Dreams we'll never see

di waferkya
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Almost there ***
Capitolo 3: *** L'infinito mi schiaccia sempre un po' ***
Capitolo 4: *** Whatever it takes ***
Capitolo 5: *** Flirtin' with disaster ***
Capitolo 6: *** What you don't know will kill you ***
Capitolo 7: *** A white blank page (and a swelling rage) ***
Capitolo 8: *** And then we live ***
Capitolo 9: *** And then we die ***
Capitolo 10: *** And then we don't ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Allora, buongiorno. Lasciatemi spendere due o tre parole d'introduzione a questa storia, perché, ugh, temo che ce ne sia bisogno. Innanzitutto, è scritta per la challenge permanente di spn_purgatory; ho preso una tabella di dieci prompt, e ciascuno di essi mi ha ispirato un pezzetto di questo racconto, che, sinceramente? Mi piaceva di più com'era nella mia testa, ma oh, questo è quanto passa il convento.
La storia è divisa in capitoli, ma io sono chiaramente una donna incapace di costanza e vi accorgerete presto che sono di lunghezza molto variabile XD Sono incapace, vi ripeto, e sono pure alla mia prima prova con una long-fic o presunta tale. Quanto al resto, come dicevo nella presentazione, il tutto è ambientato nel 'verse del 2014, quello che ci viene gentilmente illustrato nell'episodio 5.04 "The End". E, insomma. Amo molto John, capitemi. Spero di non essermi data la zappa sui piedi andando tremendamente OOC.

~ Dreams we’ll never see.
1. Prologo
I’ve been looking at the sky ’cause it’s getting me high


La luce gli investe la faccia d’improvviso, calda e insopportabilmente gialla sulle palpebre serrate. John si scuote con violenza e non è più in catene, flette le dita, si costringe a tenere gli occhi chiusi. È come se fosse sdraiato su un prato in un pomeriggio tiepido di fine estate, col sole appeso alto nel cielo, l’erba un po’ bruciata dalla siccità, croccante sotto il corpo, una brezza leggera che gli s’intreccia gentile ai capelli.

Non ha senso.

All’Inferno non c’è un sole, non c’è un cielo, non ci sono prati e non c’è il respiro del vento e non c’è niente. È un deserto, coperto dalle pareti di una voragine che pulsa di magma rosso come sangue, e le rocce vecchie di millenni sono le croste rapprese dentro il corpo del mondo, e i demoni ne infettano la carne, stillandone un’emorragia di dolore.

Non ha senso, eppure quando John apre gli occhi – piano, pianissimo, e pronto a serrarli di nuovo in un attimo, se si dovesse rivelare soltanto l’ennesimo trucco di Alastair, – il sole è lì, il cielo è lì. Ci sono le nuvole, persino, sfilacciate e basse e bianche e l’odore di terra viva, dissodata di fresco.

«Buongiorno, dormiglione.»

La voce, quella voce, John la conosce, e gli ci vuole un momento, un momento, un momento per ripercorrere all’indietro l’eternità di torture, e tutte le grida di tutte le anime che l’Inferno ha mangiato, per ritornare a quei giorni lontanissimi, fragili come un castello di sabbia, quei giorni colorati in cui era vivo, lui, era vivo, e aveva dei figli.

«Sammy?» gracchia, sollevandosi a sedere, ma magari si sta immaginando tutto. È nel bel mezzo di un campo di grano, si accorge, scrutando sospettoso le spighe dorate che si sollevano contro l’azzurro quasi abbagliante del cielo. Se è un’illusione, il figlio di puttana che dirige la scena è uno che sa il fatto suo.

Con un attimo di ritardo, John si rende conto che, tutto intorno a lui e per almeno una mezza decina di metri, qualcosa ha come ritagliato un cerchio dal campo e l’ha rivoltato, appiattendo le spighe, snudando il terriccio pallido, qualche radice d’erba, mozziconi di sigarette rimasti sepolti chissà quanto a lungo.

E poi, con la coda dell’occhio, vede un lampo di bianco. Si volta di scatto, accovacciandosi su un ginocchio, pronto ad attaccare, i sensi all’erta come se fosse di nuovo un marine, come se fosse di nuovo un cacciatore, e poi sgrana gli occhi, perché aveva ragione, il suo maledetto cervello aveva ragione, c’è Sammy.

Sammy.

«Ciao, papà,» sorride suo figlio, torreggiandogli addosso ed è quasi ridicolo come riesca ad essere minaccioso da morire, in un innocente completo bianco da gelataio. John si alza in piedi con attenzione, saggiando la resistenza delle proprie ginocchia, e gli dispiace davvero, ma non riesce a non restare guardingo, una mano un po’ sollevata in avanti, tra lui e Sammy, per tenerlo a bada. È confuso, John, e comunque qualcosa non quadra.

«Sam,» ripete, la gola secca, la voce roca. Perché sembra così compiaciuto, il suo Sammy? «Che cosa hai fatto?»

Sam dà una risata senza allegria, vuota, quasi cattiva. A John viene la pelle d’oca, e sta cominciando, pian pianino, a farsi un’idea di che cosa è successo.

«Oh, andiamo, Johnny,» sogghigna Sam, facendo un passo in avanti, cui John risponde indietreggiando. «Sei più intelligente di così.»

«Chi diavolo sei?» ringhia John, allora, cercando di suonare più minaccioso di quanto non si senta, così disarmato e stanco e fuori posto com’è. Dio, ragazzi, ve l’avevo detto di farvi marchiare contro le possessioni, pensa, esasperato. «Azazel?» tenta, ma non è possibile, Dean l’ha ucciso e, oh, Dio, Dean. «Crowley?»

Sam – il demone che sta possedendo il suo corpo, – sorride, lo guarda da sotto in su quasi con malizia.

«No, e no,» dice, e solleva tre dita, ne abbassa due mentre parla, mostrandogli il medio. «Ti rimane un solo tentativo, John. Pensaci bene.»

E John ci pensa, ci pensa bene, ma non sa neanche da dove cominciare, a meno che, – giravano voci, in mezzo alle grida, giù all’Inferno, – a meno che, – della discesa degli angeli nel mondo, nei corpi degli uomini; dell’avvento dell’Apocalisse, dell’ascesa del Diavolo, – a meno che. A meno che.

Oh.

«Lucifer,» mormora John. Sammy sorride.

«Jackpot.»

John crolla al suolo, un unico, lancinante dolore a stremarlo da capo a piedi, come se si fosse buttato davanti ad un camion. Il cielo così azzurro da sembrare dipinto è l’ultima cosa che vede, ma non è poi tanto male.

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Capitolo 2
*** Almost there ***


~ Dreams we’ll never see.
2. Almost there
Bad Moon Rising

 

È notte, quando John riprende conoscenza. La luna è alta e rotondissima nel velluto nero del cielo, e le cime affilate di alberi spogli le corrono davanti come ombre di artigli.

C’è un rombo basso, ritmico che proviene da qualche parte sotto la sua schiena, e un ticchettio impreciso come di ghiaia che schizza via da sotto le ruote di un’auto, e John si solleva sui gomiti un po’ a fatica – sta diventando un’abitudine, quella di risvegliarsi in giro a cazzo di cane per il mondo, ma sempre meglio di marcire all’Inferno, – e gli ci vuole un momento per rendersi conto che l’hanno caricato sul retro di un pick-up.

