Artemis Fowl - L'ibrido

di Miriam85
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo Primo ***
Capitolo 2: *** Prologo Secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 5: *** Capitolo Terzo ***



Capitolo 1
*** Prologo Primo ***


Sei mesi fa.

Il tubicino trasparente si inerpicava coma una bianca serpe su per il lettino, su per la sua superficie metallica, legandosi a quell’ago che si tuffava nell’incavo del suo gomito, nella solita vena.
Solita, sì. Dove iniettare, ma anche dove prelevare, dove accanirsi con mille mila flebo, a volte, chissà, solo per il gusto di vedere il fastidio e il dolore nei suoi occhi.
Grandi occhi color smeraldo, incastonati in un volto perlato, drappeggiato in una chioma di boccoli color oro, dalla quale a volte spuntavano le fiere punte di eleganti orecchie a punta.
Stesa su quel lettino metallico, rinchiusa in quello sterile laboratorio, appariva quasi come un’apparizione onirica, le grandi ali di farfalla, dalla sottile membrana azzurrina, miseramente ripiegate dietro la schiena, e praticamente invisibili; il bel corpo dalle forme quasi del tutto evolute racchiuso in quell’insieme di stracci che era il suo abito.
E poi c’era lui.
Era l’unico volto che avesse mai visto, sin dalla nascita, eppure non aveva dubbi nell’affermare che fosse brutto. Ma brutto per davvero. Forse era per quella profonda cicatrice che gli traversava il viso, da parte a parte, proseguendo come una linea di fuoco giù per il collo, o forse per quella sua perenne espressione truce; o forse perché, spesso e volentieri, la batteva, con forza, a volte quasi sino a ridurla in fin di vita.
Si accigliò su di lei, su quell’ago nella sua pelle, borbottando qualcosa. Quante volte le aveva spiegato che Lui l’aveva creata, che a Lui doveva la sua misera, inutile esistenza, che Lui meritava tutta la sua cieca obbedienza. E Lui non era certo un qualche dio in cielo… quell’uomo vi si era prepotentemente sostituito quando, quasi quindici anni prima, aveva trovato due strani cadaveri – un credulone avrebbe affermato di elfo e di fata – e li aveva sapientemente studiati, sezionati, combinati al DNA umano, ottenendo quella che credeva la creatura perfetta.
Lilith, nome antico come il mondo, nome della bellissima ed oscura donna creata prima di Eva, malvagia creatura dedicata a Satana; l’aveva chiamata proprio così, con una sottile e macabra ironia che solo Lui sapeva vedere. Lilith, ibrido perfetto tra gli umani e quei misteriosi essere che si nascondevano abilmente all’occhio della specie dominatrice del Mondo, ma che si erano lasciati dietro due imbarazzanti cadaveri. Per fortuna li aveva trovati Lui.
Aveva creato, cresciuto quella creatura certo non con l’amore di un padre, ma con tutto l’interesse di uno scienziato; ma a nessuno, mai, aveva rivelato la natura delle sue ricerche, per una folle gelosia, una neppure troppo irrazionale paura d’essere privato di quel tesoro immenso, che ora riconosceva come l’Unico Scopo della sua esistenza. Certuni l’avevano dato per morto, altri per disperso; e nessuno poteva immaginare che passasse le sue giornate con Lilith, impegnato in continui, dolorosi esperimenti. Ultimamente, la sua follia, se possibile, era aumentata, sfiorando livelli alquanto pericolosi, che spesso lo portavano a scagliarsi sulla sua stessa creatura. Già alquanto infelice per quella vita rinchiusa – di notte sognava spazi aperti, aria fresca, fiori colorati… anche se non aveva mai visto nulla di tutto ciò – Lilith sapeva che non sarebbe sopravvissuta ancora a lungo.
Forse doveva la vita a Lui… ma non gli avrebbe permesso di strappargliela.
Il tubicino s’inerpicava su per il lettino, lui lo esaminava e lei, seppur con la morte nel cuore, ma per puro istinto di sopravvivenza, si preparò a colpire.

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Capitolo 2
*** Prologo Secondo ***


Oggi.

