Granata e ceruleo.

di _aspasia_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capelli d'oro occhi di cielo. ***
Capitolo 2: *** Il peso di un nome. ***
Capitolo 3: *** Veritaserum. ***



Capitolo 1
*** Capelli d'oro occhi di cielo. ***


Era meravigliosa, e lo sapeva bene. Anzi, lo aveva sempre saputo e ci si crogiolava in quella sicurezza, perché è inutile quello che si dice che l’importante è essere belle dentro; avete mai visto un ragazzo che prima di parlarvi pensa a quanto interessante sia il vostro cervello? Tutti, nessuno escluso, prima di rivolgere la parola a qualcuno guardano l’aspetto fisico e poi ci si regola di conseguenza. Essere belle, e di quella bellezza disarmante e terribile che aveva lei, era la più grande arma che una ragazza potesse avere. Perché lei oltre ad essere terribilmente meravigliosa, era pure intelligente e maledettamente furba. Come una volpe, anzi, era proprio una serpe, che ti ammaliava con la sua eleganza, con i cuoi occhi magnetici e quando ormai eri alla sua mercé ti stritolava tra le sue spire. Perché lei non amava, si divertiva a giocare con le sue vittime e poi le lasciava nel loro dolore, distrutte e rideva di loro.
Era terribile, ma non per questo l’amava di meno.
Era proprio quel suo carattere impossibile, il suo essere incredibilmente pericolosa che l’aveva fatta innamorare di lei. Ma non l’avrebbe mai ammesso, neppure sotto un cruciatus, nemmeno se l’avesse fatto Bellatrix.
Non perché non si fidasse dei suoi compagni di casa, anzi, pensandoci bene anche per quello, a Serpeverde ci si parava le spalle, si incontravano veri amici, ma per nulla babbei; e solo gli stolti rimangano a combattere quando si accorgono che potrebbero rimetterci qualcosa. E tutto, poteva essere usato contro gli altri, perché in quella casa ci si preparava per il mondo reale, popolato da Mangiamorte, di tirapiedi, di doppiogiochisti; e non c’era posto per tutti quei bei sentimenti che i Grifondoro andavano decantando. La casa di Salazar era meravigliosa, ammaliante e terribile allo stesso tempo, come lei, e come il mondo reale.
Avrebbe potuto guardare i suoi capelli per giorni interi, erano semplicemente fantastici, sembravano fili di oro bianco. Non quell’oro giallo così pacchiano bensì quello bianco che riluceva nelle luce argentee della sala comune e quei fili lisci e morbidi le ricadevano sulle spalle e sul seno.
Il suo cuore cominciò a galoppare. Perché dannazione le faceva quell’effetto? Perché? Diamine, non poteva permetterselo, lei non doveva sentire dei sentimenti. I sentimenti inibiscono il cervello e bisogna sempre prima pensare, valutare tutte le possibilità e decidere se seguire il cuore sia una cosa conveniente o meno. E il suo cuore impazzito chiedeva una cosa impossibile, da suicidio. Se avesse detto quello che provava ai propri genitori l’avrebbero mandata in esilio, di peggiore vi era solo sposare un babbano! O anche un Sanguesporco.
Non avrebbero capito, come non avrebbero capito nemmeno i suoi compagni di casa.
Ma poi a cosa serviva crucciarsi su tali problemi? Lei non la degnava di uno sguardo, la considerava sua amica, sua confidente; ma nulla, nulla di più.
E lei moriva dentro ogni volta.
Avrebbe dato qualsiasi cosa per sfiorare quelle labbra rosse come le rose, rosse come il sangue. E la sua pelle diafana come la perla, e attorcigliarsi i suoi morbidi capelli intorno alle dita.
Era una tentazione, una tentazione enorme, terribile.
Sarebbe impazzita lo sapeva benissimo. Ma era così bello impazzire per lei.
Come poteva solo sperare che qualcuno la degnasse di uno sguardo? Lei con il suo colorito malaticcio e i capelli color del corvo, gli occhi piccoli e scuri; niente a che vedere con quegli sprazzi di cielo che aveva lei. Era il suo opposto fisicamente, quando invece erano totalmente simili.
