Il titolo si decide sempre alla fine

di Rigel und Betelgeuse
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Bellezza ***
Capitolo 2: *** Curricula ***
Capitolo 3: *** Au fur et à mesure ***



Capitolo 1
*** La Bellezza ***


1. La Bellezza


Adela era brasiliana, ed era Bellissima. Bellissima con la B maiuscola, perché Adela era il superlativo di un già superlativo. Nessun'altra prima di lei era stata così bella, così come nessun'altra lo fui mai più dopo. Nascondeva i suoi venticinque anni in un corpo minuto, ristretto, concentrato in braccia fini, mani piccole, piedi scriccioli. Il sorriso meraviglioso, candido e largo, si apriva con tanta dolcezza nella carne color sabbia, tra le labbra brasiliane rosee e la parentesi di fossetta che il dito angelico le aveva scavato sulla guancia destra, nel viso largo e un po' quadrato. Il caschetto biondo cenere le affilava ancora di più la mascella e le allungava il collo fino, su cui sembrava che la testa (voluminosa con quel taglio di capelli) rimanesse in bilico fino alla prima risata, che le faceva rotolare il capo all'indietro mentre lei copriva vagamente l'ilarità con una mano.
Me ne innamorai subito, con quell'amore che a quell'età nutrivo per la Bellezza. La incontrai a casa mia, due settimane dopo esserci entrata come inquilina effettiva, mentre tornavo dalla piscina. Se ne stava seduta sul tavolo della cucina, senza scarpe, una gamba a ciondoloni e l'altra ripiegata, la pianta del piede destro contro la coscia sinistra, con il mio barattolo di crema di nocciole in una mano e il cucchiaino nell'altra, infilato in bocca. Scrutava con l'occhio oceanico il fondo del barattolo come Winnie the Pooh cerca l'ultima goccia nel vaso di miele, e quando mi affacciai alla cucina si rivolse a me parlando come se mi conoscesse.
«Comunque non credo che tre uova al giorno facciano benissimo, dovremmo dirgli qualcosa…» Il mio francese di allora, seppur migliore di quello di oggi, non era ancora così allenato da permettermi una comprensione simultanea nitida e splendente, per cui me ne rimasi lì, con il mio borsone da piscina piantato in spalla, a guardarla indecisa se chiederle spiegazioni riguardo alla mia crema di nocciole, alla sua presenza in casa mia, o alla sua identità. Ero così, un po' irritata, un po' confusa e un po' estatica.
Quasi contemporaneamente mi innamorai del suo migliore amico, che si chiamava Xavier ed era nato a Marsiglia da padre francese e mamma messicana, per cui non importava affatto come pronunciavi il suo nome, che suonava affascinante in qualunque modo. Questi dettagli sul suo conto li imparai parecchio dopo, nelle due settimane di ripresa che seguirono i dieci lunghissimi giorni di ermetico silenzio dovuti al senso di inadeguatezza che il vivere con una persona così Bella mi provocava.
Tale Xavier cominciò a scendere rumorosamente le scale rispondendo a voce alta alla sua amica proprio mentre lei alzava la testa dal barattolo alla porta e incrociava gli occhi con i miei, penso oltre limite inebetiti. E tanto si precipitava Xavier velocemente dalla rampa che fui presto presa tra due fuochi talmente caldi che, se tutto quello che succedeva nella mia testa si fosse realizzato, avrebbero dovuto raccattarmi con la spugnetta per i piatti.
Fu un momento assolutamente unico nella mia storia personale. Mai più mi capitò di avere l'attenzione di due creature del genere puntata addosso nello stesso, esatto momento. Mi sentivo calda, mi sentivo fumante.
Erano splendidi e mi guardavano con quella faccia carica di spaesamento e domande, tutte per me, e questa sola idea bastava per ubriacarmi e per farmi sudare come se fossimo in una sauna finnica, quando in una casa parigina, a fine settembre, si stava già bene anche in manche lunghe.
«Oh, pardon» Adela (che ancora non sapevo si chiamasse Adela) sciolse labbra e dentatura in un sorriso felice, assumendo un'espressione come se stesse dicendo a se stessa, amorevolmente, hai sbagliato persona, mia cara.
«Ciao» Xavier non mi aveva nemmeno fatto riprendere dal primo colpo che già me ne sferrava un altro, molto più da vicino. Sin dal nostro primo incontro, quindi, mi accorsi che quando sorrideva, i primi a ridere erano gli occhi mori e mandorlati, che gli davano luce al viso elfico e barbuto. Avercelo davanti era come stare di fronte ad una foto di McCurry, ma che emanava calore, che aveva un profumo buonissimo. Non nego l'evidenza, cioè che la situazione fosse estremamente poco realistica, ma, come si dice, la realtà non tarda mai troppo a superare la fantasia. Erano gli esseri più belli che avessero mai messo piede nel mio mondo, ed erano entrambi nella mia cucina, con quei loro occhi incredibili che mi guardavano con curiosità improbabile. Tanto surreale era quel momento che, dopo aver balbettato qualche frase di circostanza in un francese assolutamente scorretto, averli ascoltati mentre si presentavano e averli interrotti mentre mi spiegavano che cosa stessero facendo lì per presentarmi a mia volta, mi congedai con uno «Scusate, devo disfare il borsone» e me ne sparii in camera mia per quasi una settimana.