“Quindi dichiaro il detenuto… colpevole! E lo condanno a trecentoventisette anni di reclusione…” Il giudice lo squadrò da capo a piedi, con severità. “… in cella di massima sicurezza!” Concluse.
Bombarda Sterro sospirò.
Due guardie lo afferrarono, strattonando la catena che stringeva saldamente i grossi polsi di nano. Erano due furboni, quelli, che sapevano di doversi tenere quanto più possibile alla larga dal didietro del fuorilegge, definito un’arma impropria.
L’aula era vuota, fatta eccezione per due giornalisti che annoiati annotavano la notizia… e una giovane capitano della LED, che abbassò il capo con fare colpevole. Spinella Tappo non disse nulla al compagno d’avventure appena condannato; era una Buona, lei, una Giusta dalla parte del Giusto. La sua presenza era dovuta solo ad un bisogno di fornire appoggio morale. Non molto utile, ma meglio di niente.
Fu trascinato attraverso corridoi, gallerie e ancora corridoi, il tutto senza un minimo di educazione. Infine, dopo molta strada che avrebbero anche potuto compiere a bordo di una comoda camionetta, si fermarono di fronte al carcere, una scura struttura dall’entrata simile a quella dell’inferno.
Bombarda Sterro sbuffò.
Firmarono due fogli a testa, lo trascinarono attraverso molte porte. Infine passò da solo l’ultima, quasi in volo, spinto nella buia alcova che lo avrebbe imprigionato per secoli. I battenti scricchiolarono alla brusca chiusura, e il buio più totale piombò nella stanza.
Bombarda Sterro imprecò.
Si sedette al buio, incrociando le gambette sul pavimento a prova di scavatore, e snocciolò le peggiori espressioni che gli vennero in mente.
Il giovane Fowl si credeva d’aver fatto tutto per bene, modificando una dannatissima data. Una data! Cosa credeva di ottenere? Sì, aveva forse rallentato i trentasei processi che negli ultimi due anni lo avevano visto come imputato, ma cos’altro? La solida e infallibile burocrazia sotterranea aveva saputo macinare il difetto con la fredda determinazione di un carro armato, giungendo infine all’agognata meta: la reclusione e – perché no? – la redenzione del fuorilegge.
Quella geniale mente criminale che aveva saputo farsi beffe di tutto il Popolo stava perdendo colpi, concluse il nano. Forse al tempo era stressato per la prospettiva di uno Spazzamente, o forse i suoi piani erano stati influenzati dalla conoscenza della labile e mancante burocrazia umana… fatto stava che adesso il nano era rinchiuso in un buco, e il ragazzo vagava ignaro per il mondo, vivendo la propria esistenza, senza alcun sospetto circa una parte memorie mancanti. Memorie che solo lui avrebbe saputo… no, avrebbe voluto risvegliare. Quella era la missione che Artemis gli aveva affidato; ma aveva confidato troppo nelle proprie capacità, e ora avrebbe pagato con i suoi stessi ricordi.
Bombarda Sterro si chiese a che ora vi fosse la cena.

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Capitolo 3
*** Capitolo Primo ***


