Il Patrigno di PattyOnTheRollercoaster (/viewuser.php?uid=63689)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Due al prezzo di uno ***
Capitolo 2: *** Mama's Fuckin' Lover ***
Capitolo 3: *** A cuore aperto ***
Capitolo 4: *** Nuove prospettive ***
Capitolo 5: *** Cambio di programma ***
Capitolo 6: *** Jet Lag ***
Capitolo 7: *** E invece... ***
Capitolo 8: *** New York! New York! ***
Capitolo 9: *** Dinamico ***
Capitolo 10: *** Sogni d'oro ***
Capitolo 1 *** Due al prezzo di uno ***
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Il Patrigno
Capitolo I
Due al prezzo di uno
La
prima volta che vidi Tess se stava in un supermercato a comprare degli
osceni cereali color rosa. Non osavo immaginare come doveva essere
mangiarli, affogati nel latte dovevano avere un aspetto alquanto
bizzarro. Tuttavia, non curandomi di quelle che potevano essere
rovinose abitudini alimentari, mi avvicinai ed esordii con un:
«Cacchio! Immagino che siano tanto cari giusto perché
trovare un colorante rosa digeribile dev’essere complicato».
Tess si volse verso di
me con aria scombussolata, come se non avesse affatto capito quel che
avevo detto. Poi scoppiò in una risatina e disse:
«Forse».
«Li comprerai
davvero? Hanno un’aria…», li osservai facendo una
smorfia, «disgustosa!»
Tess li guardò
a sua volta. «Tu dici? Vediamo che hanno dentro.»
Girò la scatola e iniziò a leggere velocemente:
«Avena, mais, zucchero, sciroppo di glucosio, sale, fosfato di
calcio…».
«Ahia!»,
esclamai allora alzando le sopracciglia. Tess mi guardò e io
indicai la scatola: «E’ quello, quello io non lo mangerei
davvero. Il… cos’è?», mi scappò una
sorriso, «fosfato di… glucosio?».
Tess rise e mise a posto la scatola, riprendendo le redini del carrello. «Mi hai convinto.»
«Menomale», commentai. Tesi la mano. «Piacere, Benjamin.»
«Tess»,
fece lei stringendomi la mano, aveva una di quelle strette decise ma
gentili, che non ti strapazzano troppo il polso.
«Fai sempre qui la spesa, Tess?», domandai, sinceramente interessato.
Lei si guardò
attorno per qualche secondo, come sospettando che fossi uno stalker che
la voleva molestare, ma poi parve aver deciso che non lo ero,
così disse: «A volte. Molte volte. E tu?».
«Veramente mai, è la prima volta che ci metto piede. Ma forse ci dovrei tornare.»
«Per i cereali
atomici.» Tess rise ancora, come se non riuscisse a smettere.
Più tardi imparai che rideva per delle sciocchezze e che quando
le veniva una crisi di riso ci metteva almeno dieci minuti a smettere.
«Ah, certo. Per
quelli, ma anche perché così, magari, potremmo
rivederci.» Non ero mai stato troppo bravo con le ragazze, ma
quella la buttai lì con tranquillità, tanto per provare.
«Appuntamento ai cereali per la prossima volta, allora.»
«Sarebbe perfetto», dissi entusiasta.
Il nostro primo
appuntamento non fu ai cereali rosa, per fortuna, fu in un ristorante a
Londra. Nel giro di due settimane scoprii diverse cose su Tess: faceva
la segretaria in uno studio dentistico e aveva la mia stessa
età. Per quanto avevo capito non c’erano uomini nella sua
vita che non fossero suo fratello maggiore e John Ronald Ruel Tolkien,
di cui aveva tutte le opere. Al supermercato avevo notato Tess
perché era una donna davvero bella ma pareva anche semplice.
Aveva i capelli biondi, gli occhi verde scuro, era un po’
più formosa delle attrici che avevo conosciuto a iosa negli
ultimi anni, ma questo le donava ancor più fascino. Le avevo
detto che lavoravo nel cinema, ma non aveva mai visto nessuno dei miei
film. Sinceramente non era una cosa che non mi aspettassi, dato che la
maggior parte delle produzioni con il mio nome erano film per ragazzi.
La cosa non la disturbò quando venne a saperlo, anche se mi
confessò di aver controllato la portata della mia fama su
internet. Per fortuna nessuna delle volte che eravamo usciti mi avevano
fermato per autografi o cose simili (in realtà per strada credo
di essere invisibile), e tutto quanto sembrava andare alla perfezione.
Fin quando non le chiesi se voleva diventare la mia ragazza.
Eravamo in una barca
che faceva un tratto di Tamigi, era sera e si vedeva persino qualche
stella fra le nuvole. Ci eravamo appena spostati dal bar sottocoperta a
sopra, e avevamo preso posto vicino alla punta più estrema della
nave – poppa, prua, non ne ho idea. Stavamo lì davanti e
mi venne in mente Titanic.
Non potevo competere con Leonardo Di Caprio, né per fama
né per fascino nel film sopracitato, tuttavia intrecciai la mano
di Tess con la mia e ci appoggiammo alla ringhiera di ferro, guardando
le onde che la piccola nave in miniatura formava sul Tamigi.
«Tess»,
chiamai. Lei si volse a guardarmi e fui certo, in quell’istante,
che era il momento giusto per chiederlo. «Mi piaci tanto, sai? Mi
piacerebbe che… mi piacerebbe se stessimo insieme.»
Gli occhi di Tess
guizzarono fulminei via dai miei, quasi terrorizzati. Lasciò la
mia mano e abbassò lo sguardo.
Certo che ho un intuito di merda.
Mi affrettai a
chiarire, sporgendomi verso di lei: «Guarda che se non vuoi va
bene. Cioè me ne farò una ragione. E’ normale, sono
cose che capitano. Possiamo restare amici, solo amici, tu mi piaci come
amica», parlavo velocemente, come se avessi fretta di farle
vedere che non ero poi così disperato. Lei scuoteva la testa.
«C’è qualcosa che non va?», domandai allora.
Tess alzò lo
sguardo e deglutì, mordicchiandosi un labbro, le mani giunte in
grembo. «Devo dirti una cosa.»
«Sei sposata.»
«No.»
«Sei malata.»
«No.»
«Sei un uomo!»
«No!»
Mi guardai attorno
umettandomi le labbra: alcune persone ci fissavano. Tess abbassò
la voce e sussurrò: «Ho una figlia».