Xavier aveva preso in affitto la camera sopra la mia, accanto a quella di Odette, che avevo visto durante i miei primi due giorni parigini, poi mai più. Era una donna di trentatré anni che lavorava per una casa di moda, e la mandavano in giro per il mondo a raccogliere campionari di stoffe e tessuti e a fare da talent scout per trovare i nuovi Escher del design tessile. L'avere la camera di Odette accanto alla sua, vuota ma abitata, libera ma non utilizzabile causa le due mandate di chiave che lei prontamente le aveva dato (anche se scoprimmo, tempo dopo, che le chiavi di qualunque stanza aprivano qualunque altra stanza) doveva mettere Xavier in uno stato di irrequietudine non indifferente, perché aveva deciso che il suo ambiente preferito da abitare era la cucina. Casa nostra, strana per essere una casa francese, aveva una conformazione un po' americaneggiante: la cucina e il salotto, per la proprietà di essere divisi solo da un bancone murato su un lato, ricordava non troppo vagamente la cucina-salotto di Friends, anche se chiaramente molto più in piccolo (con molto meno salotto). La casa era su tre piani, di cui un interrato in cui avevano ricavato una cantina e una camera angusta con un prezzo d'affitto ridicolo per essere a Parigi. Ci stava un ragazzo che faceva economia e commercio, veniva da Charter, e stava a Parigi tre giorni su sette perché aveva lezione dal lunedì al mercoledì, dalle otto di mattina alle sette di sera. Arrivava la domenica sera e se ne partiva il giovedì mattina, e di lui non sapemmo mai quasi niente, tranne che si chiamava Thibauld, aveva ventiquattro anni, gli occhi color vetro e un delizioso difetto di pronuncia che però, in quanto delizioso, non mi impediva di capire quello che diceva. Per le quattro irrisorie battute che ci siamo scambiati durante la nostra convivenza…
Finendo di contare le camere da letto vere e proprie, quindi, eravamo quattro in tutto. Due dei quali non c'erano mai, o quasi. Ma, se vogliamo riprendere da dove c'eravamo fermati, penso che la prima impressione fatta a Xavier e Adela non fosse stata decisamente delle migliori. Voglio dire che, in quanto entrambi persone di buoni sentimenti, si saranno comunque limitati a pensare (e a dirsi tra loro, credo) che fossi una strana persona. Dei tempi che seguirono, si può dir tutto fuorché l'opinione che il mio coinquilino aveva di me potesse migliorare: come dicevo, per quasi una settimana me ne rimasi chiusa in camera mia, ovvero: tornavo dalle commissioni (ero impegnata, allora, nel seminare curricula per ogni dove, dai bar sotto casa alle librerie pompose del centro, ai banconi di La Fayette, all'ingresso del d'Orsay) per chiudermi in camera a fare le mie cose (che in quel momento consistevano in letture affamate di libri in lingua, dei quali capivo a stento un quarto del contenuto, di pari passo con visioni di film sottotitolati in lingua, che duravano per altro tre o quattro volte il dovuto, considerando quanti rewind mi ci volevano per capire le frasi più complesse). Uscivo per chiudermi in bagno; se era ora di pranzo (che era determinata più o meno dalla profondità del brontolio delle mie viscere) mentre tornavo dalla toilette tendevo bene bene le orecchie per capire se in cucina ci fosse qualcuno e, se sentivo silenzio, mi appropriavo dei fornelli, preparandomi un pasto frugale con una velocità che era ogni volta inversamente proporzionale alla qualità di ciò che cucinavo.
Si pensi pure che fossi sociopatica: lo ero. Ma, come detto, vivere con Xavier mi metteva una strana ansia da prestazione, e penso che questo fosse davvero dovuto al fatto che lui fosse illegalmente bello.
Ora, mi par doveroso appuntare che, quando accadeva tutto questo, io avevo ventun anni. Abbastanza grande per non cadere più in queste trappole da prima adolescenza che passa da un omogeneizzato di cartoni Disney ad una ciccia a pezzetti di letture manga. Ebbene, io ci cadevo, eccome se ci cadevo. A volte, a esseri sinceri, ci cado ancora, e senza che me ne stupisca mai troppo. A mio discapito posso dire che non ho mai imparato a essere bella. O meglio, che non ho mai imparato a non essere bella. Facciamo l'esempio dell'acqua e dell'olio: mi sono sempre sentita un po' così, un po' acqua. Su cui la Bellezza galleggia, da cui la Bellezza si fa sfiorare, ma non abbracciare.
Detta in questo modo, sembra una cosa estremamente patetica. Ebbene, non è esattamente così. Tutto questo non è mai stato un vero e proprio dramma (se non in quel breve periodo della già citata prima adolescenza, dai 13 ai 15 anni, dove tutto, indistinguibilmente parlando del primo due in matematica, del ragazzo rubato dalla migliore amica o della macchia di candeggina sulla maglietta preferita, costituiva un dramma). Una volta accettato il fatto che il mondo non può essere riempito solamente di bellezza, mi sono rimboccata le maniche per imparare a convivere con le mie spalle troppo larghe e il mio naso troppo lungo (più un'altra serie di dettaglio non trascurabili che, per amor proprio e per amor di pazienza, trascureremo).
Ma sta di fatto che, a ventun anni, avevo una paura inspiegabile di quest'uomo bellissimo che sapevo aggirarsi in casa mia.