Maledizione, perlomeno dal Diavolo uno s’aspetterebbe un mezzo di trasporto un po’ più di classe.

John si preme una mano sulla fronte, cercando di spingere via l’emicrania che gli pulsa tra gli occhi. Non funziona per niente, e comunque, ci sono cose più importanti di cui dovrebbe occuparsi: per esempio, il fatto che suo figlio minore è al momento posseduto dal Diavolo. Per esempio, il fatto che suo figlio minore, al momento posseduto dal Diavolo, l’abbia resuscitato. Per esempio, il fatto che un pick-up mezzo arrugginito lo sta portando Dio solo sa dove, in mezzo a Dio solo sa quanti demoni, che intendono fargli Dio solo sa cosa. Giusto.

John scuote la testa; potrebbe saltare facilmente giù dal pick-up e scappare nella foresta. Se riesce a non fare troppo rumore, c’è una buona possibilità che i demoni al volante non si accorgano che se l’è filata. Si guarda attorno e, no, d’accordo, non può: a neppure tre metri di distanza li segue un altro furgoncino, paurosamente sgangherato anch’esso, che sotto la luce chiara della luna brilla a macchie rossastre. John distingue perlomeno tre persone, strizzate malamente nel sedile anteriore, e soprattutto c’è un tizio appoggiato con gli avambracci al tettuccio dell’abitacolo, e non è tanto il fatto che sia lì a preoccupare John, quanto, piuttosto, il fucile dall’aria sofisticata e molto letale che porta di traverso sulle spalle.

Il cecchino è il primo – forse l’unico, John non vede bene le altre tre persone, – ad accorgersi che ha ripreso conoscenza. Sventola una mano in un cenno di saluto fin troppo allegro, e poi batte le nocche sul tettuccio. John sente una voce rauca abbaiare qualcosa d’indefinibile, poco più forte del ringhio unisono dei motori dei due pick-up, e poi una risata tranquilla, divertita, che, a giudicare da come ha buttato indietro la testa, appartiene al cecchino.

John le detesta, le situazioni così – quando non ha idea di cosa stia succedendo attorno a lui, e non ha modo di scoprirlo se non standosene zitto e buono in un angolo. Non è capace, lui, di stare zitto, e buono; soprattutto non quando suo figlio minore è là fuori, posseduto dal Diavolo, dannazione, e Dean, Dio, Dean.

John l’ha visto, all’Inferno. È stato Alastair a mostrarglielo, una volta soltanto, e gliel’ha fatto vedere quando Dean s’era già spezzato, e torturava per non essere torturato, e stava appena appena cominciando a capire che, in realtà, quello che ad Alastair riesce meglio è mettere le anime in condizione di fracassarsi da sole, senza bisogno di coltelli, sangue, morsi e catene. Gli ha offerto suo figlio – quel figlio per cui lui è morto sorridendo, Cristo, – ridotto in quel modo e John ha restito così a lungo, così a lungo, così a lungo all’Inferno, e ad ogni frustata che Dean infliggeva all’anima inchiodata ad una ruota identica a quella di John lui avrebbe voluto cedere, cedere, cedere.

Alastair, naturalmente, non gli ha concesso di spaccarsi. L’ha tenuto insieme, l’ha portato via, e adesso John non sa neppure se Dean sia vivo. Se lo ricorda, l’assedio e il frastuono e la luce dolorosissima e gli strilli che dava la pietra stessa, quando quell’angelo è venuto ad estrarre suo figlio dal fondo della voragine.

Non capivano, all’inizio, loro, prigionieri dell’Inferno, di cosa si trattasse. Vedevano solo lampi di bianco lontani come la vita, udivano scoppi di grida, e i demoni fumavano tutt’attorno a loro in un caos di nubi nere e decine e decine e decine di file di denti macchiati di sangue. E poi è discesa la luce, John se lo ricorda; pensavano che fosse una guarnigione intera di arcangeli, per quanta potenza irradiava, e invece era uno soltanto, enorme, le ali spiegate e candide e bruciava, qualunque cosa toccasse: bruciava di freddo.

John ricorda la voce di quella creatura. Tutti gli altri attorno a lui si contorcevano e urlavano, facendo stridere le catene, e lui ricorda soltanto una calma infinita, la pace, quando l’angelo gli ha parlato e gli ha detto, vengo per lui, gli ha detto, vengo per Dean.

John non ci crede, ai miracoli, ma in quel momento, Dio, in quel momento ci ha creduto con una disperazione è sufficiente a spezzargli il cuore. Perché non lo sa cos’è peggio – il pensiero di Dean morto di nuovo, o Dean, vivo, a dare la caccia a suo fratello.

La luna, tonda, pallida, lo guarda dall’alto e, brutta bastarda, si tiene tutte le risposte per sé.

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Capitolo 3
*** L'infinito mi schiaccia sempre un po' ***


~ Dreams we’ll never see.
3. L’infinito mi schiaccia sempre un po’.
Cannot find my way home

 

Il Diavolo ha sistemato il proprio Quartier Generale in una specie di campo di rifugiati, protetto da nient’altro che una rete metallica alta due metri e mezzo e un paio di sentinelle insonnolite. John non dovrebbe essere stupito, considerando su che razza di carretta lo hanno portato fin qui, però, ehi, si aspettava di meglio.

Deve stupirsi di nuovo, e molto peggio di prima, quando finalmente i due camioncini si fermano, e il cecchino balza a terra con un’agilità – una leggerezza, come se non gl’importasse di rompersi il collo – che ha ben poco di umano, e poi la portiera dal lato del guidatore si apre e gli sbatte contro la schiena e il cecchino ridacchia, dice qualcosa che John non capisce, che John non sente, che John non ascolta, perché dal maledetto pick-up è appena venuto fuori suo figlio.

«Dean?» lo chiama, e tanto basta perché tutto il mondo piombi un un silenzio tombale, asciutto. John si guarda attorno, non capisce, e poi gli stivali di Dean crocchiano sulla ghiaia mentre gli viene incontro, il viso pieno di ombre per la luce troppo tenue di poche lampadine appese agli angoli delle capanne del campo, ma da quel poco che John distingue della sua espressione, del profilo delle sue spalle, il ragazzo non è per niente contento, non è per niente tranquillo. Sembra, al contrario, decisamente incazzato, e John si concede un attimo per rilassarsi in un orgoglio quieto. L’ha addestrato bene. «Dean.»

«Fa’ silenzio,» ordina Dean, brusco, puntandogli addosso una pistola. Woah, woah, woah. «Chuck.»

Un ragazzo magro e dall’aria spaurita compare dal nulla, e John segue i suoi movimenti nervosi con la coda dell’occhio, troppo impegnato a fissare Dean per tentare di stabilire uno straccio di contatto – sono io, ha voglia di urlare, sono io, Dean, tuo padre, non mi riconosci?, in parte, e in parte è così fottutamente fiero dell’uomo che Dean è diventato, anche se, maledizione, c’è qualcosa di troppo freddo, in lui, e il cuore di John si è già spezzato abbastanza, – per badare ad altro. Si ritrova innaffiato di quella che suppone sia acqua santa, dopo un momento, e chiude gli occhi, paziente, si lecca le labbra.

«L’avrei preferita in un bicchiere,» dice, senza fare una piega.

