Senza Luna

di Ely79
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap. 1 ***
Capitolo 2: *** Cap. 2 ***
Capitolo 3: *** Cap. 3 ***
Capitolo 4: *** Cap. 4 ***
Capitolo 5: *** Cap. 5 ***
Capitolo 6: *** Cap. 6 ***
Capitolo 7: *** Cap. 7 ***
Capitolo 8: *** Cap. 8 ***
Capitolo 9: *** Cap. 9 ***



Capitolo 1
*** Cap. 1 ***


Cap. 1
Questa storia ha partecipato al contest "Let's Fly on Fantasy's Wings" indetto da SunnyPain, classificanosi al quarto posto. I giudizi saranno riportati al termine del nono capitolo.
La storia partecipa anche alla “Quote Challenge - Ipse Dixit” indetta da Fabi_Fabi, con la seguente citazione tratta da “Il Signore degli Anelli”: Gli alberi e le erbe e ogni cosa che cresce o che vive in questa terra non hanno padrone. (Baccador)


Nickname: ely79
Titolo: Senza Luna
Numero dei capitoli: 9
Pacchetto scelto: Pacchetto della Luna
Trama: Neryon fa ritorno presso il suo clan dopo anni di esilio. Il mondo è cambiato per gli uomini e per i licantropi. E anche per uno come lui: un Senza Luna.
Nda: I licantropi sono visti da un punto di vista insolito: non sono mostri sanguinari, bensì elementi di una società multietnica in fase di sviluppo.

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1

Sono passati quindici anni da quando ho lasciato la mia città. Cammino lentamente, girando con il naso per aria e lo sguardo perso in cerca di sagome che mi ricordino dove mi trovi, ma sembra che i vecchi punti di riferimento siano stati spazzati via quasi del tutto.
È davvero strano essere tornato a far parte di questo mondo urbano. Lunghe strade alberate e gremite di persone dividono i palazzi del centro, che s’innalzano maestosi verso le nuvole. C’è una strana insistenza nel verticalizzare tutto: gli edifici in primis, con le loro finestre alte e strette, e le facciate scandite da un ritmo identico, si allungano come alberi senza rami nel cielo. Persino i viali sono stati potati in maniera da conferire slancio zenitale alle piante. Salite e discese si alternano di continuo, dando l’impressione di trovarsi su un gigantesco tappeto elastico che tenta di lanciarti in aria. La segnaletica stradale è stata collocata in posizioni elevate, fino a raggiungere e superare la sommità delle chiome. Sembra quasi che la città tenti di staccarsi da terra e prendere il volo. Riconosco in lontananza la sagoma del supermercato dove nostra madre ci portava da bambini, ma osservandolo con attenzione scopro che è stato ritinteggiato con i colori di un’altra catena di distribuzione. Insegne di metallo e led fanno capolino dalle facciate, esibendo nomi che spesso trovo amaramente sarcastici: “Sunflower”, “Dawn-Dawn-Dawn!”, “Tails Hunter”, “Bed of Wolfsbane”*. Sembrano venirmi incontro con il preciso scopo di ricordare la mia diversità.
Musica allegra e ritmata, suonata dal vivo, arriva dalle porte aperte dei locali. Si suonano gli stili più disparati, tuttavia, non riesco a riconoscerne nessuno. Da troppo tempo ascolto solo i rumori della natura. Il flebile ronzio delle auto elettriche che affollano le corsie fa da sottofondo alle chiacchiere dei passanti. Le voci. Ecco, le voci sono la sola cosa che mi pare immutata: un brusio indistinto, una sorta di nebbia perennemente presente.
Voci e sguardi. Ero convinto di passare inosservato, ma mi rendo conto che si trattava di una vaga speranza, anche se non ne comprendo la ragione. Apparentemente sono identico a tanti passanti, anonimo quanto loro, tuttavia in molti si girano a guardarmi. All’ennesima occhiata a metà fra il disgustato e l’interrogativo, mi fermo a cercare il mio riflesso in una vetrina. Finalmente scopro il perché di tanta attenzione: ho un aspetto orribile e non serve essere un abitante di qui per dirlo. Difficilmente sarei potuto passare per una persona qualunque: vestiti trasandati e larghi, scarponi da montagna sporchi e consunti, capelli e barba lunghi, fisico magro – per non dire macilento – di chi mangia troppo poco. Senza contare che la stanchezza mi scava gli zigomi facendo risaltare maggiormente gli occhi. Questi occhi, le cui iridi argentee mi identificano come uno di loro. Anche un bambino dell’asilo saprebbe distinguermi tra la folla.
Sospiro abbattuto, domandandomi se le cose potranno migliorare, ora che sono qui. Ora che la mia famiglia mi ha chiesto di tornare e rimanere.
Riprendo a camminare, in cerca del luogo dell’appuntamento.