Dopo una settimana di reclusione, capitò che Xavier se ne scendesse in cucina così repentinamente che io non ebbi il tempo di accorgermene e di precipitarmi quindi a murarmi viva in camera mia come un hikikomori occidentale. La sua bellissima testa fece capolino dalla porta della cucina mentre stavo pepando la frittata e, per lo spavento, mi cadde talmente tanto pepe nell'uovo che dopo, per finirla tutta, mi ci volle un coraggio raramente dimostrato prima di allora in vita mia.
«Ciao» disse così, senza esclamazioni, con un tono un po' strano, che avrei potuto definire come impermalosito. Era una sensazione lieve che ebbi dopo, una volta tornata in camera, quando ripensai agli eventi. Nel mio ricordo mi parve proprio che avesse quella punta di stizza nella voce che hanno i bambini quando gli si fa un grave torto, e loro sono convinti di aver ragione. Ma sul momento, per lo stesso motivo che mi portò a pepare oltremodo il mio pranzo, è chiaro che non feci caso a questa finezza. Mi limitai a trasalire, a spalancare gli occhi e a deglutire, tutto ciò in qualche secondo di troppo, che fece piombare il silenzio imbarazzante (anche se credo solo dal mio canto percepito come tale) e che io ruppi con un goffo e incompressibile «ciao», facendo ricadere pesantemente la testa verso il basso, lo sguardo a tuffarsi nel battuto d'uovo ormai brizzolato.
«Mangi?» il tono distratto con cui me lo chiese (osservai ancora una volta più tardi) ostentava distrazione e disinteresse, anche se, a logica, verrebbe da dire che la domanda disinteressata in un frangente come questo, sia abbastanza un ossimoro.
«Sì» monosillabica e assolutamente poco sibillina risposta. Sentii occhi d'elfo puntati addosso mentre Xavier faceva il giro del bancone e apriva un'anta della dispensa, dietro di me.
«Credo ci tocchi mangiare assieme»
Silenzio.
La verità era che non avevo niente da dire. Cioè, una volta interpretata la sua affermazione pensai che potevo trovare una scusa per scappare. Poi pensai che fosse troppo tardi, perché avevo già risposto al suo mangi?. Ero ancora sufficientemente lucida per capire che un'improvvisa inappetenza potesse risultare un pelo sospetta. Quindi pensai che era giunto il momento di evitare le scuse e di cercare di contribuire (nel mio piccolo) a sostenere la nomea di animale sociale che l'uomo si sbandiera tanto addosso da sempre. Dopo moltissimo tempo dall'ultima uscita di Xavier mi costrinsi a fare un sorrisino (che mi sentii addosso più o meno come la smorfia che si fa dopo aver preso un cucchiaio di un rivoltante sciroppo per la tosse) e a esordire con un assolutamente poco convinto «Ah…cool!»
Dunque, io mi preparai la mia frittata (facendo la figura della cafona perché non ebbi la prontezza di offrirgliene, ma al contempo facendo la sua fortuna) e lui si preparò i suoi spaghetti cotti in cinque minuti (che in effetti non dovevano essere tanto più riusciti del mio pranzo), tutto nel silenzio più silenzioso che mi parve mai di aver vissuto. Poi lui fece la tavola e io gli versai l'acqua nel bicchiere, prima che a me.
Non l'avessi mai fatto.
Xavier mi guardò quasi stupito, e i suoi occhi spettacolari sorrisero.
«Grazie!» nonostante volsi tesa come una corda d'arco, questa volta percepii chiaramente il cambio di tono, e la sua voce che si colorava. Da lì successe che cominciò a parlarmi. Fu un dialogo abbastanza strano, perché io non lo alimentavo molto. Mi limitavo a rispondere alle sue domande, e ogni tanto a rigirargliele. Un paio di volte provai anche a fare dell'umorismo, ma la gag italiana non rendeva troppo bene nel mio francese maccheronico, quindi mi guadagnai solo un paio di vampate d'imbarazzo e qualche risatina, di circostanza o di tenerezza che fossero.
Non parlammo di cose particolarmente complicate, anche perché lui si accorse subito della difficoltà che avevo nello stargli dietro quando si dimenticava di avere a che fare con una che non era francofona nemmeno alla lontana. Di questo primo scambio di battute ricordo che, nonostante il suo francese risultasse alle mie orecchie assolutamente perfetto, ogni tanto gli scappava un'accento spagnolo da qualche parte, ed era un dettaglio assolutamente delizioso.
Durante questa goffissima (dal mio canto) conversazione, sebbene tenessi spesso gli occhi bassi o incollati a qualunque cosa che non fosse Xavier, non riuscii ad evitare di essere travolta dall'aura bella del mio coinquilino, e dalla sua voce entusiasta anche quando parlava di spillette da bucato.
Quando finimmo di mangiare mi offrii di lavare i piatti, anche un po' per sdebitarmi del fatto che non fossi stata socievole quanto lui. Xavier sorrise e mi ringraziò, senza farselo ripetere due volte. Si dileguò con un cenno della mano, e fino all'indomani non lo vidi più.

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Capitolo 2
*** Curricula ***