Entrambe votate al successo, all’inganno, alla vendetta, ai sotterfugi. Per l’amore non c’era posto. E poi che cos’era quel sentimento che tutti agognavano e temevano allo stesso tempo? Una mera illusione, e una fine terribile per chiunque, anche quelli che prima di esso potevano vantarsi di essere i più saggi, i più cauti, i più calcolatori. Perché i sentimenti, tutti sono pericolosi, ma l’amore era quello più infido, perché inganna, ammalia ti toglie il fiato e la ragione e ti fa compiere azioni che non avresti mai immaginato. Non potevano correre nemmeno il rischio di pensarci, figuriamoci abbandonarvici.
La vedeva camminare per i corridoi con una grazia che lei non avrebbe mai avuto. Era l’orgoglio della casa di Salazar, persino il Barone quando la vedeva passare come se stesse fluttuando sorrideva. Perché Daphne a volte pareva inumana con quell’eleganza di altri tempi, sembrava essere uscita dal passato, da un tempo che le donne vestivano di merletti e guardavano i loro cavalieri morire. Idiozie, Daphne non avrebbe guardato, ne sarebbe stata l’artefice.
La sua abilità in pozioni e soprattutto nei veleni era inquietante, dannatamente pericolosa. E la faceva impazzire. Perché stare con lei avrebbe voluto dire vivere il pericolo, sentire l’adrenalina scorrere nelle vene ogni giorno. Stare con lei, poterla sfiorare sarebbe stata una sfida, ogni tocco un premio, ogni sbuffo uno schiaffo derisorio.
Ma non poteva nemmeno partecipare a quel duello che aveva quel demone biondo come premio, la vittoria era un’inutile illusione che era il suo miele più dolce ed il fiele più amaro.
Sbuffò, allontanandosi i capelli dal viso facendo una smorfia. Basta. Doveva smetterla. Era patetica.
“Cos’hai Pansy? Hai dimenticato di cruciare qualcuno?” le chiese sottovoce Nott nella Sala Comune.
“Fatti gli affari tuoi Nott”.
“Adorabile come sempre mia cara.”
L’occhiataccia che rivolse al ragazzo valeva più di mille parole, vi era il fuoco in quegli occhi, e la rabbia vi si leggeva chiaramente.
Uscì dalla Sala avventurandosi nei sotterranei, camminare le avrebbe fatto bene, le avrebbe schiarito le idee e calmato l’animo. La calma era quello che le serviva, ritrovare la sua calma glaciale, e totalmente micidiale.
Era il suo frutto proibito, e lei giovane Eva ne era ammaliata, per la sua bellezza e per l’amore della sfida.
I suoi passi risuonavano ovattati per i corridoi deserti, nessuno tranne i figli di Salazar percorrevano quelle vie; gli altri studenti preferivano rimanere nei piani superiori, al caldo, alla luce; dove tutto era pieno di vita e di rumore.
Stolti. Il silenzio è qualcosa che risuda magia, mistero. Esso è sacro e sarebbe meraviglioso poter vivere così, circondati da un languore perenne. Niente problemi, niente tristezza, niente amore e niente dolore. Amare vuol dire soffrire vero Pansy? È inutile quanto tu ti allontani, quanto tu voglia stare lontana da lei, tentare di dimenticarla, avere un po’ di pace. Non ci riuscirai mai, perché lei è più forte di te. Lo è la sua bellezza etera, lo è il suo sorriso terribile che sa di gioia e terrore. Lo è il suo profumo che sa di Bella di Notte, un fiore perfetto per lei.
Finirai al San Mungo se continui così e lo sai bene. Anche se la tua non è una ferita procurata dalla magia, o forse sì? È a causa di un filtro d’amore che passi le notti insonni, o è solo il tuo cuore arido per una vita intera che riprende a battere?
Non importa. Quello che servirebbe ora sarebbe un Tassorosso da maltrattare e forse allora si sarebbe tranquillizzata, distratta. Incredibilmente non ne aveva voglia. Doveva veramente stare male per rinunciare ad un sano momento di bullismo giovanile, lei che ne era la più fiera.
Girava l’angolo la ragazza dagli occhi di granata, e ad un tratto ne incontrò altri due, a lei fin troppo conosciuti, dal color ceruleo.
 
