Ellan

di lames76
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Genesi ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26 ***



Capitolo 1
*** Genesi ***


La Genesi

In principio era il caos, un enorme calderone ove gli elementi primari erano combinati insieme in un unico amalgama ribollente.
Poi, si formò il mondo, Ellan, e qui, il calderone rovesciò quattro delle sue componenti.
Queste quattro componenti si combinarono con il suolo del nuovo mondo e si forgiarono fino a plasmarsi nelle razze primarie.
Queste nacquero come colonne portanti dell’esistenza stessa di Ellan.
Ognuna di loro incarnava un elemento: dall’elemento dell’aria furono forgiati gli Ellantil, dall’elemento della terra i Torgil, da quello del fuoco i Feris e dall’acqua i Sisil.
La loro cultura era già formata, così come le loro tradizioni ed il loro modo di vivere. In parole povere si potrebbe dire che queste razze "nacquero già adulte" e dotate della saggezza degli anziani.
Si narra che in principio fossero "più elemento che consistenza", ovvero che fossero propriamente formati dall’elemento che incarnavano, ma forse è solo una leggenda.
Comunque, con il passare del tempo, si legarono ad Ellan e continuarono la loro opera di mantenimento del pianeta prosperando e vivendo in armonia.

Poi giunsero i Weishtar, esseri grandi e potenti dotati di una forza ed una rabbia ferina ma condita con un barlume di intelligenza superiore a quella degli animali.
Non si sa come nacquero, alcuni narrano che fossero il prodotto delle scorie del primo rovesciamento del calderone ma, anche qui, forse è solo una leggenda. Fatto sta che, a differenza delle razze primarie, questa razza non era legata a nessun elemento in particolare.
Le razze primarie li ignorarono così come ignoravano gli animali che popolavano il pianeta, ma non si nascosero da loro. Così, quando i Weishtar scoprirono le razze primarie, reagirono con rabbia e paura.
Scoppiò una grande guerra.
Proprio durante questa guerra le razze primarie scoprirono due cose: che i Weishtar si riproducevano ad un ritmo molto più alto del loro e che oramai si erano legate così tanto ad Ellan che avevano perso la forma elementale e ne avevano ottenuta una totalmente materiale... e con essa avevano ottenuto la mortalità.
Comunque, dopo un primo sbandamento dato dalla confusione di queste due scoperte, il potere magico delle razze primarie permise loro di fermare la guerra.
Parlarono con i Weishtar e li convinsero che non volevano fare loro del male ma, anzi, che era grazie a loro se gli uccelli, i pesci, la pioggia e tutti gli altri fenomeni naturali esistevano. Miracolosamente, seppur con iniziale diffidenza, i Weishtar compresero ed interruppero le battaglie.
In un memorabile concilio, le razze primarie ed i Weishtar trovarono un accordo: i Weishtar si isolarono rintanandosi nella Weishtar, la Foresta Nera, da cui prendeva il nome la loro razza ed iniziarono a vivere rispettando la natura. In cambio le razze primarie si impegnarono a lasciarli in pace per sempre.
Ellan raggiunge il massimo livello di pace, splendore e prosperità nei secoli successivi.

Poi giunsero gli i Noren... o esseri umani come si definivano tra loro.
Anche per loro ci è sconosciuto come nacquero. Si narra che fossero una razza di Weishtar più intelligente e meno forte, ma forse, anche questa è solo leggenda.
Ancora una volta le razze primarie ignorarono la nuova razza, così come ignoravano gli animali che popolavano il pianeta, ma stavolta si nascosero, perché non volevano ripetere l’errore fatto con i Weishtar, apparendo loro e spaventandoli causando un conflitto.
Così gli umani iniziarono a proliferare facendo qualcosa che nessun’altra razza aveva mai fatto su Ellan, ovvero, adattando Ellan ai proprio scopi e non viceversa.
Un gruppo di Weishtar che stanziava vicino ad un deserto si spostava perché aveva poca acqua, un gruppo di umani costruiva un acquedotto per portarvela. Un gruppo di Weishtar che stanziava vicino ad una palude si spostava perché le malattie la colpivano, un gruppo di umani nelle stesse condizioni, bonificava la palude.
Questo metodo di affrontare la natura, non inchinandosi ad essa, ma piegandola al proprio volere, all’inizio incuriosì le razze primarie, ma poi le fece inorridire quando videro che gli umani stavano, non solo piegando Ellan, ma anche distruggendola. Abbattevano intere foreste per far posto a coltivazioni, spianavano montagne e prosciugavano laghi senza curarsi delle conseguenze.
Le razze primarie decisero di intervenire per fermare questa "malattia". Ma gli Ellantil, da sempre destinati a prendere le decisioni, comandarono che non era loro compito sporcarsi le mani. Decisero così che, per fermarli, avrebbero usato i Weishtar.
Fecero in modo che le due razze venissero in contatto e, naturalmente, fu la guerra.
Le razze Primarie, sicure che i problemi fossero stati così risolti, si dedicarono ai loro compiti e smisero di controllare gli umani.
Inizialmente, infatti, questi ultimi subirono immani perdite per opera dei Weishtar (o "orchi" come li chiamavano loro), strutturati fisicamente come vere e proprie macchine da guerra... ma poi reagirono. Sfruttarono la loro astuzia utilizzando tattiche da battaglia complicate, ma vincenti. Sfruttarono il loro ingegno per costruire armi sempre più potenti e recuperarono il terreno inizialmente perso.
Dopo una lunga guerra i Weishtar e gli umani si fermarono. Dopotutto agli umani non interessava la Foresta Nera (avevano altre grandi fonti di legno) e decisero per questo di accordare agli Orchi gli stessi diritti delle altre nazioni. Tanto avevano oramai occupato quasi tutta la superficie di Ellan... o Terra, come la chiamavano loro e potevano lasciare a quegli esseri rozzi ma pericolosi uno spazio per sopravvivere... per ora.
Ma la tregua con i Weishtar, portò agli umani anche un’altra cosa, la conoscenza dell’esistenza delle razze primarie.
Inizialmente furono considerate un mito, ma poi iniziarono a capire che forse qualcosa di vero c’era. Altrimenti perché le leggende umane contenevano gli stessi esseri magici delle leggende degli orchi? Gli umani scoprirono però di essere incapaci a trovarle, ma si prepararono comunque.

Quando le razze primarie tornarono a controllare come andava la guerra e videro che, incredibilmente, gli umani non erano stati sterminati, decisero di palesarsi a loro. Perché, come dissero gli Ellantil, forse, quella razza inferiore meritava il privilegio di conoscere le razze primarie.
Quando lo fecero gli umani reagirono con diffidenza e con sospetto. Perché le razze primarie si erano tenute nascoste tutto quel tempo? Li avevano spiati? Perché non erano intervenute durante la guerra con gli orchi?
Questi pregiudizi bloccarono ogni vera possibilità d’integrazione e contatto, tanto che le razze primarie (a parte i Torgil, o "nani" come li chiamavano gli umani) preferirono tornare ad isolarsi. Ma prima di farlo gli Ellantil lanciarono un monito agli umani: se avessero osato infastidirle o avessero continuato ad abusare di Ellan, sarebbe stata guerra.
Gli umani decisero di assecondarli e, per un certo periodo, restarono in attesa, apparentemente fermando le loro espansioni e le loro distruzioni.
Nel frattempo le razze primarie si accorsero di essere oramai in svantaggio. Gli umani erano molti di più ed erano in possesso di qualcosa che loro non comprendono: la tecnologia. Certo non avevano accesso alla magia ma...

Quando gli umani attaccarono lo fecero in modo inaspettato e violento. Le razze primarie furono colte completamente alla sprovvista.
I Noren colpirono le città Ellantil e Sisil con forza ed attuarono una tremenda persecuzione contro i Feris (o "mannari" come li chiamavano gli umani).
Gli unici che rimasero fuori dalle battaglie furono i Torgil, dichiaratisi neutrali sin da subito.
Il risultato dell’attacco fu che i Sisil furono interamente sterminati. Per "fortuna" degli Ellantil l’attacco degli umani contro di loro fu solo una dimostrazione; un monito, come per dire: "Il vostro tempo è passato, adesso siamo noi i padroni del pianeta".
Gli Ellantil (o "elfi" come li chiamavano gli umani) si isolarono ancora di più, nascondendo le loro città, occultandole e rintanandosi a leccarsi le ferite meditando sul da farsi.
I Feris decisero di nascondersi in piena vista, attendendo di vedere come sarebbe andata a finire la storia di quegli strani esseri.
I traditori Torgil si integrarono con la cultura umana.

Ecco cosa successe molto tempo fa... durante il tempo della leggenda...

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1


Il cavallo entrò nell'accampamento con passo impettito. Era uno splendido esemplare di frisone occidentale, un cavallo da guerra, un vero destriero. I ciuffi di pelo poco sopra gli zoccoli erano perfettamente puliti nonostante il sentiero fosse zuppo di fango, quasi come se il cavallo non stesse affondando le sue zampe in quella mota ma vi scivolasse sopra senza immergervisi.
Il colore del suo manto era nero, un nero lucido, con la criniera pettinata in una lunga treccia e la coda, anch'essa perfettamente pulita, che sbatacchiava a destra e sinistra allontanando le poche mosche che parevano, anch'esse come gli uomini, restie ad avvicinarsi alla magnifica bestia.
Sopra di esso cavalcava un cavaliere, la sua armatura era fatta di cuoio ispessita da alcune piccole placche di metallo ed era lucida; alcune delle placche erano ornate con dei ghirigori e molti dei presenti nell'accampamento si chiesero perché fosse necessario abbellire un oggetto destinato a subire immancabilmente dei danni per salvarti la vita,
Anche l'andatura del cavaliere pareva leggermente impettita, restava rigido sulla sella in posizione molto formale; tratteneva con una mano le redini quasi distrattamente, come se non ce ne fosse stato bisogno e l'animale avesse saputo perfettamente dove andare e cosa fare. L'altra mano era appoggiata all'elsa della spada che gli pendeva dal fianco; anch'essa era splendidamente ornata e recava inciso all'attaccatura della lama un simbolo, una spada sopra due fulmini incrociati.
Sulla testa il cavaliere indossava un elmo corinzio che lasciava solo intravedere un paio di occhi castani che saettavano a destra sinistra attenti ed una bocca serrata.
Sulla schiena portava legato uno scudo, l'emblema ivi impresso era di nuovo una spada che sormontava due fulmini incrociati in campo nero ed anche questo pareva perfettamente nuovo, come se non fosse mai stato utilizzato prima.
La sua figura, all'interno di quel rozzo accampamento, costruito in mezzo ad una pianura sporca di fango ed escrementi di cavallo, stonava terribilmente.
Il cavaliere si fece largo tra gli uomini che lo osservavano stupiti ed avanzò fino a portarsi di fronte alla tenda più grande, posta proprio centro. Una volta giunto, diede una leggera carezza sul collo del cavallo che, in risposta, si fermò scalpitante. Senza dire nulla, agilmente nonostante il peso che portava sul corpo, scivolò a terra e poi si mise a qualche metro dai lembi della tenda, senza pronunciare alcuna parola, come in attesa.
Uno dei soldati che fino a quel momento era rimasto distrattamente appoggiato ad un barile, si alzò sbuffando e strascinando i piedi, forse a causa di tutto l'alcol ingurgitato la sera precedente, sfilò di fianco al cavaliere e infilò la testa all'interno della tenda, «C'è qui un bellimbusto che credo voglia vedere te!»
Nel frattempo il cavaliere si era tolto l'elmo, mettendolo sotto il suo braccio destro, il suo volto era quello di un ragazzo abbastanza giovane, non avrà avuto più di vent’anni, ma l'espressione che albergava sul suo viso era fiera e determinata.

Dalla tenda sbucò fuori un uomo alto quasi due metri e largo in proporzione. Stava a petto nudo e si poteva notare perfettamente che un bagno era qualcosa che aveva fatto solo una vita prima, visto il sangue raggrumato ed il fango secco che gli adornavano i pettorali muscolosi e si impastavano con i peli del suo petto e delle sue braccia. Non sembrava pienamente sveglio e, forse, anche lui pativa i postumi di una sbornia recente.
Osservò il cavaliere dall’alto in basso, visto che gli dava almeno venti centimetri e poi sputò per terra, da un lato.
«E tu che diavolo vuoi!», ruggì senza preamboli investendo il volto del ragazzo con una zaffato di alito pestilenziale dal forte odore di alcool ed una pioggia di goccioline di saliva.
Il cavaliere non parve particolarmente colpito dalla sfuriata, sollevò lo sguardo fino a puntare i suoi occhi castano scuri su quelli dell’uomo e poi parlò con voce calma, «Sono Sir Pardisan Stormblade e sono qui per unirmi a voi»
L’uomo rimase un istante immobile, come se cercasse di capire se quello scherzasse o meno, ma quando vide che sembrava serio buttò indietro il capo e rise.
«Damerino questo non è posto per te!», sbraitò tornando a fissarlo e trattenendo un sigulto, «Tu ed i tuoi vestitini puliti non durereste un giorno, vattene!», si voltò barcollante pronto a infilarsi nuovamente nella tenda.
Fu costretto a fermarsi perché qualcuno gli aveva bloccato il polso della mano destra in una morsa, trattenendolo. Tornò a voltarsi e notò il cavaliere che lo stava guardando con espressione torva, «Ho detto che sono qui per unirmi a voi»
Non avrebbe mai detto che quel ragazzetto avesse una stretta così forte. Diede uno strattone e se ne liberò, «Ok hai bisogno di una lezione», mormorò portandosi da un lato ed afferrando una delle spade che era stata conficcata nel terreno a punta in giù vicino all’ingresso della sua tenda.
Il cavaliere arretrò, si sfilò lo scudo dalla schiena assicurandolo alla sella del cavallo. Il destriero sbuffò e poi fece qualche passo indietro, così come si fecero indietro anche gli uomini che però si assieparono tutto attorno a loro incuriositi, formando un ampio cerchio.
«Cercherò di non ammazzarti, ma non te lo prometto», bofonchiò l’uomo, «Dopotutto sei ancora un poppante», fece roteare la spada con destrezza, facendo fischiare la lama nell’aria.
Il cavaliere estrasse a sua volta la sua arma. La spada pareva essere nuova, come il resto dell’equipaggiamento, perfettamente lucida e pulita. La sollevò parallelamente a se stesso portando l’elsa al volto in una sorta di saluto.
L’altro scoppiò in una risata iniziando ad avanzare verso di lui.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2



"Ci siamo", pensò Pardisan chiedendosi perché fosse così tranquillo.
L’omone sollevò la sua spada e la calò in un arco preciso e potente, lui sollevò a sua volta la sua lama sopra la testa, "Posta reale di vera finestra", ripeté mentalmente, spostando la spada in un arco, in un forte montante difensivo, in parallelo sopra la sua testa e facendo scivolare la lama del suo avversario da un lato.
L’uomo, prontamente, roteò l’arma e cercò di colpirlo ad una gamba effettuando un affondo laterale verso il suo stinco sinistro.
"Posta di denti di cinghiale", spostò in un arco la sua lama verso il basso, portando in avanti il piede destro ed indietro quello sinistro, andando ad incocciare la spada nemica deviandola.
L’altro lo incalzò con un attacco laterale, cercando di colpirlo al fianco.
"Posta breve", aveva spostato la sua arma in posizione di guardia di fronte a sé e la spostò lateralmente, deviando con facilità l’attacco, anche perché era stato portato in modo scomposto poi fece qualche passo in avanti.
L’omone approfittò del movimento per scattare oltre il suo avversario superandolo, poi ruotò il busto cercando di colpirlo alla schiena con un goffo movimento.
"Posta di donna sovrana", ruotò le braccia portando la spada dietro la sua schiena, parallelamente ad essa ed intercettò ancora una volta l’attacco nemico.
Si ritrovò a sorridere, ricordando di tutte le mattine passate ad eseguire, una dietro l’altra le varie poste, in un allenamento snervante che, per un certo periodo, aveva odiato. Ricordava gli occhi del suo maestro di spada, così calmo e gentile ma sempre pronto a rifilargli delle scudisciate su gambe e braccia se non trovava e manteneva la posizione giusta.
«Ora ti fanno male... ma un giorno ti salveranno la vita»
Si voltò per fronteggiare il suo avversario che si stava arrabbiando per non essere ancora riuscito a colpirlo.
"Posta di coda lunga e distesa", pensò, portò il piede sinistro in avanti, allungando le braccia all’indietro e porgendo al suo avversario la spalla sinistra, nascondendo la posizione della mano armata. Era la posta provocatoria, in preparazione all’inizio degli attacchi.
Scattò in avanti, ora senza più pensare, lasciandosi guidare dai ricordi.
«Pensa alla tua spada come se fosse parte di te, usa il polso per far danzare la punta»
Affondo laterale verso la spalla, che all’ultimo momento devia verso il basso, eludendo la difesa del suo avversario e graffiandogli il ginocchio sinistro.
«La forza non è importante, io non sono come gli altri mastri di spada, io ti insegno ad usare la tua lama non per spaccare, ma per trovare spazio tra le difese, come la zanzara che trova spazio tra i vestiti per pungere»
Finta di un affondo diretto al torace e veloce discesa della punta a colpire il ginocchio destro.
«Ma scoprirai che saper usare la spada bene non è tutto...»
L’omone si mosse velocemente, più velocemente di quanto lui pensasse, visto che pareva abbastanza brillo e riuscì ad eludere il suo successivo affondo, portandosi alle sue spalle ed afferrandolo con una stretta feroce al petto.
Ruggì qualcosa che lui non capì perché sentiva che quelle possenti braccia lo stavano stritolandolo facendogli cigolare le costole.
«...in quei casi usa la testa e trova una soluzione»
"Usa la testa", pensò imbambolato dal dolore. Portò il mento a contatto con il petto e poi fece scattare il capo indietro andando ad impattare con il cranio contro il naso dell’energumeno che lasciò la presa.
«Ora mi hai fatto veramente arrabbiare!», ruggì l’uomo con il naso che gli grondava sangue sulla bocca e sul mento. Lasciò cadere a terra la spada e si lanciò contro di lui per travolgerlo.
«Sfrutta l’irruenza del tuo avversario e ricorda l’arte della spada è la più nobile delle danze»
Il cavaliere si era oramai ripreso, fece uno scarto laterale, spostandosi velocemente. Era sempre stato molto agile e per questo aveva deciso di non indossare armature pesanti, come facevano gli altri cavalieri, ma sempre qualcosa di leggero, per poter sfruttare proprio la sua agilità.
L’omone lo mancò completamente e gli sfilò a fianco e lui, ruotando il braccio, andò a colpirlo dietro la nuca con il pomolo della spada.
L’altro arrancò in avanti, sbandando, intontito dalla botta al capo, poi le ferite alle ginocchia fecero il loro effetto e le gambe non lo ressero più facendolo crollare a terra.
Il cavaliere, lentamente, rinfoderò l’arma e si spostò di fianco a lui, guardandolo dall’alto in basso, restando in silenzio.
L’altro grugnì, «Va bene puoi restare»
Il cavaliere sorrise e gli porse la mano per aiutarlo a rimettersi in piedi e questi la accettò di buon grado.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3


«Non sono io il capo comunque», l’uomo, che aveva detto di chiamarsi Kern, si stava pulendo il naso dal sangue raggrumato. Apparentemente quello colato invece sul petto non gli dava fastidio e si mescolava con quello vecchio e con il fango secco, «Il capo è su al Ultimobastione»
Afferrò un secchio colmo di acqua gelata e se la versò sulla testa, come per svegliarsi.
Il cavaliere annuì, «Quando potrò raggiungerlo?»
L’altro lo osservò come a chiedersi se fosse mezzo tocco, non si smaniava di andare a combattere, non contro i Lupi.
«C’è una squadra di pivelli come te che deve salire», rispose lui gettando lo straccio sporco di sangue a terra, «Puoi unirti a loro, ma prima dovrete effettuare una perlustrazione», uscì dalla tenda seguito dal ragazzo, «Ma dovrai lasciare il cavallo», il cavaliere lo osservò stupito e l’altro continuò a parlare, «Stai per andare su una fottuta montagna, tra boschi fitti, rupi e pendii scoscesi, non è un posto per cavalli quello»
Pardisan sorrise, «Neanche il vostro gruppo doveva esserlo per me», rispose lui, poi accarezzò il collo del suo animale, «Korvus non è un cavallo come gli altri...», spiegò con voce calma, «Entrambi veniamo da Guglia Perenne...», Kern aveva sentito parlare di quella zona, un piccolo feudo schiacciato tra alte montagne ed un placido lago, «...i nostri cavalli sono in grado di salire i costoni rocciosi più scoscesi e farsi largo nelle foreste più fitte senza problemi»
L’altro scrollò le spalle, «Come vuoi, io ti ho avvertito», poi alzò un braccio ed urlò, «SQUADRA DI RISALITA!»
In pochi minuti cinque persone si presentarono al suo cospetto.
Il primo era una ragazzino tutto pelle ed ossa che indossava un’armatura di cuoio almeno due taglie più grande di lui ed aveva uno sguardo spaurito.
Il secondo era un vecchio, forse anche più gracile del ragazzino, a cui mancavano diversi denti.
Il terzo ed il quarto parevano gemelli, alti e ben messi, indossavano delle armature di pelle foderate di pelliccia di castoro e brandivano dei lunghi archi neri.
L’ultimo era un uomo dalla lunga barba nera e dagli occhi tristi.
«Questo cavaliere si unirà al vostro gruppo, risalirete per trecento braccia e poi effettuerete la ricognizione oltre il valico scendendo fino a valle», spiegò Kern, «Dopodiché potrete salire fino in cima e raggiungere il Ultimobastione», i cinque, più Pardisan, annuirono, «Bene, mettetevi in viaggio subito!»

