acceso di speranza, all’idea di potervi trascorrere nuovi, lunghissimi mesi. Era strano come tutto apparisse diverso, ora che Hogwarts era tornata una realtà vicina e tangibile: le paure erano ancora lì, relegate in un angolo della mente, ma avevano assunto i contorni di vecchi nemici e non più di un indefinito senso di oppressione. Era quella la differenza tra affrontare i propri fantasmi e lasciarli crescere in un vicolo solitario; adesso che lo capiva, Cathy rimpiangeva soltanto di non averci pensato prima.

Rientrare fu più semplice di quanto avrebbe immaginato. Nel suo percorso verso la torre di Grifondoro non incrociò alcun professore che potesse soffocarla di domande, e gli studenti che conosceva appena sembravano concentrati su tutto meno che sulla sua presenza. Si sentì sciocca, persino presuntuosa, ad aver pensato che chiunque l’additasse a vista: la scuola era andata avanti anche senza di lei, era possibile che la notizia della fuga non fosse neppure trapelata al di fuori della sua cerchia e, con un po’ di fortuna, nemmeno tutto il resto sarebbe venuto a galla.

Ted le fece cenno di tacere, prima di pronunciare la parola d’ordine e attraversare il buco del ritratto. Entrarono a passi lenti, felpati, guardandosi attorno con circospezione. I gruppi di studenti di cui ormai conoscevano le abitudini occupavano i loro posti consueti, a scelta tra le poltrone, le sedie e… Il pavimento. Proprio lì, nelle vicinanze del camino, i boccoli biondi di Maggie le coprivano quasi del tutto la faccia, china su una pergamena piena di arzigogoli. Accanto a lei, Samuel rifletteva sul proprio compito, mentre le sorelle Hill erano stranamente silenziose e intente a sfogliare i loro libri; nessuno sembrava essersi accorto dei nuovi arrivati. Ted lanciò a Cathy uno sguardo furbo e tossicchiò, reclamando la loro attenzione: otto occhi increduli si sollevarono sulla figura di lui per poi spostarsi, con ancor più meraviglia, su quella di lei. Tutti gridarono il nome di Cathy, l’urlo di Maggie fu così acuto da far voltare anche gli altri ragazzi della Casa; un attimo dopo, innumerevoli braccia si erano strette attorno al suo corpo fin quasi a toglierle il respiro, ma si trattava di un’oppressione infinitamente piacevole. Quella calda accoglienza le diede forza per rispondere a tutte le domande che, di lì a poco, sarebbero arrivate.

Non le piaceva mentire, perciò si limitò ad omettere. Raccontò ai ragazzi la stessa mezza verità che aveva rifilato a Teddy prima che le cose prendessero una piega inaspettata, in modo che quelle parole già pronunciate suonassero meno false al suo orecchio. Surclassò abilmente l’argomento ‘tutore’ per concentrarsi sul proprio stato d’animo quando aveva lasciato la scuola, nella speranza che s’impietosissero e non notassero le falle del suo racconto. Decise di non accennare a Eliza, anche se questo avrebbe reso tutto più credibile; Ted si era mostrato molto comprensivo sull’argomento, ma non era certa che le ragazze lo sarebbero state altrettanto. In un momento del genere aveva più bisogno che mai di amicizia e calore, non voleva rischiare di perderle di nuovo; la questione andava affrontata con la diretta interessata, tutto il resto sarebbe venuto dopo.

“D’accordo, quindi sei corsa dal tuo tutore perché eri triste e arrabbiata, volevi sapere da lui chi erano i tuoi genitori”. Maggie aveva riassunto in una frase l’appassionato discorso di Cathy, la quale fu quasi risentita da quella brutale semplificazione. “Ma che cosa ti ha detto, poi? E perché ci sei rimasta tanto a lungo?”

Cathy si aspettava quella domanda e aveva preparato la risposta da tempo. Era la parte più difficile, poiché, per quanto piccola, c’era ancora una possibilità che i pregiudizi dei ragazzi li spingessero a prendere male la notizia. Cercando un incoraggiamento nello sguardo di Ted, che fu prontamente lì a sorreggerla, si preparò a parlare.

“Mi ha detto che i miei genitori erano dei Serpeverde. Quelli della peggior specie, sapete, addirittura appoggiavano le idee di Lord Voldemort… Quando l’ho saputo non ci ho visto più, mi rifiutavo di crederlo. Non avevo il coraggio di tornare da voi, mi sentivo così… Sporca. Poi, però, Ted mi ha trovata ed è riuscito a farmi cambiare idea. Questo è tutto”.

“E le ho assicurato” prese la parola Teddy, inaspettatamente, “che per voi non sarebbe cambiato niente se Cathy è figlia di Serpeverde o no, perché è nostra amica e basta. Ho fatto bene?”

Quella domanda non ammetteva altre risposte fuorché sì, e persino Maggie, che aveva per un attimo stretto le labbra, dovette annuire con convinzione. L’istante di smarrimento si tramutò in una serie di sorrisi sinceri e Cathy capì che era finita. La voce le era tremata per un attimo nel pronunciare quel Voldemort, ma la gente era così abituata a quell’esitazione che non avrebbe mai ipotizzato un motivo diverso dalla paura. La frase di Ted, per la quale gli avrebbe regalato dieci scatole di Cioccorane, aveva debellato definitivamente ogni tentativo di replica. Il secondo ostacolo dopo quello di Paciock era superato e, a ciascun passo avanti, le sembrava di intravedere fisicamente la meta.

“Ah, non ci hai ancora detto della villa! Sai, i professori si sono interessati molto alla tua sparizione, e così ogni giorno andavano…”

“Gliel’ho già detto io, Sam”. Quel ragazzo parlava poco, ma aveva la rara capacità di dire sempre la cosa sbagliata al momento sbagliato. Per fortuna, Ted le era venuto nuovamente in soccorso, nel momento in cui Cathy si sentiva già tranquilla e aveva abbassato le difese. Raddoppiò mentalmente le scatole di Cioccorane che avrebbe dovuto regalargli.

“Piuttosto” continuò Ted, “come sta Eliza? Siete andati a trovarla, oggi?”

“Oh, sì! È proprio questa la bella notizia!” Era stata Susan a parlare, ma Maggie non si lasciò rubare quell’occasione dal piatto e sovrastò la sua voce con la propria: “Sta molto meglio, domani esce! Che bello, saremo di nuovo qui tutti insieme, non vedo l’ora!”

Nessuno ebbe il tempo di replicare, perché Maggie li strinse nuovamente in un abbraccio spacca-costole. In quel groviglio di corpi, Cathy venne a trovarsi faccia a faccia con Ted e, mentre nessuno li notava, lui le fece un occhiolino. Nello stesso istante, come se avessero potuto parlarsi nella mente, la ragazza capì esattamente ciò che quel gesto significava: l’aveva salvata ben due volte, ma un semplice regalo non sarebbe bastato a ripagarlo. Ted avrebbe preteso la verità, l’unica che lei ancora gli celava e che portava il nome di Rodolphus Lestrange.

*

Quella sera, a cena, Cathy attraversò la Sala Grande dietro le ampie spalle dei Grifondoro più adulti, così che nessuna delle persone che conosceva potesse attirare l’attenzione su di lei. Affacciandosi in uno spiraglio tra Gary Thompson e uno dei suoi compagni massicci, spiò ansiosa il tavolo dei professori alla ricerca di Young, con la speranza di trovarlo di buon umore. Con sorpresa, però, si accorse che il suo posto era vuoto; in compenso, quando abbandonò la propria muraglia umana per andare a sedersi, notò che la Holland la salutava con la mano e le rivolgeva uno dei suoi radiosi sorrisi. La donna aveva avuto modo di conoscerla bene durante le lezioni di recupero, probabilmente l’assenza di Cathy aveva preoccupato anche lei e la ragazza non ci aveva neppure pensato. C’erano un sacco di persone che avevano sofferto a causa sua, rifletté, mentre se ne stava su un gradino di Notturn Alley a rimuginare sui propri problemi; appoggiò il viso alle nocche e continuò a rivolgere sguardi vacui a quel posto vuoto, sentendo il proprio stomaco chiudersi a riccio e rifiutarsi di collaborare.

“Sono giorni che non scende a cena” mormorò Ted, che al contrario di Cathy si era già servito di una generosa razione di pollo. Doveva aver intercettato lo sguardo di lei e compreso che stava pensando a Young.

“Davvero?” replicò Cathy. “Chissà perché…”

“Te l’ho detto, è strano ultimamente. Se ne sta sempre chiuso nel suo studio a riflettere sulle Arti Oscure, o almeno è quello che si dice in giro”.

Un brivido percorse la schiena della ragazza al pensiero che quelle faccende potessero riguardare Rodolphus, ma lo scacciò via subito dandosi della paranoica. Si limitò ad alzare le spalle e a cercare il lato positivo di quella situazione: “Beh, speriamo che sia troppo occupato anche per espellermi. Ho perso il conto di tutte le punizioni che voleva rifilarmi…”

Ted scoppiò a ridere e con il gomito spinse il piatto verso di lei, invitandola a servirsi. Improvvisamente contagiata dalla sua allegria, Cathy accettò l’offerta e senza troppa fatica riuscì ad ingerire un’aletta, seguita più tardi da una seconda e una terza.

*

La compagnia di Ted era riuscita a farle tornare l’appetito, ma non aveva cancellato i sensi di colpa che, associati a un viso dopo l’altro, continuavano a pesare sulla sua coscienza. Cathy non voleva che quella giornata finisse senza un ulteriore sforzo da parte sua, mirato a ricucire almeno uno degli strappi causati. Fu per quel motivo che, una volta lasciato il tavolo, disse ai suoi compagni di avviarsi al dormitorio e che li avrebbe raggiunti dopo dieci minuti. Quel che stava per fare le costava molto, ma non avrebbe sprecato altri istanti preziosi per temporeggiare quando poteva finalmente agire. Camminando con passo deciso, si avvicinò così al tavolo dei Serpeverde.

“Ciao” salutò con voce chiara, rivolgendosi alla totalità dei suoi compagni. Le facce di Vera e Pamela espressero un’evidente delusione, quelle di Evan, Jason e Alexander solo una sincera sorpresa.

“Ah” disse Vera, “sei tornata”.

“Già. Non con tutto questo entusiasmo, eh”. La vena sarcastica non era mai stata una delle sue migliori qualità, ma quella sera le venne incontro. Magari era stata la vicinanza di Ted a trasmettergliela.

“Dove sei stata, Serpedoro?” Quella volta era stato Zabini a parlare, l’unico che utilizzava ancora quel nomignolo. Per lui non era necessario inventarsi un lungo racconto, così Cathy si limitò a dirgli che era andata a trovare il suo tutore e che in seguito si era ammalata. Il ragazzo non fece commenti.

“Beh, c’è altro? Sai, stavamo ancora mangiando”.

Odiò Vera più di quanto avesse mai fatto, forse più che per l’articolo della Skeeter, quando la sentì pronunciare quella frase. Non era di lei che le importava, né di Zabini e degli altri loro insipidi amici, ma solo di Evan, che se ne stava fermo al suo posto senza battere ciglio. E che cosa si era aspettata, in fondo? Che lui l’abbracciasse come aveva fatto Maggie, dopo essere stato ignorato per mesi e persino quando voleva rivelarle la sua scoperta? Cathy non aveva mai smesso di pensare a lui, all’amico con cui aveva condiviso folli congetture, mentre giocava a scacchi magici nella villa di Rodolphus, ma solo in quel momento realizzò che forse per Evan non era lo stesso; poteva darsi che, dopo tutti i tentativi fatti per allontanarlo, ci fosse riuscita davvero proprio quando ne aveva più intenzione. Lo osservò ancora per un po’, cercando di trasmettergli con gli occhi ciò che le parole non riuscivano a comunicare, ma l’espressione del ragazzo era indecifrabile. Era chiaro soltanto che quella sera non le sarebbe venuto in soccorso, non avrebbe fatto il primo passo dopo innumerevoli rifiuti; Cathy capì che non c’era nulla da fare.

“Niente” rispose a Vera. “Volevo solo salutarvi. Ci vediamo ad aprile”.

Nel momento in cui stava voltandosi per andare via, una voce nota e largamente più piacevole la raggiunse all’orecchio. La chiamò per nome, aspettando che lei lo guardasse, e poi affermò: “Sono contento che sei tornata”.

Sembrava sincero, anche se non esattamente entusiasta. In ogni caso, per quella sera poteva bastare. Cathy sorrise a Evan e andò via con il cuore più leggero, preparandosi a una dolce notte in compagnia della sua lampada e del suo vecchio letto; tuttavia, aveva fatto i conti troppo presto.

La figura autorevole della professoressa McGranitt fece la sua comparsa tra gli studenti che lasciavano la sala, come se si fosse materializzata lì dal nulla. Guardava dritto in direzione di Cathy e non ci fu bisogno di raggiungerla per capire che stava aspettando lei. La ragazza deglutì e si preparò alla sua prima ramanzina, una delle tante che non aveva ancora ricevuto.

“Non ti tratterrò molto, signorina Scott, so che è tardi e sarai molto stanca. Volevo dirti che siamo tutti felici di riaverti qui con noi, sana e salva”.

“Grazie, Professoressa, lo sono anch’io”. Sarebbe stato bello se tutto si fosse fermato lì, ma qualcosa, nel viso severo della McGranitt e nelle sue dita intrecciate, faceva intendere che c’era dell’altro.

“Tuttavia, come mi auguro saprai già, il tuo gesto sconsiderato non potrà non avere conseguenze. Abbandonare la scuola in quel modo non è solo pericoloso, ma anche una mancanza di rispetto nei confronti delle persone responsabili della tua sicurezza. Finché sei a Hogwarts, i tuoi tutori siamo noi e devi adattarti alle nostre regole, in qualsiasi caso”.

Cathy non sapeva cosa ribattere. Avrebbe voluto ribadire la sua colpevolezza e dirle che aveva ragione, che era stata una sconsiderata ad andarsene in quel modo e che le dispiaceva moltissimo, ma la sua bocca era secca e le labbra serrate. Il timore per ciò che le sarebbe accaduto di lì a poco era più forte di qualsiasi volontà, perciò non poté far altro che tacere e aspettare di conoscere la sua condanna.

“Domattina ci sarà una riunione straordinaria tra noi insegnanti per decidere cosa fare di te. Se sei fortunata, è possibile che la scelta non cada sull’espulsione. Prima dell’inizio delle lezioni, comunque, ti comunicheremo la nostra decisione”. Le accarezzò la spalla in un gesto frettoloso, come se non fosse abituata a consolare in quel modo una studentessa. Poi aggiunse, con voce più calda: “Ti faccio i miei auguri, Catherine”.

*

Non chiuse occhio per quasi tutta la notte. La McGranitt aveva certamente agito nel suo interesse dicendole che cosa l’aspettava, ma sapere che il rischio di espulsione era così imminente l’aveva gettata nello sconforto. Avrebbe solo voluto più tempo, quanto bastava per chiedere perdono a Eliza e ad Evan e, magari, per abituarsi a quella condizione di incertezza. Oppure, più semplicemente, avrebbe voluto che la sua presenza a Hogwarts restasse definitiva e basta, come se l’essere tornata annullasse automaticamente tutti i guai che aveva combinato. La verità era che si sentiva colpevole, sì, ma non al punto da meritare una punizione così estrema; non avrebbe dubitato che insegnanti dal cuore buono come Paciock, la Holland e Lumacorno fossero pronti a darle una seconda possibilità, ma Young... Il maledetto Young, che non l’aveva presa in simpatia sin dalla loro prima lezione, covava troppo rancore nei suoi confronti ed era a conoscenza di troppe cose, anche quelle che sarebbero dovute restare celate. Sapeva dei suoi poteri e di ciò che potevano causare, sapeva che era entrata nel dormitorio dei Serpeverde senza permesso e che aveva ferito Eliza... Come poteva essere certa che non sapesse anche altro? I brividi di freddo non smettevano di tormentarla, nonostante le pesanti coperte, e rigirarsi su un fianco e poi su di un altro non aiutava a conciliare il sonno. Arresa di fronte a quell’evidenza, afferrò la lampada di lato al cuscino e se la portò davanti al viso, perdendo lo sguardo in quella fiammella azzurra. Che strano, pensò, era proprio dello stesso colore degli occhi di Ted… Senza che neppure se ne accorgesse, la sua mente abbandonò Young e si concentrò sul recente incontro a Notturn Alley, rivivendo i sorrisi e le parole di conforto che l’avevano riportata a casa. Percorse a ritroso tutti gli avvenimenti che avevano vissuto insieme e, poco prima che giungesse all’incontro nella Guferia, ogni pensiero cosciente si spense.

Si risvegliò alle prime luci dell’alba, rendendosi conto solo allora di essersi addormentata in un’imprecisata ora della notte. Quel sonno breve e agitato le aveva provocato un gran cerchio alla testa, ma non aveva nessuna intenzione di rimettersi a dormire; dopo aver dato un’occhiata rapida alla stanza e concluso di essere l’unica con gli occhi aperti, si rivestì in tutta fretta e scese nella sala comune. Recuperò dalla borsa una delle sue pergamene di appunti e la rovesciò sul lato ancora bianco, scrivendoci sopra che era scesa molto presto e di non aspettarla per andare a lezione. Infine, abbandonò la torre senza guardarsi intorno, cercando di non pensare che poteva avervi trascorso la sua ultima notte.

Dopo una colazione frettolosa nella Sala Grande quasi vuota, si precipitò fuori dall’aula professori dove credeva che si sarebbe svolta la riunione. Avvicinò l’orecchio alla porta chiusa e ascoltò dei mormorii indistinti, abbastanza per capire che non si era sbagliata. Raggiunse una panca di legno a qualche metro di distanza e vi si sedette, preparandosi a una lunga attesa; ma, per quanto lunga potesse essere, aveva tutte le intenzioni di non lasciare quel posto fino a quando la porta non si fosse aperta. Voleva essere la prima a conoscere il suo destino e, soprattutto, voleva farlo da sola. Avere qualcuno accanto non l’avrebbe aiutata, non in un momento come quello; per quanto gli altri potessero essere dispiaciuti per la sua situazione, infatti, era lei a rischiare di non tornare più a Hogwarts e di non diventare mai una vera strega. Maggie, Samuel e gli altri non potevano capire, nessuno poteva; si augurava soltanto di tornare presto da loro e portare una bella notizia, piuttosto che dover spiegare con le lacrime agli occhi che non si sarebbero più rivisti.

Trascorse almeno un’ora, forse di più, senza che nulla cambiasse. Il cuore di Cathy aveva smesso di batterle forte e si era arreso alla prolungata assenza di novità, lasciandole dentro una sensazione di vuoto che saliva dallo stomaco fino alla testa. L’attesa era snervante, la ragazza non riusciva a concentrarsi su nulla per poterla ingannare; a un certo punto, un rumore di passi aveva destato la sua attenzione e Cathy aveva drizzato la schiena, ma solo per scoprire che la porta era ancora serrata. Qualcuno si stava avvicinando a lei, per portarle un conforto che Cathy non aveva richiesto. Suo malgrado, nel vederlo, la ragazza sorrise.

“Ah, eri qui allora!” Ted le si sedette accanto senza essere stato invitato, come se avessero preso appuntamento. Erano stati più tempo insieme in quei due giorni che per tutto l’anno scolastico, notò Cathy con gran sorpresa. “Stai aspettando il verdetto, eh?”

Lei rispose con un’altra domanda: “Come lo sai?”

“Beh, bastava fare due più due. Nessuno dei professori era a colazione e tu ti sei alzata più presto di un elfo domestico. Poteva essere solo quello il motivo”.

Cathy sospirò, rassegnata al fatto che Ted scoprisse sempre tutto e facesse ogni volta di testa sua. Dirgli che preferiva restare da sola non sarebbe servito, lui non l’avrebbe ascoltata comunque.

“Cosa credi che decideranno?” chiese invece, con la voce impregnata di paura. Ted incrociò le braccia e parve rifletterci molto seriamente, mentre la ragazza attendeva la sua opinione come un barlume di speranza a cui aggrapparsi.

“Decapitazione” disse infine, “ne sono sicuro. In questi casi è la punizione più ovvia, e poi potresti fare compagnia a Nick-Quasi-Senza-Testa. Carino, no?”

“Quanto sei stupido!” Cathy gli tirò un pugno sul fianco e Ted rispose con un’esclamazione di finto dolore, poi scoppiò a ridere. Benché volesse sembrare arrabbiata, anche lei faticò a rimanere seria dopo quella battuta. L’ilarità durò comunque troppo poco, seguita ben presto dall’angoscia pressante; quando si accorse che Cathy non rideva più, anche Teddy smise di farlo.

“Dai, andrà bene. Stai tranquilla”.

La ragazza annuì, pur se non ci credeva. Tornò a concentrarsi su ogni minimo rumore e a fissare in silenzio la porta, divisa tra la speranza che si aprisse e quella che non lo facesse mai. La presenza dell’amico divenne poco più che un’ombra ai suoi occhi.

“Perché non parliamo d’altro?” domandò poi una voce, da qualche parte alla sua sinistra.

“E di che vorresti parlare?”

“Di qualcosa che abbiamo lasciato in sospeso l’ultima volta. Del tuo tutore, per esempio”.

“Oh, Ted, ti sembra il momento?” Cathy alzò gli occhi al cielo e gli indicò la porta, come per sottolineare che l’unica cosa di cui le importasse era nascosta lì dietro. Inoltre, non si sentiva affatto pronta ad affrontare una nuova conversazione nella quale doveva celare parte della verità; i suoi nervi erano a pezzi, non poteva proteggere Rodolphus in quello stato.

“Non lo era nemmeno ieri” le fece notare il ragazzo, piuttosto ostinato. “Possibile che non ti fidi ancora di me?”

“Non è una questione di fiducia. Questa volta non si tratta di me, capisci? C’è un motivo se il mio tutore è così riservato, non posso divulgare i suoi segreti. Comunque, è una persona buona e non mi teneva lì contro la mia volontà. Sono stata io a non farmi trovare”.

Ted si fece di nuovo pensieroso, quella volta sul serio. Era difficile dire se le credesse oppure no. “Beh, certo, se conosceva i tuoi genitori è ovvio che ha qualcosa da nascondere. Ma cosa cambia se ne parli a me, che non ho ancora dodici anni?”

“Cambia che non lo terresti solo per te, Ted”.

“Ehi, per chi mi hai preso? Guarda che non lo direi a nessuno, non mi chiamo mica Maggie Thompson!”

Cathy scosse la testa, chiedendosi se davvero non capisse o fingesse soltanto. “Proprio a nessuno?” lo incalzò, guardandolo negli occhi. “Neppure a Harry?”

Ted boccheggiò, evidentemente colto alla sprovvista. “Ma lui, Harry... Che c’entra Harry? Lui è...”

“Un adulto” terminò la frase Cathy. “Esattamente come quelli che non devono sapere”.

Poteva darsi che fosse abbastanza di ampie vedute da accettare la figlia del suo nemico, poteva essere tanto gentile e privo di pregiudizi da spingere Ted ad accettarlo a sua volta; ma davanti a un Mangiamorte latitante, anche Harry avrebbe preteso giustizia. Forse era quello che Rodolphus meritava, ma Cathy non sopportava l’idea di perdere l’unica persona che si occupasse di lei. L’aveva sempre trattata con rispetto e tradirlo sarebbe stato un gesto meschino, oltre che contrario ai propri interessi. No, decise, qualsiasi cosa fosse successa, né Ted né nessun altro avrebbe dovuto sapere.

Il cigolio della porta li sorprese proprio quando si erano distratti, battibeccando su cosa Cathy potesse e non potesse dire a Ted. Le loro chiacchiere scemarono fino a diventare silenzio e fu proprio il professor Young, in abito nero e sguardo di ghiaccio, ad uscire per primo dall’aula. Il suo passaggio fu così repentino che i ragazzi non ebbero nemmeno il tempo di salutarlo; rivolse loro solo un cenno della testa e proseguì diritto, lasciando Cathy con più dubbi di quanti non ne avesse già. Dopo di lui, tutti gli altri insegnanti abbandonarono a turno la stanza e nessuno si fermò per più di qualche secondo. L’ultima fu la McGranitt, che finalmente si avvicinò ai due.

“Vieni nel mio studio” disse a Cathy, “devo parlarti”.

La ragazza balzò in piedi e salutò Ted con uno sguardo, che lui ricambiò annuendo. Era un altro tentativo di trasmetterle sicurezza, ma ormai non serviva più: la decisione, qualunque fosse, era presa, e niente e nessuno avrebbe potuto cambiarla.

*

L’ufficio della professoressa di Trasfigurazione non era nuovo a Cathy: c’era già stata qualche mese prima, dopo il ben noto incidente in cui Ted era rimasto ferito. Ricordò tutti quei particolari inutili che credeva di aver dimenticato, come la scrivania estremamente ordinata e i ritratti di rispettabili Grifondoro attaccati alle pareti. Anche allora si era sentita in ansia, ma quelle paure non erano nulla a confronto di ciò che stava provando adesso; l’insegnante la invitò a sedersi di fronte a lei e Cathy obbedì, mentre il suo sguardo vagava fuori dalla finestra e verso il campo di Quidditch, ma senza realmente vederlo.

“Non voglio tenerti ancora sulle spine” dichiarò la McGranitt, “perciò, sappi che la decisione è stata presa: non verrai espulsa. Ti è stata concessa una seconda possibilità”.

Quelle parole sembrarono giungere da molto lontano, come in un sogno, per diventare via via più concrete e invaderla di emozioni. Non verrai espulsa. Ti è stata concessa una seconda possibilità. Aveva detto proprio così? , le suggerì la coscienza, non hai sentito male. Avrebbe voluto mettersi a urlare, saltare sulla sedia e persino abbracciare la sua severissima insegnante, ma non fece nulla del genere. Restò nella stessa posizione, con il cuore colmo di felicità che non osava esternare, nel timore che qualcuno gliela portasse via. La McGranitt non capì il motivo di quel comportamento, perché arrivò a chiederle se fosse contenta; sorpresa, Cathy la guardò negli occhi e le disse di sì, seppure quell’affermazione suonasse troppo debole rispetto alla gioia che realmente provava. La professoressa le sorrise con strana dolcezza.

“Naturalmente” disse poi, “questo non minimizza la gravità del tuo gesto e vale come avvertimento per una prossima volta. Se la cosa dovesse ripetersi, Hogwarts non sarà più disposta ad accoglierti. Su questo voglio essere chiara”.

Cathy annuì con decisione, pensando di non avere un solo motivo al mondo per scappare di nuovo. “Non lo farò mai più, glielo giuro! Adesso ho capito che i problemi vanno affrontati in un altro modo”.

“Sono contenta di sentirtelo dire”.

Ci fu un attimo di silenzio in cui Cathy si sentì stranamente osservata e non seppe cosa fare, se lasciare subito l’ufficio o aspettare altre comunicazioni. Si era domandata tante cose, ad esempio come si fosse posto ciascun insegnante rispetto alla questione e quale potesse essere una punizione sostitutiva, ma alla luce di quella bella notizia niente sembrava più così importante. Stava per chiedere il permesso di alzarsi quando la McGranitt parlò di nuovo.

“Le colpe non sono soltanto tue, questo va tenuto presente. Il mio collega Neville Paciock ha commesso una leggerezza che avrebbe potuto avere conseguenze molto gravi, non solo per la tua incolumità, ma anche rispetto allo Statuto di Segretezza. Una strega della tua età non può sapere quali metodi adottare perché i Babbani non la scoprano… Pensa se qualcuno ti avesse vista, quando sei comparsa a Londra con una pietra stretta in mano! Ma proprio perché la responsabilità non era tua, abbiamo deciso di non punirti ulteriormente. L’unica punizione te la sei inflitta da sola, con tutto lo studio che ti sarà necessario per recuperare. Caricarti di altro lavoro avrebbe significato farti perdere l’anno”.

Annuì una seconda volta, sempre più confusa ed entusiasta per quelle comunicazioni, stentando a credere che tutto si fosse risolto così facilmente. Che fosse il suo giorno fortunato?

“Tuttavia”, riprese l’insegnante, “il Preside tiene molto al rispetto delle regole e forse non sarebbe stato così indulgente, se qualcuno in particolare non avesse preso le tue difese”.

Difese? Pensò subito a Paciock, alla Holland, persino a Lumacorno… Ma ciò che stava per ascoltare avrebbe sconvolto ogni sua certezza.

“Il professor Young. Ha tenuto un lungo discorso sull’importanza della tua educazione, riuscendo a convincere il Preside che non coltivare la magia sarebbe stato un grave errore. Deve avere molta stima di te, pur essendo il Direttore dei Corvonero. Credo che dovresti ringraziarlo”.

Restò a bocca aperta fino a quando glielo consentì la dignità, prima che l’insegnante potesse pensare a un nuovo attacco d’asma. I personaggi di quella scuola riuscivano a sorprenderla anche dopo mesi che vi era entrata, ma Young in particolare era un continuo voltafaccia. Che cosa c’era dietro le sue azioni, questa volta? Era davvero solo generosità o un tentativo di tenerla sotto controllo? Forse, chiedendo che lei restasse a Hogwarts, voleva solo infliggerle una punizione diversa e più personale… E forse, pensò con un nuovo brivido, non erano finiti i motivi per stare in ansia.

“Lui… Il professor Young ha chiesto di vedermi?” domandò, ricordandosi dell’incontro che avevano in sospeso.

“No. Credo sia molto occupato in questo periodo, ma potrai ringraziarlo alla fine delle sue lezioni”.

La McGranitt aveva leggermente travisato la sua richiesta, ma Cathy non se ne curò. Aveva solo voglia di uscire da quella stanza e correre dai suoi compagni, festeggiando la vittoria e lasciando momentaneamente da parte la questione ‘Young’. Credeva di meritarselo, dopotutto.

Come se le avesse letto nel pensiero, la docente accennò ad alzarsi e Cathy si sentì autorizzata a fare altrettanto. Mentre la seguiva verso la porta, ascoltò le sue ultime raccomandazioni.

“Dovrai impegnarti molto, ma studiando con costanza riuscirai a recuperare gli arretrati entro la fine dell’anno. Prendi quest’opportunità come un regalo, cerca di non sprecarla”.

La ragazza attese pazientemente che la McGranitt girasse la maniglia, ma, in qualche modo, le sue aspettative furono disilluse: se un attimo prima la donna era sul punto di aprire la porta, un attimo dopo ne allontanò la mano e vi si appoggiò con la schiena, trovandosi faccia a faccia con Cathy. Il suo volto apparì improvvisamente vecchio e stanco, come se avesse messo da parte l’autorevolezza del proprio ruolo e lasciato trapelare solo il lato più umano. Pur se aveva ancora fretta di uscire, Cathy restò incuriosita da quel nuovo atteggiamento.

“Sai, Catherine, ciò che davvero conta non è non sbagliare mai, ma imparare dai propri errori. Tutti ne commettiamo, io stessa ne ho commessi tanti; anche con te”. La ragazza avrebbe voluto chiederle di che tipo di errori stesse parlando, ma, dopo una breve pausa, l’insegnante riprese da sé il discorso.

“Ho lasciato che le mie sensazioni istintive prevalessero sulla ragionevolezza, sono stata troppo dura in diverse occasioni e me ne rendo conto solo ora. Non so se qualcuno te l’abbia mai detto, ma tu… Assomigli moltissimo a una persona, un’ex studentessa di questa scuola che dopo tanti anni faccio ancora fatica a dimenticare. Nella sua vita ha fatto più male di quanto immagini, qui e all’intera comunità magica; adesso non c’è più, ma ogni volta che ti guardo ho come l’impressione che sia tornata a portare scompiglio e dolore. Naturalmente tu non c’entri, sono certa che non avete niente in comune e, se ti avessi conosciuta qualche anno fa, non avrei mai lasciato che i ricordi mi condizionassero a tal punto. Invecchiare significa anche questo, purtroppo, ed è solo un’altra conferma di ciò che sapevo già. Se non riesco a mantenere la fermezza che questo mestiere richiede, non posso più continuare a farlo. Ho deciso che sarà il mio ultimo anno in questa scuola; prima di andare via, ci tenevo a spiegarti perché ho agito in un certo modo. Mi dispiace”.

La professoressa la guardò ancora un istante, cercando nei suoi occhi una traccia di domande inespresse, prima di farsi da parte e lasciarla uscire. Cathy non aveva nulla da ribattere: la salutò con cortesia e le disse che non importava, che non ci aveva neppure fatto caso. Era una bugia, ma per una volta – per quell’unica volta – pensò che fosse giusto dirla. La McGranitt dovette credere che lei non avesse capito, che quel riferimento a una misteriosa donna del passato l’avesse confusa; in realtà, a Cathy era tutto chiarissimo, compresa la motivazione di quegli sguardi freddi che l’insegnante le aveva spesso rivolto. Quella donna a cui assomigliava tanto non era altri che sua madre: e il suo volto, di cui Cathy nascondeva gelosamente il ritratto sotto pile di maglioni, continuava ad arrecare dolore dopo anni dalla sua morte. Era impossibile, anche volendo, spiegare le emozioni che le parole della McGranitt le avevano suscitato; per questo andò via senza voltarsi, accelerando il passo fin quasi a correre, e chiedendosi se fosse possibile sentirsi in colpa per il solo fatto di essere nata.

*

Quel tragitto dall’ufficio della McGranitt all’aula di Pozioni ebbe il potere di scacciare via ogni pensiero funesto, messo a tacere dalla gioia di essere di nuovo una studentessa di Hogwarts. Non le importò dei ragazzi che non conosceva, né del professor Lumacorno che poteva arrivare da un momento all’altro: quando entrò in classe, intravide il gruppetto dei suoi compagni e gridò loro che ce l’aveva fatta, che poteva restare a scuola. Tutti i volti sorridenti si concentrarono su di lei e i loro corpi, separandosi l’uno dall’altro, lasciarono intravedere un’altra figura, un altro viso, che Cathy non vedeva da molto tempo. Gli occhi verdi la trafissero come il sole d’estate e le sue labbra rosee, dapprima dischiuse per la sorpresa, si curvarono in dolce sorriso. Non era che un’amica, ma in quell’istante le apparve come un angelo.

“Eliza…”

Chiamò il suo nome, ma non le andò incontro; i piedi si erano come incollati al pavimento. Nell’euforia della notizia appena ricevuta, aveva dimenticato che, quello stesso giorno, anche un’altra giovane Grifondoro sarebbe tornata ad occupare i banchi. Le sembrò un curioso scherzo del destino.

“Cathy” disse Eliza, ugualmente emozionata. Fece qualche passo verso di lei, dimostrando più coraggio di quest’ultima, e si ritrovò ben presto a incrociare il suo sguardo sfuggente. “È bello rivederti” aggiunse, e sembrava sincera.

Prima che Cathy potesse rispondere, le braccia di Eliza si erano strette attorno a lei e quell’odore di infermeria che si portava addosso le aveva invaso le narici. Fu un abbraccio discreto, molto diverso da quello dirompente di Maggie e in un certo senso più intimo; Cathy non aveva avuto il tempo di prepararsi all’incontro, né aveva idea di quale sarebbe stata la reazione di Eliza tra le tante possibili, ma quel primo approccio le parve molto promettente. Non ebbe difficoltà a stringere a sua volta l’amica: aveva sentito così tanto la sua mancanza che niente, neppure la colpevolezza, le avrebbe impedito di approfittare di quel momento.

Si staccarono delicatamente nello stesso istante, per quello strano meccanismo della nostra mente che ci fa capire quando è giusto farlo. A quella distanza, Cathy ebbe il tempo di osservarla meglio: era più magra di come la ricordava, ma sul suo viso non c’era traccia del pallore tipico della convalescenza e non aveva difficoltà a reggersi in piedi. Fu un sollievo vederla così, dopo aver temuto di perderla per sempre.

“Come ti senti?” le chiese, ignorando la parte maligna della sua coscienza secondo cui non aveva il diritto di porre quella domanda.

“Bene, adesso” rispose Eliza. “Ho avuto dolori forti in tutto il corpo, ma finalmente è passata. Però, prima che anche tu me lo chieda, non ricordo niente dell’incidente. La mia memoria si ferma a quella sera in cui ero venuta a cercarti e ricomincia quando mi sono svegliata in infermeria. Secondo Madama Chips può succedere, quando si subisce un trauma”.

“Quindi non ricordi proprio niente?” Pose un po’ troppa enfasi su quell’ultima parola, ma nessuno sembrò notarlo fuorché lei. Eliza scosse la testa, in un misto tra impotenza e rassegnazione.

“Forse mi tornerà in mente qualcosa, con il tempo, ma è inutile sforzarsi. Mi sarò ferita da sola mentre mi esercitavo con gli incantesimi, oppure sarà stato qualcun altro che sicuramente non l’ha fatto di proposito. L’importante è che stia bene, no?”

“Certo”. Cathy non seppe dire se quelle cose le pensasse davvero o stesse solo evitando l’argomento, magari perché l’aveva già affrontato tante volte. Era comunque un atteggiamento molto maturo, perché lei, al suo posto, avrebbe fatto di tutto per conoscere la verità; pur sapendo che spesso era difficile da accettare, e che in un caso come quello poteva segnare la fine della loro amicizia.