Rimasi per un secondo
bloccato. Non sapevo bene cosa pensare, non sapevo se essere felice che
la cosa fosse una tale sciocchezza o essere spaventato perché,
in fondo, non lo era. Non andavo in cerca di relazioni usa e getta e
scoprire che una donna con la quale volevo una relazione seria aveva
già un passato – molto, molto presente – alle spalle
fu come un fulmine a ciel sereno. Potevo sentirmi in tanti modi in quel
momento, la gamma di emozioni provabili è vastissima. Ma quando
lo stupore finì e la mia mente si sbloccò allora sospirai
di sollievo, sorridendo. Per il momento ero felice che nulla si
frapponesse in mezzo a noi. «Tutto qui?», domandai
avvicinandomi a lei e prendendole entrambe le mani. Tess corrugò
le sopracciglia. «Cioè…», sobbalzai una
risata, «credevo fosse qualcosa di grave. Avevi una faccia da
funerale, sembravi l’urlo di Munch.»
Tess fece un sorrisino e domandò: «Sei assolutamente certo che per te non sia un problema?».
«Perché
dovrebbe?!» Mi strinsi nelle spalle, continuando a sorridere.
«Senti», proseguii per rassicurarla, «non ci
conosciamo da tanto e forse un giorno mi dirai com’è
andata, che ti sei ritrovata con una bambina, ma non importa
perché tu sei favolosa.
Cioè, voglio dire… non me ne frega niente quanti figli
hai, puoi anche averne cinquanta per quel che m’importa! Io
voglio stare con te lo stesso.»
Tess sorrise e ci baciammo per la prima volta. Fu magnifico.
Quando mi scostai le presi il viso fra le mani, e sorridendo le chiesi: «Come si chiama?».
«Melany.»
«Quanti anni ha?»
«Quattordici.»
In quel momento non
registrai alla perfezione il fatto, perché ero troppo preso da
strofinare con un minimo di dolcezza il mio naso contro quello di Tess
(sono un uomo romantico dopotutto), tuttavia una volta a casa feci due
conti. Significava che l’aveva avuta a soli sedici anni. Ma, cosa
più importante che ancora non avevo calcolato: significava che
dovevo guadagnarmi la simpatia di una ragazzina appena entrata nella
fase adolescenziale. Quando me ne resi conto erano quasi le due di
mattina e in quel momento, preso dall’euforia del primo bacio e
del fidanzamento, non pensai che doveva essere tanto complicato.
Ebbene, avrei presto scoperto che mi sbagliavo.
Avevo già
invitato Tess a cena da me due volte e tutte e due le volte avevo
tentato di cucinare un pasto elaborato, per poi finire inevitabilmente
per gettare tutto nella spazzatura e chiamare il servizio a domicilio
(anche se la seconda volta me l’ero cavata meglio ed ero riuscito
a preparare un dolce e un primo decenti). Un giorno, dopo essere andato
a prendere Tess al lavoro, mi fece una proposta.
«Ben, ti va di venire a cena di me? Così conosci Melany.»
Mi volsi verso di lei
piacevolmente stupito. Ero felice che volesse farmi conoscere la sua
famiglia, era una strana sensazione, un po’ come quando da
adolescente si dovevano conoscere i genitori della propria fidanzata
solo che la situazione era rivoltata al contrario. «Sì
certo. Quando?»
«Ti va Sabato sera? Ti aspetto per le sette, okay?»
«Perfetto, porto
qualcosa? Non so, da bere, un dolce…» Svoltai a sinistra
ed entrai in una strada meno trafficata.
«No, no, faccio
io.» Tess sorrise. «Le altre volte hai fatto tutto tu, sei
un ottimo cuoco.»
«Sì», borbottai guardando la strada.
Arrivammo a casa di
Tess e la lasciai di fronte alla porta con un bacio, diretto dal mio
agente che doveva parlarmi di una proposta di lavoro. Ero abbastanza
eccitato all’idea di conoscere Melany, da quando Tess mi aveva
detto della sua esistenza mi aveva parlato di lei diverse volte, ma
conoscerla sarebbe stato meglio, immaginavo. A volte fantasticavo e
pensavo che, se tutto fosse andato bene, allora forse io e Tess ci
saremmo sposati, e sarebbe stato come essere già papà.
Certo, non era proprio la stessa cosa, ma in un certo senso mi faceva
sentire elettrizzato, non mi dispiaceva per niente. Accettavo il fatto
che Tess fosse una donna con una sua storia alle spalle, ma adesso
c’ero io con lei e vi sarei rimasto per sempre se fosse dipeso da
me. Tess era la persona migliore che avessi mai conosciuto, ne prendevo
tutti i pregi e i difetti e, se stare con lei significava prendere
anche sua figlia potevo essere solo più entusiasta. Ci
immaginavo già come una famigliola felice che passeggia nel
parco la domenica, era una visione idilliaca splendente. Ma non poteva
essere più lontana dalla realtà, come scoprii quel Sabato
sera.
Alle sette in punto
avevo parcheggiato la macchina in una via non lontano da casa di Tess e
mi avviavo verso il portone del suo palazzo. Non avevo mai visto casa
sua ed ero curioso di vedere dove abitava, come viveva. L’avevo
immaginata spesso ad aggirarsi per stanze non ben definite, a cucinare
a fornelli inesistenti per quella nostra cena, e adesso finalmente le
mie fantasticherie avrebbero avuto una visione di contorno. Suonai alla
porta e Tess rispose, indicandomi un ‘secondo piano porta a
sinistra’.
«Ciao», la
salutai con un bacio e le porsi un fiore che avevo colto da un prato
pubblico. Non era così romantico come lo avevo immaginato, ma
almeno le avevo portato qualcosa. La verità era che ci avevo
pensato solo dopo essere uscito, siccome non volevo arrivare in ritardo
fermandomi da un fioraio (oltretutto non conoscevo bene la zona e
trovarlo sarebbe stato un colpo di fortuna) ripiegai per il giardino
pubblico, nascondendomi dal poliziotto che sicuramente mi avrebbe fatto
la multa. Ma era un rosa niente male.
«Grazie»,
disse Tess prendendola radiosa e facendomi segno di seguirla.
«Allora ti faccio fare un giro panoramico della casa, poi devi
darmi una mano a girare quel budino che non si vuole staccare dalla
forma.»
La casa non era molto
grande ma aveva tutto il necessario, in salotto una grande libreria
piena di Tolkien e di altri libri del genere, poi un piccolo bagno, la
cucina con un tavolo abbastanza grande per quattro persone e due camere
da letto, una delle quali sbarrata con un messaggio inquietante scritto
su una lavagnetta: Non aprite questa porta.
«Questa è
la stanza di Melany, te la faccio vedere ma non dirle che l’ho
fatto altrimenti comincia a parlare di privacy», disse Tess
agitando le mani come se parlasse di sciocchezze.