La prima sera si accamparono dietro un costone di roccia, riparati dal vento.
La loro guida era Rufus, l’uomo dalla barba nera e dagli occhi tristi, era un esperto di quei luoghi. Era anche muto, visto che i Lupi gli avevano strappato la lingua cinque anni prima.
Rovis e Midas erano i due cacciatori ed erano effettivamente gemelli, provenivano dalla frontiera, ma ultimamente la caccia era andata male e si erano indebitati. Così, pur di non finire peggio, avevano scelto di arruolarsi. Erano alla loro prima missione e parevano ancora un po’ impacciati nel ruolo di soldati.
Sovan era il ragazzino, rimasto orfano per mano dei Lupi la primavera precedente aveva deciso di vendicarsi, anche perché la vita tra i Dimenticati era meglio di quella da straccione in città.
Infine Zebediah, il vecchio, che era stato condannato a morte per aver rubato del cibo al mercato, ma la sua pena era stata commutata in un arruolamento... dovevano aver pensato che sarebbe morto comunque presto.
A parte le rispettive presentazioni, non riuscirono a parlare molto. Consumarono un pasto freddo, era troppo pericoloso accendere un fuoco, e si riposarono quanto poterono.


Note: grazie mille a Elenoire Tempesta per le recensioni, spero tu possa restare con me fino alla conclusione.
Il "puzzone", come hai potuto leggere, non è il cattivo. Scoprirai che in questo racconto i confini tra bene e male sono labili come nella vita reale.
Alla prossima settimana per il seguito :D

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

Due giorni dopo si trovavano sopra la valle, muovendosi silenziosamente tra le rocce. Midas era andato in perlustrazione quella mattina, Rufus era intento ad aiutare Zebediah ed il ragazzino a superare un tratto particolarmente difficile tra le rocce, mentre Pardisan, in sella a Korvus osservava la valle sottostante ed il piccolo bosco.
Rovis si bloccò su di una roccia ed impugnò l’arco.
«Qualcosa non và?», chiese il cavaliere sporgendosi dalla sella per vedere.
«C’è un animale che ci segue», rispose il cacciatore, «E’ da ieri sera che lo fa»
Il ragazzo sorrise, «A dire il vero ci segue fin dalla nostra partenza», mormorò lui in risposta, poi si rivolse al suo compagno, «Non ti preoccupare è il nostro angelo custode...», Rovis gli lanciò un’occhiata in tralice e lui continuò, «E’ il mio mastino vash»
L’uomo sgranò gli occhi, «Tu hai un mastino vash? Non ne ho mai visto uno... non da vivo...»
In quel momento sentirono un ululato e Pardisan si irrigidì, «Credo tu lo vedrai presto... il nostro angelo custode ci avvisa che fra poco avremo compagnia»
Midas giunse di corsa dal basso, saltando da una roccia all’altra, fino a portarsi vicino ai due, «Lupi!», riferì trafelato, «Un gruppo di quindici, stanno venendo da questa parte»
Sovan e Zebediah rabbrividirono, mentre Rufus aveva già liberato la pensate ascia che portava appesa alle spalle.
«Siamo morti...», piagnucolò il vecchio, «Siamo tutti morti...»
Il muto gli rifilò un ceffone che gli fece colare del sangue dalla bocca, «Oggi non morirà nessuno», parlò il cavaliere per lui, «A parte i Lupi»
«Ma... ma... quindici...», balbettò il vecchio, ma si fermò quando vide che Rufus era pronto a ripetere il suo gesto.
Il cavaliere ed il guerriero muto si scambiarono un’occhiata e poi quest’ultimo annuì.
«Midas spostati trenta passi a sinistra e preparati a lanciare appena saranno a tiro», ordinò Pardisan perentorio, «Rovis trenta passi a destra, stessi ordini»
I due cacciatori si spostarono velocemente nelle due posizioni indicate.
«Rufus, tu Sovan e Zebediah resterete qui, quando i Lupi saranno a cento passi caricate», il muto annuì risoluto mentre il vecchio impallidì. Il ragazzino era troppo intento a stringere tra le mani la sua mazza per fare altro.
Detto questo il cavaliere fece girare il destriero e si allontanò velocemente scomparendo alla vista.
«Se n’è andato...», balbettò il Zebediah, «Ci ha lasciato qui per fargli prendere tempo...», ricevette un’altra sberla da parte di Rufus e si zittì.
Passarono lunghi istanti poi i Lupi apparvero dal bosco, sul fondo della salita. Si fermarono un momento osservando i loro avversari, con le pellicce di lupo che davano loro il nome che sbatacchiavano al vento. Sollevarono le armi e le batterono sugli scudi emettendo un urlo che pareva un ruggito, poi caricarono.
Nonostante stessero correndo in salita erano veloci e stavano bruciando la distanza che li separava dal drappello in poco tempo.
Rovis e Midas iniziarono a tirare e due dei Lupi caddero, ma le frecce successive andarono ad impattare con gli scudi che avevano sollevato di fronte a loro.
Quando furono a cento passi di distanza, Rufus sollevò la sua ascia e poi iniziò a correre verso il basso. Sovan e Zebediah dopo un momento di esitazione lo seguirono urlando.
Quando iniziarono il combattimento c’erano ancora una dozzina di Lupi. Rufus colpì al ventre uno dei nemici e poi sollevò l’ascia per parare un affondo. Sovan colpì con la mazza, ma il suo colpo, troppo debole, si infranse contro lo scudo di uno dei guerrieri che rispose cercando di decapitarlo con un fendente. Il ragazzino si salvò per miracolo, abbassandosi. Zebediah calò la sua spada dall’alto in basso e mancò completamente la mira, per sua fortuna i Lupi parevano concentrati sul grande guerriero muto.
Rufus abbatté nuovamente la sua ascia ed il colpo spezzò lo scudo di un Lupo e lo fece piombare a terra, ma un colpo della spada di un altro lo ferì alla spalla facendo sprizzare sangue scarlatto. Sovan si mise al suo fianco per aiutarlo, ma fu colpito di striscio al volto da una mazza e finì a ruzzolare per terra.
Uno dei Lupi sollevò l’ascia per finirlo, ma fu travolto da una saetta di peli, zanne e fauci. Un enorme cane marrone scuro, impressionante per le dimensioni, gli aveva appena lacerato la gola e si era voltato verso gli altri Lupi ringhiando ferocemente.
«Stormblade!», l’urlo risuonò dal basso e tutti si fermarono un momento.
Il cavaliere aveva lanciato il suo destriero al galoppo, in salita, caricando i Lupi alle spalle. Il cavallo saettò ad una velocità incredibile verso l’alto, come se la sua enorme massa non lo rallentasse minimamente e come se i suoi zoccoli fossero fatti apposta per aggrapparsi alle rocce.
Piombò sui Lupi come una valanga, travolgendoli, mentre il cavaliere li colpiva con la spada, velocemente, trovando varchi nelle loro difese.
Uno dei guerrieri sollevò la pesante ascia, ma il cavallo impennò e gli sfondò il cranio con un colpo di zoccoli imbrattandoseli della materia cerebrale. Un altro riuscì a colpire il cavaliere alla gamba, ma lui si voltò e lo trafisse facendo penetrare la punta della sua arma nell’incavo dell’occhio.
Anche Midas e Rovis avevano abbandonato gli archi e si erano uniti alla battaglia brandendo un’accetta ed un pugnale. Il sangue sprizzava da ogni parte ed imbrattava il terreno che ben presto si trasformò in una sorta di pantano.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5


Con un ultimo colpo della sua enorme ascia, Rufus spaccò il cranio all’ultimo dei Lupi.
Si fermarono a riprendere fiato.
Il guerriero muto aveva una profonda ferita alla spalla e diverse lacerazioni al volto ed alle mani. Rovis e Midas si erano procurati alcune ferite al petto, ma niente di grave. Sovan aveva un brutto livido sopra l’occhio sinistro ma nessun’altra ferita mentre Zebediah era illeso.
Pardisan era stato colpito alla gamba sinistra e la ferita era profonda. Il sangue gli aveva imbrattato completamente i pantaloni di cuoio ma, ora, pareva essersi fermato dopo che l’aveva fasciata con una benda. Il mastino, dopo aver annusato in giro trotterellò verso il cavaliere ed iniziò a scodinzolare facendo oscillare velocemente la tozza e corta coda.
«Lui è Calmar», disse il cavaliere, abbassandosi sulla sella per dare un buffetto gentile sulla testa del cane che guaì di gioia. Anche l’animale aveva alcune escoriazioni sul manto color nocciola scuro, ma non pareva accorgersene.
«Andiamo via prima che ne arrivino altri», mormorò il cavaliere spronando il suo cavallo ed i suoi compagni a continuare il viaggio.

Quella sera si accamparono molto più in alto, in una piccola rientranza rocciosa. La posizione era abbastanza sicura, tanto che Rufus acconsentì a far accendere un tenue fuocherello.
Korvus era nella parte più interna, in modo che non si vedesse dal basso e masticava lentamente la biada posta all’interno di una sacca.
Calmar era sdraiato ai piedi del suo padrone e pareva sonnecchiare, con le tozze gambe posteriori che, ogni tanto, fremevano mentre sognava.
Rufus aveva appena finito di cambiarsi la medicazione alla spalla ed ora stava abbrustolendo alcune pannocchie.
Zebediah pareva ancora sotto shock dopo la battaglia ed era immobile a fissare il vuoto ed il buio della notte.
Rovis e Midas erano accanto al fuoco e stavano aiutando il muto a cucinare usando alcune erbe aromatiche che avevano estratto da una sacca.
Sovan sgranocchiava la prima pannocchia in modo famelico, come se quello fosse stato il suo ultimo pasto... o il primo.
Pardisan, dopo essersi cambiato la fasciatura alla gamba, era intento a pulire la sua armatura e la sua spada. Lo faceva in modo meticoloso, l’armatura era già pulita, mentre la spada recava ancora alcuni segni rossi. Prese una cote e la passò sulla lama, lentamente. Una... due... tre... cento volte, facendo sprizzare alcune scintille ad ogni passata.
«Perché la pulisci?», chiese Sovan incuriosito, smettendo per un attimo di ingurgitare i chicchi.
«Perché voglio ricordarmi sempre di chi sono», rispose lui senza sollevare gli occhi dal suo lavoro.
«E chi sei?», insistette il ragazzino avvicinandosi a lui, con circospezione, per non svegliare il cane.
«Mio padre era il Kasm di Guglia Perenne», sollevò lo sguardo fino ad incrociare gli occhi del suo interlocutore.
«Siete un principe?», Sovan sgranò gli occhi ed un chicco di mais gli sfuggì di bocca.
«Si, ma secondogenito», capì che l’altro non sapeva cosa significava, «Vuol dire che avevo un fratello maggiore, lui avrebbe ereditato il titolo ed il feudo, mentre io potevo scegliere se entrare nei ranghi ecclesiastici o sposare qualche principessa per aumentare il prestigio della nostra famiglia», dall’espressione del viso, il ragazzino capì che nessuna delle due ipotesi l’aveva entusiasmato, «Così sono fuggito per diventare un cavaliere errante»
Sovan aveva aperto la bocca per lo stupore, pareva rapito dalla storia, «Chissà come si sono arrabbiati...»
Pardisan sorrise, ma il sorriso gli scomparve dalla bocca nel ricordare, «Avrei preferito che si fossero infuriati con me...», mormorò, «Purtroppo non ne hanno avuto il tempo. Mentre ero via ricevetti notizia che i Lupi erano giunti fino alle mie terre... quando tornai era troppo tardi... erano tutti morti...»
«Mi... mi dispiace...», balbettò il ragazzino.
«Si era salvato solo Calmar», accarezzò il collo del cane, affondando le dita nella corta pelliccia, e questi, senza svegliarsi, mugolò beato.

Fumo, il fumo lo ricorda bene.
Dove un tempo c’era solo aria fresca e verdi cespugli ora c’era un inferno fiammeggiante oscurato dalla coltre nera.
Macerie, si, c’erano anche delle macerie.
Dove un tempo c’erano i bastioni di Guglia Perenne ora c’era un cumulo di detriti e pezzi di roccia e metallo.
Sangue, quello era davvero tanto.
Dove un tempo c’erano le bancarelle del mercato e le case dei mercanti ora c’era un mattatoio. Ma non c’erano animali morti, i morti erano le persone, uomini, donne e bambini, immersi in un lago scarlatto sgorgato dai loro corpi.
Morte, anche quella era dappertutto.
Dove un tempo vivevano ora c’erano dei morti.
Suo padre, caduto difendendo la sua famiglia e la cui testa ora ornava una picca posta fuori del palazzo.
Sua madre, sventrata nel giardino che tanto amava.
Suo fratello, impalato di fronte alla stanza dei ricevimenti.
I domestici, chiusi nella baracca degli attrezzi a cui era stato dato fuoco.
E la sua sorellina, la luce dei suoi occhi, colei che sarebbe dovuto tornare a salvare da un matrimonio deciso prima ancora che venisse alla luce, con la testa spaccata, dentro la sua stanza.
E quel fumo... quell’odore di sangue... quel puzzo di morte... mai più... mai più... mai più... per quanto si sarebbe sforzato... mai più... mai più... per quanto si sarebbe lavato... mai più... mai più... mai più... si sarebbe sentito pulito dopo aver visto... mai più... mai più... dopo aver provato questo...
E poi i Lupi l’avevano trovato.
No! Non Lupi! Non erano degni di quel nome!
I lupi, quelli veri, erano creature che potevano sembrare crudeli, ma in realtà erano nobili e fraterne.
Quelli non erano Lupi! Erano mostri, carogne della peggiore specie!
L’avevano circondato e lui si era battuto.
Era sempre stato bravo con la spada ed era anche migliorato nel periodo passato da solo, ma loro erano tanti.
Combatté senza sentire fatica né ferite.
Non gli importava di morire, non aveva più nulla per cui vivere, ma voleva ucciderne il più possibile prima. Voleva mostrare a quei mostri la vera violenza ed il vero furore, mostrargli cosa significasse avere paura.
Ma erano tanti, troppi.
Sentì che presto avrebbe raggiunto presto la sua famiglia.
Poi, dal nulla, era sbucato Calmar... il suo mastino.
Un cane che tutti temevano perché terribile ma che con lui si era sempre comportato bene. Forse perché erano quasi cresciuti insieme, imparando a combattere insieme, come fratelli.
E poi era giunto, tra il fumo ed i tizzoni ardenti, Korvus. Il suo destriero gli era arrivato a fianco e l’aveva aiutato a salire in groppa.
Non ricordava altro... non sapeva cosa fosse successo.
Si era risvegliato la mattina dopo, disteso su di un prato sull’Altura della Freccia, che sovrastava la sua vallata. Korvus brucava tranquillo pochi metri più in alto mentre Calmar faceva la guardia.
In basso, molto, molto in basso, Guglia Perenne era oramai solo un cumulo di rovine fumanti...

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6


«E non hai più nessuno?», lo incalzò il ragazzino strappandolo dai ricordi.
«No, nessuno», rispose tristemente il cavaliere.
«Ma non è possibile!», esclamò Sovan sbalordito, «Anche io ho perso i miei genitori per colpa dei Lupi, ma avevo uno zio... non potevo andare da lui perché fa il marinaio e non so dove sia, ma l'avevo... si ha sempre qualcuno»
Pardisan si chiese come facesse un ragazzino così piccolo ad essere già così saggio e si chiese in che razza di mondo viveva se doveva combattere per vivere.
«Forse una persona c'è...», si decise a dire, «Ma non è una mia parente... però è la persona per cui sono qui...»
«E chi è?», chiese ancora ansioso. Tanto ansioso che si era scordato di finire di mangiare la sua pannocchia.
«Si chiama Liselle io...», esitò come se non sapesse se raccontare ancora, «Io sono il suo campione...»
«Campione?», Sovan era nuovamente rapito dalle sue parole.
«Sono il suo cavaliere, combatto per lei ed in suo nome», si umettò le labbra incerto.

Era una calda giornata di primavera.
I petali rosa dell'albero del sogno riempivano l'aria del loro colore e del loro dolce profumo.
Pardisan aveva deciso di far sgranchire le gambe al suo destriero, visto che l'aveva dovuto lasciare dentro una stalla per due giorni, mentre comperava le provviste nella città.
Improvvisamente un cavallerizzo dai capelli corti gli saettò a fianco, sopra un agile cavallo da sella. Indossava un paio di pantaloni di stoffa azzurra ed una casacca dello stesso colore.
«Un paggio», pensò il cavaliere, «Non possiamo farci battere...», sorrise e spronò Korvus che, immediatamente prese velocità.
Non era un cavallo da scatti, ma nella progressione riuscì a recuperare terreno all'altro.
Saettarono lungo la pianura uno dietro l'altro, Pardisan si ritrovò a sorridere, dimenticando i pensieri cupi che si affollavano nella sua mente da quando aveva abbandonato le macerie di Guglia Perenne.
Improvvisamente il cavallo da sella scartò da un lato e si impennò, scaraventando il suo cavaliere a terra.
Vicino alle sue zampe un grosso serpente si era sollevato da terra sibilando.
Korvus invece, proseguì diritto calpestandolo senza paura, «Ecco la differenza tra un comune cavallo ed un destriero da guerra», sorrise Pardisan rivolgendosi all'altro, «Il vostro sarà anche più veloce ma...»
Le parole gli morirono in bocca.
Quello che aveva scambiato per un paggio, in realtà, era una ragazza.
Batté le palpebre più e più volte per capire se stava sognando. Gli abiti erano eleganti quindi poteva essere una dama di compagnia... ma una dama di compagnia non poteva certamente permettersi un cavallo bello come quello che stava usando lei.
D'altro canto quei capelli così corti...
«Cos'è? Non avete mai visto una donna prima d'ora?», lo sfotté lei alzandosi in piedi agilmente.
«Sicuramente mai una come voi», rispose lui scendendo di sella ed afferrando le redini del cavallo da sella e calmandolo con qualche carezza e parola gentile.
La giovane si voltò verso di lui guardinga, «Che cosa intendete?»
«Beh sapete cavalcare meglio di molti uomini ed i vostri capelli...»
Lei scoppiò in una risata cristallina, «Non sapete come si è infuriata la mia governante quando me li sono tagliati», gli mormorò con fare complice, «E non sapete quanto si infurierà sapendo che sono uscita da sola...»
"Governante", pensò lui, "Solitamente solo i nobili hanno delle governanti", «Come vi chiamate?»
Lei afferrò le redini e, con un'agilità ed un'abilità inconsueta, rimontò in sella, «Liselle»
Solo in quel momento notò la spilla argentea che brillava sulla giacchetta di lei, un falco con le ali spiegate. Si ritrovò a sgranare gli occhi, «Siete milady Liselle Silverhawk? La principessa?»
Lei gli sorrise e poi fece una beffa, «Vi aspettavate una bambolina in crinoline?», sbuffò e spronò il cavallo allontanandosi ma lo fermò e si voltò verso di lui, «E voi come vi chiamate?»
«Pardisan Stormblade»
Lei gli regalò un sorriso e tornò a galoppare, verso la città.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7


«Combatti i Lupi per una donna?», chiese il ragazzetto con tono disgustato.
Pardisan si ritrovò a sorridere, «Si, anche per lei...»

Il palazzo reale era gremito di gente, non solo nobili e borghesi ma anche gente del popolo; non capitava tutti i giorni di assistere al fidanzamento ufficiale dei figli di due nobili così importanti.
La gente vociava, ma si azzittì quando fece il suo ingresso il kasm David Moonlit e suo figlio Sir Herold Moonlit. Il kasm era un uomo sulla cinquantina, ancora vigoroso, con una cicatrice che gli attraversava verticalmente la guancia sinistra ed una vistosa barba rossa, aveva un portamento veramente nobile. Il figlio era più muscoloso del padre e camminava con orgoglio, anche se chi non lo amava vedeva in lui arroganza. Seguiti e preceduti da una decina di guerrieri corazzati ed ornati con il simbolo della casa, una mezza luna bianca in campo verde, raggiunsero il centro della sala. Pochi minuti dopo entrò la promessa sposa. Accompagnata da suo padre, il kasm Kelen Silverhawk, Lady Liselle Silverhawk sembrava splendere di luce propria, mai si era vista una ragazza tanto bella. Con passo aggraziato e nobile raggiunse anch’essa il centro. Il gran ciambellano fece avvicinare i due giovani.
«Oggi è un giorno di grande festa!», esclamò iniziando la cerimonia, «Gioisci popolo, perché due dei tuoi signori stanno per stipulare il patto di reciproca stima e amore. Gioisci popolo, perché due delle casate più importanti del nostro regno si riuniranno grazie a questo fidanzamento. Gioisci popolo perché l’amore trionfa ancora. Prima che questo fidanzamento sia ufficializzato c’è qualcuno che desidera parlare?»
Il silenzio calò all’improvviso nella sala, nessuno osava nemmeno respirare.
«Visto che nessuno vuole parlare...», iniziò il sacerdote.
«Io devo dire qualcosa!», una voce si alzò e tutti si voltarono a guardare chi aveva osato rompere il silenzio. Sulla soglia della sala stava, in piedi un guerriero completo di armatura ed elmo con celata abbassata. Il simbolo che aveva sullo scudo era l’effigie del casato degli Stormblade, una spada che sormonta due fulmini incrociati, ma sull’armatura era impresso il simbolo che contraddistingueva i cavalieri erranti, la rosa dei venti bianca e blu sul campo nero. Con passo deciso si avviò verso i due fidanzati e la folla si spostò al suo passaggio. Giunto alla base degli scalini che portavano presso di loro, si tolse l’elmo, si inginocchiò ed abbassò il capo.
«Parla nobile guerriero», disse il ciambellano.
«Lady Liselle non può fidanzarsi senza un cavaliere che le abbia giurato fedeltà», il giovane teneva sempre gli occhi bassi.
«Questo è vero», convenne l’altro, il giovane alzò il capo rivelando il suo volto. Un sorriso riempì il viso di Liselle mentre negli occhi di Herold passo, per un attimo, uno sguardo carico d’odio.
«Io Pardisan Stormblade cavaliere errante, giuro fedeltà a te lady Liselle Silverhawk, giuro di difenderti sempre a costo della mia vita e di punire chi ti offende. Se lo vorrà, milady, io sarò il suo campione», finì guardando negli occhi la ragazza.
«Accetto con grande onore e felicità sir Pardisan Stormblade, da oggi sei il mio campione», finì lei sorridente.
«Dopo questo giuramento possiamo riprendere la cerimonia», disse il ciambellano.
Il silenzio si impadronì nuovamente della cattedrale.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8


«Non capisco proprio voi adulti», continuava Sovan impettito, «Le ragazze sono noiose, petulanti e tremendamente deboli... non capisco cosa ci troviate in loro...»
«Quando avevo la tua età la pensavo proprio come te», rispose il cavaliere sorridendo, «Ma poi ho cambiato idea ed ora sono felice di combattere per lei...»