CAPITOLO PRIMO

Non era certo uno che amava passare inosservato, il coraggioso che aveva parcheggiato quella lunga, nera e lucida limousine in uno dei più malfamati quartieri di New York. Molti ragazzini dagli abiti lerci passarono accanto a quel gioiello, organizzando mentalmente furti che andarono a monte non appena intravedevano il gorilla che vi era stato lasciato di guardia: un omone grande, grosso, dai neri capelli striati di grigio e l’espressione degna del peggior diavolo.
Il proprietario, invece, ne era l’antitesi: basso, giovane, esile fisico dello studioso; accompagnato da una bella ragazza, si era diretto all’interno di uno dei grandi palazzi popolari, inghiottito dalla povertà che albergava in quei luoghi. Piuttosto disturbato dall’assenza di ascensore, con pazienza si era diretto alle scala, puntando al sesto piano.
“Forse diamo un po’ troppo nell’occhio?” Azzardò Juliet, sorpassando tre giovanotti dai tratti latini e idee non proprio degne di un gentleman. “Magari avremmo dovuto mimetizzarci con…”
“Mimetizzarci?” La voce di Artemis era più roca. Ultimamente molto di lui andava trasformandosi, grazie a quella metamorfosi naturale che lo avrebbe fatto diventare uomo. Tacitamente, il giovane Fowl attendeva con impazienza lo sputare di qualche pelo, anche se questo stadio era ancora ben lontano dal realizzarsi. Una volta adulto, avrebbe potuto gestire la sua intelligenza e le sue risorse al meglio, senza essere costretto a mascherare geniali imprese agli occhi di quei genitori così faticosamente ritrovati, eppure così diversi e paradossalmente sempre più lontani. “Ho con me sia te che Leale: non avrei bisogno di mimetizzarmi nemmeno in presenza del Ku Klux Klan!”
“Grazie per la fiducia… ma dobbiamo contrattare con gente pericolosa e… beh non vorrei altre distrazioni, tutto qui.” Gli occhi non smettevano mai di saettare qua e là, esplorando attentamente l’ambiente circostante. Una vera guardia del corpo; peccato che avesse deciso di interrompere gli studi.
“Pericolosa? Degli idioti che vendono una merce tanto preziosa su internet non possono certo…” Tacque. Ecco, ci stava ricascando: sottovalutava il nemico. “Hai ragione: meglio non abbassare la guardia. Ma ho come la sensazione che non avremo molti problemi. E poi…” Le sorrise, ammiccando prima all’abbigliamento provocante che le aveva domandato di indossare, poi al proprio completo di Armani. “… A volte un po’ di classe suscita quel tanto di rispetto che basta, no?”
Juliet annuì, facendo ondeggiare la lunga treccia alla cui estremità era legato un pesante – e letale – fermacapelli. Sapeva esattamente quale era il suo ruolo: oca. Non doveva fare altro che passeggiare dietro al capo, facendo ondeggiare le forme messe in mostra dallo stretto abito in velluto nero, fingendo uno sguardo perso nella stupidaggine più totale. Essere donna spesso comporta questo doppio vantaggio: rimbambire gli uomini e far credere loro di essere una povera sprovveduta.
Se solo avessero osato alzare le mani su di loro, non ce ne sarebbe stato per nessuno.
Giunsero infine al sesto piano, camminando con attenzione nel corridoio scricchiolante che sembrava non aver ancora deciso se crollare o meno.
“Eccoci qui.” Un sorriso tirato sul volto pallido, Artemis allungò una mano alla porta in fondo a sinistra, bussando un paio di volte, con eleganza. Dietro quel vecchio e marcio strato di legno forse si celava uno dei misteri che il giovane aveva inseguito per tutta la vita, galoppando come una bambina che cerca disperatamente di catturare una bianca farfalla. Dietro quella porta… c’era il senso ultimo del Mistero.
O forse più semplicemente una trappola con uomini mascherati e pallottole fischianti; ma anche questo faceva parte del divertimento.
Qualcuno rispose al bussare. Intanto, una vocina, una vocina così famigliare che spesso sussurrava nei suoi sogni lo avvertì di non entrare, di non affrontare il destino che lo aspettava. Il senso pratico di Artemis la zittì con divertita indifferenza. Non era tipo da voci, lui.
La porta si aprì.

Teneva una mano premuta contro il petto. Le doleva molto, e sospettava che il gonfiore del polso non promettesse nulla di buono… ma doveva cercare di non pensarci: nessuno lì l’avrebbe curata, quindi tanto valeva dimenticarsi di ossa rotte e sangue essiccato.
Chiuse gli occhi, tentando di rievocare i pochi momenti piacevoli della sua esistenza, sensazioni che magari avrebbero saputo donarle serenità anche in un frangente simile; voleva ricordare quelle rare volte in cui non si era sentita solo disprezzata cavia di laboratorio, ma anche essere amato e rispettato. Però le uniche immagini che la sua mente si degnò di risvegliare furono fuoco e fiamme, esplosioni del capanno del padrone che lei stessa aveva involontariamente distrutto, fuggendo con disperazione per le vie di una città la cui grandezza non aveva mai nemmeno osato immaginare.
Era stata inghiottita da quella bestia feroce, dal suo caos, dai suoi odori, e proprio quando pensava d’aver conosciuto degli uomini gentili (“Ciao bella fatina… vieni a casa con noi! Non hai fame?”), nuovamente la sua fiducia era stata tradita. L’avevano picchiata e costretta in quella stanza, nutrendola con scarti e attendendo qualche facoltoso collezionista interessato all’Incredibile Ragazza Alata, venduta ad un’asta on-line per mezzo milione di dollari a un facoltoso quanto misterioso miliardario.
La porta si aprì.