“Eliza è troppo buona” s’intromise Maggie, la quale in effetti taceva da troppo tempo. “Al suo posto gliela farei pagare a quei Serpeverde, perché di sicuro sono stati loro!”

“Come fai a dirlo?” domandò Cathy, a cui veniva spontaneo difendere quella Casa quando entravano in gioco i pregiudizi. In realtà, sapeva che quella volta Maggie aveva ragione, o meglio ce l’aveva per metà.

“Era fuori dal loro dormitorio! Chi altri poteva passare di lì a quell’ora? Scommetto che c’entra quello Zabini o quel Dolohov… Escludo la Wilkinson solo perché è troppo oca per lanciare un incantesimo decente”.

Sia Samuel che le sorelle Hill annuirono convinti, mentre tra Cathy e Ted passava la medesima occhiata che si erano scambiati spesso negli ultimi due giorni. Era bello che nessuno sospettasse minimamente di lei, ma, allo stesso tempo, faceva affossare i suoi sensi di colpa ancor più in profondità; fu solo la serenità di Eliza, che traspariva senza lasciare dubbi dal suo volto sorridente, a impedire a Cathy di confessare tutto e implorare perdono. Quando un attimo dopo entrò Lumacorno, chiedendo ai ragazzi di andare a posto, non ci fu tempo di dedicarsi a nient’altro se non alle pozioni. Eliza sedette accanto a Cathy e Maggie passò loro una valanga di appunti, che aveva preparato per quando fossero tornate. Le ragazze si scambiarono uno sguardo complice, tornando a comportarsi come le studentesse di un tempo, sebbene con un mese di arretrati e poco tempo per recuperarli. La normalità non era mai stata così soddisfacente, si disse Cathy, che in circostanze come quelle poteva quasi fingere che tutto andasse bene.

Una nuova opportunità. Aveva sentito molte volte quelle parole, nelle ultime ore; ma solo adesso, mentre si districava con Eliza tra ingredienti e misurini, ne comprendeva veramente l’importanza.


Note

Salve, miei cari lettori^^ Questo capitolo non è stato per niente facile da scrivere, perché dovevano accadere molte cose in poco tempo e non volevo che la narrazione sembrasse "accelerata"... Non ci sono nemmeno grandi colpi di scena, per una volta va tutto bene anche se Young continua a mostrare comportamenti ambigui. Tutto questo per dire che non è uno dei miei preferiti, ma suppongo sia anche l'ambientazione di Hogwarts a stimolarmi meno, rispetto alle scene in cui c'è Rodolphus! Comunque, spero che a voi non dispiaccia, anche perché sarà uno degli ultimi "tranquilli".

Un ringraziamento speciale a tutte le persone che mi stanno recensendo ultimamente, facendomi toccare vette mai esplorate dalle mie fanfiction XD Alla prossima, con la speranza di non deludervi!

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Capitolo 29
*** Ritrovarsi ***


29


Verso la metà di aprile, le Rose Cangianti che ogni studente aveva nutrito con cura iniziarono finalmente a sbocciare. Nessuno aveva mai mostrato troppo entusiasmo per le lezioni di Erbologia, ma quando un giorno, entrando nella serra, scoprirono che una moltitudine di colori aveva sostituito il solito verde, ogni bocca si ammutolì e ogni occhio si concentrò sulla propria pianta. Il professor Paciock, esibendo un’espressione di trionfo, li invitò ad avvicinarsi e a godersi i frutti del loro lavoro, che a suo dire era stato svolto in maniera impeccabile. Riunitasi da poco ai Serpeverde, Cathy abbandonò senza remore il proprio gruppo per dirigersi verso la sua Rosa di Miele. Si trattava di boccioli molto piccoli, ma numerosissimi; il profumo che saliva dai petali era dolce e gradevole, proprio come il miele con cui aveva innaffiato la pianta. Al tatto, tuttavia, niente faceva pensare che quelle non fossero comuni rose e che producessero sostanze magiche. Cathy non ne conosceva ancora le prodigiosità, ma la bellezza di quel colore giallo ocra bastava a darle la voglia di recidere uno stelo e portare il fiore con sé. Temendo che non fosse una buona idea, resistette all’impulso.

Poco più tardi, il professor Paciock reclamò di nuovo la loro attenzione. Stava portando uno dei vasi al centro della serra, così che tutti potessero vederlo, e dietro di lui trotterellava Lauren Jackson, la sua studentessa prediletta. Le guance della ragazza erano rosse come pomodori maturi, segno che stava per avvenire un elogio in piena regola.

“Guardate qui” esclamò, infatti, Paciock, “un meraviglioso esemplare di Rosa Lattea! I suoi petali candidi sono in grado di curare piccole ferite, bastano pochi secondi a contatto con la pelle. Chi di voi si è fatto male di recente? Su, avanti, non siate timidi!”

Piuttosto che farsi avanti, tutti gli studenti arretrarono di un passo o si nascosero dietro i loro compagni più alti. Con la coda dell’occhio, Cathy vide Jason tirarsi giù una manica fino a coprire tutta la mano, in un gesto troppo repentino per sembrare naturale. Per sfortuna del ragazzo, anche Paciock lo notò e gli fece cenno di avvicinarsi.

“Dolohov, certo! Ti sei ferito con le cesoie la scorsa settimana, giusto? Vieni qui, sistemeremo tutto!”

Seppur riluttante, il ragazzo obbedì. Lanciava sguardi sospettosi ora alla rosa, ora a Lauren, della quale sembrava fidarsi poco nonostante l’impeccabile curriculum. Liberò nuovamente il pollice, rivelando un taglio così superficiale da non aver richiesto una visita all’infermeria. Paciock gliel’afferrò con delicatezza mentre, con l’altra mano, recuperava la sua bacchetta; compì un movimento circolare in direzione della rosa, al quale seguì il distacco di un piccolo petalo che restò sospeso a mezz’aria. Seguendo i movimenti che gli venivano indicati, esso andò infine a posarsi sulla ferita di Jason come una piccola farfalla. Dopo qualche istante, cadde a terra come un petalo qualsiasi, lasciando la pelle su cui si era appoggiato perfettamente rimarginata.

I ragazzi avevano assistito alla scena in religioso silenzio, ma accompagnarono quel risultato con un applauso. Jason, stupefatto, continuò a guardarsi il pollice e a tenerlo a una certa distanza dal resto del corpo, come se potesse esplodergli da un momento all’altro. Cathy, dal canto suo, pensò che l’esperimento fosse riuscito alla perfezione.

“Bene! Che cosa vi avevo detto?” esclamò Paciock, battendo le mani a sua volta. “Quest’applauso è tutto per te, Jackson! E ora, vediamo un po’…”

Mentre Jason e Lauren riprendevano il loro posto accanto ai compagni, il professore fece il giro della serra osservando le altre rose. Di tanto in tanto, si fermava per commentare il lavoro dell’uno o dell’altro ragazzo, elogiando l’impegno di tutti: “Che cosa abbiamo, qui? Una Rosa Violetta perfettamente cresciuta! Brava, signorina Wilkinson, aggiungendo questi petali a una pozione potrai avere la pelle liscia come un neonato. E qui? L’Ovarosa di Gregory, innaffiata con albume d’uovo! Pestandola si ottiene un filtro che dà lucentezza ai tessuti. Anche la tua Rosa Incendiaria, Zabini, non è male… Ma credo tu abbia esagerato con il Whisky”.

Era difficile restare seri, osservando la faccia delusa di Alexander dopo quel rimprovero. Si era vantato tanto dell’ingrediente da lui scelto che doveva averne messo troppo, così che i boccioli della sua pianta si erano tristemente ripiegati all’ingiù. Risero tutti meno lui, il quale voltò le spalle alle rose borbottando qualcosa di simile a “stupida, inutile materia”.

Quando la sua ispezione era quasi terminata, Paciock si fermò davanti a una pianta particolarmente grande e dai fiori blu notte, restandone impressionato. Non si complimentò con nessuno per quel risultato, ma disse soltanto: “Wow. È il miglior esemplare di Rosa Plumbea che abbia mai visto. E non è neppure facile da coltivare, per il dosaggio attento che richiede! Questi boccioli potrebbero curare un terzo delle malattie della vista, parola mia…”

“Dice davvero?” Quella voce sembrò arrivare dal nulla, tanto che, quando i ragazzi di Serpeverde scoprirono chi ne era la fonte, balzarono all’indietro come se avessero visto un Troll di montagna. Cathy restò a bocca aperta: a pochi metri da lei, libera dal mantello e da qualsiasi altro sistema di occultamento, era comparsa Abbie Macdonald.

“Certo, signorina!” confermò Paciock, dopo aver superato il suo attimo di sconcerto. “Complimenti, davvero complimenti! Assegno dieci punti a Serpeverde per questo eccellente lavoro!”

“Grazie, Professore!” Eccitata da quel risultato, Abbie corse accanto alla sua pianta per rimirarla meglio, ma evitando di toccare i petali come se temesse di danneggiarli. Vera e Pamela la fissarono con la stessa espressione irritata, ponendo attenzione su quella ragazza per la prima volta da quando erano a scuola. Cathy osservò il loro disappunto ridacchiando sotto i baffi.

“Come ha fatto a crescere la sua pianta se era sempre in infermeria?” si chiese Pamela, mostrando finalmente di saper ragionare con la sua testa. Vera alzò le spalle e le rispose: “Ah, non so proprio. Almeno ha fatto guadagnare punti alla Casa”.

Cathy sapeva che avrebbe dovuto farsi gli affari suoi, per non rischiare di mettere in difficoltà Abbie, ma l’idea che la stava stuzzicando era troppo allettante; inoltre, dubitava che due oche come quelle avrebbero capito il significato delle sue parole. Così, lo disse.

“Magari è sempre stata qui, solo che non l’avete mai vista. È facile nascondersi, quando per gli altri sei già invisibile”.

“Che vuoi dire?” Vera si accigliò in attesa di una risposta più chiara, che però non arrivò. Cathy le rivolse un sorriso sibillino e voltò loro le spalle, lasciandole a crogiolarsi nel dubbio. Tuttavia, come si aspettava, il suo momento di gloria non durò molto: trenta secondi dopo, le ragazze avevano già cambiato argomento, tornando a confabulare sulla rosa di Vera e su quanto avrebbe reso lisce le loro pelli.

Cathy fu ben felice di lasciarle perdere e avvicinarsi a Abbie, raggiante come non l’aveva mai vista. La chiamò per nome, attendendo che lei si voltasse e che le rivolgesse un ampio sorriso.

“Cathy, ciao! Hai visto, le mie rose sono bellissime… Quelle arpie non sono riuscite a rovinarmele!”

“Certo che no. Ti sei impegnata molto e i risultati si vedono. Complimenti!”

“Grazie”. Abbie avvicinò il naso a un bocciolo per sentirne il profumo e parve deliziata; incuriosita, Cathy imitò il suo gesto e scoprì che le rose odoravano come frutti di bosco. Mirtilli, forse.

“Ah, non ti ho ancora chiesto com’è andata la tua spedizione!” disse poi la ragazza. “Hai scoperto qualcosa?”

Si riferiva naturalmente al mese che aveva trascorso dal suo tutore. Da quando era tornata, Cathy aveva intravisto qualche volta la figura di Abbie sotto il mantello opacizzato, ma non aveva mai avuto occasione di parlarle apertamente; in qualche modo, comunque, la ragazza doveva aver colto i motivi della sua fuga.

“Sì, anche se si è prolungata un po’ troppo. Almeno adesso so chi erano i miei genitori”.

“Davvero? È fantastico! Scommetto che erano dei tipi tosti, per aver generato una figlia come te!”

“Ah, questo è sicuro”. Lo pronunciò con amarezza, pensando a quanti significati ci fossero dietro la parola ‘tosti’. Abbie non notò il suo sarcasmo.

“Sai che ti dico? Voglio prendere esempio da te. Basta nascondersi, i problemi vanno affrontati! Butterò via il mantello e, se quelle due mi daranno ancora fastidio, le metterò al loro posto! Solo… Se mi trovassi in difficoltà, posso dire che sei mia amica?”

Cathy provò l’impulso di ridere, ma la domanda di Abbie era molto seria. Lei la vedeva come una specie di mito, una persona ‘potente’ che avrebbe voluto dalla sua parte. Tenendo a freno l’ilarità, le rispose: “Certo, Abbie. Puoi anche esserlo davvero, se è per questo”.

“Sul serio? Oh, grazie!” Le prese le mani e iniziò a saltellare sul posto, allegra come se avesse appena vinto alla lotteria. “Anche per il letto… Me l’hai restituito”.

“Era giusto così”. Dopo aver saputo che tipo di persona era sua madre, a Cathy non importava più di dormire nel suo stesso letto; così, quando era tornata tra i Serpeverde, l’aveva restituito ad Abbie senza grandi rimorsi. Almeno, in quel modo, riusciva ancora a rendere felice qualcuno.

“E con Young, com’è andata?” chiese ancora la ragazza, avida di novità. “Ti ha punita per essere entrata nel dormitorio senza permesso?”

“No, ha avuto altro a cui pensare. Comunque, se non mi ha espulsa per essere scappata non lo farà certo per quello. Stai tranquilla, non ce l’ho con te”.

Abbie le rivolse un nuovo sorriso, questa volta più timido, prima di riabbassare lo sguardo verso la rosa. Ora che le cose tra loro andavano meglio, il suo gesto doveva apparirle molto più meschino, ma non sapeva di avere davanti una compagna ben più colpevole di lei. Young non le aveva più rivolto la parola dopo che, sotto consiglio della McGranitt, Cathy l’aveva avvicinato dopo una lezione e gli aveva detto grazie; Eliza non aveva ancora memoria dell’incidente né sembrava preoccuparsene, ma tutto questo non cancellava i suoi errori. La sola cosa che Cathy poteva fare era imparare a conviverci; e, come Abbie, liberarsi del mantello sotto il quale nascondeva le sue paure.

*

La complicità sorta tra le due ragazze cambiò totalmente il corso della giornata, che fino a quel momento era stata un susseguirsi di azioni quotidiane e prive di entusiasmo. Abbie non si poteva definire esattamente simpatica, con quel suo perfezionismo e l’attaccamento ossessivo allo studio, ma la libertà ritrovata aveva fatto emergere un nuovo lato della sua personalità che era difficile non apprezzare. Cathy si ritrovò a scherzare con lei sugli aspetti più buffi della scuola, scoprendo che la sua compagna aveva un certo talento nelle imitazioni; in tutti quei mesi di osservazione nascosta, infatti, aveva imparato a replicare con sorprendente accuratezza gli atteggiamenti tipici di alcuni Serpeverde, come l’espressione spaventata di Jason quando veniva richiamato da un insegnante o i gesti voluttuosi con cui Vera si sistemava i capelli. Quella sera, dopo cena, rientrarono al dormitorio come ubriache, in preda all’ennesimo attacco di ridarella che era seguito a una parodia di Pamela. Esauste, sprofondarono in un paio di poltrone accanto al camino, rubandole per un soffio a due ragazze più grandi. Non contenta, Abbie allungò anche le gambe sulla sedia di fronte a lei, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di una delle due. In altri tempi, Cathy si sarebbe sentita imbarazzata per il comportamento dell’amica, ma quella volta dovette solo tenersi la pancia per il gran ridere. La sua mente si era come svuotata, non ricordava più da quanto tempo non si sentiva così bene.

“Accidenti!” esclamò Abbie, tirando un lungo sospiro, quando riuscì finalmente a tornare seria. “Chi l’avrebbe detto che uscire allo scoperto sarebbe stato così divertente? Se l’avessi saputo, l’avrei fatto prima!”

“Già! Non riesco a dimenticare la faccia delle ragazze quando ti hanno vista comparire…”

“E non sanno ancora tutto quello che potrei dire sul loro conto! Siamo una vera squadra io e te, ce le mangeremo vive! Se penso che è cambiato tutto grazie a questa…” Lentamente, districò dai propri capelli la rosa blu che vi aveva infilato quella mattina, dopo che Paciock le aveva consentito di tagliarla. Anche Cathy ne aveva una identica, ma giallo ocra, che spiccava sul lato destro della sua chioma scura.

“Non so cosa mi ha spinta a farlo. Forse volevo solo il mio momento di gloria, dopo tutta la fatica che ho fatto per far crescere quella pianta. Sapevo già che la lode del professore era diretta a me, ma… Non sarebbe stata la stessa cosa, se l’avessi saputo solo io. Capisci cosa intendo?”

“Sì, Abbie” rispose Cathy, che in quelle poche ore stava imparando a conoscere la sua compagna. Abbie era indubbiamente diversa da lei e Serpeverde fino al midollo, ma anche una ragazza vera e spontanea come non erano le altre. “Credo di capire”.

“A proposito! Hai scoperto a cosa serve la tua? Paciock te l’ha detto?”

“Sì. Dice che dai petali si può ricavare una sostanza molto potente, in grado di migliorare l’umore delle persone. Se sono nervose o arrabbiate le tranquillizza, trasmette loro dolcezza. Ma servono anche altri ingredienti, non è una pozione facile da preparare”.

“Wow, interessante! Magari lo proporremo a Lumacorno”.

Proprio in quell’istante, i loro compagni di Casa varcarono la parete ed entrarono in sala comune, disperdendosi tra gli altri studenti. Vera e Pamela, come al solito, le ignorarono; lo sguardo di Cathy corse subito in direzione di Evan, che le rivolse un mezzo sorriso prima di continuare a parlottare con Jason. Seppur semplice e tutto sommato gentile, quel gesto smorzò di colpo tutta l’allegria della ragazza.

“Ecco chi avrebbe bisogno di un po’ di dolcezza!” commentò Abbie, cogliendo al volo il motivo del suo cambio d’umore. “Possibile che ce l’abbia ancora con te, dopo tutto quello che hai passato? E dire che lo facevo più intelligente, almeno lui…”

“Non ce l’ha con me. Non credo, almeno”.

Era difficile dirlo, se si considerava che, da quando Cathy era tornata al dormitorio, non erano più stati amici come un tempo. Evan la salutava con cortesia e non mostrava risentimento nei suoi confronti, ma i loro brevi discorsi non andavano oltre le questioni scolastiche. Che fosse per scarsa volontà o semplicemente per caso, non si erano più trovati a parlare da soli; ogni tanto, Cathy si chiedeva se non dovesse essere lei a cambiare le cose, piuttosto che aspettare all’infinito la giusta occasione.

“Perché non vai da lui?” propose poi Abbie, colpita dallo stesso pensiero. “Avrete un sacco di cose da dirvi!”

“Perché non mi va di parlargli davanti agli altri. Non è mai da solo, ci hai fatto caso? Forse lo fa di proposito, per tenermi a distanza”.

“Oh, non dirmi che ti fai spaventare da quei due idioti! Sono Jason e Alexander, hai presente? Uno che ha paura anche della propria ombra e un altro che, se ti guarda, lo fa solo per specchiarsi nelle tue pupille! E poi, andiamo, sei una Grifondoro! Tira fuori il coraggio!”

Era facile sorridere al modo colorito con cui Abbie descriveva la situazione, così come credere che lei avesse ragione. Era meno facile ignorare il magone che sentiva nello stomaco, quando immaginava di alzarsi realmente dalla poltrona e strappare Evan dalla compagnia dei suoi amici. Un tempo, non si sarebbe fatta scrupoli ad agire d’istinto e parlare con lui, ma la distanza che c’era tra loro stava diventando ogni giorno più incolmabile. Far pace era semplice, come litigare, mentre non lo era affatto recuperare un rapporto.

“Non sono proprio una Grifondoro” affermò, giustificando in tal modo la sua mancanza di coraggio. “Anzi, i miei genitori erano Serpeverde… Forse è questa la Casa in cui devo stare, proprio come loro. L’altra non è adatta a me”.

“Senti, Cathy, adesso non offenderti, ma devo proprio dirtelo”. Abbie drizzò la schiena e si sedette composta, il che era un chiaro segnale di ‘discorso serio’ in arrivo. La ragazza l’ascoltò con molta attenzione.

“Tu non sei affatto una Serpeverde. Proprio per niente! Non so come abbia fatto il Cappello a prendere una cantonata simile, ma davvero, la professoressa Holland avrebbe più possibilità di entrare in questa Casa rispetto a te! Non pensare ai tuoi genitori, perché non significa nulla, io e tanti altri abbiamo preso una strada diversa dai nostri. L’unica caratteristica Serpeverde che hai è la capacità di terrorizzare Vera, e non ne vai neppure fiera! Perciò, fidati, sei una Grifondoro dalla testa ai piedi. E adesso vai da Evan, non voglio sentire altre scuse”.

Forse avrebbe dovuto offendersi davvero, eppure quel discorso riuscì solo a rinvigorirla. Abbie aveva usato parole dirette per dirle, semplicemente, che non la considerava una Serpeverde, e tutto sommato questo non le dispiaceva. Aveva ancora dei dubbi sulla sua audacia Grifondoro, ma non diede tempo alla propria mente di pensarci: si alzò sull’attenti, come un soldato all’ordine, e camminò verso la meta, finché questa non fu troppo vicina per permetterle di tornare indietro.

“Evan…” disse soltanto, con la voce che le calava di un tono dopo ogni lettera. Si rese conto troppo tardi di non aver preparato uno straccio di frase da cui partire.

“Ehi” rispose lui, con il solito mezzo sorriso. Jason e Alex si erano voltati a guardarla, ma Cathy cercò di non badarvi. Intrecciò le dita l’una con l’altra, in preda al nervosismo.

“Pensavo… ” incominciò, senza sapere dove sarebbe andata a parare, “Ti va di giocare a scacchi?”

Evan spalancò gli occhi per la sorpresa, senza immaginare che quella richiesta aveva stupito lei allo stesso modo. Tentennò per qualche istante, prima di decidersi.

“Ah. Beh… È un po’ tardi, ma… Si può fare, dai”.

“E noi che facciamo?” chiese poi Jason, mettendo il broncio per essere stato escluso. “Partitina a Spara-Schiocco?”

“Io no, grazie. Vado a letto, buonanotte”. Alquanto depresso rispetto al solito, Alex girò sui tacchi e si avviò verso il dormitorio dei ragazzi. Jason restò qualche altro secondo a guardarsi intorno, prima di rassegnarsi e andare a letto a sua volta. Vista la piega che stavano prendendo le cose, Cathy finì per dare ragione a Abbie: quei due non erano realmente un problema, non lo erano mai stati.

*

Faceva fatica a restare concentrata sul gioco, per via dell’ora tarda e della stanchezza che aveva accumulato studiando; tuttavia, non era il caso di tirarsi indietro proprio ora che Evan aveva accettato. Aspettò che la sala comune si svuotasse e che anche Vera, lanciandole la solita occhiata sprezzante, si decidesse ad andare a dormire. Quando restò sola con il suo avversario, realizzò che la partita non sarebbe durata poi molto: stava già perdendo miseramente.

“Pensavo una cosa” gli disse, quando il primo argomento le affiorò alle labbra. “Non ti ho ancora ringraziato per aver aiutato Eliza. È stato un bellissimo gesto, le hai praticamente salvato la vita!”

Evan sorrise appena e, contemporaneamente, le mangiò un pedone dalla scacchiera. “Figurati. Come vedi, non odio tutti i Grifondoro a prescindere”.

La frecciatina colpì nel punto giusto, trasformando l’inizio di una conversazione in una vendetta sottile. Improvvisamente, Cathy non era più sicura che Evan non le serbasse rancore; forse era stato così, all’inizio, ma aveva avuto tempo per pensarci e cambiare idea. Tutto il tempo che gli aveva regalato lei, mentre gli negava ogni tipo di contatto. Si morse le labbra, tentando di non agitarsi.

“Mi dispiace per le cose che ti ho detto. Non le pensavo davvero, ero solo arrabbiata per Ted. In fondo l’hai ferito e…”

Evan alzò gli occhi verso di lei e la convinse, silenziosamente, a spezzare quella frase. Si trattava di un terreno pericoloso, poiché Cathy, per quanto dispiaciuta, credeva ancora che lui avesse torto. Tuttavia, ricordò anche di non essere la persona adatta a fargli la morale.

“Ma tutti sbagliamo. L’ho fatto anch’io, con Eliza. Forse possiamo perdonarci a vicenda, non credi?”

Osservò l’espressione del ragazzo per capire se c’era una speranza, ma difficilmente Evan esternava le sue emozioni. Restò serio e tranquillo, mentre le rispondeva: “Io non sono arrabbiato con te. È solo che non ti capisco… Prima mi eviti, poi sparisci per un mese senza dire niente a nessuno, infine ritorni e ti comporti come nulla fosse. Che cosa ti è successo?”

Non poteva rispondere a quella domanda. Non sarebbe bastata una frase, un discorso, forse neppure un’intera notte. Gli sconvolgimenti che aveva subito negli ultimi tempi erano troppo difficili da spiegare e, soprattutto, ne avrebbe voluto parlare con il vecchio Evan, quello che le stava vicino senza giudicarla; questo nuovo, che la punzecchiava e analizzava ogni suo comportamento, non le era molto simpatico.

“Ho solo avuto tanto tempo libero per pensare. Mentre ero dal mio tutore, ho smesso di sentirmi arrabbiata e ho capito che volevo recuperare quello che stavo perdendo. Mi mancava la scuola, gli amici… Mi mancavi tu”.

Le sembrò di intravedere un guizzo di gioia nelle pupille del ragazzo, ma si trattò di un evento fulmineo; un istante dopo era tornato a controllarsi, a rialzare il muro che Cathy stava cercando di sgretolare. Se neppure facendo leva sui sentimenti riusciva ad ottenere qualcosa, sarebbe stato impossibile tornare a essere amici.

“Sono stato a trovarla un paio di volte” disse poi Evan, inaspettatamente. Cathy lo guardò senza capire. “Eliza. Mentre era in infermeria”.

“Ah”. Non era così strano che ci fosse andato, quantomeno per informarsi sulla sua salute. Non avevano avuto alcun rapporto prima dell’incidente, ma era chiaro che, dopo di esso, gli argomenti tra loro non fossero mancati. Eppure, per qualche strano motivo, Cathy ne restò infastidita. Fece del suo meglio per nasconderlo.

“All’inizio non faceva che dormire, ma poi ha cominciato a stare meglio. Mi ha ringraziato per averla aiutata e abbiamo parlato un po’. È una brava ragazza, non meritava quella fine”.

“Lo so!” Cathy aveva alzato la voce, ma non poteva farne a meno. Evan stava esagerando e neppure lei meritava altro male, era stata punita abbastanza. “Che cosa credi, che l’abbia fatto apposta? Non sono riuscita a controllarmi, com’era già successo col terremoto. Mi pento ogni giorno di quello che le ho fatto, non c’è bisogno che mi accusi anche tu!”

“Non volevo farlo, scusa. E comunque è a lei che dovresti chiedere perdono, non a me o altri”.

“Ci ho provato, ma Eliza non ricorda niente. Lo saprai già, visto che avete parlato un po’”. La considerazione uscì fuori più acida di quanto Cathy volesse, ma era troppo tardi per ritirarla. Cercò di calmarsi, perché continuando su quella strada avrebbe rischiato solo un nuovo incidente. Per fortuna, dopo ciò che era successo con Eliza, le bastava ripensare alla scena orribile di lei sbattuta contro il muro affinché la furia scemasse.

“Sì, ma non mi ha convinto”.

Cathy lo guardò interrogativa dopo quella informazione. Lasciò perdere del tutto gli scacchi, che già da parecchio erano abbandonati a loro stessi e avevano anche smesso di ciarlare.

“Abbiamo parlato molto anche di te. Diceva che non devi avere paura, che ha sbagliato a dirti tutte quelle cose e che vuole solo tornare a esserti amica”.

“Cosa?!” gridò Cathy, ormai inevitabilmente sconvolta. “Ma allora si ricorda di quando abbiamo parlato! E se sa che eravamo insieme, saprà anche…”

“Appunto. Secondo me sta solo fingendo di non ricordare, per non metterti in difficoltà. Oppure, può darsi che all’inizio avesse perso davvero la memoria e che poi l’abbia ritrovata senza raccontarlo a nessuno. Non avevo mai conosciuto una ragazza così, deve tenerci proprio a te”.

“Ma è assurdo…” Cathy scosse la testa, incapace di concepire un tale atto di bontà anche da una perla rara come Eliza. “Perché comportarsi così? Dopo quello che le ho fatto, poi! Dovrebbe essere arrabbiata, non proteggermi…”

“Lei sa che non l’hai fatto apposta. Ha saputo anche di come hai cercato di punirti, uscendo nella foresta di notte. Dice che hai molto potere ma devi ancora imparare a controllarlo, che lei stessa cerca di aiutarti in questo”.

“Sì, è vero”. Pensò, con un moto di malinconia, alle loro lezioni segrete e alla prima volta che era riuscita ad accendere la bacchetta. Quell’incantesimo non avrebbe mai funzionato, senza di lei.

“Sai, fossi in te cercherei un modo per chiederle scusa. È il minimo, con un’amica così”.

Evan aveva ragione. Approfittare delle condizioni che Eliza le stava offrendo era un atto ignobile, soprattutto se la ragazza aveva recuperato davvero la memoria. Ma come fare a chiederle scusa, se lei per prima evitava di parlarne? Cathy avrebbe avuto il coraggio di interrompere quella pace idilliaca per tirare fuori la verità? Non seppe rispondersi.

“Vorrei che avesse ragione sul mio conto” mormorò, invece. “Che davvero potessi imparare a controllarmi e non fare più male a nessuno. Ma Eliza non sa chi sono, da dove vengo… E io purtroppo sì”.

Si alzò dal suo posto, interrompendo una partita a scacchi che non aveva mai avuto intenzione di finire, e si avvicinò alla finestra sul lago che ancora la spaventava. Le acque erano tranquille, visibili attraverso le luci della stanza che illuminavano il vetro. Perché, se la sua rabbia inquietava e scatenava gli elementi, il dolore non causava altro che questo: freddezza, immobilità. La pace apparente di una natura morta.

Evan imitò il suo gesto, affiancandosi a lei. Non mostrava sorpresa per ciò che aveva ascoltato, e questo riportò alla mente della ragazza un altro episodio messo da parte. Era l’ennesimo dei suoi errori, qualcosa che, insieme a tante altre, aveva portato all’esito drammatico di quella maledetta sera.

“Tu l’avevi capito, vero? Sapevi chi era mio padre e hai cercato di dirmelo, ma io non ho voluto ascoltarti. E alla fine l’ho saputo comunque, solo che sono dovuta scappare a Londra per scoprirlo. Se ti avessi lasciato parlare… Sarebbe stato tutto diverso”.

“Quindi avevo ragione?” domandò Evan, infervorandosi per la prima volta. “È proprio lui, è… Voldemort?”

“Sì. Non sapeva neppure di avermi avuta, perché mia madre mi nascose all’orfanotrofio. Allora, come l’hai capito?”

“Per i tuoi occhi. Quando litigammo diventarono rossi, e sapevo che questa era sempre stata una sua prerogativa… Non ci pensai subito, però. Parlando con altri, sentendo che era già successo con Vera, mi venne il dubbio che poteva non essere un caso. Quando provai a dirtelo avevo appena avuto l’illuminazione… Ma non lo sa nessun altro, stai tranquilla”.

Cathy annuì, lontanissima dal pensare che lui l’avesse tradita. Evan era sempre stato corretto con lei, anche dopo le accuse ingiuste e i lunghi silenzi, e proprio per questo se l’era sentita di dirgli tutto. Grazie al suo intuito, d’altronde, l’avrebbe scoperto comunque.

“Tutto questo tempo…” commentò, riportando alla memoria svariate immagini e parole, “Tutte queste occasioni e nessuno mi ha mai detto degli occhi rossi. Perché?”

“Posso solo fare ipotesi” rispose Evan, mentre si infilava le mani in tasca con fare pensoso. “Eliza non voleva spaventarti, probabilmente, dato che i poteri incontrollati ti davano già abbastanza problemi. Vera e Pamela non si sarebbero certo fatte scrupoli, ma erano loro ad avere paura; se avessi saputo cos’eri in grado di fare, saresti diventata ancora più pericolosa. Quanto ai professori… Non lo sapevano, credo”.

Era plausibile, dopotutto. Gli scatti d’ira che causavano quella reazione non avvenivano spesso e avevano effetto solo per qualche secondo, come Rodolphus le aveva spiegato. Era un bene che Young non se ne fosse mai accorto, altrimenti i suoi sospetti su di lei sarebbero raddoppiati.

“Per me non cambierà niente. Lo sai, vero?”

Cathy lo fissò. Aveva uno sguardo serio, intenso, più adulto della sua età. Sapeva molto bene quel che diceva, ed era qualcosa che l’avrebbe resa felice.

“Chiunque siano i tuoi genitori, tu non sei come loro. Sei Cathy, Cathy e basta. Non dimenticarlo mai… Te lo dice il nipote di un Mangiamorte”.

“Oh, Evan!” L’impeto di gioia sovrastò la razionalità, facendo sì che la ragazza gli buttasse le braccia al collo e gli stampasse un bacio sulla guancia. “Grazie…” disse poi, scostandosi e scoprendo che l’amico era arrossito vistosamente.

“Ehm, figurati”.

Seguì un istante di silenzio imbarazzato, per quel contatto fisico così repentino che non avveniva da molto. Ciononostante, fu breve: il tempo di riportare alla mente un nuovo particolare, qualcos’altro che meritava di essere raccontato.

“Siamo anche parenti, sai? Mia madre era Bellatrix Lestrange”.

Non avrebbe mai creduto di dirlo con tanta tranquillità, eppure accadde. Evan non aveva paura della verità, anzi, era pronto a coglierne il lato migliore; difatti, reagì come se Cathy avesse appena nominato una sua vecchia conoscenza.

“Davvero? Ecco chi era il genitore Purosangue, allora! Lo sapevo, la pozione non sbaglia mai!”

Tornarono a sedersi, pronti a recuperare il tempo perduto e un rapporto ancora vivo sotto la cenere. C’erano ancora molte cose da dire e altrettante da ascoltare, prima di potersi definire nuovamente amici; ma la notte era lunga, generosa, ed era tutta per loro.

*

Il nuovo legame sbocciato con Abbie e quello rinsaldato con Evan resero la strada tutta in discesa, regalando a Cathy giornate spensierate che nella Casa Serpeverde erano un raro evento. Non si poteva dire che mancassero gli impegni, poiché la ragazza studiava moltissimo: ogni giorno doveva trattenersi sui libri un’ora di più per recuperare gli arretrati, e due volte la settimana aveva ripreso le lezioni extra con la professoressa Holland. Di sera, era così stanca che si addormentava subito dopo aver poggiato la testa sul cuscino, riuscendo a malapena a dare la buonanotte; ma, nonostante tutto questo, sentiva di star vivendo intensamente ogni attimo, libera dalle angosce che l’avevano tormentata a lungo.

La sola questione rimasta aperta era quella di Eliza. Dopo l’illuminante chiacchierata con Evan, Cathy aveva osservato attentamente il comportamento della sua amica per cercare di carpire la verità, ma senza molto successo. Nelle poche circostanze in cui si incontravano, durante le lezioni o in Sala Grande, lei si mostrava gentile e disponibile come al solito, quasi avesse dimenticato davvero l’incidente e le sue conseguenze. Inoltre, non era facile introdurre l’argomento sotto gli occhi indiscreti dei compagni; fu soprattutto per questo che Cathy decise, infine, di rimandare la decisione al mese successivo, l’ultimo che avrebbe trascorso nella Casa Grifondoro.

L’occasione giusta si presentò il 2 maggio, giorno in cui a Hogwarts si celebrava l’anniversario della Rinascita. Erano passati esattamente dodici anni da quando Harry Potter aveva sconfitto Voldemort, riportando la pace nel mondo magico, e da altrettanto tempo quella ricorrenza era tenuta in gran conto dal corpo docente. Non si trattava, però, di un evento festaiolo come quello della Conciliazione: il suo scopo principale consisteva nell’onorare la memoria dei caduti, svolgendo le normali attività quotidiane nel rispetto della commemorazione. Gli studenti erano invitati a tenere un tono di voce basso e ad appuntare sul petto, come i loro insegnanti, una spilla con il simbolo della scuola circondato dalla scritta ‘Honor filiis Hogwartensis’. Per chi non aveva familiari coinvolti in quella guerra, tutto ciò era piuttosto deprimente; le ore si susseguivano lente nell’attesa che giungesse la sera, quando una cerimonia vera e propria avrebbe avuto luogo nei giardini. Cathy, come la maggior parte dei suoi compagni, trascorse la giornata tra sbuffi e sospiri, accorgendosi di quanto fosse più difficile studiare in totale serietà.