2. Curricula


Nel mio disperato tentativo di cercare un lavoro, considerando la poca fiducia che riponevo nella mia conoscenza del francese, cominciai a lasciare curricula in una quantità imbarazzante di ristoranti italiani e, alla fine, ricevetti tre telefonate. La prima proposta la eliminai in tronco, spaventata dal fatto che dall'altra parte della cornetta ci fosse un individuo (che io identificai come tedesco, anche se più probabilmente era olandese) che non parlava una parola di italiano e, quando parlava francese, sembrava più un canadese anglofono che scimmiotta l'accento del Quebec. La seconda chiamata la ricevetti non grazie a un curriculum, ma tramite l'annuncio lasciato su una bacheca in internet. La signora era di Udine, e il forte accento friulano e canterino mi rendeva la comunicazione comunque difficoltosa, ma se non altro riuscii a capire l'indirizzo e mi presentai al primo turno di prova senza troppi intoppi. Considerando la mia totale mancanza di 1) senso dell'orientamento 2) senso delle distanze 3) senso del tempo, per il mio giorno di prova mi preparai a partire di casa con ore due di anticipo sull'inizio del turno, premurandomi di studiare dettagliatamente il tragitto sulla cartina della città comprata durante la mia prima settimana a Parigi, che aveva il superpotere di essere maneggevole e malleabile e al contempo resistente all'usura, in quanto plastificata.
Questo studio delle coordinate del punto A (casa mia) e del punto B (il ristorante Chez Gigliola) sulla mappa pieghevole di Parigi fu un momento topico nell'evolversi della relazione di coinquilinato tra me e Xavier. Come mi è già capitato di dire, cominciare ad avere un rapporto normale con lui fu una delle fatiche emotive più grandi che fino ad allora mi fosse mai toccato affrontare. Non per lui, che era ben disposto a qualsiasi tipo di socialità con qualunque essere umano gli capitasse a tiro (e, spesse volte, il requisito di "essere umano" non era nemmeno richiesto); il problema principe di tutti questi tesi imbarazzi era la mia già citata sociopatia.
Il momento di svolta ci fu proprio a causa dei punti 1, 2 e 3 di cui poco sopra, per cui mi dimenticai completamente di avere un coinquilino spaventosamente bello dal quale nascondermi perché troppo presa a preoccuparmi di evitare qualunque circostanza che avrebbe potuto comportare un mio ritardo sul posto di lavoro già dal primo giorno.
Così, eccomi lì che, alle tredici e quindici di un martedì di primizie ottobrine, me ne sto seduta al tavolo della cucina, un piatto con due toast tagliati a metà accanto e l'enorme mappa di Parigi aperta ad occupare quasi tutto il piano. Non so da dove arrivasse lui, perché non lo sentii né salire né scendere le scale, né tanto meno far scattare lo schiocco della porta d'ingresso. Ma, quando si palesò in cucina con un lungo e ridente hallo dall'accento fortemente francese, aveva addosso una giacchetta leggera leggera da primo autunno di un fotonico viola ciclamino, troppo anni ottanta per essere stata comprata ovunque se non in un mercatino delle pulci.
Feci un salto sulla panca (in cucina avevamo allora una panca e due sedie che, nel corso dei mesi, andarono via via gemmando e ricoprendosi di cuscini trovati per la strada o riciclati da amici che volevano liberarsene), uno di quei salti che si portano dietro anche il supporto su cui sei seduto, finendo con un suono rumoroso di mobilio urtato che sottolinea inevitabilmente l'esagerazione della tua reazione. Cose di questo genere mi capitavano (e spesso permango in questo) continuamente.
«Cosa fai?» mi chiese, entrando in cucina con disinvoltura, senza dare alcun segno di voler prendere in considerazione la mia reazione di qualche secondo prima «Hai mangiato?»
«Ahm…» tentennai, gesticolai a vuoto, mi schiarii la voce. Dovevo, nell'ordine: ricompormi, pensare a cosa rispondergli, pensare a come rispondergli in francese e cercare, in qualsiasi lingua volessi parlargli, di farmi capire «Io…sì, ecco, vedi? Sto mangiando un toast…» avevo scelto di rispondergli non seguendo un ordine cronologico, il che mi portò, un po' per stemperare il mio tono che rischiava di assumere sfumature di duecento stati d'animo diversi, nessuno dei quali corrispondente al vero (che era, per altro, somma confusione, come sempre quando sono in uno stato d'agitazione)…dicevo, la mia risposta all'ultima delle sue domande mi portò ad una digressione verso un «Vuoi…ne vuoi un po'?»
Lui soppesò la mia proposta, voltandosi a scrutare l'offerta, molto pensoso mentre restava sospeso nell'atto d'estrarre un piatto dalla credenza.
«Mh…» sembrò per un momento che stesse valutando quanto fonda fosse la voragine che aveva nello stomaco e se il panino che gli offrivo sarebbe bastato a tamponarla. Quindi, lasciato lì quello che stava tirando giù dal mobile, sorrise luminoso e disse, tutto contento «Sì dai! È al formaggio?»
«Sì, ahm…e-e prosciutto…» bofonchiai, facendogli frettolosamente spazio sul tavolo, strattonando la mappa urbana. Il suo già noto superpotere si rivelò molto utile in un frangente come quello.
Xavier si sedette al lato corto del tavolo, sotto la finestra, su una delle due sedie, prendendo senza troppi complimenti una metà di toast e incollando gli occhi incuriositi alla Parigi planare che se ne stava ormai tutta arruffata sotto le mie braccia.
«Una mappa?» chiese, inclinando la testa a sinistra e strizzando gli occhi, forse per individuare quale parte della città gli fosse più prossima in quel momento «Che stai facendo?»
«Mh…devo andare in…» mi schiarii di nuovo la voce, cercando di tirare fuori la pronuncia migliore di cui disponevo «Rue du Moulin Vert…che è più o meno….» lisciai con un palmo la porzioncina di mappa in basso a sinistra, facendo roteare un dito tra le strade fin quando non scovai la microscopica viuzza, nel quattordicesimo Arrondisment inoltrato «qui»
«Fa vedere…» Xavier infilò il toast un bocca prima di sporgersi sulla mappa per sbirciare «Ah» la sua voce suonò ovattata oltre il panino. Ci diede un morso, masticò, ingoiò, il tutto senza mai smettere di scrutare con concentrazione la carta, prima di continuare «al quattordici…lì ci arrivi con la 4»
«La 4?» domandai, guardandolo senza capire. A essere onesta, avevo veramente ancora poca dimestichezza con la metropolitana. In poco meno di un mese, nonostante mi muovessi abbastanza, l'avevo presa poche volte, e quasi tutte durante la prima settimana di permanenza, per quelle usanze rituali quali visite ad alcuni punti caldi della città (nella fattispecie Tour Eiffel, Centre Pompidou, Musée d'Orsay - una volta in visita e una volta in cerca di lavoro - e Notre Dame), spesse volte più che altro perché mi risultava meno difficile perdermi quando sapevo di trovare la torre all'uscita Torre.
«Ah-ha» Xavier annuì, spostando il piatto dei toast sulla panca, accanto a me, per aprire completamente la carta ed indicarmi con il dito il percorso da casa nostra (18°) a Rue du Moulin Vert «è la linea violetta. Da qua ci arrivi in…mh…diciamo trenta, trentacinque minuti»
«Ma…» beata ingenuità, lo assumo, ma lo dissi davvero con un'inconsapevolezza quasi diamantina, seriamente convinta di quel che dicevo «Per andarci a piedi, per esempio…»
Xavier mi piantò gli occhi addosso, e me ne accorsi solo perché alzai lo sguardo su di lui sentendo che tardava nel rispondermi. Mi sentii avvampare qualche secondo prima che lui erompesse in una risata che non capii subito, ma il cui fragore mi fece intendere un po' in differita che forse la mia mancanza di senso della distanza era reale, e non solo immaginaria.
«A piedi? Ma quanto tempo prima vuoi partire?» chiese, divertito ma senza cattiveria.
«Bèh io…comincio alle cinque e mezza, quindi…»
«Quindi parti tra due ore…» mi guardò come per dire ti sfido a farlo sul serio.
In quel momento, oltre a sentirmi caldissima in viso, mi successe una cosa strana. In mezzo al canonico imbarazzo che provavo allora come tutte le volte prima in cui avevo incontrato fortuitamente Xavier per casa (imbarazzo al quale, per altro, cominciavo ad abituarmi) sentii anche una strana sensazione di elettricità, come se lui, guardandomi in quel modo, mi avesse inconsciamente offerto un qualcosa a cui aggrapparmi per aggirare la mia goffaggine nel socializzare. Per la prima volta gli feci un sorriso quasi spontaneo, cercando di far finta di essere un po' più a mio agio del solito. Annuii, senza esitare.
«Esatto» esclamai «Poi ti racconto»
Xavier ridacchiò, prendendo una seconda metà di toast.
«Bèh, forse fai bene» disse, spensierato «Fin quando il tempo regge, bisogna approfittarne»



