E il vento portò le farfalle

di Euterpe95
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Manderìa ***
Capitolo 2: *** Via da qui ***
Capitolo 3: *** Candele bianche ***
Capitolo 4: *** Il nemico ***



Capitolo 1
*** Manderìa ***


Manderìa
 

Cosa so? Cosa cerco? Cosa sento? Cosa chiederei

se dovessi chiedere?

 

- Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine -
 
A Lucia,
che con le sue lettere mi ricorda sempre che il tempo non esiste.
A Marghy, Leira e Sofia,
loro sanno il perché.
All’Alieno,
perché mi aiuta a gestire le tre pazze sovra citate.
 
 

Aspettai ancora una decina di minuti prima di levarmi le Converse rosse che indossavo e sistemarle sul sedile posteriore insieme agli altri bagagli e arrotolai l’orlo dei jeans sopra la caviglia; decisi che avrei preceduto mia cugina a casa della nonna e mi incamminai lungo il canale lanciando ogni tanto piccoli sassolini dentro l’acqua, mi sembrava di essere tornata bambina di colpo.
Il vecchio albero d’ulivo era esattamente dove lo ricordavo e il suo tronco nodoso sovrastava il canale in prossimità dello stretto ponticello di pietra; da piccola non riuscivo nemmeno a sfiorarne le fronde tanto erano in alto. Mi alzai sulle punte dei piedi e afferrai un ramo senza nemmeno saltare. Peccato, ero cresciuta.
 
Non ho mai capito come casa di mia nonna fosse il centro della vita sociale del paese, oltre alla chiesa, alla piazza, al bar “Da Beppe” e alla sala comunale. Fatto sta che quella casa me la ricordo sempre come un via vai di gente rumorosa e colorata: amiche della nonna che venivano a cuocere il pane nell’unico forno del paese, uomini che scaricavano sacchi di mangime o di granaglie, i pastori che riportavano le pecore all’ovile, le donne che facevano il formaggio, le comari che venivano per chiacchierare e sparlare mentre i bambini si inventavano giochi sempre diversi correndo sulle pietre bollenti del cortile o arrampicandosi sugli alberi di agrumi ai bordi delle strade o sugli imponenti ulivi nei campi di terra rossa e argillosa. Io ho passato le migliori estati della mia vita in questo modo: i piedi scalzi, la pelle cotta dal sole e la maglietta sporca di succo d’uva; in quelle estati sono cresciuta non solo in altezza: ho superato un’assurda prova di coraggio per scommessa, ho imparato a fare il capo di una banda di ragazzini scalcinati, mi sono innamorata per la prima volta, ho dato il mio primo bacio a fior di labbra, ho avuto il primo fidanzatino e per la prima volta mi sono sentita a casa.
Non sapevo perché ero tornata.
Ufficialmente era per accompagnare Anita e salutare la nonna che non vedevo da cinque anni ma realmente non lo capivo nemmeno io.
Così, mentre camminavo fra i ricordi della mia infanzia felice, desiderai per la prima volta di non essermene mai andata, di non avere mai lasciato l’unico posto dove mi fossi mai sentita amata.
 
Riflettendo, sperai anche con feroce determinazione che niente fosse cambiato dall’ultima volta che ero arrivata dopo gli esami di terza media arrancando attraverso quegli stessi campi, l’anno in cui mia madre lasciò mio padre e mi portò con sé perché voleva per me un’avvenire migliore di quello che voleva offrirmi lui, tornando a vivere a Manderìa dopo la morte del nonno.
In quel caso come in molti altri in seguito nessuno chiese cosa ne pensassi, se mi sarebbe piaciuto stabilirmi tutto l’anno al paese e andare a scuola con i miei compagni di scorribande o se avessi preferito rimanere a Milano, sola nel nostro freddo ed enorme appartamento, guardando la pioggia e il grigiume da una finestra del quinto piano. Scossi dalla testa quei pensieri e mi fermai davanti al piccolo bivio che portava da una parte al paese e dall’altra al cimitero.
Desiderai che niente fosse cambiato per il profondo senso di sicurezza e familiarità che mi ispiravano le cose statiche e immobili come gli uliveti che costeggiavano la strada infangata e gli spazi perfetti che separavano i filari di vite carichi di uva.
E proprio nell’istante in cui più volevo far parte di quella realtà fatta di staticità e immobilità, sentii che i miei piedi e il mio cuore stavano tornando indietro, dove avevo lasciato la macchina insieme ai bagagli, sentivo che il mio corpo si ribellava a tutta quella pace e a quella promessa di serenità.
Perché? Perché odiavo e amavo così tanto la sicurezza prepotente di quell’esiguo grumo di case? Perché una volta che sentivo di trovarmi bene da qualche parte provavo la voglia irrefrenabile di andarmene?
Perché sentivo di non avere radici? Chi ero? Non ero certo come Anita che faceva tanto la dura ma che poi finiva sempre per tornare; non ero come nonna, che remava contro ogni tipo di progresso spalleggiata dal suo club del rosario. Ero un’anima inquieta e per la prima volta lo pensai con rimpianto e non con fierezza.
 