«Ma… lei dov’è?», domandai togliendo le mani dalle tasche.
«E’ fuori,
dovrebbe tornare fra poco, le ho dato l’obbligo di arrivare per
cena e di tenersi libera per questa sera. Di solito esce con gli amici
il Sabato e il Venerdì.» Tess aprì la porta e mi
mostrò quella che poteva passare per la stanza di Lucifero.
Un mucchio di poster
di gruppi metal e cd probabilmente dello stesso genere sparsi qua e
là, qualche libro sul letto, una marea di vestiti e tutto un
caos che nemmeno io, non esattamente un maniaco dell’ordine,
potevo sopportare. La scrivania con un pc portatile sopra era inondata
da trucchi e scatolette varie, invece l’unico angolo della stanza
a salvarsi era incastrato fra la scrivania e l’armadio, dove
c’era posato un porta cd a muro tenuto con una sorta di riverenza.
«Le piace musica?», domandai indicandolo.
Tess roteò gli
occhi sul soffitto. «Pure troppo. Non sai che tormento quando
mette uno di quei suoi dischi satanici, mi vanno le orecchie in
pappa!» Chiuse la porta della stanza e domandò: «Mi
aiuti con quel budino? E’ un impresa impossibile da soli».
«D’accordo.»
In cucina era tutto
pronto, la tavola apparecchiata elegantemente, la prima portata e tutto
quel che poteva servire già pronto in attesa che mangiassimo.
Mancava solo che quel maledetto budino si capovolgesse per poterlo
mettere su un piatto. Quando Tess mi mostrò la forma in acciaio,
fredda da frigo, mi domandai come si poteva indurre un budino a venir
fuori da quella scultura ad incastro. «Credo che dovremmo
metterla sotto il getto dell’acqua calda», proposi.
«D’accordo
proviamo», acconsentì Tess. Prese un piatto e lo
piazzò alla base della forma, poi aprì il rubinetto e
girammo il tutto un paio di volte sotto l’acqua bollente.
«D’accordo… tiriamolo su», fece Tess
ribaltando la forma. Io chiusi l’acqua e poi iniziai a scuotere
il povero budino. «Okay, okay», disse Tess tentando di
fermarmi, mentre sulle labbra le si formava un sorriso, «credo
che sia a posto».
Poggiai il budino sul
tavolo e alzai lentamente la forma, scoprendo un meraviglioso tortino
al cioccolato dall’aria deliziosa. Sorrisi soddisfatto e dissi:
«E’ venuto bello». In quel momento il budino cedette
e si spaccò letteralmente in due, scivolando da una parte e
aprendosi a metà. Il mio sorriso si sciolse, Tess piegò
la testa di lato con una smorfia.
Restammo in silenzio per qualche secondo finché non disse: «E’ un… pasticcio…
al cioccolato. Vedi?» Ci guardammo per qualche secondo e poi
iniziammo a ridere sui resti del dolce, che ci osservava massacrato dal
basso.
Quando ormai stavo
iniziando a sentire la fame, udii il rumore di una chiave che gira
nella toppa e mi preparai a conoscere Melany. «Ciao,
ciao!», disse una vocetta leggermente annoiata
dall’ingresso.
«Mel!»
Tess si avventò all’ingresso e sentii che parlavano ma non
mi diedi la pena di ascoltare. Decisi di lasciare loro un po’ di
intimità. Tess tornò in cucina sorridendo e disse:
«Questa è Melany. Melany lui è Benjamin.»
Ero pronto ad
affrontare di tutto, e devo ammettere che la mia più profonda
paura era quella che Melany fosse una sfegatata fan che non avrebbe
fatto altro che osservarmi con occhi languidi e domandare cose
già trite e ritrite sui film che avevo fatto. Ma nulla mi aveva
preparato a quanto avevo davanti: per avere solo quattordici anni era
una ragazzina abbastanza precoce, pareva averne almeno un paio in
più. Era alta per la sua età, mi arrivava già al
petto, probabilmente aveva preso da sua madre. Aveva capelli neri e
spettinati, probabilmente quelli erano del padre. Portava un chiodo di
pelle con sotto una maglietta leggera bianca e nera con il disegno di
una band, dei jeans scuri e lisi e degli anfibi neri. Mi guardò
con quello che pensavo fosse odio puro, scoprii solo in seguito che
quella era la sua perenne espressione di noia, in quell’istante
però mi raggelò. Melany lanciò la borsa a
tracolla, che a vederla pareva dovesse spaccarsi da un momento
all’altro, in un angolo della cucina. Fantastico, un’adolescente perduta. Mi mancava proprio qualcosa del genere, pensai amaramente.
Nonostante tutta
quell’ostilità palpabile nell’aria fui gentile e mi
avvicinai sorridendo. «Piacere, sono Benjamin.»
«Mel»,
rispose lei con tono piatto. La sua stretta di mano non era affatto
come quella di sua madre, era secca e forte, da staccarti le dita. In
effetti tutta quanta Mel ti dava l’idea che prima o poi ti
avrebbe staccato qualcosa, nonostante rientrasse nella categoria pesi
minimi.
«Allora possiamo
iniziare la cena, ho fatto le lasagne per primo Mel. Le piacciono
tanto, sono il suo piatto preferito», aggiunse Tess rivolta a me.
«Alleluia», mormorò Melany sedendosi mollemente su una sedia con le sopracciglia alzate.
Io andai ad aiutare Tess con
i piatti e quando fummo tutti seduti tentai di intavolare una
conversazione, a cominciare dall’argomento più semplice:
il cibo. «Oddio sono favolose, ma come fai?»
«Grazie. In
realtà è una ricetta di mia madre, è la
besciamella il segreto. Se vuoi ti do la ricetta.»
Quasi mi andò
di traverso un boccone particolarmente grosso. «No, non
importa.» Tess mi osservò perplessa. «La
verità…», iniziai, «è che io faccio
schifo ai fornelli.»
«E le due cene?»
«La prima ordinata, la seconda arrangiata», ammisi a malincuore.
Melany intervenne per
la prima volta, il che mi mostrò subito il suo carattere
estremamente machiavellico. «Quindi hai aspettato di essere alle
strette per rivelare il tuo segreto.» Lo disse con voce tanto
piatta e naturale che non ebbi l’impressione nemmeno per un
secondo che stesse scherzando.
«Be’, credo che
questo spieghi molte cose», disse Tess accennando un sorriso.
Distolsi lo sguardo allucinato da Melany e la osservai. «Ad
esempio perché c’era la cucina piena di contenitori del
take away.»
«Li hai visti!», esclamai contrariato.