*“Sunflower”, “Dawn-Dawn-Dawn!”, “Tails Hunter”, “Bed of Wolfsbane”: ovvero "Girasole", "Alba-Alba-Alba!", "Cacciatore di code", "Letto di aconito". Tutte cose poco mannare...

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Capitolo 2
*** Cap. 2 ***


CAp. 2

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2


Mi sento profondamente a disagio in questo locale. Tovaglie bianche su tavoli di legno scuro, bicchieri di vetro e piatti di porcellana, posate di metallo dove luccica il riflesso delle lampade appese al soffitto. Grandi gomitoli di filo metallico punteggiato di luci vagamente dorate. Sulle pareti candide campeggiano quadri astratti dai colori accesi. Ogni cosa parla di pulizia e ordine, i miei esatti opposti.
Nonostante mio fratello abbia prenotato un tavolo in un angolo tranquillo e discreto, mi sento addosso gli occhi dei pochi avventori del tardo pomeriggio. Sguardi assillanti e indagatori, quanto irreali. Quando sai di essere diverso, sei portato ad ingigantire le percezioni, specialmente quelle ostili.
Manca una manciata di minuti all’ora dell’incontro e non posso fare a meno di chiedermi chi vedrò entrare da quella porta. Fatico ad immaginare quali cambiamenti siano avvenuti in lui.
Lo stomaco brontola già da qualche tempo ed il profumo dei manicaretti che fanno bella mostra di sé nella vetrinetta non mi aiuta per niente. Non ordinerò prima che lui si arrivato, ho tenuto a mente almeno un briciolo di buone maniere.
Tengo le mani fra le ginocchia da così tanto tempo che le sento formicolare. Provo a muoverle contro la stoffa ruvida dei pantaloni, curvandomi fin quasi a toccare la tovaglia con il naso. I capelli mi cadono sulla fronte e sulle palpebre; attraverso la loro cortina posso notare l’espressione di vaga commiserazione del cameriere. Probabilmente si sta domandando cosa diamine ci faccio nel suo locale. Io, un derelitto, un reietto. Un poveraccio. Almeno al momento. Chissà, forse fra qualche settimana o fra qualche mese, sarò solo uno dei tanti clienti da servire con un sorriso. Probabilmente mi sto illudendo per l’ennesima volta.
Sospiro, continuando a sgranchire le nocche. Mi sono accorto di farlo con una certa frequenza. Sospirare, intendo. Da quando ho ricevuto il permesso di tornare, è un continuo gonfiarsi e sgonfiarsi della mia cassa toracica. Ho la testa piena di dubbi, pensieri, parole attorcigliate come serpi. Respirare è un modo come un altro per cercare di svuotare le meningi. Eppure non dovrei stupirmene: tutta la mia vita da quindici anni a questa parte è stata improntata all’incertezza, eccettuato per quanto riguarda la mia diversità. Quella è sempre stata indiscutibile, fin dal suo manifestarsi.
Un ritaglio della mia faccia appare nella lama del coltello. Due tondi argentei sul metallo dello stesso colore. Quasi non c’è differenza. Eppure non condividono nulla. Non c’è traccia della durezza o del freddo dell’acciaio nei miei occhi. Sono troppo intensi, troppo guizzanti. Troppo vivi. Occhi da predatore, che avrebbero dovuto rendere fiero mio padre.
Sono costretto a raddrizzarmi per stendere le braccia e cercare un po’ di sollievo. L’imbottitura dello schienale tenta di spingermi di nuovo in avanti e le mie ossa si oppongono a malapena.
Finalmente, entra un uomo. È alto, il fisico massiccio ma proporzionato, i capelli corti e scuri. Tiene la giacca gettata su una spalla con noncuranza. Fa un cenno al cameriere e si volta sorridendo. Gli occhi ambrati scintillano nella mia direzione.