Non sapevo se proseguire o tornare indietro, così mi fermai.
Rimasi ferma in mezzo all’aperta campagna senza avere idea di cosa fare, seduta su un grosso masso conficcato nel terreno, una mano sul cuore e l’altra sul capo.
Fissavo il cartello e il bivio che avevo di fronte come se fossero una cartolina, fingendo di non avere alcun problema, di stare solo godendo del paesaggio.
- Che fai? - esclamò una voce vivace alle mie spalle.
Anche senza voltarmi sapevo perfettamente a chi appartenesse: Margherita, la sorellina di Anita, un anno più grande di me.
- Ciao cugina - risposi cercando di non far trasparire la guerra civile che si combatteva tra le mie ossa craniche.
- Ciao Ari, tutto ok? - domandò lievemente preoccupata e sedendosi al mio fianco.
Io annuii.
- Coma facevi a sapere che ero qui? - chiesi lanciando una pietruzza al di là di un muretto a secco.
Lei si sdraiò sulla pietra scaldata dal sole chiudendo gli occhi.
- Nonna - rispose semplicemente.
- Ah, giusto - borbottai - dimenticavo che mia nonna fosse anche un’indovina.
Margherita si tirò su sui gomiti fissandomi a metà tra il pietoso e il comprensivo.
- Ti conosce bene.
Sentii che stava per dire dell’altro ma non lo fece.
- Novità?
Lei non percepì la nota ironica e la sentii illuminarsi.
- Luca è diventato un bel ragazzo davvero.
- Già, peccato che stia con Maria Pasquali - sputai acida.
- Ma lei non ha nulla che tu non abbia...
Vidi i suoi occhi posarsi sul mio corpo snello fasciato dai jeans taglia trentotto, sulla vita sottile e sul seno piccolo.
- A parte qualche curva in più - terminai io pensando alle curve generose di Maria.
Mia cugina mia abbracciò.
- Lascia pure che si sposi a vent’anni e sforni un bambino all’anno prima della menopausa, tu hai qualcosa che io non avrò mai e che non ha nemmeno Anita, per quanti sforzi faccia.
Continuai a fissare l’orizzonte.
- Cosa?
- La capacità di andare e non tornare, di gettarti tutto alle spalle e ricominciare da capo.
- Non mi sembra che sia così...
Lei mi guardò con quegli occhi di oro ambrato identici ai miei.
- Sì, invece, tu hai talento.
Si riferiva ovviamente al sogno che coltivavo da una vita intera: il teatro; ero riuscita ad ottenere ruoli importanti nella compagnia teatrale di mio padre e questo non perché fossi sua figlia, anzi, lavoravo il doppio degli altri, ero la prima ad arrivare alle prove ed ero sempre l’ultima ad andarmene, dopo avere riordinato la scena e pulito il palco, studiavo ogni battuta alla perfezione provando anche sei ore al giorno.
Avevo appena spedito la domanda d’ammissione all’accademia d’arte drammatica ma sapevo che andarci avrebbe significato tradire le aspettative di tutta la mia famiglia che sognava di vedermi diventare medico, non andandoci avrei tradito le mie. All’improvviso mi accorsi di essere davanti a molti più bivi e non solo a quello che stavo guardando intensamente.
- Io me ne voglio andare via - disse inaspettatamente Margherita fissando il vuoto davanti a noi.
- E perché?! - dissi scettica, dove avrebbe potuto andare con una famiglia asfissiante, presente e apprensiva come...come la mia, perché in effetti facevamo parte della stessa famiglia e me ne resi conto con orrore solo in quel momento.
Paragonai l’arretrata mentalità con cui erano cresciute Anita e Margherita a quella con cui mi aveva cresciuta mia madre e tirai un sospiro di sollievo: non potevano essere così diverse.
Ad un tratto provai fastidio nei confronti di Margherita, delle sue idee, del suo accento pesante, del suo profumo dozzinale e dell’eccessiva enfasi con cui aveva pronunciato la frase, come se fosse una vecchia attrice consumata di terza categoria mediocre e commerciale, come se temessi che riuscisse davvero a realizzare il suo sogno che credevo commerciale ed inflazionato e io ne fossi invidiosa in anticipo.
Inspirai e trattenni le lacrime.
- Altre novità?
Lei mi snocciolò in fretta una quantità incredibile di nomi, gente morta che non ricordavo nemmeno per sentito dire, gente sposata, bambini nati, bambini in arrivo con o senza padre accertato, arrivi estivi e partenze in cerca di lavoro. Apprezzai la delicatezza con cui evitò i divorzi, anche se ormai sapevo che il mio nome e quello di mia madre volavano di bocca con ali silenziose, senza che nessuno osasse pronunciarli per paura della monumentale e onnipresente figura della nonna.
- Basta così? - dissi stiracchiandomi.
Mia cugina sorrise maliziosa facendo finta di pensarci su, quando sapevo che doveva avere tenuto la notizia clou per la fine. Strinsi i pugni immaginando che si trattasse delle imminenti nozze Luca-Maria.
- Edward Hamilton è in paese.
Rischiai di cadere, non potevo crederci, non lui, non Hamilton! Era il figlioccio di mia nonna mentre io ero la figlioccia di sua nonna, una donna esile che faceva parte del club del rosario di nonna; fin da quando eravamo piccoli ci costringevano a giocare insieme ma finivamo sempre col litigare e picchiarci. Feci il conto mentalmente: se io avevo diciannove anni, lui doveva averne ventitré o ventiquattro. Strano che fosse a Manderìa; da quando aveva compiuto diciotto anni non erano più venuti né lui né sua madre e il grande palazzo del seicento era diventato il teatro preferito delle nostre prove di coraggio. Non poteva essere vero, da che mi ricordavo era uno spocchioso bambino viziato e ombroso che si vergognava delle origini della madre e non parlava mai con nessuno di noi anche se alcuni ragazzini avevano provato più volte a tentarlo con partite a pallone o a nascondino. Si comportava da insopportabile snob con tutti, ma aveva una particolare, se così si può dire, per me; non ricordo mai un’occasione in cui non mi abbia fatto qualche scherzo più o meno pesante. L’avevo odiato come si odiano le punture di zanzara sotto la pianta del piede e lui ricambiava apertamente. Hamilton, lui e le sue insulse camicie di sartoria con le iniziali ricamate sopra.
Mia cugina fraintese il mio stupore.
- Lo so, è da non crederci: così ricco, così bello e così...solo!
- Solo? - ripresi fiato lentamente io.
- I suoi genitori sono morti l’anno scorso e lui ha rilevato lo studio di suo padre a Londra dopo la laurea...è pieno di soldi ed è anche single.
- Credimi, c’è un motivo per cui è single.
Lei spalancò gli occhi dorati.
- E quale?
La presi mentalmente a sberle.
- Il suo carattere di merda. Chi vuoi che se lo prenda uno algido e dispotico come lui?
Margherita sospirò sorridendo scioccamente.
- Chi lo sa?! Intanto però nonna lo ha mezzo adottato e quindi è ospite fisso a casa nostra.
Non potevo crederci: tradita dalla mia stessa famiglia.
- Dimmi che non è vero.
Lei rise.
- Non è mica la fine del mondo, sai? Dopotutto è la sua madrina.
- Già, e come mai a lui non ci pensa sua nonna?
Margherita abbassò gli occhi.
- È morta nell’incidente insieme ai suoi genitori.
Collegai le sinapsi e provai la sgradevole sensazione di avere parlato troppo.
- E come mai io non ne sapevo nulla?
Lei puntò gli occhi nei miei con una nota di silenzioso rimprovero.
- Perché, te ne sarebbe fregato qualcosa?
Stetti zitta.
- Scusami, ma non ci sei stata granchè negli ultimi cinque an...
- Sì, hai ragione - tagliai corto con la voce tremante.
Lei si morsicò le labbra.
- Davvero, scusa...
- No - la interruppi brusca - lasciami sola.
Mia cugina scese dal masso e si incamminò verso il paese, ma proprio prima di svoltare l’angolo si girò indietro a guardarmi.
- Vai, tanto la strada la conosco - la esortai.
Lei annuì e continuò a camminare mentre il vento scuoteva piano le fronde degli ulivi sopra di me.
 