«Quando ho portato tutto a lavare.»
Feci un sorrisino e
alzai le braccia in segno di resa. «Okay, sono patetico. Non so
nemmeno come si tiene in mano una padella.» Quando esaurimmo
l’argomento, ignorando l’uscita di prima, domandai a Mel:
«Allora Mel, che cosa fai?».
«Mangio», disse lei come se fosse ovvio.
«Ha appena iniziato il liceo», disse Tess.
«Ah», commentai soltanto.
Melany parve ritrovare
l’uso della parola. «E tu? Hai fatto la scuola? Che ci
racconti di te? Hai un passato torbido?»
«Oh», intervenne Tess, «E’ vero Ben, non mi hai detto niente».
«Mio padre ha voluto
che facessi l’università, ma almeno mi ha lasciato
scegliere la facoltà. Laureato in Arti Drammatiche e Letteratura
Inglese. Tu vuoi studiare qualcosa di particolare?», domandai
rivolgendomi a Mel.
«No.»
Certo non incoraggiava al
dialogo. Per fortuna che c’era Tess che cercava di riportare la
conversazione a livelli umanamente sopportabili. «Anche Mel
farà l’università. Deve solo trovare qualcosa che
le piace. Io da giovane volevo diventare archeologa.»
«Io da piccolo volevo fare il cantante in una rock band», ricordai.
«Davvero? Avrei giurato che avessi la faccia da astronauta», commentò Melany.
«E tu cosa vorresti fare?»
Lei scosse le spalle.
«Non lo so. Forse…» Lasciò la frase in
sospeso e riprese a mangiare come se nulla fosse.
«Forse?», la incoraggiai.
«Forse non lo so.»
«Hm, Mel»,
cominciò a dire Tess ritirando i piatti, «mi sono
informata su quel viaggio che volevi fare, ho parlato con Fatima, mi ha
detto che il padre di Nandika non vorrebbe mandarcela.»
Melany parve gettare
alle ortiche la sua facciata da ragazza scontrosa e cominciò a
dire: «Ma se Nandy lo convincesse?».
«Allora va bene, ma da sola non ti ci mando.»
«Non sarò da sola, ci saranno anche gli altri…», le ricordò con eloquenza Melany.
«Gli altri chi? Non li conosco nemmeno.»
Mel sbuffò sonoramente. Io mi sporsi verso di lei e domandai: «Vuoi fare un viaggio?».
Parve riluttante a
parlarne con me: doveva essere combattuta fra il tentare di trovare un
alleato per il suo piano e parlare con il nuovo fidanzato di sua madre.
Alla fine però cedette: «Si. Io e i miei amici volevamo
andare in America quest’estate».
«Ah davvero? Dove?»
«In New Jersey principalmente, ma se riusciamo vogliamo anche girare un po’.»
Tess la guardò con le sopracciglia corrugate. «Non se non va anche Nandika.»
«Chi è Nandika?», chiesi.
«E’ la mia
amica. Ha dei parenti in America e noi due andremmo a stare da
loro.» Melany si voltò verso sua madre. «Ma
perché non ce la vuole mandare?»
«Quest’estate probabilmente ci sarà il matrimonio di sua sorella.»
Mel fece una smorfia. «Ma dura un giorno solo!»
«Mel mica devi
dirlo a me, va a dirlo al padre di Nandy», fece Tess servendo
purè di patate e stufato di carne a quantità ingenti.
Melany sbuffò e incollò gli occhi al piatto.
Per il resto della cena non
fece che sporadiche domande, soprattutto a me, e velenosi interventi
che Tess rimbeccava con gentilezza. Non appena il dolce fu spazzolato
si fiondò in camera sua mormorando un ‘ciao’ a occhi
bassi. Restammo solo io e Tess, finimmo il vino rosso mentre parlavamo
sul divano e quando decisi che era ora di andare era già
mezzanotte passata. Tess mi accompagnò alla porta e, mentre
stavo sulla soglia, sospirò. «Scusami per Mel, non
immaginavo che sarebbe stata così dura questa sera.»
«Non
importa», dissi scuotendo la testa, «davvero non fa niente.
Immagino che le dia fastidio sapere che stai con un altro che non
è suo padre.» Tess sospirò in silenzio, gli occhi
fissi su un punto lontano. «Possiamo riprovarci lo stesso.»
Sorrisi e dissi: «Un giorno della settimana, uno qualunque:
così non rubiamo il Venerdì e il Sabato a Melany, ti va?
Venite tutte e due a casa mia».
Tess sorrise. «Possiamo fare qualcosa di diverso al posto della solita cena.»
Ci pensai su qualche
secondo. «Magari possiamo andare al cinema, e poi a mangiare
qualcosina. Una cosa veloce, in giro, al bar. Ti va?»
«Sì! Sì, facciamo… Mercoledì, sei libero?»
«Perfetto. Passo
a prendervi alle sette.» Mi chinai e le diedi un bacio, salutai e
uscii. Una volta fuori dal palazzo mi volsi e tentai di capire
dov’era la finestra di Tess. Al secondo piano c’erano una
sola luce accesa: un ombra sottile mi osservò per qualche
istante, la sua incertezza si poteva leggere fin dalla strada. Ci
osservammo qualche secondo, consci che nessuno dei due avrebbe mai
parlato di quell’episodio. Infine Melany tirò le tende e
dopo qualche secondo spense la luce. Mi volsi nell’aria fredda
della sera e m’incamminai verso la macchina.
Non c’era nessuno.
Buonsalve!
Allora, non che abbia molte cose profonde da dire, solo che il "Non
aprite questa porta" attaccato alla porta di una camera l'ho copiato
dalla stanza del mio ragazzo, che l'aveva appeso lì ed era un
po' inquietante xD E poi che il titolo della fanfiction proviene dal
film "Il Padrino", anche se modificato perché mi faceva ridere.
A parte questo, spero che qualcuno legga la storia e se volete recensite.
Mi sento in dovere di dirvi che questa non è una storia d'amore,
ci si concentra di più sul rapporto fra Ben e Melany. Poi, che
altro? Ah sì, ogni capitolo sarà da un punto di vista
diverso, siccome questo è di Ben il prossimo sarà di
Melany, e così via.
Ditemi un po' che ne pensate, saluti!