Solo dopo cena il Preside, alzandosi in piedi, comunicò che da quel momento era possibile avviarsi all’esterno. I ragazzi si mossero in file ordinate seguendo il Direttore della propria Casa e, per ironia della sorte, Cathy si ritrovò proprio di fianco a Eliza, che le rivolse un sorriso incoraggiante. Il parco era molto più luminoso del solito: miriadi di candele erano state poste ai lati di un percorso, i cespugli di rose pullulavano di piccole fate e la luna piena, con il suo candore spettrale, sembrava giunta di proposito per prendere parte all’evento. La meta di quella processione si rivelò essere una tomba bianca sulla riva del lago, nella quale riposava un ex Preside particolarmente amato dagli insegnanti. Lì i ragazzi si disposero a cerchio, aprendo un varco per lasciar passare Vitious, che andò a posizionarsi proprio accanto al sepolcro. Cathy, nascosta dietro ragazzi più alti di lei, fece fatica ad assistere alla scena, ma in compenso ascoltò benissimo le parole del Preside: iniziò il suo accorato discorso riassumendo i fatti accaduti nel lontano 1998, spiegando quanto i sacrifici compiuti fossero stati necessari a riportare la pace. I più fortunati, disse, erano sopravvissuti abbastanza da raccontarlo, ma anche gli altri meritavano di essere onorati e ricordati almeno in quella ricorrenza. Tutti coloro che si trovavano a scuola quel 2 maggio erano degli eroi, dagli insegnanti agli studenti, a chi aveva abbandonato la sicurezza delle mura domestiche per combattere una guerra anche sua. Era merito loro se adesso, a distanza di dodici anni, il mondo magico era ancora un ambiente sereno e straordinario in cui vivere. A quel punto, seguì una lunga lista di nomi che Cathy non conosceva, ma che non era difficile collegare agli eroi menzionati da Vitious. Un nodo le strinse la gola a sentir nominare Remus e Ninfadora Lupin, detta Tonks, e fu felice che la calca attorno a lei le impedisse di cercare Ted con lo sguardo. Nel contempo, si chiese anche se fosse giusto compiangere i genitori degli altri e non i propri, che ugualmente avevano trovato la morte in quella guerra.

Fu allora, mentre Vitious lodava il coraggio del giovane Colin Canon, che tutto cambiò. Cathy si era sollevata sulle punte per cercare di vedere qualcosa, ma una spinta improvvisa da sinistra le fece perdere l’equilibrio; tentando di non cadere, finì proprio sul piede dell’amica accanto a sé, che riuscì a soffocare un grido abbastanza da non attirare l’attenzione. In un gesto del tutto spontaneo, Cathy non poté far altro che esclamare: “Scusa!”

Eliza aveva ancora una smorfia di dolore sul viso, ma minimizzò scuotendo la testa: “Tranquilla”.

E in qualche modo, in quell’istante, Cathy capì che era esattamente quella la sua occasione, che non doveva più aspettare. Forse fu per il commovente discorso del Preside, per l’influenza della luna o per quella notte così mistica, ma qualcosa le suggerì che il momento giusto era arrivato e che nessun altro sforzo sarebbe stato necessario. Eliza avrebbe capito, come lo comprendeva lei, il vero significato delle sue parole.

“No, davvero” ripeté, più seria e sicura, “scusami. Non volevo farti male, non avrei mai voluto…”

“Non fa niente, Cathy. Non l’hai fatto apposta”.

La ragazza continuò a guardare davanti a sé, apparentemente poco coinvolta da quella richiesta di perdono, e perciò Cathy proseguì sulla stessa strada, sentendo sempre più di non doverla lasciare: “Ho sbagliato tante volte, con te. Non dovevo… Non dovevo trattarti così, quando cercavi solo di aiutarmi. Mi dispiace, io…”

“Non hai sbagliato solo tu”. Eliza era seria, non sorrideva, ma il suo sguardo luminoso comunicava dolcezza e comprensione. Stare con lei era come toccare terra dopo un naufragio, come ritrovarsi, dopo essersi persi e a lungo cercati. Una volta, Cathy l’aveva vista come un angelo; adesso, si chiedeva seriamente se non lo fosse davvero.

“Anch’io non dovevo dirti quelle cose su tua madre. Non la conoscevo, giusto? E poi hai ragione, non posso capire. Chi non sa non dovrebbe mai giudicare, ma io volevo solo starti vicino… Non ho saputo dimostrartelo”.

Avrebbe voluto replicare a quell’assurda autoaccusa, sapeva di doverlo fare, ma le parole le morirono in gola. Eliza riusciva a sorprenderla sempre, portando la conversazione su un piano paritario e non lasciando mai che si sentisse in colpa, quasi volesse proteggerla da se stessa. Si comportava come Catherine, e il suo stesso amore incondizionato riusciva a svuotarle la testa e inondarle il cuore.

“Sì che l’hai fatto” riuscì a dire soltanto, dopo qualche istante di silenzio. “Sono io che non ho capito. Io che ho… Che ti ho…”

Che ti ho colpita, sarebbe andato bene. Avrebbe fugato istantaneamente ogni dubbio, ma non riusciva proprio a dirlo. Quel che aveva fatto a Eliza le faceva orrore, e quasi invidiava la forza d’animo della ragazza che le permetteva di stare lì, di fronte a lei, come si stesse disquisendo di incantesimi comuni, invece di urlare a tutta la scuola che Cathy era un mostro. Ma, ancora una volta, Eliza era pronta a dissolvere le sue paure.

“Sai, Vera ha ragione su una cosa” disse, senza dare a Cathy il tempo di chiedersi cosa c’entrasse Vera. “I miei non potevano insegnarmi la magia. Non sanno niente, loro, pensano che qui c’insegnino semplicemente trucchi da maghi Babbani, quelli che fanno uscire un coniglio da un cilindro! Però mi hanno insegnato altre cose, quelle che molti sembrano aver dimenticato. Mia madre, ad esempio, mi ha sempre detto di non guardare troppo agli errori delle persone, ma ai sentimenti che ci stanno dietro. Perché gli sbagli li facciamo tutti, ma la vera domanda è: chi è giusto perdonare? E la risposta è più semplice di quanto pensiamo”.

Eliza fece una pausa a effetto, ma Cathy non ne approfittò per porre altre domande. Voleva quella risposta, voleva sapere di quale gruppo facesse parte lei.

“Quelli che ci vogliono bene. Se ce ne vogliono, qualsiasi cosa abbiano fatto, non volevano ferirci. E sicuramente non lo faranno di nuovo”.

Sorrisero entrambe, e capirono che non serviva aggiungere altro. Eliza le strinse la mano, mentre il discorso del Preside finiva e improvvise scie colorate illuminavano il cielo. In un varco apertosi quasi per miracolo, Cathy riuscì finalmente a vedere chi ne era la fonte: gli insegnanti, i Capiscuola e i Prefetti avevano tutti le bacchette puntate verso l’alto, dalle quali scaturivano quegli strani fiotti simili a fuochi d’artificio. Alzando gli occhi, scoprì che non producevano un semplice disegno o effetto pirotecnico, ma si riunivano a formare un’unica parola: pace. E pensò che non ci fosse concetto più giusto per racchiudere quella serata, che non solo celebrava la pace nel mondo magico, ma anche quella più intima e meno scenografica che aveva appena ritrovato.

*

Non credeva che altri avvenimenti di rilievo sarebbero accaduti quella notte. Essersi chiarita con Eliza era già abbastanza, il destino le aveva riservato così tante sorprese che pensava ormai di aver pareggiato i conti. Ma quando lo spettacolo finì, la dolce musica delle arpe invase i giardini e i ragazzi ritrovarono la loro innata attitudine all’allegria, Cathy si ricordò di Ted. Non l’aveva più visto dall’ora di cena e d’improvviso se lo ritrovò di fronte, solo, seduto sulla riva del lago. La luce della luna faceva uno strano effetto sui suoi capelli azzurri, sembrava donargli un’aura misteriosa e solenne. Cathy lasciò Eliza e le altre compagne per andargli incontro, senza sapere bene di cosa avrebbero parlato, ma con la chiara intenzione di non lasciarlo lì a commiserarsi.

“Ehi” gli disse soltanto, come la prima volta in cui si erano incontrati. Senza aspettare una risposta né essere stata invitata, si sedette accanto a lui, esattamente come avrebbe fatto Ted al suo posto. Perché, con il tempo, Cathy aveva capito che nessuno sta davvero bene da solo.

“Ehi” rispose lui, incrociando le braccia sul petto. “Figo, eh?”

“Cosa?” domandò Cathy, presa del tutto alla sprovvista.

“Stare fuori fino a tardi. È l’unica cosa bella di questa giornata, per quanto mi riguarda”.

La ragazza restò in silenzio. Sperò che quello bastasse a confortare il suo amico, perché non sapeva proprio in quale altro modo confortarlo. In certe occasioni le parole sembravano vuote, banali; avrebbe voluto trasmettergli soltanto: sono qui.

“Non mi va di festeggiare il giorno in cui ho perso i miei genitori. So che hanno combattuto per noi, che il loro sacrificio va onorato eccetera eccetera, ma per me è il ricordo di un lutto e basta. Forse puoi capirmi, no? In fondo, anche tu hai perso i tuoi. Proprio nella stessa occasione”.

Cathy annuì, sapendo, fin da quando si era avvicinata, che non l’aveva fatto solo per alleviargli il dolore, ma anche nella speranza che Ted addolcisse il suo. Erano simili, in fondo: vittime di una guerra che non avevano neppure vissuto, nati sul lato opposto di una barricata che aveva seminato distruzione da ambo le parti. E per quanto si ripetesse che i suoi genitori erano il male, per quanto sapesse che era meglio non averli mai conosciuti, Cathy non poteva evitare che una piccola parte di sé li rimpiangesse. Ted avrebbe capito anche questo?

“Speravo venisse Harry, almeno. Di solito partecipa alla cerimonia, ma questa volta mi ha detto che Ginny sta poco bene e che ha preferito rimanere con lei. Spero sia la verità…”

“Che vuoi dire? Pensi che se lo sia inventato?”

Teddy alzò le spalle, confermando il suo dubbio e anche l’impossibilità di eliminarlo. “Non lo so. Non credo, perché Harry non mi dice mai bugie, ma è stato talmente vago su Ginny… E poi sono tutti così misteriosi, ultimamente! Mia nonna, Young… Non capisco mai cosa passa per la testa degli adulti”.

“Se può consolarti” precisò Cathy, mentre si divertiva a strisciare i piedi sulla ghiaia, “non li capisco nemmeno io. Credono di sapere tutto e di avere il diritto di nasconderti la verità. Sarebbe molto più semplice, se non ci fossero segreti…”

“Già. Per cominciare, potremmo almeno eliminare quelli tra di noi”.

Cathy si accorse tardi di aver parlato troppo. Stava pensando a Catherine e a Rodolphus, alle bugie dell’una e alle omissioni dell’altro, ma non certo ai suoi segreti con Ted, che si erano ormai ridotti a uno solo; mentre il ragazzo, cocciuto, aveva colto la palla al balzo per chiederle di nuovo dell’uomo buono.

“Senti” gli disse, sforzandosi di essere cortese e chiara al tempo stesso, “se vuoi chiedermi ancora del mio tutore, ti ho già detto che non posso…”

“Non serve” l’interruppe Ted, risparmiandole altre giustificazioni. “So che non puoi dirmelo. E poi, ormai ho capito chi è veramente”.

Questa proprio non se l’aspettava. Restò a bocca aperta, orecchie tese e occhi spalancati, nell’attesa di capire se lui sapesse davvero. Ma non ricordava di una sola volta in cui Ted si fosse sbagliato.

“Lestrange. È l’ultimo Mangiamorte mai catturato, sparito per anni, e nessuno sa dove si trovi. In più, era il marito di Bellatrix e avrebbe un sacco di motivi per occuparsi di te. E non dirmi che il tuo tutore non ha a che fare con i Mangiamorte… In quel caso, non avresti bisogno di nascondere il suo nome”.

Cathy avrebbe voluto negare, ma proprio non le riuscì. Il ragionamento stava così in piedi che nessuna teoria in sua conoscenza le avrebbe permesso di frantumarlo. Così restò in silenzio, ascoltando i rumori del lago e i chiacchiericci lontani della folla, senza confermare né smentire l’ipotesi di Ted.

“Lo denunceresti?” chiese poi, esternando una delle sue paure più grandi. “Se fosse davvero lui, lo denunceresti?”

“No, non credo. È solo l’idea di un dodicenne, nessuno mi ascolterebbe mai… Be’, a parte Young, ma lui non fa testo. E poi… Io non credo che persone del genere possano cambiare. Per me è un mostro e tale rimarrà sempre, ecco. Ma se davvero con te si comporta bene… Non posso toglierti l’unico parente che hai. Un orfano sa cosa significa”.

Avrebbe voluto abbracciarlo o stampargli un grosso bacio sulla guancia, come aveva fatto con Evan, ma in qualche modo, con lui, le veniva più difficile. Inoltre, non voleva mostrarsi tanto grata da dissipare ogni dubbio sulla veridicità della tesi, ammesso che ce ne fossero ancora. Perciò si limitò a sorridere nel buio, augurandosi che lui non capisse quanto ne era felice.

“Comunque, non era a quel segreto che mi riferivo” aggiunse Ted, un attimo dopo.

“No? E allora a cosa? Guarda che io non ho altri segreti con te!”

“Oh, no” ammise, chinando la testa. “Tu no”.

Cathy fissò la sua espressione nascosta con un misto di fastidio e curiosità, e i sensi di nuovo in allerta per quell’imminente confessione. Cos’altro c’era che non sapeva?

“Ricordi quando ti ho parlato di quella boccetta, che conteneva le memorie di tua madre? Be’, non ti ho raccontato proprio tutto. Non so perché, forse ero spaventato dall’idea che conoscere meglio Bellatrix ti avrebbe resa più simile a lei, ma adesso mi rendo conto che era un pensiero stupido. Comunque, è vero che Harry non ce l’ha più, ma… Ce l’ha qualcun altro. L’ultimo ad aver visitato quei ricordi dopo di lui, per quanto ne sappiamo”.

“Cosa?!” esclamò Cathy, per quanto – doveva ammetterlo – si fosse completamente dimenticata di quel dettaglio nei due mesi trascorsi. “E chi è? Lo conosciamo? Se lo sai devi dirmelo, ho il diritto di sapere!”

“Ok, te lo dico. Ma promettimi di non fare pazzie, d’accordo? Si tratta… Del professor Paciock”.


Note

Buonasera a tutti! Mi rendo conto di essere (di nuovo) in vergognoso ritardo con l'aggiornamento, ma è un periodaccio sotto vari punti di vista e anche rivedere un capitolo già scritto diventa un'impresa non da poco. Almeno, questa volta mi sembra che succedano diverse cose, mi sono fatta varie paranoie sull'eccessiva lunghezza per poi lasciarlo così com'era e come mi sembrava più giusto^^

Detto ciò, passiamo a note più interessanti. Con questo capitolo ci ricolleghiamo - finalmente! - a quanto accaduto nel prologo, e veniamo a sapere cosa stava cercando Cathy nello studio di Paciock. Il fatto che lui abbia la boccetta con i ricordi è ancora legato alla long precedente, ma state tranquilli, perché il motivo ve lo spiegherà lui stesso. Inoltre, penso vi sarete fatti un'idea di cos'è la Rosa Sanguigna, ma nel prossimo aggiornamento sarà ancora più chiaro perché dia il titolo alla storia. Tutto il resto, beh... E' un po' la chiusura del cerchio, salutiamo qui alcuni personaggi per concentrarci su altri nella parte finale. Spero vi siano piaciuti i vari discorsi tra compagni di scuola, nonché l'anniversario della Rinascita che ci tenevo molto ad inserire. Ah, la scritta in latino dovrebbe significare "Onore ai figli di Hogwarts", grazie a una gentile ragazza del forum che mi ha aiutato a tradurla!

Non mi resta che darvi appuntamento al prossimo aggiornamento, farò il possibile perché non arrivi tra due mesi! Vi ringrazio molto per la vostra pazienza e dedizione, siete sempre di più e il fatto che la storia piaccia a così tante persone mi riempie il cuore di gioia! A presto :)

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Capitolo 30
*** La Rosa Sanguigna ***


30


“Professor Paciock! Lei ha qualcosa che mi appartiene!”

Fingeva una sicurezza e una rabbia che non provava, mentre, con la mano tesa e tremante, teneva sotto tiro il suo insegnante. Perché diamine doveva rientrare proprio quella sera, proprio in quel momento? E dire che Ted era così sicuro, mentre le diceva che ogni fine settimana, cascasse il mondo, Paciock tornava a casa dopo cena, senza passare dallo studio. E dire che le parole di Cathy erano state, per fugare le preoccupazioni del suo amico: certo che non farò pazzie! Non mi metterò più nei guai, giuro. Era senz’altro il caso di rivedere i propri giuramenti.

“Per Diana, Scott! Abbassa quella bacchetta. Parliamone con calma, d’accordo?”

Neville teneva le mani aperte di fronte a sé con fare conciliante, forse spaventato da tutto quell’astio e da ciò che i poteri di Cathy potevano scatenare. Colpita dal suo sguardo sincero e gentile, persino in una situazione come quella, la ragazza si vide costretta a obbedire: abbassò la mira e si rificcò la bacchetta in tasca, seppur continuando a osservarlo in cagnesco. La sua posizione era talmente imbarazzante e rischiosa, con tutti i precedenti che si portava dietro, che Cathy non aveva trovato altra soluzione se non interpretare lei stessa la parte della vittima, sperando che Paciock ci cascasse. Non era certo uno stupido, ma la sua generosità innata e magari la stanchezza potevano fare la differenza tra una ramanzina e una passeggiata dal Preside. Forse.

“Bene” riprese lui, riacquistando la calma. “Ora mi spiegheresti cosa ci fai nel mio studio e che cosa ti avrei rubato?”

La domanda era del tutto legittima, sì. Ma non poteva certo rispondergli ‘i ricordi di mia madre’ senza passare per matta e svelare, un attimo dopo, le sue malcapitate origini. Optò per una mezza verità.

“Lei conserva i ricordi di una persona in una boccetta. L’ho saputo, beh… Da una fonte affidabile. E adesso ho bisogno di visitarli, capisce? È molto importante!”

Paciock aggrottò le sopracciglia, sovrappensiero. Non parve poi così sconvolto come Cathy si era aspettata.

“Ne conservo molti, in effetti, ma nessuno di quelli potrebbe essere di tuo interesse. Hai bisogno forse delle centouno ricette di mia nonna Augusta, o delle ultime memorie dei miei compagni di scuola? Permettimi di avere qualche dubbio…”

Cathy non sarebbe riuscita a fingere interesse per quei ricordi nemmeno sforzandosi. Sapeva, a quel punto, di doversi svelare con tutti i rischi del caso. Gli disse la verità con la bocca e con la mente formulò una preghiera: fa’ che non li abbia distrutti.

“No, mi servono quelli di una donna. Si chiamava Bellatrix Lestrange”.

Quella volta, la sorpresa si dipinse sul volto del professore senza lasciare dubbi. E ci fu anche qualcos’altro, simile alla paura, che gli allargò le pupille nel sentir pronunciare quel nome. Se riusciva a suscitargli quella reazione dopo più di dieci anni, Bellatrix doveva aver lasciato una grossa cicatrice anche nella sua vita.

“Come conosci quella persona?” le chiese, per poi cambiare subito domanda: “Anzi, non dirmelo, è chiaro che la conosci. Chi non ha sentito parlare di lei in questa scuola, almeno quanto ha sentito del suo padrone? Ma il punto non è questo. Il punto è perché hai così bisogno dei suoi ricordi, tanto da intrufolarti nel mio ufficio pur di appropriartene. Allora, Catherine?”

Di solito, quando passava a chiamarla per nome era un buon segno, ma quella volta il suo tono aveva un che di minaccioso. L’intrusione non doveva avergli fatto piacere, così come il caos che la ricerca infruttuosa di Cathy aveva provocato. Non potendo dargli torto, la ragazza cercò una giustificazione tra sospiri e balbettii: “Beh… Mi dispiace, lo so che è arrabbiato, ma io…”

“Oh, Cathy!” Il comportamento del professore cambiò totalmente in una manciata di secondi, passando dalla severità a una sorta di preoccupazione paterna. “Ma certo, sono stato uno stupido a non pensarci. Ne hai bisogno per lo stesso motivo per cui ho voluto visitarli io! Per trovare risposte… Vivi in un orfanotrofio, i tuoi genitori devono essere morti durante la guerra. Hai saputo che è stata lei, Bellatrix, ad ucciderli, non è vero? Non sarebbe la prima volta… Le vittime di quella persona, che faccio fatica a chiamare tale, sono così tante che non si è ancora riusciti a stimarle tutte”.

Scioccata dalla piega che aveva preso la conversazione, Cathy non riuscì a dire nulla. Aspettò che Paciock continuasse il suo discorso, ormai a ruota libera, senza permettersi di interromperlo.

“Ascolta” le disse, invitandola a sedere. Lei prese posto dietro la scrivania e lui di fronte, come se i ruoli di insegnante e allieva si fossero improvvisamente scambiati. “So cosa stai cercando, perché è proprio quello che cercavo anch’io. Ti sembra impossibile che una donna commetta azioni così terribili senza un reale motivo, vero? Pensi che, guardando nella sua vita, troverai qualcosa che possa spiegare una tale crudeltà. Ma lascia che ti dica una cosa, io che ci sono già passato: ti sbagli. Ci sbagliamo tutti, quando cerchiamo di trovare una ragione a qualcosa che non ne ha. Mentirei se ti dicessi che nella vita di Bellatrix non c’è stato dolore, ma niente di quello che ha passato può giustificare i suoi crimini. Le scelte che facciamo sono soltanto nostre, non sono imputabili a niente e a nessun altro. È così anche per lei”.

“Professore…” disse infine Cathy, colpita dalla profondità di quelle parole ma distratta da ciò che le aveva causate. “Davvero Bellatrix ha ucciso i suoi genitori?”

“No, non li ha uccisi. Li ha fatti impazzire, costringendoli a passare il resto dei loro giorni al San Mungo senza possibilità di guarigione. Ma non voglio raccontarti come, sei giovane e per fortuna non dovrai mai confrontarti con una tale mostruosità”.

In effetti, la ragazza non voleva proprio conoscere certi dettagli, men che meno se la responsabile era proprio sua madre. Abbassò il capo per non guardare il professore negli occhi, sentendo che quella colpa non sua le scorreva nelle vene come sangue marcio.

“Comunque, quei ricordi non li tengo certo qui. Sono a casa mia, conservati insieme agli altri, per non dimenticare che il male s’insidia ovunque e va fermato al più presto. Ma tu sei proprio sicura di volerli vedere, dopo quello che ti ho detto?”

Non poteva lasciare che Paciock continuasse a credere a una bugia tanto grande, non smentita proprio da colei che professava la verità a qualunque costo. Era senz’altro la scelta più facile, ma non la più giusta; dopo ciò che le aveva confidato, il professore meritava di sapere chi aveva davvero davanti.

“Signore, non è quello il motivo per cui voglio visitare i ricordi. Bellatrix non ha ucciso i miei genitori. Era lei mia madre”.

Non alzò lo sguardo mentre lo diceva, per cui non poté scrutare la reazione dell’insegnante. Il suo tono, però, le apparve più tranquillo del previsto: “Stai scherzando. Non è divertente”.

“Non scherzerei mai su una cosa del genere, glielo assicuro. Però sono d’accordo, non è divertente”.

“Mio D…” L’esclamazione fu soffocata per metà, dalla mano che Paciock si portò alla bocca mentre si alzava. Cathy gli lasciò tutto il tempo per assorbire la notizia, augurandosi solo che, al termine della sua riflessione, non le imponesse di sparire dalla sua vista.

“Ne sei sicura? Come lo sai?”

“Me l’ha detto una persona fidata” ripeté, sentendosi come in quei film in cui il protagonista è circondato da informatori segreti e ne protegge a tutti i costi l’identità.

“Non capisco… In quei ricordi non c’è nulla di te! Come potrebbe una madre lasciare le sue ultime memorie al mondo e non includere quella di sua figlia? È assurdo, persino per una come Bellatrix!”

“È proprio quello che speravo di scoprire” rispose Cathy. Tutto sommato, pensò che il professore la stesse prendendo quasi bene.

“Non voglio nemmeno chiederti chi era tuo padre, a questo punto. Però, almeno capisco perché avevi tanta urgenza di trovare quella boccetta e perché non me l’hai chiesta direttamente. Grazie per avermi detto la verità”.

La cortesia di Paciock riusciva a sorprenderla ogni volta e, in quel momento in particolare, sentì che sarebbe stato un padre perfetto per lei. Capire e non giudicare era un’arte per pochi, ma quell’insegnante ce l’aveva senz’altro nel DNA.

“Penso ancora che non troverai risposte in quella boccetta, però hai ragione nel dire che appartiene più a te che a me. Se proprio ci tieni ad averla, non posso negartelo”.

“Davvero?” gli occhi di Cathy si accesero di speranza, nonostante la negativa premessa. “Me la porterebbe?”

“Non proprio. Non posso lasciarti visitare quei ricordi da sola, la loro magia è troppo potente e alcune immagini non sono adatte a una ragazzina della tua età. Perciò, li vedremo insieme e alle mie condizioni. E siccome utilizzare il Pensatoio del Preside non mi pare una buona idea, dovrò portarti a casa mia”.

“Oh, lei è gentilissimo! Grazie mille, posso venire anche subito…”

“Eh no, ragazzina, frena l’entusiasmo”. La bloccò con gesto della mano, mentre Cathy era già in piedi e avviata verso la porta. Capì che forse aveva cantato vittoria troppo presto. “Mi sono lasciato abbindolare una volta, farlo una seconda sarebbe un colpo tremendo alla mia autostima. Perciò, basta con le fughe: parlerò con il Preside e, se lui mi accorderà il permesso, potrai trascorrere con me e mia moglie il fine settimana. Non è vietato per gli studenti lasciare la scuola, ammesso che siano autorizzati. E adesso, meglio che mi dia una mossa, perché Hannah non ha il dono della pazienza… Aspettami qui”.

*

Furono tra i minuti più lunghi della sua vita, secondi, forse, solo a quelli che aveva trascorso aspettando il verdetto fuori l’aula professori. La reazione così generosa di Paciock le era sembrata un miracolo, e passare un fine settimana con la sua famiglia - proprio lei, che una famiglia non l’aveva mai avuta - le appariva come un piccolo bonus che quel brav’uomo le stava regalando. Non aveva mai messo molte aspettative nella possibilità di trovare quella boccetta, ma l’incontro disastroso nello studio si era infine tramutato in un’opportunità migliore. Tutto ciò che doveva augurarsi, ora, era che Vitious non facesse il difficile e le permettesse di lasciare la scuola un paio di giorni, così da scoprire finalmente qualcosa in più della vita di sua madre.

Il vento girò a suo favore, nella porta che Paciock spalancò con entusiasmo e nel sorriso bonario con cui le comunicò che il Preside aveva accettato. “Solo se mi prendo ogni responsabilità su di te” specificò, “e se questo non inficerà sul tuo rendimento. Non hai così tanti arretrati da non poter perdere due giorni, giusto?”

“No!” L’immagine di pile di libri e pergamene che l’attendevano in sala comune si affacciò nella sua mente, ma la scacciò via come se si trattasse di fantasia. C’erano cose ben più importanti in ballo, si disse, per pensare allo studio che poteva recuperare più avanti.

“Oh, accidenti…” Paciock si guardò l’orologio, uno strano arnese dorato su cui spiccavano pianeti e stelle al posto delle lancette, e mugugnò deluso: “La Passaporta è persa ormai, ci tocca il camino. E il peggio è che ho fatto bloccare quello di Hannah per paura degli intrusi, per cui dovremo fare un po’ di strada a piedi. Ah, quasi me ne dimenticavo di nuovo!”

Fece dietrofront fino alla scrivania e rovistò in un cassetto, tirandone fuori un misterioso oggetto di cui Cathy notò solo il colore, rosso intenso. Se lo infilò in tasca così in fretta che la ragazza non ebbe il tempo di osservarlo meglio, né osò chiedere cosa fosse per non apparire sgarbata.

“Bene, la Polvere Volante è qui. L’hai mai fatto prima?”

“Ehm, no. Cos’è che dovrei fare, esattamente?”

“…È meglio se non ci pensi troppo, allora. Quando la fiamma diventa verde, gettati dentro e grida Diagon Alley con voce chiara. Mi raccomando, con voce chiara!”

“Che cosa?! Devo gettarmici dentro?”

“Un po’ di fiducia, andiamo! Non ti succederà niente e io ti seguirò subito. Non piace neanche a me questa cosa, ma… Beh, va fatta. Al mio tre, d’accordo? Uno… Due…” Gettò la polvere nel camino, dal quale si issò immediatamente una grande fiamma color smeraldo. Cathy si sentì le gambe molli come se avessero perso tutte le ossa. “…Tre!”

*

Questo è peggio che volare sulla scopa. Più fastidioso che farsi trascinare da una Passaporta. Persino peggiore della Smaterializzazione! …No, va bene, forse adesso sto esagerando. Cathy maledisse la scomodità di quel mezzo di trasporto mentre camini su camini le sfrecciavano davanti agli occhi, la fuliggine le sporcava i vestiti e la faceva starnutire. Proprio quando pensava di non poterne più, quella corsa frenò di botto e lei cadde carponi sulla dura pietra, massaggiandosi le ginocchia doloranti. Davanti ai suoi occhi c’era l’interno di un negozio magico, polveroso e pieno di scaffali quasi quanto quello di Olivander, sebbene esponesse libri e pozioni invece di bacchette magiche. Un attimo dopo, un rumore sordo annunciò l’arrivo di Paciock, che si rialzò a fatica mentre tentava di ripulirsi. “Te l’avevo detto che non sarebbe stato piacevole…” commentò, mostrando quanto quel modo di viaggiare gli piacesse poco. “Comunque, l’importante è che non hai sbagliato destinazione”.

Restarono soli per ben poco tempo: attirato probabilmente dal rumore, un mago panciuto e in veste da camera entrò da una porta sul fondo, grugnendo e lanciando occhiatacce al professore. Su Cathy si soffermò per meno di mezzo secondo.

“Neville Paciock… Fammi indovinare, hai di nuovo perso la Passaporta?”

“Io… No! Cioè, sì… Forse. Ma era per una buona causa, c’è questa ragazza con me e abbiamo dovuto…”

“Se puoi risparmiarmi i dettagli te ne sarei grato. Il tempo è denaro e ne ho già perso abbastanza per colpa tua, per non parlare del sonno e dello stress emotivo. Su, diamoci una mossa”.

Paciock alzò le spalle e sospirò, mentre il burbero proprietario apriva con un incantesimo la porta principale e indicava loro la strada. Intimidita dal suo aspetto quanto dai suoi modi, Cathy si affrettò a uscire con un flebile “buonasera”.

“Buon riposo, Jonathan. Scusaci per il disturbo”.

L’uomo rispose con un altro grugnito e sbatté la porta, lasciandoli soli nella notte. Diagon Alley era molto diversa al buio, quando i negozi erano chiusi e le vie deserte, ma per fortuna Cathy non era da sola a percorrerla. Paciock le batté una mano sulla spalla e la invitò a proseguire, per nulla turbato dall’incontro con il negoziante.

“Quel mago è così, fa la parte del cattivo e gli piace usare parole forti come ‘stress emotivo’, ma è molto meglio di come sembra. Potrei perdere la Passaporta altre dieci volte e lo troverei sempre lì, pronto a lasciarmi uscire. Lo considero quasi un amico”.

Cathy aveva difficoltà a definire tale un uomo che si comportava in quel modo, ma preferì non commentare. Stava pur sempre parlando con il suo insegnante ed era sotto la sua tutela, ragion per cui le conveniva assecondarlo. Per distrarsi dal buio e da quella strana situazione, si concentrò sui negozi lungo la strada e cercò di ricondurli a quelli che conosceva, a volte con successo. Capì che stavano percorrendo a ritroso la via che aveva fatto con Catherine, ormai molti mesi prima.

“Sai” disse d’improvviso il professore, “non riesco proprio a immaginare come ti senti. Ho conosciuto così tante vittime della guerra da averci fatto quasi l’abitudine, ma essere figli dei carnefici, beh… Dev’essere altrettanto terribile. Specie se non hai la sfacciataggine del tuo compagno Dolohov”.

Cathy annuì, sentendo di poter confermare ogni singola parola. “È stato orribile scoprirlo. Avevo sempre sperato che i miei genitori fossero delle brave persone, anche se mi avevano abbandonata, finché non ho saputo che erano il peggio che potessi immaginare. Non posso neanche parlarne con nessuno, tranne pochi amici, perché non so come reagirebbero… A Hogwarts, molti credono che il sangue cattivo si trasmetta di padre in figlio, che non ci sia modo di sfuggirgli. A volte ho paura di diventare cattiva anch’io…”

“Ma no, che dici?” Paciock sembrava sinceramente colpito. “Non devi nemmeno pensarle certe cose! Nel mondo magico ci sono ancora un sacco di pregiudizi, purtroppo, ma l’importante è non dargli peso. Come ti ho detto, le nostre scelte dipendono solo da noi, non certo da chi ci ha generato. E tu non sei cattiva, Cathy… Hai una certa tendenza a metterti nei guai, un po’ come tre ex compagni di mia conoscenza, ma è del tutto normale alla tua età. Quello che conta è la qualità del raccolto, non coloro che l’hanno seminato”.

Avrebbe voluto dargli ragione, ma non poteva riuscirci del tutto. C’erano tante cose che Paciock non sapeva, a partire dall’incidente con Eliza, e che erano sempre pronte a tartassarla di dubbi. Benché ormai fosse tutto chiarito, Cathy non poteva essere sicura che drammi del genere non accadessero più, e ogni giorno pregava di non diventare mai simile ai suoi genitori. Aveva ancora molti anni per crescere, ciò che le sembrava impossibile oggi poteva diventare reale un domani. Secondo Rodolphus, il tempo avrebbe cambiato le sue opinioni, e questa semplice possibilità non aveva mai smesso di inquietarla.

“Voglio raccontarti una cosa” riprese ancora Paciock, catturando la sua attenzione. “Tra tutte le Rose Cangianti che vi ho mostrato a lezione, ce n’è una di cui non vi ho mai parlato. Si tratta di un fiore bellissimo, color rosso vivo, chiamata la Rosa Sanguigna. Come avrai sicuramente intuito dal nome, è necessario innaffiarla con il sangue. In Paesi come l’Irlanda è più semplice trovarne, perché per crescerla si usa quello dei draghi, ma in Inghilterra è quasi impossibile, essendo vietato l’allevamento di queste creature. Il sangue di drago viene usato per scopi ben più importanti dei fiori, per questo il Ministero non ci consente di coltivare Rose Sanguigne ma solo di importarle. A volte, esse crescono persino spontaneamente, nei luoghi in cui è stato versato molto sangue. E sai quale sostanza ci si può ricavare?”

Cathy scosse la testa e tentò di indovinare: “Non lo so. Qualcosa di oscuro e pericolosissimo?”

“No” rispose Paciock. Contemporaneamente, tirò fuori dalla tasca lo stesso oggetto che vi aveva riposto poco prima, e che visto così da vicino non era poi tanto misterioso. “Profumo. Puro e semplice profumo”.

Avvicinò al naso di Cathy quella che era ormai chiaramente un’ampolla, e immediatamente un odore intenso le invase le narici. Il suo profumo era… Indescrivibile. Talmente piacevole da non poter essere paragonato a nulla di conosciuto. Sembrava provenire da un altro pianeta.

“Wow! È incredibile, davvero. Non avevo mai provato niente del genere!”

“Oh, lo so”. Paciock esibì un sorriso soddisfatto. “Te ne darei anche un po’, ma è un regalo per mia moglie e mi è costato un occhio della testa. Sarà per l’anno prossimo, magari…”

“È un bel racconto” commentò Cathy, che ormai non smetteva più di parlare, “ma pensavo avesse a che fare con l’altro discorso…”

“Sicuro che ce l’ha! Non hai colto il paragone?”

Si sentì stupida, eppure: no. Non l’aveva colto. Il silenzio rispose per lei.

“Quella rosa è come te, Cathy. Nata dal sangue versato, che magari non ha un’ottima reputazione, ma cresciuta per diventare ciò a cui era destinata, un bellissimo fiore e uno straordinario profumo. Che colpa ne ha, quella rosa, del sangue che è stato usato per farla nascere? Lei non sa se proviene da un campo di battaglia, dal dolore e dalla morte, o magari da un comunissimo allevamento. Lei si limita a fare la sola cosa che può: vivere. E tu devi seguire il suo esempio”.

Adesso aveva capito. Paciock era molto più che un professore imbranato e ossessionato dalle sue piante, nonostante i ragazzi come Jason e Alexander faticassero a capirlo. Era un raro esempio di bontà e saggezza, un uomo fantastico quanto Harry Potter. Essere accettata da Ted ed Evan nonostante le sue origini era stato bellissimo, ma esserlo da un uomo adulto, che per di più aveva perso la sua famiglia a causa di Bellatrix, lo era ancora maggiormente. Forse, l’unica che doveva ancora riuscire ad accettarsi era proprio lei stessa.

“Vivere è difficile, a volte” gli rispose. “Quando guardo persone come lei, che hanno sofferto a causa dei miei genitori… Non posso fare a meno di sentirmi in colpa. Forse è stupido, ma mi sembra ingiusto che io sia qui e tanti altri invece no. Come la famiglia di Ted, la sua, tutti quelli che il Preside ha nominato all’anniversario della Rinascita. Dovevano esserci loro a festeggiare la pace, non io”.