Il vento era sempre stato l’elemento che mi dava il benvenuto all’aeroporto quando arrivavo, chi non è mai stato a Manderìa non può capire; ad un certo punto si sente il vento cantare e in quel canto che frusta i corpi e solleva la spuma del mare, si distinguono le voce di tutti coloro che ci hanno preceduti e di color che verranno, che come mani invisibili accarezzano la terra. Il vento di qui porta o la pioggia o le farfalle, e quando una mi si posò su un braccio, mi misi a piangere senza nemmeno sapere il perché.
  

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Capitolo 2
*** Via da qui ***


Vorrei scappare, fare un salto per vedere
se vale davvero la pena di fare così.

Vorrei fumare,

andare oltre e

superare le scale
per non tornare,
andare via da qui.
(...)
A volte penso che magari
si potesse staccare.
A volte penso che magari
si potesse volare.
Allora andiamo via
credi, il mio posto non è qui.
 
- Diluvio, Via da Qui -

A Gabriel,
per tutte le volte che siamo scappati in stazione e abbiamo preso il primo treno che passava di lì.
E per tutte quelle in cui abbiamo preso la multa perchè non avevamo il biglietto.
A Lucia,
per quelle volte, invece, in cui siamo scappate saltando la recinzione
e la preside ci metteva in punizione sulla panchina gialla dei bimbi cattivi.
 
Ad Annalisa,
in memoria di tutte le storie che ti ho raccontato di Manderìa,
mentre mangiavamo Pringles, Nutella e Ringo di nascosto in camera mia.

 A Francesco,
che in fondo non capirà mai come tutto questo mi possa rendere felice.

 