Dean si acciglia ancora, rinfodera la pistola e si fa consegnare da quel tizio, Chuck, un coltello che pare tanto affilato da poter tagliare l’aria stessa. Fa un cenno agli uomini che lo circondano, e tre paia di mani afferrano John per le spalle, strattonandolo verso il bordo del pick-up.

«Le vostre madri non vi hanno insegnato le buone maniere, ragazzi?» brontola John, solo vagamente irritato. Dean sembra tendersi, per un momento, nervosissimo, sul punto di scoppiare di rabbia. Afferra John per un polso, gli tiene ferma la mano e lo ferisce sul palmo, un taglio superficiale, quasi gentile, che gli fa appena appena digrignare i denti.

«È pulito,» decreta uno dei tizi che lo tiene per le spalle.

Dean sbuffa.

«È solo umano,» dice, ma lascia andare la mano di John, lo guarda stringendo gli occhi. «Per il momento. Ammanettatelo, e portatelo nel magazzino.»

John potrebbe dirgli almeno un centinaio di cose – rimproverarlo in un miliardo di modi diversi, – ma sceglie di rimanere zitto, a scrutarlo senza una parola, perché per adesso non è il suo Dean che ha davanti, ma un soldato, un uomo responsabile della vita di altri uomini in un mondo in cui il Diavolo cammina spensierato per la strada, e John non ha alcun diritto di tirare le orecchie ad un comandante davanti ai suoi sottoposti. La conosce fin troppo bene, l’importanza di restare nei ranghi.

Lo ammanettano senza troppe cerimonie, e con ancora meno gentilezza lo costringono a saltare giù dal pick-up. Dean si allontana nella direzione opposta a quella in cui spingono John, con al seguito il cecchino e quel Chuck. John segue i suoi passi con lo sguardo, finché ci riesce, e poi semplicemente guarda avanti e fa attenzione a non inciampare nei gradini quando raggiungono il magazzino.

«Non tentare niente di strano,» gli intima un ragazzo che non avrà più di vent’anni, con la voce che trema. John solleva le sopracciglia, ma lascia che quello apra una manetta e la giri attorno al tubo di un termosifone, richiudendogliela, un attimo dopo, attorno al polso.

«Oh, molto gentile,» brontola, poco impressionato. Il ragazzo si morde le labbra e fa un passo indietro, ma John non ha ancora finito. «Ehi,» lo richiama, con la voce più autoritaria che ha. «Che posto è, questo?»

«Il, uh. Il magazzino,» risponde il ragazzo, accigliandosi. John stira le labbra in una linea dura e scontenta, e tanto basta perché quello praticamente scatti sull’attenti. Niente male, Winchester. «Camp Chitaqua, signore.»

«Camp Chitaqua?» ripete John, quasi tra sé. Che diavolo di nome è? «E in che anno siamo, figliolo, di grazia?»

Il ragazzo sbatte le palpebre, perplesso.

«Il duemilaquattordici,» dice, e John deve impiegare tutto il notevole autocontrollo che ha per non soffocarsi col suo stesso respiro. Cristo, è stato morto per otto anni.

«Ehi, Blake!» viene una voce da fuori, non proprio burbera, ma neanche l’epitome della gentilezza. «Piantala di fare conversazione, dobbiamo dare il cambio ai cancelli.»

Il ragazzo – Blake – va in crisi, per un momento, come una mitragliatrice inceppata. Alla fine, scocca a John un’occhiata incerta e praticamente se la dà a gambe, chiudendo a chiave la porta dietro di sé. Tre mandate, intelaiatura di ferro; John avrebbe probabilmente più fortuna se cercasse di abbattere il muro a pedate.

Sospira, si appoggia al davanzale della finestra alle sue spalle e aspetta.

Dean non si fa attendere molto, grazie al cielo, perché John, sinceramente, non aveva la benché minima voglia di stare a sentire il suo cervello che specula sull’esatta gravità della situazione del mondo – della sua famiglia – in questo dannato duemilaquattordici. Ha tentato di liberarsi, per la maggior parte del tempo in cui è rimasto solo, ma si è reso conto di non avere addosso nessuno degli strumenti da lavoro che in genere si nasconde un po’ dovunque, e, beh, provaci tu a scassinare un paio di manette solo con le unghie e le preghiere. Non funziona per niente.

E persino il termosifone è ben ancorato al muro, tanto che neppure tutti gli strattoni di questo mondo sono bastati a smuoverlo d’un millimetro, per cui John accoglie come un inaspettato miracolo il suono della chiave che gira nella serratura pesante.

Dean è armato, John lo capisce dalla piega asimmetrica dei due lembi della sua giacca. Subito dopo di lui entra il cecchino, che chiude pure la porta, perciò niente più visite per oggi, che peccato; alla luce fredda del neon imbrigliato in mezzo alla stanza, John si rende conto che il tizio è chiaramente un tossico: ha le pupille talmente dilatate che hanno ingoiato quasi completamente l’iride.

Quasi gli sfugge una smorfia divertita.

«Metamfetamine?» domanda, senza guardare Dean. Il cecchino fa un sorriso svagato, gli viene incontro.

«Un po’ di questo, un po’ di quello,» replica, e quando avanza ancora John fa un passo indietro, istintivamente, solo che ha la finestra, alle spalle, e non può andare da nessuna parte. L’espressione un po’ maniacale del tizio si ammorbidisce. «Tranquillo, voglio solo liberarti.»

«Castiel, non ti azzardare,» ordina Dean, e John e il cecchino – Castiel, che razza di nome è? – alzano gli occhi su di lui contemporaneamente.

«Dean,» esordiscono, assieme, John con molta più rabbia, Castiel decisamente accomodante, e si guardano, quasi imbarazzati. Castiel gli fa segno di tacere.

«Dean,» riprende, sollevandosi da dove aveva cominciato ad inginocchiarsi per raggiungere le manette di John. «Non è un demone, non è un mostro, per favore, puoi--»

«Come se questo lo rendesse meno pericoloso,» sputa Dean, interrompendolo bruscamente, – prima che possa dire, per favore, puoi scendere a patti col fatto che si tratta di tuo padre per davvero? – e in due passi supera Castiel e, perlomeno, non riesce a guardare John in faccia, ma tiene gli occhi bassi, o li fa scattare istericamente da un lato all’altro della stanza. «Chi ti ha mandato qui, eh?»

John dà fiato ad una risata senza allegria.

«Da quando pensi che tuo padre si faccia dare ordini, Dean?» dice, e la reazione di Dean è istantanea, è, perlomeno, quello che John si aspettava: finalmente lo guarda, gli occhi verdi sgranati e pieni di rabbia, e gli spiana in faccia la pistola.

«Non azzardarti a fingerti lui,» ringhia, minaccioso, ma sta tremando. Sta tremando, perché chi è che non tremerebbe, a trovarsi davanti un tizio che è la copia esatta di suo padre, parla come suo padre, ha lo stesso fottuto odore di suo padre che è morto da otto anni? Eh.

«Non sto fingendo un bel niente,» ringhia John in risposta, dando uno strattone alle manette per far risuonare il metallo contro il termosifone; Dean sobbalza, si morde le labbra. «Ed è signore, per te, ragazzino. Ricordati le regole.»

Dean sostiene il suo sguardo solo per un altro momento; cede, alla fine, e con un sospiro frustrato si infila la pistola nei pantaloni e si volta, passandosi una mano tra i capelli. Castiel viene avanti di nuovo, con un sorriso cordiale, fatto, fattissimo.