 

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Capitolo 2
*** Il peso di un nome. ***


“Cosa ci fai qui Pansy?”.
“Potrei farti la stessa domanda Daphne”.
Le due ragazze si affrontarono, occhi negli occhi, a testa alta, orgogliose fiere. Tuttavia non di quell’orgoglio spavaldo che caratterizza i Grifi, ma quello dato dalla consapevolezza che si è calcolato tutto, che il proprio intelletto riuscirà comunque a trovare una soluzione. L’orgoglio di sapersi preparati a tutto, l’orgoglio di sapersi superiori. Ma quando si scontrano due serpi chi delle due vincerà?
Si squadrarono e alla fine una rispose: “Cercavo il silenzio e qui è il posto perfetto. Tu Pansy?”
“Lo stesso. Volevo pensare”.
“Arrivederci Parkinson”.
“Arrivederci Greengrass”.
Daphne le passò di fianco, ondeggiando i capelli con la sua innata grazie a al cuore di Pansy mancò un battito. Perché tutto ad un tratto era passata ad usare il cognome? Le loro famiglie erano pari grado, purosangue, nobili. Gli uomini che avrebbero scelto i loro genitori per darle in sposa sarebbero stati soltanto il meglio dell’alta società magica. Peccato che lei non voleva un mago dal sangue millenario, lei voleva una strega con quel sangue. Una strega dagli occhi cerulei.
Non sapeva Pansy che poco lontano da lei quella stessa strega si stava maledicendo nel suo stesso modo.
Daphne Greengrass era sempre stata consapevole della propria bellezza, del proprio potere di ammaliare le persone, e ne aveva sempre approfittato, sarebbe stata una sciocca a non farlo. Sapeva benissimo che una bellezza come la sua accompagnata dal suo perfido intelletto era un mix micidiale, e si divertiva come non mai ad usarlo.
A volte le sembrava di non aver mai provato un sentimento anche lontanamente simile all’amore. I suoi genitori erano freddi, accompagnati sempre da mille etichette e dai doveri che comportava essere una famiglia potente come la loro. Sua sorella minore Astoria le riscaldava un pochino quel suo animo gelato, un tenero e lieve affetto, ma sempre molto pacato, lontano. Quasi impercepibile.
I ragazzi che aveva avuto nei suoi sedici anni era stati tutti suoi stupidi giocattoli. Le piaceva sedurli, vederli impotenti nelle sue mani, usarli in tutti i modi che riusciva ad ideare e poi a lasciarli soli, abbandonati. Con il cuore spezzato da quella regina dei ghiacci che era sempre stata.
Tuttavia da un po’ di tempo a quella parte qualcosa la muoveva dentro, ma non l’avrebbe mai ammesso, mai dimostrato. Lei era Daphne Greengrass, quella irraggiungibile, la ragazza dal cuore di pietra. Non poteva, non doveva concedersi il lusso di provare dei sentimenti che non fossero il disprezzo e la vendetta. E poi anche se si fosse concessa tale frivolo passatempo cosa ne avrebbe guadagnato? Nulla. La sua famiglia non avrebbe lontanamente approvato, magari diseredandola e cacciandola dalla comunità magica. Ripudiandola per sempre. E lei questo non poteva lontanamente accettarlo.
Lei era il suo nome. La sua famiglia, il suo passato. Lei era una Serpeverde , e ne era fiera. Le piaceva pensare che lei fosse la personificazione di quello che la casata vantava di essere. Elegante, calcolatrice e temibile.
Un sorriso soddisfatto le se disegnò sulle labbra, e se non fosse stato per quell’aurea di bellezza ed eleganza che le alleggiava sempre intorno sarebbe potuto sembrare più come un ghigno malefico.
Lei non si sarebbe piegata a quel muscolo che aveva nel petto. La sua mente era nettamente superiore.