Il ballo organizzato a corte per festeggiare il diciassettesimo compleanno della principessa, era stato bello, nonostante tutto.
Pardisan ringraziava le lezioni che a suo tempo aveva odiato, perché gli avevano permesso di non fare la figura dello stupido o dell'imbranato quando Liselle l’aveva invitato a ballare.
Quando la musica si fermò ed i vari cortigiani sciamarono a reclamare qualche bevanda, Liselle scivolò silenziosamente fuori dalla stanza principale infilandosi nel giardino. Il cavaliere la seguì qualche passo più indietro.
«Siamo soli qui», la ragazza non si era voltata, era rimasta a fissare il buio.
«L’ho seguita per garantire la sua sicurezza milady», rispose il ragazzo, anche se le sue parole non erano state pronunciate con convinzione.
«Ah solo per quello?», la voce di lei era delusa ma anche un po’ ironica, «E poi, ti ho detto mille volte di darmi del tu quando siamo soli!»
Lui sorrise e si spostò al suo fianco, erano così vicini che il cavaliere poteva sentire, sul suo braccio sinistro, il calore di quello di lei.
«Liselle, questa sera sei splendida... quando sei entrata nella sala mi si è mozzato il fiato», mormorò voltandosi a guardarla.
Lei rimase a fissare il giardino, «Significa che le altre volte non lo sono?», si voltò verso di lui e gli fece una beffa.
«Lo sei sempre», rispose sincero, «Anche se non sei tu...»
Liselle aggrottò la fronte, «In che senso?»
«Per me tu non sei la principessa in crinoline di stasera. Per me sei la ragazza che mi ha sfidato nella cavalcata quella mattina di primavera», la voce di lui era calma, ma carica di calore, «La ragazza che era sfuggita alla sua governante per sentirsi libera... è lei che mi ha rubato il cuore...»
La principessa arrossì vistosamente, ma non abbassò lo sguardo, poi un’ombra passò sul suo viso e tornò a voltarsi verso il giardino, «Mi scuso per questo... non voglio che tu soffra... sai che io sono promessa...»
«Non sono un bambino, lo so perfettamente», la sua voce era tranquilla, «Ma il solo stare al tuo fianco mi rende felice»
«Oh Pardisan...», sospirò lei, «Sai che quando mi sposerò non ti sarà più concesso rimanere con me...»
«So anche questo e quindi cerco di godere di ogni momento...», si ritrovò a sorridere, «E potrò farlo ancora per tre anni...»
Lei si voltò e lo tirò per un braccio, facendolo abbassare, poi lo baciò.




Nota: ringrazio vivamente e di cuore tutti coloro che mi hanno recensito. Grazie!
Mi scuso per la brevità di questo capitolo, i prossimi saranno più corposi :)

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9


«Non ci credo!», esclamò Sovan completamente sbalordito, «Un guerriero come voi non può combattere per una donna...»
Il volto del cavaliere si incupì, "Ha ragione!", pensò, "Tu non combatti propriamente per lei...", sentì una tristezza infinita colmarlo, "...tu combatti per dimenticarla..."

E' una notte come tante.
Non c'è nulla che la distingua dalle innumerevoli che ci sono state prima e dalle innumerevoli che ci saranno dopo.
Ma quella notte tutto cambia.
Ricorda che stava camminando verso la locanda.
Non ricorda perché fosse ancora alzato a quell'ora.
Ma ricorda perfettamente il profumo dei fiori dell'albero del sogno, che fiorivano esattamente un anno dopo il suo arrivo lì.
Un anno dopo averla conosciuta.
Un anno da sogno, dove, per la prima volta da molto tempo, si è sentito a casa.
Si è sentito bene.
Ricorda di essersi fermato per assaporarne la fragranza.
Ma in quella fragranza dolce sentì anche l'odore del fumo... e del sangue.
Sentì i capelli dietro la nuca rizzarsi.
Senza sapere perché si ritrovò a correre.
Si ritrovò a desiderare che, se c'era qualche forza superiore, qualche divinità o spirito, gli fosse vicino ora.
Giunse a palazzo reale e sentì il sangue raggelarsi, quando lo vide in fiamme.
Sentì all'interno dei rumori, di una battaglia, sentì urla di dolore e di morte.
Ricorda che l'ingresso era un inferno di fiamme, ma ricorda anche che non se ne curò, infilandosi all'interno di corsa.
Tra il fumo ed il calore, vide, come in un sogno, dei guerrieri uccidersi a vicenda.
Riconobbe le guardie reali e degli altri uomini con armature ornate con un simbolo che non conosceva, ma non se ne curò perché tutto era azzittito dalla sua stessa voce che ripeteva, «Non di nuovo...»
Ricorda che due dei guerrieri che stavano attaccando gli sbarrarono il passo e ricorda che lui li eliminò senza esitazione.
Ricorda di essere giunto nelle stanze reali come in trance.
Ricorda il corpo del Kasm Kelen Silverhawk detto "Il Giusto", disteso a terra in una pozza di sangue.
Ricorda i corpi della guardia reale, sparsi a terra in posizioni assurde, come bambole spezzate.
«Pardisan!», la voce di Liselle non gli era mai parsa più angelica, anche se la sentiva, per la prima volta, in preda al terrore.
Ricorda di averla abbracciata, con una foga incredibile, come un assetato si getta in una polla d'acqua dopo l'arsura del deserto.
«Sono gli uomini del Kasm di Vallescura!», esclamò lei, «Loro hanno... non so perché... loro...»
La sentì afflosciarsi tra le sue braccia e solo in quel momento si accorse che aveva una ferita al braccio sinistro che le aveva imbrattato la giacchetta azzurra di sangue scarlatto.
La sollevò in braccio e si diresse verso l'uscita.
Sentiva che i suoi polmoni bruciavano per il fumo respirato, ma non se ne curò.
Si impose di non cedere, non poteva.
No, non poteva, non doveva.
Quando sbucò all'esterno si rese conto di aver sbagliato strada, perché era finito nel giardino interno e non all'uscita.
Riuscì a fare solo pochi passi, sbandando, poi cadde dietro un cespuglio con Liselle.
...
Fu il chiarore della mattina a risvegliarlo.
Sentiva un peso tremendo sul petto e si sentiva debole, ma appena ricordò si sollevò di scatto.
Tossì, una tosse secca che sapeva di fumo, ma si impose di fermarsi.
Vide Liselle distesa a terra poco distante, era pallidissima, ma respirava.
Si sollevò in modo da poter sbirciare oltre la siepe e vide che non c’era nessuno così si dedicò alla ragazza scrollandola gentilmente per farle riprendere conoscenza.
Lei aprì gli occhi con incertezza, poi li sgranò, come se avesse ricordato i fatti della sera prima, e si aggrappò a lui in un abbraccio strettissimo.
«Và tutto bene ora», gli mormorò il cavaliere con voce impastata, «Ma ora dobbiamo andare...»
«Dove... dove posso andare...», si chiese lei mentre delle lacrime le rigavano il volto leggermente annerito dalla fuliggine.
«Ti porterò dal tuo promesso sposo», la prese in braccio alzandosi, «Con lui sarai al sicuro»
Lei affondò il volto sul suo petto non riuscendo a smettere di piangere, ma poi sollevò lo sguardo verso quello del cavaliere.
«Fuggiamo insieme...», gli disse con un filo di voce, «Portami via lontano da tutti...»
«E che vita potrei mai offrirti?», rispose lui con una tristezza infinita nel cuore, «Non possiedo nulla, tranne la mia spada... che futuro potrei mai darti? Tu meriti di meglio...»
Lei aprì la bocca per rispondere, ma si fermò... sospirò e tornò a stringerlo.



Consumarono la cena con calma, a parte Sovan che l’aveva finita in pochi istanti e rimasero di fronte al fuocherello che emanava alcune lievi fiammelle calde.
Rufus fece dei gesti secchi rivolto ai due gemelli che annuirono. Fu Midas a parlare, «Dice che dobbiamo decidere i turni di guardia per la notte», poi notò lo sguardo incuriosito del cavaliere e spiegò, «Io e mio fratello abbiamo imparato il linguaggio dei segni, è utile quando si và a caccia per parlarsi senza fare rumore»
Zebediah, che fino a quel momento era rimasto immobile ed aveva solo sbocconcellato la sua pannocchia parve rendersi conto solo allora delle parole del cacciatore, «A che servono i turni... tanto moriremo tutti comunque...», non pareva più intimorito dalla prospettiva di ricevere dei ceffoni dal muto.
Ma non fu Rufus a rispondere, ma Sovan che balzò in piedi puntando il torsolo della pannocchia contro il vecchio, «Non morirà nessuno!», esclamò con trasporto, «Finché sir Pardisan starà con noi ci proteggerà e ci salverà!»
Ci fu un attimo di silenzio poi il cavaliere sollevò lo sguardo verso il ragazzino, sul suo volto un’espressione tra il serio e l’amareggiato, «Non ci contare troppo...», mormorò con voce calma scuotendo il capo, «Non sono in grado di salvare nessuno... non lo sono mai stato...»
Forse stava per aggiungere qualcosa d’altro, ma non ci riuscì perché fu colpito al volto da un pugno e finì disteso a terra. Quando le orecchie terminarono di ronzare sollevò lo sguardo e vide che a colpirlo era stato Rufus. L’omone troneggiava di fronte a lui e stava gesticolando in modo deciso.
«Dice che sei un’idiota», tradusse Midas con voce un poco incerta, «Dice che nei Dimenticati ognuno deve contare sull’altro e che ci si protegge a vicenda sempre e comunque», il muto annuiva continuando a gesticolare, «Dice che se non sei in grado o non ti reputi in grado di farlo, questo non è il tuo posto e te ne puoi anche andare subito»
Il silenzio tornò a piombare sul gruppo, Pardisan restava schiena a terra con un’espressione arcigna sul volto, mentre Rufus era in piedi di fronte a lui serio. Gli altri erano come immobilizzati, tutto attorno a loro, come impossibilitati a muoversi.
Poi, il muto, allungò una mano verso il cavaliere e questi, dopo un attimo di tentennamento, la accettò facendosi aiutare a rialzarsi.
«Resterò», mormorò più che altro per convincere se stesso.



Grazie a tutti per le recensioni e per essere ancora qui a seguirmi. L'azione arriverà tra un pò, ora come ora si stanno ancora delineando i protagonisti... anzi per ora solo "il protagonista", i restanti arriveranno dopo.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10


Due giorni dopo, finalmente, giunsero all’Ultimobastione e per Pardisan fu come arrivare in un mare rosso. Era abituato ai colori estremi, visto che Guglia Perenne era famosa per il suo contrasto tra il biancore della candida neve, il verde smeraldo delle erbe che crescevano sui suoi costoni e l’azzurro del cielo, il tutto picchiettato dai marroni e grigi delle rocce. Qui era qualcosa di simile solo che il porpora era il colore dominante.
Bianche le cime dei monti e questo gli ricorda la sua casa dandogli un leggero senso di malinconia.
Violette le rocce, con sprazzi di rosso scuro e color del rame, come se qualcuno avesse ucciso migliaia di persone ed avesse fatto colare il loro sangue sulle rocce. Anche questo gli ricorda casa, ma non risvegliava in lui malinconia ma rabbia e dolore.
Ma non era sangue quello che colorava i monti, almeno non del tutto, erano i licheni di Ealica; ne aveva sentito parlare e ricordarlo lo aiutò a non pensare al suo passato ed a ciò che aveva perso.
Sulla vetta dell’Ultimobastione si stagliava una costruzione, ritta ed impettita come un soldato in guardia. Era una torre, grigia e grezza, che stagliava ombre scure sul monte, ma, anche se era antica, non era abbandonata, visto che diverse decine di persone stavano pattugliandone i bastioni e diverse guardie armate di picche erano ferme sul portone.
Il resto della giornata passò con tranquillità, tra occhiate strane lanciate verso di lui, il suo cavallo ed il suo mastino, ma nessuno si avvicinò a chiedere: i Dimenticati non si facevano troppe domande e non chiedevano nulla del passato.
Trovò posto in una camerata e quella sera si abbandonò al sonno, e durante il sonno sognò...

Era sdraiato a terra, sentiva dietro la sua schiena il solleticare e l’odore dell’erba fresca. Era sotto le chiome di un albero che proiettava la sua ombra su di lui, mentre in alto il sole caldo splendeva tra i rami e le foglie rendendogli difficile guardare in su.
Sentiva che il suo capo era appoggiato su qualcosa di morbido e si rese conto che erano le gambe di una ragazza. Il volto di lei era nascosto dal contrasto tra l’ombra ed il sole a picco, ma sentiva che gli stava passando le sue mani calde sulla fronte, scompigliandogli i capelli con leggere carezze.
«Che cosa ti preoccupa?», la voce era dolce e musicale.
...
«Dai a me puoi dirlo»
...
«Questo è un sogno, e tu non dovresti...», si decise a rispondere lui.
«Perché chi sono?»
...
Una risata cristallina proruppe dalla ragazza che sollevò una delle mani portandosela al volto, probabilmente alla bocca, anche se lui non riuscì a vederla, «Non mi riconosci, vero? Dovrei essere offesa...»
«Non ci sono state molte donne nella mia vita», si difese lui tentando di sollevarsi per guardarla, ma il suo corpo non si voleva muovere, forse perché la situazione, nonostante tutto era troppo piacevole e rilassante.
«Elencamele così vediamo se scopri chi sono...», lo incalzò lui.
Pardisan sospirò, «C’è stata mia madre, la guida della mia infanzia, la mia maestra di buone maniere, la...», per un istante rivide il corpo della donna riverso all’interno del giardino del suo palazzo, immersa nel sangue scarlatto che era colato tutto attorno a lei e l’espressione di terrore che le aveva stravolto il volto.
Deglutì a fatica.
«Dai continua!», lo spronò la voce e questo gli diede il coraggio di continuare.
«La mia sorellina Marlene, lei era la luce della mia vita, era la persona per cui ho tardato così tanto a fuggire dal mio destino, era...», un altro lampo e vide la bambina stesa a terra nella sua stanza, tra abiti riccamente adornati di nastri e pizzi e giocattoli di legno gettati a terra. Il sangue colava dalla ferita che le aveva aperto il cranio e li imbrattava rendendoli orribili.
Una carezza sulla fronte lo fece ritornare al presente, sentì il calore di quelle mani infondergli sicurezza.
«Ed infine c’è stata Liselle. Per lei avrei fatto qualsiasi cosa, ma l’ho lasciata ad un altro...», stavolta gli apparve l’immagine di quando se n’era andato, il lord suo promesso sposo lo fissava con un’espressione neutra, mentre lei aveva negli occhi un’espressione che lui non avrebbe mai dimenticato: come a dirgli che andandosene l’avrebbe persa per sempre.
«Perché l’hai lasciata?», chiese la voce ricolma di curiosità.
«Che vita potevo darle? Non ho nulla...io so solo combattere, non avrei potuto guadagnarmi il pane... no è stato meglio così...», sentiva una tremenda amarezza in bocca, come un sapore di bile.
«Stai mentendo», la voce era seria e sicura, ma sempre dolcissima, «Tu l’hai lasciata perché non ti ritenevi alla sua altezza. Finché sei stato il suo campione hai potuto starle accanto, ma quando hai avuto la possibilità di vivere con lei ti sei tirato indietro...», lui fece per parlare ma lei gli appoggiò un dito sulle labbra, era tiepido e profumava di fiori, «Lei si sarebbe adattata a vivere con te, anche se le fosse capitato di vivere di stenti... Lei era forte, ma tu no...»
Senza accorgersene sentì una lacrima rigargli il volto, perché quello che la ragazza gli stava dicendo era la verità. Una verità che lui aveva negato anche a se stesso, trincerandosi dietro scuse e menzogne.
«Ma tu chi sei?», riuscì a chiedere.
Ancora quella risata cristallina e dolce che gli fece dimenticare in un lampo ogni amarezza, «Prima ti ho mentito o, per lo meno, ti ho nascosto qualcosa...», sentì un sospiro, dolce, «Noi non ci siamo ancora incontrati...»
Una foglia si staccò da un ramo ed iniziò a scendere verso terra roteando pigramente, come se non avesse nessuna voglia di raggiungere il suolo.
«Ma ci incontreremo...», continuò la voce, «...e quando lo faremo noi...»
La foglia toccò il manto erboso, tutto divenne sfocato e la voce si affievolì a poco a poco senza dargli il tempo di sentire la fine della frase.


Il giorno dopo, mentre stava affilando la sua spada, venne raggiunto da due persone. Il primo era Rufus, quella mattina il suo sguardo non era triste, ma determinato mentre l’altro era un ragazzo strambo: era alto e slanciato, con il volto affilato ed aguzzo, iridi color ambra, labbra sottili, naso piccolo leggermente a patata. Le braccia sembravano prive di muscoli, ma dal modo in cui trasportava, quasi con noncuranza, una pesate balestra, Pardisan si rese conto che era in possesso di una forza notevole. Non indossava armatura, solo degli abiti color ruggine e bianco, perfetti per mimetizzarsi in quelle zone. I capelli neri erano arruffati, leggermente ricci e le orecchie sembrava fossero state oggetto di attenzione da parte di qualche folle, erano infatti mozzate sulla punta, il che gli dava un aspetto ancora più sinistro. Ma la cosa che spiccava di più era la leggera peluria che adombrava il suo corpo, molto corta ma presente ovunque sulla sua pelle.
Il muto si fermò di fronte al cavaliere ed iniziò a gesticolare, prontamente, il tipo strambo tradusse e la sua voce era sottile e ferina, «Sono stato incaricato di una missione, partiremo domani sera. Mi hanno chiesto di radunare una squadra di sei persone e vorrei che tu ne facessi parte», gli porse un cordino di cuoio a cui era appesa una piuma.
Il cavaliere annuì afferrandola, ben conscio che significava che era stato accettato tra i Dimenticati, «Cosa dobbiamo fare?»
Rufus tornò a gesticolare indicando i monti, «Dobbiamo andare oltre le Rocce Scarlatte, nel territorio del Lupi», il ragazzo osservò il muto che, dopo una pausa, riprese a gesticolare, «Vorrei che tu ti occupassi degli animali. Durante le ultime due settimane sono stati trovati e radunati diversi cavalli e muli che in qualche modo sono giunti fin qui. Credo che ci serviranno»
Il cavaliere sorrise, «Ma prima devo sapere chi verrà, un cavallo non si sceglie solo per il compito che deve svolgere, ma anche e soprattutto per il cavaliere che deve trasportare»
L’omone annuì e poi gesticolò rivolto al suo traduttore, questi si voltò verso Pardisan e gli porse una mano, «Mi chiamo Gwar, sono un esploratore. Nessuno conosce le terre dei Lupi come me e, se stai per chiedermelo, non cavalco, ma non mi farò distanziare»
Il cavaliere spostò lo sguardo da lui a Rufus che annuì, poi gli strinse la mano presentandosi a sua volta.
Gli altri membri del gruppo erano Rovis, Sovan, il ragazzo si era offerto volontario e, dopo una lunga discussione, Rufus l’aveva accettato e Kyrea una donna taciturna e possente dall'aria mascolina.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11



Pardisan si infilò dentro il recinto che era stato costruito, rozzamente, all’aperto nella parte posteriore della torre. Sovan gli trotterellava dietro deciso ad imparare tutto il possibile. All’interno c’erano cinque cavalli, due muli ed un asinello.
Dopo un attento controllo il cavaliere decise di prendere l'asinello e tre degli equini.
«Perché hai scelto i tre cavalli più piccoli?», chiese il ragazzino osservando i due animali scartati che erano notevolmente più grandi di quelli scelti.
«Perché quei due cavalli non resisterebbero un giorno sui monti», spiegò lui, «Vedi quello più grande? Beh quando appoggia la zampa sinistra a terra ha un fremito nei muscoli della coscia, indica che ha qualcosa che non và. Mentre l’altro, pur essendo uno splendido animale, è troppo bizzoso e questa è una caratteristica funesta quando si deve cavalcare sui monti»
«E l'asino?»
«E’ più piccolo, sicuramente più lento e meno agile», diede due leggere pacche sul dorso dell’animale, «Ma ti assicuro che è il migliore tra gli animali che ho appena scelto...», come se l’avesse sentito l’animale ragliò forte, «Sarà la tua cavalcatura»
L’espressione sul volto di Sovan era tutt’altro che felice.

Partirono il mattino dopo, lasciandosi alle spalle la torre ed avviandosi verso il passaggio tra i monti. Il cavaliere era leggermente contrariato per non essere riuscito ad incontrare il comandante dei Dimenticati, ma questi era dovuto partire la sera prima per una missione speciale.
Gwar avanzava veloce e scattante, saettando tra le rocce ed indicando i percorsi più sicuri ai cavalieri che lo seguivano. Effettivamente era rapido, molto rapido e fin troppo agile per gli standard umani.
«E’ mezzo animale», la voce della donna rispose alla sua domanda interiore usando un tono di voce abbastanza alto da farsi sentire da tutti, «Pare che sua madre si sia accoppiata con un gatto o un coniglio e così è nato lui...»
Il ragazzo continuava il suo percorso, ma si fermò un attimo voltandosi verso di loro, «Guarda che ti sento!»
«Sto solo dicendo la verità cucciolo», lo incalzò lei sorridendo sardonicamente.
«Ah come sei gentile Kyrea! Ma dimmi, visto il tuo fisico...», il volto del ragazzo si fece affilato, «...ti hanno mai scambiato per un uomo?»
«No ed a te?», ripose prontamente la donna.
Dopodiché scoppiarono entrambi a ridere di gusto, rivelando una complicità fino a pochi momenti prima nascosta.
Pardisan spronò il cavallo spostandosi a fianco di Sovan che, nonostante non stesse perdendo terreno, anzi avanzasse molto più agilmente degli altri, pareva ancora del tutto scontento della sua cavalcatura.
Il ragazzino quando lo vide gli lanciò una terribile occhiata offesa ed il cavaliere stentò a trattenere un sorriso divertito. Osservò la mazza che pendeva dalla sua cintura e scosse il capo.
«Ti ho portato un’arma migliore di quella», parlò sfilando dalla sella del suo cavallo una spada corta e la porse all’altro, «Stasera, dopo aver preparato il campo, ci alleneremo»
Il volto di Sovan si illuminò, mentre la afferrava.
La missione era difficile, quasi suicida, ma lui era determinato.
Sarebbero tornati indietro.
Tutti.