Vedevo la strada davanti a me.
Chilometri e chilometri di terra battuta e sassi circondata da campi di grano e gramiglia ancora verde, l’unica strada che conduceva a Manderìa era stretta e bastava poco perché si riempisse di fango e diventasse impraticabile. Come quel giorno. Il percorso era interamente ricoperto di una fanghiglia scura e appiccicosa. Scesi dall’auto e feci cenno anche a mia cugina Anita di uscire.
- Non riusciamo a muoverci?
Scossi lentamente il capo.
Lei sbuffò scostandosi la frangetta bionda dagli occhi e mulinando i capelli lunghi e liscissimi.
Anita aveva sei anni più di me, ma ovviamente ero sempre io a dover guidare, lei al volante si innervosiva e non mancava mai di trasmettermi questo suo nervosismo con pizzicotti e sbuffate sonore.
Quell’ estate compivo diciannove anni ed avevo appena terminato  la maturità, ottenendo come al solito il massimo dei voti senza aprire i libri.
- Lo sapevo che avremmo dovuto venire in treno e non prendere l’auto - sbottò sedendosi sul cofano con le gambe a penzoloni, come una ragazzina.
Mi appollaiai al suo fianco senza dire una parola perché l’idea di prendere l’auto era stata sua.
- Ci toccherà aspettare che passi qualcuno che conosciamo e intanto potremmo farci una bella chiacchierata, no? - propose stendendosi fino a poggiare la testa sul parabrezza della mia Aston Martin del ’56 rosso fiamma quasi nuova che mi avevano regalato i miei dopo il diploma.
Mia madre è nata a Milano ed è lì che vivevamo anche se mio padre era originario di quel paesino minuscolo in mezzo al nulla della Puglia meridionale. Da piccola passavo lì tutte le estati con nonna, Anita, sua sorella Margherita, Luca, Carlo e Andrea. Venni qui fino a quando compii quattordici anni poi questo paese con i suoi vuoti immensi e i suoi squallori non più riempibili con i giochi infantili iniziò a sembrarmi sempre più ostile: io non ero nata lì come tutti i miei cugini. Non era casa mia. Ragionando non riuscivo ad associare nessun luogo al concetto di casa. Milano, Manderìa o casa dei genitori di mia madre al lago? Anita, invece, non vedeva l’ora di arrivare e scrutava impaziente l’orizzonte sperando di veder comparire qualcuno, mi sembrava che fosse un po’ troppo attaccata a casa sua per essere una che si dichiarava libera ed indipendente, poteva girarla come voleva e vomitare odio sulla miseria antica di Manderìa quanto voleva ma finiva sempre per tornare. Dev’essere una prerogativa di coloro che possiedono radici quella di tornare a casa, quella di avere un posto dove tornare.
Io non l’avevo e mi toccava sempre fare finta che quello degli altri fosse anche il mio.
 
- Chissà quante cose saranno cambiate! - esclamò mia cugina con falso entusiasmo.
Sapevo che stava mentendo prima di tutto a sé stessa: una delle principali caratteristiche di Manderìa era la totale arretratezza sia sociale che economica, in poche parole era impossibile che fosse cambiata anche solo la disposizione dei fiori bianchi e rosa sotto l’altare della madonna immacolata nella piccola chiesa del paese perché ciò che era abitudine era definito tradizione insieme a ciò che non si aveva la minima voglia di cambiare. Come i due vasi in vetro soffiato ai lati della Vergine.
Mi sembrava quasi di riuscire a vederli quei fiori, due gigli bianchi dietro e cinque rose chiare davanti, di sentirne il profumo e di toccarne i petali.
- Ci saranno anche Luca, Carlo, Margherita e Andrea - ritentò lei con lo stesso tono che avrebbe usato un presentatore televisivo per pubblicizzare del dentifricio.
Luca.
Al ricordo dei suoi occhi scuri la mia bocca si curvò in un sorriso.
- Gli ho scritto, in questi cinque anni - dissi ad Anita fissando la strada.
Mia cugina mi guardò con l’aria maliziosa di chi la sapeva lunga.
- Ma non mi ha mai risposto, così un giorno ho smesso.
Lei mi passò un braccio attorno alle spalle e mi strinse a sé dolcemente.
- Forse si vergognava, Ari.
- E di che?
- Bè, non so se lo sai, ma è fidanzato con Maria Pasquali.
Un peso immane si posizionò sul mio cuore.
- Grazie davvero Any, adesso sì che sono allegra.
Lei rise e mi guardò.
- Almeno lei non assomiglia ad un’acciuga - concluse saltando vivacemente giù dal cofano e levandosi le Loubutin nere che indossava. Non ce n’era alcun bisogno in realtà: avrebbe potuto tranquillamente camminare sulla strada, ma io sapevo che le piaceva la sensazione della sua terra sotto i piedi. Chissà come mai per tornare a casa si vestiva sempre con i suoi abiti migliori e ne sfoggiava di diversi ogni giorno. Anita era avvocato e con il suo lavoro guadagnava piuttosto bene, salvo poi che spendesse ogni cosa in abiti e trattamenti di bellezza.
- Ogni tanto bisogna tornare a casa - sussurrò lentamente, assorta, cercando di giustificare la nostra presenza quasi inopportuna in quella specie di deserto.
No, pensai, ma questa è casa tua.
- Già, ma per te non è la prima volta - risposi sprezzante cercando di dominare la sensazione di disgusto che mi attanagliava la spina dorsale. Lei mi fissò dritta negli occhi.
- Vado in paese a vedere se qualcuno riesce a togliere la tua macchina dal pantano - disse voltandosi a camminare, i piedi nudi tra il grano e le scarpe che ondeggiavano nella mano come farfalle in trappola.
 
  

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Capitolo 3
*** Candele bianche ***


Candele bianche
 

 

      A te che perdi la strada di casa ma vai
dove ti portano i piedi
E lo sai
che sei libero,
nelle tue scarpe fradice
 
- Laura Pausini, Benvenuto -
  

A Francesco,
in memoria delle lezioni di guida delle tre del mattino sulla Bugatti verde dei tuoi.
Senza freni e con David Guetta a palla.
     