Artemis avvertì una grave forma di carenza da saliva. Una reazione decisamente normale, considerata la situazione.
Accolti da tre briganti afflitti da alitosi ed evidente allergia ad acqua e sapone, per un attimo lui e Juliet avevano supposto d’essere davvero caduti in una stupida trappola; ma, una volta vista la valigia e il suo verde e frusciante contenuto, i tre si erano tramutati in agnellini, conducendoli nell’unica altra stanza dell’appartamento, chiusa a chiave.
Rivolto uno sguardo che voleva essere furbo all’acquirente ed un altro che voleva essere languido alla sensuale accompagnatrice, uno di loro l’aveva spalancata, presentando loro la merce.
Una merce di corporatura esile, coperta di stracci e sangue. Una ragazza del tutto normale, fatta eccezione per la pelle color perla e le strane orecchie a punta, che emergevano dalla massa di morbidi boccoli.
“Sarebbe questa? Non vedo ali.” La voce si indurì al punto da far tremare quello che doveva essere il capo banda.
“Ci sono le ali, ci sono!” Entrò prepotentemente, dirigendosi a gran passi verso di lei. Le strappò un urlo a metà tra il dolore e la paura, mentre sgraziatamente la voltava, costringendola a dare la schiena agli ospiti. Una schiena nuda, sottile, dalla quale emergevano sottili ma grandi ali di fata; se le teneva ripiegate, riusciva a nasconderle alla perfezione. Quale strana creature era mai…?
“Le faccio un pacchetto o la porta via così?” Ghignò l'uomo, riconoscendo nello sguardo sorpreso del ragazzo la buona riuscita dell'affare. Ma purtroppo per lui la battuta non fu certo bene accolta, e quasi se la fece addosso, quando una fredda canna di pistola fu premuta contro la sua fronte.
“Sarà anche stata venduta come una schiava,” Il cane scattò, freddo e placido. “ma nessuno tratta così una ragazzina in mia presenza.” Fu la spiegazione dell’accompagnatrice, e Artemis non poté trattenersi dal sorridere, ricordando spaventosamente un vampiro.
Era davvero impossibile chiedere a Juliet d’essere un’oca decente.

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Capitolo 4
*** Capitolo Secondo ***



Scusatemi tanto se mi faccio sempre aspettare un sacco per questi aggiornamenti... è che ho sempre troppo da fare! ç_ç
E inoltre questa storia mi piace molto, quindi cerco di non rovinarla con scritture frettolose...
Grazie a coloro che sinora mi hanno commentata! La trama si sta pian piano sviluppando, e spero che saprà coinvolgervi. In questo capitolo non accade nulla, ma forse può esservi utile per comprendere meglio la Creatura...
Sono così felice di poter inserire Spinella nel prossimo! Spero di renderla come si deve ^^' A presto! E come sempre... datemi più consigli che potete! ;)