Nota: prima di tutto ringrazio chi mi sta ancora leggendo.
Poi mi scuso per la scorsa settimana ma era vacanza e non ho postato nulla...
Infine mi scuso per la lunghezza del capitolo, scusate se è corto...

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12


Quella sera si accamparono in una caverna che Gwar aveva indicato come "il suo rifugio preferito" ma che Kyrea aveva ironicamente chiamato "il buco sotto terra dove si nasconde".
Rovis faceva la guardia all’imbocco, mentre gli altri erano all’interno. Avevano acceso un fuocherello, visto che la caverna aveva un condotto che portava il fumo all’esterno molto lontano dall’imbocco della caverna stessa.
«Bene chi vuole cominciare?», chiese Sovan sorridendo. Il ragazzino era entusiasta, visto che fino a pochi istanti prima aveva fatto un allenamento con Pardisan, che gli aveva insegnato le poste standard.
«A fare cosa?», chiese Gwar finendo di masticare la cena, composta da un pezzo di carne salata fatta scottare sulla fiamma.
«A raccontare le nostre storie!», esclamò lui saltando in piedi, «Serve per fare gruppo!»
Mentre gli altri facevano uno sguardo tra lo scocciato e lo scioccato, Rufus annuì e gesticolò.
«Dice che è una buona idea...»
«Allora inizio io», esordì la donna incrociando le mani ed intrecciando le dita tra di loro, «Io e mio marito abitavamo in una baita nella parte meridionale del Monte Marmo. Lavoravamo come boscaioli», la bocca si stiracchiò in un sorriso, «Era un lavoro duro, ma ci divertivamo ed eravamo liberi, poi sono arrivati i Lupi...», le mani si strinsero tra loro tanto che le nocche diventarono bianche ed abbassò lo sguardo a terra, «Eric è morto ed io sono sopravvissuta a stento...», rimase un lungo istante in silenzio fissando il suolo, poi sollevò il capo, «Sono arrivata all’Ultimobastione due settimane fa ed ho dovuto stendere a pugni almeno tre di voi Dimenticati per poter avere anche solo il permesso di accamparmi fuori dalla vostra torre...», ora sorrideva, un sorriso storto ed un po’ malinconico, «Come vedete non ho la vostra piuma, a quanto pare solo perché sono una donna non posso far parte del vostro gruppetto... anche se sono molto più forte di molti di voi», sbuffò tornando a sorridere in maniera più naturale, «Però sono riuscita a farmi accettare e posso partecipare alle vostre scorribande... è l’unica cosa che mi interessa, ammazzare più Lupi possibile...»
Il fuoco rimase a scoppiettare mentre Pardisan raccontava di come aveva perso tutto a Guglia Perenne, poi parlò Sovan, un po’ imbarazzato perché, anche se anche lui aveva perso la famiglia a causa dei Lupi, non aveva nessuna storia da raccontare se non che si era arruolato per non restare per strada.
«Quindi ora dovrei parlare io», mormorò Gwar, guardò, uno ad uno i suoi compagni e poi sorrise, «Io sono nato nel territorio oltre le Rocce Scarlatte, in quello che chiamate territorio dei Lupi...», gli altri lo osservarono incuriositi, tranne Kyrea che restò impassibile visto che già conosceva la sua storia, «Mia madre era una contadina, anche se sembra strano c’è gente che vive in modo pacifico anche lì, facendo in modo di apparire così insignificante tanto che i Lupi la ignorano», con un rametto stuzzicò uno dei legni che stava bruciando e questo scoppiettò lanciando alcune scintille in alto, «Mio padre era un... un uomo dei boschi...», le parole si fecero incerte, «Era uno sciamano, comunicava con gli spiriti della natura... ed era in grado di mutarsi in animale...», sembrava molto imbarazzato come se si aspettasse una reazione violenta o incredula ma ciò non avvenne, «Non l’ho mai conosciuto... mia madre mi disse che aveva sentito il richiamo della foresta e se n’era andato e così io crebbi solo con lei...», sbuffò, «C’è poco altro da dire, passavo la maggior parte del tempo fuori ad esplorare, forse ho preso da mio padre ed è stata questa mia mania a salvarmi la vita, visto che un giorno sono tornato alla fattoria e l’ho trovato distrutta... ho ucciso i tre Lupi che si erano fermati, ubriacandosi con il nostro vino e sono risalito all’Ultimobastione per diventare un Dimenticato...»
Rufus iniziò a gesticolare, spiegando che viveva in una città di frontiera e lavorava come fabbro. Non si era mai sposato anche se stava frequentando una donna che gestiva una taverna. Poi erano giunti i Lupi, saccheggiando e devastando tutto. Lui era stato catturato e loro si erano divertiti a torturarlo strappandogli la lingua. Non volevano ucciderlo perché un fabbro poteva sempre essere utile, ma lo volevano più docile. Ma lui non si era fatto domare, era riuscito a fuggire ed era entrato nei Dimenticati.
«Abbiamo tutti perso la famiglia», mormorò Sovan un po’ triste, ma poi sollevò il capo sorridendo, «Ora siamo noi la nostra famiglia... tutti noi!»

Era buio.
...
C’era silenzio.
...
Forse c’era stato un leggero lampo poco più avanti? Come una fiammata improvvisa, così flebile che si era notata appena? Oppure si sbagliava?
...
Un’altra! Allora aveva visto giusto...
...
Senza rendersene conto si avvicinò e man mano che si avvicinava capiva di essere in un corridoio... o una galleria?
...
Man mano che si avvicinava si rendeva conto che i lampi di luce erano flebili perché molto lontani.
Infatti, ora che si era avvicinato, la luce era più forte. Sembrava che, in un corridoio laterale, o una stanza laterale, ci fosse un fuoco acceso...
...
Ora era a meno di dieci metri dall’apertura.
...
«Pardisan!»
...
Non capì se il tono era da richiesta da aiuto o da saluto.
Non capì se era maschile o femminile.
...
Perché tutto scomparve...

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


Capitolo 13


Erano al quinto giorno di viaggio su di un costone di roccia, tre giorni prima avevano evitato un sentiero che scendeva verso valle. Gwar li aveva avvertiti che se l’avessero scelto si sarebbero trovati esposti e le vedette dei Lupi li avrebbero visti immediatamente.
Ma il costone era stretto, roccioso a strapiombo e faticavano a passare. Gli altri erano tutti scesi da cavallo o dall’asino e stavano portando i loro animali tirandoli gentilmente per le redini.
Solo Pardisan non era sceso di sella, visto che Korvus pareva perfettamente a suo agio mentre appoggiava gli zoccoli sul sentiero, come se fossero incollati ad esso.
Gwar era una guida instancabile e precisa, non lasciava nulla al caso. Alle volte li faceva fermare e restare immobili per un tempo molto lungo, arrabbiandosi se loro dicevano anche solo una parola o se anche respiravano troppo forte. In quei momenti anche Kyrea evitava le battute che gli rifilava praticamente ogni altro istante.
E dopo l’attesa, senza dire nulla, la loro guida faceva loro segno che si poteva tornare a procedere ed il gruppo avanzava.
Rufus aveva uno sguardo determinato negli occhi e Pardisan si era oramai reso conto di riuscire a capire quasi tutti i suoi gesti, senza bisogno di traduzione.
Rovis pareva poco a suo agio, prima era lui la guida, ma non conosceva quel territorio, però si stava rendendo utile procacciando tutta la selvaggina possibile, in modo da risparmiare le razioni di carne secca per i momenti di bisogno.
Kyrea era la più ciarliera e spesso si ritrovava a battibeccare con Gwar, ma sempre con un sorriso sulle labbra ad indicare l’affetto che provavano per l’altro. Ultimamente aveva iniziato a sfottere anche Sovan, ma il ragazzino doveva ancora comprendere in pieno il modo di fare della donna e si era offeso.
Sovan si allenava con costanza ed in modo infaticabile ogni sera, nonostante non fosse abituato a cavalcare e si ritrovasse spesso dolorante. Il suo fisico si stava irrobustendo a poco a poco e Pardisan era contento dei progressi mostrati, anche se sperava che il primo combattimento fosse il più lontano possibile perché non era ancora pronto.
Il cavaliere aveva, ogni notte, continuato a fare il sogno della caverna buia. Ogni notte si era avvicinato di un passo in più verso l’apertura, ma non era ancora riuscito a sbirciare dentro.
Questo lo rendeva inquieto.


Era buio.
...
C’era silenzio.
...
Ecco apparire il primo lampo, quasi minore del chiarore di una candela tanto era lontano.
...
Pardisan si mise a correre...
...
Questa volta ce l’avrebbe fatta... doveva sapere...
...
Era vicino, ma il corridoio iniziò a tremare... come se stesse iniziando a scomparire...
...
"No devo farcela!", pensò lui impegnandosi ancora di più.
...
«Pardisan!»
...
La voce disse il suo nome ancora una volta e lui percorse gli ultimi metri che lo separavano dall’apertura e guardò dentro.
...
Fu investito da un getto di fiamme...



Si svegliò di soprassalto completamente fradicio di sudore ed ansimante, come se la corsa l’avesse fatta veramente e non in sogno.
«Di nuovo quel sogno?», la voce di Gwar lo colse alla sprovvista. Il ragazzo era accovacciato su di una rocca completamente immobile. Se non ci fosse stata la luna stagliata dietro di lui non sarebbe riuscito a vederlo. Appariva come una stramba gargolla posta sul ciglio del burrone.
Il cavaliere si alzò spostandosi verso di lui, facendo attenzione a non svegliare gli altri e gli si sedette accanto.
«Si, ma stavolta è stato diverso...»
Gwar non aveva voltato il capo, lasciando lo sguardo ad osservare la brulla distesa di pietre e licheni che scendeva verso il basso, l’unico lato da cui dei nemici potevano arrivare.
«Questa volta sono riuscito ad arrivare alla luce»
Il ragazzo si voltò verso di lui, alla luce della luna e delle stelle c’era qualcosa di ferino nei suoi lineamenti, simili al muso di un animale, ma nel suo sguardo albergava una curiosità del tutto umana, «Cosa c’era nella luce?»
«Un drago»
Gwar sgranò gli occhi, «Ne sei sicuro?»
Il cavaliere annuì, «Ne vidi uno diversi anni fa. Ero a caccia sui monti con mio fratello, stavamo facendo a gara a chi avrebbe catturato lo stambecco più grande», inspirò ed espirò lentamente visto che stava ancora faticando a riprendere a respirare in maniera normale, «Dopo due ore di attesa ne avevo trovato uno enorme... stavo per tirare con l’arco quando un’ombra nera oscurò il sole e fui travolto da uno spostamento d’aria incredibile che mi mandò gambe all’aria...», Calmar si avvicinò piano piano e si acquattò al suo fianco e lui gli grattò dietro le orecchie, «Ricordo di avere aperto gli occhi e di aver visto il drago alzarsi sempre più in alto in cielo, con il mio stambecco tra le fauci... ricordo di aver pensato che non avevo mai visto niente di così magnifico...»
«Era il drago del tuo sogno?», chiese il ragazzo tornando a guardare verso valle.
«No era diverso», il mastino aveva chiuso gli occhi ed aveva iniziato a respirare lentamente abbandonandosi al sonno, «Quello che avevo visto quella volta aveva le scaglie color smeraldo, che splendevano al sole, questo...», un brivido gli percorse la spina dorsale, «Questo era nero come la notte più cupa...»




Note: ringrazio tantissimo e di cuore tutti coloro che mi stanno seguendo, grazie, grazie, grazie!
Spero di non deludervi e spero di avervi con me fino alla conclusione :)

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


Capitolo 14


Il clima si fece tutt'altro che amichevole. Iniziò come una leggera foschia che ammantò i sentieri, rendendo particolarmente difficile e pericoloso camminare, poi si trasformò in nevischio. Li colpì con spilli di ghiaccio che minacciavano di strappare via la pelle scoperta, fermandosi sui loro abiti e rendendoli rigidi. Ed infine, la neve si trasformò in pioggia, un torrente d'acqua che li investì dall'alto infradiciandoli fino alle ossa.
A metà del secondo giorno di quel tormento, Gwar riuscì a trovare una caverna in cui fermarsi e loro furono molto grati alla guida della cosa.
Pareva fosse la tana di un orso abbandonata, aveva un ingresso abbastanza grande da permettere di entrare anche alle cavalcature ed un'ampia zona interna asciutta. Gli animali furono messi in fondo, a ridosso delle pareti, mentre gli uomini si fermarono al centro della stessa. Non avevano la possibilità di trovare legno asciutto quindi si rassegnarono a non poter avere un fuoco caldo. Per fortuna, all'interno di speciali sacche da sella che aveva voluto specificatamente Rufus, le coperte erano rimaste asciutte.
Iniziarono a spogliarsi togliendosi i vestiti bagnati. Anche Kyrea si spogliò senza imbarazzo... almeno non suo... visto che Sovan si coprì gli occhi facendo un verso disgustato, mentre Pardisan arrossiva visibilmente, ritrovandosi a non sapere cosa dire o dove guardare.
«Ah lasciala perdere», biascicò Gwar osservando la scena, «Kyrea non si fa problemi... probabilmente perché è più uomo di me...»
«Non che ci voglia molto», esclamò distrattamente la donna avvolgendosi nella coperta e sedendosi a terra, «E tu smettila!», si rivolse al cavaliere, «Sembra che non hai mai visto una donna senza vestiti! Fai finta che sia tua madre o un tuo commilitone!»
Pardisan sbuffò avvolgendosi a sua volta nella sua coperta, «Fosse facile»
Rovis era rimasto di vedetta dall'ingresso della caverna mentre la loro guida si frizionava il corpo con un panno per asciugarsi. Il cavaliere notò che la peluria era continua sulla sua pelle.
«Si è particolarmente rognoso quando mi bagno», Gwar pareva essersi accorto della curiosità ma non pareva né imbarazzato, né arrabbiato della cosa.
«Ah so cosa vuoi dire!», rispose il cavaliere tentando di asciugare il suo mastino.
La guida si voltò verso di lui lanciandogli un'occhiataccia, «Mi stai paragonando al tuo cane?», prima che l'altro potesse rispondere scoppiò in una risata.
«Ehm no...», cercò di difendersi Pardisan, «E poi Calmar non è un cane come gli altri vero?»
Il mastino abbaiò e scodinzolò la tozza coda monca.
«Ti stai arrampicando sugli specchi...», Kyrea si unì alla risata dell'amico.


La pioggia durò tutta la notte, durante la quale Rufus riunì tutti vicino. Avevano acceso una delle torce che si erano portati, e questo permetteva di vedersi l'un l'altro. Il muto spiegò la missione che era stata loro assegnata.
Ultimamente i Lupi avevano intensificato gli attacchi e si erano fatti più spavaldi, tanto che avevano mandato anche qualche drappello fin quasi al Ultimobastione. Questo aveva insospettito e preoccupato il comandante dei Dimenticati che aveva deciso di scoprire cosa stesse succedendo.
Nessuno fece domande, rendendosi chiaramente conto che la loro era una missione molto pericolosa, quasi suicida. Nessuno si era mai avventurato così in profondità nel territorio dei Lupi.
Con questi foschi pensieri si divisero i turni di guardia e sprofondarono nel sonno.

Era nuovamente nel corridoio scuro.
Ma stavolta si trovava davanti all'ingresso che conteneva il drago.
La bestia giaceva accoccolata sul pavimento, con le zampe incrociate e gli artigli affilati che graffiavano il terreno. Le scaglie nere sembravano così scure da inghiottire la luce stessa, mentre le zanne erano bianche. Una cresta nasceva dalla parte posteriore del capo e correva lungo tutta la schiena fino alla punta della coda che serpeggiava pigramente. Le enormi ali membranose erano piegate sui fianchi, mentre il collo era sollevato in alto. Il muso era irto di zanne, spunzoni e corni e due enormi occhi gialli lo osservavano.
Si sentiva completamente inerme di fronte a quell'essere, come si può sentire inerme una formica di fronte ad un bufalo. Sentiva un profondo terrore scorrergli come ghiaccio liquido lungo la schiena ma era anche affascinato da quella creatura così spaventosa ma anche così maestosa.
«Sei noioso umano!», la voce della bestia era un ruggito incredibile, come il rombare di mille tuoni.
Lui, ancora attanagliato dal terrore, non disse nulla.
«Per te è inutile tutto questo», la testa ciondolò di lato e l'enorme lingua rosea, per un attimo, serpeggiò fuori.
Stupidamente si chiese dove avesse imparato la sua lingua quel mostro.
«Non hai nessuna possibilità», continuava la creatura, probabilmente non si era accorta che lui non poteva rispondere.
«Quindi desisti», il collo si abbassò in un lampo e l'enorme muso del drago giunse a pochi metri da lui, era così immenso che avrebbe potuto inghiottirlo senza problemi. Lui fu travolto da una zaffata di odore tremendo, come il puzzo della bile o l'odore di quegli acidi che aveva visto usare dai conciatori.
«Non potrai salvarla», queste ultime parole del mostro parvero risvegliarlo.
Solo ora notò che oltre l'immensa mole del drago c'era qualcuno.
Era troppo distante e la bestia gli copriva la visuale ma era decisamente una donna.
«Pardisan!», era lei che lo chiamava
E lui si rese conto che quella voce la conosceva!
Era quella del sogno... dell'altro sogno... quello sotto l'albero...
Non poté fare altro perché il drago chiuse le sue fauci sul suo corpo.


Ancora una volta si svegliò di soprassalto ed ancora una volta vide Gwar che lo osservava.
«Non puoi andare avanti così», gli sussurrò, «Da quanto tempo è che non riesci a dormire bene?»
Il cavaliere sospirò mentre cercava di rallentare il battito del suo cuore, «E' da quando siamo partiti...»
La guida annuì, «Non sono sogni normali», spiegò avvicinandosi, «Ho una certa sensibilità alla cosa... l'ho sempre avuta... sembra che qualcuno stia giocando con te...»
Il cavaliere iniziò a vestirsi ed indossare l'armatura, tanto non aveva più nessuna voglia o intenzione di dormire per quella notte, «Che cosa vuoi dire?»
«Quando dormiamo il nostro spirito perde il legame con il nostro corpo, a quanto pare qualcuno sta stuzzicando il tuo», sembrava la cosa più naturale e normale del mondo da come la raccontava, «Forse potrò aiutarti, ma dovremo aspettare di passare un'altra notte tranquilla come questa, perché il rito richiede tempo e calma»
Il cavaliere annuì ancora troppo sconvolto dal sogno, per comprendere pienamente.

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


Capitolo 15


Nei tre giorni seguenti il gruppo proseguì flagellato da una pioggia solo leggermente meno intensa di quella che li aveva tormentati prima. Per quei tre giorni dovettero dormire nei posti più scomodi ed impensati ed il cavaliere non poté ricevere l'aiuto della loro guida.
In quelle tre notti continuò a sognare il drago ma, a differenza della prima volta, riuscì a vincere la paura. Sin dal secondo giorno attaccò il mostro con la sua spada, ma la sua battaglia durò veramente poco.
Ogni volta che veniva ucciso, nel sogno, si risvegliava preda di un'ansia e di dolori mai provati prima ed il giorno successivo era sempre più stanco e poco attento.
Ben presto anche gli altri notarono le occhiaie che lui cercava di nascondere portando quasi sempre l'elmo e Rufus decise che, per il bene suo e del gruppo, questo problema andava eliminato.
Il quarto giorno impartì l'ordine a Gwar di trovare un rifugio sicuro, non importava se il loro avanzare si sarebbe dovuto arrestare e la loro guida riuscì nel compito, scovando quelle che parevano delle rovine di antiche costruzioni, ormai completamente distrutte ed invase dalla vegetazione. Proprio le piante nascondevano completamente l'unico edificio ancora dotato di un tetto e loro si accamparono lì, potendo ripararsi dalla pioggia.
Gwar scomparve fino a sera, quando tornò completamente fradicio, ma con un sorriso che gli storceva la bocca. Una delle sue piccole sacche da cintura era ricolma di piante e foglie. Mentre Rufus e Rovis facevano la guardia, Sovan rimase in disparte preoccupato ed incerto. Gwar, assistito da Kyrea, stava facendo bollire in un minuscolo contenitore dell'acqua nella quale aveva messo a lessarsi alcune delle erbe. Pardisan, seguendo le indicazioni della guida si era tolto l'armatura e sedeva al centro della stanza.
«Ora ti darò da bere questa pozione», prese un ultimo pizzico di quello che sembrava sabbia e lo versò dentro il decotto fumante, «Ti aiuterà a prendere sonno e ti darà forza»
Calmar raggiunse il suo padrone e lo scontrò con il muso. Kyrea fece per alzarsi per allontanarlo, ma Gwar la bloccò scrollando il capo, poi tornò a parlare, «Quando ti sarai addormentato, scoprirai di avere un maggior controllo delle tue azioni ed anche i tuoi sensi saranno migliori. Devi scoprire l'origine di questo sogno...»
Il cavaliere annuì e prese con una mano la tisana, ingurgitandola tutta d'un fiato. L'altra mano era rimasta ad accarezzare la testa del mastino.
Quasi immediatamente sentì la testa girare e crollò a terra privo di sensi. Calmar guaì e si accoccolò vicino a lui.