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Capitolo 3
*** Cap. 3 ***


Cap. 3

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3


Veste un completo sobrio in bianco e nero, che si accorda benissimo col suo carattere: nessuna via di mezzo. Tutto buono, tutto cattivo. Istintivamente incasso la testa fra le spalle. Questo dannato senso di inadeguatezza e vergogna mi attanaglia da una vita, anche di fronte a lui, che non mi ha mai giudicato. Mi ha rincorso come un pazzo, fin quasi a spezzarsi le gambe, il giorno in cui sono stato portato via. Non voleva che me ne andassi, anche se ero sbagliato. Ed è stata la sua mano a vergare le poche righe che recitavano l’annullamento della mia condanna.
Si avvicina, osservandomi.
«Sei davvero tu, fratellone?»
Mi alzo facendo spallucce. Fratellone a me, che gli arrivo a malapena al mento. Però ha ragione, il maggiore sono io.
«Potrei chiederti la stessa cosa» rispondo a mezza voce.
Mi sorride senza muoversi.
«Quindici anni…» mormora pensieroso, quasi non si rendesse davvero conto di quant’è immenso quel lasso di tempo.
La sua voce è roca e pesante. Ricorda quella di nostro padre.
«Eh, già» confermo laconico, abbassando il capo.
Restiamo lì a fissarci per quelle che sembrano ore. Intravedo a stento il cameriere girarci attorno, in attesa delle ordinazioni. Ad un tratto vorrei scappare, fuggire via e tornare da dove sono venuto. Mi domando cosa stia per succedere.
«Hai intenzione di restartene lì dietro al tavolo o vuoi uscire allo scoperto e abbracciarmi, brutta bestiaccia selvatica? Obbedisci!» ride, allargando le braccia e facendo un passo verso di me.
«Gli alberi e le erbe e ogni cosa che cresce o che vive in questa terra non hanno padrone»  sbotto, come se quelle parole potessero difendermi o giustificarmi.
Perché poi? Lui sa ogni cosa.
«E tu quanto loro» osserva Soyi, azzerando la distanza e stringendomi.
Sorrido, semisoffocato contro il suo petto. Vorrei piangere, non so se di gioia o sollievo. Strofino il capo contro la sua mascella, come sarebbe giusto in un branco. Lui ricambia. Avverto il tremito di felicità che percorre entrambi. È una sensazione magnifica.
«Fatti guardare, dannazione» dice, allontanandomi un poco.
Mi squadra assottigliando gli occhi gialli, respirando piano, ma continuando ad artigliarmi le spalle con le mani immense. Sposta i capelli dalla mia faccia, passa una mano sulla guancia ispida. Cerco di fare altrettanto, finendo per concentrarmi sul pavimento.
«Fai davvero schifo» sentenzia, gettando indietro il capo per il troppo ridere. «Ti dovrò fare un restyling totale per renderti presentabile, sempre che non voglia pensarci mamma!»
«Abbi pietà» supplico, tentando di apparire divertito.
«Non ti concedo la pietà» ribatte, improvvisamente serio. «Non ti serve, anche se ne sei convinto. E non chiedermi come faccio a saperlo. Ho studiato. Il tuo caso e altri. Avete questa stupidissima tendenza ad autocommiserarvi e ad erigere mura tra voi e chi vi vuole stare accanto. Beh, fratellone, sappi che i tempi sono cambiati, è ora di uscire dalla tana e tornare a correre col branco. Pelliccia o no» e scuote con due dita la mia camicia.
Sono esterrefatto, confuso. Le parole mi sfuggono dal cervello come sabbia.


La frase in corsivo è la citazione n° 24 per la "Ipse Dixit Challenge" di Fabi_Fabi, tratta da "Il Signore degli Anelli".