 

Decise mio padre di chiamarmi Ariele e nonna non gliela perdonò mai del tutto.
Appena nacqui, tutti erano sicuri  che il mio nome sarebbe stato il suo: Maria Vittoria.
Tutte le mie cugine hanno nomi composti: Maria Anita, Maria Margherita, Maria Giovanna e Maria Paola anche se per comodità le chiamavamo sempre tutte con il secondo nome; anche loro lo preferivano, come se quel “Maria” davanti fosse un sintomo ancora più evidente del tradizionalismo asfissiante di Manderìa.
Così, il giorno del mio battesimo, compii la mia prima ribellione anche se inconsapevole: ruppi la preziosa simmetria dei nomi in Maria e il prete dovette cancellare il Maria che aveva già preparato scritto sul registro parrocchiale e scriverci sopra in tutta fretta uno storto Ariele Sofia.

Nonna fece buon viso a cattivo gioco e mi allacciò ugualmente al collo il ciondolo di benvenuto che aveva fatto fare per tutte le sue nipoti, uno diverso dall’altro. L’ho ancora al collo e non me lo tolgo mai, nemmeno per fare la doccia, rappresenta una perla bianca e una perla nera legate insieme da un sottilissimo filo d’oro bianco. La mia metà Ariele e la mia metà Sofia, la metà che fluttua verso l’alto, esattamente come lo spirito dell’aria della Tempesta di Shakespeare e la metà che sprofonda nelle cavità di roccia, infossata da pensieri più grandi di lei. Io sono queste due cose insieme e nonna è stata la prima ad accorgersene. Come al solito aveva capito tutto senza che nessuno le dicesse nulla.
Ho una foto sul mio comodino a Milano, siamo io e le mie cugine da piccole. Abbiamo tutte i vestiti della domenica e ad ogni collo splende il ciondolo di benvenuto: ametista per Anita, smeraldo per Margherita, acquamarina per Giovanna e topazio per Paola. Come al solito, la mia figura spicca come se fosse fuori posto. Sono sempre stata una macchia bianca e rossa nelle foto di famiglia, bianca era la mia pelle come i vestitini bianchi che nonna mi faceva cucire dalla Comare Concetta, sua testimone di nozze; rossi erano i miei capelli, dello stesso rosso di quelli di mia madre ma perennemente spettinati. Della famiglia di papà avevo solo gli occhi. Gli occhi color ambra che erano il marchio di tutti gli Orlandi. Ambra. L’unico minerale che brilla solo se colpito dal sole.
 
Con questi pensieri in testa arrivai davanti alla chiesa parrocchiale e vidi don Giuseppe intento ad incollare alcune pubblicazioni alla bacheca. Sperai che non fossero quelle del matrimonio di Maria e Luca. Lo salutai, dopotutto ero stata sua chierichetta per dieci anni, avevo indossato per dieci anni quella scomodissima cotta che mi faceva prudere le braccia sia d’estate che d’inverno e avevo mangiato di nascosto le particole non ancora consacrate insieme a Luca, suo fratello Andrea e suo cugino Carlo.
- Come sei cresciuta, Ariele Sofia! - esclamò utilizzando il mio nome intero; evidentemente gli si era stampato in testa dopo avere dovuto correggere il registro parrocchiale.
- Anche tu, don Giuseppe - scherzai indicando la sua testa che mi arrivava al mento.
Lui rise e fece finta di togliersi una scarpa per lanciarmela mentre scappavo ridendo.
- Non cambi mai, ragazzina - gridò scuotendo il capo.
- La mala erba non muore mai - risposi io facendo voltare due anziane signore sedute su degli sgabelli impagliati davanti alla soglia di casa. Mi sorrisero confuse e io ricambiai continuando a correre scalza sulle pietre consumate che pavimentavano le vie e la piazza.
- Salutaci la nonna - mi disse una delle due.
Ringraziai chiamandole zie in forma di rispetto.
- Tieni, porta questa sulla tomba della tua nunna, della tua madrina, quando andrai al cimitero, con la mia artrite non riesco quasi più a muovermi - disse l’altra bloccandomi per un braccio e mettendomi tra le mani una candela bianca.
Sentivo un groppo alla gola pensando a lei, alla nonna di Hamilton, alla mia madrina.
- Un incidente terribile - continuò lei.
- Ed ora quel povero ragazzo... - commentò la sua amica.
Ero stufa di sentire continuamente povero Hamilton, povero ragazzo e compagnia bella.
Lui non meritava di vivere dopo quello che aveva fatto a mia cugina Maria Paola.
- Povero no di sicuro - sibilai con le orecchie che fischiavano.
Loro si ritrassero interdette come se avessi detto qualcosa di straordinariamente ingiusto.
- È così solo - disse ancora la donna.
Io risi con sarcasmo.
- Se si fosse fatto meno terra bruciata attorno in questi ventitré anni, allora ne avrebbe certo di gente disposta ad essere amica sua! - esclamai irata.
- Ha paura di amare chilu  vagnune, ecco cos’ha - sentenziò la vecchia della candela.
O che gli altri si amino, pensai con rabbia.
Era colpa sua se Maria Paola e Carlo, il cugino di Luca, si erano lasciati cinque anni fa. Era colpa sua se Paola non era riuscita a causa di quella rottura a finire l’ Università e si era malata di anoressia mentre Carlo non era più tornato a Manderìa ed era entrato in depressione. No, non potevo credere che uno come lui potesse amare ma non credevo nemmeno che uno come lui avesse paura, semplicemente chi non ha cuore non può amare, ecco cosa credevo.
 