Il drago incombeva su di lui come sempre.
Ma il cavaliere questa volta non provava paura, anzi era calmo e determinato.
Si rese conto che, a differenza del solito, stava indossando un'armatura completa, brandiva la sua spada ed uno scudo gli proteggeva il braccio sinistro.
Il mostro parve rendersi conto che c'era qualcosa di diverso, ma non poté dire nulla perché il cavaliere lo caricò.
Come in tutti gli altri sogni il drago abbassò in un lampo il capo per inghiottirlo ma questa volta, nonostante stesse indossando un'armatura completa, il cavaliere evitò con agilità l'attacco e gli giunse vicino colpendolo con la spada.
Un nero icore sgorgò dalla ferita ed il drago ruggì di dolore, scalciando per calpestarlo.
Ma il cavaliere evitò i colpi del mostro e danzò sul terreno che tremava a causa della mole immane della bestia, portandosi vicino ad una delle zampe e colpendolo ancora.
Altro sangue macchiò il pavimento ed il drago allargò le fauci verso di lui riversandogli contro un mare di fiamme.
Istintivamente Pardisan si difese con lo scudo, capendo immediatamente che era una cosa inutile, ma... le fiamme deviarono attorno alla sua protezione ed a parte un forte calore non ebbe conseguenze.
Il drago parve stupefatto, quasi più del cavaliere stesso, ma si spostò per inghiottirlo e stritolarlo nelle sue fauci.
Pardisan riuscì a schivare i denti, ma si distrasse un istante e la coda del mostro lo colpì al fianco facendolo volare contro la parete e lasciandolo senza fiato.
Il drago aprì nuovamente la bocca preparandosi, questa volta, a divorarlo.
Calò su di lui con velocità, pronto a troncare la sua vita.
Ma un istante prima di stringerlo tra le sue fauci, la testa deviò da un lato ed il drago emise un ruggito di dolore.
Solo allora il cavaliere notò che c'era qualcosa che si era attaccato alla gola del mostro e, con enorme sorpresa, comprese che si trattava di Calmar.
Il mastino stringeva testardamente le mascelle sulle scaglie del mostro facendolo sanguinare, ma quando il drago sollevò il collo in alto anche lui fu trascinato su, rimanendo appeso a ciondolare nel vuoto.
Il rettile iniziò a scuotere il capo per scrollarsi di dosso quel fastidio, ma il cane non accennava a mollare la presa anche se il suo corpo era sbatacchiato a destra e sinistra con violenza.
Pardisan capì che non avrebbe resistito ancora per molto e subito le forze gli tornarono. Caricò a testa bassa, abbandonando lo scudo per poter usare entrambe le mani per colpire con la spada.
Riuscì a giungere sotto il ventre del mostro che si era impennato nel tentativo, con le zampe anteriori, di strapparsi di dosso il cane. Usò tutto il momento della corsa e spinse la spada verso l'alto con entrambe le mani, urlando per lo sforzo. La lama trovò uno spazio tra due scaglie e si infilò dentro, facendo sgorgare sangue nero dalle ferite e penetrando sempre più in alto.
Il mostro ruggì di dolore rendendosi improvvisamente conto di essersi distratto e di aver così subito una ferita grave.
Finalmente, con una zampa riuscì ad afferrare il mastino e se lo strappò di dosso, per poi lanciarlo con forza contro il cavaliere.
L'umano ed il cane rotolarono a terra storditi e contusi ed il drago si impennò pronto a schiacciarli definitivamente con il suo peso.
«Basta così!»
Il mostro si bloccò, come se fosse stato congelato all'instante, poi tutto scomparve, colando verso il basso come un acquarello bagnato dalla pioggia.
Pardisan rimase da solo, con a fianco Calmar, in una specie di luogo indefinito, completamente illuminato. Non c'erano pareti, non c'era orizzonte, non c'era nulla a parte un chiarore indefinito tutto attorno, ma non tanto forte da ferirgli gli occhi. Un chiarore bello, che sapeva di cose buone.
«Perdonami», riconobbe la voce della ragazza del suo sogno, «Ma dovevo capire se potevo fidarmi di te...»
«Dove sei?», Pardisan si guardava a destra e sinistra cercandola ma non riusciva a vedere nulla. Anche Calmar pareva agitato, mentre fiutava in giro, sembrava anche lui confuso.
«Non importa dove e chi sono...», continuò la voce dolce, «Importa che ora sono certa che tu sei la persona giusta... quando ci incontreremo ti spiegherò tutto, per ora accontentati del fatto che non avrai più sogni cattivi, veglierò io su di te»
Il cavaliere strinse i pugni. In gioventù gli era stato insegnato a non contraddire o non infuriarsi con le donne ad essere sempre accondiscendente, ma quella situazione lo portava al limite.
«Mi hai usato!», sibilò a denti stretti.
«Scusami...», la voce, per la prima volta non era più solo dolce, ma aveva in sé una pena incredibile, «Io... avrei voluto fare diversamente... fidarmi di te subito... ma c'è troppo in gioco...»
Lui riuscì a calmarsi, sentendo che l'altra era effettivamente dispiaciuta, «Voglio sapere il tuo nome»
Ci fu un attimo di silenzio.
«Io... non potrei...», sentì mormorare ma prima che lui potesse sbottare la voce continuò, «Vinya Hi'ril»


Aprì gli occhi e capì di essersi svegliato quando vide il soffitto scuro e sentì il rumore dello scrosciare della pioggia provenire dall'esterno. Si sollevò guardandosi intorno mentre il suo mastino apriva a sua volta gli occhi e si sollevava in piedi scrollandosi il torpore di dosso.
«Come è andata?», Gwar pareva molto incuriosito mentre Kyrea era intenta a rimettere via le sue cose. Sovan, da lontano, pareva ansioso a sua volta di sentire cosa fosse successo.
«Era una prova», rispose lui ancora un po' incerto dell'accaduto, «Ed a quanto pare l'ho superata anche grazie a lui», diede due pacche sul dorso del mastino.
«Si avete un legame...», annuì la guida osservandoli, «Succede molto raramente, ma i vostri spiriti sono legati, appena il tuo sogno è iniziato anche lui si è addormentato raggiungendoti»

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***


Capitolo 16


Come l’animo del cavaliere anche il clima parve calmarsi e l’indomani era una splendida giornata. L’unico che aveva accolto la notizia con preoccupazione era Gwar che aveva riferito che, con il bel tempo ed il sole, il suo lavoro diventava sempre più complicato.
Ed infatti, puntualmente, la mattina dopo la guida tornò trafelata verso di loro e con un’espressione truce negli occhi.
«Una pattuglia ci ha visto», riferì lanciando delle occhiate a destra e sinistra, «Ora abbiamo due possibilità, li raggiungiamo e speriamo di finirli prima che diano l’allarme, oppure cerchiamo di spostarci e nasconderci»
«Dalla tua espressione pare che nessuna delle due ipotesi ti piaccia», anche Rovis si stava guardando attorno con attenzione.
«Si perché erano parecchio distanti e non vorrei ci conducessero in una agguato», spiegò l’altro, «Ma se anche fuggiamo e ci nascondiamo, da adesso in poi tutti i Lupi saranno consapevoli che un nostro drappello è nel loro territorio»
«E non saranno contenti finché non ci avranno uccisi tutti...», spiegò Kyrea, poi batté una mano sul manico della sua arma, «Ben vengano!»
Si lanciarono delle occhiate l’un l’altro ma poi fu Rufus a decidere, indicò Gwar e Pardisan spiegando che loro avrebbero dovuto inseguire i Lupi che li avevano avvistati, mentre gli altri avrebbero continuato la missione.
«Sei sicuro?», chiese il cavaliere non troppo convinto, «Non sarebbe meglio se lui restasse con voi?», indicò la guida, ma Rufus scosse il capo.
«E va bene, vediamo di raggiungere ed eliminare questi scocciatori!», esclamò Gwar e, senza attendere altro si voltò e si lanciò verso il fondo del pendio.
«Vi lascio Calmar», replicò ancora Pardisan, poi guardò il mastino, «Proteggili», il cane abbaiò risoluto e pochi momenti dopo il cavaliere voltò il cavallo e si avviò dietro la guida.
Lanciato in piena corsa la guida era veloce, molto veloce, tanto che Korvus faticava quasi a stargli dietro. Anche perché, a differenza del destriero, Gwar era agile e si infilava anche in passaggi a lui non accessibili. Il cavallo di Guglia Perenne però mantenne fieramente il passo, non facendosi distanziare e già un’ora dopo si trovavano molto distanti dal loro punto di partenza.
Avanzavano apparentemente senza curarsi di nascondersi, pensando solo alla velocità, ma il cavaliere notò che ogni movimento era stato studiato in modo da essere eseguito portandosi a ridosso di grosse rocce, cespugli, arbusti ed in modo da non essere mai visibili per molto tempo da valle.
La guida non sembrava camminare, sembrava come fluire tra le rocce, come potrebbe fluire dell’acqua corrente; era preciso nei movimenti, non rompeva i rami degli arbusti che scontrava e non lasciava impronte, in definitiva lasciava al suo passaggio meno tracce di un fantasma. Dal canto suo Pardisan ed il destriero lasciavano impronte evidenti, visto che gli zoccoli di Korvus si piantavano ben saldi sul terreno ed a volte spezzavano le rocce più friabili con il solo peso del corpo.
Il sole a picco bruciava loro la pelle, ma nessuno dei due se ne curò: Gwar era semplicemente instancabile, mentre il cavaliere vi era abituato fin dall’infanzia.
Nessuno dei due era preoccupato per il proprio destino, erano determinati a raggiungere le loro prede ed eliminarle prima che potessero nuocere al loro gruppo o alla loro missione, le uniche preoccupazioni che avevano erano per i loro compagni, lasciati indietro quella mattina.
Pardisan si era molto affezionato a Sovan, che si era trasformato in una sorta di fratellino per lui. Vedere i suoi progressi nell’uso della spada lo riempiva di orgoglio ed il desiderio di proteggerlo aveva dato un nuovo scopo alla sua vita. Gwar pensava soprattutto a Kyrea; la donna e lui continuavano a battibeccarsi, ma tra loro si era creato un legame profondo, nato inizialmente dal fatto che entrambi erano dei reietti e non erano pienamente accettati dal resto degli altri, ma che si era evoluta in un profondo affetto.
Proseguirono velocemente per mezza giornata e quando il sole fu a picco su di loro videro, in lontananza, il gruppo di cinque Lupi che arrancavano sullo scosceso costone roccioso opposto al loro. In linea d’aria erano a meno di cento metri gli uni dagli altri, ma per poter arrivare fino a loro dovevano percorrere il tratto dal punto dove si trovavano fino a valle e poi di nuovo in su quindi quasi un chilometro di percorso in totale.
Iniziarono la discesa, adesso puntando puramente sulla velocità e lasciando in disparte la furtività.
I cinque Lupi li videro e, stranamente, non si fermarono come al solito per affrontarli, ma si affrettarono verso l’alto.
Nonostante tutto l’impegno e la velocità, i due inseguitori riuscirono ad arrivare a metà del percorso quando i Lupi giungevano in cima al loro pendio. I due accelerarono ancora in salita, instancabili ed in un baleno raggiunsero quella posizione anche loro... poi di bloccarono.
Di fronte a loro erano presenti più di venti Lupi, disposti in modo ordinato a semicerchio per bloccare la loro avanzata.
Gwar estrasse un lungo pugnale ed una spada corta, impugnandone una per mano, mentre Pardisan, senza estrarre la sua spada, iniziò a guardarsi intorno.
«E’ strano», mormorò la guida senza voltarsi verso di lui, ma mantenendo lo sguardo ben fisso sui loro nemici, «Sono immobili, ordinati e non stanno ruggendo per intimidirci... questo non mi piace»
«Neppure a me», rispose il cavaliere appoggiando una mano sull’elsa della sua arma.
«Dormite!», esclamò una voce calma e dolce.
Immediatamente la guida ed il cavaliere sentirono i loro corpi preda di una stanchezza incredibile. Solo in quel momento, dall’alto della sua posizione in sella, Pardisan vide che, tutto attorno a loro, era tracciato e semi nascosto da pietre ed erba, un sigillo che brillava sinistramente.
«Dobbiamo spostarc...», crollò a terra senza avere la minima possibilità di resistere e vide che anche Gwar era steso poco più avanti. Lo stesso Korvus pareva confuso e barcollava, poi tutto si fece nero attorno a lui.


Rufus aveva un’espressione determinata negli occhi, mentre procedeva in testa al gruppo, fianco a fianco con al cavallo di Rovis che aveva preso il ruolo di nuova guida. Il cacciatore aveva scelto una pista piuttosto ostica che si inerpicava sul fianco della montagna per evitare ogni possibile fortuito incontro con pattuglie di Lupi.
Dietro di loro stava Sovan, che pareva molto preoccupato e, ogni momento che poteva, si schiacciava contro il dorso del suo asinello per allungarsi verso il basso ed accarezzare il grosso mastino. Calmar infatti procedeva a fianco della sua cavalcatura, come una guardia del corpo.
Kyrea chiudeva la fila osservandosi alle spalle per controllare che nessuno li sorprendesse da dietro. Pareva tranquilla, ma aveva smesso di fare battute e questo era indice della sua preoccupazione.
Il sentiero divenne sempre più stretto, costringendoli a proseguire in fila indiana e divenne anche più ripido. Il volto di Rovis si accigliò, «Credo che finiremo per arrivare sulla cima del monte del Falco», si era rivolto al muto.
«Il monte del Falco?», chiese da dietro Sovan incuriosito.
«E’ uno dei pochi punti di riferimento di queste terre», spiegò Kyrea, «Come ben saprai sappiamo ben poco della geografia di queste terre, abbiamo come riferimenti solo le montagne più alte ed il monte del Falco è una di queste»
Il ragazzino annuì.
«Se riusciamo a raggiungere una buona altitudine potremo tranquillamente osservare un grande pezzo delle terre dei Lupi senza correre rischi», spiegò il cacciatore e Rufus annuì.
«Massimo risultato con il minimo sforzo?», chiese ironica la donna.
«Minimo sforzo?», Sovan sgranò gli occhi, «Ma stiamo faticando tantissimo... pensate ai nostri poveri animali...»
«Sempre meglio che finire nelle mani dei Lupi», mormorò Rovis tornando a guidare il gruppo su per il sentiero.

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 ***


Capitolo 17


Quando aprì gli occhi stentò a ricordare cosa era successo.
Vedeva quello che pareva un soffitto fatto di pelli... si sollevò di scatto.
Erano finiti in una trappola dei Lupi!
Adesso era seduto in un letto fatto di pellicce di lupo. Indossava solo i suoi vestiti, non c’era traccia delle sue armi o della sua armatura. Non si sentiva debole e non pensava di avere delle ferite e proprio questo lo sconcertava.
I Lupi non prendevano prigionieri e soprattutto non li lasciavano liberi, senza legarli.
Era dentro una grande tenda, oltre al letto di pellicce in cui giaceva c’era solo un grande baule di legno.
Il lembo dell'apertura si scostò e, per un attimo, il cavaliere pensò di fingere di stare ancora dormendo, ma poi decise di rimanere sollevato per vedere chi fosse il suo ospite. Lo avrebbe affrontato senza paura o timore.
All’interno della tenda entrò una ragazza, aveva i capelli castani leggermente ricci molto lunghi, occhi color nocciola ed un fisico minuto ma ben proporzionato. Stringeva in mano un lungo bastone che le dava almeno un braccio sopra la testa ed indossava degli abiti di pelle dalle tonalità verde e marrone. Una sorta di piccolo diadema di legno le ornava la fronte ed un pendaglio di ambra le pendeva dal collo.
«Ben sveglio!»
Appena sentì la voce della donna la riconobbe.
Era la voce del suo sogno.
«Vedo che mi hai riconosciuta», gli regalò un sorriso solare che gli fece perdere immediatamente ogni intento violento.
Prima che potesse chiedere nulla tornò a parlare, «Ti avevo promesso delle spiegazioni e le avrai, ma prima credo tu voglia vedere il tuo compagno ed il tuo cavallo»
Gli fece un gesto come ad indicare l’esterno e poi scivolò fuori.
Pardisan si sollevò in piedi e trovò i suoi stivali riposti vicini al letto. Dopo averli indossati si mosse per uscire scostando il lembo della tenda.
Rimase agghiacciato.
Attorno a lui c’erano dei Lupi.
Anzi! Si trovava al centro di un villaggio dei Lupi!
«Vieni lui si trova qui», la voce della ragazza lo riscosse dai suoi pensieri.
Un po’ titubante e timoroso, lasciò l’ingresso della tenda e si avvicinò a lei, che si trovava vicino ad una grande staccionata. Immediatamente vide Korvus al suo interno ed il destriero si avvicinò a lui sbuffando.
«Come vedi sta bene, anche se ha fatto un po’ di capricci, quando si è svegliato», indicò uno degli assi della staccionata che era incrinato, «Seguimi ti porto dal tuo amico prima che si svegli, non vorrei che anche lui facesse i capricci», riprese a camminare dandogli le spalle ed avviandosi verso un’altra tenda.
Il cavaliere si chiedeva chi fosse quella donna e perché non era ancora stato ucciso, visto che i Lupi lo guardavano con profondo odio.
Raggiunsero un’altra tenda, molto simile a quella in cui si era risvegliato lui poco prima e la ragazza gli fece cenno di entrare mentre lei restava fuori.
Il cavaliere si infilò dentro e capì che, effettivamente, questa era esattamente identica alla sua. Gwar giaceva steso su di un letto di pellicce e sembrava essere in procinto di svegliarsi.
Quando lo fece saltò a terra con una velocità inaudita, pronto a saltare alla gola di colui che era entrato, ma riconobbe il cavaliere e si fermò.
«Costa sta succedendo?», chiese allarmato guardandosi attorno.
«Vorrei saperlo anche io... siamo all’interno di un accampamento dei Lupi», il cavaliere si era avvicinato e gli parlava a voce bassa, «Non ne so molto, so solo che la ragazza del mio sogno è qui fuori»
«Che cosa vuole da te?», chiese ancora la guida, adesso anche lui sotto voce.
«Non lo so, ma intendo scoprirlo», tornò a sollevarsi in piedi, «Tu resta qui, non credo correrai pericoli, tornerò appena ne saprò di più»
L’altro lo guardò in modo strano, ma poi annuì. Digrignò i denti, «Vorrei almeno avere le mie armi...»
«La vostra roba è all’interno del baule», da fuori la voce della ragazza giunse leggermente ovattata, «Ma preferirei non le prendeste»
Gwar sollevò un sopracciglio poi si alzò ed aprì il contenitore afferrando la sua spada corta ed il suo pugnale assicurandoseli in vita. Pardisan lanciò ancora un’occhiata al compagno e poi uscì.
«Passeggiamo», gli disse subito la ragazza avviandosi.
Il cavaliere la seguì e lei, senza dire nulla e con passo tranquillo, imboccò un sentiero che portava fuori dall’accampamento. Quando furono ad una ventina di metri dalle tende rallentò il passo in modo che in ragazzo la affiancasse.
«Come ti ho già detto nel sogno mi chiamo Vinya», sembrava assorta nello scrutare l’orizzonte, «Appartengo al popolo dei Noren, quelli che voi chiamate Lupi», pur apparendo calma sembrava leggermente esitante, come se quello che stava dicendo fosse di un’importanza colossale e temesse che il cavaliere male interpretasse le sue parole, «Sono una A’lideth, una... credo che voi ci chiamiate streghe...», il cavaliere si accigliò, stentava a credere che quella ragazza fosse una delle famose streghe dei Lupi, quelle che le madri della sua terra usavano per spaventare i bambini capricciosi, «Ma sono anche una Hi’ril Drakos, questa parola non ha una traduzione nella tua lingua...», per un singolo istante si mordicchiò il labbro inferiore tentennando visibilmente ma poi tornò a parlare in modo naturale, «Io non sono tua nemica... ed ho bisogno del tuo aiuto»
Pardisan riuscì a bloccare una protesta che nasceva da dentro di lui, che gli urlava che lei era una strega, che era, nonostante le apparenze, un Lupo e che doveva ucciderla senza pensarci due volte anche a costo di morire subito dopo.
Ma la curiosità e lo bloccò.
Sorprendentemente si rese conto che non era solo la curiosità. Da quando l’aveva sognata, per la prima volta, aveva sentito che... non sapeva neppure lui cosa avesse sentito a dirla tutta.
Lei vide il suo silenzio e quindi riprese a parlare, «Io non sono d’accordo con gli altri della mia razza... non sono d’accordo con le scorribande e le uccisioni... ma, anche se sono rispettata... anzi temuta a dire i vero... non ho la forza per fermarle... io...», le parole si fermarono.
Il cavaliere represse l’istinto di appoggiarle una mano sul braccio in segno di conforto.
Si sorprese della cosa, non la conosceva ed era una nemica, eppure...
«Vieni con me all’Ultimobastione», le parole gli uscirono di bocca prima che potesse anche solo pensarle.
Lei sorrise, un sorriso di gratitudine ma amaro, che le storse la bocca sottile, «Lo vorrei tanto...», mormorò a bassa voce, poi tornò determinata, «Devo fare una cosa, molto importante, per questo ho bisogno del tuo aiuto», vide l’espressione dell’altro e si affrettò a parlare, «Non ha a che fare con l’aiutare i Lupi è... un’altra cosa... ma dovrai venire con me da solo»
Lui si irrigidì, «Non posso abbandonare i miei...», si fermò. Non voleva rivelare al nemico(?) informazioni sulla composizione del suo gruppo.
«Ancora non ti fidi...», sospirò lei, «Già, non ti ho ancora dato motivo per farlo», mormorò, «Sappi che so perfettamente chi sono e dove sono i tuoi compagni e che se non siete ancora stati individuati dalla mia gente è anche grazie a me...»
Era una cosa un po’ difficile da accettare, ma per il momento, il cavaliere decise di fidarsi, anche perché aveva trovato molto strano l’essere riusciti ad addentrarsi così tanto nel territorio dei Lupi senza essere scoperti, «Prima ne devo parlare con il mio compagno e devo farlo da solo»
«Naturalmente», la voce di lei era tornata calma e distaccata, «Il tuo compagno sarà libero di andare e nessuno gli farà del male, di questo hai la mia parola»
Tornarono all’accampamento dove lui fu ricevuto di nuovo da una pioggia di occhiate cariche d’odio e si infilò nella tenda di Gwar.
«Che cosa hai scoperto?», chiese immediatamente la guida incuriosito.
Lui controllò che nessuno li potesse sentire e si avvicinò sussurrando, «Ha detto di essere una A’lideth...»
«Uno sciamano dei Lupi...», mormorò la guida annuendo.
«...vuole il mio aiuto per una missione che, ha detto, non riguarda i Lupi», l’altro lo guardò in modo strano.
«Non li riguarda?», aggrottò le folte sopracciglia in modo buffo, «Solitamente le A’lideth vivono solo per aiutare, guidare e servire la loro gente...»
«Non so se è importante, ma ha detto di essere anche una Hi’ril Drakos , a quelle parole Gwar impallidì, sgranò gli occhi ed emise una specie di rantolo.
Il cavaliere lo osservò confuso e l’altro aprì la bocca, « Hi’ril Drakos è una parola della lingua dei Lupi che ha influenze elfiche... si dice che moltissimo tempo fa i Lupi fossero un popolo pacifico e che fosse stretto alleato degli elfi», sospirò abbassando ancora di più la voce, «La parola significa... Signora dei Draghi»

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 ***


Capitolo 18


Il gruppetto risalì faticosamente la china della montagna, procedendo con snervante lentezza. Nessuno voleva incorrere nel rischio di essere di nuovo avvistati da dei Lupi, soprattutto ora che il cavaliere e la loro guida erano lontani. Rufus scrutava in avanti con aria truce, evitando di incrociare gli sguardi dei suoi compagni e procedendo con passo spedito dietro Rovis.
Stavano continuando a tirare per le redini le loro cavalcature, visto che erano costretti nuovamente passare per stretti cornicioni di roccia a strapiombo sul vuoto.
Il monte Falco doveva il suo nome alla forma della cuspide della sua vetta, arcuata e piegata come il becco di uno di quei rapaci; una forma stana, dovuta al moto che aveva il vento, quando si incanalava lungo le pareti dei monti vicini e poi saliva verso l’alto. Secoli di erosioni avevano portato il monte ad assumere quella stramba forma.
«Abbiamo almeno due giorni di marcia per raggiungere la cima», piegò la Kyrea, «Ma il tempo si mantiene bello e quindi potremo arrivare ad una posizione abbastanza alta da poter sovrastare la zona entro domani pomeriggio»
Calmar abbaiò festosamente saltellando vicino all’asinello di Sovan.