Daphne sapeva quale sarebbe stato il suo destino; dopo la scuola si sarebbe sposata, un uomo scelto dal padre proveniente da una delle famiglie più potenti, ricche e di alto lignaggio del Mondo Magico. Lei avrebbe dovuto dargli un erede e poi vivere con la classica eleganza che caratterizzava le donne della famiglia Greengrass. L’amore, quell’inutile sentimento, non era lontanamente contemplato. L’amore è inutile, privo di qualsiasi ragionamento, filo logico. Distrugge qualsiasi cosa nel suo fuoco. Non lascia spazio alla ragione, e nel mondo reale non vi era posto per l’improvvisazione. Tutto doveva essere calcolato per poter ampliare i guadagni, e limitare le perdite.
Non si sarebbe concessa simile debolezza.
Mai e poi mai.
Il potere, la soggezione, le ricchezze e l’eco che avrebbe generato il suo nome le sarebbe bastato. Non aveva bisogno di simile frivolezze.
Non aveva bisogno di quegli occhi, di quei magnifici occhi color granata.
Era impensabile anche solo osare immaginare ad una vita con lei, senza che le loro famiglie le bandissero, senza che la loro vita cadesse a pezzi.
Sarebbe stata pronta a perdere tutto per lei? Per lei che a tutti pareva brutta, tranne a lei, perché Pansy aveva un tipo di bellezza diversa, nascosta. Aveva la bellezza di chi viene denigrata, di chi impara ad essere scaltro prima di bello; di chi sa sulla propria pelle che gli sguardi se li deve guadagnare con l’ingegno e non con il semplice apparire.
No non lo era affatto. E non lo era neppure Pansy, se mai anche lei avesse nutrito quel movimento nel suo cuore che odiava definire come amore. Nessuna delle due avrebbe mai rinunciato alla famiglia, al potere. Entrambe volevano la propria fortuna, il proprio successo. Insieme sarebbe stato un suicidio. Erano serpi, non grifi. Erano sagge, non stolte. Avevano paura, tremendamente paura.
Tuttavia non riusciva non pensare a lei, a quegli occhi profondi come pozzi infiniti. Era brava a nascondere i suoi pensieri, dissimulare le emozioni, la sorpresa, il desiderio. Erigere un muro di pietra per proteggere i pensieri, le opinioni. Le menti degli adepti di Salazar erano inespugnabili.
Tutti sarebbero rimasti all’oscuro di ciò che immaginava quando andava a dormire, adagiata mollemente nelle sue coperte di broccato e velluto. Nessuno. Solo lei sapeva com’era bello sognare di sfiorare quei capelli neri come la notte e baciare quelle labbra esangui. La sua sopravvivenza fondava sulla segretezza, soprattutto della diretta interessata. Se l’avesse saputo avrebbe potuto avere diverse opzioni: o l’avrebbe derisa e tutti l’avrebbero scoperto, la sua reputazione per sempre compromessa e la sua famiglia rovinata. Oppure l’avrebbe ricambiata, e avrebbe potuto toccare il cielo con un dito; ma questo avrebbe comportato il bando della sua famiglia, ed il disonore. In entrambi i casi avrebbe perso tutto, e la sua casata sarebbe stata ricoperta di disonore.
Non l’avrebbe permesso.
Mai e poi mai.
Non avrebbe rinunciato a tutto. Non per un sentimento sciocco ed inutile. Non per lei.
I suoi genitori non si erano mai amati; gli altri avevano scelto il loro matrimonio. Daphne aveva imparato fin da piccola che la purezza del sangue, il rispetto e la ricchezza erano virtù molto più potenti e allettanti dell’amore.
Lei non sarebbe stata la pecora nera della famiglia. L’unica ad abbandonarvisi, inebriandosi i sensi.
Non avrebbe ceduto.
Non sarebbero mai state così vicine, pelle contro pelle, labbra sulle labbra; occhi negli occhi.
Granata e ceruleo.
Ad un tratto però un’idea le balenò nella mente. Non doveva cedere all’amore, ma questo non voleva dire che non si potesse divertire.
La caccia era iniziata.
 