Mi congedai silenziosamente e mi incamminai verso casa ripensando alla carognata che Hamilton aveva fatto cinque anni fa a Carlo e a mia cugina; tutto perché da quando stavano insieme Carlo non aveva più tempo per lui, così per avere indietro l’unico che lui giudicasse vagamente degno della sua amicizia, aveva separato i due ragazzi dicendo all’amico che Paola lo tradiva A Roma con un compagno di studi.
Mia cugina aveva smesso di mangiare e aveva rischiato di morire, mentre il suo ex ragazzo aveva tentato due volte il suicidio. Di una cosa ero certa sino alla nausea: che non avrei mai potuto perdonare Edward Hamilton per quello che aveva fatto.
 
- Ari?! - esclamò incredula una voce alle mie spalle.
Mi voltai e subito dopo desiderai non averlo fatto.
Maria Pasquali abbarbicata come un curioso esemplare di polpo a Luca Martinelli.
Il mio Luca Martinelli.
Mi sembrava un brutto sogno: io e Luca avevamo imparato insieme a camminare, a saltare alla corda, ad andare in bicicletta, ad arrampicarci sugli alberi, a nuotare e a fare le divisioni con due cifre.
Avevamo condiviso le sbucciature alle ginocchia, i dolci al miele di sua nonna, le punizioni e gli scherzi a quell’oca di Maria e alle sue amiche. Mi sembrava semplicemente assurdo che fosse davvero lui quello davanti a me, con un braccio attorno ai suoi fianchi larghi e burrosi e con il mento sulla sua testa.
Strinsi convulsamente l’anellino di plastica verde che mi aveva regalato giurandomi che da grandi ci saremmo sposati, lo strinsi forte sperando che scacciasse quell’orrenda visione.
Misi la mia miglior maschera da stronza-geniale-bellissima, ben sapendo che la mia figura perfetta sarebbe risultata del tutto impotente di fronte ai loro due corpi pacificamente intrecciati; all’improvviso, mi vergognai di essere scalza, di essere così magra e di essere così bella. Pensai che se avessi avuto anche io le curve generose, i ricci neri e gli occhi verdi, allora forse Luca mi avrebbe sposata e ci sarei stata io al posto di Maria, accoccolata sulla sua spalla. Scacciai le lacrime e mi preparai in assetto da guerra: scossi i capelli rossi in modo che i riflessi del sole li incendiassero, mi spostai in avanti in modo che la luce facesse sembrare la mia pelle ancora più bianca, girai lievemente il busto di trenta gradi, così da sottolineare la pancia perfettamente piatta e il lungo collo diafano, spalancai gli occhi in modo che l’ambra contenuta in essi inchiodasse Luca e sfiorasse Maria con uno sguardo di compatimento, vantando la mia figura, la mia mente, la mia libertà e il mio essere superiore, pur senza emettere una parola. L’ho imparato da nonna. Mi diceva sempre: “Una vera donna è quella che riesce a mettere in imbarazzo anche un turco in Turchia” Ancora una volta i suoi consigli mi salvarono la faccia, perché la ragazza mi guardava arrossendo e cercando di darsi un contegno mentre Luca mi fissava come se gli fosse apparsa la Vergine in persona. Mi trattenni dal ridere aspettando che si gettasse ai miei piedi urlando: “Miracolo! Miracolo!”. Ben sapendo che il sarcasmo non era apprezzato in un paese come Manderìa, li salutai trattenendo un ghigno di scherno in modo che lo cogliesse solo Maria, che arrossì ancora di più.
- Ti tratterrai a lungo? - sussurrò lei guardando a terra, mentre io non smettevo di fissarla in quel modo; sentivo il suo imbarazzo salire nell’aria come il fumo di una sigaretta e sentivo che lei avrebbe voluto essere d’appertutto tranne che lì. Risi facendo risuonare la mia voce come mille campane, ma erano campane a morto.
- Il tempo necessario e poi chissà, potrei anche andare in Australia a fare un giro - risposi scrollando le spalle come se i mio passaggio lì fosse solo una pura formalità.
Avevo toccato il tasto magico: Australia.
Maria scattò in avanti come se le avessi dato un pugno nello stomaco e gonfiò le gote come una gallina in apnea.
- Anche noi ci andremo in viaggio di nozze, vero amore?! - domandò allungando le vocali in maniera irritante.
Luca spostò brevemente lo sguardo da me a lei per poi farlo tornare su di me.
- Perché no - borbottò poco convinto.
Scossi i capelli ridendo spensierata.
- Allora magari ci vediamo!
Maria si sentì in dovere di recuperare terreno.
- E tu, non hai un ragazzo?
Scrollai le spalle sorridendo e marcai con decisione le differenze fra di noi.
- Uno alla volta.
Sgranò gli occhi.
Troppo facile.
Luca aggrottò le sopracciglia continuando a fissarmi.
- Dovresti trovarti un bravo ragazzo che ti sposi, invece - continuò convinta e velenosa guardando i miei fianchi strettissimi e il mio seno minuscolo - Sai, per fare una famiglia, dei bambini...
Risi ironica.
- E per finire come Cenerentola primo periodo? No, grazie non fa per me!
Lei non mollava la presa e caricava a testa bassa.
- Ma una donna senza figli è una donna a metà...
- Sì, e tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino perché sopra la panca la capra canta e sotto la panca capra crepa, sì, me lo hanno detto ancora...
- Dicevo sul serio - si infuriò.
- Anche io, ci vediamo.
Salutai e proseguii per la mia strada, cercando di ignorare gli occhi neri di Luca che mi perforavano la schiena.
 