La terza telefonata la ricevetti a una settimana dal mio debutto al Chez Gigliola. Alla fine me l'ero fatta a piedi veramente, partendo alle tre da casa e arrivando a destinazione alle cinque e dieci. Tra tutte le paranoie che ho avuto in vita mia, quella del risultare fuori tempo era una di quelle che più di frequente si presentavano. Paradossalmente, detestavo arrivare in anticipo per paura di risultare un'ansiosa. Quale effettivamente, in certi contesti, ero…
Così spesi un quarto d'ora buono ad ispezionare il circondario e, alle 17 e 27 minuti, feci il mio ingresso nel locale, presentandomi alla proprietaria, una piccolina nervosa dai capelli furono neri, ma poi infarinati sulle tempie, e gli occhi piccoli e vivi. Il turno di prova andò come si può immaginare vada un turno di prova di una ventunenne che non ha mai fatto la cameriera in vita sua. Aggiungiamoci il fattore lingua straniera (perché sì, locale italiano, ma clientela non si sceglie), e il tutto risultò un bel pout pourri di goffaggine e inesperienza. La signora Gigliola, però, non mi diede il ben servito, così continuai a presentarmi lì anche nei giorni seguenti. D'altro canto mi pagava cinque euro l'ora, e fu proprio per questi cinque euro l'ora che la piantai, una volta ricevuta la telefonata della francesina che mi chiamava per quello che in realtà era un posto da barista in un locale che d'italiano aveva solo il nome (Lo Stivale, giusto per avere un tocco d'originalità) e che stava, oltretutto all'undicesimo, decisamente più vicino a casa mia.
Comunque, a tornare a casa da questo primo giorno di prova presi tanta di quell'acqua che, per trauma, il giorno dopo feci un abbonamento mensile alla metropolitana e continuai a prenderla ininterrottamente per settimane, anche quando il tempo si rimise e quando cambiai posto di lavoro.
Giunta a destinazione, all'una e trentasette della notte (s'immagini quindi, oltre al disagio umido della pioggia torrenziale, la consistente dose di paura che mi aveva portato ad attraversare Parigi con una foga mai vista, battendo un record indicibile di un'ora e ventotto minuti di camminata 14°-18°), tastando nella mia borsa a tracolla che pareva appena uscita dalla lavatrice, dentro le tasche del giacchetto, in quelle dei pantaloni e della felpa, non trovai le chiavi di casa. Quasi mi venne da piangere. Estrassi il cellulare, cercando nella rubrica il numero di Xavier, che non avevo.
«Che cretina! » sibilai in italiano, sbattendomi il palmo della mano forte sulla fronte, tanto da farmi un pochino male.
Sbattei una piede a terra, sospirai con stizza, alzai un dito verso il campanello, ci ripensai.
Altra paranoia: disturbare la gente in momenti inopportuni. E quello era decisamente il caso.
Tentennai abbastanza, tanto per essere bagnata, beh, lo ero già al limite. Poi mi fermai a riflettere con quel poco di lucidità che agitazione, frustrazione e insofferenza verso l'umido mi lasciavano: ero fuori di casa, sotto un'acqua torrenziale, ormai a poco dalle due di notte, senza alcuna possibilità di rientrare in casa mia se non quella di attaccarmi al campanello e sperare che uno dei miei coinquilini fosse sveglio o non avesse un sonno granitico. Se non avevo il coraggio di farlo, l'unica alternativa che si prospettava era l'improbabile costruisciti un giaciglio sulla soglia dicendo preghiere fino a che non ti addormenti per non essere derubata, pestata a sangue, stuprata o semplicemente coperta di sputi e di urina da qualcuno. D'altronde, abitavo relativamente poco distante dalla Gare du Nord
Mi spaventai talmente tanto da sola che, per raggiungere il campanello feci un mezzo balzo, e mi attaccai al bottone come se fossi una calamita vicino ad una scatola di chiodi. Rimasi con il dito incollato al pulsante fin quando la porta non si aprì bruscamente ed uno Xavier pesto e stropicciato non vi fece la sua apparizione dietro, il che necessitò di circa cinque, sei minuti.
Il mio coinquilino biascicò qualcosa che io non riuscii a capire, ma che non ebbi troppi problemi ad associare ad un improperio o a un'imprecazione. Non credo che stesse ancora capendo cosa succedeva quando gli sbattei in faccia un sorriso storto, imbarazzato oltre limite, e mi affrettai ad entrar in casa, grondante come mai, sussurrando scuse in più lingue (italiano perché scombussolata, francese perché ripreso un po' di buon senso, inglese per paura di non risultare abbastanza mortificata). Xavier si sbatté una mano sulla fronte per poi farla scivolare su un occhio, stropicciarlo e fare una smorfia di quelle che si fanno per cercare di velocizzare i tempi di reazione dopo il risveglio.
«Ah, Agnese…» mormorò smorto. Non che mi aspettassi dell'entusiasmo in una situazione come quella, s'intende. Mi ero oltretutto preventivamente preparata ad affrontare insulti o, tutt'al più, una faccia molto scura che mi guardava con odio e con rimprovero. Tuttavia, ormai abbastanza abituata com'ero a vederlo con del sole addosso, rimasi un po' male nel sentirgli pronunciare il mio nome in maniera così spenta. L'accento buffo con cui lo storpiava ogni volta risultò stemperato dal tono pastoso che la sua gola assonnata produceva a quell'ora.
«Già» boccheggiai, cercando ridicolmente di asciugarmi le suole sullo zerbino, come se non gocciolassi da ogni singolo capello che avevo in testa (e ne avevo molti e molto suscettibili all'umido, oltretutto) «Scusami ma…che stupida, ho lasciato le chiavi…»
«Ah, sì…beh, fa niente dai…» sbadigliò, e per un nano secondo mi ricordò un lama. Quello sbadiglio parve portargli via un po' di quella patina di torpore che tutto lo ricopriva, e sembrò accorgersi solo allora che parevo appena tornata da una festa in piscina con l'obbligo di tuffarsi vestiti «Ma…che ti è successo?»
«Sta piovendo…»
«Sta…sta piovendo?» mi fissò un po' poi sgranò gli occhi, magicamente riaccesi «Oh, ma sei fradicia! Ma va a cambiarti, dai! Guarda che ti ammali! Vuoi che ti faccia un té?»
Spiazzata dal suo repentino riattivarsi, buttai lì vocali slegate tra di loro, parecchi puntini di sospensione e una quantità non meglio precisata di , no e non saprei. Finì che Xavier mi convinse a farmi una doccia calda mentre lui mi metteva su l'acqua per il té. Quando tornai in cucina, in pigiama, erano ormai le due e mezza. Sul tavolo, accanto alla tazza gialla che fumava, Xavier aveva incrociato le braccia e, accoccolataci sopra la testa, si era addormentato di nuovo.