«Piacere di conoscerla,» dice, porgendo educato una mano. «Il mio nome è Castiel, e lei deve essere John Winchester.»

«Precisamente,» brontola lui. «Considerala stretta, quella mano. Al momento non posso ricambiare per davvero,» e dà un altro strattone, stavolta più leggero, per sottolineare il punto. Castiel si morde le labbra, sembra considerare seriamente la questione e alla fine si volta verso Dean.

«Posso liberarlo, mio intrepido comandante?» domanda, con una leggerezza nel tono che fa un po’ accapponare la pelle di John. Castiel, riflette, Castiel è un nome da angelo.

«Non ti azzardare,» ripete Dean, ma il comando manca di autorità, stavolta, e nessuno l’avrebbe preso sul serio comunque, dato il modo in cui va su e giù per il magazzino come un animale in gabbia. John ha un serio bisogno di scuoterlo per le spalle e guardarlo negli occhi e giurargli su tutto ciò che ha di più caro al mondo – Dean e Sammy; divertente, no?, come uno l’abbia già perso e l’altro, chiaramente, non ha nessuna intenzione di riconoscerlo, – che è lui, è lui, Cristo santo; non ha idea del perché, né di niente, ma è John, è suo padre. È vivo.

Castiel lo libera in un batter d’occhio.

John si massaggia i polsi, fa un paio di passi cercando di trovare una calma che non gli appartiene più da trent’anni.

«Dean,» chiama, quasi con dolcezza. Gli è mancato così tanto, il nome di suo figlio. «Cosa è successo a Sammy?»

Di nuovo, è la cosa giusta da dire. Dean scatta, spezzando lo stato di confusione in cui era precipitato, e gli fissa addosso due occhi enormi, spauriti. Castiel, accanto a John, dà un mugolio interessato.

«Che ne sai di Sammy?»

John si stringe nelle spalle.

«L’ho visto,» dice. «Credo sia stato lui a riportarmi qui. In vita, voglio dire. Dean, chi è che lo sta possedendo? Devi spiegarmi, fammi capire. Che diavolo sta succedendo?»

Dean rimane congelato dov’è, improvvisamente più giovane di vent’anni, e a John si stringe il cuore in una morsa glaciale a vederlo così, Dean, il suo Dean, ma ha bisogno di sapere. Come fa ad aiutarli a venir fuori da qualsiasi casino dentro al quale sono andati a cacciarsi, altrimenti?

«Sta succedendo, per l’appunto, che c’è il Diavolo,» risponde Castiel, quando è chiaro che Dean non ce la fa a spiccicare parola. John si volta verso di lui, le sopracciglia aggrottate.

«Ti spiace spiegarti meglio?»

«È l’Apocalisse, John Winchester. Il Diavolo cammina sulla Terra nel corpo di Sam, ha scatenato un’epidemia di Croatoan e sprofondato l’umanità nel caos, per una disputa vecchia di millenni,» sorride Castiel, gentile, quasi come se non gl’importasse.

John strabuzza gli occhi, guarda lui e Dean e poi lui e poi Dean e fa fatica a credere che tutto questo sia vero. Cristo. Aveva una vita normale, lui, una volta.

«Sammy cosa c’entra, in tutto questo?» domanda, allora, perché ha delle priorità, lui, e sono belle serie.

«È il tramite di Lucifer,» spiega Castiel, prendendo a misurare il magazzino ad ampie falcate, lentamente. Perché il luogotenente di Dean – John ha visto il modo in cui suo figlio tende a misurare i propri movimenti conservando lui come punto di riferimento, ha visto il modo in cui lo guarda, il modo in cui si fida, – deve essere un fattone di terz’ordine? «Il suo, ah, contenitore umano.»

«Quel figlio di puttana di Azazel,» mormora John, e Castiel, bontà del cielo, dà una risatina divertita.

«No, no,» dice, scuotendo la testa. «Azazel non c’entra nulla. È una questione genetica, di linea di discendenza... vedi, se proprio vuoi accusare qualcuno, dovresti prendertela con te stesso, e con Mary.»

«Ehi!» insorge John, perché con lui ed il suo sangue ci si può scherzare anche tutta la vita, ma Mary no, il ricordo di Mary è intoccabile. Il sorriso di Castiel non traballa neanche per un momento, ma John non ha il tempo di minacciarlo perché tra loro si frappone Dean, con il viso tutto contratto in una smorfia, come se non sapesse che espressione fare.

«Papà?» bisbiglia, senza fiato, la voce roca, e non ci crede neanche lui, si vede, Dio santo, che non ci crede neanche lui. La rabbia di John nei confronti di Castiel si sgonfia tutta insieme, davanti alla confusione del suo primogenito.

«Sì, Dean,» dice, alla fine. «Che devo fare, per convincerti che sono io?»

«Non puoi essere tu,» obietta Dean, testardo. Ha gli occhi lucidi, le mani strette a pugno talmente forte che le nocche sono quasi trasparenti sopra le ossa. Dio, quanto è dimagrito.

John si massaggia le tempie con due dita.

«I Peanuts,» dice, alla fine. Dean lo guarda, perplesso. «Mary ti ha insegnato a leggere sulle vignette dei Peanuts,» spiega; riesce a vederli, Dean poco più di uno scricciolo e Mary bionda e bellissima e l’unica donna che abbia mai amato, seduti al tavolo della cucina, con il giornale spalancato davanti sulla pagina dei fumetti e Dean che sillaba, no-n so-no beeeel-le le ste-e-elle, Cha-rlie Bro-wn?’. E Mary è morta, adesso, ed è stato morto anche lui, talmente a lungo che suo figlio è diventato un uomo e il mondo gli si sta decomponendo attorno.

Vorrebbe chiedergli scusa, si costringe a tenere la bocca cucita.

Dean annaspa per un minuto intero, Dio, Dio, Dio, Dio, ma è suo padre davvero?

«Dean,» s’intromette Castiel, in un bisbiglio educato, appena udibile. «Penso che dovresti credergli.»

Dean si volta verso di lui, le sopracciglia curve all’ingiù.

«Non puoi controllare che stia dicendo la verità?» domanda, inutilmente crudele, perché lo sa, lo sa che Castiel ha perso i suoi poteri. Riceve ad ogni modo un sorriso gentile, e Castiel gli stringe una mano su una spalla – non proprio dove ha lasciato il suo marchio, in quell’altra vita che avevano entrambi, ma quasi, e Dean rabbrividisce.

«No, Dean, non posso. Però gli credo.»

Per qualche ragione – perché Dean stesso vuole credergli con ogni fibra del suo corpo, – tanto sembra bastare. Dean lo guarda, John si morde la lingua e alla fine sospira.

«Sono felice di vederti, figliolo,» dice. Non fa neanche in tempo a sollevare le braccia che Dean gli si è già premuto addosso, allacciandogli un braccio attorno al collo e l’altro più in giù sulla vita. Se, per un minuto intero, suo figlio piange nell’abbraccio, John fa finta di non notarlo. È piuttosto sicuro che Dean farà lo stesso con lui.