Paciock si fermò davanti a un muro di mattoni che alla ragazza parve familiare. Lo picchiettò con la bacchetta tre volte e aspettò che si aprisse un varco, abbastanza ampio da lasciarli passare. Nell’attesa, commentò: “Beh, almeno una cosa l’hai detta giusta. Tutto questo è stupido, molto stupido”.

Cathy sorrise, rinunciando una volta per tutte a certi discorsi che Paciock non approvava. Il cortile che si presentò loro di fronte le portò alla mente quel primo giorno a Diagon Alley, quando la proprietaria del pub aveva mostrato a lei e a Catherine la strada. L’emozione che aveva provato guardando al di là del muro era ancora viva dentro di lei.

“Non tutti avranno la maturità o la forza per accettarti, questo è vero” proseguì Paciock, mentre raggiungevano una scala sul retro e iniziavano a salirla, “ma è un problema loro, non tuo. Se aspetti di piacere a tutto il mondo per piacere a te stessa, non andrai da nessuna parte. È una lezione che ho imparato molto tempo fa, e spero che un giorno la capisca anche tu”.

Erano ormai davanti alla porta. Quando Cathy si aspettava che non ci fosse più nulla da dire, che sarebbero entrati e basta, Paciock riuscì ancora a sorprenderla: si posizionò di fronte a lei, serio come forse non le era mai capitato di vederlo, e le presentò un discorso che doveva aver preparato da tempo. Fu chiaro che non aveva intenzione di aprire subito la porta.

“Adesso devo dirti una cosa. La donna che stai per incontrare è la più importante della mia vita. Ho giurato di amarla e rispettarla finché morte non ci separi, e non si tratta di una promessa fatta a cuor leggero. Ciò significa che non le terrò nascosta la tua identità, anche se questo potrebbe turbarla, e la lascerò libera di scegliere se ospitarti o meno in casa nostra. È una persona dolce e comprensiva, sono certo che ti accetterà, ma se non dovesse essere così… Non potrò e non vorrò costringerla a tenerti qui. Mi capisci?”

Cathy annuì con convinzione. In quel caso non servivano ulteriori spiegazioni.

“Bene. Sai, ci sono persone che decidono di sposarsi come se stessero scegliendo che cosa mangiare per cena, ma io non sono tra quelle. Devo rispettare le scelte di Hannah, anche e soprattutto quando non combaciano con le mie”.

A quel punto, voltò le spalle alla ragazza e finalmente bussò, utilizzando un campanello molto simile a quelli Babbani. Sua moglie aprì la porta trafelata, gettando le braccia al collo di Paciock e rimproverandolo contemporaneamente, mentre Cathy riconosceva in lei la stessa proprietaria gentile del Paiolo Magico. Era la prima strega che avesse mai conosciuto e le era apparsa come una fata, allora; non credeva che l’avrebbe rivista in una situazione tanto particolare.

“Accidenti, Neville! Mi hai fatto stare in pensiero! Si può sapere cos’hai combinato fino a quest’ora? Stavo per contattare la scuola! Quando ho visto la Passaporta arrivare senza di te, io…”

“Shh” la zittì lui, dolcemente, posandole un dito sulle labbra. “Mi dispiace, l’ho persa un’altra volta. Ma sono qui, adesso”.

Era evidente che Hannah voleva replicare ancora, ma Paciock non gliene diede il tempo, perché frenò le sue parole con un bacio. Cathy voltò lo sguardo imbarazzata e fu solo dopo qualche secondo, quando la coppia si staccò, che Hannah si accorse della piccola ospite.

“E tu chi sei?” le domandò, guardandola con curiosità.

“È una mia studentessa” replicò Paciock al suo posto. “Si chiama Catherine Scott”.

“Hai un viso familiare, sai? Forse sei passata di qui, tempo fa?”

“Sì” questa volta era stata Cathy a parlare. “Quest’estate, per andare a Diagon Alley”.

“Hannah, devo parlarti”. Il professore interruppe i convenevoli per giungere al sodo e la donna, impensierita, si fece da parte per lasciarlo entrare. Cathy capì, senza necessità di conferme, che doveva aspettare fuori.

*

Fu una nuova lunga attesa, un’altra volta. Sembrava che il suo destino fosse quello, aspettare fuori o dentro una stanza che gli altri decidessero cosa fare di lei. Non era poi così male, finché finiva com’era finita in precedenza, ma avrebbe preferito essere una ragazza qualsiasi di cui Paciock avrebbe potuto dire: “Ehi, lei è una mia studentessa, possiamo ospitarla per un paio di giorni?”, invece di preparare un discorso tremendamente serio. D’altra parte, una ragazza qualsiasi non sarebbe entrata nello studio del professore alla ricerca di una boccetta, che con ogni probabilità non si era mai trovata lì.

Il cortile era ben illuminato e la temperatura gradevole, perciò, tra un pensiero pessimistico e l’altro, Cathy si assopì contro la parete. Non seppe dire se fossero passati pochi minuti o un’ora, ma quando sentì la porta cigolare riaprì gli occhi all’istante; sulla soglia c’erano nuovamente Paciock e sua moglie, quest’ultima leggermente più pallida e seria di poco prima.

“Entra pure, Cathy” le disse il professore. “È tutto a posto”.

La ragazza si sollevò dal suo giaciglio improvvisato e andò incontro ai due, ritrovando il sorriso e l’energia. Ringraziò entrambi per l’ospitalità e notò che Hannah sorrideva a sua volta, ma sembrava nervosa e poco spontanea. Cathy avrebbe scommesso che anche lei aveva perso qualcuno per colpa dei Mangiamorte, e che accettare la loro figlia in casa propria dovesse costarle molto. Tuttavia, non c’era rabbia o avversione nel suo sguardo, ma solo un’evidente malinconia. Questo non la stupì più di tanto: conoscendo la personalità del suo insegnante, la compagna di vita che si era scelto non poteva essere molto diversa da lui. Sembravano incapaci di provare rancore, persone semplici e pure di cuore… Una famiglia perfetta. Come l’avrebbe voluta anche lei.

L’interno della casa era caldo e accogliente, con un arredamento simil-Babbano mischiato ad oggetti spiccatamente magici. Il salotto, dove la fecero accomodare, era molto più piccolo in confronto a quello della villa di Rodolphus, ma comunque dotato di un comodo divano rosso e di un elegante camino. Paciock prese posto accanto a lei, mentre Hannah restò in piedi a sfregarsi le braccia come se avesse freddo.

“Vi porto qualcosa?” chiese, da perfetta padrona di casa e proprietaria di pub. “Un dolce, un tè?”

“No, tesoro, grazie, sono pieno come un uovo! La qualità della cucina di Hogwarts non cambia mai. Tu vuoi qualcosa, Cathy? Non fare complimenti!”

“No, grazie, sono a posto”. La tensione non le aveva permesso di rimpinzarsi troppo a cena, ma aveva comunque lo stomaco chiuso anche per una tazza di tè. Dopo qualche istante di silenzio, Hannah abbandonò la stanza lasciandoli soli.

“Bene” prese la parola Paciock. “Ora dimmi, sei stanca? Se vuoi riposarti possiamo rimandare la… visita a domani”.

Cathy rispose senza rifletterci: “No. Vorrei vedere i ricordi subito, se è possibile”. Anche se il sonno l’aveva vinta pochi minuti prima, ormai l’adrenalina che aveva in corpo non le avrebbe consentito di dormire. Si augurò che Paciock lo capisse.

“D’accordo. Allora vado a prendere la fiala”.

Lo osservò alzarsi dal divano e raggiungere il mobile nell’angolo, per tirarne fuori un grande piatto argenteo che posò con delicatezza su un tavolino. Incuriosita, Cathy si avvicinò e vide che il mobile sembrava pieno fino a scoppiare; Paciock dovette utilizzare la bacchetta per fare un po’ d’ordine, ma dopo che l’ebbe agitata s’intravide, sul fondo, un pannello di legno sgombro. La ragazza era perplessa, ma il professore l’invitò a guardare meglio; e, dopo qualche istante, il pannello iniziò a sollevarsi rivelando un’apertura nascosta, piena di piccoli contenitori di vetro. C’era un’etichetta su ciascuno di essi con un nome e un cognome, e all’interno vorticava un liquido biancastro. Paciock ne tirò fuori una decina prima di trovare quello giusto: sopra c’era scritto Bellatrix Lestrange. Il cuore di Cathy prese a batterle più forte.

“Dovrai immergere la testa nel Pensatoio e il resto verrà da sé” le disse il professore, mentre versava nel bacile il contenuto della fiala. “Non avere paura, ti resterò vicino”.

Cathy annuì, sebbene l’ansia stesse iniziando a prevalere. Non era tanto il fatto di immergersi che la spaventava – ormai sapeva che, per quanto scomodi, i mezzi magici erano sicuri – quanto ciò che avrebbe scoperto nel farlo. Di sua madre conosceva soltanto il viso e la cattiva reputazione, ma vederla vivere sarebbe stato completamente diverso. Eppure, dopo tutto ciò che aveva fatto per arrivare a quel punto, non avrebbe mai potuto rinunciarci. Fece un respiro profondo e s’immerse, come le era stato detto, finché sentì i propri piedi abbandonare il pavimento e raggiungere una nuova dimensione.

Quello fu il suo primo viaggio nella magia del Pensatoio e le sarebbe rimasto in mente per sempre, come un’occhiata al passato che desiderava ardentemente conoscere. Vide sua madre alla sua età, una bambina tutt’altro che docile e dallo sguardo fiero, entrare a Hogwarts per la prima volta e diventare una Serpeverde. Assisté al suo primo incontro con un irriconoscibile, giovanissimo Rodolphus, e partecipò alla loro incursione notturna nella Sala dei Trofei. Bellatrix era davvero molto simile a lei, quasi una fotocopia: aveva gli stessi capelli neri, gli stessi occhi, persino il medesimo modo di camminare. Era soltanto più alta e aveva le labbra sottili, a dimostrazione che anche un padre aveva avuto la sua parte in quella nascita. Ciononostante, nei comportamenti non avrebbero potuto essere più diverse: Bellatrix era sfacciata, sicura di sé come Cathy non si sentiva mai, e sembrava avere la dote di irretire i compagni dopo aver parlato con loro poche volte. Si trattava di caratteristiche slegate dal sangue, probabilmente, e molto più dipendenti dal modo in cui erano cresciute. Cathy avrebbe potuto persino invidiarla, se non avesse saputo a quali conseguenze terribili aveva condotto il suo carattere.

Più tardi, ebbe la possibilità di vederla adolescente e di scoprire come aveva conosciuto Lord Voldemort, il cui aspetto la inquietò notevolmente. Paciock, che non l’aveva davvero lasciata mai sola, le spiegò che a renderlo così poco umano erano stati gli incantesimi a cui si era sottoposto e che, da lì in avanti, lo sarebbe diventato ancora meno. Cathy rimase colpita dalla sua totale freddezza e dalla passionalità con cui Bellatrix, al contrario, lo implorava di insegnargli le Arti Oscure. Quando ella riuscì a convincerlo e poco prima che la scena cambiasse, il professore tirò a sé il braccio di Cathy per invitarla a lasciare i ricordi. Seppur controvoglia, la ragazza aveva accettato l’accordo e dovette acconsentire, abbandonando quell’esperienza mistica ben prima della sua conclusione.

“C’è molto altro che non ti ho mostrato” ammise Paciock, mentre più tardi riponeva il Pensatoio e la fiala. “Il rapporto con le sue sorelle, il giorno del suo matrimonio e l’amore folle per il suo padrone. Ma c’è anche la crudeltà, la prigione e l’omicidio, tutte cose che non posso lasciarti vedere. I ricordi restano comunque qui e potrai visitarli ogni volta che vorrai, quando avrai compiuto almeno sedici anni. Considerali tuoi, Cathy, anche se li custodisco io”.

La ragazza annuì, troppo emozionata per parlare, finché il groppo che aveva in gola non si sciolse e le permise di fare il primo, vero commento sull’accaduto: “Questi sono i suoi ultimi ricordi, vero? Gli ultimi prima di morire”.

“Sì, è così” confermò Paciock.

“E io non ci sono. Ha ripercorso tutta la sua vita e non ha dedicato nemmeno un momento a sua figlia. Non dovevo contare proprio niente, per lei”.

“Ehi, guardami” Paciock le sollevò il mento per costringerla a guardarlo negli occhi, piuttosto che affogare i suoi dispiaceri nei disegni della moquette. “Sono sicuro che a questo c’è una spiegazione, dobbiamo solo capire quale. Credimi, forse sono la persona che odia di più Bellatrix a questo mondo, ma… Se c’è una cosa che ho imparato visitando le sue memorie, è che a modo suo era in grado di amare. Ti prometto che ci penserò, magari mi verrà in mente qualcosa”.

“Ok” rispose Cathy, la quale nutriva ormai poche speranze. “Ma se non succederà?”

“Se non succederà, ti guarderai intorno e capirai di non aver perso nulla. Vicino a te hai una ragazza come Catherine, che ti ha cresciuta e ti vuole davvero bene, anche se non è la tua madre biologica. Sono queste le cose che contano”.

Cathy preferì non rispondere, altrimenti avrebbe dovuto affrontare un nuovo argomento doloroso come le bugie della sua educatrice. Si lasciò accompagnare verso la stanza degli ospiti, augurandosi che un sonno ristoratore le avrebbe fatto percepire tutto con più chiarezza.

*

Addormentarsi fu tutt’altro che facile, poiché le immagini che aveva appena visto continuavano ad apparirle dietro le palpebre. Pensava alla Bellatrix che aveva appena conosciuto, una ragazzina sì impertinente e scaltra, ma ben lontana dal mostro che tutti la consideravano. Com’era diventata, esattamente, un’assassina? Forse quando le lezioni di Arti Oscure le avevano plagiato la mente, proprio a causa di quell’uomo terribile con cui un giorno avrebbe concepito Cathy. Perché, se faceva fatica a immaginare sua madre mentre uccideva qualcuno, non ne faceva altrettanta con suo padre, che già in quei brevi ricordi appariva come un mago subdolo e crudele. Avrebbe voluto proseguire subito il viaggio che aveva interrotto, per andare fino in fondo a quella storia e trovare delle risposte, invece Paciock la costringeva ad aspettare quattro anni. Quattro, lunghissimi anni… Non era certa di farcela. Forse sarebbe impazzita, forse un giorno si sarebbe intrufolata di nascosto in quella casa e avrebbe rubato tutto, boccetta e Pensatoio. E poi se ne sarebbe pentita, sentendo di essere diventata più simile a sua madre.

Dopo un’ora passata a rigirarsi nel letto, si accorse di avere la gola secca e un gran bisogno di bere. Poiché non poteva usare la magia, l’unico modo per procurarsi dell’acqua era uscire dalla stanza e cercare la cucina, il tutto evitando di svegliare i Paciock. Poteva farcela: si alzò lentamente dal letto e altrettanto lentamente aprì la porta, percorrendo il corridoio con passo felpato. Passando di fronte al salotto, però, delle parole sussurrate attirarono la sua attenzione e la curiosità costrinse la ragazza a fermarsi. Sbirciando attraverso la porta, intravide la coppia seduta sul divano: Paciock teneva un braccio attorno alle spalle di lei e Hannah rimirava l’essenza di Rosa Sanguigna, che suo marito le aveva appena consegnato.

“Ti piace?” le chiedeva lui, con voce dolce.

“Certo, è un profumo magnifico! Ma non c’era bisogno che spendessi così tanto… Lo sai che non navighiamo nell’oro”.

“È pur sempre il nostro anniversario, Hannah. E tu meritavi un regalo speciale”.

Cathy sapeva che origliare non era educato, ma non riuscì a resistere alla tentazione. Si chiedeva se avrebbero parlato di lei, rivelando magari qualcosa che in sua presenza avevano taciuto. Per sentirsi meno in colpa, si disse che qualsiasi cosa avesse ascoltato l’avrebbe tenuta rigorosamente per sé.

“Però non sei felice” disse la voce del professore. “È per la ragazza, vero? Perché l’ho portata qui?”

Hannah non rispose subito. Appoggiò il capo sulla spalla di suo marito e lasciò che lui le accarezzasse i capelli. Infine, ammise: “Sì, è per lei”. E Cathy si sentì morire.

“So che non è facile da accettare, è stato uno shock anche per me! Ma Cathy non ha nulla a che fare con sua madre, non l’ha neppure mai conosciuta… Anche quando crescerà, non cambierà niente. È una ragazza buona, lo so. La conosco”.

Ringraziò mentalmente Paciock per quelle parole, augurandosi che potessero convincere anche Hannah, ma la donna sembrava di un altro avviso: “Non è questo, Neville. Mi fido di te, so che non l’avresti portata qui se non ne fossi stato assolutamente sicuro… E so anche che non posso affibbiare a una ragazzina le colpe dei suoi genitori. Ma non riesco a smettere di farmi una domanda”.

Quale domanda? si chiese Cathy, automaticamente. Neville espresse a voce alta lo stesso dubbio.

“Perché quella donna sì e noi no?”

Il professore sospirò, come se tutto ora gli fosse tristemente chiaro. Per Cathy, al contrario, il significato di quelle parole era ancora oscuro.

“È questo, allora. Ma non puoi paragonare le due situazioni, sono così diverse…”

“Non così tanto”. Per la prima volta da quando la sentiva parlare, Hannah sembrò risentita. “Una persona orribile ha avuto un dono tanto grande e l’ha gettato via… Mentre noi, che lo vorremmo più di ogni altra cosa al mondo, non possiamo averlo! Non è giusto, capisci? Non è giusto”.

La voce le si era incrinata man mano che pronunciava quella frase, e Cathy ne dedusse che stava piangendo. Neville però non si scompose, continuò ad accarezzarla con la stessa delicatezza che lo contraddistingueva.

“Ci riproveremo, tesoro. Useremo altre pozioni, parleremo con altri guaritori. E se non funzionerà tenteremo di nuovo”.

“Sì, ma potrebbe essere inutile. Ci proviamo da due anni, forse dobbiamo solo ammettere di avere un problema. Non siamo destinati ad avere un bambino”.

La sofferenza di quella donna la colpì, mentre i motivi che ne stavano dietro diventavano improvvisamente evidenti. Cathy aveva conosciuto molte coppie che non potevano avere figli, quando giungevano all’orfanotrofio per adottarne uno, ma nessuna di quelle le era sembrata così profondamente infelice. Forse, perché avevano già raggiunto la fase della rassegnazione che per i Paciock era ancora lontana.

“Per me andrebbe bene, Hannah. Anche se restassimo soli, io e te, andrebbe bene così. Voglio solo che tu sia felice”.

“Lo so, Neville. Lo so”.

La conversazione si concluse lì, tra i singhiozzi sempre più flebili della donna e le carezze incessanti di lui, che le scostava i capelli dal viso e le asciugava le lacrime. Vedere che neppure il professore riusciva a consolarla fu un duro colpo per Cathy, abituata a considerare Paciock come un super-mago capace di fronteggiare qualsiasi problema. E allora le tornarono in mente le parole di qualche ora prima, che improvvisamente assumevano tutt’altro significato: il male s’insidia ovunque. Anche in una famiglia perfetta, come a Cathy apparivano i Paciock, potevano esserci ferite indelebili e ingiuste da cui era impossibile guarire. Tutto ciò che restava da fare era combattere, trovare il proprio posto nel mondo nonostante quello che non si poteva cambiare. Era, si disse, esattamente come nascere dal sangue e mutarsi in profumo: avere il coraggio di diventare quello che si vuole, a dispetto di quello che si è.


Note

Salve a tutti! Sembra incredibile, ma siamo davvero arrivati al capitolo 30 di questa storia e a ricongiungerci con il prologo, il che vuol dire che la parola "fine" è sempre più vicina. La cosa mi rende piuttosto triste, per cui beh, tralasciamola ancora per qualche tempo e concentriamoci sulle note^^

Punto primo: già, proprio così. Nella mia visione delle cose, in barba a tutti i Frank e Alice jr che spuntano nel fandom, Neville e Hannah non possono avere figli. Questo perché la Rowling, che si è tanto premunita di dirci i nomi dei pargoli di tutti i personaggi, non ha mai svelato niente in proposito, e allora ho pensato che questa fosse una possibile spiegazione. In fondo sono cose che capitano, sarebbe anche troppo strano se proprio tutte le coppie avessero lo stesso destino. Ma non restateci troppo male, i Paciock sono in gamba e troveranno comunque il modo di essere felici!

Punto secondo: mi dispiace se la parte dei ricordi di Bellatrix è abbastanza scarna, forse ve l'aspettavate diversa, ma avendo già descritto tutto in un'altra storia non mi andava di ripetermi. L'argomento comunque non si chiude qui, c'è qualcosa che non torna - la totale assenza di Cathy - e che ancora dovrà trovare una sua spiegazione.

Beh, mi sa che non c'è altro. Grazie a tutti i carissimi lettori che ancora mi seguono, nonostante i ritardi cronici, e fate buone vacanze!

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Capitolo 31
*** Vuoti da colmare ***


31


Da quando Cathy aveva lasciato la villa dei Lestrange, il tempo lì sembrava essersi fermato. Ogni nuovo giorno si ripeteva uguale al precedente, un susseguirsi di azioni banali che non avevano altro scopo fuorché quello di sopravvivere. Il silenzio, un tempo caro a Rodolphus come occasione di riflettere e pianificare, gli risultava ormai intollerabile; avrebbe voluto parlare con qualcuno, per riempire il vuoto di quell’attesa che lo stava lentamente logorando, ma l’unico essere vivente in quella casa era Wolly e discutere con un’elfa domestica non era esattamente il genere di attività che preferiva. Occuparsi di Cathy era stato molto diverso: nonostante la ragazzina gli facesse saltare i nervi quasi giornalmente, lo costringeva in qualche modo a vivere, a inventarsi qualcosa di nuovo per arrivare fino a sera. Soprattutto, lo distraeva dal pensiero fisso del suo ultimo scopo, che con il passare del tempo gli appariva sempre più lontano e indefinito.

Ma perché, poi, la presenza di Cathy doveva essere così essenziale al suo benessere? Se lo chiese mentre gettava via il libro che tentava di leggere da almeno un’ora, senza riuscirci, e recuperando il Whisky dalla teca per concedersi un bicchiere. Stava bevendo troppo ultimamente, se avesse subito un attacco non sarebbe stato abbastanza lucido da affrontarlo, ma non gli importava: aveva bisogno di schiarirsi le idee, uscire da quel torpore che si era autoimposto e darsi da fare. Prima che la ragazzina passasse tanto tempo con lui, la solitudine non era mai stata un problema, dunque non poteva esserne lei la causa diretta; era senz’altro colpa del momento in cui si trovava, del fatto che dovesse limitarsi ad aspettare senza agire. Passò in rassegna, per l’ennesima volta, tutte le azioni che avrebbe potuto intraprendere, ben sapendo che nessuna di quelle sarebbe stata una scelta saggia.

Tentare di contattare Weasley era decisamente rischioso, ora che non poteva più contare sull’effetto sorpresa. Avrebbe potuto metterlo alle strette, minacciarlo una seconda volta, ma non era certo che sarebbe servito a qualcosa; d’altra parte, se il Ministero non era ancora venuto ad arrestarlo significava che Percy aveva tenuto la bocca chiusa, il che gli dava buone speranze. Liberare Rabastan dalla prigionia non era uno scherzo, se davvero Weasley ci stava provando allora lui non doveva pressarlo, o avrebbe rischiato di rovinare tutto. Anche contattare suo fratello era un grosso azzardo: lui avrebbe potuto passargli informazioni importanti, dirgli se qualcosa aveva iniziato a cambiare, ma se una lettera fosse stata intercettata avrebbe mandato tutto a monte. No, concluse, l’unica possibilità era attenersi al piano originale e non fare passi falsi. Aspettare e ancora aspettare, finché una qualsiasi novità non fosse giunta fino a lui.

Già, ma se non fosse arrivata affatto? Strinse con forza il bicchiere da cui aveva appena bevuto e lo lasciò solo quando minacciava di rompersi, per evitare che il dolore fisico si aggiungesse a quello mentale. Per la prima volta da quando era iniziata quella storia, considerò l’eventualità che davvero non accadesse nulla. Immaginò se stesso vittima di quell’attesa infinita, mentre le stagioni si susseguivano e Cathy terminava il suo primo anno di scuola, magari trascorrendo le vacanze con lui. Avrebbe finito per farle da tutore a tempo indeterminato, dimenticando che il suo obiettivo iniziale era lontanissimo da questo? No, sarebbe stato impossibile. Se anche avesse voluto adattarsi a quella vita – e non voleva, non voleva affatto – prima o poi qualcuno come Young o i membri del Ministero avrebbe bussato alla sua porta, e allora sarebbe stato spacciato. Doveva darsi un limite, pensò, oltre il quale avrebbe preso in mano la situazione; trovare un piano di riserva, un nuovo modo per uscire dal labirinto nel quale si era infilato da solo. Ma ogni suo dubbio, di lì a poco, si sarebbe rivelato inutile.

I colpi alla porta lo colsero di sorpresa, destandolo come da un lungo sonno. Credette quasi di averli immaginati, prima che si ripetessero con più insistenza dopo qualche istante. Allora si alzò, recuperò la bacchetta e con essa la propria lucidità, preparandosi a un nuovo incontro imprevisto. Wolly, quella dannata elfa, non era nemmeno nei paraggi, ma decise rapidamente di non chiamarla: l’ultima volta che avevano ricevuto visite di trattava di persone che cercavano Cathy, ma adesso che lei era a scuola quest’eventualità era da escludersi. Chiunque fosse al di là della porta era venuto per Rodolphus, sapeva di trovarlo lì. Fingere di non esserci non sarebbe servito.

“Chi è?” domandò, cercando di mantenere un tono neutro.

“Se non mi apri, non lo saprai mai”.

Dopo aver sentito quella voce, non c’era più motivo di aspettare: aprì la porta con slancio e guardò negli occhi il suo ospite, accogliendolo con un sorriso.

“Accidenti, fratello! Dovresti riguardarti, sai? Tra di noi, sembri tu quello appena uscito di prigione!”

“Rabastan…” Scosse la testa per quel commento così sciocco, così da lui, poi si lasciò andare a un abbraccio fraterno fatto di pacche sulle spalle e lunghe distanze annullate. Gli sembrò incredibile che quella manciata di secondi avesse cancellato di colpo una sofferenza di mesi; rivedere suo fratello lì, vivo e finalmente libero, lo ripagava di ogni singolo giorno d’attesa.

“Come stai?” gli chiese, sciogliendo l’abbraccio ma tenendo ferme le mani ad afferrargli le spalle.

“Sono stato meglio”. Rabastan rispose con un sorriso amaro, nel quale Rodolphus rivisse in un attimo tutte le sofferenze che Azkaban sapeva infliggere. “Ma, sai, da quando i Dissennatori sono stati allontanati è diventato quasi sopportabile, quel posto. A distruggerti è solo l’idea che non potrai più uscirne”.

“Il che non è il tuo caso, per fortuna”. Si scambiarono uno sguardo d’intesa, che da solo conteneva una moltitudine di grazie e prego. Non servivano tante parole tra loro, non dopo tutto ciò che avevano passato insieme.

“Puoi entrare o dobbiamo muoverci subito?”

“No, credo che possiamo aspettare qualche minuto. Ho messo KO le guardie e ho preso le loro bacchette, ci vorrà tempo prima che si accorgano della mia fuga”.

Rabastan entrò nella casa con passo spedito, mentre Rodolphus gli chiudeva la porta alle spalle, e raggiunse il divano impaziente di stendersi. Senza tante cerimonie, allungò le gambe sul tavolino di fronte e il capo sullo schienale, come se fosse di ritorno da una stressante giornata di lavoro.

“A proposito, come sei riuscito a scappare? Weasley ha fatto il suo dovere?”

“Ah, quel pel di carota si è proprio sprecato! Tutto ciò che mi ha fatto ottenere è stato un permesso speciale di un paio d’ore e due accompagnatori non proprio svegli. Il resto è toccato a me, come al solito”.

Rodolphus annuì, costretto suo malgrado a complimentarsi per l’acume di Percy. In quel modo, era riuscito a liberare Rabastan con un’azione del tutto legale e che non infangava la sua posizione. Anche quando la fuga fosse stata scoperta, nessuno avrebbe potuto accusarlo di nulla all’infuori della negligenza, che sarebbe stata comunque dimenticata dopo pochi mesi e avrebbe consentito a Weasley di uscirne pulito. Era davvero furbo, come tutti i politici.

“Mi dispiace che sia stato così difficile” disse poi a Rabastan, tornando a rivolgergli la sua attenzione. “Ma l’importante è che tu ora sia qui. È passato così tanto tempo che avevo quasi perso le speranze”.

“Ti arrendi troppo presto, fratello, l’ho sempre detto! Hai architettato un piano magistrale, dovresti andarne fiero”.

“Sì, forse dovrei”. Non sapeva dire perché, ma la realtà era che non ci riusciva: era felice di aver liberato Rabastan, eppure, ora che la vittoria era davanti ai suoi occhi, il modo in cui l’aveva ottenuta gli appariva incredibilmente meschino. Forse perché aveva coinvolto una minorenne, forse perché lei era la figlia di Bellatrix; in ogni caso, aver fatto leva sulle sue debolezze gli sembrava un’azione degna del Signore Oscuro, non certo di un Lestrange. I tanti anni trascorsi al suo servizio gravavano ancora sulla sua coscienza e sui suoi comportamenti, in un modo che Rabastan non avrebbe mai compreso.

“A proposito” continuò suo fratello, interrompendo quel flusso di pensieri, “dov’è la ragazzina? Pensavo che avrebbe festeggiato con noi…”

Quella frase, forse per il tono mellifluo in cui era stata pronunciata, non gli piacque affatto. Diede le spalle a Rabastan perché non lo notasse, poi tentò di mostrarsi indifferente: “È a scuola. Non credo che la vedrai mai”.

“Peccato. In fondo è merito suo se siamo di nuovo insieme. Com’è che si chiama, Catherine? Un ridicolo nome da Babbani. Se non sapessi di chi è figlia non ci crederei”. Terminò le sue considerazioni con una risatina, il che innervosì Rodolphus ancora di più. Erano le stesse opinioni che aveva avuto lui, ma sentire suo fratello parlare di Cathy gli dava un indescrivibile senso di fastidio.

“Tu non la conosci” disse soltanto, sperando di porre fine al più presto a quella conversazione. “Non sarebbe stata contenta di accogliere un evaso”.

“Immagino di no”. Ora Rabastan aveva smesso di ridere. Con la coda dell’occhio, Rodolphus vide che lo guardava accigliato e sospettoso, proprio nel modo che lui avrebbe voluto evitare. Prima che arrivassero domande indesiderate, si affrettò a cambiare argomento.

“Allora, hai pensato a dove andare? Io credo che la Germania sarebbe un buon inizio, ho ancora conoscenze da quelle parti. E poi avevamo sempre sognato di visitarla”.

“Sì, sono d’accordo” rispose Rabastan velocemente. “Anzi, ti converrebbe iniziare a fare i bagagli. Se aspettiamo troppo potrebbero venire a cercarci”.

“Certo”.

Si avviò meccanicamente verso le scale, ben sapendo che il suo baule era pronto da mesi. La sensazione di disagio non accennava ad abbandonarlo e questo lo rendeva furioso, poiché gli impediva di godersi un momento che aveva aspettato per anni. Cosa diavolo c’era che non andava? La libertà era a un passo e l’avrebbe condivisa con Rabastan, non sarebbe stato più solo come la prima volta in cui era partito. Era ancora Bellatrix il problema, qualcosa di irrisolto che aleggiava in quella casa tentando di trattenerlo? Sua moglie era parte di lui, non aveva dubbi su questo, e lo sarebbe stata per sempre; non c’era angolo, suppellettile o macchia d’umidità che non gli ricordasse di lei, di un particolare momento che avevano vissuto insieme. Ma lei era morta da più di un decennio, e restare ancorato ai ricordi non era che un modo malsano di morire a sua volta. Non c’era altra scelta: doveva lasciarla andare. Fu con questo pensiero che si convinse a salire quelle scale e recuperare finalmente il proprio bagaglio, senza usare la magia, così che ogni suo movimento fosse ben consapevole e gli restasse impresso nella mente.

Nei pochi minuti che gli occorsero per raggiungere la stanza e scendere nuovamente, con la testa sgombra dal pensiero opprimente di Bellatrix, riuscì infine a mettere a fuoco le vere ragioni che lo stavano trattenendo lì. Ebbe l’effetto di un’illuminazione, della verità che gli giungeva chiara e lampante dopo mesi di elucubrazioni inutili; perché adesso che decideva di lasciar andare il passato, adesso che la smetteva di raccontarsi scuse su ciò che davvero sentiva e desiderava, capiva esattamente come avrebbe voluto ricominciare. O meglio, non era del tutto certo di cosa voleva dalla sua vita, ma sapeva senz’altro quello che non voleva e per il momento era abbastanza. Non restava che parlarne con Rabastan, nella flebile speranza che lui si sforzasse di capirlo.

“Mi serve altro tempo” gli disse, poggiando a terra il baule con un tonfo secco e posando gli occhi sulla figura allungata di suo fratello. Questi rialzò il capo dal divano e lo fissò incuriosito, come se avesse appena ascoltato una barzelletta che non faceva ridere. Un attimo dopo, le sue labbra si piegarono in un sorriso e Rabastan sghignazzò, prendendolo in giro: “Andiamo, principessa, non vorrai portarti dietro tutto il corredo reale! Ho sentito dire che anche in Germania si vendono vestiti”.

Rodolphus fu tentato di ridere con lui, ma la voglia passò non appena si rese conto che doveva ripetersi, e che suo fratello non ne sarebbe stato felice. “Non hai capito” rispose, “voglio dire che non posso partire con te. Non adesso”.

Rabastan tornò serio di colpo, il suo volto passò dall’allegria all’incredulità e infine alla rabbia. L’indole feroce del Mangiamorte che era stato si ripresentò come se non fosse mai andata via, come se gli anni e la prigione non l’avessero minimamente intaccata. Suo malgrado, Rodolphus ne fu quasi intimorito.

“E questo che diavolo significa, a che gioco stai giocando? Organizzi questa fuga per tre anni e quando finalmente sono libero ti tiri indietro? Spero tu stia scherzando, Rod, altrimenti devo credere che sei completamente pazzo”.

Rodolphus scosse la testa e l’abbassò verso terra, incapace di continuare a guardarlo negli occhi. “Non ho detto che non verrò, solo non adesso. Ho delle cose in sospeso qui e devo prima occuparmene”.

“Delle cose in sospeso, certo!” Suo fratello rise di nuovo, mentre abbandonava il suo comodo posto per venirgli incontro, ma questa volta con amarezza. “E quali sarebbero, di grazia? Forse passare a salutare i Malfoy, che immagino saranno stati felicissimi di avere di nuovo un latitante tra i piedi, vero? Oppure la tua ragazzina, che sei diventato troppo sentimentale per abbandonare? Ti dico io cosa dovrai aspettarti, se continui a fare l’idiota e a perdere tempo qui: una bella visita di cortesia da Albert Young, un pentimento dell’ultimo minuto di Percy Weasley o magari entrambe le cose! Ma non aspettarti che venga a fondo con te, no, non questa volta… Forse tu non impari dai tuoi errori, ma io so bene cosa succede a stare dietro alle tue paturnie fuori luogo. Sono finito quattordici anni ad Azkaban per questo, adesso che ne sono finalmente uscito non ci entrerò di nuovo per colpa della tua idiozia!”

Aveva gridato e gesticolato per tutto il tempo, finché la mancanza di fiato non lo costrinse a prendersi una pausa. Le braccia gli ricaddero lungo i fianchi e lui apparve come svuotato, mentre Rodolphus approfittò di quel momentaneo silenzio per dargli una spiegazione.

“Non te lo sto chiedendo, Rab, non potrei mai. Ho lottato per tirarti fuori di lì e voglio solo che, ora, ti goda la tua libertà. Ma è proprio perché ho commesso tanti errori che adesso voglio rimediare. Non ho fatto altro che scappare per tutta la mia vita, e questo cosa mi ha portato? Solo solitudine e sensi di colpa. Avrei dovuto restare a combattere con te e gli altri, anche morire se necessario, invece mi sono comportato da egoista e codardo. È per questo che non voglio ricominciare con un’altra fuga”.

Quel discorso ebbe l’effetto sperato su Rabastan, che si calmò quanto bastava per smettere di urlare e dialogare civilmente. Si strofinò la fronte con le dita, come per aiutarsi a riflettere, e infine si rivolse ancora a suo fratello: “Rod, ne abbiamo già parlato, non ce l’ho con te per essere scappato. Anzi, probabilmente avrei fatto la stessa cosa se fossi stato abbastanza furbo da capire che la battaglia era persa. Ma ce l’avrò davvero con te se adesso non lasciamo insieme questa fottutissima città! Stavolta non si tratta di abbandonare qualcuno, ma di costruirci un futuro altrove… Sono tutto quello che ti resta, cos’hai da perdere venendo via?”

“Il mio onore, Rab. Quel poco che ne è rimasto”.

Suo fratello scosse la testa, come se le parole di Rodolphus non avessero alcun senso per lui. Nonostante il legame di sangue erano sempre stati molto diversi l’uno dall’altro, in più di un’occasione avevano fatto fatica a comprendersi. E adesso che Rodolphus riusciva a malapena a capirsi da solo, convincere lui delle sue motivazioni era ancora più difficile.