Patrizia
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Capitolo 2 *** Mama's Fuckin' Lover ***
II
Capitolo II
Mama’s fuckin’ lover
Tracciai un paio di righe sul foglio e poi iniziai con i
ghirigori. Perché prendere appunti? Dopotutto c’erano i
libri. Voltai la testa e a qualche banco di distanza dietro al mio e
incontrai la figura di Nandika. Lei si che è intelligente!,
mi venne da pensare in quel momento. Concentrata e attenta, la penna
volava sul foglio dalla quantità di parole che scriveva al
minuto. Un record che dubitavo chiunque potesse superare in quella
classe. «Denssom guarda la lavagna», mi voltai in fretta e
mi misi davanti il foglio sul quale qualche flebile appunto prendeva
vita, per poi essere puntualmente perduto o ignorato. Non vedevo
l’ora che suonasse l’intervallo, giusto per poter parlare
con Nandy del nostro viaggio, e per raccontarle com’era andata
con Il principe Caspian.
Per quattordici anni
ero stata maledettamente bene senza sapere chi fosse questo principe
azzurro, ma d’altronde che mi aspettavo da che faceva film
fantasy? Quando avevo visto mamma osservare le foto di quel tipo sul pc
mordicchiandosi un labbro e leggendo notizie, in un primo momento
pensai che si trattasse dell’ennesima caccia alle news sui film
del Signore degli Anelli. Che Tolkien fosse risorto per farne un
quarto? Cristo, no!, pensai
in quell’istante, perché Tess ha la brutta abitudine di
portarmi a vedere i film e non parlare d’altro per una settimana.
Però poi quando seppi che quello era un tizio che aveva
incontrato al supermercato e le aveva chiesto un appuntamento…
hm, quasi era meglio la resurrezione di Tolkien.
«Densson!»
Il prof di chimica mi richiamò di nuovo, la campanella
suonò, gli studenti si alzarono di corsa e così feci
anch’io, sperando di salvarmi. Vidi il prof sospirare e guardare
sconsolato lo sciame di alunni fuggire dalla sua classe.
Rimasi fuori in
corridoio fino a che anche Nandy non uscì dalla classe e assieme
ci avviammo agli armadietti. «Allora? Com’è andata
con Il Principe Caspian? Com’è?», domandò
Nandy interessata. Sapevo che a lei piaceva quel libro, e anche il
film. Io non sapevo nulla sugli attori o simili, ma Nandika mi aveva
raccontato tutto sul libro. Non ero una grande appassionata di letture
ma io e Nandy convivevamo in quel modo: lei mi parlava dei suoi libri e
io della mia musica. Eravamo un connubio di interessi perfetto e
opposto.
«E’ un
gran cazzone.» Nandy parve delusa: non sapevo se perché mi
credeva o per il contrario.
«Perché?»
«Perché si, era tutto un: uh! cosa vorresti fare da grande?», lo scimmiottai con voce mongola. «Insomma un… un… un pirla!»
Nandy parve
rifletterci su, ma poi giunse ad una conclusione: «Voglio
l’autografo di quel pirla». La osservai con se fosse matta.
«Andiamo! Cosa ti costa? Per favore fammi venire a casa tua un
giorno che c’è anche lui. Ti prometto che non gli
chiederò niente, solo l’autografo.» Avevo già
deciso per il sì, dopotutto avere Nandy vicina quando
c’era lui poteva essere un grosso vantaggio, e poi non volevo
certo negarle un’occasione del genere: sapevo quanto ci tenesse.
Esitai un po’ troppo però, così Nandika
continuò: «E dài! Immagina se mia madre uscisse con
Kurt Cobain! Non vorresti un suo autografo?».
«Ma non puoi fare paragoni: questo non succederà mai!»
«Hai ragione», disse Nandy pratica, «mia madre non uscirebbe mai con un americano.»
«E soprattutto con uno morto», precisai.
«Ah già, è morto.»
Nandika era indiana,
la sua famiglia era un po’ troppo tradizionalista secondo me, ma
lei si era adattata benissimo e riusciva a conciliare quasi sempre come
voleva lei la sua vita qui in Inghilterra con i desideri dei suoi
genitori. Era la mia migliore amica fin dalle elementari. Anche se
avevamo passioni radicalmente differenti e stili di vita quasi opposti
avevamo le stesse idee quasi su tutto, e quando le idee divergevano era
sempre bello parlarne. Nandika era calma e pacata, sempre sorridente
come se covasse dentro un segreto che la rendeva felice, come se il
mondo intero per lei fosse meraviglioso. Pareva che niente potesse
sconvolgerla. Riusciva sempre a vedere il lato positivo di ogni
situazione ed era una di quelle amiche che ti stanno affianco ad ogni
costo, sia per le cose insulse che per quelle più importanti.
Avrei voluto essere per lei quel che lei era per me; credevo di
riuscirci in maniera decente.
«Ma sì comunque, sì. Ti avviso la prossima volta che viene, ci mettiamo d’accordo.»
Nandy sorrise di un
sorriso più largo del solito. «Grazie! Wow, che figata:
conoscerò Ben Barnes. Dicono che fosse un fan di Narnia fin da
quando aveva otto anni.»
A quel punto fui curiosa: «Tu sai molte cose su di lui, non è vero?».
«Hm… sì, credo di sì. Un po’.»
«Qualcosa d’interessante? Che mi potrebbe interessare?»
«Aspetta, metto via i libri e intanto ci penso.» Nandy raggiunse il suo armadietto e io il mio.
Non usavo poi molto
l’armadietto, a parte per lasciarci dentro i libri per settimane
intere, almeno finché non c’era una verifica: allora me li
riportavo a casa per studiare un po’. Non mi piaceva troppo
studiare, mi annoiavo a morte, come tutti gli altri immagino: ma se
altri avevano la forza di volontà per continuare a tenere la
testa china sul libro, io riuscivo solo a tenerla appoggiata
al libro… mentre dormivo. L’armadietto era quindi per me
quasi inutile, se non fosse che lo usavo per i vestiti di ginnastica e
per i quaderni. Tuttavia quel giorno vi trovai dentro
qualcos’altro: un post-it giallo posato sopra il mucchio di roba
svolazzò a terra ai miei piedi. Qualcuno doveva averlo infilato
lì dentro attraverso una delle fessure dell’armadietto. Lo
aprii e lessi: sabato prossimo alle 10.00 War pigs. La grafia era grossa e disordinata, la riconobbi in un istante: Malachi.
Misi il bigliettino in
borsa sorridendo segretamente e tornai da Nandy. Nel momento in cui mi
vide cominciò a parlare; senza fermarsi. «Allora: Benjamin
Barnes è nato nell’81 a Londra, se non sbaglio. I suoi
genitori sono psicologi, o qualcosa del genere, comunque hanno a che
fare con la psicologia. Aveva un gruppo musicale quand’era
più giovane, gli Hyrise. Ha studiato a Kingston Arti Drammatiche
e Letteratura Inglese, poi ho cominciato la sua carriera di attore. A
questo punto avrei una domanda», concluse in fretta. La osservai
curiosa. «Non è che tua madre me lo cederebbe?» Feci
una smorfia. «Dài! Ha un curriculum fantastico! Insomma,
lo so perché me l’hai chiesto: speravi che avesse qualcosa
che non andava.»