A/N.
Phew, capitolo lungo (no, ok, quanto sto ridendo tra me e me per il fatto che sebbene sia divisa così, sto postando tutto a ripetizione? Mi voglio bene). Anyway, la vignetta dei Peanuts che cito è anche quella da cui è tratto il titolo del capitolo: la ricordo dalla mia infanzia, e c
’è Nonmiricordochi (LOL) che chiede a Charlie Brown, appunto, Non sono belle, le stelle, Charlie Brown? E Charlie Brown replica, Torniamo a guardare la televisione, dai. L’infinito a me mi schiaccia sempre un po. ♥
Ah, un
’altra cosa che forse avrete già capito: i sottotitoletti, là al rigo seguente il titolo del capitolo, sono i prompt cui il capitolo stesso è ispirato.

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Capitolo 4
*** Whatever it takes ***


~ Dreams we’ll never see.
4. Whatever it takes.
Fight the good fight

 

Dean e Castiel – che, John non si era sbagliato, è davvero un angelo; beh, perlomeno lo è stato, – lo aggiornano con rapida efficienza sullo stato delle cose, e John annuisce, annuisce, annuisce. Chiude dentro una scatola la parte di sé che vuole solamente impazzire e buttarsi giù da una scogliera per l’assurdità del tutto, per la disperazione, e lo capisce, lo capisce fin troppo bene che Dean ha dovuto fare altrettanto, da quando Sam ha detto di sì, da quando ha perso anche lui.

«Ho fatto un sacco di errori, papà,» mormora Dean, dopo la quarta birra, mentre Castiel è di fuori a fumare la sesta canna della giornata. John sospira, gli batte una mano sulla schiena, in mezzo alle scapole.

«Sei vivo,» dice. «E anche Sammy lo è, più o meno. Chiaramente, hai sbagliato meno di quanto pensi.»

Dean arrossisce, ma aggrotta le sopracciglia.

«Ma il resto del mondo, papà,» obietta, e sarà la prima volta da anni che è così onesto con qualcuno, John glielo legge in faccia. «Abbiamo mandato tutto a puttane – io ho mandato tutto a puttane. Tutto quanto.»

John sospira. Accidenti alla testardaggine Winchester.

«Qual è la prima regola, Dean?» domanda, dopo un altro sorso di birra. Dean si acciglia di nuovo.

«Badare a Sammy, signore.»

John sbuffa, quasi divertito.

«La seconda, allora.»

Dean rimane per un attimo a contemplare il silenzio, l’espressione neutra.

«...rimedia ai casini che fai,» mormora. John annuisce. Non è mai stato un buon padre, Dio, non è mai stato neanche un padre e basta, ma questo, perlomeno, di buono l’ha fatto.

«Precisamente, figliolo,» dice. «Siamo umani. Sbagliamo. Quello che conta è che tu rimanga nei paraggi per rimediare al danno.»

«Non ho spaccato una finestra, papà!» replica Dean, sgranando gli occhi. «Ho dato inizio alla cazzo di Apocalisse! Sammy è il vestito per il ballo del Diavolo e io--»

«E tu stai facendo del tuo meglio per rimettere a posto i pezzi,» si ostina John, senza guardarlo. «Dean, tu non hai nessuna colpa. Ascoltami, va bene? È un ordine. Tu non hai nessuna colpa.»

«Ho rotto il primo sigillo, papà,» soffia, la voce che quasi si spezza. John scuote la testa.

«Non avevi idea di quello che sarebbe successo. E avrebbe potuto chiunque altro. Ascolta,» sospira, accartoccia la lattina di birra. «Ha ragione il tuo amico Castiel, d’accordo? Se vuoi prenderti la colpa di tutto, allora devi darla a me e tua madre che ti abbiamo concepito.»

«È una stronzata, papà.»

«Appunto,» annuisce John. È una stronzata, lo sa perfettamente; non che questo gli impedisca di sentirlo comunque, pesante come un macigno, il senso di colpa soffocante perché, Dio, è stato lui ad iniziare tutto quanto, quando non è stato capace di lasciarsi alle spalle la morte di Mary e ha trascinato i suoi figli in quest’incubo senza fine. È colpa sua, non di Dean.

John si alza, si stiracchia. Dean rimane seduto a fissarsi le mani, e alla fine sospira.

«Quindi aggiustiamo le cose,» dice. «A qualsiasi costo.»

John annuisce.

«A qualsiasi costo.»

È la caccia a Occhi Gialli, tutto da capo. Solo che il mostro, questa volta, ha la faccia di Sammy.

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Capitolo 5
*** Flirtin' with disaster ***


~ Dreams we’ll never see.
5. Flirtin’ with disaster.
I need someone to show me the things in life that I can’t find

 

«Non esiste, papà.»

John sorride, perché la scena gli sembra oltremodo familiare: lui che raccoglie le ultime cose prima di andare a fare qualcosa di estremamente stupido e pericoloso, e Dean che si piazza a gambe larghe sulla porta per impedirgli di farsi ammazzare. Suo figlio è cresciuto, si è costruito tutt’attorno una muraglia di piombo per tener fuori gli incubi e si è ritrovato intrappolato all’interno della sua stessa fortezza in loro compagnia, è diventato un uomo quasi più prostrato di lui, che si tiene insieme solo con qualche brandello di forza di volontà e poca speranza ancora di riuscire a salvare Sammy, eppure riesce ad essere così uguale al se stesso di dieci, quindici anni fa, in certi dettagli, in certe sciocchezze, che John a volte ha l’impressione di non essersene mai andato.

«Dean, non ho chiesto il tuo permesso,» lo blandisce, buttando le ultime erbe nello zaino e chiudendo la cerniera.

«Beh, avresti dovuto,» sbotta Dean, diventando paonazzo. John lo guarda da sotto in su, divertito dal fatto che suo figlio si stia giocando quella carta proprio con lui. «Sono io che comando, qui, e-- e--»

«E cosa, Dean?»

«E ti proibisco di fare una cosa così stupida e senza senso!» dice, la faccia in fiamme, gli occhi sgranati.

John potrebbe addirittura ridacchiare.

«Allora vedi di farmi trovare pronta la gogna per quando sarò tornato, oh intrepido comandante,» dice, caricandosi lo zaino in spalla. Dean, nonostante tutto il suo lagnarsi, si fa da parte per lasciarlo passare. Lo segue, però, misurando i passi al ritmo con i suoi.

«Ti fa male frequentare Castiel, papà,» brontola, sottovoce.

«È un bravo ragazzo,» commenta John, quietamente. Il punto è che Castiel gli piace perché è un soldato, o perlomeno lo è stato e riesce ancora, di quando in quando, a recuperare quella disciplina militare che fa sentire John a casa più di qualsiasi altra cosa, e poi, soprattutto, perché come lui è piuttosto ossessionato da Dean. Come lui, vuole solo vederlo arrivare sano, salvo e tutto intero fino alla fine di ogni giornata. Come lui, Castiel per Dean potrebbe rinunciare a tutto; come lui, l’ha già fatto in passato, e non esiterebbe a farlo di nuovo.

Per cui, sì, sono più o meno sulla stessa lunghezza d’onda, loro due.

Dean concentra l’ultimo, disperato tentativo di convincerlo a desistere dalla sua idea di merda quando sono arrivati al pick-up che John ha preteso come proprio durante il secondo giorno di permanenza a Chitaqua.

«Papà, ti prego,» dice, piazzando una mano sulla portiera per impedirgli di aprirla. «Perlomeno lasciami venire con te.»