“La verità è che ti stai inventando un sacco di scuse, per non ammettere che a trattenerti è sempre lo stesso motivo. Tua moglie! Colei che ti ha rovinato la vita e sta continuando a farlo anche da morta! Perché è nei suoi confronti che ti senti in colpa, non certo nei miei… Non ti dai pace per averla lasciata al suo destino, quando è esattamente ciò che avresti dovuto fare fin dal principio! Possibile che il passato non ti abbia insegnato niente? Sei ancora convinto che finire tutti ad Azkaban per lei sia stata la scelta giusta?”

Sapeva che, prima o poi, Rabastan sarebbe tornato su quell’argomento. Era la seconda volta in pochi minuti che gli rinfacciava di averli trascinati in prigione, ma non aveva tutti i torti: quando, dopo la prima scomparsa del Signore Oscuro e la missione fallimentare dei Paciock, Bellatrix era rimasta come in trance in quella stessa stanza, Rodolphus aveva insistito per restarle accanto invece di organizzare la fuga. I pochi minuti in cui era rimasto ad abbracciarla e a stringerle le mani erano stati fatali: gli uomini di Crouch, da tempo sulle loro tracce, li avevano trovati e condotti all’istante al Wizengamot, dove la loro sorte era praticamente già segnata. Rabastan, che aveva atteso fino all’ultimo che suo fratello lo seguisse, si era allontanato troppo tardi ed era stato preso a sua volta, maledicendo quel giorno per tutti gli anni a venire. Non poteva biasimarlo se, ora, temeva di finire allo stesso modo.

“D’accordo” gli disse, “è anche per lei. Non lo negherò. Chiamami pazzo, irragionevole o come vuoi, ma non ho mai perdonato a me stesso di averla lasciata morire. So che se fossi rimasto non sarebbe cambiato niente, ma dopo esserle stato accanto tutta la vita dovevo restarci anche negli ultimi momenti. È anche per questo che sono tornato, sì, per cercare una redenzione… Pensavo che liberando te avrei finalmente trovato pace, e in parte l’ho fatto. Ma non si tratta più di Bellatrix, se adesso non posso partire… Si tratta di me”.

“Oh, io invece penso proprio che c’entri. Se c’è una cosa che ho imparato da quando l’hai conosciuta, è che lei c’entra sempre nelle tue azioni sconclusionate! Anche se indirettamente, magari…”

Quella frase lasciata in sospeso dava adito a significati nascosti, e quando Rabastan si morse il labbro inferiore gliene diede la prova. “Che vuoi dire?” chiese Rodolphus, temendo per la prima volta per ciò che lui avrebbe risposto.

“Voglio dire quello che tu non hai il coraggio di ammettere, e cioè che se non è la madre il problema, allora è la figlia. Tu ti sei affezionato a quella piccola bastarda!”

“Che diavolo dici?” Quella volta la reazione di Rodolphus non si fece attendere e fu, forse, anche troppo repentina perché le sue parole avessero una qualche valenza. “Non m’importa nulla di lei, e comunque non c’è alcun motivo di chiamarla in quel modo”.

“Ah, certo, non t’importa… È per questo che reagisci così ogni volta che la nomino, giusto? L’avevo già intuito dalle tue ultime lettere e ne ho avuto la conferma quando sono venuto qui, ma non pensavo che lei ti condizionasse a tal punto. Non posso credere a quanto tu sia arrivato in basso… Fosse almeno tua figlia!”

Rodolphus avvertì quel tipico formicolio nelle mani che gli giungeva quando aveva voglia di prendere a pugni qualcuno, molto spesso suo fratello. Per evitare di passare al pensiero all’azione, strinse il primo oggetto che gli capitò sottomano – una boccetta, quel che rimaneva di una pozione, qualcosa che non veniva toccata da anni – e concentrò lì la sua furia, come aveva fatto poco tempo prima con un bicchiere. Non seppe dire, però, se fosse davvero Rabastan a dargli sui nervi o piuttosto il fatto che avesse detto la verità.

“Non accetto paternali da te, non su questo. Sono io che ho dovuto occuparmi di lei tutto questo tempo, io che ho dovuto sopportare di tenerla davanti agli occhi sapendo ciò che la sua esistenza rappresentava! E, credimi, né tu né nessun altro potreste capire che cosa si prova! Ma ho accettato tutto questo e l’ho fatto ancora per te, per darti un’altra occasione! Invece di accusarmi in questo modo, dovresti limitarti a ringraziare…”

“Eh no, fratello, ora non rigiriamo i fatti” replicò subito Rabastan, per nulla intenzionato a cedere. “Sai bene quanto ti sono grato per quello che hai fatto, lo sto dimostrando mentre sto qui a preoccuparmi per te invece di infilare la porta! Ma non dirmi che ogni tua azione è dipesa da me, non ci credi nemmeno tu… Altrimenti saremmo già in viaggio verso la Germania, perché non ci sarebbe proprio niente di irrisolto a trattenerti. La tua redenzione nei confronti di Bellatrix implicava anche crescere sua figlia? E fino a quanti anni, tredici, sedici, diciassette? Dimmelo, Rod, una buona volta… Quando sarai finalmente libero da lei?”

C’era un misto di dolore, astio e incomprensione nella sua voce, qualcosa che toccò profondamente il lato più sensibile di Rodolphus. Non si era mai reso conto di quanto i suoi comportamenti avessero influito sul fratello, non solo nel maledetto giorno in cui erano stati arrestati, ma ogni singolo momento in cui aveva scelto Bellatrix al suo posto. Sapeva di sembrare un folle ad amare una donna così immeritevole di affetto, sapeva che Rabastan aveva dato fondo a ogni grammo della sua pazienza per non mandarlo al diavolo e sapeva anche che, per riscattarlo di tutto questo, avrebbe dovuto fuggire con lui; ma queste motivazioni, per quanto forti, non lo erano abbastanza da debellare quelle che invece lo spingevano a rimanere. Se Cathy aveva davvero un merito in tutto questo, era di aver portato alla luce una tempra e un senso morale a lungo dimenticati. Adesso che erano di nuovo presenti, a Rodolphus non era più permesso ignorarli.

“Vedi” iniziò, senza sapere esattamente dove le parole l’avrebbero condotto, “c’è stato un tempo in cui non ricorrevo a minacce e allo sfruttamento di bambini per ottenere quello che volevo. Un tempo in cui tutto quello che ho fatto fino a oggi mi sarebbe sembrato immorale, lontanissimo da quell’ideale di libertà che sognavo per noi Purosangue. Unirmi al Signore Oscuro non ha pesato solo sulle mie azioni, ma anche e soprattutto su ciò che ho iniziato a considerare normale. E dopo essere rimasto da solo per così tanti anni ho capito che è stato tutto un enorme, tremendo errore. Non vale mai la pena di cambiare se stessi, qualsiasi sia lo scopo. Tu non puoi capirmi, perché diventare Mangiamorte non ti ha toccato allo stesso modo, anzi ti ha concesso di esprimere al meglio la tua natura”.

“D’accordo, Rod, siamo diversi, questo è appurato” tagliò corto Rabastan. “Ma che motivo c’è di rivangare il passato? Potremo parlarne ogni volta che vorrai, quando saremo lontani e al sicuro! Non sarai più costretto a uccidere e minacciare, se è questo che ti preoccupa!”

“Il motivo è quello che ho già fatto per salvarti. Non c’era alcun padrone a obbligarmi, eppure ho agito esattamente come avrebbe fatto lui! E se adesso vengo via con te, lascerò che il Ministero distrugga una bambina innocente credendola il nuovo Signore Oscuro, abbandonandola e fuggendo dalle mie responsabilità come ho sempre fatto! Sono stanco, Rabastan, di lasciarmi guidare dalla parte più egoista e cinica di me stesso… Prima di andarmene, devo rimediare almeno in parte a quello che ho commesso. Cathy merita di sapere che cosa l’aspetta”.

Alla fine l’aveva fatto, aveva pronunciato il suo nome. I tentativi di tenerla fuori dalla conversazione erano miseramente falliti, perché per quanto lo negasse a se stesso, Rodolphus sapeva che quella ragazzina aveva avuto un ruolo decisivo nella sua trasformazione. Lei gli aveva permesso di salvare la pelle a Rabastan e lei gli aveva instillato i primi dubbi e il pentimento, seppure inconsapevolmente. Metterla in guardia era il minimo che potesse fare.

Dopo le ultime parole pronunciate, si aspettava che Rabastan desse di matto ancora una volta o che gli voltasse le spalle per sempre, ma nessuno dei due pronostici si avverò. Suo fratello si mostrò più calmo di quanto fosse stato fino ad allora, gli afferrò le braccia come per infondergli coraggio e infine gli disse: “Ok, Rod. Non ho mai capito per quale motivo tenessi tanto a Bellatrix e non capisco perché ora tieni a questa ragazzina, ma me ne farò una ragione. Se davvero parlare con lei è così importante per te, troveremo un modo, anche a rischio di attirare l’attenzione del Ministero e farci prendere. Adesso, però, è il momento che tu decida se vuoi affrontare o meno questo viaggio con me, non te lo chiederò un’altra volta. Se vuoi partire, avrai piena voce in capitolo sui nostri spostamenti e deciderai come e quando contattare la bambina; se vuoi restare, non ti giudicherò, ma voglio che tu sappia qual è il prezzo da pagare. Perché se continuerai a nasconderti qui, Rodolphus, morirai. Sappiamo entrambi che prima o poi succederà, è una situazione instabile che non potrà durare per sempre. Se decidi di restare, devi considerare questo come un addio”.

Rodolphus annuì, grato al fratello per la sua chiarezza e inaspettata comprensione. Era d’accordo su ogni parola da lui pronunciata, ma questo non rendeva più facile la sua decisione. Lo consolava soltanto sapere che, a prescindere da lui, quella volta Rabastan sarebbe stato in salvo.

“Allora”, riprese suo fratello, fissandolo negli occhi così simili ai propri, “che cosa scegli?”

*

Quella mattina, Cathy fu svegliata dai raggi del sole che filtravano tra le persiane e da un vociare indistinto proveniente dall’esterno. Sbatté le palpebre confusa, abituata al silenzio che regnava nella torre di Grifondoro, prima di ricordare che non si trovava a Hogwarts ma era ospite a casa dei Paciock. Si accorse di aver dormito sonni tranquilli, nonostante il nuovo posto in cui si trovava e tutti gli avvenimenti della sera prima; la stanza era calda e accogliente, il letto comodo e le voci che sentiva tutt’altro che fastidiose, anzi le apparivano come una discreta compagnia. Sgusciando fuori dalle coperte, si sollevò sulle ginocchia per aprire la finestra e scoprì finalmente la fonte di quel chiacchiericcio: sotto di lei, Diagon Alley era gremita di passanti che approfittavano del sabato per fare i loro acquisti, portando con sé i bambini in età pre-Hogwarts e tutti i parenti o amici che erano riusciti a coinvolgere. Restò ad osservarli per un po’, pensando che era bello poter assistere a quella scena senza necessariamente farne parte; le ultime volte che si era aggirata per quella strada l’aveva fatto per fuggire da se stessa, dai suoi dubbi e dalla paura di affrontare la realtà, mentre adesso avrebbe potuto percorrerla con la mente sgombra e rilassata. Beh, se il buon giorno si vedeva dal mattino, quello era decisamente un ottimo inizio. Fu con questo pensiero che lasciò la stanza, mentre il suo stomaco già brontolava in attesa della colazione.

I coniugi Paciock l’accolsero con un allegro saluto, chiedendole se avesse dormito bene e se le andasse di mangiare qualcosa. Cathy rispose sì a entrambe le domande, poi sedette accanto al professore che sfogliava pigramente la Gazzetta del Profeta. Hannah, intenta a preparare del pane tostato, mostrava un aspetto molto più rilassato della sera precedente; nonostante questo, Cathy si sentì invadere dalla vergogna al pensiero di ciò che aveva ascoltato tra lei e suo marito, un momento di intimità familiare che avrebbe dovuto restare privato. Sperando con tutta se stessa di non essere arrossita, distolse lo sguardo dalla donna e lo lasciò vagare lungo le pareti, come se trovasse l’arredamento della cucina straordinariamente interessante.

Quando Hannah lasciò la colazione sul tavolo e scappò via, sostenendo che il Paiolo Magico non andava avanti senza di lei, Cathy si sentì decisamente più a suo agio e riuscì anche ad apprezzare il cibo. Mentre mangiava, Neville la intrattenne con qualche commento sugli articoli che stava leggendo.

“Uhm, capisci che non è successo nulla di interessante nel mondo magico quando la copertina è ancora dedicata a quel Babbano pazzo che ha assistito a un nostro fenomeno… Come se non bastasse un Oblivion per fargliene dimenticare! Ma forse non dovrei lamentarmi, significa che non c’è proprio niente di cui preoccuparsi. Non credi anche tu?”

Le fece un occhiolino, al quale Cathy rispose con un sorriso e un cenno della testa. Non aveva molto da commentare a riguardo, ma in compenso l’accenno al giornale le accese una piccola lampadina: sperò che quell’uomo tanto gentile potesse soddisfare anche un’ultima richiesta.

“Professore, volevo chiederle… Potrei usare il vostro gufo per mandare una lettera?”

L’assenso di Neville non si fece attendere: “Certo, cara! Il vecchio Dodo non vede l’ora di sgranchirsi un po’ le ali. Vuoi contattare qualcuno della scuola?”

“Sì, vorrei spiegare a Ted perché me ne sono andata. Non voglio che si preoccupi di nuovo, visto come sono andate le cose l’ultima volta”.

“Mi sembra un’ottima idea”. Era contenta che Paciock approvasse: in fondo, era stato il primo testimone delle ansie di Ted quando lei era sparita per giorni, e sapeva bene quanto fosse difficile sottostare alle richieste del ragazzo quando egli s’impuntava. Un secondo dopo, aggiunse: “Lupin si è particolarmente legato a te, questo è evidente. Tutti sono stati in apprensione quando sei scappata, ma lui lo era in modo speciale… Quasi come se ne dipendesse la sua esistenza!”

Cathy avvampò una seconda volta per quella considerazione, desiderando che le mattonelle avorio della cucina potessero inghiottirla e trascinarla in un altro universo. Non trovando parole di senso compiuto per rispondere a Paciock e minimizzare quanto aveva detto, scelse di darsi alla fuga: lo ringraziò per il gufo e annunciò che sarebbe andata a scrivere subito, lasciando un sottile strato di latte ancora sul fondo della tazza.

Più tardi, mentre legava la pergamena alla zampa di Dodo, le venne in mente qualcun altro a cui non mandava una lettera da tempo: il suo tutore. Da quando era tornata a scuola si erano scritti sì e no un paio di volte, solo per chiedersi a vicenda se andasse tutto bene. Non aveva dato troppo peso alla cosa, finché era occupata a guadagnarsi il perdono dei compagni e la stima dei professori, ma ora che la situazione si era stabilizzata le sembrava tutto molto strano; prima che Cathy corresse da lui e lo spingesse a dirle la verità, Rodolphus si era sempre mostrato interessato a ogni minimo dettaglio della sua vita, mentre adesso sembrava quasi indifferente. Eppure, era convinta che quel soggiorno insieme fosse andato piuttosto bene, che li avesse avvicinati… Magari erano solo paranoie, pensò, e si erano scritti poco soltanto perché non c’era molto da dirsi. In verità, proprio in quel momento avrebbe voluto parlare con lui, ma non si trattava di argomenti che potevano essere affrontati per lettera. Se avesse potuto andare a trovarlo, allora sì che sarebbe stato diverso…

Due colpi alla porta e una richiesta di permesso la riportarono alla realtà, quando capì che Paciock le stava chiedendo di entrare. Gli disse che poteva – ci mancherebbe, in fondo era la sua stanza per gli ospiti – e lo guardò avvicinarsi, prendendo posto sulla sedia di fronte al letto.

“Allora, Cathy” l’interrogò con un sorriso, “che cosa vuoi fare oggi?”

Lei balbettò, colta di sorpresa: “Ehm, io… Non pensavo di fare qualcosa, veramente…”

“Cosa? Mi prendi in giro? Una bella giornata come questa non si può sprecare tra quattro mura! Vediamo…” Iniziò a contare sulle dita le varie possibilità, come se la sola idea di non sfruttarne nessuna lo offendesse. “Una passeggiata per Diagon Alley? Scommetto che non sei mai stata ai Tiri Vispi Weasley! Anche se, in effetti, non dovresti portare a scuola niente che provenga da quel negozio… Una visita al Serraglio Stregato? So che ti piacciono gli animali. Oppure, ancora meglio… Un giro nella Londra Babbana, per cambiare un po’ aria! Che ne dici?”

Cathy sorrise spontaneamente per l’entusiasmo di Paciock, ma in realtà avrebbe voluto dirgli che ormai conosceva a memoria sia il lato Babbano che quello magico di Londra. Non le andava molto di uscire, non dopo aver saputo che effetto aveva la sua presenza sulla padrona di casa.

“Professore, lei è molto gentile, ma non deve farlo per forza” affermò, incontrando in risposta la sua espressione perplessa.

“Che cosa, accompagnarti? Lo faccio volentieri, non ho altri impegni…”

“Intendo tenermi qui. Ormai i ricordi li abbiamo visitati, può riportarmi a Hogwarts se vuole”.

Paciock apparve sinceramente colpito, forse anche un po’ dispiaciuto per quella proposta. Per un attimo, Cathy rimpianse di avergliela presentata.

“Pensavo fossimo d’accordo che saresti rimasta per il weekend. Che succede, hai cambiato idea?”

“No” negò subito lei, istintivamente, “ma non voglio creare problemi a sua moglie”.

Sapeva che Paciock a quel punto avrebbe preteso una spiegazione, ma inventare scuse all’ultimo momento non era mai stata la sua dote migliore. Si preparò quindi ad ammettere la verità, mentre lui le domandava: “E questo cosa te lo fa pensare? Hannah non ha alcun problema ad ospitarti qui…”

“Vi ho sentiti parlare, ieri sera. Non volevo origliare, ero uscita per prendere un bicchiere d’acqua e sono passata fuori dal salotto, è successo per caso. Mi dispiace”.

“Oh, Cathy…” Neville si passò una mano sulla fronte e chiuse gli occhi, incassando l’ennesimo affronto che quella ragazzina gli aveva rifilato. Lei non aveva fatto che procurargli guai da quando si erano conosciuti, ne era consapevole, e proprio per questo era il caso che se ne andasse. La sua presenza era una seccatura non solo per Hannah, ma anche per lui, che continuava a difenderla in ogni occasione in un modo che Cathy non credeva di meritarsi.

“Qualunque cosa tu abbia sentito, credimi, hai frainteso” riprese Paciock, tendendosi verso di lei e strofinando le mani l’una con l’altra. “Hannah sta passando un momento difficile, ma questo non ha nulla a che vedere con te. Ieri era un po’ scossa per via di tutto quello che le ho raccontato e per averti incontrata subito dopo, le serviva tempo per abituarsi… Stamattina però era già tornata di buonumore, non l’hai notato? Era felice di occuparsi della sua piccola ospite”.

Quelle parole rassicuranti riuscirono a strapparle un sorriso, impresa in cui Paciock difficilmente falliva. In effetti, doveva ammettere di essersi accorta che Hannah appariva più tranquilla e che non aveva fatto assolutamente niente per farla sentire a disagio. Ancora una volta, le maggiori complicazioni stavano probabilmente nella sua testa.

“Tu non la conosci ancora abbastanza, ma io le sono accanto da anni e so dire quando è turbata. Mia moglie è una donna fantastica che non incolperebbe mai una ragazza innocente dei propri problemi, lo so, altrimenti non l’avrei sposata. Dalle solo un po’ di tempo, d’accordo?”

“Ma certo!” L’esclamazione venne fuori più acuta di quanto volesse, dato che Cathy era piuttosto disorientata dalla piega che stava prendendo la situazione. Incredibilmente, adesso era lei che doveva aver pazienza con Hannah e non il contrario, come se quella proposta di andare via fosse in realtà un modo per lamentarsi… E non era certo quello che voleva far intendere! Dato che sembrava non riuscire a spiegarsi, ci rinunciò del tutto e lasciò cadere l’argomento, cosa di cui Paciock non tardò ad approfittare.

“Bene, adesso che abbiamo chiarito questo punto possiamo tornare a questioni più interessanti. Che cosa ti va di fare?”

Proprio non voleva abbandonare l’idea che Cathy dovesse fare qualcosa e, adesso che il problema ‘Hannah’ era stato superato, lei non aveva più ragione di evitarlo. Senza dubbio sarebbe stata una scelta saggia approfittare del sole e della giornata libera piuttosto che restare rintanata in casa, a scervellarsi su Bellatrix e su tutte le cose che ancora non sapeva di lei, eppure non le veniva in mente nulla che le andasse davvero di fare. Forse perché, come al solito, i suoi desideri non comprendevano niente di lecito e normale come una passeggiata.

“Professore, in realtà c’è un unico posto dove vorrei andare, ma non posso farlo” confessò, sentendosi addosso il suo sguardo confuso. “L’ultima volta sono dovuta scappare per raggiungerlo e da allora ho promesso di comportarmi bene”.

“Per carità, Cathy, abbiamo detto basta con le fughe!” ribatté subito Paciock, spaventato alla sola idea. “Ma, giusto per capire, stiamo parlando di quella villa?”

“Sì. Il mio tutore ha sempre avuto tutte le risposte, è l’unico che potrebbe sapere perché mia madre si è dimenticata di me. Mi dispiace, ma da quando ho visto quei ricordi non riesco a smettere di pensarci”.

Il professore annuì, rassegnato al fatto che da quella ragazzina non poteva aspettarsi mai niente di ordinario. “Lo capisco, certo. Se lui conosceva Bellatrix potrebbe averne un’idea, anche se nessuno oltre me e Harry Potter ha mai saputo di quei ricordi. Comunque, perché dovresti scappare? Posso accompagnarti lì, se vuoi”.

Per un fugace momento, Cathy fu tentata di accettare con entusiasmo, salvo poi ricordarsi che non era un’opzione contemplata. Rodolphus l’avrebbe di certo uccisa se avesse osato portare lì un insegnante, senza contare che non era certa di quale rapporto ci fosse stato tra i due e se Paciock avrebbe potuto riconoscerlo. L’identità dell’uomo buono andava sempre protetta, anche in presenza di un mago così generoso e apparentemente innocuo.

“Mi piacerebbe, ma non è possibile. Devo andarci da sola”.

La risposta di Paciock fu secca e immediata: “Questo non posso lasciartelo fare”.

“Lo so. Immagino che dovrò aspettare la fine della scuola”.

Quella discussione sterile non aveva portato a nulla, se non ad aumentare il malumore di Cathy. Sapeva che il professore non l’avrebbe mai lasciata andare via da sola e non poteva dargli torto, ma ciò non le impediva di sentirsi frustrata. Erano ancora troppi i segreti che doveva custodire, troppi i dubbi che restavano nel suo passato e che rendevano la sua vita maledettamente difficile. Rodolphus l’aveva caricata di responsabilità eccessive e, per quanto si sforzasse, non era sicura che sarebbe riuscita a proteggerlo per sempre; se Ted era arrivato a capire chi si nascondesse in quella villa, anche Paciock o un qualsiasi altro adulto avrebbe potuto farlo. Iniziava a comprendere perché il suo tutore avesse preso così tante precauzioni e, contemporaneamente, a temere che non fossero abbastanza.

“Sai, mi sono chiesto molte volte chi fosse veramente quell’uomo”. La voce di Neville la riscosse, catalizzando immediatamente tutta la sua attenzione. “Soprattutto dopo aver saputo chi è tua madre, per ovvie ragioni. Se ha avuto rapporti con lei e si rifiuta di dire il proprio nome, deve avere qualche problema con la giustizia. Ma ho capito da tempo che tu non mi diresti mai chi è, e forse non voglio nemmeno saperlo. Il passato l’ho lasciato alle spalle molti anni fa, non sono io a dovermi occupare di eventuali questioni irrisolte”.

Cathy tacque, parzialmente sollevata da quella dichiarazione. Poteva almeno cancellare Paciock dalla lista di chi voleva Rodolphus morto o in galera.

“Quindi” continuò lui, che non era ancora arrivato al punto, “non è necessario che io lo incontri. Posso accompagnarti nei dintorni della villa e aspettare pazientemente che tu esca. Sai, due mesi sono abbastanza lunghi da lasciar passare”.

Dopo quelle parole, non ci fu più dubbio che impedisse a Cathy di alzarsi dal letto e accettare con entusiasmo l’offerta: in meno di un minuto, era già alla porta.

*

Non avrebbe mai ringraziato abbastanza il suo professore per quell’ennesimo atto di bontà, accompagnarla a casa di un uomo misterioso senza neppure la pretesa di incontrarlo. Non sapeva cosa rendesse Paciock così bendisposto nei suoi confronti, se fosse per quel passato che aveva segnato la vita di entrambi o perché lei gli faceva tenerezza, ma uomini di quel calibro avrebbero dovuto clonarli. Quando la grande casa apparve all’orizzonte, Cathy si bloccò sul posto, atterrita dall’idea irragionevole che Rodolphus potesse trovarsi lì e vederli insieme; notando che si era fermata, Paciock fece lo stesso dopo qualche passo, osservandola con attenzione.

“Non posso neppure arrivare al cancello?” le chiese, incuriosito e forse un po’ deluso dal suo atteggiamento.

“Sarebbe meglio di no. È un problema se continuo da sola?”

L’incertezza durò un attimo, quanto bastò perché Neville ritrovasse il suo sorriso affabile e le rispondesse: “No. Mi fido di te”.

“Grazie!” Cathy non avrebbe potuto essere più raggiante.

“Bene, tornerò a prenderti tra due ore. Non farmi scherzi, chiaro? E fa’ attenzione”.

“Certo, può stare tranquillo”.

Non appena il professore l’ebbe salutata e si fu voltato, Cathy si liberò da quella sensazione di paura e iniziò a correre, improvvisamente impaziente di tornare alla villa. Si rese conto, mentre percorreva la strada fino e oltre il cancello, che non era soltanto per la speranza di ottenere risposte, ma anche per un motivo ben più insolito: lui le era mancato. Stentava a credere che fosse vero, eppure quella lunga assenza di corrispondenze con Rodolphus aveva lasciato come un vuoto nelle sue giornate, qualcosa che non vedeva l’ora di colmare. Chissà se anche lui sarebbe stato felice di vederla? Sicuramente non l’avrebbe dimostrato, ma Cathy era sicura che nessuno preferisse la solitudine ad una qualsiasi compagnia, tantomeno un uomo scontroso come il suo tutore. O, forse, era quello che sperava.

Ma ogni suo pensiero o desiderio fu interrotto, di colpo, da qualcosa che la stupì e la spaventò allo stesso modo, quando si trovò sull’uscio ed era in procinto di usare il noto batacchio: la porta era socchiusa. Rodolphus si assicurava sempre che fosse ben serrata, spaventato com’era dalla possibilità di un assalto, e una tale disattenzione non era assolutamente da lui. Cathy esitò per un attimo davanti a quella scena, con il cuore che le batteva furiosamente e non certo per la corsa, finché non trovò il coraggio di spingere il battente ed entrare. La sua mente aveva già costruito immagini orribili di ciò che avrebbe potuto trovare, ma nell’ingresso sembrava tutto in ordine, c’era silenzio e luce come se il padrone di casa fosse semplicemente in un’altra stanza. Così, timidamente, iniziò a chiamarlo.

“Signore?” Non ci fu risposta, ma era possibile che avesse parlato troppo piano. Facendo qualche altro passo e schiarendosi la voce, ripeté: “Signore?”

Né lui, né Wolly le vennero incontro come aveva immaginato. La paura prese di nuovo possesso di lei, appoggiò un piede sul primo gradino della scalinata e il suo ultimo tentativo fu quasi un sussurro, indirizzato verso il piano superiore: “Rodolphus…?”

Nessuno rispose.


Note

Pensavate che fosse sparita, vero? Ammettetelo, avete pensato che potessi lasciare questa storia incompiuta a pochi capitoli dalla fine, ma no, non l'avrei mai fatto! Ho avuto vari impegni che mi hanno tenuta lontana dalla scrittura per un po', ma per niente al mondo l'avrei abbandonata del tutto! Beh, ormai siamo agli sgoccioli, non so ancora se mancano uno o due capitoli (più l'epilogo) perché dipenderà molto da quanto verrà lungo il prossimo, anche se spero più nella seconda soluzione. Cercherò di non prendermi pause lunghe, in modo da non lasciar passare troppo tempo fino all'inevitabile epilogo.

Dunque, secondo voi cos'è successo a Rodolphus? Se n'è andato davvero oppure no, o magari i terribili pronostici di Rabastan si sono avverati? Lo scoprirete, intanto spero che anche questo capitolo sia stato all'altezza delle aspettative :) Ah, a proposito del dialogo tra i due, chi ha letto "Storia di una Mangiamorte" potrà anche qui trovare un riferimento a quella storia, riguardo al fatto che Bella fosse come in trance dopo la tortura dei Paciock e abbia praticamente condannato tutti alla prigione. Grazie di aver letto, per ogni commento/critica/domanda sono sempre a disposizione! Un bacio a tutti.

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Capitolo 32
*** Il ricordo mancante ***


32


“Cathy!”

La voce dell’uomo la raggiunse quando ormai non sperava più di udirla, quando i suoi passi si perpetuavano per inerzia e in mancanza di un’alternativa migliore. Alzò lo sguardo per notare la figura di Rodolphus in cima alle scale, rassicurante come non le era mai sembrata, e un istante dopo gli corse incontro, mentre lui veniva verso di lei. S’incrociarono all’incirca a metà strada; Cathy provò il forte impulso di abbracciarlo una seconda volta, ma lo represse, temendo che questa sua reazione potesse sembrargli eccessiva.

“Allora c’eri!” esclamò, constatando senza ombra di dubbio che il suo tutore era vivo e vegeto di fronte a lei.

“Certo, ero nella mia stanza. Non ti ho sentita arrivare, da quanto sei qui?”

“Da qualche minuto… Credo. La porta era socchiusa, mi sono spaventata, Wolly non rispondeva e nemmeno tu, e…”

“Ehi, calmati”. Rodolphus le afferrò le spalle per infonderle sicurezza, in un gesto insolitamente paterno che sembrò raggiungere il proprio obiettivo. Cathy stava effettivamente tremando e parlando a raffica, abitudine molto da Maggie quanto poco da lei, ma dopo quel contatto fisico realizzò che non c’era motivo di stare in ansia. “Va tutto bene. La porta deve averla lasciata aperta qualcuno che è andato via poco fa, e che forse sperava lo seguissi… Wolly si sta occupando del giardino ed io ero di sopra. Dove potrei mai andare?”

Era così sollevata che non si preoccupò di chiedere chi fosse il visitatore, le bastava sapere che non avesse cattive intenzioni. “Non lo so”, ammise, “avevo paura che ti fosse successo qualcosa o che fossi scappato”.

Rodolphus la fissò con un’espressione che lei non seppe interpretare, poi sorrise, in maniera del tutto spontanea e priva di malizia. “Ti ho fatto una promessa, ricordi? Mi hai chiesto di non lasciarti sola, e un Lestrange non rinnega la parola data”.

“Meglio per te, allora”. Voleva apparire minacciosa, ma l’emozione glielo impedì. Quella appena ascoltata era la prima cosa davvero bella che l’uomo buono le avesse mai detto.

“Beh, che cosa ci fai qui?” le chiese poi, mentre raggiungeva il portone e lo chiudeva con un colpo secco. “Non sarai mica scappata di nuovo da scuola?”

“No, no! Io… Sto solo passando il weekend da uno dei miei professori, così ho pensato di farti visita. Ma Paciock non è qui, sono venuta da sola!” Dovette aggiungere quell’ultima parte in fretta, prima che l’uomo buono diventasse molto cattivo e sospettoso. La serenità con cui l’aveva accolta fu salvata appena in tempo.

“Mh, d’accordo, voglio fidarmi. In ogni caso, è un bene che tu sia qui, perché ci sono delle cose che devo dirti…”

Rodolphus si avviò verso il divano, come se tutti i dettagli del suo arrivo fossero meno importanti di ciò che doveva comunicarle, e Cathy ne restò colpita. Tuttavia, non si mosse di un millimetro: se l’avesse lasciato parlare, avrebbe perso l’occasione di essere lei la prima a porgli le sue domande, e non era mai stata un tipo particolarmente paziente.

“È meglio se ti siedi, Cathy. Dico davvero”.

Questo era ancora più preoccupante, pensò con un groppo alla gola. L’ultima volta che le aveva chiesto di sedersi era stato per rivelarle che i suoi genitori erano due assassini, cos’altro poteva reggere un tale confronto? La sua sicurezza vacillò, messa a dura prova da un insieme di paura e curiosità, ma finì per avere la meglio dopo quella breve lotta interiore.

“In realtà, anch’io ho qualcosa da dirti. Non sono venuta solo per un saluto, ho dei dubbi che vorrei chiarire… E credo che solo tu possa aiutarmi”.

Rodolphus la fissò accigliato, prima di rimarcare il proprio punto: “Il mio è un argomento importante, ci sarà tempo per le altre cose e...”

“Anche quello che devo dirti io lo è” lo interruppe, sentendo che per una volta poteva permettersi quell’alzata di testa. “Andiamo, hai sempre deciso tutto tu finora! Cosa dovevo sapere e quando dovevo saperlo, ed io non mi sono mai lamentata... Non ho diritto almeno a questa scelta?”

Rodolphus continuò a guardarla nello stesso modo, ma stranamente non si alterò. Con grande sorpresa di Cathy, anzi, finì per abbassare il capo e tacere; che fosse malato? La ragazza andò a sedersi comunque accanto a lui, alla fine, stringendo le mani a pugno sui lembi della gonna.

“D’accordo, parla. Ma fa’ in fretta, non ho molto tempo”.

“Sì, certo”. Ecco, era un classico: ora che aveva facoltà di parlare e doveva anche sbrigarsi, non sapeva da dove cominciare. Si schiarì la voce per guadagnare tempo, sotto lo sguardo impaziente di Rodolphus, e partì ancora una volta dal suo professore, raccontandogli come mai era finita a casa sua. Era appena all’inizio della storia quando l’uomo la bloccò, in cerca di chiarimenti.

“Aspetta, mi stai dicendo che Paciock conserva gli ultimi ricordi di mia moglie in una boccetta? Mi stai davvero dicendo questo?”

“Ehm… Sì. Non lo sapevi?”

“No che non lo sapevo!”

Per la prima volta da quando si erano incontrati, Rodolphus era arrabbiato sul serio. Cathy non si aspettava una tale reazione, aveva sempre avuto l’impressione che lui sapesse tutto di tutti, che fosse un passo avanti agli altri… Invece, in quel caso era totalmente all’oscuro. Cercò rapidamente di portare la conversazione al punto che le interessava, prima che partisse una crociata indesiderata nei confronti di Paciock.

“Comunque, non è questo il problema, ma il fatto che…”

“Non dovrebbe essere lui ad averli. Dovrei essere io, oppure Narcissa… Con quale diritto se n’è appropriato?”

Cathy alzò gli occhi al cielo, comprendendo che la sua impresa non sarebbe stata facile da portare a termine. “Senti, non lo so, ok? Li ha trovati e li ha raccolti, cercava delle ragioni per tutto quello che Bellatrix gli ha fatto. Ora che vuoi fare, andare da lui e vendicarti?”

“No, lasciamo stare. Ci sono questioni più urgenti al momento”.

Il suo diniego non la tranquillizzò come avrebbe dovuto: sebbene Rodolphus avesse lasciato cadere la questione, aveva anche preso maledettamente sul serio quella che doveva essere una domanda retorica. Non c’era mai da stare troppo sereni, con un ex Mangiamorte come tutore.

“Dimmi solo una cosa” riprese lui, in tono più pacato. “In questi ricordi, se li hai visti… C’ero anch’io?”

“Sì”. Quella risposta gli illuminò lo sguardo per un momento. “Ho visto il vostro primo incontro al tavolo di Serpeverde e il professore mi ha detto che ce ne sono altri. Sono io quella che non è mai presente”.

Rodolphus annuì, come se non si aspettasse niente di diverso. Era così scontato, allora, che sua madre l’avesse dimenticata? Scelse di non tenersi dentro niente, almeno per quel giorno, e ribatté: “Beh, non ti stupisce? Mi odiava così tanto da non pensarmi nemmeno un attimo prima di morire?”

“No, Cathy. Non è così semplice”.

“E allora dimmi com’è. Sono stanca dei segreti”.

Rodolphus appoggiò i gomiti sulle ginocchia e intrecciò le dita, segno che era favorevole a parlare. Cathy non sapeva spiegarsi una tale disponibilità, per questo si limitò a esserne grata.

“Richiederà più tempo di quanto avevo previsto, ma immagino che non posso tirarmi indietro o ne perderò ancora di più con le tue proteste. Bene, allora… Ricordi quando ti dissi che il Signore Oscuro non ha mai saputo di te? Bellatrix doveva mantenere il segreto, altrimenti lui ti avrebbe uccisa all’istante. Non è facile nascondere un pensiero così altamente emotivo ad un abile Legilimens, richiede qualche precauzione maggiore che l’essere un bravo Occlumante; per questo, Bella è stata costretta a mettere da parte tutto ciò che ti riguardava, tramite lo stesso incantesimo che ha usato prima di morire. Questo è il motivo per cui il tuo ricordo non è contenuto in quella boccetta: lei non l’aveva con sé”.