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Capitolo 4
*** Cap. 4 ***


Cap. 4

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4


All’epoca avevo tredici anni e Soyi dodici. Andavamo a scuola, giocavamo con gli amici, prendevamo castighi per i guai che combinavamo. Due ragazzini come tanti. Tuttavia, già a quell’età, avevamo abbastanza chiaro cosa ci avrebbe atteso in futuro. E lo attendevamo con ansia.
Nostro padre aveva decretato, pur senza dirlo apertamente, che sarei stato il suo successore nella famiglia. Io, il primogenito, il nuovo vertice del nostro piccolo mondo.
«Diventerò come papà e tu mi starai dietro, vero?» dissi a Soyi una sera, mentre osservavamo i nostri genitori ed i familiari radunarsi nell’interrato della nostra casa.
Là c’era il posto che chiamavamo “la buca”, il luogo in cui si tenevano le assemblee. A noi era proibito l’accesso, ma la sognavamo tutte le notti.
«Certo, capo!» rise Soyi. «Mica ti mollo solo perché sei il preferito! Ognuno ha il suo compito».
Non passò molto tempo, prima che cominciasse il cambiamento.
Una sera, mio fratello cominciò a sudare e a contorcersi. Cadde a terra urlando e corsi a chiamare aiuto. In breve, Soyi venne portato di sotto. I parenti andavano e venivano, eccitati e festosi. Verso mezzanotte, giunse la notizia: mio fratello era mutato, era ufficialmente entrato nel clan. Era un licantropo. Ero felicissimo, perché era ovvio che entro breve, sarebbe toccato a me.
Passarono i giorni, le settimane. I mesi. Compii quattordici anni. E nulla in me cambiava. Nonostante tenessi testa alla forza ed all’agilità crescenti di Soyi e degli altri giovani mannari del clan, la luna, la nostra Grande Madre, non mi chiamava. Venivo guardato con commiserazione, gli altri clan mi deridevano e sbeffeggiavano mio padre. Il suo erede era un Senza Luna, un pericolo. E il pericolo, per legge, andava eliminato.
La disperazione ebbe la meglio.
Un giorno, mia madre mi trovò nella grotta. Non m’importava d’essere venuto meno al divieto, ero a pezzi. Mi lanciavo contro le pareti e sul pavimento, gridando come un ossesso. Speravo di costringere il lupo nascosto in me ad uscire dalla mia pelle. La notte precedente, gli occhi mi avevano fatto male e, al sorgere del sole, li avevo trovati diversi: il verde aveva lasciato posto al grigio. Sapevo cosa significava e non potevo accettarlo. Non volevo. Non capivo perché il richiamo della Grande Madre avesse prodotto quell’effetto su di me. Volevo essere come i miei fratelli, la mia famiglia, i miei compagni di clan. Volevo essere come tutti. Un lupo mannaro qualunque.
E sopra ogni altra cosa, mi odiavo per aver deluso mio padre. Quale capobranco poteva desiderare per figlio un Senza Luna? Uno che non era licantropo e neppure umano?
«Neryon» chiamò mia madre.
Ero pesto e sanguinante, quei maledetti occhi chiari pieni di lacrime e la gola riarsa dalle troppe urla. Cercò di calmarmi, ma ero troppo sconvolto per accettarlo e la allontanai, riprendendo a massacrarmi. Riuscirono a portarmi fuori solo quando caddi a terra stremato.
C’era una sola soluzione, se volevo sopravvivere: sparire. Mi mandarono a vivere lontano, sulle montagne, insieme ad altri Senza Luna. Non sarei morto, ma avrei perso per sempre i miei cari.
O così avevo pensato fino ad un mese prima.