«Mi hai detto che ha giurato di ucciderti, se lo avessi evocato di nuovo,» obietta John; gli occhi di Dean tremano, ma lui non si muove. «Dean,» John abbassa la voce di un’ottava, al tono più autorevole, vuoto che ha. «Togliti di mezzo. È un ordine.»

Dean gli resiste per un minuto intero, combattuto tra il vecchio se stesso, che si fidava del giudizio di John con una semplicità certe volte disarmante, e il suo nuovo ruolo di testardo comandante di superstiti dell’Apocalisse che non ce l’ha più, l’abitudine a farsi sballottare in giro dagli ordini di suo padre.

Alla fine, sono sempre le vecchie abitudini ad averla vinta.

«Sissignore,» brontola Dean, quasi offeso, e si fa da parte. John abbozza un sorriso sbilenco – la sua famiglia gli manca, gli manca da morire, – e gli dà una pacca sulla spalla.

Sale sul pick-up, e si avvia incontro alla morte.

Beh, non proprio alla morte. A Morte e basta, più che altro.

John s’è messo in testa che l’unico modo di tirare fuori il Diavolo da Sammy, sia ricorrere all’aiuto di Michael, la controparte dell’enorme, spaventoso stronzo che si ostina ad indossare suo figlio. Castiel gli ha spiegato che gli angeli sono andati via da un pezzo, ma Michael è rimasto intrappolato nella gabbia da cui, invece, Lucifer è riuscito a scappare perché, andiamo, tra i due chi è il bastardo manipolatore? Non che Michael gli sia sembrato chissà che gentiluomo, almeno dai racconti di suoi figlio, ma il Diavolo ha chiaramente un curriculum di tutto rispetto, perciò se qualcuno avesse chiesto a John di scommetterci su –– ma non è questo il punto.

Il punto è che John vuole dire di sì a Michael. Vuole ingoiarsi il figlio di puttana e strappare Lucifer dalla carne di Sammy e salvare il mondo, è l’unico modo. Questa parte del piano, chiaramente, a Dean non l’ha detta, perché altrimenti, beh, col cavolo che l’avrebbe lasciato andare. Il ragazzo è testardo come un Winchester e come sua madre, santo cielo.

E, insomma. Morte è il più affabile dei Cavalieri, e magari avrà voglia di dargli una mano, chissà. Per cui, John intende evocarlo e faci quattro chiacchiere per cercare di risolvere quei due o tre dettagli che ancora non funzionano – gli anelli, per esempio. Ne ha bisogno per aprire la gabbia e, a parte quello di Morte, non ha idea di dove siano gli altri tre.

«Pronti a far danni?»

John sobbalza con tanta energia che fa sbandare il pick-up fin quasi a schiantarsi contro gli alberi a margine della strada sterrata. Riacquista il controllo per un pelo, e si volta a scoccare un’occhiataccia a Castiel che si è affacciato nell’abitacolo dalla finestra rettangolare che guarda sul retro del furgoncino.

«Cass, cerca di non spaventarmi mentre sto guidando,» dice, e riceve una risatina spensierata in risposta. L’odore di fumo appiccicato ai capelli di Castiel è tanto forte che John se ne sente affetto anche solo così, e deve scuotere forte la testa per rimanere concentrato.

«Scusami, papà,» mormora l’angelo, e poi si sporge in avanti, e si sporge, e si sporge finché non perde l’equilibrio e capitombola giù, in qualche modo incastrandosi perbene nel sedile. Scoppia a ridere, spensierato, e John ha una mezza idea di scaricarlo nel mezzo del nulla, ma non si prende sul serio neanche per un momento.

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Capitolo 6
*** What you don't know will kill you ***


~ Dreams we’ll never see.
6. What you don’t know will kill you.
Paranoid

 

Morte non la prende bene, anche se ad evocarlo non è Dean e anche se comunque sono passati anni dall’ultima volta. Concede a Castiel a malapena un’occhiata disgustata, e poi fissa su John quei pozzi neri come la notte – beh, come la morte, – e non c’è assolutamente nulla, lì dentro, se non l’immagine esatta della voragine dell’Inferno, lassù dove neppure il battito rosso del magma arrivava ad illuminare la roccia.

John deglutisce, ma non ha paura davvero.

«Dovrei mieterti seduta stante, solo per la tua insolenza,» dice Morte, la voce neutra, controllata. Dopodiché, rivela a John tutto quello che voleva sapere. «Non ti servirà a niente,» aggiunge, infine. «Quand’anche tu fossi tanto stupido da liberare Michael... ora che gli angeli sono andati via, non c’è più nulla che lo leghi a questo pianeta. Dovresti saperlo, quanto poco gl’importa dell’umanità.»

Ed è quel dovresti saperlo, poi, l’unica cosa su cui John rimugina e rimugina e rimugina per tutto il tempo, perché, duh, che diavolo significa?

Le mani salde, la presa quasi ferrea sul volante della caffettiera a motore che guida ormai da due mesi e mezzo, John si volta verso Castiel, che è mezz’ora che contempla tre pillole colorate per decidere quale calarsi. John ormai lo conosce abbastanza bene da sapere che finira per buttarle giù tutte e tre assieme, per cui non si sente granché in colpa ad interrompere le sue riflessioni.

«Castiel,» dice, e se il suo tono è quasi affettuoso è solo perché, diamine, nel taschino della camicia gli pesano gli anelli dei quattro Cavalieri. «Che cosa intendeva, Morte, quando ha detto che io dovrei saperlo

Castiel esita ancora un momento, e poi ingoia tutte e tre le pillole. Rimane immobile, il capo reclinato all’indietro, gli occhi azzurri strizzati e fissi sul tettuccio dell’auto come se chissà che ci vedesse, e John non è sicuro di volerlo sapere, cos’è che s’immagina un angelo sotto l’effetto degli stupefacenti. Castiel si riscuote con un brivido dopo un silenzio che s’è stiracchiato in un’eternità, e gli rivolge un sorriso distratto.

«Non penso di dovertene parlare,» dice, quasi scusandosi. John stringe ancora più forte il volante, il cuoio consumato che stride contro le sue dita callose.

«Castiel.»

«Sì, sì, va bene, come vuoi,» Castiel alza le mani, s’arrende. John sorride, divertito. «Se insisti tanto... Michael ti ha posseduto,» dice. Beh, questa è una novità. «Da qualche parte nel ’78. Ah, grande anno, il ’78. Non come il ’68, chiaramente, ma, mi segui? Anche il ’78 ha avuto i suoi--»

«Castiel. Cass. Concentrati.»

«Sì, sì,» l’angelo sbuffa. «Anna, questa... questa sorella che avevo, intendeva uccidervi per impedire a Sam di nascere. Sai, eliminare il problema alla fonte. E, beh, Michael non poteva farsi sfuggire l’occasione, no? Ti è apparso, e ha detto che avrebbe potuto salvare Mary, e... fai due più due, John, sì? Guarda, una nuvola

E John lo lascia perdersi dietro le sue allucinazioni, perché, maledizione; una volta di più, la sua vecchia paranoia si è rivelata perfettamente legittima. Capita pure che uno si stanchi, di avere sempre ragione sulle cattive notizie.

Quindi, Michael lo conosce. Non c’è niente di male, per carità; semmai, al contrario, potrebbe essere un vantaggio. John è un canale aperto. Forse Morte si sbagliava. Forse non sarà proprio tutto inutile.