«Mi bastava
qualcosa di piccolo: un disturbo dell’attenzione, una foto
compromettente con un pagliaccio e un trapezista mentre consumavano
atti osceni», mi lamentai.
Nandika chiuse a
chiave l’armadietto e mi osservò trionfante.
«E’ perfetto, non hai niente contro di lui.»
«Mi sembra di parlare come in un telefilm poliziesco.»
A mensa presi da
mangiare poca roba, non mi piaceva affatto il cibo della scuola, mi
faceva venire il voltastomaco. Solo alcuni piatti si salvavano
perché non potevano essere troppo precotti, cose come le verdure
(di cui la mensa non era così provvista), il purè di
patate e qualche tipo di polpetta. Quando fummo sedute e iniziammo a
mangiare mi guardai attorno per vedere se c’erano Malachi o uno
dei suoi amici. Non ne vidi nessuno e così stavo per raccontare
del bigliettino a Nandy quando notai che sul cellulare c’era una
chiamata persa di mamma. La richiamai.
«Pronto?»
«Pronto Tess. Mi hai chiamata?»
«Sì,
stamattina sono dovuta uscire prestissimo e non ti ho avvisata: hai
visto il mio bigliettino sul tavolo?»
Alla parola
bigliettino sussultai, poi mi diedi della patetica. Dio, non potevo
continuare a pensare al supposto bigliettino di Malachi in quel modo.
Chiusi forte gli occhi e dissi: «No».
«Vabbè.
C’era scritto di prendere il pane, il latte e il cibo per Hugo
quando torni. Ce li hai i soldi? Se non ne hai sono nel solito
posto.»
Sbuffai e risposi a malavoglia. «Ce li ho.»
«Ah Mel»,
mamma cominciò a parlare con un tono di voce particolare, potei
giurare che stesse sorridendo, «ieri non ti ho detto una cosa:
Mercoledì tieniti libera, alle sette Ben passa a prenderci per
andare al cinema e poi a mangiare qualcosa fuori.» Sgranai gli
occhi ma per il momento non trovai nessuna scusa plausibile per evitare
di andare. «Mel?»
«Ci sono», risposi velocemente. «Ah… okay.» Non trovai altro da dire.
«Perfetto. A stasera amore, ciao.»
«Ciao ciao.»
Misi giù e
osservai il cellulare, ero sconvolta dalla notizia improvvisa, ma il
mio encefalogramma rimaneva piatto: mi aveva uccisa. «Nandy hai
da fare per Mercoledì questo?», domandai.
«Non credo.»
«Allora puoi venire a casa mia a conoscerlo. Passa a prenderci alle sette.»
Nandika allargò gli occhi e sorrise. «Sul serio? Wow grazie. Dove andate di bello?»
La osservai accigliata. «Di bello? Non includo la parola bello se si tratta di lui.»
«Ah brave!
Parlavate di me!» Una voce ci raggiunse e voltandoci potemmo
ammirare Seymour, in tutto il suo splendore. Seymour era un amico che
avevamo conosciuto qui al liceo, così come Malachi. Al contrario
di me e Nandika credo che loro fossero amici perché avevano gli
stessi identici gusti. L’amicizia fra maschi è molto
diversa di quella tra femmine.
«Certo che
no!», protestò falsamente Nandika sorridendo.
«Parlavamo di Malachi, no Mel?»
Annuii vigorosamente. «Eh!»
In quell’istante
Malachi sedette affianco a me. «Ciao.» Incrociammo gli
occhi solo per un secondo, ma non gli parlai del bigliettino che avevo
trovato nell’armadietto. Fu come un tacito accordo.
Seduta alla scrivania
tentavo di capire come mai il mio pc non voleva saperne di scaricare
quel maledetto cd. Sbuffai un paio di volte, poi vidi Tess sgambettare
davanti alla mia porta in reggiseno e collant. Uno spettacolo davvero
inusuale da vedere per una madre, immaginavo. «Metti un po’
di musica che piace a me Mel?», domandò a voce alta.
«Subito», biascicai selezionando alcune cartelle.
Mamma tornava
dall’ufficio alle cinque del pomeriggio o poco prima, ogni giorno
tranne la domenica, quando il dentista era chiuso, e il lunedì
perché chiudeva alle tre del pomeriggio. Quel giorno era tornata
al suo solito orario, e pareva una questione di stato dover uscire
assieme a quel principe azzurro: era da un’ora che correva in
giro per casa lanciando magliette; per di più lei vestiva sempre
nello stesso modo: sobria, non troppo appariscente ma femminile.
Proprio mentre stavo
per dirle di lasciar perdere e di presentarsi all’appuntamento in
collant e reggiseno suonarono alla porta. Tess si voltò, gli
occhi spalancati. «Non può essere lui.»
«Tranquilla
ma’! E’ Nandy. L’ho invitata finché non arriva
quello: lei lo conosce, ha detto che vuole un autografo.» Aprii
il cancello e rovistai fra i vestiti scartati da mia madre. Mentre
Nandika ancora non arrivava ne scelsi uno che mi sembrava carino e
glielo misi in mano. «Perché non questo?»
Tess fece una smorfia,
ma lo indossò. «Non so cosa metterci sopra; ci vuole un
maglioncino, è sera.»
«Siamo a Maggio.»
«Ma è sera», ripeté.
«Ne vuoi uno
mio? Ho quello corto nero.» Mamma mi osservò perplessa.
«Vado a prenderlo, tu apri a Nandy.»
Quando tornai in
salotto dove mia madre stava facendo lo streap tease trovai Nandika e
lei che decidevano quali scarpe avrebbe dovuto indossare: dopotutto
Benjamin era abituato a vedere donne con i tacchi alti in tutte quelle
serate eleganti a cui di certo partecipava, ma era anche vero che lei
non indossava spesso i tacchi e non voleva dare l’impressione di
essere quella che non era, e ancora bla, bla, bla. Tutto quel
filosofare per il Principe Caspian! Secondo me non avrebbe notato la
differenza.
«Ecco qui.» Diedi a mamma la mini felpa e feci un cenno a Nandy dicendole di andare in camera.
«Buona fortuna Tess», fece lei alzando un pollice e sorridendo.
«Ah, grazie mille Nandy.»