Gwar e Pardisan erano seduti all’interno della tenda di quest’ultimo, con davanti due piatti contenenti del cibo. I lembi di pelle che formavano l’ingresso vennero scostati ed entrò la ragazza.
Appoggiò il suo lungo bastone vicino all’uscio e fece qualche passo verso di loro, per nulla intimorita dal fatto che la guida aveva istintivamente portato le mani all’elsa delle sue armi e non accennava a staccare gli occhi da lei. Vinya si andò a sedere a fianco a loro senza timore.
«Partiremo domani mattina», si rivolse al cavaliere poi spostò lo sguardo sull’altro, «Tu potrai andare via e tornare dai tuoi compagni senza pericolo»
«Dove va lui vado anche io», Gwar mantenne le mani sull’elsa delle armi e sostenne lo sguardo della ragazza con durezza.
Lei tentennò e spostò il capo verso il cavaliere come alla ricerca di aiuto.
«Non ho potere su di lui», Pardisan scosse il capo, «Ed ho imparato che è testardo»
Vinya parve indecisa, per la prima volta, poi sbuffò, «E va bene», lanciò un’occhiataccia alla guida, «Ma senza di te, credi che ti tuoi compagni se la possano cavare?»
Gwar aprì la bocca in quello che poteva essere un maligno sorriso o un ringhio, «Stai cercando di minacciarmi o di ricattarmi?»
Lei scosse il capo tornando ad un’espressione neutra, «Era una semplice domanda. Quando partiremo non potrò più mantenere segreta la loro posizione dovranno cavarsela da soli»
La guida tentennò poi sorrise mostrando i canini aguzzi, «Sono ottime persone ed esperti soldati, se la caveranno»
Lei si alzò scrollandosi le spalle e si avviò verso l’uscio, «Partiremo all’alba», afferrò il bastone ed uscì all’esterno.


La mattina dopo erano pronti al centro dell’accampamento. Pardisan era tornato ad indossare il suo equipaggiamento ed ora attendeva in sella a Korvus che scalpitava nervoso. Gwar era posizionato alla sua sinistra e si guardava intorno in modo guardingo.
Vinya era vicino ad un cavallo pezzato e stava per salire in groppa quando uno dei Lupi, particolarmente imponente, le si avvicinò. L’uomo pareva arrabbiato ed i due si scambiarono alcune parole in tono duro.
«Le sta dicendo che una A’lideth deve restare a guidare la sua gente e non deve andare in giro da sola con degli stranieri», mormorò la guida traducendo le parole dei due, «Ma lei risponde che la sua missione è importante e che lei ha il potere di decidere liberamente e lui e gli altri devono obbedirle»
La ragazza fece per salire sul suo cavallo quando l’uomo la afferrò per un braccio bloccandola. Vinya si voltò verso di lui lanciandogli uno sguardo furente ed il Lupo lasciò subito la presa.
«Siamo andati vicini ad un combattimento», le parole di Gwar erano appena sussurrate e lui pareva più nervoso di prima, «Nessuno può toccare una A’lideth... è tabù... se l’ha fatto è perché sono davvero scontenti delle sue azioni»
La ragazza li raggiunse e non li degnò di un’occhiata, mentre si avviava lungo il sentiero. Il cavaliere fece spostare il suo destriero per seguirla. Negli occhi di lei aveva letto, per la prima volta, della preoccupazione. Forse la situazione le stava sfuggendo di mano.
Viaggiarono per mezza giornata verso nord superando un alto costone di roccia allontanandosi da Ealica sempre di più ed addentrandosi nel territorio dei Lupi sempre più in profondità.
Gwar era tornato a scivolare, come al solito tra le rocce con velocità inumana, Korvus accelerò e ben presto il cavaliere si ritrovò fianco a fianco di Vinya.
«Sei preoccupata», era una constatazione detta con voce calma, «E devi ancora raccontarmi tutto...»
Lei si voltò a guardarlo e si mordicchiò il labbro inferiore indecisa.
«Come puoi pretendere che mi fidi di te se tu stessa non ti fidi di me», continuò lui con tono gentile.
«Io...», tentennò ancora, «Sto facendo qualcosa che mi farà odiare dalla mia gente...», tornò a concentrarsi sul sentiero, distogliendo lo sguardo dal volto di lui, «Ed ho paura»
«Non ti devi preoccupare, ti proteggerò io», Pardisan allungò una mano e la posò su quella di lei che teneva le briglie. Al tocco Vinya si irrigidì, le parole di Gwar riecheggiarono nella mente del cavaliere: "Nessuno può toccare una A’lideth... è tabù...". Ma la ragazza si rilassò e voltò il suo capo verso di lui facendo un sorriso molto amaro.
«Non sono preoccupato per la mia vita», mormorò, «Ma per la tua...»

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 ***


Capitolo 19


«Bene sentiamo...», la voce di Gwar era un ringhio sordo e sommesso, «...perché?»
Sedevano in un antico cerchio di pietre innalzato all'alba dei tempi da qualche popolazione ora dimenticava. Le rocce erano poste in un cerchio perfetto e sembravano delimitare una zona precisa, come ad indicare un luogo sacro. I tre viaggiatori avevano deciso di accamparsi al loro interno per proteggersi dal freddo della notte e dal soffiare del vento.
Una volta consumata la cena si erano fermati a guardare le fiamme del piccolo falò che avevano acceso, sperando che il fuoco potesse riscaldare le loro ossa congelate durante la giornata.
Vinya lanciò un'occhiata confusa verso il cavaliere, ma questi si limitò scrollarsi le spalle, ne sapeva quanto lei.
«Che cosa intendi?», la sua voce risuonava nel silenzio della notte ferma e determinata.
La guida emise un basso borbottio molto simile al latrato di un cane, «Perché voi Lupi agite in questo modo?», non le diede il tempo di iniziare a parlare ma la incalzò ancora, «Per quale motivo?»
Lei si mordicchiò il labbro inferiore poi prese un grande respiro, «Come avete potuto notare le terre al di qua dei monti non sono ospitali. Gli inverni sono freddi e...»
«Stai dicendo che dovremmo compatirvi?», i suoi occhi erano freddi e colmi di odio, «Per tua norma e regola io sono nato in queste terre. Noi vivevamo di quel poco che la terra ci dava e ce la cavavamo egregiamente... finché la tua gente non ha deciso di ucciderci!»
«Non è così semplice!», la ragazza adesso sembrava arrabbiata, «Sfamare una famiglia è una cosa, ma un intero popolo... non sto dicendo che la mia gente agisca bene ma...»
«Si che lo stai facendo!», sembrava che tutto l'odio e la frustrazione che aveva contenuto fino ad ora non potesse più essere trattenuto, «Voi siete delle bestie!»
«Senti chi parla!», rispose seccamente lei pentendosi immediatamente delle sue parole.
Gwar saltò in piedi brandendo le sue armi che scintillavano sinistramente alla luce del fuoco. La ragazza si era alzata con altrettanta prontezza ed impugnava il bastone in modo minaccioso.
Sembrava che da un momento all'altro si sarebbero scagliati l'uno sull'altra.
Ma proprio un momento prima che scattassero, il cavaliere parve materializzarsi in mezzo a loro, disarmato. Protendeva le braccia verso i due come ad indicare che, se avessero voluto davvero scontrarsi, prima avrebbero dovuto uccidere lui.
Tutto sembrò cristallizzarsi, come a fissare il momento nel tempo.
«Io non sono d'accordo con quello che ha deciso la maggioranza della mia gente», la voce della ragazza era decisa, «Ma sono la mia gente... non posso abbandonarli...»
«Per questo sei complice di quello che fa!», rispose con voce terribile la guida.
«Ma è necessario per noi ottenere nuove terre o non potremo sopravvivere...», Vinya sembrava convinta delle sue parole.
«La tua gente non conquista, la tua gente uccide!», oramai Gwar non era più riconoscibile, aveva un aspetto terribile con la peluria che lo ricopriva ritta e quel terribile sguardo, «Massacrate uomini, donne e bambini... bruciate tutto... stuprate le nostre ragazze... distruggete le famiglie... e tutto questo è anche colpa tua... il sangue e la sofferenza di tutte quelle persone è anche sulle tue mani!»
La ragazze non rispose, mantenne lo sguardo fiero e l'atteggiamento combattivo ma non disse nulla.
«Stai esagerando», Pardisan parlò con voce calma spezzando l'alterco.
«Ma da che parte stai tu!», ora l'attenzione di Gwar era rivolta verso di lui, «Tu dovresti darmi man forte! La tua famiglia è stata massacrata dai Lupi!»
Il cavaliere attese un lungo attimo prima di rispondere, «Hai ragione», disse semplicemente, «Ma non puoi riversare su Vinya le colpe della sua gente. Te lo ha detto lei stessa che non è d'accordo con il loro modo di fare»
«E' facile dire così!», sbuffò continuando a guardare la ragazza con odio, «La verità è che tutti loro non sono umani... sono bestie! Animali... demoni! Esseri abbietti... tutti loro!»
L'ultimo Stormblade rispose allo sguardo di Gwar con durezza, «Allora anche io lo sono», negli occhi della guida passò un lampo di incertezza ed il cavaliere continuò, «Tu la giudichi attraverso quello che fa la sua gente? Dici che i Lupi non sono umani ma demoni? Ebbene anche la mia gente lo è. Anzi la nostra gente lo è. La nostra gente continua a farsi guerra anche per motivi più futili del trovare nuovi territori. Ci nascondiamo dietro una cortina di civiltà, ma siamo animali esattamente come loro», ripensò alla notte in cui la famiglia di Liselle era stata massacrata da un nobile rivale solo per ottenere potere. Non per sfamare delle persone, ma per il potere.
Gwar sbuffò rinfoderò le armi e poi si voltò allontanandosi nella notte.
Pardisan lo guardò sparire nel buio e poi si accomodò nuovamente vicino al fuoco.
Vinya si sedette a poca distanza da lui, «Grazie», gli mormorò.
Lui si voltò per guardarla, «Non capisco», disse con sincerità scuotendo il capo lentamente, «Io ero d'accordo con quello che diceva lui ma... non ho potuto fare a meno di difenderti»
Negli occhi della ragazza brillò uno strano sguardo, un misto di tristezza e di felicità al tempo stesso.
Sospirò, «Non ti ho lanciato nessun incantesimo», le sue parole parvero asciutte ma sincere, «Se è questo che sottintendevi»
Lui storse la sua bocca in un amaro sorriso, «Non sottintendevo nulla. Dicevo semplicemente che... non posso fare a meno di proteggerti»
Distolse lo sguardo tornando ad osservare le lingue di fuoco e non si accorse che un velo di tristezza era calato sugli occhi di Vinya.

Il gruppetto guidato da Rufus si era accampato quasi sulla cima del monte Falco. L’indomani, se il tempo si fosse mantenuto buono, sarebbero riusciti ad osservare una buona parte delle vicinanze, visto che erano giunti in una posizione abbastanza sopraelevata.
La piccola caverna che li ospitava era illuminata da un fuocherello, mantenuto basso per non farsi scorgere dai Lupi. La cena era stata consumata e si stavano preparando ai turni di guardia quando Sovan arrivò di corsa, «Questa la dovete vedere!»
Senza attendere risposta tornò fuori presto seguito anche dagli altri incuriositi. Il ragazzino si faceva prendere dall’agitazione molto facilmente, ma il modo in cui aveva parlato indicava che c’era effettivamente qualcosa da vedere.
Quando lo raggiunsero all’esterno capirono cos’era.
La valle al di sotto del monte era illuminata da migliaia di piccoli fuochi.
«Credo che sia una città dei Lupi», il giovane era combattuto tra il timore e l’agitazione, «Sarebbe la prima che vediamo!»
«Non è una città», mormorò Kyrea.
«E’ vero», gli fece eco Rovis, «Sembrano più fuochi di un accampamento»
«Accampamento?», chiese Sovan confuso.
«Dal fatto che li vediamo così bene devono essere falò e non fuochi, attorno ad ognuno di essi potrebbero essere accampati dai diedi ai trenta Lupi», spiegò ancora la donna.
Il giovane contò rapidamente sulle dita poi impallidì, «Ma… questo significa che sono almeno diecimila!»
Rufus gesticolò velocemente e poi tornò dentro la caverna.
«Ha detto che sei stato ottimista nella tua stima», tradusse la guida.


«Perché andiamo da questa parte?», Gwar stava usando un tono rabbioso sin dalla sera prima.
«E’ la direzione più veloce», rispose Vinya guardandosi intorno.
«Ma se proseguiremo da questa parte finiremo nella Foresta Nera», continuò la guida arrestandosi.
«La Weshtar si», la strega pareva distante.
«Credo che sia giunta l’ora che tu ci dica cosa stiamo andando a fare laggiù», si era fermato proprio di fronte ai cavalli impedendo loro di proseguire.
Vinya lanciò un’occhiata al cavaliere che però non disse nulla e lei allora sbuffò smontando di sella, «Tanto è ora di pranzo…»
Pochi momenti dopo erano seduti su delle rocce a masticare degli ostici pezzi di carne salata.
«Moltissimo tempo fa non eravamo soli», iniziò a raccontare con voce tranquilla, «Esistevano anche altri esseri simili a noi, eppur diversi. Non parlo dei Weshtar o orchi come li chiamate voi. Questi altri esseri li chiamavamo elfi. Noi eravamo ancora uno, un’unica nazione di umani, eravamo tutti Noren. A quei tempi la mia gente viveva a stretto contatto con gli elfi, anche se i loro governanti dicevano di non volere avere nulla a che fare con noi sporchi umani, il loro popolo amava commerciare. Eravamo un grande popolo allora, non combattevamo e non uccidevamo. Poi le leggende parlano di una guerra, non ne so molto. So solo che dopo di essa gli elfi sparirono. E con la scomparsa di queste altre razze anche gli umani si divisero. A poco a poco il mio popolo tornò alle barbarie fino a diventare quello che è ora…»
«Quando finisce questa favoletta?», la interruppe Gwar, «Gli elfi non esistono!»
«Parli proprio tu che sei la prova vivente del fatto che esistono esseri diversi da noi », rispose con voce risoluta Vinya. Pardisan gli fece cenno di continuare, «Un ciclo lunare fa io ho trovato, mentre cercavo erbe medicamentose, un elfo», fece una pausa come per riordinare le idee, «Era strano a vedersi, aveva un viso affilato ed allungato, orecchie appuntite, sopracciglia lunghe e gli occhi come i gatti. Era giovane e ferito gravemente visto che era rimasto intrappolato in una tagliola. La cosa che mi sconvolse era che non era stato in grado di aprirla nonostante il meccanismo per farlo fosse a sua portata di mano. Lo liberai e cercai di aiutarlo anche se le sue ferite mi sembrarono fin da subito troppo gravi. All’inizio non volle dire nulla ma quando capì che desideravo veramente il suo bene mi raccontò la sua storia. Mi disse di chiamarsi Lal, a quanto pare tra la sua gente c’è una tradizione antichissima chiamata “la Lontananza”. Praticamente quando i loro figli raggiungono la pubertà vengono allontanati dalla loro città per stare un anno tra gli umani. Durante quell’anno possono fare quello che vogliono, ma solitamente è utilizzato dai giovani elfi, o ellantil come si definiscono loro, per conoscere la razza umana. Visto il nostro comportamento nascondono le loro origini durante il loro viaggio. Mi raccontò che prima di partire la memoria della posizione della loro città viene cancellata magicamente dalla loro mente in modo che non possano tradire i loro simili. Dopo un anno di Lontananza la memoria inizia a tornare ma resta molto vaga. Lal mi disse che doveva andare ad ovest. Quando fu colto dalla febbre a causa della ferita, nel delirio mi descrisse un posto preciso dove avrebbe trovato l’accesso alla città. Perì quella sera…»
«E quale sarebbe la morale di questa bella favola?», la voce di Gwar era tremendamente sarcastica.
La ragazza lo ignorò, «Vi ho detto che sono in disaccordo con il modo di fare del mio popolo. Ebbene stanno organizzando qualcosa di grosso… di terribile… io non voglio che accada. Ricordo le leggende per cui un tempo eravamo un popolo che viveva in pace ed armonia con gli elfi… per questo voglio ritrovarli… voglio riportarli nel mondo per tornare alla pace…»
Ci fu silenzio poi la guida tornò a parlare, «Cosa intendi per terribile?»
«I vari clan si stanno riunendo per invadere altri territori…», mormorò con un filo di voce Vinya.
Gwar scattò in piedi, «Maledizione!», strinse i pugni con rabbia, «Dobbiamo avvertire l’ Ultimobastione!»
Un velo di silenzio scese tra di loro.
Gwar scosse il capo, «Tu non verrai…», il suo era una specie di basso ringhio.
Il cavaliere rimase in silenzio.
La guida sbuffò, «Io invece andrò a fare il mio dovere...», raccolse le sue cose poi, senza neppure un saluto, si voltò e velocemente ed in pochi minuti scomparve alla vista.
«Anche io sto facendo il mio dovere», mormorò Pardisan tra sé e sé.

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 ***


Capitolo 20


Proseguirono senza parlare. Sul volto di Vinya era segnata una profonda tristezza dovuta al fatto di aver dovuto imporre la sua volontà, mista ad una determinazione nata dal fatto che sentiva, dentro di sé, che quella era la cosa giusta da fare.
Pardisan aveva quasi lasciato le briglie di Korvus che procedeva con passo deciso sul sentiero. Il cavaliere non lasciava trasparire i sentimenti che covavano dentro di lui, restava semplicemente appoggiato con le mani sul pomolo della sella lasciando il cavallo libero.
«Che cosa mi hai fatto?», chiese improvvisamente spezzando il silenzio. La sua voce era apparentemente calma, ma trafisse la ragazza come fosse stata una lama di ghiaccio.
«Niente…», mormorò per risposta la strega.
Korvus si arrestò, «Non mentire», ora la voce lasciava trasparire dell’irritazione, «Che cosa mi hai fatto?»
Anche il cavallo di Vinya si fermò e lei lo fece girare per trovarsi di fronte a lui, «Non ti ho fatto niente, nessuna magia, nessuna stregoneria, niente!»
«Non è possibile», le sue mani si strinsero sulle briglie facendo scricchiolare il cuoio, «Ogni parte di me mi sta dicendo che sarei dovuto tornare con Gwar… dovrei essere all’Ultimobastione per combattere contro i Lupi e difendere la mia gente…»
«Quindi è questo che credi di essere venuto a fare?», la voce della ragazza ora era dura e tagliente.
«Non lo credo… lo so!», non aveva alzato la voce, ma le sue parole pesavano come macigni sulla strega.
«Non è vero», rispose veemente lei, «Tu non sei venuto su questi monti per difendere la tua gente», lo fissava negli occhi senza paura, «Non sei diventato un Dimenticato per proteggere i tuoi cari», il suo sguardo era determinato, «Tu sei venuto qui per morire»
Di nuovo il silenzio calò tra loro.
«Tu pensi di aver perso tutto», continuò Vinya, «Tu pensi di non avere più niente per cui vivere», sorrise, «Ma sei così arrogante che non ti rassegni a farti ammazzare subito, vuoi andartene da eroe… e quale posto migliore per farlo se non Ultimobastione…»
La strega fece voltare il suo cavallo e riprese il cammino al passo.
«Hai ragione», la voce di Pardisan echeggiò alle sue spalle.
Vinya arrestò il suo incedere, ma non si voltò.
«Sono venuto qui per morire», continuò il ragazzo, «E tu me lo stai impedendo»
La ragazza chiuse per un istante gli occhi con tristezza, «Non è ancora il tuo momento»
Korvus riprese ad avanzare ed il rumore dei suoi zoccoli rimbombò sulle pietre del sentiero.
«Venire con te mi condurrà a questo “mio momento”?», la sua voce era tornata distante ed atona.
«Si, se lo vorrai ancora, potrai scegliere di morire durante questo nostro viaggio», fu l’asciutta risposta della ragazza.