Lo Stivale era gestito da Sophie Coutillard e dal suo fidanzato storico Maurice Latinne, una coppia di trentaduenni sorprendentemente giovanili con una passione per la musica e la filosofia. Si erano conosciuti alla Sorbona, durante un seminario su Schopenhauer, circa dieci anni prima. Lei studiava estetica, lui geografia. Lei era alta un metro e sessantotto, aveva gli occhi lilla dal taglio scandinavo, il naso all'insù, zigomi altissimi e capelli biondi e tra i più fini che ricordi, portati quasi sempre sciolti sulle clavicole vistose. Era di una magrezza eterea, aveva ossa sottili e spigolosità evidenti anche sotto i vestiti. A vederla non poteva dimostrare più di ventitré, ventiquattro anni. Maurice, dal suo canto, aveva i capelli rasati cortissimi, spalle larghe, mani bellissime. La superava in altezza di non più di un palmo di mano e la guardava con occhi da poeta che compensavano quelli di lei in un taglio verso il basso, con uno sguardo fittissimo di ciglia.
Quando li conobbi mi misero in una strana soggezione dovuta al fatto che fossero molto più grandi di me ma non lo sembrassero affatto, almeno fisicamente. In più parlavano molto, e io ancora inciampavo nella lingua e nella mia timidezza, ma presto ebbi abbastanza da fare da non avere più tempo per pensare a questi dettagli e per sciogliermi in tutte le mie difficoltà, più o meno. Mi pagavano undici euro l'ora per sette ore al giorno, dalle sei del pomeriggio alle due di notte, con due pause da mezz'ora quando volevo. Inoltre mi accompagnavano quasi sempre a casa al ritorno, vista l'ora tarda, e non accettarono mai un centesimo per la benzina.
«Tanto stiamo al diciassette» diceva sempre Sophie, facendo spallucce.




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Doverose note d'autrice:
Buongiorno a chi legge, se si legge. Mi pare doveroso scrivere alcuni appunti circa la veridicità delle ambientazioni e dei personaggi. La scelta di ambientare la storia a Parigi è un compromesso tra una città che sia al contempo una metropoli cosmopolita e, per quanto mi riguarda, nuova ma anche non così nuova da dire "non so nemmeno se c'è una piazza o no". Parigi è una città dove non ho mai vissuto, naturalmente, ma dove mi è capitato di passare qualche volta: per questo so dove si trova Rue du Moulin Vert, che realmente esiste, ma non ho la minima percezione di quali siano le sue reali dimensioni, se non dipendenti da una presa visione di una cartina. I luoghi citati (Chez Gigliola e Lo stivale) non penso esistano per davvero, e nella fortuita circostanza in cui esistano, trovo molto improbabile che potrebbero essere collocati davvero in Rue du Moulin Vert o in un punto non meglio identificato dell'undicesimo Arrondisment.
Oltre a questo, per onore di cronaca, voglio subito ammettere che non ho la più pallida idea di quanto costi affittare una casa nel diciottesimo Arrondisment, anche se a sentimento dico forse molto di più di quanto l'ipotetica Agnese e l'ipotetico Xavier si potrebbero permettere nella vita reale, considerando che una è una cameriera novella, e l'altro uno studente di architettura che si mantiene dando ripetizioni di spagnolo. Considerate tutto questo, se volete considerarlo, come una lauta licenza poetica.
Per quello che riguarda i personaggi, confesso che ho spillato da esperienze personali per tirarli fuori: per quanto assurda possa sembrare una persona come Xavier (anche se indubbiamente modificata in certi suoi angoli ed aspetti, ma non più di tanto) assomiglia vistosamente a un personaggio realmente incontrato, che aveva realmente un'amica incredibilmente bella come Adela. E questo vale quasi per tutti i personaggi che vorrei inserire nella storia.
Detto questo, concludo l'angolo un po' pignolo delle precisazioni, ma trovo sempre che le licenze sia meglio dichiararle che lasciarle supporre. Grazie dell'attenzione!

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Capitolo 3
*** Au fur et à mesure ***


3. Au fur et à mesure


Il periodo ipotetico è formato da due preposizioni, delle quali la subordinata è introdotta dalla particella se ed esprime la condizione, mentre la proposizione principale esprime il fatto che ne deriva.

Mi decisi a studiare veramente la lingua quando incontrai Guillame. Successe verso la metà della seconda settimana di lavoro a Lo Stivale, e fece parte della serie di novità che cominciavano a dare un ché d'ottimismo alla mia permanenza parigina. L'incipit di questo ottimismo lo si può ritrovare in quel famoso acquazzone che mi accompagnò fino a casa il primo giorno di lavoro a Chez Gigliola e che mi marcò con una tosse secca e urticante che per qualche tempo trasformò casa nostra in un sanatorio.
Alle undici della mattina dopo, Xavier cominciò a bussare con calma alla mia porta. Io, che me ne stavo avvolta in un pile marchio IKEA color fumo di Londra, con gli occhi gonfi di un sonno che ancora non ero riuscita a scacciare nonostante la sveglia mattiniera, il pigiama con Lumpy da cui ancora non avevo avuto il coraggio di sgusciare fuori, intenta a chattare su skype con la migliore amica di sempre (che in quel momento particolarmente mi mancava, viste le circostanze), trasalii facendo quasi scivolare il portatile dal letto.
Al terzo toc schizzai in piedi e, trattenendo un colpo di tosse, andai ad aprire. Xavier mi guardò un attimo con sguardo bambino, come qualcuno che si scorda cosa deve dire per un nano secondo perché gli è venuto in mente che forse quel soldatino che cercava poteva essere rimasto nella tasca dei pantaloni che la mamma aveva appena infilato in lavatrice…
«Ah» disse, un po' interdetto «Credevo fossi sveglia»
Io lo guardai piscifera, sentendomi improvvisamente come se mi avessero lasciato cadere in una sit-com americana con le risate finte messe a caso in momenti non divertenti.
«Lo ero» risposi mono-tono «Cioè…lo sono…ma lo ero anche prima»
Il suo oh non mi consolò, ma cadde in secondo piano quando aprì uno dei suoi maestosi sorrisi per introdurre un «Vuoi che ti prepari della zuppa? Secondo me ti fa bene»
Boccheggiai, mentre lui mi guardava fiducioso attendendo una risposta. Il mio deflagrante stupore non era tanto per il fatto che lui, oltre a palesarsi come persona bellissima (caratteristica a cui, per altro, stavo lentamente cominciando ad abituarmi), cominciava anche ad avere inquietanti aspetti di cordialità, gentilezza, disponibilità e altruismo che, uniti ad uno spirito sociale piuttosto spiccato e ad un senso dell'umorismo che andava di pari passo, lo rendevano l'individuo che più si avvicinava al concetto di perfezione tra tutte le mie conoscenze. Il fatto era che nemmeno mia madre s'era mai proposta di prepararmi del brodo come palliativo curativo a attacchi di tosse fulminante. Un semi estraneo che mi porgeva tutta quella premura, quindi, mi metteva in un condizione di non sapere veramente cosa dire…
«Ahm…» mormorai a fil di voce dopo circa quattordici anni dalla sua offerta «…io…»
«Zuppa di zucca, dai. È anche arancione! Deve fare bene per forza»
Fu più o meno da lì che cominciammo a pranzare insieme.