 

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Capitolo 3
*** Veritaserum. ***




Pansy era abbandonata su uno dei sofà verdi smeraldo della sala comune, le gambe dondolavano ritmicamente lasciando scoperto una parte delle cosce.
Sarebbe stata il suo nuovo gioco. Era una partita pericolosa e Daphne lo sapeva bene, poteva bruciarsi lei questa volta; ma sarebbe stata attenta, si sarebbe divertita e poi se ne sarebbe andata verso la sua strada. L’orgoglio dei Greengrass intatto.
Andò velocemente in camera e prese una boccetta dal suo armadietto ammirandola sorridendo malignamente: veritaserum. Ora la sua adorata Pansy avrebbe ammesso se anche lei provava qualcosa o se le era indifferente. Daphne era fiera di se stessa, il suo ingegno non la deludeva mai.
Prese la fiala, ormai era ora di cena e tutta la casata si sarebbe recata a mangiare, o almeno a tenere d’occhio le vittime dei loro scherzi con la scusa della cibo.
Pansy le era seduta di fianco, come sempre. Erano sempre state amiche durante quegli anni, non riusciva a ricordare quando l’aveva voluta come amante.
Senza farsi vedere versò un goccio della pozione nel bicchiere di succo di zucca della compagna, la cena era ormai finita e si stava per alzare decisa a tornare nelle loro camere.
Pansy bevve tutto il liquido, ignara di ciò che la Greengrass aveva ideato.
“Pansy vieni con me ti devo chiedere una cosa” sussurrò Daphne all’orecchio della ragazza trascinandola per dei corridoi deserti. Dopo qualche minuti finalmente trovò un’ala del castello totalmente deserta, fuori dalle finestre le stelle brillavano nel cielo.
La bionda si girò lentamente puntando i suoi occhi in quelli color granata della compagna.
“Pansy, io ti piaccio?”
“Sì”. Pansy cominciò ad impallidire, si accorse che non riusciva a mentire, era costretta a dire tutto quello che pensava, tutto quello che con immensi sforzi aveva chiuso nella sua testa.
Daphne sorrise. Sembrava una vipera che giocava con un topolino prima di ingoiarlo tutto intero.
“Bene. Pansy, io ti piaccio come amante vero?” si avvicinò al viso della ragazza dai capelli corvini, era vicina; pericolosamente vicina. Il suo alito sfiorava le labbra della compagna “ Mi vorresti baciare vero mia cara?”
Un singhiozzo strozzato provenne dal petto della ragazza schiacciata contro il muro. Era intrappola, non poteva scappare, non poteva salvarsi. Voleva piangere e disperarsi, era stata una stupida dannazione. Ma non la avrebbe dato anche quella soddisfazione. Non avrebbe pianto di rabbia davanti a lei.
“Sì”.
Un soffio, un sospiro. E Daphne aveva vinto, aveva avuto la prova che la ricambiava. Che non si sarebbe coperta di ridicolo. Che avrebbero bruciato insieme nell’inferno.
“Bene”.
E la baciò.
Le sue labbra, rosse come le rose di maggio si posarono su quelle di Pansy, esangui come le orchidee, sapeva di dolce la ragazza dagli occhi di granata, che rimanevano aperti sorpresi, fissi in quelli di Daphne. Nessuna delle due era disposta a chiuderli, perché avrebbe significato arrendersi a quella voglia che avevano dell’altra. Avrebbe significato consegnarsi liberamente al boia.
Forse non li avrebbero chiusi anche per il fatto che quello non sembrasse un sogno così a lungo agognato, che non sembrasse una fantasia già vista molte volte. Volevano guardarsi, vedere le reazioni dell’altra. Peccato che fossero due maestre nel celare le proprie sensazioni, non si lasciavano tradire dagli occhi.
La lingua di Pansy leccò leggera il labbro superiore di Daphne, che subito aprì la sua bocca ed il bacio divenne più profondo. Dopo quello che parvero minuti, ansanti si staccarono fronteggiandosi, anche dopo quel momento così intimo non riuscivano ad abbassare la guardia.
“Cos’hai messo nel mio bicchiere Daphne?” chiese Pansy.
“Veritaserum” rispose l’altra sogghignando.
Era stata scoperta da una pozione, una delle più potenti certo ma comunque era stato un suo errore. Imperdonabile. Si ripromise di non staccare mai lo sguardo dal suo calice, anzi, non l’avrebbe distolto da quel demone vestito da angelo che le stava davanti.
“Sei malefica”
“Lo prendo come un complimento cara”.