Cathy avvertì un calore improvviso nel petto e i suoi nervi si rilassarono: sua madre non la odiava, dunque. Restava la strega peggiore del mondo, ma almeno non disprezzava la propria figlia.

“Quindi l’ha fatto per proteggermi” sussurrò. “Solo per questo”.

“Sì. Per lo stesso motivo per cui ti ha nascosta in un orfanotrofio”.

La ragazza annuì, riflettendo sul fatto che la ragione per cui era cresciuta senza genitori era la stessa per cui era viva. Chissà se sua madre sarebbe mai tornata da lei, se fosse sopravvissuta… Purtroppo non c’era modo di scoprirlo.

“Ma dove avrà nascosto i ricordi mancanti, allora?” chiese poi, colpita da un dubbio. “È possibile che… Che siano ancora qui?”

“Non solo è possibile”, replicò Rodolphus, “ma è proprio quello che mi ha permesso di scoprire che tu esistevi, e che vivevi al Saint George”.

Cathy cadde quasi dal divano. Era sempre stata convinta che lui l’avesse saputo tramite dei documenti, quelle scartoffie che i genitori firmano quando danno via un bambino, e invece no… Perché diamine non gliel’aveva detto prima? Ma non doveva neppure chiederselo, in fondo era di Rodolphus che si stava parlando.

“Ho trovato una piccola ampolla in un cassetto, sopra c’era scritto il tuo nome. Bellatrix l’aveva nascosta accuratamente con la magia, ma conoscevo mia moglie abbastanza per intuire che trucchetti avesse usato. E ora scommetto che non mi darai pace finché non avrai visto quei ricordi, giusto?”

“Quindi posso vederli?” Quella volta balzò direttamente in piedi, seguita un istante dopo da Rodolphus che sospirò. “C’è un Pensatoio anche qui?”

“Per favore, ragazzina! Credi che i Paciock ne posseggano uno e i Lestrange invece no? Questo mi offende…”

“Non intendevo… Voglio solo dire che non l’ho mai visto in casa”.

“Perché non lo tengo certo in bella vista. Accidenti, ne hai di cose da imparare ancora. Seguimi”.

Cathy obbedì, tenendosi a distanza da Rodolphus quanto bastava per non finire sulle sue scarpe. Ogni volta che si convinceva di conoscere quella casa a menadito, ecco che spuntava un nuovo particolare nascosto e imprevedibile. Non ebbe tempo per sentirsi in ansia o titubare: dopo qualche istante era nella stanza delle pozioni, la stessa in cui Rodolphus le aveva mostrato il progetto di Libreville e dove adesso le stava indicando il pavimento, con un sorriso divertito. Cathy fissò il punto senza capire, finché l’uomo afferrò la bacchetta e iniziò a disegnare un rettangolo nell’aria; contemporaneamente, un altro rettangolo di luce si formò sulle mattonelle e le sollevò, rivelando un varco profondo sotto di esse. Il pavimento tremò e, da quella che sembrava una voragine vuota, s’innalzò un bacile di marmo finemente decorato, posto in cima a una colonna. Al termine di quell’esibizione, le mattonelle tornarono al proprio posto come se nulla fosse accaduto.

“Wow” esclamò Cathy, colpita dall’effetto di quella magia.

“Questo non c’era a casa dei Paciock, vero?” Rodolphus sorrideva ancora soddisfatto.

“Beh, no. Era conservato in maniera più… Normale”.

“Grave errore. La possibilità di visitare i ricordi è rara, preziosa e persino pericolosa quando finisce in mani sbagliate. Deve essere protetta”.

Cathy annuì, ma tutta la sua concentrazione fu assorbita dalla fiala che Rodolphus teneva tra le mani, evocata da chissà dove mentre il Pensatoio faceva la sua apparizione. Quando lui spostò le dita, fu ben visibile la scritta Catherine che vi era stata incisa anni prima, con una grafia sottile ed elegante. La ragazza si emozionò al pensiero di sua madre che imprimeva per sempre il suo nome su quel vetro, segno che in qualche modo volesse conservarne la memoria.

“Non sarà sempre piacevole” le diceva intanto Rodolphus, versando il contenuto della fiala a piccoli fiotti. “Alcune scene potrebbero turbarti, farti paura. Ma ti assicuro che alla fine di questa visita avrai tutte le risposte che cerchi”.

Se la prima parte di quella frase avrebbe potuto farla desistere, la seconda cancellò ogni esitazione sul nascere. Rodolphus si spostò per lasciarla avvicinare e Cathy ragionò su quanto fosse diverso dal professor Paciock: entrambi volevano proteggerla, ma mentre quest’ultimo le impediva di vedere alcune cose, il primo si limitava ad avvisarla sugli effetti che avrebbero avuto. La trattava come un’adulta e lei gli era sempre stata grata per questo; si augurava soltanto di essere all’altezza della situazione, di non mettersi a piangere o urlare o dare in escandescenze.

Non diede tempo a se stessa per avere paura: era stata in un Pensatoio solo il giorno prima e sapeva cosa andava fatto, per questo s’immerse con decisione nel liquido e lasciò che il suo corpo abbandonasse la stanza. Non aveva idea di cosa avrebbe trovato in quella dimensione surreale, ma il desiderio di scoprire la verità era più forte di qualsiasi dubbio. Chiuse gli occhi mentre una sensazione già provata s’impadroniva di lei e li riaprì solo quando una nuova scena le si fu formata completamente attorno.

Si trovava in una stanza sconosciuta, grande, illuminata solo da poche torce e dalla brace presente nel camino. Al centro vi era un lungo tavolo, attorniato da decine di sedie su cui però non era seduto nessuno. Doveva essere notte, a giudicare dalle finestre chiuse e dal silenzio che regnava in quella casa; proprio mentre rifletteva su questo, avvertì un’altra sensazione, nota e profondamente spiacevole, che le premeva sui polmoni rendendo pesante la respirazione. Il buio le aveva sempre dato quel genere di problemi, ma non seppe spiegarsi perché lo stesse facendo anche allora: nei ricordi che aveva visitato con Paciock non era accaduto, pur se ce n’era stata l’occasione, e aveva creduto che trovarsi in un mondo irreale non influisse sulla sua salute come succedeva con la vera oscurità. In più, la sensazione era sì presente, ma ovattata, come se volesse farsi percepire senza causarle un effettivo dolore. Realizzando che non era in pericolo, Cathy si tranquillizzò, e solo allora si accorse dell’unica figura che occupava la stanza dandole le spalle.

Non fece in tempo a domandarsi chi fosse, perché un’altra persona apparve nella cornice della porta proprio in quel momento. Alta, magra, vestita completamente di nero, era impossibile non riconoscere Bellatrix, seppure Cathy non avesse mai visto i suoi ricordi di adulta. Tuttavia, assomigliava poco alla donna altera ed elegante ritratta nel quadro che le aveva regalato Rodolphus: doveva avere almeno vent’anni di più, e anche nella penombra il suo viso appariva profondamente stanco e segnato da occhiaie. Era pallida e si appoggiava allo stipite come se faticasse a restare in piedi; Cathy si chiese a quale momento della sua vita facesse riferimento quella scena.

“Mio Signore…”

Sentendosi chiamare, la seconda figura si voltò piano in direzione della porta. Il suo sguardo vagò su Cathy per un istante e tanto bastò perché lei soffocasse un urlo: mai si era aspettata che un volto così inumano potesse appartenere a qualcuno, a suo padre, e che i crimini di cui si era macchiato avessero reso i suoi occhi rossi come il fuoco. Aveva già avuto un assaggio della sua trasformazione nel ricordo di qualche anno prima, ma quello a cui stava assistendo ora lo superava di gran lunga. Tremava ancora per quell’occhiata fulminea, quando sentì una mano appoggiarsi sulla sua spalla: Rodolphus era lì, a visitare quelle memorie con lei, pur se non si era accorta che l’avesse raggiunta.

“Lui non può vederti né sentirti, né tantomeno farti del male. Noi non siamo veramente qui”.

Lo sapeva, ma sentirlo ripetere dalla sua voce ebbe un effetto rassicurante. Per la seconda volta in poco tempo, la presenza del suo tutore era riuscita a calmarla.

“Bella” disse poi l’uomo, il mostro, apostrofandola con un tono freddo quanto il suo aspetto. Lei non sembrava averne paura, era piuttosto tesa per ciò che stava per fare e provata dalle sue condizioni di salute. “Volevi parlarmi?”

Bellatrix confermò in un sussurro, poi si fece più vicina a lui tenendo il capo chino. Cathy notò che, per tutta la durata della loro conversazione, non alzò mai lo sguardo verso il suo padrone.

“Volevo chiedervi un favore. Ora che le cose vanno meglio, che il Ministero è dalla nostra parte e non ci sono missioni incombenti, io… Avrei bisogno di prendermi una pausa”.

“Una pausa? Tu?” C’era un che di divertito nel modo in cui Voldemort lo domandò, come se una proposta tanto semplice diventasse assurda se fatta da Bellatrix. “Non mi hai mai chiesto una pausa in trent’anni e vuoi farlo proprio adesso? Questo esige una spiegazione”.

Bellatrix prese fiato, dando poi voce a una risposta che doveva aver preparato da tempo: “Mio Signore, sapete che non lo farei se non fosse strettamente necessario. Tutto ciò che ho sempre desiderato, che desidero, è stare al vostro fianco e servirvi come meritate… Ma questa volta ho davvero bisogno di allontanarmi per un po’”.

“Perché?” Domanda secca, concisa, che non ammetteva preamboli.

“Perché sono malata”. Cathy non credeva ci fosse bisogno di specificarlo, ma forse gli occhi rossi di Voldemort non funzionavano altrettanto bene. “Avrete notato che sono spesso stanca, che non riesco a essere lucida come dovrei in alcune circostanze. Ho bisogno di consultare un Medimago esperto per capire che cos’ho e come fare per guarire”.

“Ne abbiamo molti anche qui, che per scelta o meno si trovano a collaborare con noi. Nessuno di loro ha saputo aiutarti?”

Bellatrix scosse immediatamente la testa. “Purtroppo no. E mi hanno detto che solo all’estero, forse, ho qualche possibilità di trovare una cura”.

Voldemort tacque per qualche istante, seppur continuando a fissarla con sospetto. Le sue motivazioni dovevano sembrargli realistiche, così come apparivano a Cathy. “Per quanto tempo credi di stare via?”

“Un paio di mesi”.

Che cosa?” Quella calma apparente si trasformò presto in rabbia, emanata come lampi dalle sue pupille sottili. Era difficile non restarne intimoriti anche attraverso un ricordo. “Siamo finalmente a un punto di svolta e tu vuoi sparire per due mesi? Potter è ancora a piede libero, mi servi qui quando lo troveremo!”

Bellatrix non si scompose per quel cambio di toni, anzi, sfoderò un sorriso che si sarebbe potuto definire seducente. “So bene di essere la vostra migliore Mangiamorte, mio Signore. Ma avete collaboratori degni di fiducia che potranno sopperire alla mia assenza. Inoltre, non chiederò a nessuno di accompagnarmi, nemmeno a Rodolphus. Due mesi sono solo un tempo indicativo, potrei stare via anche meno…”

“O di più”. Voldemort aveva concluso la frase a modo proprio, senza lasciarsi corrompere dalle moine della donna. “Se davvero ti ritieni la migliore, dovresti dimostrarlo”.

“Ed è quello che voglio fare! Ho giurato di esservi fedele e di combattere per voi, nulla potrà impedirmi di mantenere questa promessa! Ma non potrei sopportare di morire prima di avervi visto trionfare contro il ragazzo… Per favore, lasciate che mi curi. Tornerò nel pieno delle mie forze e vi dimostrerò quanto valgo”.

Senza dubbio, Bellatrix ci sapeva fare con i discorsi. Cathy doveva aver ereditato un po’ di quella capacità da lei, poiché era piuttosto brava a convincere le persone nei momenti di bisogno – basti pensare a tutte le volte in cui aveva persuaso Paciock. Doveva però ammettere che con un tipo del genere era tutt’altra storia.

Intanto, Voldemort rifletteva. Stava valutando se gli convenisse o meno accettare la proposta, dopo le considerazioni ragionevoli che lei aveva presentato. In ultimo, dichiarò: “E sia. Una strega morta non mi serve a niente, se questo viaggio è l’unica possibilità di guarirti allora affrontalo. Ma se avrò bisogno di te qui, sappi che non esiterò a chiamarti ovunque ti trovi”.

“Vi ringrazio”. Bellatrix espresse la sua riconoscenza con un piccolo inchino.

“Aspetta”. Non si era ancora mossa dal posto in cui era, ma forse Voldemort supponeva che stesse per farlo. “Guardami”.

Sotto richiesta esplicita, Bellatrix non poté fare a meno di alzare il proprio sguardo verso il suo, timidamente e con lentezza. Lui non era della stessa idea, poiché le afferrò il mento e la costrinse a fare più in fretta, avvicinandola al proprio viso. Erano distanti solo pochi centimetri, ormai, ma lei sostenne quella sfida con fierezza.

“So che stai usando l’Occlumanzia contro di me, sono stato io a insegnartela. Se mi stai nascondendo qualcosa, Bella, stai pur certa che lo scoprirò. E se la tua fedeltà è cambiata, se stai proteggendo qualcuno, le conseguenze saranno molto spiacevoli. Non costringermi a punirti, sarebbe un vero peccato”.

Bellatrix non si mostrò smarrita neanche per un attimo. Restò seria mentre lui parlava, poi sorrise di nuovo con la stessa aria accattivante: “E chi mai dovrei proteggere? Voi siete l’unico di cui m’importa, questa separazione pesa a me più che a chiunque altro… La mia fedeltà non ha mai vacillato, e mai lo farà”.

Finalmente Voldemort lasciò la presa su di lei, con un gesto altrettanto brusco che la fece barcollare. La congedò, voltandosi e rivolgendo altrove la sua attenzione. Avviatasi dapprima verso la porta, Bellatrix indugiò sull’uscio e Cathy non poté fare a meno di notare la nuova luce che le illuminò gli occhi, mentre guardava il suo padrone per l’ultima volta. Ora che lui le dava le spalle, infatti, si concedeva di riservargli uno sguardo totalmente diverso da tutti i precedenti: dolce, intimo e senza difese.

Rodolphus fece cenno a Cathy di seguire Bella e lei non se lo lasciò ripetere due volte: non sarebbe rimasta sola con Voldemort per niente al mondo, neppure in un semplice ricordo. Così, entrambi raggiunsero sua madre nel posto in cui era diretta, che si rivelò essere una camera da letto.

“Dove ci troviamo?” chiese Cathy, notando che la casa non era quella di Rodolphus ma ne ricalcava lo stile raffinato.

“A villa Malfoy. Siamo stati ospiti di Narcissa e Lucius per molto tempo, dopo l’evasione da Azkaban”.

Questo aiutava la ragazza a definire temporalmente quegli eventi, pur se non a spiegarne l’importanza. Non riusciva infatti a cogliere il nesso tra quelle immagini e se stessa, ma il nome su quella boccetta parlava chiaro e voleva dargli fiducia. Nel frattempo, Bellatrix si era avvicinata con non poca difficoltà a uno specchio a figura intera, nel quale osservò la sua immagine. Sembrava volesse semplicemente guardarsi, ma poi affondò una mano sotto i lembi della veste e ne estrasse la propria bacchetta. Fu allora che accadde ciò che Cathy non si sarebbe mai aspettata, e che sarebbe rimasto nei suoi ricordi per sempre.

Nel momento stesso in cui la donna puntò la bacchetta verso il proprio ventre, mormorando una formula sconosciuta, questo iniziò ad allargarsi, rivelando uno stadio avanzato di gravidanza. Bellatrix piegò la testa all’indietro e prese aria, il suo colorito divenne a poco a poco più vivo e quel senso di oppressione che Cathy ancora percepiva cessò di colpo, come se la stanza si fosse illuminata a giorno.

Si voltò verso Rodolphus smarrita, con gli occhi gli domandò una spiegazione che lui era già pronto a darle. Non si perse in preamboli, infatti, e le confermò quel che una parte di lei aveva già capito.

“Era incinta di sette mesi. Per questo aveva finto di essere malata e di dover partire, sapeva di poterti dare alla luce da un momento all’altro e che doveva essere lontana, quando fosse successo. Quando i vestiti larghi e le scuse non bastavano più, si servì di un incantesimo potente per comprimere la pancia e apparire perfettamente magra, ma corse un grosso rischio: se ridurre gli oggetti è facile e innocuo, non lo è altrettanto con un essere umano, che potrebbe riportare serie conseguenze. Il pericolo è ancora maggiore per un feto in via di sviluppo, e difatti… Quest’esperienza non ti ha lasciato del tutto indenne”.

Cathy annuì, avendo afferrato completamente il concetto. “Parli dell’asma, vero? Di quello che mi succede al buio?”

“Sì. Ho capito che non era una semplice paura nel momento stesso in cui me ne hai parlato. La mancanza di luce ti fa rivivere quella sensazione di soffocamento che hai provato per via dell’incantesimo, a cui Bellatrix ti ha sottoposto più e più volte. Ma se sapessi che cosa hai rischiato, ti considereresti fortunata”.

Era una flebile consolazione, si disse. Rodolphus non poteva sapere tutto ciò che aveva passato a causa di quell’asma, ma lei lo ricordava bene e non poteva etichettarla come cosa di poco conto. Mentre lui parlava, le erano tornati in mente molti episodi della sua infanzia: le angherie degli altri bambini che non prendevano sul serio quel problema, giocandole scherzi crudeli; i medici che, uno dopo l’altro, la visitavano per capire cosa avesse e scuotevano la testa afflitti dopo ogni tentativo; la schiera di psicologi, psichiatri e altri specialisti che cercavano nel passato la ragione del suo male, senza capire che lei un passato non l’aveva e non l’avrebbe mai conosciuto. Era un altro tassello doloroso che si aggiungeva al quadro della sua crescita.

“Non c’è rimedio a questo, vero?” Lo domandò pur immaginando già la risposta.

“Purtroppo no. Ma adesso che ne conosci la ragione, riuscirai più facilmente a gestirlo”.

Cathy si era rassegnata a questo molto tempo prima, perciò non soffrì realmente per quella conferma. Era piuttosto l’intera situazione a lasciarla stranita, come se le mancasse una base sostanziale per capirla a fondo.

“È tutto così… Insensato” commentò, mentre Bellatrix continuava a specchiarsi e si accarezzava il ventre. “Voldemort era agghiacciante, come ha fatto a innamorarsi di un tipo del genere? E poi non mi sembravano per niente una coppia”.

“Non lo erano”.

Quella risposta le confuse le idee ancora di più, ma evitò di indagare oltre: Rodolphus si era già irrigidito e ogni accenno a quella questione sembrava causargli dolore.

*

Il cambio di scena fu quasi traumatico, diverso da qualsiasi novità Cathy avrebbe potuto aspettarsi. Dalla quiete della casa si passò a un rombo di tuono e pioggia che picchiava violenta su qualsiasi cosa stesse coprendo loro la testa, impossibile da determinare a causa del buio. Ma ancora più forte e sinistro di quella tempesta fu l’urlo di donna che squarciò l’aria, proveniente da qualche parte vicino a loro e seguito poco dopo da un secondo, un terzo, un quarto; iniziava a capire perché Rodolphus l’avesse avvertita.

“Siamo in una cascina di campagna, probabilmente a diversi chilometri da Londra. Non farti spaventare da questo ricordo, passerà presto” le chiarì l’uomo, anticipando ancora una volta le sue domande.

Cathy annuì, poi, resa forte dall’oppressione al petto ormai scomparsa, sondò con lo sguardo l’ambiente cercando di abituarsi alla penombra. Riconobbe la figura della donna che gridava sdraiata a terra, in un angolo, con la testa appoggiata al muro e le ginocchia sollevate. Allora, capì cosa stava succedendo.

“Sta… Partorendo?”

Rodolphus confermò.

“E perché è da sola? Nessuno poteva aiutarla?”

“Non voleva lasciare segni del suo passaggio. Nessun mago o strega poteva pensare di assisterla restando vivo, e lei non si fidava certo dei Babbani”.

Aveva un senso, considerando la logica assurda dei Mangiamorte, ma non rendeva meno terribile il fatto di dover partorire senza un’ostetrica. Una qualsiasi complicazione poteva compromettere la vita della madre o del bambino, Cathy lo sapeva bene, poiché storie del genere venivano raccontate in orfanotrofio ogni giorno. Ciononostante, l’agonia di Bellatrix ebbe fine in pochi minuti: alle sue urla si sostituirono quelle della neonata, minuscola e sporca, che aveva appena fatto il suo ingresso nel mondo e che presto si sarebbe chiamata Catherine.

Era difficile, se non impossibile, restare indifferenti alla scena della propria nascita che le avveniva davanti agli occhi: Cathy non poté fare a meno di avvicinarsi per guardare meglio quella piccola versione di se stessa, accolta da Bellatrix nelle sue braccia magre non appena ebbe la forza di sollevarsi. Senza esitazione, la donna recuperò da terra un lungo tessuto e lo usò per avvolgervi la bambina, che ancora piangeva disperata; Cathy sapeva, pur non riuscendo a distinguere i colori, che si trattava dello stesso mantello regalatole da Rodolphus per il suo compleanno. Nonostante quel gesto istintivo, Bellatrix sembrava non sapere come comportarsi: teneva la figlia con fin troppa delicatezza, come se temesse di romperla, e il suo atteggiamento era molto diverso da quello emozionato delle neomamme, appariva per lo più curioso e preoccupato. Non si trattava di una donna che aveva scelto di essere madre, ma di una che non l’aveva mai pianificato e si trovava ora ad affrontare quel ‘problema’.

“Avanti, su” sussurrò alla Cathy in miniatura, “smettila di piangere”.

La bambina non accolse quella gentile richiesta, anzi i suoi strepiti si alzarono di un’ottava. Per fortuna, Bellatrix non perse la pazienza, e avvicinando la piccola al petto capì quello che andava fatto.

Fu semplice e miracoloso al tempo stesso, come solo un evento tanto naturale sa essere. Non appena la neonata percepì la presenza del seno materno, si attaccò al capezzolo come fosse la sua ancora di salvezza e iniziò a succhiare con voracità. Le grida che fino a un attimo prima riempivano la cascina furono sostituite dal suono flebile della poppata, il temporale si allontanò, come per non disturbare quel momento così intimo, e anche lo sguardo di Bellatrix parve rasserenarsi e addolcirsi.

Ma il particolare che più di ogni altro attirò l’interesse di Cathy, testimone attenta e silenziosa di quel prodigio, furono i lunghi capelli della donna che ricadevano sulle guance della bambina, solleticandola senza distrarla dalla sua occupazione. Ricordava di aver già provato quella sensazione, più volte durante i suoi sogni: c’era stato un tempo in cui aveva associato quelle ciocche nere a Harry Potter, adesso sapeva di sbagliarsi sulla loro provenienza ma non sul fatto che fosse realmente accaduto. Prima che se ne accorgesse, i suoi occhi divennero lucidi e una nuova consapevolezza si fece strada nel suo cuore, dopo averle attraversato mille volte la mente: quella sono io. Quella è mia madre.

Non era come se non lo sapesse o non lo avesse mai accettato. Per quanto fosse stato difficile, ormai la donna che l’aveva generata aveva un volto e un nome e non poteva fingere che fosse diversa, migliore e più simile alla madre che avrebbe voluto. Ma c’era una differenza tra il sapere qualcosa e sentirlo davvero, nel profondo, con ogni fibra del proprio corpo che gridava l’autenticità di quel legame; solo dopo aver assistito al loro primo e forse ultimo contatto, Cathy riconosceva se stessa come la figlia che Bellatrix aveva messo al mondo e poi lasciato andare, senza per questo cancellare un rapporto che sarebbe andato oltre il tempo e la morte. I sentimenti che aveva nutrito nei suoi confronti erano stati tanti e diversi, fino ad allora: rabbia per averla abbandonata, odio per essere un’assassina, tentativi di comprenderla e amore per i piccoli gesti con cui l’aveva protetta. Se avesse dovuto descrivere come si sentiva adesso, avrebbe detto semplicemente sua. E insieme alla consapevolezza di appartenerle, che loro si appartenevano, arrivò puntuale e dolorosa anche quella di ciò che aveva perso.

*

Aveva ancora gli occhi annebbiati quando la scena si dissolse, si affrettò quindi ad asciugarli prima che Rodolphus potesse notarlo. A distrarla dalla commozione si presentò un ambiente ancora diverso, questa volta esterno, ben illuminato e soprattutto noto.

Cathy capì cosa stava per succedere nel momento stesso in cui si guardò attorno, riconoscendo il ponte di Londra e Bellatrix accanto al parapetto. Si trattava senza dubbio dell’episodio che Catherine le aveva raccontato tante volte, nella sua versione falsa che era stata poi corretta da Rodolphus. Finalmente, Cathy aveva l’opportunità di vederla con i propri occhi e farsene un’idea tutta sua, senza l’influenza di chi l’aveva vissuta prima di lei. Si avviò a passo svelto verso sua madre con l’intenzione di non lasciarsi sfuggire alcun particolare, approfittando di quel vantaggio che solo la magia del Pensatoio poteva garantirle.

“Mi dispiace”. Bellatrix mormorava quelle parole afflitte alla neonata, che aveva ricominciato a piangere senza sosta. “Avrei voluto un destino diverso per te, ma questo è tutto ciò che posso darti. Un unico giorno passato con una madre che non sa essere tale”.

Crudelmente, allontanò la bambina dal petto e la sporse oltre la barriera, verso il Tamigi che scorreva impetuoso. Dato che guardare se stessa in quella situazione la inquietava, Cathy si concentrò sul viso della madre e fu sorpresa di non leggervi alcuna emozione, come se ciò che stava per fare non la toccasse per nulla. Forse era soltanto brava a nasconderlo, abituata a celare i suoi sentimenti più profondi per via di Voldemort; in ogni caso, non accennò a lasciare la presa sulla piccola e restò a fissarla con lo stesso sguardo vuoto per alcuni secondi.

Ciò che accadde dopo rese impossibile dire cosa avrebbe fatto Bellatrix altrimenti, se proseguito nel suo gesto omicida o se ritratto le braccia. Passi che si avvicinavano e grida spaventate – Che sta facendo? Si fermi! – rivelarono la presenza di una ragazza quindicenne, appesantita dalla grossa borsa che portava a tracolla: Catherine. Sia Cathy che Bellatrix riuscirono a malapena a vederla prima che lei si scagliasse contro la donna, nel tentativo di bloccarla. La strega dimostrò però una certa abilità a difendersi, poiché riuscì in qualche modo a spingere via la ragazzina nonostante le mani occupate. Mentre Catherine finiva seduta a terra, la Cathy neonata tornava al sicuro entro il limite del parapetto.

“Cosa diamine credevi di fare?” gridò Bellatrix, e per la prima volta la sua voce incuteva timore.

Lei cosa credeva di fare!” A dimostrazione che il suo spirito combattivo fosse tale da molto tempo, Catherine si rialzò immediatamente, rivolgendo uno sguardo inferocito alla donna. “Stava per uccidere quel bambino!”

“E se anche fosse? Questa è mia figlia, e tu sei solo una ragazzina insolente che non sa stare al suo posto”.

Qualcun altro sarebbe forse tornato sui suoi passi, avrebbe chiamato la polizia o una qualsiasi persona più adulta nelle vicinanze, ma non Catherine. Lei, come aveva spesso raccontato a Cathy, da adolescente era uno spirito libero che non accettava l’aiuto di nessuno, convinta che il mondo andasse a rotoli e che la responsabilità di cambiarlo fosse tutta sulle sue spalle. Quella doveva sembrarle l’occasione perfetta per un gesto eroico, il salvataggio di una bambina dalle acque del fiume dopo che un altro neonato era stato strappato alle sue cure. Fu per questo che non si sottrasse agli attacchi della donna, rispondendo alla sua indifferenza con le armi che aveva a disposizione.

“Qualunque cosa pensi di me, non creda che me ne starò a guardare senza fermarla! Sono cresciuta in un orfanotrofio e vivo lì ancora adesso, occuparmi dei bambini è la mia missione… Non permetterò che uno di loro finisca nel fiume! Neppure se è la madre a gettarcelo”.

Quella volta Bellatrix non contrattaccò, anzi rispose con un ghigno divertito. “Resterei qui a guardare come provi a fermarmi solo per il gusto di vederti fallire, ma purtroppo non posso permettermelo. Sei fortunata a incontrarmi in un momento come questo, in cui sono più debole e non voglio lasciare tracce del mio passaggio, altrimenti saresti già morta. Vattene, prima che cambi idea, e ringrazia la tua buona stella”.

Detto ciò, si voltò di nuovo verso il fiume e ignorò completamente Catherine, senza però allontanare la figlia da sé. La Cathy appena nata aveva intanto smesso di piangere, sembrava essersi addormentata.

Catherine esitava, forse spaventata dalle minacce della donna. Restò a fissare la sua schiena con occhi, questa volta, più confusi che infuriati, non si mosse di un millimetro e attese che qualcosa accadesse; quando capì che Bellatrix non aveva intenzione di agire, fu lei a parlare ancora.

“Non è l’unica soluzione, sa. Ne ho visti tanti di casi come il suo, donne costrette a rinunciare ai propri figli perché povere, sole, senza nessuno che le aiuti. Ma oggi è lei quella fortunata, perché ha incontrato me, che posso dare un futuro alla sua bambina…”

Bellatrix tornò lentamente a girarsi verso di lei, fredda e diffidente nei confronti di quella sconosciuta. Il nuovo approccio riuscì comunque a farle abbassare i toni: “Tu non sai niente di me, non hai idea di chi hai davanti. Sono diversa da ogni altra madre che hai conosciuto”.

“Forse,” proseguì Catherine, imperterrita, “ma so che se è arrivata a un gesto tanto disperato è perché non può tenere con sé la piccola. Non m’importa quale sia il motivo, voglio solo offrirle un’alternativa! La dia a me, la porterò in orfanotrofio e…”

“Non lascerei mai mia figlia nelle mani di una Babbana! Meglio la morte, piuttosto”.

Anche se Catherine non poteva conoscere il significato di quella parola, il disprezzo con cui Bellatrix l’aveva pronunciata era chiaro per chiunque. “Come mi ha chiamata?” domandò la ragazza, accigliandosi.

“Non ha importanza. Ti ho detto di andartene”.

Catherine finse di non aver sentito: “So che gli orfanotrofi possono sembrare dei brutti posti, e alcuni lo sono davvero, ma da noi le cose vanno diversamente. È un istituto moderno, pulito, dove i bambini crescono sani e con un’ottima educazione. Il Saint George è famoso per aver formato ragazzi che sono poi diventati persone importanti, medici, avvocati, artisti…”

“Aspetta”. Bellatrix l’interruppe di colpo, mostrando finalmente attenzione per ciò che ascoltava. “Come hai detto che si chiama?”

“Saint George. Ne ha sentito parlare?”

La donna parve riflettere, rievocando antichi ricordi. Guardò intensamente la neonata che ancora stringeva, infine disse: “Sì”.

Nello stesso momento, Rodolphus si avvicinò all’orecchio di Cathy per darle una nuova spiegazione, dopo essere rimasto a lungo in silenzio: “Non era lo stesso edificio dov’è cresciuto il Signore Oscuro, in realtà. Quello fu demolito tempo prima e poi ricostruito da un’altra parte, ma Bellatrix non lo sapeva. È strano come il nostro destino, a volte, dipenda da una serie di piccole coincidenze”.

Era strano davvero, pensò Cathy, mentre ora vedeva Bellatrix avvicinarsi alla ragazza con uno spirito del tutto diverso. Protese la neonata verso di lei e, senza aggiungere altro, la invitò ad afferrarla.

Catherine sembrava sotto shock, non si aspettava che le cose cambiassero tanto facilmente. Per un momento fissò Bellatrix confusa, poi abbassò gli occhi verso la bambina e le sorrise con dolcezza. Mentre allungava le braccia per accoglierla, dovette notare qualcosa che non le piacque, probabilmente il mantello intriso di sangue che ancora l’avvolgeva; infatti, ritirò le mani e aprì la sua borsa, recuperando un telo bianco e immacolato che poi usò per scaldare la neonata, lasciando il mantello a Bellatrix. Sbottonò anche il proprio cappotto per offrire ulteriore protezione alla piccola, necessaria in quella gelida notte di Natale.

“Grazie” disse, esprimendo una gioia autentica. “Ha fatto la scelta giusta. Potrà venire a trovarla quando vorrà”.

Bellatrix non rispose all’invito, ma si limitò ad aggiungere: “Occupatevi di lei. Fate in modo che viva”.

“Ha la mia parola”. Catherine tornò a sorridere alla sua futura omonima, una distrazione breve ma che bastò a Bellatrix per voltarle di nuovo le spalle. “Aspetti!” gridò, quando si accorse che lei stava andando via. “Non mi ha ancora detto come si chiama”.

“Non ha alcun nome”.

“E non vuole darglielo?”

La strega teneva gli occhi bassi, adesso, come se non volesse più guardare sua figlia né colei che la teneva in braccio. “Come ti chiami tu?”

“Catherine”.

“D’accordo, Catherine andrà benissimo. Non potrei comunque darle un nome adatto alla mia famiglia”.

La ragazza annuì, visibilmente felice per quella scelta, poi tornò a rivolgere la sua attenzione alla bambina. “Ciao, piccola Catherine” le disse, afferrando tra le dita una delle sue mani minuscole. Come se l’avesse sentita, Cathy aprì gli occhi e rispose con una smorfia quasi simile a un sorriso.

“È proprio bella, com…” ma quella frase sarebbe rimasta incompleta. Bellatrix era scomparsa nel nulla e, insieme a lei, anche Rodolphus e la Cathy di dodici anni stavano tornando a casa.

*

Nessuno di loro parlò, una volta che i loro piedi tornarono a toccare il pavimento della villa. Che cosa c’era da dire, in fondo? Quei ricordi rappresentavano un carico di emozioni per entrambi, seppure di tipo diverso, ed ora avevano solo bisogno di essere assimilati. In silenzio e con i pensieri che si rincorrevano, Cathy osservò Rodolphus rimettere a posto il liquido incantato e il Pensatoio, invidiando la sua capacità di dedicarsi ad azioni così meccaniche. La verità era che si sentiva stordita, fuori dalla realtà, come accade quando si guarda un film in grado di sconvolgerci e si continua a riviverne le scene anche dopo i titoli di coda. Rodolphus magari ci aveva fatto l’abitudine o era tanto forte da ignorare quelle sensazioni, ma così non era per lei; cercò i suoi occhi senza sapere quel che voleva, forse una distrazione, forse solo un gesto gentile. Lui dovette comprendere il suo smarrimento, perché le raccontò un altro dettaglio che non la coinvolgeva direttamente.

“Tornò a casa quella sera stessa, proprio mentre eravamo riuniti per la vigilia di Natale. Non ho saputo che il ricordo si riferisse proprio al 24 dicembre finché Catherine non mi ha detto che era il giorno del tuo compleanno. Lei era sconvolta, intrattabile più del solito, si rifiutò di dirmi dov’era stata e pretese che tutti dimenticassimo quei due mesi. Sapevo che doveva essere successo qualcosa, ma non avrei mai immaginato…”

La voce gli si smorzò e Rodolphus smise di parlare, schiacciato dal peso di quei ricordi. Non c’era altro da chiarire, ormai, il significato dei comportamenti di Bellatrix era stato rivelato e così anche quello delle sue motivazioni. L’uomo passò un braccio attorno alle spalle di Cathy per sospingerla verso l’uscita, insieme lasciarono la stanza e tornarono nel soggiorno. Per un momento, prima che un destino implacabile si abbattesse su di loro, la ragazza ricordò che c’era qualcos’altro di cui dovevano parlare, rimandato a causa delle sue richieste; ma poi, il mondo crollò e non restò più tempo per nulla.

Ci fu un boato, un’esplosione di schegge che li colse del tutto impreparati e inconsapevoli di ciò che stava accadendo. Costretti a proteggersi il volto, non videro quello del loro assalitore finché la pace non tornò, almeno in apparenza. Fu allora che, riaprendo gli occhi, Cathy apprese la verità e sbiancò.

Nella cornice del portone ormai distrutto, con lo sguardo e il ghigno di un pazzo, c’era Albert Young.


Note

Non so proprio come ho potuto pensare di unire questo capitolo al successivo, è l'ennesima dimostrazione che finché non scrivo non so affatto prevedere la lunghezza! Comunque, sono contenta così, ancora -1 + epilogo prima di terminare! Mi dispiace per il cliffhanger, ma consolatevi pensando che è l'ultimo...