A/N.
Il riferimento iniziale allo scazzo di Morte è per quel che accade nella 7.01. E nel caso ve lo foste dimenticati, quello che Castiel racconta, di John che gioca a fare il meatsuit (ommioddio, fatemi lagnare un momento sulla difficoltà di rendere decentemente vessel in italiano!! Io non leggo abbastanza fic in italiano su questo fandom, mi devo aggiornare) di Michael, succede nella 5.13, The Song Remains The Same. :D

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Capitolo 7
*** A white blank page (and a swelling rage) ***


~ Dreams we’ll never see.
7. A white, blank page (and a swelling rage).
Some kind of monster

 

Aprono la gabbia in una radura lontana trenta chilometri da Camp Chitaqua. John non ha la minima idea di cosa verrà fuori dal buco nel terreno che si spalancherà attorno agli anelli, e non ha intenzione di mettere a repentaglio la vita di suo figlio e dei suoi sopravvissuti. È lui, l’unico autorizzato a morire per questa cosa prima del tramonto.

Ha anche cercato di mandare via Castiel, ci ha provato davvero, ma l’angelo a stento capisce qualcosa, strafatto com’è, perciò si è dovuto limitare ad allacciargli la cintura di sicurezza e chiuderlo nel pick-up, lasciandolo indietro di almeno cinque-seicento metri. Può bastare. Deve bastare.

John prende un respiro profondo, si sfila i quattro anelli dalla tasca – si sono incollati l’uno all’altro nell’istante in cui Morte glieli ha appoggiati sul palmo della mano, – e li sogguarda per un momento, quattro mostruosità pacchiane che gli spalancheranno la porta sulla gabbia che custodisce l’ultimo arcangelo che possono raggiungere.

Lancia i quattro anelli a terra, e fa un passo indietro.

È disgustoso, il modo in cui la terra si arriccia e si ritrae attorno agli anelli, sembra che viva; la voragine si apre così in fretta che John quasi non ha tempo di rendersene conto e già sta guardando giù in un abisso spiralato e confuso, da cui proviene un getto d’aria perenne e violento, come il respiro caldo di una bestia.

Michael – Adam – ne viene sputato fuori con un gorgoglio della terra stessa, e poi la voragine si risigilla, come se non fosse accaduto nulla. John guarda suo figlio sgranando gli occhi; se lo sarebbe dovuto aspettare, e invece non ci ha pensato. Non ci ha minimamente pensato.

«Adam?» chiama, stupido, stupido, stupido: non è certo Adam, quello.

Difatti non è Adam, quel ragazzino delizioso e intelligente cui John ha insegato a guidare, che alza gli occhi su di lui. C’è una freddezza, una crudeltà, quasi, in quello sguardo, che non appartengono ad Adam.

«John Winchester,» sorride Michael, sistemandosi la giacca di pelle sulle spalle, stiracchiando la schiena e facendo schioccare i tendini del collo. Gli va incontro di un passo, e John arretra, cauto. Il metallo freddo del pugnale angelico che gli punge contro la spina dorsale, da sotto i vestiti, un po’ lo aiuta a mantenere la calma. «Beh, questa è una bella sorpresa.»

«Michael,» annuisce lui, quasi educato. «Sai perché ti ho liberato.»

«Per la verità, John, no, non ne ho la minima idea,» sorride Michael, e John, mentre lo guarda venirgli ancora incontro, per l’ennesima volta bestemmia la fine del mondo che ha annichilito il Medio Oriente, rendendo irreperibile l’olio sacro. Dio, come gliene farebbe comodo anche solo una tazza, ora come ora. «Non riesco veramente ad immaginare perché tu possa aver fatto qualcosa di tanto inutile.»

«Nessun bisogno di ringraziare, eh,» brontola John, imbronciandosi appena. «Davvero. Devi solo fare una cosa per me.»

Michael scoppia a ridere.

«Ah, Winchester, tra tutti gli umani, siete i più divertenti,» scuote la testa, sorridendo. «Dimmi, sei davvero così stupido da credere che, heh, potrei mettermi al tuo servizio

«No, in effetti no,» dice John, perché, andiamo, chi sarebbe così stupido? S’insulta la sua intelligenza e quella del genere umano tutto, così. «Ma so per certo che hai una questione in sospeso con tuo fratello, che al momento infetta il corpo di mio figlio. Vedi? Abbiamo un interesse comune.»

«Ah, ma il tuo caro Dean non te l’ha detto, Johnny?» Michael fa un sorriso quasi felino, che stona da impazzire con i lineamenti morbidi del viso di Adam. Gli viene incontro, disegna un cerchio attorno a lui mentre parla: «Dovessi incrociare sul mio cammino il tuo piccolo Sammy, il mio fratellino Lucifer, e dovessi scontrarmi con lui... gli strapperei le budella a mani nude, John. Gli spezzerei le ossa, una ad una, e i tendini, e i muscoli, e gli farei esplodere ogni singola cellula, e lo distruggerei, dopo avergli inflitto così tanto dolore che, credimi, i secoli che hai trascorso tu all’Inferno al confronto sembreranno una passeggiata.»

«Sì,» sbotta John, senza guardarlo.

«Prego?»

«Ho detto sì,» ripete. «Possiedimi. Hai il mio permesso.»

Michael ride di nuovo, scuote la testa, gli si piazza davanti a gambe larghe, le mani sui fianchi.

«Johnny, Johnny, Johnny,» dice, come di fronte ad un bambino capriccioso. «Non mi pare di averti posto nessuna domanda, o sbaglio?»

«Chiedimelo,» ringhia John, trattenendosi a stento dall’impugnare la lama angelica e ficcarla nel costato del bastardo che ha di fronte. Dio e se se l’aspettava diversi, gli angeli. «Chiedimelo, figlio di--»

«Ah, non credo proprio.» Michael gli sorride, da sotto in su. «Vedi, tu forse ora credi che potresti controllarmi come hai controllato Azazel, impedirmi di fare del male al tuo piccolo Sammy,» John si tende, nervoso, perché da quando il bastardo legge pure nel pensiero? «E magari ne sei convinto, o magari lo speri soltanto, o magari l’hai capito, John, che la salvezza dei tuoi preziosi figli, a questo punto, è diventata secondaria, rispetto alla salvezza del mondo,» no, pensa John, con tutta la forza che ha; no, Sammy è più importante di tutto. «Ma ad ogni modo, vedi, io non sono così stupido.»

L’arcangelo sospira, come se la questione gli stesse a cuore davvero.

«Mi dispiace darti questa brutta notizia, Johnny, ma non ho intenzione di possederti,» dice. «Non per affrontare Lucifer, ad ogni modo. È al suo posto, nel corpo di Sam, e tu, rispetto a Dean, non sei poi tanto diverso dal povero Adam, qui. Un ripiego. Un ripiego di gran classe, te lo riconosco, ma tuttavia un ripiego.» Sospira di nuovo, fingendosi affranto, ma il suo sguardo è tagliente come fosse fatto di vetro. «Non ho nessuna intenzione di crepare per voi, Winchester.»

Detto questo, getta la testa all’indietro e c’è un lampo di luce bianca, talmente intensa che John deve coprirsi il viso con le braccia e pure la sente bruciargli la pelle. Così leva le tende l’ultimo angelo rimasto sulla Terra: da codardo, lasciandosi alle spalle il cadavere gelido di Adam Milligan.