Quella sera si accamparono in una radura poco all’interno della Foresta Nera. Accesero un piccolo fuoco e consumarono una cena frettolosa senza scambiarsi una parola. Si era formato come un muro tra di loro.
Improvvisamente Vinya si alzò in piedi, immediatamente seguita da Pardisan.
Un istante dopo, con un ruggito gutturale, cinque orchi li attaccarono.
Pardisan aveva avuto solo un’occasione, nella sua vita, per vedere un orco. Era un giovane che era stato adottato da un cacciatore che era transitato da Guglia Perenne quando lui era un bambino. Anche se anche l’altro era poco più grande di lui gli era sembrato imponente e gigantesco.
Ora, vedendosi venire contro tre adulti pensava la stessa cosa.
Erano umanoidi alti circa due metri, con spalle e braccia possenti. Testa grande con un cranio dalle ossa molto spesse che conferiva loro un aspetto ottuso e ferino. Le gambe erano leggermente tozze, non fatte per corse in velocità, ma la loro potenza muscolare era ben visibile e doveva permettere loro una notevole resistenza. Vide che possedevano, come lui, cinque dita per mano con le quali impugnavano delle rozze lance dalla punta di ossidiana o delle mazze dalla testa di pietra. La pelle era pallida, leggermente verdastra, e sembrava fatta apposta per confondersi con la vegetazione della foresta. Due di loro avevano dipinto sulla cute delle vere e proprie maculazioni di un verde molto scuro.
Per sua fortuna non teneva mai le proprie armi troppo distanti da sé e così riuscì ad imbracciare spada e scudo prima che i tre gli si scagliassero addosso. Riuscì a parare con lo scudo un colpo di mazza, ma la violenza del colpo quasi glielo strappò dal braccio. La punta di una lancia si piantò nel cuoio sulla sua spalla e gli graffiò la pelle. Il terzo orco ostacolato dagli altri due non riuscì ad attaccare.
Tentò due affondi e si rese conto che quegli esseri non solo erano dotati di una forza molto superiore alla sua, ma erano anche estremamente agili.
Decise di concentrarsi solo su un avversario alla volta, ma sentì un urlo e quando voltò il capo vide Vinya stesa a terra ai piedi di un altro avversario.
Fece per raggiungerla, ma i suoi tre nemici gli sbarrarono la strada.
Avvertì un ulteriore ruggito, quasi più potente di quello che aveva sentito prima ed un sesto orco sbucò dalla boscaglia.
Questo era ancora più imponente degli altri ed era armato con una gigantesca ascia metallica dotata di una punta sulla cima dell’impugnatura.
Con enorme stupore del cavaliere l’orco si avventò sui suoi stessi simili.
Sembrava una furia, mai nella sua vita aveva visto tanta forza, potenza e destrezza nelle armi come in quell’essere.
L’orco muoveva la sua ascia, che doveva pesare moltissimo, come se fosse stata leggera come un drappo. Sembrava un’estensione stessa del suo corpo, come se fosse stata un ulteriore arto.
Il primo movimento tranciò la giugulare dell’orco che incombeva su Vinya.
Con il secondo piantò la punta nel cuore di uno dei suoi tre avversari.
Il terzo gli permise di aprire lo stomaco dell’altro avversario della sua compagna.
E con il quarto staccò di netto la testa di un altro aggressore.
Pardisan parve riprendersi dalla sorpresa ed agì affondando con la spada nella schiena sguarnita dell’ultimo orco facendolo stramazzare al suolo.
Rimasero solo loro due in piedi nella radura a guardarsi.
Entrambi impugnavano ancora le armi come indecisi se scannarsi a vicenda o meno, poi l’orco abbassò l’ascia e se la assicurò alla schiena tramite delle cinghie di cuoio grezzo.
Dopo un istante di esitazione anche il cavaliere rinfoderò la sua arma e poi si dedicò a far rinvenire la sua compagna di viaggio.
Quando lei si fu ripresa il ragazzo si alzò e guardò incerta il loro salvatore.
«Grazie di averci aiutato», si chiese se l’altro l’avrebbe capito.
«Tu non dovere ringraziare me», l’orco aveva una voce forte e gutturale ma comprensibile, «Loro erano su mie tracce ed avere assalito voi per mia colpa… mio onore impone me aiuta voi»
«Grazie comunque», intervenne la ragazza, «Vuoi fermarti a mangiare qualcosa con noi?»
L’orco sospirò, «Io dovere fermare e seguire voi», i due umani si scambiarono un’occhiata incerta, «Tu…», indicò Pardisan, «…avere ucciso mio nemico e tu fatto me grande favore ed io dovere restare per sdebitare»
Il cavaliere fece per parlare, ma la strega gli mise una mano sul braccio per fermarlo, «Per gli orchi l’onore è tutto», gli bisbigliò, «Non potresti dire nulla per fargli cambiare idea… e poi una guida fino al limitare della foresta potrà esserci utile»
«Mi chiamo Pardisan e lei è Vinya», li presentò il giovane.
L’orco annuì, «Mio nome è Berak del clan di Dorakt»
L’orco allineò a terra i cadaveri e li compose con gesti molto gentili. Dopo aver seppellito i morti, i tre si fermarono e terminarono di consumare la cena attorno al fuocherello.

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Capitolo 22
*** Capitolo 21 ***


Capitolo 21

«Perché ti inseguivano?», la voce del cavaliere era tornata calma e distaccata.
Berak sospirò, «Giusto voi sappiate», mormorò, «Io nato al villaggio di Dorakt a nord nella WeysTar, quella che voi chiamare Foresta Nera. Io guerriero figlio di guerrieri»

L’esercito degli orchi constava di venti elementi, quello degli umani di trenta.
«Sarà una grande vittoria!!!», urlò il capo, «Per il nostro onore!!»
Berak era stato ammesso alla battaglia per la prima volta. Stava di fianco ad un enorme orco che indossava una pelle d’orso come armatura ed impugnava un’enorme ascia. Era suo padre, Tukret, il campione del villaggio, l’unico che poteva usare un’arma di metallo.
La battaglia fu cruenta e sanguinosa. Molte vite furono stroncate dalla furia delle armi. Quando tutto volgeva a favore degli orchi un altro gruppo di umani sbucò dal sottobosco ed usò delle balestre. L’attacco colse di sorpresa gli avversari che caddero colpiti dai dardi. Quasi tutti gli orchi caddero, ma la sconfitta definitiva fu fermata da Tukret. Il campione del clan si lanciò contro i nuovi venuti, più di dieci ed a uno ad uno li abbatté tutti. Alla fine però crollò a terra ferito a morte.
«Padre hai combattuto con grande onore», Berak era giunto al suo fianco.
«Allora posso morire felice», rispose l’orco, «La gloria del clan è maggiore oggi»
«Grazie a te padre», rispose il ragazzo.
«Questa ora è tua», gli disse Tukret con l’ultimo fiato che aveva ancora porgendogli l’ascia, «Non permettere a nessuno di togliertela»
Lui la afferrò e da allora non la lasciò mai.


«Cinque lune fa io a caccia con Momok, capo villaggio. Quando calare la notte noi sentire grande rumore provenire da lontano. Noi correre nella WeysTar veloci. Quando noi giungere a Dorakt già alba e noi trovare tutto bruciato e tutti morti», disse quasi ruggendo per la rabbia, «Momok, secondo tradizioni, non essendo morto per difendere suo villaggio fa Dokot»
«Dokot è il suicidio rituale per riacquistare l’onore perduto», spiegò la strega e Berak annuì.
«Prima morire Momok dire me di vendicare clan ed io partire per cercare nemici. Io ucciso orchi di clan rivale ma alcuni rimasti ed inseguire me»
Tacque.
Vinya comprese subito che l’orco stava mentendo, ma non disse nulla. Se voleva avere dei segreti poteva tranquillamente averli, non erano affari suoi.
Il possente orco si congedò con un cenno del capo e si andò a sedere con le spalle ad un albero oltre il cerchio di luce del fuoco. Osservò i due umani preparare i loro giacigli e sdraiarsi a terra.
Sospirò.
Non era onorevole mentire.
Ma lui oramai, non aveva più onore.

Berak era il guerriero per eccellenza del clan.
Berak era il campione del clan di Dorakt.
L’unico che avesse l’onore di poter usare armi in metallo, tutti gli altri potevano solo usare armi in selce, ossidiana o pietra.
Era alto ed imponente, una montagna di muscoli ma in grado di muoversi veloce ed agile come un gatto. Ma non erano queste le caratteristiche che l’avevano reso il campione, lui era anche intelligente ed aveva una mente tattica eccellente.
Naturalmente la sua condizione l’aveva reso invidiato dagli altri appartenenti al suo villaggio, ma lui era forte e non ci faceva caso.
La sua condizione l’aveva anche reso un solitario.
Aveva legato solo con una coppia di orchi, Yaron e Salinar, promessi sposti sin dall’infanzia.
Berak si doveva dedicare giornalmente al mantenimento della tranquillità nel villaggio, alla caccia ed a sedare le dispute con gli altri villaggi tramite combattimenti rituali. Non gli restava molto tempo per fare altro e spesso questo poco tempo lo passava con loro due.
Poi, improvvisamente, come un lampo che taglia l’aria durante una tempesta, piombò nella sua vita Ferina.
Era un’orca molto più giovane di lui e molto bella, che, durante la Festa del Nuovo Inizio, aveva avuto l’ardire di avvicinarlo fingendosi sopraffatta dall’alcool contenuto nel sidro di mele. Erano finiti nella capanna di Berak a festeggiare e da allora avevano iniziato a vivere insieme.
Berak, fin da subito, aveva capito che non sarebbe durata. Lei era molto più giovane di lui e non prendeva bene il fatto che lui quasi tutto il giorno fosse fuori della capanna a causa dei suoi incarichi. E così lui scoprì che lei lo tradì.
Ma lui ci passò sopra, lei era abbastanza intelligente da non farsi scoprire da nessuno ed a lui stava bene avere qualcuno che lo attendesse la sera quando tornava alla capanna. In più pensava anche che lei fosse giovane e dovesse imparare cosa significasse avere un compagno fisso.
Yaron e Salinar, fino a quel momento suoi compagni inseparabili, iniziarono a smettere di frequentarlo. Quando lo incontravano, soprattutto Yaron, si prodigavano di dirgli che era uno stupido, che agendo in quel modo li stava perdendo e che Ferina era antipatica e stupida.
Berak si infuriò i primi tempi, come si permetteva di criticare la sua compagna senza conoscerla? Ma soprattutto perché criticava il fatto che lui si fosse trovato una compagna? Come potevano non capire che, almeno inizialmente, lui voleva cementare la sua unione con lei, magari sacrificando un po’ del suo tempo che prima dedicava a loro? Decise di soprasedere, perché riteneva l’onore sopra ogni cosa e l’amicizia che li aveva legati per lui aveva un valore grande.
Il tempo passò, i tradimenti terminarono, Ferina e lui, incredibilmente, divennero molto uniti.
Ma più lui si avvicinava a Ferina, più le critiche dei suoi amici aumentavano, sempre più immotivate.

Era un giorno dell’Alba del Grande Gelo, quando gli comunicarono che il concilio dei villaggi aveva deciso di abolire i combattimenti rituali.
Questa pratica consisteva in combattimenti non cruenti tra i campioni dei vari villaggi. Era la parte del suo ruolo di Campione che preferiva. Certo, non era mai stato un pacifista, era un guerriero e se c’era da stroncare una vita non esitava, ma preferiva di molto poter sedare le dispute senza spargimenti di sangue ed i combattimenti rituali servivano principalmente a quello. In più nei combattimenti rituali la tattica era la parte preponderante e lui eccelleva in quella dote.
Continuò il suo ruolo di campione, dovendo però dedicarsi quasi solamente a mettere in riga i giovani ed a sedare le risse.
Berak non la prese bene.
Per niente.
Ma per sua fortuna aveva Ferina che lo consolava ed ascoltava le sue lamentele quando tornava la sera alla capanna.

Poi, alla Venuta del Grande Gelo, Berak si scontrò con Doriv, un orco di un altro villaggio che si era aggregato al loro da non molto.
Lo scontro fu duro e si svolse sia sul piano fisico che su quello verbale.
Doriv non volevo sfidare il suo ruolo di Campione, semplicemente voleva dimostrare di essere un vero orco… ma per farlo non lesinò di usare modi non da orco… colpi bassi e modi viscidi e falsi.
Berak, che non l’aveva mai tanto considerato né stimato, gli tenne testa senza particolari problemi, ma si ritrovò a subire un notevole colpo nel morale quando scoprì che Yaron e Salinar si erano schierati apertamente dalla parte di Doriv. Il “tradimento”, feroce e cattivo, di quelli che considerava, nonostante tutto, i suoi migliori amici quasi lo abbatté.
Ma, ancora una volta, Ferina era lì ad ascoltarlo, consolarlo ed a dargli man forte.

Nonostante tutto, nonostante il suo ruolo non gli andasse più così bene e nonostante i suoi amici gli avessero voltato le spalle, era felice.
Iniziò a parlare a Ferina del futuro, progettando la possibilità di vivere un’intera vita insieme. Preso dall’amore che ora non temeva più di provare per lei non si rese conto che era ancora giovane. Si era innamorata di lui si, ma non era disposta ad abbandonare la sua libertà per farsi una famiglia.
Non si rese conto che lei fu colta dal panico.
Improvvisamente ricominciò a tradirlo.

Quando lo scoprì qualcosa in Berak si ruppe.


Nota: fine della prima parte della vita di Berak, nel prossimo il seguito. Scusate il ritardo nel postare il capitolo, da lunedì tornerò puntuale :)

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 ***


Capitolo 22


Nonostante il suo ruolo e nonostante gli orchi fossero esseri molto ferini, lui era sempre stato un passo davanti a tutti per il suo equilibrio e la sua capacità di domare le emozioni.
Ma, per la prima volta nella sua vita, vide tutto sgretolarsi.
Non aveva più il suo ruolo di Campione a rendergli la vita felice, non aveva più gli amici di un tempo ed ora anche l’amore lo stava abbandonando.
Come un tarlo nel legno, un’ossessione iniziò a bucare il suo cervello.
Voleva sapere con chi lo stava tradendo Ferina.
Nella sua mente il piano era semplice: se lo stava tradendo con un suo compagno passato poteva mettersi di fronte a lei e chiederle di scegliere tra lui e l’altro, ma se lo stava tradendo con uno sconosciuto… beh allora forse non era l’orca giusta per lui.
Il suo ruolo di Campione però non gli concedeva tempo per indagare e lui era ancora troppo innamorato di lei per spiarla di persona, cosa davvero poco onorevole ai suoi occhi.

E così incontrò il mezzo orco.
I mezzi orchi non erano un’altra razza o un incrocio di razze, erano solo il modo che avevano questi esseri per appellare coloro che non ritenevano degni. Un mezzo orco era un orco non in grado di combattere e non in grado di svolgere un ruolo utile nella società.
Un mezzo orco era un orco senza nessuna traccia di onore.
Berak lo incontrò di malavoglia, disarmato per non farsi riconoscere.
Il Campione raccontò di essere un cacciatore comune che voleva sapere se la sua compagna lo tradiva e se si con chi. Zokok, il mezzo orco, ascoltò con attenzione, era una cosa che lui poteva fare senza problemi, disse, era sempre stato bravo a passare inosservato.
Berak era soddisfatto, ma l’altro lo bloccò chiedendo un compenso.
Da mezzo orco non aveva mai potuto ambire ad avere una compagna e neppure vederne una senza veli, disse, se lui era così ansioso di avere i suoi servigi doveva provvedere.
Il Campione rimase basito, sentiva che quella che lui considerava la soluzione ai suoi problemi era a portata di mano ed ora gli sfuggiva via.
L’ossessione prese il sopravvento ed accettò, gli avrebbe mostrato una femmina.
Si accordarono di andare subito, visto che era l’ora delle polluzioni rituali.
Berak subito fu colto dal panico: le femmine effettuavano le polluzioni rituali in momenti prestabiliti della giornata ma in luoghi segreti. Solo i compagni di vita di loro potevano sapere dove e lui non voleva portare quel sudicio mezzo orco a vedere la sua Ferina!
Ma poi si ricordò che, una volta, Yaron gli aveva spiegato dove Salinar svolgeva le sue polluzioni.
Il pensiero di stare facendo qualcosa disonorevole fu sommerso dall’ossessione e così condusse Zolok ad osservare la sua amica.

Il giorno dopo fu molto pesante, dovette sedare due risse e per poco nella seconda occasione dovette uccidere uno dei due contendenti, poco più che un ragazzo.
Tornò alla sua capanna e la trovò vuota.
Ferina aveva portato via tutte le sue cose.
Fu colto dal panico e corse alla capanna che l’orca occupava prima di andare a vivere nella sua.
Inizialmente lei non gli rispose, fingendo di non esserci ma quando vide che lui non intendeva andare via parlò attraverso la porta.
Gli riferì che aveva visto lui ed il mezzo orco che spiavano Salinar. Lui tentò di spiegarle, ma lei non volle sentire ragioni. Disse che aveva avvisato Yaron e che lui era andato dal consiglio.
Berak ruggì con quanto fiato aveva in corpo.
Comprese di aver fatto un errore, un errore molto grave che aveva macchiato per sempre il suo onore.
Ma il dolore gli veniva dal fatto che Ferina avesse preferito raccontare tutto a Yaron, che non aveva mai sopportato, piuttosto che parlare con lui, anche solo per insultarlo.
Ed anche il comportamento del suo amico lo feriva.
Sapeva di avergli mancato di rispetto in maniera vergognosa, ma avevano cacciato insieme, combattuto ed ucciso insieme per anni, si aspettava che lui almeno gli chiedesse spiegazioni prima di denuncialo…
Ricacciò indietro tutto, forse non era mai stato veramente un suo amico.
Si rese conto che presto le guardie sarebbero giunte. Sapeva di non rischiare la vita, per quella colpa non c’era la pena di morte, ma sapeva che sarebbe stato macchiato per sempre.
Sarebbe diventato lui stesso un mezzo orco.
Ruggì ancora, la sua mano, istintivamente, afferrò il manico della pesante ascia e lo strinse. Non gli avrebbero tolto quell’arma. Quell’arma gli era arrivata da suo padre e lui l’aveva sempre difesa a costo di sangue, sudore ed onore.
Ma non poteva batterli tutti, perché sicuramente tutti sarebbero stati contro di lui.
Non gli restava che una cosa da fare.
Sospirò.
Si voltò verso la porta della capanna di Ferina, ben sapendo che l’orca era dall’altra parte di essa e gli sussurrò che l’aveva amata, con tutto il suo cuore e con tutto il suo onore.
Non le disse che lei l’aveva ferito in modi che non poteva neppure immaginare.
Si voltò e fuggì.




Note: spero che come storia sia abbastanza originale. Non volevo il solito orco rozzo tutto picchiamenti. Berak diventerà uno dei protagonisti della storia con Pardisan e la strega dei lupi ed insieme a... no niente spoiler! :-p

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 ***


Capitolo 23


Il gruppetto comandato da Rufus la mattina dopo smontò immediatamente il campo e si preparò a ripartire. Con la luce del nuovo giorno ad illuminarli, poterono vedere che i Lupi accampati nella valle sottostante dovevano essere molti più di diecimila.
Nessuno di loro ebbe voglia di parlare, semplicemente preferirono risparmiare il fiato per spostarsi più velocemente possibile. L’obiettivo era arrivare all’Ultimobastione in tempo per poter imbastire delle difese. Forse, con la certezza di un attacco di quelle dimensioni imminente i kasm, principi e governanti dei vari regni avrebbero mandato dei rinforzi.

Berak guidò i due umani con passo sicuro e veloce. La Foresta Nera, anche nel tratto da loro scelto per attraversarla, un tratto periferico, rendeva impossibile restare a cavallo così dovettero tirarsi dietro i due animali nell’intrico dei rami e cespugli.
L’orco li precedeva aprendo un sentiero con un lungo coltello di ossidiana e con la sola forza delle braccia. I suoi due compagni di viaggio non si scambiarono parole, mentre avanzavano dietro di lui.
Il cavaliere osservava l’enorme schiena della loro nuova guida, «Hai nominato molto l’onore», parlò improvvisamente, «Ma cosa è l’onore per voi?»
L’altro si voltò un momento a guardarlo poi tornò a dedicarsi ad aprire la strada, «Onore è vita per noi, onore è potere combattere con arma metallo», la sua voce era chiara e decisa, «Onore è procedere a testa alta. Onore è morire in modo glorioso»
Proseguirono per un momento in silenzio poi la voce di Pardisan tornò a farsi sentire, «Quindi tu stai cercando un modo per morire»
«Morire in modo glorioso», ribadì l’orco.
«Spero tu ci riesca… e spero di poter morire con te», mormorò il cavaliere.
Berak si bloccò voltandosi verso di lui, «Tu volere morire?», il ragazzo annuì, «Perché?»
La domanda colse di sorpresa Pardisan, «Perché non ho più niente per cui vivere»
L’orco scosse il capo, «Io non capire voi», bofonchiò, «Voi non vivere per onore come noi. Quindi io non capire perché tu volere morire»
«Te l’ho detto», rispose veemente, «Non ho più niente per cui vivere»
«Hai ancora tua spada», lo incalzò l’altro, «Hai compagnia di femmina», indicò la strega, «Hai ancora sole che scalda tua pelle…», scosse ancora il capo tornando al suo compito di apripista, «Io non capire voi…»
Pardisan abbassò il capo incerto restando in silenzio mentre lo seguiva.
A Vinya, che aveva osservato ed ascoltato il discorso in silenzio e leggermente distante, sfuggì un mezzo sorriso.