CAPITOLO SECONDO

Leale squadrò come solo lui sapeva squadrare il gruppetto che frettolosamente uscì dal diroccato palazzo: un ragazzino vestito come un adulto e una minuta fanciulla ‘gentilmente’ trattenuta per le spalle da sua sorella.
Aprì la portiera, come il più educato degli autisti, eppure scoccò un’occhiataccia al suo datore di lavoro.
“Sarebbe questa la merce che dovevi ritirare?” S’informò, non appena anche Juliet e gentile ospite furono a bordo. Quest’ultima rivolgeva disperate occhiate tutt’intorno, spalancando sino all’inverosimile grandi occhi color smeraldo; e in essi vi si poteva leggere terrore allo stato puro.
“Proprio questa. Andiamocene.” Non c’era fretta o tensione nella voce del ragazzo. Sempre così freddo, così tenebroso. Entrò in macchina, osservando il suo acquisto come solo uno scienziato può osservare un rarissimo coleottero del Guatemala.
“Questa è tratta di schiavi, se non sbaglio.” Leale avviò il motore, non potendo trattenere la dichiarazione. Amava Artemis, quanto un padre può amare un figlio; e perciò soffriva sinceramente nel vederlo passeggiare sulla sottile linea tra legalità e illegalità. Ma non poteva certo prodursi in paterne ramanzine e altro non gli restava, se non accompagnarlo e proteggerlo. Sempre. Comunque.
“Fidati, Leale: starà molto meglio con noi, che con quelle bestie.” Rivolse alla creatura un sorriso che forse voleva essere rassicurante, ma che le ricordò spaventosamente un predatore notturno. Ella si strinse quanto più possibile contro Juliet.
“Avrà pure una famiglia, no? Dove fare ritorno.” Azzardò Leale, svoltando a sinistra e rivolgendo un’occhiataccia a un’automobilista che tentò di fregarli la precedenza.
“Una famiglia che l’ha venduta, suppongo. Ecco perché era in mano di quella banda. Sbaglio?” Si volse nuovamente verso di lei, con tutto lo charme che gli era possibile. Per tutta risposta, la creatura gli soffiò. Come un gatto.
“Sembra pescata da un circo…” Mormorò Juliet, sfiorandole con incredulità le leggere ali.
“Chi lo sa? Forse.” Artemis fece spallucce: il passato della creatura non era affare che lo riguardasse.
Da un anno a questa parte, da quando si era misteriosamente risvegliato con un paio di lenti a contatto che chissà da dove erano spuntate, un misterioso desiderio era sbocciato in lui: il Mistero.
Era come se nella sua anima – sempre che ne possedesse una – vi avesse preso dimora una voce, una voce di oltretomba, il cui unico passatempo era martellarlo con: non siamo soli, Artemis cerca!, cerca le creature della Fantasia!, e altre idiozie simili. Cioè. All’inizio le considerò idiozie. Poi divennero stuzzicanti misteri. E infine, una poderosa sfida, guidata dalla convinzione: fate, folletti, elfi, gnomi, nani… qualcuna di queste creature doveva esistere per davvero. E lui, Artemis Folw Junior, le avrebbe trovate. E sfruttate, ovviamente.
Non gli era mai capitato. Era la prima volta che agiva in base ad un impulso irrazionale, eppure ciò non lo privava di carica. Anzi. Libero nella sua ferrea conSapevolezza, era come un ebbro nel mondo del vino: quelle razze esistevano. Punto. La sfida stava nel riportarle alla luce.
E quella sottospecie di stramba fatina che lo fissava come se fosse il peggiore dei carcerieri era il suo primo e più grande passo sulla via del Sapere. E, questa era la sua speranza, anche sulla via dell’Arricchimento.
“Adesso dovremo prendere un aereo. Non hai paura di volare, vero?” Chiese Juliet, in uno slancio di tenerezza. Era una specie di farfalla troppo cresciuta, sì, con due occhi che parevano spiritati, ma le faceva in ogni caso tenerezza. Evidentemente lei non capì le sue parole, ma ne avvertì il tono gentile. Rispose con un caldo sorriso.
“Paura di volare? Ha le ali!” Ad Artemis, invece, riservò la solita occhiataccia torva. Di quelle della serie: appena posso ti strangolo nel sonno.
"Non sa parlare?" Juliet premette una mano sulla giuntura della mascella, facendo sì che lei aprisse la bocca. Forse le avevano mutilato la lingua? No, eccola. Apparentemente in perfette condizioni. "Prova a muoverla. Così." Si produsse in qualche linguaggia, sorprendendo Artemis. La creatura rise di quello che le sembrò un gioco, e rispose prontamente. "Mi sembra tutto a posto. Forse non capisce la lingua..."
"E' un problema di cui mi occuperò a casa. Personalmente." Oh sì, se ne sarebbe occupato. E con grande impegno: quella era la Chiave, lo sentiva. E la Chiave avrebbe dovuto parlare!
“Come faremo con il passaporto?” Leale li riportò sulle questioni pratiche, mentre entrava nel parcheggio dell’aeroporto.
Artemis sorrise come un vampiro, estraendo il suddetto documento dalla tasca del completo Armani. Lo aprì, mostrando lo spazio vuoto al posto della foto.
“Una fototessera, e siamo a posto! Hai con te una fototessera?” Chiese con ironia del tutto inglese.
“Non vorrei sembrare pessimista, ma sembra stia pensando a dove morderti…”
“Sì, da questa idea anche a me.”
Poi, fu solo grazie alla prontezza di riflessi di Juliet, se Artemis non si ritrovò con simpatici segni di denti sulla pelle.
Sin troppo selvatica, la creatura.