Arrivata davanti al portone di nonna incontrai la Comare Concetta con un canestro di dolci al miele appena sfornati e la seguii nel cortile. Non ricordavo che quei dolci fossero così buoni e ne mangiai due seduta sul muretto sotto la vite con le gambe a penzoloni mentre mi facevo fare i complimenti per il mio aspetto e mi facevo sgridare per la magrezza. Dopo Paola si vedeva che erano diventati molto più attenti a queste cose.
- E così bella come sei ancora non hai trovato nu bravo vagnune ch’a te mariti? - mi domandò passandomi un’altra cartellata.
Scossi il capo con il boccone in bocca.
- E nemmeno uno ch’a te impari le buone creanze? - rise bonariamente.
Scossi ancora il capo cercando di non fare caso ai piedi scalzi e impolverati, ai jeans rimboccati e infangati, ai capelli certamente spettinati e alla maglietta macchiata di miele.
- Nonna? - domandai.
Lei mi indicò la cucina da dove provenivano una serie di improperi in dialetto stretto .
La donna si congedò con un abbraccio e sparì.
- Non cambi mai - fece una voce profonda alle mie spalle. 

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Capitolo 4
*** Il nemico ***


Il nemico
 

Quando odiamo qualcuno,

odiamo in lui qualcosa che è dentro di noi.

 

- Jim Morrison-
 

 Gettai la testa all’indietro e mi lasciai scivolare saltando giù dal muretto.
- E invece c’è chi dovrebbe - risposi fissandolo.
I suoi occhi non erano cambiati, erano sempre di quella particolare sfumatura di grigio tendente all’azzurro e i suoi capelli erano sempre biondo cenere, forse lievemente più scuri di quello che ricordavo.
Il ragazzo alto e flessuoso che avevo di fronte era lui, Edward Hamilton.
Alzò un sopracciglio con un’espressione tipicamente inglese fissando il mio abbigliamento da barbona, ma da vero gentiluomo non fece commenti e mi passò un tovagliolo dalla pila che aveva in mano.
Mentre mi pulivo la bocca riprese a fissarmi.
Sbuffai.
- Che hai da guardare?!
Lui ghignò.
- Un curioso esemplare di ominide imbrattato di fango e miele dalla testa ai piedi.
Non raccolsi la sua beffarda provocazione e lo ignorai.
Lui odiava essere ignorato.
- Perché non dici nulla? - sbuffò adirato.
Lo guardai ghignando sadica.
- E perché dovrei avere qualcosa da dirti?
- Non rispondere ad una domanda con un’altra domanda! - sputò astioso.
- Perché, la tua era una domanda?
Assottigliò gli occhi con aria minacciosa rendendo il colore delle iridi da azzurro cielo a grigio mare in tempesta.
- Sai, mi preoccupo così tanto delle domande che potresti farmi che la notte mi preparo le risposte - ammisi strafottente.
- Non prendermi in giro - minacciò facendo un passo avanti e sfiorandomi la pelle con l’alito caldo profumato di tabacco.
Schioccai la lingua con tutta l’aria di superiorità a cui poteva appellarsi una ragazza coperta di miele, fango e polvere da capo a piedi.
- Ho visto il tuo fidanzatino Martinelli - rise con scherno - ma non state più insieme, vero? Ha preferito una come la Pasquali ad una come te, la cosa non mi meraviglia affatto, basta guardarti per capire che saresti stata capace nemmeno di tenertene uno come lui...
Non ressi oltre e gli mollai uno schiaffo in pieno viso.
Rimase un secondo immobile, come fulminato e il lampo di un sorriso gli attraversò gli occhi facendoli brillare, un luccichio durato meno di un attimo.
Mi agguantò violentemente i polsi sbattendomi contro il muro e bloccandomeli sopra la testa con forza.
- Non ci provare mai più - scandì lentamente sulle mie labbra.
Senza pensarci mi liberai con un calcio negli stinchi e lo fronteggiai a braccia incrociate assaporando il gusto della vittoria ormai vicina: si stava innervosendo e presto avrebbe perso le staffe, lo vedevo rosso e spettinato che mi fissava furioso, la camicia azzurra sbottonata e gli occhi da folle e decisi di sferrare il colpo di grazia.
- Se no mi mandi a fare compagnia ai tuoi genitori?! - lo provocai con malignità tuttora sconosciuta.
Lui vacillò per un attimo e vidi passare nei suoi occhi un’ombra di infinita tristezza, che provvide a dissimulare afferrandomi per la vita con una morsa d’acciaio.
- Lasciami subito - ordinai a disagio, con il viso premuto contro al suo collo, ciò tuttavia non mi impedì di inspirarne il profumo muschiato, un odore da uomo, diversissimo da quello di bucato e lavanda che aveva sempre quando eravamo bambini.
Approfittando della mia distrazione avvicinò i nostri volti fino a posare le labbra sulle mie in un bacio violento, in cui le nostre labbra si rincorrevano fameliche e rabbiose al tempo stesso, in cui i miei denti morsero senza pietà la sua bocca facendogli sanguinare il labbro superiore, in cui prima che riuscissimo a rendercene conto ci ritrovammo contro il muro del cortile, la mia schiena che aderiva alla pietra fresca e i nostri respiri affannosi che venivano soffocati da quel contatto ostile e innaturale. Era guerra, una guerra ancora più pericolosa di quella fisica, quella psicologica e sentimentale. Lottavamo entrambi contro i nostri istinti omicidi e ce lo stavamo dicendo in quel modo davvero poco ortodosso.
- Sei uno stronzo bastardo - sibilai riprendendo fiato per un attimo.
Lui ghignò ma ricatturò immediatamente le mie labbra, impedendomi di continuare ad insultarlo.
Malgrado tutto, una cosa principalmente mi colpì: avevo risposto. Avevo ricambiato il suo bacio, che per quanto sbagliato e dettato dall’odio fosse, era pur sempre un bacio. E lui lo sapeva benissimo, il lord dei miei stivali.
- Levati - ordinai imperiosamente facendo però sì che le sue labbra si spostassero sul mio collo. Errore madornale, il collo è la parte più sensibile del mio corpo, e lui lo sapeva bene. Non c’era nulla che lui non sapesse di me, a parte i miei pensieri. No, non era possibile che uno come lui potesse comprendermi, non c’era mai riuscito nessuno. Ovviamente sbagliavo, ma me ne sarei accorta troppo tardi.
 