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Capitolo 5
*** Cap. 5 ***


Cap. 5

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5

Il tramonto volge alla sera.
«In quindici anni, i legami fra licantropi e umani sono migliorati moltissimo, al punto che ci riteniamo parte di un’unica comunità, pur con le logiche differenze» inizia a spiegarmi Soyi. «Da parte degli umani vige il massimo rispetto per le tradizioni ed i rituali dei licantropi; dall’altra, il divieto di uccidere umani, per qualsivoglia motivo. Le grandi caccie notturne sono autorizzate nei parchi cittadini e ritenute alla stregua delle partite di football; i matrimoni misti sono approvati legalmente già da qualche anno».
Annuisco, sempre più sconvolto e incerto. Non posso fare a meno di domandarmi se riuscirò a far parte di questo mondo così… accogliente.
«Ovviamente,» riprende lui, «non è tutto rose e fiori. Persistono attriti e alcuni gruppi manifestano apertamente contro la commistione delle due società. Ci sono delitti e reati, scontri di partito sulle nuove leggi, difficoltà di integrazione con i gruppi più estremisti. Nessuna società è perfetta» conclude laconico, grattandosi la gola.
Di nuovo, non trovo di meglio che annuire mentre allungo una mano verso il vassoio di affettati appena portati dal cameriere.
«Papà non era convinto del tuo ritorno» prosegue, bevendo un sorso d’acqua.
Inghiotto la fetta di prosciutto senza masticarla.
«Non fraintendermi. Intendo dire che non era convinto tu volessi tornare» si corregge.
Nostro padre temeva fossi troppo chiuso nei confronti della famiglia per tornare a farne parte. Aveva ricevuto rassicurazioni, conferme del desiderio di riavermi a casa da parte del clan. Da tutti, tranne da me. Un Senza Luna tra i licantropi. Suonava assurdo.
Soyi sbottona con noncuranza la camicia. Altri nel locale stanno cominciando a spogliarsi: uomini e donne, giovani o vecchi. Solo io, il cameriere – che insiste a guardarmi di traverso - ed un paio di persone restiamo vestiti. Trovo surreale la tranquillità con cui lo fanno, sotto gli occhi affatto imbarazzati degli avventori umani.
Riprendo a mangiare, per zittire il brontolio dello stomaco.
«Anche Hetrir vuole rivederti. Le sei mancato» aggiunge, la voce arrochita e qualche difficoltà nell’articolare le parole.
La trasformazione si è velocizzata ed il volto è quasi scomparso dietro un muso allungato.
«Immagino» bofonchio.
Hetrir apparteneva ad un clan nostro alleato. Siamo cresciuti insieme e gli anziani ci indicavano come la coppia che avrebbe congiunto le due famiglie. Me la ricordo ragazzina, ormai sarà una donna.
«Sarà la mia compagna» latra Soyi, alzandosi in piedi per slacciarsi i pantaloni.
Il torace immenso è ricoperto di peluria scura, che si allunga a vista d’occhio, ma non lo noto più di tanto. Le sue parole mi hanno ferito. Al solito, niente vie di mezzo, meglio dirmi le cose come stanno, per quanto dolorose.
«So che ti piaceva, ma… tra noi è successo qualcosa. Una specie… insomma, al primo calore ho perso la brocca. Le stavo saltando addosso e lei voleva che lo facessi. Se avessi avuto una coda, mi si sarebbe staccata a forza di scodinzolare. Vedrai, Neryon, è tutta femmina! Roba da ululare di giorno!» esclama il grosso lupo mannaro in piedi davanti a me.


Ringrazio chi sta seguendo questa storia, primi fra tutti Shade Owl -le cui recensioni non mancano mai- e Falling_Thalia che l'ha segnata tra le preferite.

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Capitolo 6
*** Cap. 6 ***


Cap. 6

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6


Esseri umani e uomini lupo s’intrattengono all’ingresso e all’interno dei locali pubblici. Non è insolito vedere in un ristorante, seduti allo stesso tavolo, uomini, donne e licantropi, intenti a cenare e discutere amabilmente. Pensavo di ricordare queste scene, da bambino ne facevo parte, invece ora sembrano lontanissime e persino irreali. Gruppi di giovani lupi mannari giocano a pallacanestro con altri senza pelliccia. Sopra un pick-up, alcune ragazze ridono con una femmina piena di orecchini e ninnoli attaccati alle ciocche più lunghe della pelliccia, che le sta acconciando in maniera simile.
Soyi cammina eretto, disinvolto, i vestiti accuratamente ripiegati ed infilati nel mio zaino. Di tanto in tanto leva una mano unghiuta verso persone che lo salutano chiamandolo per nome. Oppure si abbassa un poco sui posteriori e fa una sorta di danza con le braccia, simile ai movimenti di un cestista che cerchi di smarcarsi, quando a richiamare la sua attenzione è un altro lupo. Solo in un’occasione lo vedo abbassare il capo e le spalle, in una sorta di inchino: quando incontriamo due vecchi licantropi dalla pelliccia spruzzata di grigio, che mi rifilano un’occhiata di vaga disapprovazione.
«Anziani» sbuffa mio fratello, appena questi sono abbastanza lontani da non poterci udire. «Non farci caso, Neryon. Alcuni credono ancora che avere un parente con il tuo problema sia segno di decadenza della stirpe».
«Tu cosa credi, invece?»
Non glielo avevo mai domandato. Eravamo entrambi troppo piccoli all’epoca per preoccuparcene. E il mio allontanamento fu troppo precipitoso per permetterci d’intavolare la discussione.
Soyi scopre le zanne in un sorriso inquietante e affettuoso, ma non fa in tempo a rispondere.
«Che s’infilino in un cespuglio di aconito! Chi sono quelli per imporci di rinnegare il nostro clan, anche quando non ha la pelliccia addosso? Sei dei nostri Neryon, sai quanto c’interessa di quel che pensano quei pulciosi sacchi d’ossa?» abbaia un lupo balzandomi davanti.
Stento a riconoscere nostro cugino Ahdle. È magro, spigoloso sotto la pelliccia bruna e malconcia, cammina talmente curvo che le mani sfiorano il marciapiede. Mi si avvicina, le orecchie tirate in avanti e lo sguardo supplice. Appartiene ai ranghi più bassi del nostro clan. Per gli umani sarebbe il classico buono a nulla.
«Chiudi le fauci, leccamusi!» lo redarguisce Soyi, facendo schioccare le mascelle poco lontano dal suo naso. «E dire che c’era chi pensava avresti potuto diventare il futuro capoclan! Tu, brutto chiacchierone insultante! Abbi rispetto degli Anziani, anche se non condividi le loro idee!»
Ahdle parla troppo e senza cognizione di causa, e se lo si zittisce, non cerca di ribadire le proprie idee. Non sono atteggiamenti che si addicano ad un maschio alfa. Ed è fisicamente troppo debole. Soyi invece ha assunto l’atteggiamento del capo, autoritario e deciso. Concordo con la scelta di nostro padre, lui è l’erede perfetto.
Per qualche bizzarro motivo, la constatazione mi provoca un certo sollievo. È probabile che, anche se fossi stato un normale licantropo, avrei dovuto cedergli il passo.
Riprendiamo la strada con Ahdle che ci tampina passo passo, cainando e torcendosi gli anteriori.