Nel sottosuolo, Spinella Tappo Sbuffò. Vide il segnale lampeggiante che non voleva smettere di brillare con audace ironia, e sbuffò di nuovo.
"Polledro, qadrupede paranoico... cos'altro avrà visto?"


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Capitolo 5
*** Capitolo Terzo ***


Uhm... sarà... un anno, che non aggiorno? Se non lo è, ci manca poco.
Chiedo perdono, ma ho sempre paura quando metto mano a questa storia. Spero che prosegua sempre secondo il vostro gusto.



CAPITOLO TERZO

Spinella Tappo. Audace, brillante, fidato capitano. Secondo l’opinione Julius Tubero.
Spinella Tappo. Folle, incontrollabile, sanguinaria elfa. Oltre che schizofrenica. Secondo l’opinione della maggioranza del Popolo.
Poliedro non faceva parte di questa maggioranza; anzi. Riteneva quella creatura dai brillanti occhi nocciola sua fidata amica, oltre che membro insostituibile della LEP. Forse il suo sentimento era una conseguenza di quel senso di vicinanza che tende a nascere tra creatura sostanzialmente atipiche, solitarie: lui, centauro dal cervello vasto come un pianeta; lei, la sola femmina nel corpo della LEP. Spinella era unica, come lui. Per questo aveva chiamato lei. Anche perché la Spinella lo avrebbe aiutato a sopportare il caro Comandante Julius Tubero.
“Eccomi” sbuffò la signorina Tappo, lasciando che le porte automatiche si richiudessero alle sue spalle. “spero per te che sia una cosa urgente, perché…” non appena levò il capo, bloccò ogni lamentela.
Tubero possedeva in tutto tre espressioni: quella usuale, un misto tra il tranquillo poliziotto ed il maniaco omicida, quella furiosa, una specie di rosso pomodoro con naso e occhi, prossimo all’esplosione, e, infine, quella nervosa, che lo faceva somigliare ad un palloncino in procinto di atterrare su un cactus.
Al momento il comandante, intento a fumare il suo solito sigaro, stava sfoggiando proprio l’ultima. La più preoccupante. Era un’espressione che prometteva guai, ma, perlomeno, non erano guai causati da lei. Forse.
“Spinella!” tuonò Tubero, in quello che sarebbe dovuto essere un gentile saluto. “Ehi, tu: aggiornala.”
Ehi tu: aggiornala. Polledro quasi s’imbizzarrì d’indignazione, al sentire un simile comando: non aveva ancora presentato una richiesta ufficiale per divenire l’obbediente barboncino di Tubero, eppure certe volte lui sembrava considerarlo tale. Anzi, forse avrebbe trattato un barboncino con maggior riguardo.
Rimandò le sentite proteste, in uno sforzo di coscienza: vi era un problema ben più grosso da affrontare.
Trottò verso la plancia del suo computer, ove fece danzare le delicate dita, in una sinfonia a lui solo conosciuta.
“Ricordi il satellite che abbiamo messo in orbita da poco?” domandò, rivolto a Spinella.
“Satellite? Quello che il consiglio ha considerato inutile, costoso e parto di una mente paranoica?” s’informò cortesemente l’elfa, attendendo che egli giungesse al nocciolo della questione.
“Quello.” confermò Poliedro, con un tono di voce talmente roco da illustrare alla perfezione cosa egli pensasse delle opinioni del consiglio, o dove, secondo lui, i membri stessi potessero ficcarsi le suddette opinioni. “Come saprai, basa la sua ricerca sull’individuazione a distanza del DNA... “
Oh, no. Adesso partiva. La Spiegazione.
Spinella cercò una poltrona ove accomodarsi, sospirando affranta.
“Codesto tipo di ricerca è assai importante, per individuare nostri membri sfuggiti al controllo, forse in difficoltà…”
Spinella sbadigliò. Tubero alzò gli occhi al cielo, o meglio al soffitto, dove trovò una piccola crepa che destò il suo interesse.
“…Il satellite riesce a smistare dodicimila individui al secondo, muovendosi alla velocità di…”
Spinella avvertì le proprie palpebre farsi terribilmente pensanti; ma che cavolo, era o non era un’agente della LEP? Aveva superato prove ben peggiori. Decise di resistere stoicamente.
Tubero, dal canto suo, cominciò ad assumere la famigliare sfumatura rossastra.
“… Ovviamente, ho due speciali centrali operative che si occupano di…”
“Polledro! Il punto! Vedi di arrivare al punto!” sbraitò finalmente il comandante, salvando la povera capitana dal letargo.
“Il punto?” cadde dalle nuvole il centauro.
“Sì, il punto! Hai presente?”
“Oh, certo. Il punto!” Polledro smise di carezzare amorevolmente i suoi cuccioletti informatici, dedicando interamente la sua attenzione al capitano. “Il punto è questo: ho individuato un'inconfondibile traccia di dna di fata in superficie.”
“Direi che è normale; in questa stagione sono tutte a danzare nude sotto il…”
“Non normale affatto.” Polledrò premette un pulsante, aprendo una schermata. Schermata raffigurante una piantina che la capitana ben conosceva. “Indovina dove questa traccia è stata individuata…?”
“Oh, no.”