Guillame, di cui sopra, lo incontrai al lavoro, nella seconda settimana di servizio da Sophie e Maurice. Era un mercoledì, serata dedicata ai concerti di jam session, e il locale era talmente pieno che la gente si muoveva trascinata da altra gente, spostandosi per la sala in modo entropico. Non so quanto tempo lo feci aspettare al bancone: era già qualcosa che riuscissi a riempire tutti quei bicchieri senza farne scivolare uno su due, e a ricordarmi cosa doveva essere servito a chi, e quanti soldi dovevo avere in cambio. Così, a un certo punto, mentre passavo un calice di bianco ad una ragazzina giovanissima con labbra piene di rosso cuore, Guillame allungò una mano ad afferrarmi l'avambraccio.
«Scusa» esordì a voce alta, per passare sopra al chiacchiericcio e, ancora oltre, alla musica «Est que je pourrais avoir mon rouge, s'il te plait?»
Lo guardai instupidita, perché ovviamente non avevo capito nulla.
«Cosa!?» urlai, sporgendomi verso di lui.
«Il mio rosso! Te lo sei dimenticato…»
«Oh…Scusa! Arrivo subito» esclamai, schizzando a prendere la bottiglia mentre lui mi urlava dietro «Un Merlot, ti ricordi?»
Due ore dopo, quando bisognava mettere su la faccia scura per buttare fuori gli ultimi avventori prima dello scoccare ultimo dell'ora di chiusura, Guillame si avvicinò al banco facendo scivolare una monetina da due euro sul ripiano.
«Questi sono tuoi» disse gioviale «Tu m'as rendu trop de monnaie»
Il mio sguardo, stravolto dal caldo, dall'ora, dalla fatica e da tutto il resto, si spostò dalla moneta al viso stranamente poco stanco di quel ragazzo, e mi stupì quanto dovessero salire i miei occhi per incrociare i suoi. Lo riconobbi come persona già vista, ma non capivo dove e non capivo come.
«Il Merlot che ho aspettato un quarto d'ora» precisò gentilmente indicando i soldi «Mi hai dato troppo resto»
Allora ebbi un barlume di reminiscenza, e lo rividi afferrarmi per un braccio per avere la mia attenzione, lo sguardo verde afgano che mi guardava paziente e un sorriso obliquo in viso.
«Oh!» esclamai, stupita «Un quarto d'ora?! Oh, tienili i soldi, mi dispiace se hai aspettato tanto»
Il ragazzo inarcò un sopracciglio, senza dimettere il sorriso, che si storse un pochino «Ah…beh, non so se ti conviene questo tipo di comportamento» commentò. All'espressione che assumevo tutte le volte che non coglievo il senso di una frase seguirono le sue spiegazioni «Se fai così con tutti quelli che aspettano al banco più di cinque minuti finisce che ci rimetti. Ça fait pas long temps que tu travailles ici, n'est pas?»
Ecco cosa mi spinse a cominciare a studiare la lingua un po' più seriamente. Guillame (che, tra le altre cose, si rivelò essere la persona più alta delle persone alte, cosa che non avevo notato in un primo momento) non era attento quanto Xavier nel rivolgersi a me. Parlava rapido, con un accento un po' affettato che mi spiegò più avanti essere bretone, lasciandosi spesso e volentieri tentare da espressioni gergali che non riuscivo a capire nemmeno quando me le facevo spiegare.
L'episodio del resto gli diede un pretesto per intavolare una breve conversazione che non permise a me di capire nulla di utile su di lui, ma permise a lui di capire che io fossi straniera, che il mio livello di francese non fosse mirabile e che avessi un'enorme inesperienza circa la carriera di barista (inesperienza dietro la quale potei nascondere per un po' la mia goffaggine innata). Nonostante i momenti imbarazzanti di cui quel fine di mercoledì sera venne infarcito, Guillame mi prese in simpatia e cominciai a vederlo spesso nel locale. Sophie mi disse che in realtà aveva sempre frequentato Lo Stivale con continuità, che sia lei che Maurice lo conoscevano abbastanza per concedere a lui e ai suoi amici mezz'ora in più di sosta nel locale dopo l'orario di chiusura, una volta ogni tanto.
Scoprii che veniva così spesso a bere un verre (fosse di Merlot o di succo di ciliegia, a seconda dell'ora che sceglieva per fare la sua comparsa) perché abitava a meno di duecento metri dal locale, che era sempre stato uno dei punti di ritrovo prediletto dalla sua compagnia. Nel giro di dieci giorni Guillame divenne uno tra quelli che, nella mia realtà parigina, potevo più o meno considerare come amici. Non lo vedevo in realtà più di due, tre volte a settimana (di cui la terza magari semplicemente perché buttava dentro la testa per urlare un Salut! mentre tornava a casa dall'università), ma quando si fermava al locale aveva una tale voglia di fare delle chiacchiere che era praticamente impossibile evitarlo. Con estrema fatica (le nostre conversazioni, durante il nostro primo mese di conoscenza, erano piene di Puoi ripetere? e Non credo di aver capito) imparai che studiava chimica, che aveva ventitré anni e che viveva in una specie di squat ricavato da un ex teatro (in realtà non era un vero e proprio squat, perché un affitto lo pagavano, per quanto basso fosse) insieme ad altri due ragazzi. Poi, due settimane dopo il nostro incontro, me lo ritrovai in cucina, che preparava una luculliana cena a base di burritos e crêpes insieme a Xavier, Adela e altre tre persone mai viste in vita mia.