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Capitolo 7
*** Cap. 7 ***


Cap. 7

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7


Ad un tratto, fra i grattacieli ultramoderni e le facciate di mattoni delle palazzine d’inizio secolo, si apre uno squarcio di verde. Un ritaglio di foresta, percorso da sentieri sterrati. Alberi e cespugli fanno da corona ad una montagna di granito che s’innalza al centro dell’area. Alla sua base si spalanca una grande chiazza nera. Molti licantropi entrano, come se venissero attratti da un richiamo irresistibile.
«Cos’è?» domando allarmato.
«Uno dei primi passi verso la convivenza. È una grande caverna, da cui possiamo venerare la Grande Madre con una cerimonia comunitaria. La precedente amministrazione cittadina ne ha deliberato la realizzazione qualche anno dopo il tuo allontanamento. Tutti i clan della città si riuniscono qui nelle notti di plenilunio. Ci aiuta a superare i conflitti tra famiglie e a realizzare un’identità da branco urbano» e indica una nutrita schiera di lupi mannari sconosciuti all’altro capo della strada.
Una breve corsa e vengono inghiottiti dall’antro.
La zampa di Soyi mi circonda le spalle, spingendomi avanti.
Procediamo per un breve tratto oltre l’imboccatura. In realtà, poco oltre l’apertura ci sono delle porte di vetro oscurato. Dietro, in una stanza dalle pareti di pietra, ordinate file di armadietti ospitano gli indumenti cessati dai licantropi. Soyi vi deposita il mio zaino e allontana Ahdle che cerca di infilarvi i propri abiti.
«Spogliati» grugnisce, continuando a tenerlo a bada.
«Spogliarmi?»
«Niente vestiti nella Grotta» specifica.
«Soyi, tu non sei nudo» obbietto senza troppa convinzione.
«Ti sembra un abito?» domanda sarcastico, passando una zampa nella pelliccia scura.
Entro nella Grotta spogliato di tutto, tranne che dei miei timori. Centinaia di licantropi riempiono i pendii che scendono ad un podio di pietra e so che hanno tutti avvertito il mio odore. Cammino con le mani all’inguine e le spalle curve, per difendermi dai loro sguardi.
Sopra di noi, un immenso oculo si apre nel cielo notturno.
«Smettila, sei ridicolo» ridacchia Soyi, tirandomi il gomito.
Gli lancio un’occhiataccia. Non può immaginare l’imbarazzo mi attanaglia. La vergogna che provo nel mostrarmi per quello che sono è opprimente.
Una lupa si avvicina, emergendo dalla penombra. Il portamento fiero la identifica come una femmina d’alto rango; il mantello lucente dice che fa parte di un clan in salute; il ventre tonico e contratto invece, che è stata madre poche volte. Sgrano gli occhi incredulo.
«Mamma» bisbiglio, incapace d’aggiungere altro.
Mi avvicino piano e strofino il naso contro il suo. Profuma di more e muschio, come quando ero piccolo. Un attimo dopo sono a terra, lei al mio fianco che mi passa le dita tra i capelli, mi annusa ovunque, finge si mordermi la faccia. Rimango sulla schiena, restando immobile e tranquillo come farebbe vero un lupo mannaro.
«La Grande Madre splende anche per te, Neryon» sospira felice, stringendomi a sé.
La fisso senza capire. La gioia di rivederla mi ammutolisce.
«La luna appartiene anche a te, figlio mio. Non ti ha mai abbandonato».
«I Senza Luna non esistono più. L’infamia che li circondava è stata dimenticata».
Mi volto: è la voce cupa di mio padre a parlare.