Era un gioco pericoloso quello che stavano intraprendendo, e lo sapevano bene. In quel momento c’erano in campo anche i loro di sentimenti, anche se non volevano ammetterlo. Una di loro, se non entrambe avrebbe rischiato di bruciarsi davvero, di soffrire realmente.
Ma il gusto del pericolo rende tutto più eccitante.
La Parkinson ammirava la compagna mentre camminava, era dannatamente meravigliosa, e baciava anche maledettamente bene; ma non si sarebbe fata prendere di sorpresa mai più. Non aveva intenzione di farsi prendere in giro, non da lei che lo faceva con tutti. Non voleva essere una dei tanti, lei era più scaltra; lei era migliore.
Con un movimento fulmineo le prese il polso facendola andare a sbattere contro il muro di pietra, e si avvicinò sempre di più inebriandosi del suo profumo.
“Cosa direbbe papà Greengrass, se ti vedesse in questo momento Daphne?”
“Lo stesso che direbbe il tuo Pansy” rispose l’altra guardandola altera.
“Siamo due famiglie purosangue e di nobile lignaggio, non dobbiamo sbagliare”.
“Non permetterò che il mio nome finisca nel fango”.
“Sai Daphne- disse avvicinandosi sempre di più fino a sfiorare le sue labbra, per poi passare al suo collo, candido come la neve. Ci posò le labbra in un bacio infuocato, Daphne emise un gemito soffocato. La pelle della Greengrass sapeva di buono; sarebbe potuta morire assaporandola. Leccandole la giugulare - non ti devi preoccupare. Lo vogliamo entrambe, questa cosa rimarrà tra noi due, e non verremo mai scoperte perché te ed io mio cara; siamo più scaltre e prudenti di chiunque altro.”
“Non voglio perdere tutto Pansy”.
“Nemmeno io Daphne. Nemmeno io.”
Si erano chiarite. Nessuna delle due voleva perdere l’oro, l’orgoglio e la famiglia. Erano pronte a sacrificare tutto, anche loro stesso per esso.
Passavano le loro giornate tra baci rubati, carezze nel buio, nottate insonni tra grovigli di lenzuola color smeraldo; ma sapevano che tutto questo sarebbe finito. L’ultimo giorno di scuola, sarebbe arrivato anche per loro, e si mormorava che non sarebbero tornate a scuola ma spose ai figli più illustri delle famiglie purosangui di Britannia, o persino qualche pretendente di Prussia. Quello che gli altri non potevano nemmeno immaginare era il fatto che essendo donne, nel mondo magico la loro relazione non era concepibile, erano al di sopra di qualsiasi sospetto. Quale marito si sarebbe rifiutato di ospitare la più cara amica della moglie? Nessuno. Nessuno, sapendo che ella fosse tra le famiglie dal lignaggio più alto, anche lei sposata con la crème della crème della società. La loro relazione era al sicuro, sarebbe morta con loro.
L’ultimo giorno di scuola del sesto anno era un giorno d’estate, e sapevano che tutto stava per finire. O meglio per avere un nuovo inizio, tuttavia non avevano ancora deciso, non ne avevano mai parlato se continuare la loro relazione clandestina al di fuori delle mura della scuola.
Dopo un anno era difficile dirsi addio, perché anche se avevano opposto una strenua resistenza erano finite per volersi bene. Il loro non era amore, ma nemmeno indifferenza. Era qualcosa di nuovo.
Quando il treno arrivò a Kings Kross le loro famiglie le aspettavano: austere, severe, tremendamente eleganti. In quel momento capirono che la loro storia non poteva avere futuro, anche da clandestine. Le mura dei palazzi hanno occhi ed orecchie ovunque, sarebbero state sicuramente scoperte anche se avessero usato il loro intelletto.
Si guardarono negli occhi, come la prima volta in cui si erano baciate e rividero tutti gli istanti passati insieme. Per la prima volta decisero di aprirsi all’altra, di mostrare quello che provavano.
I loro occhi dicevano le stesse cose: dolore, rassegnazione, determinazione.
Si erano amate dopotutto. Non riuscivano ad ammetterlo, nemmeno con loro stesse. Quello che non riuscivano ad identificare, quello che per loro era nuovo era amore. Non erano riuscite nemmeno a capirlo che già lo dovevano abbandonare per seguire il loro destino.
I loro occhi si incontrarono di nuovo, più lucidi, più sicuri.
Granata e ceruleo.
Per l’ultima volta.

 
 
 
  Se siete arrivati alla fine beh ne sono molto felice, spero vi sia piaciuta e spero che commentiate!!!! Per favooooooooore *.* Con affetto, Aspasia.

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