Un venerdì, verso le otto, tornavo dalla piscina. Già dalla strada, mentre facevo girare le chiavi nella toppa, mi giungeva l'animato vocìo che annunciava qualcosa come un simposio amicale e che mi mise subito dell'ansia addosso, come tutte le volte in cui si prospettava l'ipotesi di dovermi trovare in mezzo ad un gruppo di più di tre sconosciuti. Nonostante abitassi con Xavier da ormai un mese, non mi era mai capitato di partecipare ad una delle sue cene tra amici. Questo perché lavoravo dal sabato al mercoledì, e forse lui capiva ed assecondava la mia goffaggine relazionale, evitando situazioni che avrebbero potuto immergermi nel disagio.
Una sola volta mi era capitato, un venerdì, di cenare con lui e Adela, che aveva preparato un gazpacho buonissimo e che mi tempestò di domande per tutte le due ore che rimanemmo seduti al tavolo della cucina. Con mia grande sorpresa fu una serata estremamente piacevole, durante la quale scoprii di essere veramente e completamente affascinata da quei due, che battezzai subito come la coppia più splendida del mondo. Nessuno di loro si riferiva all'altro come al proprio partner, ma io davo per scontato che stessero insieme. Avevano un grado di confidenza elevato e, si toccavano molto abbracciandosi e tirandosi buffetti giocosi sulle guance e sulle braccia. Non li vidi mai scambiarsi un bacio, ma questo non cambiò la mia opinione su di loro.
All'inizio della cena, quando mi ero palesata in cucina e loro mi avevano calorosamente invitato a condividere con loro il companatico, mi sentivo davvero molto in imbarazzo. Fare il reggi moccolo non è di base una cosa piacevole, io poi la vivevo sempre particolarmente male. Ma loro furono splendidi nel coinvolgermi nell'atmosfera conviviale che li avvolgeva, e l'unica cosa che mi fece desistere dall'uscire insieme a loro dopo aver mangiato fu il tempo infausto che batteva grandine contro le finestre e l'appuntamento del giovedì via chat con Susanna (la famosa migliore amica) che seguiva quello con mia madre, particolarmente assillante in quel periodo.
Altre volte Xavier aveva organizzato cene più grandi, e questo me lo diceva l'enorme quantità di piatti che mi era capitato di trovare nel lavello, il giorno dopo, e che mi capita un paio di volte di lavare, spinta da simpatia per il mio coinquilino e necessità di avere stoviglie pulite per prepararmi il pranzo.
Quel venerdì, però, di persone nella mia cucina ce ne trovai sei. La balbuzie e il rossore mi assalirono repentinamente nel salutare la folla, tutti sintomi di un imbarazzo galoppante.
«Agnese! Speravamo che tornassi in tempo!» trillò Adela, facendo saltare dell'insalata appena lavata dentro lo scolapasta, per farla sgrondare.
«Mangiamo tra circa mezz'ora» intervenne Xavier col suo sorriso brillante «Ci sei, vero?»
Devo aver boccheggiato qualcosa come un Ahm, sì…metto via la mia roba, prima di sfrecciare a barricarmi in camera mia a recuperare le forze. Temporeggiai circa un quarto d'ora, poi presi tutto il mio coraggio e, legati i capelli troppo gonfi dopo la doccia in piscina, tornai in cucina. Lì, tra l'ormai da me battezzata la coppia più bella del mondo e quattro altri sconosciuti, ci trovai Guillame, che prima non c'era.
Mi guardò dall'altro dei suoi cento novantasette centimetri con l'occhio verde stupito, probabilmente specchio della mia stessa espressione.
«Agnès!» esclamò ridente «T'habites ici!»
«Ahm…sono la coinquilina di Xavier» sussurrai, in un sorrisetto tentennante.
Adela trovò il fatto che già ci conoscessimo una delle cose più entusiasmanti della serata. Ci fece un sacco di feste, tempestandomi di domande sul perché e il per come ci conoscessimo.
Guillame la raccontò con una velocità pazzesca, infarcendola di cose divertenti che io non riuscì a capire, e alle quali rispose con delle risatine che di univano alla corale ilarità di tutti gli altri.
«Conosci già anche loro?» mi chiese scherzoso Xavier, indicando gli altri con un cenno del capo. Dissentii con il capo, e lui partì a presentarmeli. C'erano Marie e il suo ragazzo Henry, alti uguali, minuti, entrambi biondi, occhi chiari, lentiggini. Lei aveva un viso vivace, nasino all'insù, incisivi grandi e chioma a boccoli raccolta in un codino alto sulla testa. Lui era pieno di nei, un'espressione furba e ilare, le gote sempre rosse.
Marie era tedesca, parlava un francese tremendamente pulito e corretto, e studiava all'Accademia di Belle Arti per diventare scenografa, ma aveva un amore per la creatività che sconfinava molto oltre quel campo. Collaborava con un gruppo teatrale indipendente e contemporaneamente disegnava e realizzava accessori che distribuiva in varie boutique d'artigianato in giro per Parigi. Aveva addosso un vestitino delizioso che mi raccontò essersi cucita da sola, dopo aver stampato la fantasia (a gigli viola su stoffa color panna) durante un workshop di serigrafia.
Henry, dal canto suo, aveva appena preso una laurea in economia, materia che per niente lo affascinava, a cui affiancava invece una passione musicale sconfinata. La stessa compagnia teatrale con la quale Marie collaborava aveva chiesto a Henry di fare loro da tecnico del suono durante un paio di pièce. Suonava il contrabbasso in un gruppo musicale che si chiamava Chuck Norris was here (e faceva immensamente ridere come pronunciava il nome del gruppo con il suo irrimediabile accento parigino) e mi disse che sarebbero dovuti venire a suonare a Lo Stivale prima di Natale.
Poi mi presentarono Jaqueline, che era una specie di modella. Era alta circa un metro e settantacinque per non più di cinquantadue chili, gambe lunghissime, collo da cigno, chioma bruna e liscia che le cadeva perfetta sulle spalle dritte dalle quali non era particolarmente difficile indovinare una passata carriera da ballerina. Aveva un viso lungo, col mento puntuto quanto il naso, carnagione olivastra e una bocca enorme che non faceva altro che piegarsi in sorrisi sornioni. Parigina da mille generazioni, aveva una patina aristocratica nella figura che non riusciva a scollarsi di dosso nemmeno quando erompeva in quelle fragorose risate entusiaste a cui era frequentemente soggetta, e che spesso si trascinavano dietro chi la circondava. Aveva venticinque anni e faceva la fisioterapista.
Non mi piacque, Jaqueline, perché ebbi l'impressione che fosse particolarmente incline al flirt. Aveva un modo di fare mieloso che appiccicava tutti, dal fidanzatissimo Henry al (secondo mio modesto parere) l'altrettanto impegnato Xavier, passando per l'uomo più alto del mondo. Tra di loro, c'era chi giocava su questa cosa (Henry, ad esempio, guadagnandosi più di un'occhiata in tralice di Marie, che forse, come me, non trovava poi Jaqueline così piacevole) e chi la ignorava. In tutto questo, però ebbi l'impressione che tutti fossero abituati a quegli atteggiamenti, segno che si conoscevano da molto, o si conoscevano molto bene.
La cena andò incredibilmente bene, nonostante io fossi quella che sicuramente parlava meno, e nonostante continuassi a non capire tutto quello che si diceva. Loro però ogni tanto se lo ricordavano, e rallentavano la parlantina a ritmi più umani. Passò talmente bene che, quando mi chiesero di seguirli al concerto a cui avevano in programma di andare dopo cena, risposi di sì.

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