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Capitolo 8
*** Cap. 8 ***


Cap. 8

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8


Mio padre è enorme, spalle larghe e gambe robuste. La pelliccia bruna non accenna ad ingrigire, nonostante l’età. I suoi occhi sono di un colore penetrante, ambrato, come se dietro covasse una fiamma pronta a divampare. Gli stessi di mio fratello.
«Il Consiglio degli Anziani ha decretato che non siete un pericolo. La vostra comparsa fra di noi pare avere un significato ben diverso. Molti cominciano a credere che la Grande Madre abbia deciso di darvi il dono di unire due popoli in uno solo».
Stento a credere alle mie orecchie.
«Avete il privilegio d’essere lupi nell’animo e umani nel cuore. Dire che la Grande Madre non sia in voi è sbagliato. Per questo motivo non siete più Senza Luna, ma Occhi d’Argento, i suoi messaggeri. Ora va con tuo fratello, la celebrazione sta iniziando».
«Nostro padre si è battuto a lungo con gli Anziani. Non sopportava di averti perduto per una sciocca superstizione» spiega Soyi mentre sediamo tra la nostra gente. «L’ho aiutato anch’io ma, sai, non essendo un capoclan, avevo poca voce in capitolo».
Gli Anziani fanno il loro ingresso sul podio di pietra. Un silenzio solenne cala nella Grotta. Levano i musi affusolati al cielo. Uno ad uno, i presenti li imitano, Soyi per ultimo, dopo aver gonfiato il petto.
Ululano.
Tutti i clan.
Femmine e maschi.
Giovani, adulti, anziani.
Ascolto le voci levarsi sempre più alte, per raggiungere la Grande Madre che splende sopra la caverna. Chiudo gli occhi, assaporando il brivido che mi attraversa. Sento il mio richiamo premere nella gola. Vorrei unirmi a loro. Le labbra tremano e così le mani. La luna piove su di noi, legandoci in un bagno di pallida luce. Penetra sotto le palpebre, cola in questa forma imperfetta fino a lambirmi il cuore.
Occhi grigi mi osservano attenti. Un altro Occhi d’Argento. Anzi, un’altra. Anche lei è nuda, ma non si nasconde. Siede con le braccia allungate indietro, le gambe penzoloni nel vuoto. Mi strizza l’occhio.
Alle mie spalle, Ahdle ansima. Il suo fiato odora di funghi marci, è disgustoso.
«Buona femmina» grugnisce, indicandola col muso. «Farebbe dei bei cuccioli».
Ha assunto un tono che non mi piace. Nessun maschio può puntare le femmine di un clan in quel modo irrispettoso e farla franca. Anche se si tratta di Occhi d’Argento.
«Smettila».
«Sai che procreano senza andare in calore? Fanno cuccioli come i nostri. Puoi farci un branco tutto tuo quando ti pare e nessuno dice niente. Non gl’interessa se sei un capo. Te le prendi a basta» ringhia eccitato, accovacciandosi come per balzarle addosso.
La sola idea che voglia compiere un atto simile durante una funzione sacra mi sconvolge.
«Ahdle, finiscila, o ti strappo quei quattro peli che hai addosso» minaccio.
Vorrei dire che a farmi parlare in questo modo è una ritrovata coscienza del mio io, ma temo si tratti solo del senso di protezione e accettazione da parte del clan. Sento la ragione dalla mia ed il sostegno della famiglia, più propensa ad appoggiare me che lui.
«Provaci, Senza Luna!» mi stuzzica.