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Capitolo 8
*** And then we live ***


~ Dreams we’ll never see.
8. And then we live.
Long, long away from home

 

È facile, vivere a Camp Chitaqua.

A John piace il cameratismo praticamente militare tra i sopravvissuti, gli piace girare con un fucile costantemente a tracolla, gli piace guardare Dean che dà ordini, che gestisce ogni cosa tanto bene quanto farebbe lui. Gli piace potersi allontanare dalla sicurezza del suo rifugio per le missioni, trovare acqua, cibo, munizioni. Non è una bella vita nel senso universale dell’espressione, ma d’altra parte, con la popolazione mondiale ridotta ad un decimo e il virus Croatoan che fa brandelli di quel che ne rimane, probabilmente sì che è una bella vita, cazzo, è una vita grandiosa.

E comunque gli ricorda casa – una casa lontana secoli nei suoi ricordi e chilometri nello spazio, ma comunque gli ricorda casa, così simile, così casa.

Lui e Dean lavorano all’Impala, quando non c’è altro da fare. Raramente, d’accordo, ma succede. Devono ricostruirla quasi da capo, dopo un incidente a New Orleans di cui Dean non vuole raccontargli niente l’ha ridotta a poco più che un rottame, ma piano piano, pezzo per pezzo, la sua bambina sta riemergendo sul telaio ischeletrito.

È facile, vivere.

John è stato morto così a lungo che se l’era dimenticata, la sensazione di una schiena sudata, di un panino riscaldato al microonde mentre stai morendo di fame, la sera, innaffiato da una buona birra ghiacciata. L’Inferno esiste precisamente per cancellare ogni ricordo di quanto riesca facile, vivere, pure nelle condizioni peggiori, pure quando tuo figlio minore è posseduto dal Diavolo e il maggiore, Dio, il maggiore ci sono momenti in cui lo guardi e non lo riconosci, e sai che, se si guardasse allo specchio, non si riconoscerebbe neppure lui.

È facile, vivere, più facile che essere morti; o forse no, pensa John, certe volte. Forse essere morti è molto più facile, perché mentre un demone ti tortura il dolore è tuo, è tuo, è tuo, non c’è di mezzo nessun altro – a meno che, chiaramente, tu non finisca nelle mani di Alastair, ma Alastair è morto, Dean gli ha raccontato di come Sam lo ha esorcizzato; Alastair è morto, e questo rende l’Inferno un posto un pochino migliore, – e invece l’essere vivo ti mette da qualche parte, ti circonda di persone, e John si lascia straziare così facilmente dal dolore degli altri – dal dolore di Dean, – che certe volte pensa – è sicuro – di non farcela.

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Capitolo 9
*** And then we die ***


~ Dreams we’ll never see.
9. And then we die.
O, Death

 

Il colpo parte inaspettato, perché un demone armato di pistola John non l’aveva mai visto. Non si tratta proprio di un demone, comunque, ma di un povero diavolo infettato dal Croatoan, impazzito dalla fame, per cui, d’accordo, non è strano. Per cui, d’accordo, va anche bene.

John non crolla a terra, non grida, perché la pallottola lo prende alla spalla, da dietro, e neppure gli frantuma la scapola. È fortunato. Si salvano, in qualche modo. Dean riesce a spingersi attraverso la finestrella che stavano tentando di spaccare quando l’orda di Croat è spuntata da dietro l’angolo, e John lo segue arrancando come un cretino, il braccio sinistro mezzo inutilizzabile, il destro che regge come può la mitraglietta e spara un po’ alla cieca verso i cadaveri marcescenti.

Il puzzo di morte che appesta ogni singola città in cui mettano piede è quasi nauseante, eppure John ha quasi voglia di ridere, di urlare sono vivo, vivo, vivo, sono vivo, contro qualsiasi speranza io sono vivo e tengo vivo mio figlio. Perché se non avesse preso la sua spalla, quella pallottola avrebbe centrato in pieno il cranio di Dean.

John sanguina talmente tanto che sviene come se si fosse addormentato, mentre tornano a Chitaqua sul suo pick-up. Dean, al volante, si spaventa così tanto che quasi vanno a sbattere contro il muro di cinta di un edificio abbandonato.

«Sono vivo,» mormora John, e non lo sa neppure lui se sia cosciente o meno. «Sono vivo.»

Ed è vivo, per carità. Sono tutti vivi. Il problema è che le loro vite non significano niente; stanno lì, ad aspettare che Morte se li venga a prendere, come tutte le generazioni di uomini prima di loro, naturalmente, ma in maniera ancora diversa. È molto più disperata, la loro, di vita.

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Capitolo 10
*** And then we don't ***


~ Dreams we’ll never see.
10. And then we don’t.
Lay your weary head to rest, don’t you cry no more

 

A volte, John sogna l’Inferno. Sono incubi, lampi di luce rossa e di un dolore velenoso che gli divora la carne, niente di più. Sono solo immagini, suoni, odori disgustosi; non è reale.

Non gli sembra reale nemmeno il mondo in cui vive, le cose che fa, ma quelle, perlomeno, non sono pesanti – non come lo era la ruota cui lo tenevano crocifisso. Lo distrugge, guardare le spalle curve di Dean, il modo in cui il mondo gliel’ha stropicciato, ferito; lo distrugge, il pensiero di Sam. Ma il fatto di poter essere lì – il fatto di poter sparare, di poter stare alzato la notte finché gli occhi bruciano a leggere i vecchi, polverosissimi libri di Bobby per cercare una via d’uscita dall’abisso in cui il mondo sprofonda, – il fatto di poter fare qualcosa, Dio, è la sensazione migliore del mondo.

Probabilmente è quello che lo rende un uomo, un padre tanto di merda.

Ha bisogno di agire, John. Ha bisogno di una missione, di qualcosa che lo costringa ad alzarsi dal letto. Ha bisogno di avere fame, sete di vendetta, di giustizia. Ha bisogno.

Quando sogna l’Inferno, ha bisogno di sapere che non è vero, che non è più un’anima scarnificata, senza nessuna influenza sul corso degli eventi. Quando sogna l’Inferno, ha bisogno di sapere che non esiste che possa chiudere gli occhi, riposare, smettere di soffrire. Ha bisogno di sapere che è vivo. Che ha importanza, il fatto che sia vivo.

 

 

 

Epilogo

 

Quando John muore – perché muore, John. Maledetto bastardo, è ovvio che muoia, e muore in una missione, per dare a Castiel e Dean il modo di salvarsi la pelle, perché come altro avrebbe potuto morire, John Winchester?, – Dean rimane zitto, rimane calmo.

Contempla il silenzio, contempla; guida, e non dice niente.

Non hanno neanche un corpo da bruciare, ma non importa. Castiel organizza tre orge in due giorni. Dean va in missione di nuovo. Tre mesi dopo, si ritrova a guardare in faccia se stesso, e poi Sammy, e poi, finalmente, si risveglia in un posto che se non è il Paradiso, beh, al Paradiso somiglia moltissimo. John non è che lo stesse aspettando, ma è felice di vederlo, di una felicità agrodolce.




A/N.
Sì, ok? Nella mia testa, tutto ciò è compatibile col canon. #headcanonlikeaboss E, boh. Spero di avervi divertito; grazie per aver resistito fin qui <3

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