“Oh! Un’amichetta!” La signora Fowl, intenta a spiare l’ingresso dalla fessura di una porta socchiusa, si trattenne a stento dal saltellare tutta eccitata.
“Dici sul serio?” Suo marito – quel marito dapprima perduto e poi ritrovato – le si fece vicino, azzardando timidi passi sulla protesi che gli sostituiva quella gamba perduta in un brutto incidente navale.
“Sì, sì! Ha portato a casa un’amichetta!”
“Ma è meraviglioso!”
Angeline uscì radiosa dalla stanza che aveva appena usato per osservare di nascosto l’enorme l’anticamera della loro villa, raggiungendo a braccia protese il figliolo appena tornato a casa. Ignorava che il piccolo Fowl avesse appena preso tre aerei, viaggiando per tre ore consecutive: non era nei programmi di Artemis far conoscere ai genitori le proprie idee criminali. Avrebbero avuto il pessimo gusto di disapprovarle, ne era certo.
“Artemis, bentornato!”
Lui le rivolse un sorriso. Un sorriso che avrebbe forse voluto essere caldo, ma che invece risultò freddo come un iceberg.
La fanciulla, dal canto suo, quella mezza fata schiava, si fece piccola dietro a Juliet, osservando con curiosa diffidenza la nuova arrivata. Arrivata che sfoggiava un alquanto preoccupante sorriso.
“Buongiorno, madre.”
Sapeva che ora lei lo avrebbe accolto in un abbraccio affettuoso, e le sue due metà ripresero a litigare. La prima, quella che la sua mente visualizzava come un bambino dall’espressione mogia, strillava di gioia all’idea di quella vicinanza; la seconda, chissà perché dall’aspetto di un sanguinario gangster, rimase impassibile. Angeline lo strinse fra le proprie, morbide braccia, e per un attimo la prima parte di lui ebbe il sopravvento; solo per un momento.
“E questa…” azzardò Angelina, staccandosi dal figlio e riservando uno sguardo gentile alla piccola fata.
La osservò. Era deliziosa, certo. Un po’ sporca, vestita di stracci; ma assolutamente deliziosa.
“Lei è…” ben sapendo che il luogo più sicuro ove nasconderla sarebbe stata Casa Fowl, Artemis aveva preparato una scusa risolutamente inespugnabile: quella fanciulla, così sporca e malconcia, l’aveva raccolta per la strada, intenerito dalle sue condizioni.
“Oh, anche se è povera, l’accoglieremo ugualmente con gioia!” cinguettò la madre. “Ciò che importa è l’amore!” Per la prima volta nel giro di un anno, il fanciullo rimase decisamente interdetto. Nonché senza parole. Suo padre decise che quello era il momento buono per sbucare e salutare tutti, saltellando non certo come un morto tornato in vita.
“Piacere di conoscerla…” canticchiò, esibendosi in un inchino tanto profondo, da mettergli in predicato la protesi. "Con chi ho l'onore di...?"
“Ma no padre, lei è…” Ad Artemis parve chiaramente di sentire Juliet sghignazzare alle proprie spalle.

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