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Capitolo 9
*** Cap. 9 ***


Cap. 9

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9


Ahdle fugge guaendo con un orecchio sanguinante. Ha scoperto che un Occhi d’Argento può far male quanto un licantropo. Rimango a tormentarmi i denti, cercando di rimuovere i peli che sono rimasti incastrati dopo aver sputato la cartilagine. Grande Madre, Ahdle sa ovunque di putrescente.
Nel frattempo, gli Anziani seguitano a scandire le invocazioni, accompagnati dai tamburi e dalle coreografie dei danzatori. Soyi addita una lupa grigia. Hetrir. Sì, è davvero bella.
L’apertura sopra le nostre teste è invasa dal disco lunare. Il chiarore aumenta ed si spande in ogni angolo della Grotta. Attorno, i membri dei clan lanciano richiami, battono le zampe a terra, saltano, scoprono le zanne fingendo di minacciarsi. Sono stati portati anche i bambini e i giovani lupi se ne occupano simulando zuffe e lasciandosi tirare la pelliccia.
«Fa fresco stasera» commenta una voce.
È la Occhi d’Argento di prima. Si accoccola contro di me, incurante delle rispettive nudità. Tanta confidenza mi mette a disagio, anche se il tepore della sua pelle è molto piacevole.
«Credo… di sì» biascico.
«Chi era?»
Do un rapido sguardo a Ahdle, rincantucciato al buio. Mi scruta con odio. Sperava di non essere più l’ultima ruota del carro, invece ha scoperto di esserlo ancora. I nostri compagni hanno visto, sentito ed approvato ciò che ho fatto. Anche il clan della Occhi d’Argento ha annuito compiaciuto.
«Un leccamusi» latro.
«Non è la prima volta che m’infastidisce. Intendevo, cosa c’entra con te».
«È mio cugino» sbuffo.
Annuisce, l’aria di chi comprende i sottintesi.
«Io sono Lagra» dice, strusciando la fronte contro il mio collo.
«Neryon» boccheggio confuso.
Ascoltiamo le invocazioni, le risposte corali fatte di ululati e uggiolii. Dondoliamo le teste, seguendo i movimenti dei danzatori.
Ad un tratto, Lagra si scosta e si sistema poco più avanti, nella stessa posa dei licantropi attorno a noi. Mani a terra, ginocchia sollevate. Non posso fare a meno di guardarla e trovare che abbia un fondoschiena davvero attraente. Osservazione tipica per un licantropo, non so quanto possa esserlo per uno come me.
Mi fa cenno di imitarla. Sta per essere emesso l’inno conclusivo della nottata.
Ululiamo con gli altri. Le nostre voci con le loro. All’inizio emetto rantoli sgraziati, ma poco alla volta il nodo nella gola si scioglie, liberando il richiamo. Percepisco la voce della luna scorrermi nelle vene. Forse non posseggo l’aspetto di un lupo mannaro, ma ne conservo intatto lo spirito. Ora ne sono sicuro. E lo spirito non può essere soffocato, nemmeno da tanti anni di esilio e sofferenze.
«Spero di rivederti, Neryon» saluta Lagra, quando le voci si spengono e i clan cominciano ad allontanarsi.
«Alla prossima luna piena» rispondo.
«Intendevo fuori, in città» bisbiglia leccandomi la guancia, sfiorando l’angolo della bocca.
Schiocco la mascella a breve distanza dal suo collo. Ride e scappa, voltandosi più volte. Mi saluta di nuovo, prima di sparire con i suoi compagni.
Le mie paure non sono dissolte, né i miei dubbi svaniti. Sono e rimango un diverso, nonostante il clan mi abbia accettato. Anche se hanno cambiato il nome con cui mi chiamano. Né licantropo, né uomo, eppure entrambi.
Levo lo sguardo al cielo, alla Grande Madre che s’incammina silenziosa verso ovest. La sento negli occhi, in questi occhi che sono il mio marchio. Forse mi darà delle risposte, ma non ora. Stanotte mi ha regalato un breve assaggio del domani.



Giudizi di SunnyPain
Grammatica, sintassi e ortografia: 8
Originalità: 9
Attinenza ai criteri dei pacchetti: 10
Caratterizzazione dei personaggi: 7
Giudizio personale: 6
Per un totale di 40 punti

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