Il capitolo, come avrete notato, è piuttosto importante e dovrebbe aver chiuso tutti i punti ancora aperti, a parte quelli di Young che si chiariranno nel prossimo. E' stato bello tornare a scrivere di Bellatrix e Voldemort, spero sia piaciuto anche a voi o almeno a chi è loro fan come me! Ho cercato anche di porre rimedio alla questione "orfanotrofio" che qualche anima pia mi aveva fatto notare nelle recensioni, approfittando del fatto che era il nome Saint George ad aver fatto cambiare idea a Bella, più che il posto in sé. E... Non credo di dover aggiungere altro, o se c'era l'avrò dimenticato! Appuntamento alla resa dei conti, dunque, e grazie ai sempre più numerosi lettori!

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Capitolo 33
*** Resa dei conti ***


33


Il tempo sembrò allargarsi, gli istanti diventare ore e Cathy si ritrovò a contare i propri respiri, domandandosi quanti ancora ne sarebbero occorsi prima che accadesse il peggio. Young era affannato, immobile e con la bacchetta tesa in direzione di Rodolphus, rendendogli impossibile qualsiasi tentativo di difesa; l’incursione era stata troppo violenta perché lui potesse prendere qualche precauzione, e il risultato era stato il manifestarsi dei suoi peggiori incubi sotto il tetto della propria casa. Cathy aveva ascoltato innumerevoli volte i suoi avvertimenti su quanto fossero in pericolo, ma mai aveva preso in seria considerazione l’idea. Ora che stava succedendo davvero, che una minaccia di morte piombava impietosa nella loro tranquillità domestica, tutto ciò che riuscì a pensare fu che era tremendamente ingiusto. Rodolphus non era più un Mangiamorte, ma una persona migliore che adesso si prendeva cura di lei senza secondi fini, possibile che Young non lo capisse? Magari il suo tutore si sbagliava, aveva un’immagine dell’ex Auror non corrispondente alla realtà, poiché anche lui era cambiato… E se non era così, allora sarebbe stata Cathy a farlo desistere, spiegando a entrambi che non aveva più senso combattere e che era tempo di abbandonare i vecchi rancori. Sì, si ripeté, lei poteva farcela… Doveva farcela… Ma ai pensieri non corrisposero le azioni, perché tutto ciò che riuscì a fare fu guardare alternativamente i due uomini e lasciarsi paralizzare dalla paura. La voce, così come la forza, sembrava averla abbandonata, rendendola spettatrice di una scena terribile sul cui esito non aveva alcun potere.

Fu Rodolphus a porre fine a quel silenzio, interrompendo la lunga occhiata scambiata con Young per mettersi a ridere. Ridere. Sembrava l’azione meno opportuna in quel momento, ma Cathy non perse tempo a tentare di spiegarsela. Ogni istante era prezioso come l’aria, poteva fare la differenza tra la vita e la morte se fosse servito a distrarre Young dai suoi scopi. Qualunque cosa Rodolphus avesse in mente, Cathy sperò con tutta se stessa che fosse un buon piano.

“Ho una strana sensazione di déjà-vu” disse lui, prendendosi gioco del suo aguzzino. “Dopo tutti questi anni non hai ancora capito che basta bussare?”

Young non rise, né si alterò, ma mantenne lo stesso ghigno soddisfatto che aveva accompagnato la sua entrata in scena. “D’accordo,” replicò, “se è con queste battute che vuoi sprecare i tuoi ultimi momenti, fa’ pure. Ma almeno cerca di sbrigarti”.

“Avevo ragione, quindi. Sei venuto per uccidermi. Niente mezze misure, per un giustiziere come te”.

“E per che cos’altro, allora?” La mano con cui teneva la bacchetta gli tremò impercettibilmente, rivelando per la prima volta un accenno di emotività. “È così che si trattano quelli della tua specie, non certo con un vitto e alloggio gratis ad Azkaban. Quante volte ci sei stato? Almeno un paio, che io ricordi… Sarebbe quasi come riportarti a casa”.

Rodolphus rise ancora, apparentemente incurante delle provocazioni e minacce. Rispose a tono, anzi, proseguendo in quell’assurda battaglia verbale: “E ne sono uscito entrambe le volte, per poi essere l’unico della mia specie ancora in vita a non tornarci mai più. Deve bruciarti proprio tanto, eh? Quanto tempo hai aspettato, quanto ti sei logorato al pensiero che fossi libero?”

“Troppo!” Improvvisamente, Young non scherzava più né fingeva di farlo. La presa sulla bacchetta si fece più salda e Cathy tremò al pensiero che potesse colpire, stancatosi di quel dialogo. Perché diamine Rodolphus reagiva così? Perché non cercava di mostrarsi pentito, di salvarsi la vita?

“Troppo,” ripeté, “ma ogni singolo giorno è stato ben speso, se è servito ad arrivare a questo momento. Vederti qui, inerme a chiedere pietà, mi ripaga ampiamente di tutti gli sforzi. Sei riuscito a scappare molto a lungo, ma la vita ti sta presentando il conto, alla fine”.

“Ah, certo. La morte sarà la conseguenza dei miei crimini terribili e non del fatto che un pazzo mi stia minacciando, è naturale. Ma hai sbagliato qualcosa, nel tuo bel discorso”. Rodolphus fece qualche passo in avanti, tenendo le mani alzate, mostrando che era effettivamente disarmato. “Io non sto affatto chiedendoti pietà”.

Aveva sottolineato l’ultima parola con disgusto, come se ogni altra prospettiva lo ripugnasse meno di quella. Cathy non sapeva se ammirare tanto coraggio o maledirlo, poiché stava solo avvicinando il momento della sua fine. In ogni caso, doveva aspettarsi che uno come il suo tutore non si sarebbe piegato nemmeno in una situazione tanto critica.

“Allora, che cosa stai aspettando?” continuò poi, dal momento che Young era rimasto in silenzio. “Se davvero vuoi uccidermi senza la possibilità di combattere, puoi farlo anche subito. Non servono tante cerimonie, sappiamo entrambi che non sei un uomo d’onore”.

No! Cathy credette di avere urlato, ma la realtà era che l’aveva fatto solo internamente. La strana paralisi di cui era preda non l’aveva ancora abbandonata e, d’altra parte, i due maghi si comportavano come se lei non fosse neppure lì. Ogni secondo era un colpo inferto al suo cuore, ogni parola pronunciata da Rodolphus poteva essere l’ultima; ma il suo dolore era invisibile, non contava niente.

Per fortuna, Young non raccolse l’invito a procedere e continuò a tergiversare, adducendo le sue motivazioni: “Se sei ancora in vita è solo perché sono curioso, Lestrange. Il tuo è stato un piano perfetto, studiato nei minimi dettagli, con ben pochi passi falsi. Certo, ti sei fidato proprio di Percy Weasley, il voltagabbana per eccellenza del Ministero… Poteva essere una buona scelta all’inizio, ma dovevi aspettarti che ti avrebbe tradito alla prima occasione. Quando la notizia della fuga ha iniziato a diffondersi, i suoi nervi non hanno retto, così ha confessato… E i miei contatti si sono preoccupati di informarmi subito, sapendo che sarei arrivato prima della legge e che avrei fatto un lavoro migliore”.

“Beh, sei in ritardo”. Rodolphus esibì un sorriso soddisfatto. “Rabastan è lontano, non riuscirai mai a trovarlo. Neppure io so dove si trovi”.

“Già, infatti. È proprio questa la mia curiosità…” Rimasto immobile fino a quel momento, Young iniziò finalmente a muovere qualche passo intorno al suo nemico, senza abbassare la guardia né accorciare la loro distanza. “Perché sei ancora qui? Hai avuto tutto il tempo per scappare, eppure sei rimasto… Il tuo piano non è concluso? O ti sentivi protetto dai miseri incantesimi che hai posto sulla casa?”

Cathy aveva perso il senso di quel discorso da quando era stato nominato un certo Percy, ma ciò che notò, dopo quell’ultima domanda di Young, fu che Rodolphus si era voltato verso di lei. Fu uno sguardo fulmineo, dal quale non riuscì a capire se avesse paura o le stesse chiedendo aiuto, ma bastò per farla sentire ancor più impotente e codarda. Si chiese quanto tempo fosse passato da quando era arrivata lì… Un’ora, un’ora e mezza? Paciock sarebbe venuto a cercarla, prima che Young scatenasse la sua furia?

“Non sono affari che ti riguardano”. Rodolphus si era rifiutato di rispondere, intanto, concentrando di nuovo l’attenzione sul suo aggressore.

“D’accordo. Se vuoi portare questo segreto nella tomba, fa’ pure. Qualsiasi piano tu avessi in mente, non riuscirai comunque a ultimarlo”.

Seguirono istanti di silenzio teso, durante i quali Cathy temette che non avessero più niente da dirsi e che dunque sarebbero passati all’azione. Stava disperatamente chiedendosi se poteva intervenire quando Rodolphus parlò di nuovo, consapevole che tenere occupato Young era la sua unica speranza.

“Rispondimi tu a una domanda, piuttosto”, lo incalzò. “Come sei riuscito a trovarmi?”

“Ah, questa è una storia interessante. In realtà, ero sulle tue tracce da molto prima che Weasley parlasse, la sua è stata solo una conferma. E devo tutto a lei…” Un altro, fulmineo sguardo di ghiaccio in direzione di Cathy. “La mia giovane studentessa”.

“Che cosa?!” Aveva ritrovato finalmente la voce e le uscì anche piuttosto acuta. Non si aspettava che Young la tirasse in ballo, e poi perché? Se voleva far credere a Rodolphus che era stata lei a tradirlo, poteva tenere per sé le sue bugie, lui non gli avrebbe mai dato retta. Lui si fidava di lei…

“La tengo d’occhio dall’inizio dell’anno, soprattutto da quando ha iniziato a manifestare i suoi strani poteri. Sapevo che poteva essere un pericolo, per sé e per gli altri, così le ho dato qualche consiglio e imposto lezioni extra per limitare le conseguenze. Sembrava stesse funzionando, all’inizio; ma poi, dopo il periodo di Natale, Catherine è cambiata. La sua magia involontaria era di nuovo fuori controllo, ha iniziato a infrangere le regole e a provocare incidenti sempre più gravi fino alla sua fuga da scuola. Tutto questo, sommato al fatto che aveva un tutore dal nome sconosciuto, ha incrementato i miei sospetti. I colleghi mi credevano paranoico, si rifiutavano di dirmi ciò che sapevano di lei, ma il loro comportamento è servito solo ad allungare i tempi delle indagini che hanno finito comunque per darmi ragione. Quando ho saputo che la ragazza avrebbe passato due giorni con Neville Paciock, ho intuito che ne avrebbe approfittato per farti visita, così li ho seguiti. Puoi immaginare la sorpresa, quando le loro tracce mi hanno condotto proprio nella tua vecchia casa… Hai perso il tuo smalto, un tempo saresti stato più originale. In ogni caso, non espellere Catherine è stata la scelta giusta: mi ha fornito l’occasione per arrivare a te”.

“Quindi l’ha fatto solo per questo”. Durante quella lunga spiegazione, Cathy aveva messo da parte la paura per lasciare posto a una rabbia profonda, crescente, che le parole di Young le avevano instillato. Lo guardò negli occhi, senza perdersi il barlume di sorpresa che vi trovò e che ora sapeva a cosa fosse dovuto. “Io pensavo che credesse in me, che volesse darmi una seconda occasione! Invece mi ha solo usata, fin dal primo giorno!”

“Frena la lingua, ragazzina”. Young non tardò a riprendere il suo autocontrollo. “Tutto ciò che ho fatto era per una buona ragione, molto più nobile di quanto tu possa capire. Non sono io il cattivo, in questa stanza; se avessi parlato subito mi avresti risparmiato un sacco di tempo”.

“Non le avrei mai detto niente! Lui non è più quello di prima, è cambiato… Adesso non è un Mangiamorte, è solo il mio tutore. Ed io gli voglio bene”.

Non aveva mai dichiarato qualcosa di tanto forte a Rodolphus, sebbene ci avesse pensato spesso, e ora quella manifestazione di affetto le era scivolata via senza preavviso. Non si preoccupò comunque di averlo fatto, di aver esternato i suoi sentimenti a una persona ancora tanto indecifrabile: poteva essere stata la sua ultima occasione.

“Il tuo tutore, certo. Come dimenticarlo”. Apparentemente insensibile alle emozioni di Cathy, Young proseguì nel suo giro della stanza, come se si divertisse a pregustare la preda prima di mangiarla. “È questo che ti ha detto? Che si prende cura di te perché è una persona onesta e magnanima?”

“Basta, Young. Lei non c’entra niente, tienila fuori da questa storia”.

“Sei tu ad avercela messa, e ora è giusto che sappia!” Si rivolse di nuovo a Cathy, senza smettere di fissare Rodolphus. “Scott, quello che hai davanti è stato ed è tuttora uno dei più pericolosi latitanti in circolazione. Non ha fatto che usarti, molto più di me, per raggiungere i suoi scopi. Ha rivelato le tue presunte origini a un membro del Ministero per ricattarlo e liberare suo fratello dal carcere, ti ha istruita a diventare una strega pericolosa di cui gli altri avrebbero avuto paura… E tutto questo per scappare, piantarti in asso quando non gli fossi più servita”.

“No! Non è vero, si sta inventando tutto”. Young lo stava solo facendo per metterli l’uno contro l’altra, era sicura di questo.

“Oh, invece sì. E in fondo lo sai anche tu, che quest’uomo non è mai cambiato”.

L’amara sicurezza con cui lo diceva le provocò un brivido, nonostante fossero solo bugie. Istintivamente cercò Rodolphus con lo sguardo, ma lui evitò il contatto e tacque. Allora, Cathy chiuse a chiave in un angolo della mente tutti i dubbi che quel silenzio poteva sollevare, convincendosi che doveva esserci una spiegazione e che in ogni caso non era il momento di pensarci.

“Non c’è altro da dire”. La voce ferma e teatrale di Young la riscosse. “Facciamola finita”.

*

L’avrebbe fatto, se un intervento tempestivo e miracoloso non avesse cambiato le sorti di quella giornata. L’avrebbe fatto sul serio, se un esserino dalla voce stridula non gli avesse gridato di fermarsi e lanciato addosso un attrezzo per la potatura. Accadde tutto in pochi istanti: Young, voltatosi indietro per capire chi fosse arrivato, non fece in tempo a schivare il colpo e perse l’equilibrio, restando in piedi a fatica. Dietro il suo corpo chino apparve l’elfa Wolly, artefice di quell’attacco, con il dito puntato contro l’intruso. Rodolphus approfittò di quel momentaneo trambusto per recuperare la sua bacchetta, così che, quando Young ritornò a marcarlo, si fronteggiarono armati.

“Nessuno può entrare in questa casa senza il mio permesso!” gridò ancora Wolly, folle come Cathy non l’aveva mai vista. “Nessuno osa attaccare i miei padroni!”

Young rispose con un ghigno, poi si rivolse a lei mentre le dava le spalle: “Già, dimenticavo la fedeltà incrollabile dell’elfa domestica. Non ti è bastata la lezione di poco fa? Ne vuoi un’altra?”

Wolly aprì la bocca per parlare ancora, ma non vi riuscì: senza neppure voltarsi, Young le lanciò un incantesimo da sopra la spalla e spedì il suo corpicino all’indietro, che poi ricadde sull’erba del giardino. Cathy provò orrore per quell’immagine e automaticamente mosse un passo verso di lei, ma Young le fece cenno di fermarsi. Odiò più che mai il suo professore, ora che, pur di ottenere ciò che voleva, non esitava a ferire una creatura innocente.

“Che cosa le ha fatto?” urlò Cathy, bloccata sul posto dal senso d’impotenza ma decisa a mostrargli quanto era arrabbiata.

“Tranquilla, si riprenderà. Non è la prima volta che noi due ci incontriamo, e non mi riferisco a quando l’ho Schiantata poco fa… Sembra che ormai il tuo tutore si faccia proteggere dalle stesse creature che disprezza”.

“Come al solito fai di tutta l’erba un fascio”. Rodolphus s’intromise, visibilmente più sicuro di sé ora che poteva difendersi. “Wolly è la mia serva ed io mi limito a trattarla come tale, ma tu? Quante volte l’hai torturata in questi anni, nella speranza che ti dicesse dove mi nascondevo? Smettila di fingerti un santo, Cathy sa bene che non lo sei”.

Young aggrottò le sopracciglia, ma non negò l’accusa. Ad ogni nuovo particolare che emergeva, Cathy si sentiva più in collera verso di lui e più vicina all’uomo buono. Era tutto vero, allora, tutto maledettamente vero… Young era un malvagio, un violento e per questo era stato licenziato. Riusciva a nascondere la sua reale natura finché era a scuola, ma in situazioni come quella, essa si ripresentava senza freni. Avrebbe dovuto dare ascolto a Ted fin dall’inizio.

“Ricordo molto bene quei giorni, signore…” Una vocina flebile proveniente dall’esterno li aveva interrotti. “Wolly ha sofferto, ma è fiera di aver difeso la sua famiglia. Wolly la proteggerà anche a costo della vita”.

Anche se era a terra e priva di forze, l’elfa dimostrava una tenacia incrollabile. Indicò con orgoglio la cicatrice che le percorreva un orecchio e di cui Cathy scoprì finalmente la provenienza.

“Sarebbe anche ammirevole, se le persone che difendi non fossero dei criminali senza scrupoli. Mi dispiace, ma non posso avere pietà per chi non sa nemmeno cosa sia”.

Rodolphus scosse la testa e sorrise ancora, schernendolo, come se ogni parola ascoltata fosse priva di senso. “Ti credi tanto migliore di me, Young, ma non lo sei. Che importa contro chi combattiamo? Il valore di un uomo non si misura dai suoi obiettivi, ma da ciò che è disposto a fare per ottenerli”.

“Ah, sì? Scopriamolo, allora”.

Ci fu un nuovo istante di silenzio, carico di una tensione diversa da quella precedente, durante il quale Cathy capì che la lotta stava per cominciare. Non si sbagliava: era difficile dire chi dei due avesse iniziato, ma l’esplosione di luci rosse e verdi che scaturì da entrambe le bacchette non era certo un segnale di resa. In una manciata di secondi, la stanza dapprima tranquilla si trasformò in un vero e proprio teatro di guerra, dove le uniche due parti in gioco si fronteggiavano senza esclusione di colpi.

Cathy provò a seguire con attenzione ogni mossa, ma gli incantesimi viaggiavano più veloci delle sue pupille. Guardando a turno i due uomini, come se stesse assistendo a una partita di tennis, riuscì a riconoscere un tentativo di disarmo, diversi Schiantesimi che entrambi cercavano di lanciarsi e scudi luminosi che dovevano servire da protezione. Per un bel po’, nessuno riuscì a prevaricare sull’altro: erano due maghi molto abili e Cathy iniziò a sperare che quella battaglia finisse in parità. Poi, uno degli incantesimi lanciati da Young mancò il bersaglio e colpì un grosso quadro sulla parete, che iniziò a ondeggiare pericolosamente; la ragazza gli gettò un’occhiata timorosa, poiché si trovava proprio sotto di esso.

“Cathy!” La voce di Rodolphus la chiamò tra un attacco e l’altro, chiara sopra lo stridio dei colpi. “Allontanati da lì!”

Fece istintivamente un passo indietro, ma poi si bloccò. Davvero doveva abbandonarlo al suo destino, solo per mettersi in salvo? Come poteva chiederle questo?

“Non posso lasciare che vi uccidiate a vicenda!” gridò, quindi, pur non sapendo cosa avrebbe fatto per evitarlo. Fu Young a risponderle per primo: “Strano a dirsi, ma questa volta sono d’accordo con Lestrange. Allontanati, Scott, o rischierai di farti male”.

Cathy aggrottò la fronte ma indietreggiò ulteriormente, fino a raggiungere la stanza accanto e accontentarsi di una visione parziale della scena. Non voleva scappare ancora, dimostrarsi la stessa codarda che si era autopunita nella notte piuttosto che soccorrere Eliza, eppure non riusciva a ricordare un solo incantesimo con cui potesse aiutare Rodolphus. In fondo era troppo giovane, non aveva neppure finito il primo anno di scuola e quei due erano di gran lunga più capaci di molti maghi adulti. Il suo unico asso nella manica era il potere sugli elementi, lo stesso che Young disprezzava e che Rodolphus le stava insegnando a controllare, e non era che non l’avesse preso in considerazione, anzi… Ci pensava da quando il suo insegnante aveva messo piede lì, ma poteva davvero azzardarsi a usarlo? Si sentiva ancora troppo inesperta, non voleva rischiare di ferire il suo tutore e in fondo neppure Young, perché lei non era un’assassina. Le serviva solo un diversivo, qualcosa che costringesse quei due a fermarsi… Ma cosa? Anche pensare richiedeva una lucidità che in quel momento scarseggiava, sconfitta dall’ansia sempre in aumento. Ogni secondo che subentrava al precedente poteva rappresentare una svolta e, difatti, uno di quelli la tradì.

Un grido di dolore, tanto acuto da fare male a chi ascolta, le gelò il sangue. Senza più curarsi del pericolo, corse di nuovo incontro alla battaglia per capire cosa fosse successo e urlò a sua volta quando lo scoprì.

Era Rodolphus ad essere in svantaggio, contorto a terra per via del male che Young gli stava infliggendo. La sua bacchetta era abbandonata a più di tre metri di distanza, vicina a colui che l’aveva certamente disarmato. Senza più riflettere e tantomeno provarci, Cathy si avventò sul braccio del professore per farlo smettere, ricevendo in risposta uno strattone che la fece finire a terra. Non riuscì a sottrargli la bacchetta, ma in compenso, quell’attimo di distrazione bastò per porre fine al suo incantesimo e alla sofferenza di Rodolphus. L’uomo rialzò il capo e la guardò, in un muto ringraziamento: aveva gli occhi lucidi.

“Allora, Lestrange, credo proprio che sia ora di arrendersi”. Young perpetuava nelle minacce senza alcuna compassione per il suo dolore, né per quello di Cathy. “O vuoi ancora farti difendere da elfi domestici e ragazzine? Non ti è rimasto più nessuno, ormai”.

Rodolphus sembrava così stanco da non riuscire neanche a parlare, eppure lo fece, raccogliendo tutto il fiato che gli restava: “Potrai anche uccidermi, ma non otterrai quello che vuoi. La tua sete di sangue non ha mai avuto fine e non si placherà con me, né con altri dopo di me. Sei prigioniero del tuo stesso desiderio di vendetta e neppure te ne rendi conto… Dovessi vivere altri cento anni, saranno tutti sprecati”.

Young rispose con un sorriso, uno di quelli crudeli, scoprendo una fila di denti bianchi e perfetti. Cathy si stupì di notarlo solo allora, in un momento tanto critico, quando la sua coscienza si concentrava sui dettagli più insignificanti per estraniarsi dal resto. Poi lo sentì rispondere: “Sei bravo con le parole, devo ammetterlo. Riesci ad apparire come l’unica vittima e far passare me per il cattivo, come se non avessi alcun motivo per fare questo…”

“E perché, ne hai uno?”

La sfrontatezza di Rodolphus sembrava non conoscere limiti, resisteva al dolore fisico e persino alla possibilità di morire. Anche se era a terra, privo di difese, non dava affatto l’impressione di star perdendo. Young raccolse la provocazione e replicò: “Sai benissimo qual è. Liberare questo mondo dal cancro che l’affligge”.

“È quello che dicono tutti gli Auror, solo in maniera meno raffinata. Ma tu sei stato sempre diverso da loro… Eri Young il giustiziere, quello al di sopra della legge. Hai sempre scelto di uccidere, anche quando avresti potuto evitarlo. Se questa non è sete di sangue, allora come la chiami?”

“Vendetta!” Aveva gridato, questa volta, lasciando che la rabbia s’imprimesse sul suo volto e sulle sue mani tremanti. C’era anche qualcosa di nuovo, nella sua espressione, che Cathy non seppe definire. “Sì, Lestrange, la prima parola che hai usato era corretta… Quello che sono, quello che faccio è solo la conseguenza di ciò che ho subito a causa vostra. Sai cosa significa avere una famiglia? Una donna meravigliosa al mio fianco, un bambino con il suo sguardo e il mio sorriso che mi aspettava ogni sera a casa, sul ciglio della porta, perché gli raccontassi una favola sempre diversa?”

Rodolphus serrò la mascella, senza parlare. Non era una domanda che richiedeva una risposta, probabilmente Young stava solo tentando di giustificarsi. Ma ciò che aveva appena detto riportò alla memoria di Cathy una foto in bianco e nero su una scrivania.

“Erano la mia vita, loro. La ragione per cui avevo scelto di combattere la magia oscura, nella speranza di costruire un mondo in cui potessero camminare a testa alta, senza sentirsi inferiori a nessuno. Perché, vedi, nel vocabolario indegno e pregiudizioso di voi Mangiamorte, loro avevano un piccolo ‘difetto’: erano Babbani. Mia moglie non aveva la magia e mio figlio sembrava non aver ereditato alcun potere, per quanto questo fosse raro. Forse, crescendo avrebbe iniziato a manifestarli, ma è una cosa che non saprò mai. Una sera stavo rientrando a casa, più tardi del previsto, e sapevo che lui si sarebbe rifiutato di andare a letto, non prima di ascoltare la storia che gli avevo preparato. Quando vidi la porta chiusa e nessuno ad aspettarmi sui gradini, capii che doveva essere successo qualcosa, ancor prima che le nuvole si diradassero e mi mostrassero l’orribile Marchio stampato nel cielo. Inutile dirti cosa trovai all’interno, lo saprai benissimo… Quell’immagine mi tormenta ancora, tutte le notti, chiudo gli occhi e rivedo i loro corpi martoriati, la mia ragione di vita ridotta a brandelli da quei bastardi. La loro unica colpa era di non avere la magia e di essere la mia famiglia. Evidentemente, questo bastava per condannarli a un destino atroce”.

Quella rivelazione ammutolì tutti i presenti, imprimendo un peso sul loro petto che non erano pronti a ricevere. Cathy comprese finalmente la storia che stava dietro a quella fotografia, all’ossessione di Young per i Mangiamorte, al suo carattere freddo e irremovibile che inquietava gli studenti. Ora che sapeva, riusciva almeno a capire, se non a giustificare la violenza con cui si era accanito sui nemici.

“Mi dispiace”. Rodolphus era serio, adesso, aveva smesso totalmente di provocarlo. “Potrai non crederci, ma è così. Anche se combattevo al lato opposto, so bene cosa significhi perdere qualcuno. Non sapevo di quest’azione e non vi avrei mai preso parte, perché mi sarei rifiutato di toccare un bambino. Dev’essere stato Macnair o Dolohov… Hai sicuramente già avuto la tua vendetta”.

“Quel giorno ho fatto un giuramento, Lestrange. Se non ero riuscito a difendere le persone che amavo, allora avrei fatto di tutto perché nessun altro dovesse subire quella perdita. Avrei eliminato il problema alla radice, senza accontentarmi di punire chi aveva commesso materialmente quell’omicidio, ma distruggendo l’essenza stessa dei Mangiamorte fino all’ultimo rimasto. Anche se questo avesse significato oltrepassare i limiti, mettendo a rischio il mio lavoro; ho mantenuto la promessa fino a oggi”.

“Quindi non servirà a niente dirti che non siamo tutti uguali, che io ho una morale? Mi condanni per essere stato un Mangiamorte e non per quello che ho fatto?” C’era qualcosa di diverso, ora, nel tono di Rodolphus, che attivò in Cathy una sorta di campanello d’allarme: rassegnazione. Era come se le dichiarazioni di Young gli avessero cancellato ogni speranza, quasi sapesse di dover morire comunque. Stava rinunciando a difendersi anche con le parole e questo non le piacque, non le piacque affatto.

“Non parlare come se tu fossi innocente!” Young intanto controbatté, riacquistando la sua rabbia cieca. “Forse non hai ucciso dei bambini, ma hai distrutto molte delle loro famiglie… Pensa ai Paciock! Per quale motivo dovrei tenerti in vita?”

Cathy sussultò nel sentire quel cognome, ma in fondo non ne fu così sorpresa: se Bellatrix aveva fatto del male al suo professore, il marito non poteva essere stato da meno. Questo, però, rendeva difficile pensare che un improvviso arrivo di Neville avrebbe potuto salvare Rodolphus da quella situazione. Young aveva ragione, non gli era rimasto più nessuno…

“Solo uno”. L’uomo intanto sembrava aver trovato qualcosa a cui aggrapparsi. “Perché io ho salvato la tua”.

Fu un altro colpo di scena. Young era evidentemente sorpreso e lo scrutò con occhi curiosi, per capire se mentisse, prima di rispondergli: “E questo cos’è, il tuo asso nella manica? Se è vero, perché non l’ho mai saputo prima?”

“Perché non c’era motivo di dirtelo e probabilmente non mi avresti creduto. È successo molti anni fa, durante l’attacco a Martie Dixon… Barty Crouch ci salvò quel giorno, Schiantandoti prima che potessi uccidere me e Rabastan. Sia lui che mio fratello erano pronti a eliminarti, ma io li convinsi a lasciar perdere. Come vedi, non sono il mostro che hai sempre creduto”.

Young non smise di puntargli contro la bacchetta, ma abbassò appena il braccio prendendo tempo per pensare. Al suo posto, Cathy non avrebbe avuto dubbi: era doveroso risparmiare la vita a qualcuno se questi aveva fatto lo stesso con te, non importava quanti anni fossero passati. Per questo, si chiese perché il suo insegnante non arrivasse alla stessa conclusione e continuasse a tergiversare, negando l’importanza di ciò che aveva appena saputo.

“Non so perché l’hai fatto, ammesso che sia vero” sentenziò poi, dopo la sua lunga riflessione. “Avrai avuto un rimorso di coscienza, sarà stato un caso isolato che mi ha trovato coinvolto per pura fortuna. Ma non puoi negare di aver ucciso molte altre volte, in nome di quel mostro che chiamavi padrone… E come ti ho già detto, non è di me che si tratta. La promessa fatta a mio figlio non prevedeva eccezioni”.

Rialzò la bacchetta, il braccio era teso e aveva del tutto smesso di tremare. Rodolphus chiuse gli occhi, accettando quel destino a cui non poteva più opporsi, forse ripensando a coloro che aveva perso e che avrebbe rivisto oltre la morte. Young iniziò a pronunciare una formula dal sapore terribile, qualcosa che Cathy non aveva ancora ascoltato e che trasportò la sua mente altrove, in un universo dove tanta crudeltà non era ammessa, dove nessuno avrebbe tollerato un finale così ingiusto e un intero popolo si alzava in piedi per gridare “no”. No. NO. NO!

Ma quel grido era davvero solo nella sua testa o qualcuno l’aveva pronunciato davvero? Il dolore la stava portando alla pazzia oppure Young si era veramente fermato, a metà della formula, incredulo davanti a quella scena che gli si presentava davanti? C’era una persona, un’anima innocente e indifesa, che si era frapposta tra l’arma e la vittima usando il proprio corpo come scudo; aveva allargato le braccia con aria distrutta, infuriata, esasperata e stanca, perché non esisteva una sola possibilità in terra di accettare un epilogo simile, anche quando non c’era modo di evitarlo. Solo più tardi, riemergendo da quella dimensione confusa in cui si era rifugiata, Cathy capì che quel qualcuno era lei. Non l’aveva stabilito, non l’aveva neppure pensato, l’aveva fatto e basta. E tutto ciò che continuò a fare e a dire, di lì in avanti, fu frutto della sua parte incosciente, la quale aveva preso il sopravvento nell’istante in cui Rodolphus aveva seriamente rischiato di morire.

“Se vuole uccidere lui, dovrà uccidere prima me” disse una voce a Cathy, che a sua volta la ripeté come un’eco. “Spero che la promessa di vendetta fatta a suo figlio comprendesse anche i ragazzi della mia età, perché altrimenti dovrà infrangerla”.

Non sapeva minimamente da dove le arrivasse tutto quel coraggio, ma di certo la possibilità di affrontare Young non la spaventava. Almeno, non quanto l’idea di poter perdere un’altra persona a lei cara, l’unico adulto oltre Catherine che avesse mai avuto cura di lei. Sostenne con fierezza lo sguardo irritato del professore, sebbene dovesse fissarlo con gli occhi lucidi, e per un istante si domandò se davvero lui avrebbe osato attaccarla.

“Non essere sciocca, ragazzina. Sappiamo entrambi che non ho bisogno di ucciderti per obbligarti a farti da parte. Perciò, spostati di tua volontà e non costringermi a usare la magia”.

“Mai!” rispose ancora una volta d’impulso, senza rifletterci. Improvvisò allo stesso modo tutte le carte che si giocò più avanti. “Faccia quello che vuole, ma prima ci pensi bene. Cosa direbbero di tutto questo le persone che le sono vicine? Ted, Andromeda… Sarebbero fieri di lei?”

Young alzò gli occhi al cielo, seccato, ma forse anche colpito dalla sua irruenza. “Per favore… Tu non sai niente di Andromeda. Noi due condividiamo moltissime cose, prima fra tutte la tragedia che abbiamo alle spalle. Se c’è qualcuno che può capire il mio desiderio di vendetta è proprio lei. E adesso spostati”.

“Lo capirà ugualmente quando lei finirà ad Azkaban?” Cathy proseguì, incurante del secondo invito a farsi da parte. “Perché è questo che succederà, visto che non è autorizzato a uccidere Rodolphus ma solo a catturarlo”.

“Conosco la legge, non serve che una dodicenne me la spieghi. Ma a nessuno importa davvero della vita di quest’uomo e nessuno potrà dire che l’ho ucciso con un atto volontario, un combattimento finito male è una possibilità più che verosimile. E se dovessero comunque arrestarmi, sarei pronto anche a questo… Non ho più niente da perdere”.

“Si sbaglia”.

Cathy non cessò di sfidarlo con gli occhi e quell’ultima frase, così diretta, sembrò farlo tentennare per un breve momento. Ma la realtà era che lui non aveva mai cambiato idea, e lei aveva esaurito ogni possibile argomento per spingerlo a rinunciare. In un lampo di razionalità, capì che non avrebbe esitato a colpirla e che questo andava evitato a tutti i costi, se c’era ancora una minima possibilità di salvare Rodolphus. Così, prima che Young le chiedesse ancora di spostarsi, lo interruppe per domandargli un ultimo atto di carità.

“Mi dia qualche minuto per parlare con lui. Per favore”.

Quella richiesta lo seccò ancora di più, ma la fortuna, o forse un’ultima briciola di misericordia che ancora gli apparteneva, volle che lui non reagisse con un brusco rifiuto. “E sia” le accordò, mentre l’animo di Cathy ricominciava a sperare, “ma vi darò tre minuti. Non uno di più”.

Lo vide arretrare di qualche passo per lasciare loro un momento di intimità, pur non abbassando la bacchetta e tenendo d’occhio quella di Rodolphus che ancora giaceva ai suoi piedi. Era impossibile da raggiungere; così, rassegnata, Cathy concentrò tutta la propria attenzione sul suo tutore.

Si parlarono contemporaneamente: lei gli chiese “Come ti senti?” e lui optò per un molto meno diplomatico “Tu sei pazza!”. Ma non c’era una vera critica nel suo sguardo, piuttosto una malcelata emozione; la stessa che Cathy aveva letto negli occhi di Andromeda quando Ted si era esposto per lei, credendo di salvarla.

“Sono stato meglio, ma riuscirei a riprendermi. Non ha comunque molta importanza, visto che quel bastardo non me lo permetterà”.

“Mi dispiace”. Cathy sentì più che mai le lacrime pungerle gli occhi, ma tentò di ricacciarle indietro. “Se non fossi venuta qui, lui non ti avrebbe mai trovato… Se ti fossi stata a sentire avrei potuto proteggerti meglio, invece…”

“Smettila di darti colpe che non hai. Proteggermi non era una tua responsabilità, toccava soltanto a me stare alla larga dai guai… E sai bene che non merito tanta dedizione da parte tua”.

Quello che aveva allontanato dalla mente poco prima, in attesa di un’occasione migliore per ripensarci, si risvegliò tutto d’un colpo. La rabbia per la rivelazione che Young le aveva fatto non poteva abbandonarla del tutto, ma scoprì che era davvero poca cosa rispetto alla possibilità di perdere Rodolphus.

“Quindi è vero?” gli chiese, non potendo più evitare di parlarne. “Hai fatto tutte quelle cose orribili che ha detto lui?”

“Sì, Cathy” lui confermò, decidendo di non sprecare quegli ultimi minuti con una menzogna. “Ho fatto tutto quello e anche di peggio. Avrei voluto parlartene quando sei arrivata, ma non ce n’è stato il tempo. E adesso non saprei che cosa dirti, se non che mi dispiace… Soprattutto per ciò che dovrai affrontare quando tutti sapranno chi sei davvero. Sapevo a cosa saresti andata incontro, ma questo non mi ha fermato… Volevo che mio fratello fosse libero. Del resto, ti ho sempre detto di non essere un uomo buono”.

Cathy tacque, sconcertata da quella confessione, non tanto per il suo contenuto che poteva comunque aspettarsi quanto per il modo in cui Rodolphus l’aveva pronunciata: chiara e diretta, senza alcuna enfasi, richieste di perdono o rancori repressi. Stava semplicemente ammettendo la realtà, ora che la sua fine era vicina e non gli restava altro da fare; e lei sapeva che, in un mondo normale, avrebbe dovuto infuriarsi e lasciarlo al suo meritato destino.