- Riflessi tardi, vero Orlandi? - rise posando la sua fronte sulla mia con aria strafottente.
Sbuffai guardando la piccola ferita sul suo labbro superiore che sanguinava e passando la lingua sulle mie notai che anche quelle erano sporche di sangue, come la sua camicia, del resto.
Dio, eravamo arrivati a tanto? Pensai distogliendo gli occhi dai suoi.
- Perché? - domandai sentendomi sporca e vuota.
Lui non rispose, ma strinse più forte la presa sui miei fianchi, come se avesse avuto paura che me ne andassi.
- Perché? - insistetti.
- Perché siamo noi - sbottò iroso.
- Che cazzo vuol dire?! - ribattei ancora più arrabbiata.
- Ciò che ho detto, Orlandi, oltre che scema sei diventata pure sorda?!
- Idiota! - esclamai dandogli un pugno sul petto marmoreo. Mi feci anche male, ma non lo dissi.
- Ti sei fatta male, Orlandi? - domandò lui vagamente preoccupato.
Gli pestai un piede e lui mi bloccò i polsi con le mani, mentre prendevo a scalciare come un’indemoniata.
- Lasciami, lasciami, razza di bastardo schifoso! - urlai cercando di liberarmi.
Hamilton mi spinse  di nuovo contro al muro e sentii ogni parte del suo corpo imprimersi nel mio.
- Dì ancora qualcosa di spregevole sui miei genitori o su mia nonna, e quello che ti ho fatto ora non sarà che un ricordo felice.
Tentai di replicare ma mi tappò la bocca con un occhiata di fuoco, anzi di ghiaccio.
- Puoi odiarmi e prendertela con me se vuoi, ma lascia in pace loro, chiaro? - sibilò, ma più che minaccioso appariva stanco, molto stanco.
Annuii sperando che mi lasciasse andare.
- Ora perdonami per i miei modi di poco fa, scusami per quello che ti ho fatto ma non per le intenzioni, di quelle non mi pento, sei sempre stata una stronza, Orlandi, fin da quando eravamo bambini. Ho sempre avuto una famiglia di merda, ma per fortuna tua nonna mi vuole bene, non sono fatti tuoi il perché sono qui e non te lo dirò mai. Stammi alla larga il più possibile e non ci saranno problemi. Non sai nemmeno la tua fortuna, Ariele, per avere una famiglia come questa. Sputare in faccia alla fortuna è una cosa che in pochi si possono permettere. Davvero i miei complimenti Ariele, non credo che arriverò mai ad odiare qualcuno come odio te in questo momento, sei una stupida.
Mi lasciò di colpo e rimanemmo paralizzati entrambi dalla pesantezza di quelle parole. I suoi occhi color coltello da bistecca erano fissi nei miei color ambra che divenivano a poco a poco più liquidi, fino ad inumidirsi del tutto.
- Io... - cercò di dire, ma era senza fiato.
Io tremavo dalla rabbia.
- Fottiti - scandii con calma innaturale dandogli un malrovescio di traverso e girandogli il viso dall’altra parte.
Fece un passo verso di me, ma io corsi via. Forse avevo sbagliato a tornare, quello non era il mio posto, non era casa mia, per quanti sforzi facessi per convincere me stessa e gli altri che fosse così, non sarei mai stata parte di tutto quello, chi non aveva radici era libero di volare verso il cielo senza nulla che lo tirasse verso terra, era libero di andare via per sempre, come uno sbuffo di vapore, o come Ariele, uno spirito dell’aria ribelle e fragile al tempo stesso, un po’ come una come me, un po’ come ero davvero.
In quell’istante avrei dato qualsiasi cosa pur di avere in cambio l’amore, unica zavorra che potesse tenermi ancorata lì. Non ero più sicura di volermene andare, non ero più sicura di nulla. 
 

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