Una volta in camera
abbassai il volume della musica e sedetti a gambe incrociate sul letto,
dove Nandy si era già sistemata com’era nostra
consuetudine fare. Non avevo ancora avuto il tempo di raccontarle del
bigliettino così, fremente, iniziai la storia: «Devo dirti
una cosa che è successa». Lei si sistemò meglio sul
letto, pregustando una notizia succulenta. «L’altro giorno
ho trovato un bigliettino nell’armadietto. E’ di Malachi,
ne sono sicura tipo al 90%. Dice di incontrarci alle dieci al War pigs
sabato prossimo.»
Nandy sorrise. «Davvero? Solo tu e lui?»
«Non lo so», feci una smorfia, «Secondo te?»
«Io credo di sì… Perché non glielo chiedi? Tanto per essere sicuri.»
«E se poi dice
che siamo in altri cinquanta? Poi capisce che volevo sapere se era un
appuntamento vero fra noi due.»
Nandika ci
pensò un po’ su. «Be’ non ha il diritto di
saperlo? Insomma uno ti lascia nell’armadietto un bigliettino
enigmatico e tu non puoi chiedere spiegazioni? E se fosse stato un
imbecille che non sapeva scrivere?»
«Ma Malachi sa scrivere!», protestai.
«Sì
comunque… Non c’è niente di male a chiederglielo.
Fai così: mandagli un messaggio con scritto che il suo
bigliettino era proprio una cacca, però dillo in modo
gentile.»
«Cioè?», domandai confusa.
Nandy ci pensò
e iniziò a inventare: «Scrivigli: ciao sono io eccetera,
allora… se è per una festa a sorpresa sappi che non
è il mio compleanno. Che dobbiamo fare? Chi c’è con
noi?»
«Hm buona idea», commentai con le sopracciglia corrugate.
«Poi vedi tu come va avanti. Ha detto Sabato prossimo? Non questo quello che viene?»
«Gli
chiederò anche questo per essere sicura.» Restammo un
attimo in silenzio e poi ci osservammo. Non potei fare a meno di
sorridere.
Nandy sapeva che era
dall’inizio dell’anno scolastico che mi piaceva Malachi.
Seguivamo la maggior parte dei corsi tutti assieme (tranne quelli che
avevamo scelto per conto nostro): Nandika, Seymour, Malachi e io. Prima
io e Nandy avevamo conosciuto Seymour e parlavamo spesso con lui. Poi
un giorno, mentre pranzavamo assieme, invitò un suo amico a
sedersi con noi così conoscemmo anche Malachi. Erano entrambi
molto simpatici e mi piaceva averli come amici. Seymour era alto,
ossuto e biondo, portava degli occhiali sottili e gli piacevano tutti
gli sport, era incredibilmente preparato su tutti gli sport del mondo.
Giocava a calcio in una piccola squadra e a quanto mi dicevano era
anche bravo. Io non capivo niente di queste cose certo, ma era sempre
divertente vederlo impegnato in conversazioni sportive. Anche a Malachi
piaceva il calcio, credo che si fossero conosciuti ad una partita. Era
più basso di Seymour e anche un po’ più robusto.
Aveva spalle larghe e i capelli neri che crescevano lunghi a ricci
cascanti. Quel che univa i due probabilmente era una sorta di rude
chimica maschile: la pensavano esattamente allo stesso modo su tutto, e
le loro famiglie non erano poi così diverse. Quel che invece
aveva agito su di me era il fatto che Malachi suonasse la batteria: da
maniaca della musica quale sono non potevo certo resistere ad un
musicista, anche se alle prime armi. Con il tempo avevo capito che
Malachi mi piaceva, c’era qualcosa nel suo atteggiamento che lo
rendeva affascinante, il suo viso mi pareva bellissimo e con lui ridevo
sempre. Uscivamo spesso tutti assieme, anche con altri amici, il
Venerdì o il Sabato sera, più raramente durante la
settimana perché la scuola, anche se non ci andavi matta come
me, era qualcosa di troppo impegnativo. Durante la settimana di solito
uscivo con Nandy, quando non faceva le sue folli maratone di studio.
«A questo punto
mi serve un consiglio…», cominciai a dire a Nandika. Lei
mi osservò attenta, di sicuro sperando che fosse qualcosa alla
sua portata per poter consigliarmi nella maniera più saggia
possibile.
«Dimmi tutto.»
Il campanello suonò.
Tess inciampò sul tappeto.
Nandy saltò giù dal letto.
Hugo alzò la testa rugosa.
«Sono Benjamin», mi informò la voce al citofono.
«Conosci la strada», replicai pigiando il pulsante di apertura.
In pochi secondi tutto
quel che era successo che aveva mandato la casa nel caos – anche
se francamente non capivo perché lui fosse tanto speciale da
sconvolgerci – andò al suo posto. Mamma si rialzò e
si sistemò il vestito, Nandika prese la sua borsa e si disse
pronta ad andare prima che noi uscissimo purché con il suo
autografo in tasca, Hugo abbassò la testa e scivolò
dentro l’acqua. In quel momento pensai di presentare a Benjamin
il nostro animale domestico: se non gli piaceva avrebbe perso un punto
agli occhi di mamma.
Infilai la mano nella
sua vaschetta e presi Hugo, aprii la porta e uscii nel corridoio.
Benjamin avanzava e quando mi vide sorrise, io mi fiondai sotto di lui
e gli misi sotto al naso Hugo. «Ti piace? Si chiama Hugo.»
Lui si ritrasse
d’istinto e poi osservò meglio la tartaruga fra le mie
mani. «E’ carino.»
«Solo?»,
domandai acida. Mi volsi verso casa e in quel momento mi ricordai di
avvisare Benjamin: «Ah, posso chiederti un favore?».
Sembrava riluttante,
ma la sua vena da adulto responsabile e superiore ad una ragazzina
parve prevalere. «Dimmi pure.»
«La mia migliore
amica… lei ti conosce, mi ha chiesto se potrebbe avere un tuo
autografo e io le ho detto di sì. Non è un problema vero?
E’ in casa adesso, ma se ne sta andando.»
Ben piegò
leggermente le labbra all’ingiù, poi disse: «Certo,
non c’è problema. Ma non dovresti prendere impegni per
altri».
Quel commento mi diede fastidio in maniera allucinante. Cosa credeva? Di essere già diventato il mio nuovo papà?! Chiusi gli occhi per non esplodere e mi fermai davanti alla porta, li riaprii e dissi: «E’ il tuo lavoro».
«Infatti ho
detto che non c’è problema. Ma è un consiglio in
generale.» Ben mi sorpassò dandomi una leggera pacca sulla
schiena e andò a salutare mamma.