Però, quello era tutto fuorché un mondo normale. Non c’era niente di ordinario nel modo in cui Young era piombato in quella casa, con le sue cieche pretese di vendetta, né nel fatto che dovesse essere lui a punire Rodolphus per le sue colpe. Qualcosa non tornava nel quadro, Cathy lo percepiva, e nonostante le nuove informazioni ricevute non riusciva davvero a odiare il suo tutore. Poi, d’un tratto, capì perché.

“Però non sei scappato” asserì, realizzando l’importanza di quel dettaglio. “Avresti potuto andartene con tuo fratello e abbandonarmi, ma non l’hai fatto. Questo varrà pure qualcosa”.

“È stata l’unica cosa che ho fatto davvero per te. Un po’ poco, non credi?”

“Beh, è un inizio”. Piantò gli occhi in quelli nocciola di lui e, miracolosamente, riuscì anche a sorridergli. “La prova che non mi sbagliavo e che sei davvero un uomo buono, fai solo fatica ad ammetterlo”.

Rodolphus sorrise con lei, anche se quel sorriso si tramutò presto in una smorfia di dolore. Vedendolo ripiegarsi su se stesso per le conseguenze dei colpi ricevuti, Cathy allungò una mano nel desiderio di aiutarlo, ma lui la respinse con dolcezza. Aveva chiaramente perso ogni speranza, mentre il primo minuto concesso da Young era volato via con una velocità disarmante.

“Cathy, prima che tutto finisca, c’è ancora una cosa che voglio dirti. Non so come tu abbia fatto a vedere il mio lato migliore quando io stesso non ero più in grado di riconoscerlo, ma sappi che ti ringrazio di averlo fatto. Hai riportato a galla il ricordo di ciò che ero molti anni fa e, se adesso me ne andrò in pace, è solo merito tuo. Sei stata l’unica a credere davvero in me, nonostante ti trattassi come una ragazzina non dovrebbe mai essere trattata, lasciandomi accecare dalla rabbia per chi ti aveva generata e rifiutandomi di guardare oltre, alla persona che realmente eri. Ho creduto per molto tempo che fossi simile a tua madre, ma mi sbagliavo: lei non avrebbe mai fatto per me ciò che tu hai fatto oggi”.

Trattenere ancora le lacrime fu impossibile, dopo aver ascoltato quelle parole. Cathy non si sarebbe mai aspettata di sentirle, soprattutto non da Rodolphus, la persona più chiusa e fredda che avesse conosciuto. Eppure, in quel momento sospeso tra la vita e la morte, riuscì a farla sentire più importante di quanto altri avessero fatto in una decina d’anni.

“Signore…” biascicò, senza sapere come continuare, “Io…”

“Chiamami Rod” la interruppe lui. “È così che mi chiamava lei. E stando alla situazione attuale, direi che possiamo eliminare i formalismi”.

Era incredibile come ancora riuscisse a ironizzare in un momento del genere. Con la coda dell’occhio, Cathy percepì i movimenti sempre più irrequieti di Young e comprese che non restava ormai molto tempo. Un minuto, forse, e tutto sarebbe giunto a conclusione. Doveva trovare il modo migliore per non sprecarlo…

“Rod” esordì, in un tono improvvisamente concitato, “dimmi se c’è qualcosa che posso fare. Qualsiasi cosa, io ti aiuterò! Non voglio lasciare che ti uccida!”

“Cathy, so che hai le migliori intenzioni e anche un certo spirito combattivo, ma potrebbe non bastare. Young è uno dei maghi più abili che conosca”.

“Però potrei anche avere fortuna! Avanti, dimmelo… Dev’esserci qualcosa!”

Rodolphus assunse un’espressione concentrata, valutando finalmente la proposta di Cathy. Fu un attimo, e qualcosa si riaccese nel suo sguardo rassegnato: la luce di una speranza nuova, di una possibilità concreta.

“Forse… Potresti tentare con i tuoi poteri. Basterebbe poco, il tempo necessario per allontanare Young, recuperare la mia bacchetta e Smaterializzarmi. Te la senti di provare?”

L’adrenalina si mescolò con la paura, ora che l’idea a cui aveva pensato si stava rivelando l’unica fattibile. Era una responsabilità enorme, doversi affidare alla sua magia instabile per salvare un uomo… Non era affatto certa di riuscirci.

“Io non lo so… Non so ancora controllare i miei poteri, ho paura di sbagliare. E poi non sono abbastanza arrabbiata, potrei non riuscire a far muovere neanche un filo di vento…”

“Non è un po’ di vento o pioggia che ci serve, Cathy, ma qualcosa di molto più grosso. E il solo modo che hai per riuscirci è usare la bacchetta”.

Cathy non credé alle proprie orecchie. Le stava davvero proponendo di fare qualcosa che non le era mai riuscito durante i loro allenamenti? Quello con cui si scontrava ogni giorno da quando aveva iniziato la scuola?

“So che sarebbe la prima volta, ma sono certo che ne sei in grado” la precedette Rodolphus, prima che lei potesse esprimere il suo sconcerto. “Cathy, ascoltami… Posso averlo fatto per i miei interessi, ma tutto ciò che ti ho detto è vero. Tu hai un enorme potenziale che non può sprecarsi con incantesimi involontari di poco conto, devi incanalarlo nella bacchetta e sottometterlo alla tua volontà! Non c’è strumento più importante per un mago e non è un caso che il tuo si sia rivelato così speciale… Devi solo avere fiducia in te stessa. Credere di poter riuscire è il primo passo verso la vittoria”.

Sembrava davvero sicuro delle sue capacità, molto più di quanto non fosse lei. Per questo decise che, convinta o meno, ci avrebbe provato: era la sua unica speranza e gli doveva almeno quel tentativo.

“Ok, lo farò” rispose velocemente. I secondi scorrevano rapidi e le sembrava di sentirli ticchettare nella propria testa, come lancette di un orologio. “Ma se davvero ci riusciremo, tu che cosa farai? Te ne andrai per sempre?”

Rodolphus abbassò il capo, apparendo realmente dispiaciuto. “Non posso mantenere la promessa di restarti vicino, anche se lo vorrei. Ma non sarai sola ad affrontare quello che verrà… Hai ancora una zia, Narcissa, su cui puoi fare affidamento. Non sa ancora della tua esistenza, troverò il modo di comunicarglielo e allora non ho dubbi che si prenderà cura di te. Ed io… Cercherò di tornare, se un giorno mi sarà possibile”.

Cathy annuì, sapendo che quella separazione le avrebbe fatto male ma anche che, al momento, era l’alternativa più auspicabile. Non ebbe tempo di dire altro o di prepararsi ad attaccare: Young avanzò, con passo spedito, avvertendoli che il loro tempo era scaduto.

*

Pensò a tante cose, nei frammenti di un secondo che separarono l’inattività dall’azione. A Rodolphus e i suoi insegnamenti, nel vicolo squallido di Notturn Alley in cui aveva imparato ad essere una strega; a Eliza, che era stata la prima a dirle come concentrarsi e credere in se stessa, dimostrandosi l’amica migliore che potesse avere; a Ted, con la sua determinazione mista a testardaggine che l’aveva condotto nelle avventure più impervie, e della cui forza avrebbe avuto ora un disperato bisogno; a Young, il suo professore, che ormai era diventato il nemico da affrontare con gli stessi mezzi che aveva cercato di reprimere. Qualsiasi fosse stato l’esito di quel tentativo, Cathy poteva affermare con assoluta certezza di essere nel giusto: perché, come diceva Evan, l’unica cosa sbagliata era uccidere, che lo facesse un Mangiamorte come un ex Auror.

Chiuse gli occhi, dopo essersi alzata in piedi e aver estratto la bacchetta contro Young. Immaginò una tempesta, un turbinio di vento impetuoso come le emozioni che aveva dentro, l’unico appiglio a cui aggrapparsi per sperare di riuscire. E benché non l’avesse mai fatto prima, benché quella stessa bacchetta l’avesse tradita innumerevoli volte, in quell’occasione non fallì: il sibilo del vento raggiunse le sue orecchie prima di ogni altro rumore, poi riaprì gli occhi e vide la figura dell’uomo spinta indietro da un potente vortice, fino a ricadere nello stesso giardino dove Wolly era rimasta inerte. Si voltò giusto in tempo per scoprire che anche Rodolphus era riuscito nel suo intento, recuperando la bacchetta e preparandosi a fuggire; mentre girava su se stesso per Smaterializzarsi, sembrò quasi che la stesse salutando.

*

Young non impiegò molto tempo a riprendersi dal colpo. Si massaggiò la nuca con una smorfia di dolore, si concentrò per mettere a fuoco la scena e infine tornò in piedi. Cathy, che quasi inconsapevolmente era uscita per controllare il suo stato di salute, poté leggergli negli occhi l’amara comprensione di ciò che era successo e la conseguente delusione, che si tramutò in rabbia non appena posò lo sguardo su di lei. Fu investita dalle sue parole ancor prima che dal suo corpo, quando, con incredibile agilità, le si avventò addosso bloccandola al muro.

“Tu! Stupida, maledetta ragazzina!”

Paralizzata dalla paura, oltre che dalle sue mani che la tenevano per il bavero della camicia, Cathy non riuscì a parlare né a difendersi. Era stata così concentrata su ciò che doveva fare da non pensare alle conseguenze, come appunto la furia di Young che, in mancanza del suo primo obiettivo, si sarebbe scatenata su di lei.

“Ti rendi conto di quello che hai fatto? Hai aiutato un delinquente a scappare! Sei esattamente come lui, una piccola strega oscura senza rispetto per nessuno!”

“Basta, Albert!” Una nuova voce perentoria lo interruppe. “Lasciala stare”.

Young si voltò per scoprire chi era il nuovo arrivato, a Cathy bastò alzare lo sguardo per saperlo: Neville Paciock, il suo salvatore. Non l’aveva mai visto così arrabbiato e tanta fermezza quasi la spaventò, nonostante sapesse che era lì per difenderla. Lo stesso effetto dové subirlo Young, poiché, anche se di malavoglia, la lasciò andare. Fu raggiunta subito dopo da Paciock, che le circondò le spalle in un gesto protettivo.

“Che stavi facendo, ti ha dato di volta il cervello?” La domanda era chiaramente per Young, il quale strinse le labbra in risposta. Paciock diede poi un’occhiata al lato distrutto della casa e aggiunse: “Cos’è successo qui? Cathy, dov’è il tuo tutore?”

“Andato”. Young rispose per lei, lasciando cadere le braccia con fare esasperato. “E tutto per colpa di questa povera, innocente fanciulla. Anni di ricerche e sacrifici buttati via in un secondo!”

“Oh, la smetta!” Resa forte dalla presenza di Paciock, Cathy aveva gridato, lasciando entrambi gli uomini piuttosto basiti. “Non mi pentirò mai di averlo salvato, era la cosa giusta da fare! Se c’è qualcuno qui che non ha rispetto per nessuno, è proprio lei!”

“Da quando osi parlarmi in questo modo?”

“Da quando ha minacciato una persona a cui voglio bene! E sa che le dico, lui aveva ragione… La sua vita sarà uno spreco se continuerà a desiderare vendetta, invece di dedicarsi a chi ha vicino!”

Young non replicò e forse non la stava nemmeno ascoltando, era più concentrato sui suoi occhi che – Cathy ne era certa – dovevano ormai essere rossi come il fuoco. Paciock approfittò di quella breve pausa per fermare la diatriba, ordinando: “Adesso vediamo di calmarci, tutti e due. Qualunque cosa sia successa, Albert, possiamo parlarne in privato tra persone adulte. L’importante è che nessuno si sia fatto male”.

Young non ascoltò nemmeno lui. Perso in quelle pupille scarlatte che testimoniavano una realtà innegabile, abbassò i toni e mormorò, più a se stesso che a Cathy: “Allora è vero. Quella di Lestrange non era un’invenzione malata, sei veramente figlia di quel mostro. Ho tanta pena per te, Scott… I tuoi poteri diabolici sono solo la punta dell’iceberg rispetto a ciò che dovrai affrontare”.

Non si sarebbe fatta intimorire da lui, per quanto le sue parole fossero allarmanti. Incrociò le braccia e sostenne la sfida, senza dargli la soddisfazione di titubare. Fu Paciock, ancora una volta, a intromettersi.

“I genitori di Cathy non hanno alcuna importanza, né alcun legame con ciò che lei è oggi. E se dovrà attraversare momenti difficili, la scuola le sarà accanto, perché è questo che i professori fanno: seguono la crescita dei loro alunni e li aiutano a trovare la giusta strada”. Sospinse leggermente Cathy in direzione opposta alla casa, invitandola a lasciare quel luogo. Poi, dopo aver sorpassato Young, si voltò di nuovo indietro e aggiunse: “Ah, a proposito… Se per caso stavi progettando di espellere questa ragazza, qualsiasi motivo avessi in mente per farlo, lascia stare. Finché sarò a Hogwarts, farò di tutto perché lei completi il suo percorso di studi e credimi, Albert, ci riuscirò. Parola di Neville Paciock”.

Quelle ultime frasi zittirono definitivamente Young, al quale non restò che seguirli a capo chino verso l’uscita. Se solo non fosse stato il momento meno adatto, Cathy avrebbe fatto una standing ovation al professor Paciock, che con poche parole aveva ripagato se stesso e decine di studenti da un anno di prepotenze. Ma aveva ancora sul cuore il peso di tutto ciò che era accaduto, la rabbia e la paura di poter perdere Rodolphus, e sopra ogni cosa il dolore per averlo perso comunque. Eppure, mentre camminava, senza che la mano di Paciock le avesse lasciato la spalla neanche per un attimo, scoprì di provare anche una beata sensazione di sollievo: era davvero finita.


Note

Ebbene sì, è davvero finita... Ma trattenete le lacrime, c'è ancora un epilogo che concluderà la storia e avrà un'atmosfera molto più leggera di questa. Intanto, cosa ne pensate? Spero vi sia piaciuta la fine della vicenda, era quella che avevo in mente da sempre e non è mai cambiata. Sono un tipo da happy ending, dunque non ci si poteva aspettare nulla di tragico (visto anche il rating verde), ma mi auguro che non sia neppure troppo smielato o scontato. Quello che volevo far emergere, in questo capitolo più degli altri, è quanto sia difficile scindere tra buoni e cattivi quando ci sono in ballo sentimenti e drammi così intensi, come appunto nel caso di Young. Sia lui che Rodolphus hanno un passato doloroso alle spalle e hanno commesso molti errori, ma, mentre il secondo ha finalmente capito qual è la strada da seguire, il primo fa ancora fatica a rinunciare alla vendetta. Altra nota: il fatto che Rodolphus abbia salvato la vita di Young quando erano giovani è riportato nella one-shot "Il prezzo di una vita", dove potete trovare tutti i dettagli del caso.

Beh, a questo punto, vi aspetto per il vero finale! Seguiranno tanti ringraziamenti (perché ve li meritate), un rinfresco per tutti gli invitati e per finire un piccolo tease (lo scrivo in inglese perché non conosco una traduzione che renda l'idea!). Baci e abbracci a tutti!

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Capitolo 34
*** Epilogo ***


34


L’ultimo giorno di scuola è speciale per qualsiasi studente. Non importa che si tratti di bambini, ragazzi ordinari di un college o giovani maghi e streghe: quando gli esami finiscono, lo stress diventa un lontano ricordo e si avvicina il momento dei saluti, passare insieme le ultime ore è quasi un obbligo a cui nessuno vuole sottrarsi. In assenza di impegni che gravano sulle spalle, i ritmi rallentati dell’estate invadono le mura dell’edificio e coinvolgono ogni suo occupante, permettendogli di godere solo del meglio della scuola. A Hogwarts, quel giorno non era diverso, e ogni studente aveva voluto trascorrerlo nella maniera che preferiva: c’era chi si crogiolava sulle rive del lago nero, chi si riuniva per l’ultima volta in sala comune, chi scorrazzava liberamente per il castello o i giardini; Catherine Scott e Ted Lupin avevano scelto la Torre di Astronomia.

C’era un che di pacifico nello stare sdraiati lassù, fianco a fianco, con le braccia incrociate sotto la testa, a parlare di tutto e di niente guardando il cielo. Il tepore del sole scaldava piacevolmente la pelle, piccole nuvole bianche e gradevoli alla vista si muovevano nell’azzurro terso. Era una tranquillità che anticipava le vacanze imminenti, il meritato riposo a cui due ragazzi, che avevano affrontato molto più del semplice studio, avevano pienamente diritto.

“Ci pensi che domani saremo a casa?” chiese Teddy per la seconda o terza volta, cambiando solo i termini e l’intonazione. “Sembra passata una vita da quando siamo arrivati!”

“Già,” concordò Cathy, seguendo con il dito il profilo di una nuvola che assomigliava a un lupo, “sono successe così tante cose…”

“Sì, e quella più pazzesca è che adesso siamo amici. Se me l’avessero detto il primo settembre, gli avrei tirato un pugno”.

“Come questo?” Il dito impegnato in quella poetica attività tornò a chiudersi con il resto nella mano, mettendo in pratica ciò che Ted stesso aveva suggerito. Il ragazzo esclamò un sonoro “ahi” proteggendosi lo stomaco, ma sapevano entrambi che non si era fatto male.

“Sei matta?!”

“È quello che ti meriti. Non sono cambiate proprio tutte le cose, sicuramente non le tue battutine idiote!”

Cathy gli tenne il muso solo per pochi secondi, prima di mettersi a ridere. Ted la seguì a ruota.

“Andiamo, so bene che è cambiato molto di più… Volevo solo sdrammatizzare”.

“Sì, lo so”.

Un velo di malinconia tornò a coprirle la mente, ovattando appena la gioia di quel pomeriggio. Dal maledetto giorno in cui Young era arrivato a villa Lestrange e aveva costretto Rodolphus a scappare, Cathy aveva cercato in tutti i modi, dopo un pianto liberatorio seguito da un lungo sonno, di non pensare più all’accaduto. Definirlo difficile sarebbe stato un eufemismo, ma sapeva di dover tentare se non voleva che la rabbia e il dolore la sopraffacessero. Per sentirsi meglio, si convinceva che il suo tutore era in grado di cavarsela e per questo era senz’altro al sicuro, nascosto nei luoghi più remoti della terra in attesa che la situazione si stabilizzasse. Lei non poteva aiutarlo, doveva soltanto fidarsi di lui e credere che presto sarebbe tornato; nell’attesa, cercare di mettere a posto la sua complicata vita e ricordarsi di essere una studentessa, con ancora un mucchio di compiti da recuperare.

Forse, la sua determinazione l’aveva salvata o si era trattato di un miracolo, ma era riuscita a prepararsi in tempo per gli esami. Non solo: li aveva superati tutti e con voti accettabili, quando non addirittura buoni. Concentrarsi sullo studio era stato il miglior modo per distrarsi dal resto, soprattutto quando uno dei suoi professori era ancora Albert Young, con il quale aveva iniziato una guerra fredda fatta di sole frasi inerenti alla materia. L’intera vicenda che li aveva resi protagonisti era passata sotto silenzio, persino la fuga dal carcere di un ex Mangiamorte era stata relegata a un trafiletto della Gazzetta del Profeta. Maggie Thompson e suo fratello sostenevano che il Ministero si vergognasse dell’accaduto, poiché era stata la negligenza di un loro funzionario a causare quell’evasione, fatta passare per “grave fatalità”. Neppure loro, però, potevano sapere cosa c’era davvero dietro quella notizia; Cathy sospettava che Paciock avesse stretto un accordo con Young, non facendo parola dell’accaduto in cambio del suo silenzio su lei e Rodolphus. Questo, se da una parte le faceva rabbia perché Young sarebbe rimasto impunito, dall’altra la tranquillizzava sulla propria situazione, che era senz’altro più gestibile finché le persone a conoscenza delle sue origini restavano limitate. Non voleva ammetterlo, ma era preoccupata; anche se i suoi amici più stretti avevano accettato la cosa, non era detto che per il resto dell’Inghilterra sarebbe stato lo stesso.

“Adesso cosa farai, tornerai in orfanotrofio?”

La domanda di Ted la riscosse dai suoi pensieri e lei fu ben felice di spostare l’attenzione su altro. “Sì,” gli rispose, serena, “non ho un altro posto dove andare. Ma non sarà un problema, vivo lì da sempre e ci sono abituata. Oltretutto, non posso continuare a evitare Catherine”.

Era vero, l’aveva realizzato proprio negli ultimi mesi. Una mattina in cui un gufo le aveva consegnato l’ennesima lettera della sua educatrice, lei l’aveva letta e, invece di riporla come faceva di solito, l’aveva voltata per scriverci su una risposta. Poche righe, per aggiornarla sulle novità della scuola, che però avevano aperto un primo spiraglio nella barriera eretta tra loro. Come molte altre cose, anche i suoi sentimenti nei confronti di Catherine stavano cambiando con il tempo e, per quanto odiasse ammetterlo, iniziava a sentirne la mancanza. Costretta, in assenza di Rodolphus, a tornare in orfanotrofio per l’estate, preferiva farlo bendisposta e non sul piede di guerra. Anche se non riusciva ancora a perdonare Catherine, doveva quantomeno autorizzarsi a farlo.

“Io invece tornerò a farmi bersagliare dalla nonna,” riprese intanto Ted, molto più affranto, “sperando che abbia smesso con i suoi tentativi di farsi ammazzare. E ancora di più, spero di non beccarla in casa mentre si sbaciucchia con quell’individuo… Bleah!”

“Quell’individuo?” Cathy si voltò a guardarlo confusa. Teddy si grattò la testa con aria imbarazzata.

“Sì, beh… Alla fine avevi ragione tu. Su lei e Young. Stanno insieme, me l’ha fatto sapere nell’ultima lettera… Era tutta ingarbugliata, ma il messaggio di fondo si capiva benissimo. Me lo ritroverò intorno per tutta l’estate, ti rendi conto?”

“No! Davvero?” Sconvolta dalla notizia, Cathy si alzò a sedere, trattenendo l’impulso di ridere.

“Già… Suppongo che dovrò farci l’abitudine. Quando mia nonna si mette in testa qualcosa, non c’è verso di farle cambiare idea”.

“Beh, da qualcuno dovevi aver preso!”

Ted le lanciò un’occhiataccia, ma Cathy ne rifuggì tornando a distendersi. Si rallegrò al pensiero di ciò che tutto quello significava: in qualche modo, Young aveva ascoltato il suo consiglio di dedicarsi agli affetti e mettere da parte la vendetta. Forse c’era ancora speranza per lui, dopotutto.

“Comunque ci rivedremo presto. Maggie ha detto che pretende di averci tutti a pranzo una domenica e non penso che qualcuno oserà rifiutare, immagina che effetto avrebbero le sue lamentele sulle nostre povere orecchie… Ci sarai anche tu, vero? ”

L’aveva domandato in tono speranzoso, il che migliorò ancora l’umore di Cathy. Era sempre felice di passare del tempo con Teddy, soprattutto quando lui mostrava di apprezzare la sua compagnia. “Sì,” rispose, “non credo ci saranno problemi”.

“Fantastico! Così avremo tutti i Grifondoro riuniti prima dell’inizio della scuola. Ehi, a proposito…” Si alzò di scatto una seconda volta, colpito da un pensiero improvviso. “Non mi hai ancora detto quale Casa hai scelto! Ma è la nostra, scommetto… Siamo i migliori, abbiamo anche vinto la Coppa del Quidditch!”

Cathy sorrise. In effetti, proprio quella mattina aveva comunicato la sua decisione alla McGranitt. Scelse comunque di tenerlo sulle spine ancora un po’, lo trovava divertente.

“Però abbiamo perso la Coppa delle Case” puntualizzò, evitando di rispondere.

“Oh, solo perché siamo stati battuti dai Corvonero! Sempre colpa di Young, li ha terrorizzati così tanto da renderli più secchioni del solito. E comunque, i Serpeverde sono arrivati terzi”.

Cathy tacque, sfruttando una pausa a effetto. Con la coda dell’occhio notò l’impazienza di Ted, che faceva del suo meglio per non apparire curioso ma falliva miseramente.

“Beh?” esordì infatti, non più di dieci secondi dopo. “Devo chiedertelo un’altra volta?”

Cathy decise che era arrivato il momento, così si sollevò per accostarsi a lui, scrollando le spalle. “Che dirti… Non mi sono mai piaciuti molto i sotterranei, quindi credo di aver scelto Grifondoro”.

“Grande!” Ted strinse il pugno in segno di vittoria, dando libero sfogo alla sua esultanza. Cathy sapeva che ne sarebbe stato felice.

“Spero solo che Evan non ci resti troppo male. È mio amico e avrebbe voluto che restassi con i Serpeverde, ma quella non è mai stata la Casa giusta per me. Anzi, adesso che me ne rendo conto, avevo già scelto Grifondoro nel momento in cui vi ho conosciuti”.

Sorrisero entrambi, passando ora dallo scherzo a una più dolce complicità. Poi, Ted la sorprese ancora, aggiungendo: “Se è veramente tuo amico, lo capirà”.

“Sì, forse hai ragione”. Un tempo, il ragazzo non avrebbe perso occasione per inveire contro un Serpeverde non appena lo sentiva nominare, e questa sua reazione era una conferma di quanto le cose fossero cambiate.

“Comunque, ho deciso anche un’altra cosa!”

“Eh?” Ted sgranò gli occhi sconvolto. “Due decisioni nello stesso giorno, tu? Vuoi farmi venire un infarto?”

“Ah-ah. Prendimi pure in giro, ma è una scelta seria. Tu hai detto che da grande vuoi diventare un Auror perché è il mestiere più importante, giusto? Beh, io ne farò uno che lo è ancora di più! Un lavoro senza il quale non esisterebbero tutti gli altri!”

Ted si mostrò ancora più perplesso, proprio come Cathy si aspettava. Ma lei credeva davvero in quella scelta, aveva iniziato a ponderarla da tempo e negli ultimi mesi, dopo quel famoso scontro in villa, era diventata definitiva.

“Non ci arrivi proprio, eh? Ok, te lo dico: voglio diventare una fabbricante di bacchette!”

Oltre agli occhi, ora Ted spalancò anche la bocca, ma il seguito non fu come Cathy se l’era immaginato. Il suo amico, infatti, scoppiò a ridere fino al punto di tenersi la pancia, incapace di controllare le sue reazioni. E il peggio fu che non stava cercando di prenderla in giro, era sinceramente divertito.

“Smettila di fare così!” gli gridò, tirandogli un altro pugno. “Che ho detto di sbagliato stavolta? Senza un fabbricante non ci sono bacchette, e senza bacchette non ci sono né maghi né streghe!”

“Sì, sì… Lo so…” A poco a poco, Ted riemerse dal suo stato d’ilarità, pur con evidente fatica. “Ma non è questo il punto. Non si diventa fabbricanti da un giorno all’altro, non esiste neppure una scuola per imparare il mestiere! Ce ne sono pochissimi in giro e si tramandano l’attività di padre in figlio, come gli Olivander. Saresti una delle rare eccezioni al mondo, se non l’unica”.

“Ah”. Accidenti, quella proprio non ci voleva. Ma non si perse d’animo, ormai era troppo convinta della sua scelta, così replicò: “Be’, allora vorrà dire che romperò questa tradizione. Una volta finita la scuola, mi proporrò come apprendista di Olivander e imparerò dai migliori maestri in persona! Che ne pensi?”

“Sinceramente?” Lo sguardo scettico di Ted suggeriva già tutto. “Penso che è una follia. Ma sono contento che hai finalmente imparato a fare delle scelte, persino una così difficile. Ti servirà, nella vita”.

“Grazie, uomo d’esperienza!”

Ridacchiarono entrambi, quella volta, tornando poi a godere della reciproca compagnia senza necessità di parlare. Prima che se ne accorgessero, il sole iniziò a calare e avvertirono qualche brivido di freddo; Ted propose per primo quella che era l’alternativa più ovvia.

“Che dici, rientriamo? I ragazzi degli altri anni hanno organizzato una festa in sala comune, ci sarà da divertirsi!”

“Sì, ok. Vai pure, io arrivo tra due minuti”.

Il ragazzo acconsentì, alzandosi e avviandosi per primo giù dalla torre. Non c’era una ragione particolare per cui Cathy aveva voluto restare sola, le andava semplicemente di chiudere gli occhi e salutare gli ultimi raggi di quella giornata perfetta. Allo scadere dei due minuti si alzò, dando una scrollata ai vestiti, e imboccò la stessa strada percorsa da Ted. Fu allora che la vide: nello spazio tra due mattonelle incrinate si era formata una piccola conca, ancora ripiena d’acqua dopo la pioggerella di quella mattina. Il pensiero che allora le attraversò la mente fu repentino, indesiderato, probabilmente il più sbagliato che potesse fare; cercò di andare avanti e toglierselo dalla testa, ma non vi riuscì. Sapeva che i suoi poteri, per quanto le fossero stati d’aiuto con Rodolphus, erano ancora pericolosi e andavano tenuti a bada, poiché avevano ferito Eliza e avrebbero potuto farlo ancora. Sapeva, ormai, di riuscire a controllare sempre meglio la propria bacchetta e che avrebbe dovuto utilizzare quella, solo quella, per gli incantesimi. Ne comprendeva pienamente l’importanza, altrimenti non avrebbe scelto proprio le bacchette come lavoro futuro. Eppure, tutto questo non bastò per liberarla da quella malsana idea; voleva provarci, scoprire se ne era ancora in grado.

Sarà l’ultima volta, si disse, mentre allungava la mano sulla conca con il palmo rivolto verso il basso. In un primo momento non accadde nulla, e Cathy si preparò mentalmente alla possibilità che non funzionasse più; ma poi, piccoli centri concentrici iniziarono ad allargarsi sulla superficie, sempre di più e sempre più veloci, come se nell’acqua fosse stato lanciato un sassolino. La gioia accumulata quel giorno aveva fatto effetto, regalandole un nuovo assaggio della sua prodigiosa magia. Restò a guardare le onde per qualche secondo e un sorriso, spontaneo, le affiorò sulle labbra: tutto sommato, ci riusciva ancora.


FINE


Note & Ringraziamenti

Ebbene, siamo arrivati. Ho messo davvero la parola "fine" a questa storia, dopo 3 anni e mezzo, ma credo di non averlo ancora realizzato pienamente, visto che non sono piombata nel senso di vuoto e disperazione tipico del "e che cosa farò adesso?" che mi aspettavo. Senza dubbio però mi fa strano non dover più scrivere nuovi capitoli e so che i personaggi mi mancheranno da morire, anche se non nego una certa soddisfazione nell'aver completato per la prima volta una storia tanto lunga. Spero vi sia piaciuto l'epilogo, è una breve conclusione ai piccoli punti lasciati aperti come la famosa scelta della Casa. L'unico particolare che potrebbe stupire è l'ultimissima scena, ma ho voluto inserirla per mostrare come, nonostante Cathy abbia ormai scelto la luce, la tentazione di ricadere nell'oscurità sarà sempre presente nella sua vita (in fondo ce l'ha nel sangue!) e dovrà conviverci ogni giorno.

Beh, detto questo, passiamo al piccolo tease che vi avevo promesso. Siete pronti? *rullo di tamburi* C'è una possibilità, piccolina piccolina, (ma prendetela proprio come tale!) che in futuro scriva un seguito di questa storia. In tempi brevi non se ne parla per varie ragioni, tipo il fatto che la mia ispirazione si è al momento spostata altrove e soprattutto che non c'è ancora una trama definita, solo piccoli dettagli qui e lì che potrebbero eventualmente formarla. Quello che posso dirvi è che ci sarebbero i Malfoy, un nuovo nemico in vista e la solita buona dose di misteri. Alcuni particolari che ho inserito nei capitoli precedenti e potevano sembrare casuali in realtà non lo erano - tipo il fatto che Ginny stesse poco bene e l'articolo di giornale letto da Neville - ma si ricollegherebbero a questo possibile seguito. Mi piacerebbe davvero tanto scriverlo, perché sento che questi personaggi hanno ancora molto da raccontare e nuove avventure da vivere, ma ovviamente si dovrà vedere se la mia fantasia ne è in grado o si è esaurita tutta per questa storia..! Se voleste essere informati nel caso la scrivessi, fatemelo sapere ;)

E adesso veniamo al punto a cui tengo particolarmente, i ringraziamenti. Su questo sito si parla tanto dello scrivere per se stessi o per gli altri, sull'importanza delle recensioni e delle visite, e ho letto negli anni le opinioni più svariate, perciò vorrei approfittare di questo spazio per dire la mia. Io scrivo per me stessa, perché mi piace e mi fa stare bene, tant'è che lo faccio da molto prima che esistesse EFP o si usasse Internet in generale; però pubblico per gli altri, perché se non mi interessassero le letture e opinioni altrui non perderei tempo e fatica ad aggiungere l'html e cercare di perfezionare il lavoro il più possibile, lo terrei nel mio hard disk e tanti saluti. Scrivere è bellissimo, ma far arrivare le proprie idee a qualcuno che sa apprezzarle, criticarle o comunque ampliarle con le sue opinioni è assolutamente fantastico. Non solo: se non avessi pubblicato qui la storia e ricevuto una così bella accoglienza da parte vostra, probabilmente non sarei mai arrivata a finirla, perché l'impegno è stato notevole e senza il pensiero costante di aggiornare avrei finito per abbandonarla. E' per questo che meritate un grosso ringraziamento, per aver permesso a questa fanfiction di vedere la fine. E non parlo solo delle recensioni, per quanto siano state il contributo più forte, ma anche dell'inserimento nelle varie liste e delle semplici visite. Siete TUTTI importanti per me, nessuno escluso, e vorrei che questo fosse chiaro. Allo stesso tempo, però, vorrei inserire dei ringraziamenti più specifici per alcune persone che davvero li meritano, e mi perdonerete se dilungo ancora un po' queste maxi note - è l'ultimo capitolo, siate comprensivi! :) Alcuni di loro magari non leggono nemmeno più la storia, ma non importa, perché ne hanno dato comunque un grosso contributo. Seguiranno il semplice ordine alfabetico, onde evitare incomprensioni. Un grazie speciale, quindi, a:

- Aven90, l'amico di bacheca nelle mattinate altrimenti solitarie, per aver recuperato tutti i capitoli e averne recensiti gran parte, sorbendosi anche quelli più lunghi che non tanto sopporta :)
- Bijou90, per avermi dato il suo appoggio sia su EFP che al di fuori, fin dai primi tempi in cui "La Rosa Sanguigna" ha visto la luce
- Circe, la prima ad aver letto e dato fiducia a questa storia, quando ancora nessuno la considerava e le recensioni erano in numero binario
- DarkViolet92, per non avermi mai fatto mancare il suo supporto negli ultimi capitoli, dandomi una gran carica per proseguire
- Fanny Lestrange, la miglior lettrice e commentatrice che uno scrittore possa desiderare, per le sue lunghe e approfondite recensioni. Non ti sento da tanto, spero che tu stia bene!
- holls, che si è avvicinata a una storia del tutto diversa da ciò che legge di solito e nonostante questo se n'è appassionata, riempiendomi di gioia. Spero che un giorno tu possa arrivare fin qui a leggere queste note
- Lady Viviana, per aver recuperato taaantissimi capitoli in poco tempo e averli recensiti davvero TUTTI, senza paura di farmi notare anche i punti che non la convincevano. Non sono stata sempre d'accordo, ma ti ringrazio moltissimo per l'impegno e l'onestà!
- MedusaNoir, perché grazie a lei il prologo di questa storia è arrivato secondo su un'enormità di altri, facendomi ottenere - con orgoglio - il fantastico banner che trovate nella mia pagina autore
- Mitsuki91, perché c'è sempre stata, perché aspettava quest'epilogo con trepidazione e perché il suo commento al capitolo "rivelatore" mi fece troppo ridere :)
- Sakimoto_Misa, per le recensioni lunghe e appassionate che mi hanno rallegrato le giornate. Chissà se leggi ancora la storia, spero abbia continuato a piacerti
- severus89, per aver recuperato - anche lei - tanti capitoli a tempo di record e aver lasciato sempre un segno (apprezzatissimo) del suo passaggio
- ShiningCrow, a cui questa ff è piaciuta così tanto da segnalarla per le scelte. Non credo ne farà mai parte, dato il tempo trascorso, ma ti ringrazierò sempre per il tuo fantastico gesto
- Sia_, per l'entusiasmo con cui ha letto e recensito un sacco di capitoli, trovando in Ted&Cathy una vera e propria ship! Se sei arrivata fin qui, credo che l'epilogo sarà stato di tuo gradimento
- Valpur, per il suo approfondito commento ottenuto grazie a un contest che mi è stato davvero utile

In conclusione, GRAZIE a tutti voi per esserci stati. Avete permesso a una storia che, diciamolo, per gli standard di chi frequenta questo sito è il massimo della sfiga - rating verde + nuova generazione + nuovo personaggio + no pairing, vogliamo parlarne? - di ritagliarsi il suo piccolo spazio in un enorme fandom.

Manca qualcosa? Ah, giusto, per il rinfresco seconda porta a sinistra. Per una gallery dei nostri beniamini, invece, passate dalla mia pagina facebook, troverete dei disegni digitali che feci tempo fa e corrispondono, più o meno, a come immagino i personaggi. Arrivederci a presto!

Orny

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