Gwar correva.
Era sempre stato bravo a correre, ma quella volta correva come se niente e nessuno potesse fermarlo. Non gli importava di essere avvistato, confidava nella sua resistenza e velocità per eludere eventuali inseguitori.
Scivolava tra le rocce come un fantasma.
Scivolava come l’acqua tra gli anfratti.
Non sentiva né freddo, né stanchezza, né paura.
Il suo unico pensiero era avvertire l’Ultimobastione in tempo.

Superarono la Foresta Nera in meno tempo di quello che avevano previsto. Era il mattino del secondo giorno di viaggio quando sbucarono dall’altra parte. Di fronte a loro si aprì un panorama nuovo, una grande pianura verdeggiante che si estendeva a vista d’occhio.
«Dobbiamo essere scesi parecchio», bofonchiò il cavaliere, «Eravamo sui monti ed ora siamo in pianura»
«Noi scesi molto, in WeysTar abbiamo andati in basso. Non si notare in buio alberi», rispose Berak.
Pardisan evitò di correggere l’orco sul suo parlare e si voltò verso Vinya che stava osservando la pianura attentamente. La ragazza notò lo sguardo dell’altro e lo guardò dritto negli occhi.
«Non sono mai stata in questi luoghi, ma l’elfo mi ha descritto una grande pianura», era determinata come non mai, «Siamo sulla strada giusta»
«Elfo?», il vocione dell’orco si levò alto, «Voi cercare elfi?», i due umani annuirono e Berak scoppiò in una fragorosa risata che pareva lo scrosciare di un’impetuosa cascata.
«La cosa ti fa ridere?», chiese piccata la strega.
«Io felice», rispose come se nulla fosse, «Perché se voi cercare elfi allora sicuramente io morire in modo glorioso…», spostò lo sguardo verso Pardisan, «E forse contento anche lui visto che anche lui morire sicuro», il tono di voce dell’orco era diventato leggermente canzonatorio pronunciando l’ultima frase.
Ripresero il cammino in silenzio, ognuno preda dei suoi pensieri.

FINE LIBRO PRIMO





NOTE: finita la prima parte (che ho pomposamente chiamato "libro" addirittura). Il secondo libro è ancora in divenire (nel senso che lo sto scrivendo), posterò ancora 3 capitoli, poi se l'ispirazione non arriva prenderò una pausa.
Mi scuso di questa cosa ma in questo momento Ellan non trova proprio idee...

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 ***


LIBRO SECONDO

Capitolo 24

Il mio nome è Akalos Kaiomai.
Questo nome l’ho scelto io, perché mi rappresenta.
Ma non sono sempre stata chiamata così.
Un tempo ero Gala Kalotere.
Ed anche quel nome mi rappresentava.
Ma questo non è importante, ora quasi più nulla lo è.
Osservo i due noren e lo weishtar da sette giorni oramai.
Stanno percorrendo la pianura da cinque, prima hanno attraversato la grande foresta e si sono incontrati.
Sono un gruppo strano.
Lo erano anche prima che lo weishtar decidesse di seguirli blaterando qualcosa dell’onore.
Quegli stupidi energumeni non pensano ad altro.
Il maschio noren e la femmina non paiono felici.
La femmina è determinata ed è lei a guidare il gruppo.
Il maschio è malinconico e dice di non avere più niente per cui vivere.
Stupido.
Come tutti i noren comunque.
Non sa cosa significa non avere più niente... non essere più niente.
Io lo so.
Non mi resta nulla… a parte la vendetta naturalmente.
Quello che mi ha incuriosita è il fatto che la femmina ha detto, quando con loro c’era anche il DiFeris, che stanno andando alla ricerca degli elfi.
Altrimenti li avrei ignorati, come ho ignorato tutti i noren in questi anni di esilio.
La loro ricerca cambia tutto naturalmente, soprattutto perché pare che sappiano veramente dove cercare.
E’ la mia occasione.
Ho sempre detto che la tradizione della Lontananza era solo una cosa stupida.
Ed ora a causa di un cucciolo ferito forse potrò tornare ad Ellanor.
E’ una sensazione strana.
Non voglio che l’illusione di poter giungere alla mia vendetta mi culli.
Devo restare salda altrimenti fallirò.
Resterò nell’ombra a vegliare su di loro e mi mostrerò al momento opportuno.
E se potrò rientrare ad Ellanor, i miei cari compagni ellantil, la mia gente, la pagheranno molto cara!

La pianura non mi rende le cose facili.
Riuscire a seguire quei tre senza farmi notare diventa ogni giorno più difficile.
Proprio ieri sono stata molto vicino ad essere scoperta.
Le mie “prede” erano appena scomparse dietro un leggero dislivello ed io mi sono fatta prendere troppo dalla foga. Così quando sono giunta quasi in cima ho sentito un rumore e mi sono resa conto che uno di loro stava tornando indietro.
Per mia fortuna l’erba era alta e sono dovuta restare immobile sdraiata a terra per un bel po’.
Ma non mi hanno vista.
In questo momento li sto tenendo al limite del mio campo visivo.
Per fortuna noi ellantil abbiamo una buona vista.
Beh gli ellantil hanno una buona vista, io, con questa cicatrice che mi attraversa la faccia devo fare affidamento solo su un occhio. Ma anche quello basta ed avanza.
I noren sono stupidi, non saprebbero vedermi neppure se sapessero che li sto seguendo.
Il weishtar è diverso ma è troppo intento a raccontare storie sull’onore e quindi riesco a sfuggire alle sue occhiate.
Devo anche controllare alle mie spalle, prima che facesse buio ho notato un gruppetto che li seguiva e non vorrei trovarmi tra due fuochi.

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Capitolo 26
*** Capitolo 25 ***


Capitolo 25


Erano le ore prima dell’alba quando subirono l’attacco.
Pardisan era di guardia e stava cercando di non cadere preda del sonno quando sentì un leggero rumore provenire dalle sue spalle. Si voltò e vide un uomo che brandiva un pugnale e che era quasi arrivato alle sue spalle. Si sollevò di scatto, evitando il colpo di coltello ed estrasse la spada urlando ai suoi compagni del pericolo.

Gli uomini bardati in nero stanno strisciando verso l’accampamento.
Il ragazzo che fa la guardia osserva il buio della notte e non si rende conto di quello che sta strisciando alle sue spalle brandendo un pugnale.
E’ incredibile come i noren non si siano ancora estinti visto che sembrano così ciechi.
Conosco gli aggressori.
Appartengono ad un gruppo di briganti che sta avendo molto successo in zona un po’ di tempo a questa parte. Credo provengano da est, molto lontano e si sono stabiliti in questo tratto del percorso depredando chiunque passasse.
La loro tattica è semplice quanto letale.
Eliminano le guardie, tramortiscono gli altri e poi rubano qualsiasi cosa.
Se le persone sono importanti chiededono anche dei riscatti.
Una rapina di quel genere e la morte del noren però potrebbe rovinare i miei piani.
Naturalmente a me non hanno visto, nessuno può vedermi se io non voglio.
Quando l’assassino è abbastanza vicino faccio un leggero rumore, abbastanza forte per far voltare il ragazzo.
Poi ripiego e sto a guardare.


Si affidò ad un fendente laterale a sferzare l’aria, senza pretese di colpire il suo nemico ma solo per allontanarlo. L’altro, che ora poteva vedere era completamente vestito di nero e portava una sorta di maschera sul volto, evitò il colpo con agilità e si mise in posa difensiva.
Si concesse un’occhiata alle spalle e vide che Berak stava brandendo la sua ascia e stava affrontando tre nemici simili al suo, mentre Vinya era arretrata brandendo il suo bastone incalzata da due uomini.
Il cavaliere non aveva mai visto una persona combattere in un modo simile al suo avversario; sembrava quasi danzare, facendo capriole e giravolte ed evitando sempre i suoi affondi. Non pareva avere armatura e questo gli permetteva di muoversi liberamente e velocemente.
Pardisan si rese conto che altri due uomini si erano affiancati al primo e si ritrovò a combattere sulla difensiva. Questi due, a differenza del primo, brandivano delle spade corte ed usavano la stessa tecnica di combattimento, fatta tutta di agilità, balzi e colpi veloci come serpenti.
Arretrò cercando di capire come agire e provò un tranello.
Finse di mettere un piede in fallo e barcollò.
Uno dei tre nemici gli si lanciò addosso con una capriola, credendo di poter finire un avversario impacciato ma lui non aspettava altro, ruotò il polso e spostò la lama facendola penetrare nel petto dell’uomo in profondità, poi riprese l’equilibrio liberando la lama dal corpo.
Gli altri due si fecero più guardinghi ma non smisero di incalzarlo.
Sentì un ruggito alle sue spalle e poi un tremendo tonfo, con enorme sorpresa vide che Berak era a terra privo di sensi. Apparentemente uno dei suoi avversari lo aveva colpito al capo con una specie di bastone che l’aveva messo fuori combattimento.
Vinya era con le spalle schiacciate contro un masso e si difendeva a stento.
Sentì un dolore lancinante al fianco e vide che un profondo taglio aveva squarciato la sua corazza di cuoio borchiato e del sangue scarlatto sgorgava dalla ferita.
Era bastato un istante di distrazione ed uno dei due nemici rimasti l’aveva colpito.
Un altro grido e vide che anche la strega era a terra, centrata allo stomaco da un colpo di maglio che l’aveva fatta cadere al suolo esanime.

La battaglia è bella, come tutti gli scontri in cui scorre sangue.
Gli aggressori adottano una tecnica di combattimento che mi piace, agile e veloce. Non si coprono di metallo come fanno i noren di qui.
Mi chiedo se anche loro siano veramente noren.
Una volta li ho visti senza le maschere che indossano e mi parevano tali ma con lineamenti diversi, più affilati ed occhi a mandorla.
Ma potrei sbagliarmi, i noren mi sembrano tutti uguali.
Il weishtar cade a terra con un tonfo.
Quel gigante tutto onore e “sono-il-più-forte-solo-perché-madre-Ellan-mi-ha-fornito-una-struttura-fisica-superiore” non può quasi nulla contro questi nemici che non si lasciano neppure avvicinare e che sono più agili di lui.
Anche la strega cade e questo mi lascia perplessa.
Perché non ha ancora usato i suoi poteri? Eppure è molto potente. Posso sentire la sua magia sopita pizzicarmi la pelle.
Mi volto di scatto verso il giovane che è ferito al fianco ed alla gamba.


Sentiva le forse fluire fuori dal suo corpo con il sangue che stava copiosamente perdendo.
Controllò la situazione e vide che vicino all’orco stavano due nemici, uno davanti al corpo di Vinya ed i suoi due. Quando erano tutti e tre in piedi ed in piena forma non erano riusciti a batterli come poteva farcela da solo?
«Forse oggi è un buon giorno per morire», mormorò Pardisan lasciando cadere a terra lo scudo ed impugnando la spada a due mani.
Si lanciò sul primo dei suoi due avversari facendo un plateale largo fendente laterale che l’uomo schivò facilmente, ma lui era pronto alla cosa. Quando questi schivò fermò il colpo e ruotò la spada colpendolo sulla fronte con il pomolo. Sentì un rumore di ossa rotte mentre il ferro penetrava nel cranio dell’altro ma lui continuò il movimento superandolo e lasciandolo cadere a terra.
Prima che il secondo nemico potesse reagire si accucciò estraendo un pugnale dallo stivale e lo lanciò. Ancora sorpreso dalla caduta del suo compagno fu colpito in pieno petto dal coltello e cadde.
Senza pensare si lanciò al centro dell’accampamento verso l’uomo che incombeva su Vinya.
Gli altri due nemici lo accerchiarono evitando accuratamente di avvicinarsi troppo e lasciandolo sfogare.
Pardisan combatteva senza tregua e senza quasi pensare, guidato interamente dalla furia della battaglia.
Il sole era sorto ad est ed i primi raggi stavano illuminando l’ambiente.
Però alcuni singoli nuvoloni neri si erano addensati proprio sopra di loro.
Uno dei nemici lo colpì ad una gamba e lui si ritrovò a zoppicare.
Nonostante la furia sentiva le forze venirgli meno.
Quanto sangue aveva perso dal fianco?
Ed ora ne perdeva anche dalla gamba.
Si ritrovò con le spalle alla stessa roccia vicino a cui era caduta Vinya.
Un pugnale gli si piantò profondamente nella spalla sinistra e lui perse subito la sensibilità su quel braccio.
Forse era davvero un buon giorno per morire.
Sentì una rabbia sorda scacciare prepotentemente quel pensiero dalla sua testa.
Strinse la mano sul manico della sua spada con forza tanto che sentì il cuoio dell’impugnatura scricchiolare.
Si era sempre ingannato.
Nonostante tutto non voleva affatto morire.
Ma se doveva proprio farlo, avrebbe portato con sé quei tre.
«STORMBLADE!», urlò con quanto fiato aveva ancora in corpo.
Sarebbe morto urlando il suo nome di famiglia.
Lanciando il suo urlo di battaglia.
Con enorme stupore vide che la sua spada stava brillando, la lama era illuminata da una miriade di piccole scariche elettriche.
Un tremendo tuono rimbombò attorno a loro.
Tre saette caddero dal cielo incenerendo i suoi avversari.
Guardò ancora per un istante la sua lama, poi l’oscurità calò sui suoi occhi.

Non sono preoccupata ma incuriosita.
Ora sento l’odore di altra magia e proviene da lui!
Tra l’altro una magia molto potente ma diversa da quella della femmina.
Questa è magia Torgil!
Tutto finisce in un lampo... letteralmente!
I nemici morti ed il ragazzo a terra privo di sensi.
La sua spada, non la toccherei neanche morta, giace immobile ed apparentemente inanimata a terra.
Come ho fatto a non accorgermi di un tale potere celato in quel pezzo di ferro?
Forse perché per me è così... innaturale.
Pensavo di essermi lasciata indietro questi preconcetti Ellantil, ma evidentemente sono ancora profondamente radicati in me.
Il weishatr e la femmina non sono in pericolo, hanno qualche taglietto ma i colpi che li hanno stesi erano non letali.
Il maschio invece è messo male.
Ha perso molto sangue dal fianco, ha un profondo taglio alla gamba ed un pugnale nella spalla.
Odio sporcarmi del sangue dei noren... a meno che non sia stata io a procurare le ferite.
Ma non posso lasciarlo morire, altrimenti potrebbero decidere di desistere.
Io non posso permetterlo.

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Capitolo 27
*** Capitolo 26 ***


Capitolo 26

Quando riprese i sensi Pardisan sentiva la testa ovattata.
I suoi occhi impiegarono diverso tempo a perdere quella specie di foschia che sembrava velarli. Si sollevò a sedere guardandosi il petto fasciato con delle bende.
Vinya gli si fece subito incontro accucciandosi al suo fianco, «Tutto bene?», la sua voce risuonò molto premurosa.
Lui le sorrise calorosamente annuendo, oramai tutto l’astio che aveva provato sembrava essere fluito via da lui con il sangue perso durante lo scontro.
«Cosa è successo?», gli chiese ansiosa la ragazza.
Lui raccontò come era proseguito il suo combattimento dopo che lei aveva perso conoscenza, «…poi la mia spada. Non capisco ancora, deve essere successo qualcosa…»
«La sua magia si è risvegliata», spiegò semplicemente la strega passandogli la sua lama avvolta in un drappo.
Quando il ragazzo tolse la stoffa che la avvolgeva vide che la lama era ricoperta da delle incisioni leggermente luminose che non aveva mai visto prima. Guardò Vinya confuso.
«Credo che sia magia dei nani», si accomodò sedendosi accanto a lui, «Non capita spesso però che gli esponenti di quella razza incantino delle armi per gli uomini»
Pardisan annuì, «C’erano delle leggende sulla spada di famiglia», si grattò il capo confuso, «Ma non vi ho mai prestato molta attenzione»
«Ma perché hai tu la spada del tuo casato? Non eri il secondogenito?», fece una pausa guardandolo negli occhi.
«Quando sono partita me l’ha donata mio padre», il ragazzo sospirò al ricordo, «Nonostante non avesse approvato la mia scelta decise di dare a me la spada invece che a mio fratello», il ragazzo si bloccò, «Berak?»
La strega sorrise in modo furbetto, «Da quando si è risvegliato sta meditando là dietro», indicò una roccia poco fuori dal campo, «Essere stato sconfitto così facilmente l’ha mandato in confusione…»
«Quindi devo ringraziare te per le bende», le sorrise ancora riconoscente, «Ed hai fatto un ottimo lavoro, nonostante le ferite mi sento molto bene»
Vide Vinya accigliarsi, «Non sono stata io a medicarti, credevo fossi riuscito a farlo da solo»
I due si guardarono confusi.

Da quando sono ripartiti sono molto più guardinghi.
Ora sanno che ci sono, anche se non sanno cosa aspettarsi.
Crederanno che io sia un angelo custode? O cosa?
E’ difficile ipotizzare, i noren pensano(?) sempre in modo così contorto.
Ma non è questo il problema.
Se continuano in questa direzione, domani pomeriggio arriveranno ad un villaggio. Tra l’altro un villaggio particolarmente grande.
Devo trovare un soluzione, non posso permettere che vi entrino senza di me altrimenti potrei perdere le loro tracce.
Maledizione a loro!
Spero ancora che, visto che si ostinano a portarsi dietro quel bestione dello WeishTar decidano di non andarci.


Il gruppo si fermò in cima alla più alta collina che avevano incontrato da quando avevano lasciato la Foresta Nera. Di fronte a loro, stretta dentro una serie di mura che la cingevano completamente, si presentava una città. Sembrava una grande città visto che non riuscivano a scorgerne completamente tutti i lati anche se si trovavano parecchio più in alto sopra di essa.
Pardisan sorrise mentre sul volto di Vinya apparve del timore. Subito il ragazzo si accigliò guardandola, «Qualcosa non và?»
Lei gli restituì uno sguardo determinato ma anche un po’ titubante, «Non sono mai stato in un posto così grande», sospirò, «I villaggi dei Lupi sono molto più piccoli e mai così… stretti!»
Berak proruppe in una sonora risata, «Quello Goldolille», spiegò, «In loro lingua significa “Città Abbraccio”, io stato in esso molte primavere fa»
«Questo implica che gli orchi sono accettati e che quindi potremo fare una sosta», il ragazzo sembrava propenso alla cosa, «Vi confesso che non vedo l’ora di dormire in un letto dopo tutti questi mesi passati all’addiaccio»
«Voi umani teneri», brontolò lo WeishTar, «Vostro dietro troppo molle»
«Almeno io che ho un didietro molle non mi sono fatto battere subito da quei briganti», rispose piccato Pardisan.
«No onore in loro», cercò di difendersi Berak, «Combattevano come scoiattoli impazziti»
«Ma erano scoiattoli letali», bofonchiò il cavaliere, «Visto come ti hanno battuto»
«Non colpire me in punto scoperto», lo ammonì bonariamente l’orco, «Questo non leale»
Sorridendo si avviarono verso la città.

Scesero lungo la collina verso la loro meta. A metà discesa l’orco e la strega proseguirono mentre Pardisan fece fermare Korvus e rimase immobile.
Attese che i suoi due compagni fossero molto più in basso poi parlò ad alta voce, «Esci fuori!», esclamò, «So che ci sei e non corri rischi con noi»
«Magari siete voi che correte rischi con me», la voce lo fece trasalire visto che proveniva dalle sue spalle. Non si era minimamente accorto che fosse così vicina anche se aveva teso i suoi sensi al massimo per percepirla.
Si voltò e vide che a parlare era una persona, completamente coperta da un lungo mantello verde scuro con tanto di cappuccio calato sul capo. Non sembrava particolarmente imponente ma questo non lo tranquillizzò, visto che i briganti che quasi li avevano uccisi tutti erano tutt’altro che degli omoni.
«Volevo ringraziarti», il cavaliere smontò di sella e si avvicinò alla figura.
«Non devi», rispose l’altro, «Se ti ho salvato è perché mi servite»
Il ragazzo si fermò, la voce era rauca ma gli pareva femminile. Anche le dimensioni minute gli facevano pensare di trovarsi di fronte una donna.
«Sei schietta vedo», sorrise, cercando di apparire calmo e, soprattutto, non minaccioso.
L’altra non rispose.
«Sono certo che se te lo chiedessi non mi diresti perché ci segui», studiò i suoi movimento ma lei non si mosse, «Posso chiederti di toglierti il cappuccio?»
L’altra rimase ferma ed in silenzio per un lungo attimo, «Sei sicuro di essere preparato a vedermi?», la sua voce risuonava ironica.
Il cavaliere annuì e lei, con un gesto secco, lo abbassò rivelando il suo volto.
Pardisan trasalì ma riuscì a mantenere un certo controllo.
Il volto che vide era tutt’altro che bello. Metà faccia era ricoperta da delle piaghe da ustione, oramai secche e che rendevano il volto terribile anche se l’occhio che circondavano era molto bello e di un verde intenso. Una cicatrice gli attraversava la metà ancora sana della faccia deturpandola, mentre quest’altro occhio era biancastro e vacuo. I capelli erano tagliati corti, quasi rasati e mancavano in alcune chiazze sempre dal lato ustionato. Le orecchie erano state mozzate, dal lato “sano” mancava completamente, dall’altro era solo un moncherino contorto. La bocca era l’unica parte quasi del tutto a posto e le labbra erano sottili ma ben delineate.
«Soddisfatto?», chiese con voce roca, mostrando che provava una sorta di morboso piacere a vedere le persone inorridire a guardarla.
Pardisan annuì, «Vieni con noi»
L’occhio sano della sua interlocutrice sembrava un serbatoio di odio ma aveva letto nel suo sguardo anche una profonda tristezza.
L’altra si calò nuovamente il cappuccio sul capo nascondendolo, «Perché?»
«Sono certo che ci seguiresti comunque», rispose schiettamente il ragazzo risalendo in sella, «E poi ti devo la vita»
La ragazza lo seguì emettendo un sonoro sbuffo.



Note: con questo capitolo Ellan va in "on hold" in attesa del ritorno dell'ispirazione. Ho qualche idea ma la mia musa ispiratrice non mi ha ancora dato la bicellata giusta all'immaginazione...

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