Rientrai imbronciata e
rimisi Hugo nella sua vaschetta. Mi avvicinai a Nandy, che se ne stava
seduta in poltrona con la borsa sulle ginocchia, e le sussurrai:
«Meglio per te che non lo conosci altrimenti non saresti
più una sua fan».
Nandika mi
osservò con occhi severi. «Un giorno ti dirò cosa
ne penso, ora non mi pare il momento adatto.»
Sospirai e mi gettai
sul divano. Probabilmente c’era qualcosa che non andava, lo
sapevo benissimo. C’era qualcosa che era anche colpa mia. Tess
aveva avuto uno o due fidanzati importanti da quando ero piccola,
nessuno di loro mi era mai particolarmente piaciuto è vero, ma
con Benjamin era diverso e non riuscivo a capire il perché.
Sentivo di detestarlo più di qualunque altra persona, a pelle,
senza un motivo preciso. Nandika riusciva sempre a leggere questi
strani sintomi del mio comportamento, così come io riuscivo a
leggere i suoi. Speravo che avrebbe saputo essere un balsamo a questa
mia irritabilità, anzi: probabilmente lo sarebbe stato.
Nel frattempo Tess e
Benjamin stavano parlottando fra loro e alla fine Ben si volse verso di
noi sorridendo e venne a sedersi affianco a me sul divano. «Tu
devi essere Nandika», disse porgendo una mano alla mia amica, che
lo osservava estasiata.
«Sì.»
«E’ dalla prima volta che sono venuto qui che Mel mi parla di te.»
Nandy si girò
verso di me sorridendo compiaciuta. «Per forza, chi la salva
dalla sua autodistruttività altrimenti?», disse poi
ridendo. Ben rise assieme a lei e poi le firmò l’autografo.
A quel punto mamma
sbucò dalla camera da letto con la borsa in spalla e disse:
«Nandy vuoi uno strappo a casa?».
«Oh no, grazie
mille Tess sono due passi lo sai.» Nandy si alzò dalla
poltrona rimettendo a posto il suo autografo con la stessa cura con la
quale io trattavo i miei cd. «Ci metto dieci minuti.»
«A me non dà fastidio», disse Ben alzandosi a sua volta. «Se siamo pronti…»
«Dài Nandy, siamo di strada no?», domandai osservando mamma.
«Sì infatti.»
«D’accordo», si arrese alla fine Nandika.
Quando ci infilammo
tutti in macchina, Tess e Benjamin davanti e io e Nandy dietro, mamma
stava dando le indicazioni a Ben quando mi venne in mente che prima il
principino non se l’era presa con mia madre quando aveva preso
per lui l’impegno di riportare a casa Nandika. Sbuffai
contrariata e mi misi a guardare fuori dal finestrino. In poco
più di mezz’ora avevamo già lasciato a casa sua
Nandy ed eravamo dentro al cinema, a lottare per scegliere un film.
«Andiamo a vedere il nuovo film di Clint Eastwood», disse, in modo alquanto prevedibile per me, mamma.
«No, vediamo
Limitless», gracchiai soltanto. Mi gelai sul posto e mi volsi
lentamente verso Benjamin, che aveva detto esattamente la stessa cosa
nello stesso istante. Le nostre voci si erano fuse in qualcosa che
ritenevo innaturale e grottesco: qualcosa in comune.
Tess sorrise e mi guardò. «La maggioranza decide.»
«Vada per Limitless», disse Ben soddisfatto mettendosi in fila per i biglietti.
Lo osservai depressa
con le braccia conserte mentre faceva la fila, e sembrava così
dannatamente perfetto! Neanche un minuscolo difetto, nemmeno la
soddisfazione di scorgere in lui una seppur minima debolezza. Sbuffai e
rivolsi gli occhi altrove mettendo il silenzioso al cellulare.
«Andiamo»,
disse venendo verso di noi con tre biglietti in mano. «Sala
dodici.» Prese per mano Tess e io sbuffai nuovamente, ma
più piano in modo da non farmi sentire.
Il film pareva bello e
a metà tempo mamma mi aveva mandato a prendere i pop corn e da
bere. Non volevo neanche immaginare che cosa stessero facendo mentre io
non c’ero. Forse parlavano di me; parlavano male di me.
E ne avevano le ragioni, dovevo ammetterlo. Non ero fra le
personalità più simpatiche in quella sala. Quando uscimmo
dal cinema il cielo era nero e senza stelle, come se sapesse della mia
disgrazia e la volesse rendere ancora più cupa.
«Andiamo a mangiare qualcosa? Io ho fame, voi?», domandò Benjamin.
«Pop corn e coca
cola non sono il pasto più decente», confermò Tess.
«Dove vuoi andare Mel?»
«E’ uguale», bofonchiai mettendo le mani in tasca.
Fuori dal cinema
c’era una folla di gente, credo che fossero lì
perché era la prima serata di un film di cui non ricordo il
nome. In quell’istante un gruppo di ragazze poco più
grandi di me ci passò davanti e un bel po’ di loro si
fermarono a guardare Ben come se fosse un miracolo sceso in terra, un
arcangelo! Probabilmente Lucifero, pensai amaramente. Un paio di loro
osservarono mia mamma con stupore misto a disgusto o qualcosa di
simile, ma proseguirono e si voltarono ogni tanto a guardarci.
«Conosco un ristorante niente male. Nessuna di voi è vegetariana vero?»
«No», disse mamma. «Perché?»
«Perché
lì i piatti migliori hanno la carne.» Benjamin sorrise e
prese la mano di Tess. Ci avviammo alla macchina e poi in un ristorante
che aveva un aspetto rustico ma molto curato. Ordinai un piattone che
comprendeva carne ai ferri, patate al forno e insalata, e speravo tanto
nel vedere i piatti altrui che mi rimanesse un po’ di spazio
anche per il dolce. Per fortuna io sono una di quelle persone che
possono mangiare come bufali e rimanere magri. C’erano periodi in
cui non mangiavo quasi nulla perché non avevo mai fame, e
periodi invece in cui mi abbuffavo di tutto e di più.
«Com’è andata oggi a scuola tesoro? Che avete fatto?»
«Niente.»
Niente di interessante comunque. Ci pensai un po’, giusto per
animare la conversazione, ma poi mi venne in mente quel che mi aveva
Nandy sul nostro viaggio in America. «Ah ecco… il mio
viaggio è completamente partito.» Ben si volse verso di me
ma non disse nulla. «Il padre di Nandika le ha detto che
assolutamente non ci può andare. Faranno un sacco di
festeggiamenti tradizionali per il matrimonio di sua sorella.»
«Oh, mi dispiace
tesoro», cominciò Tess piegando la testa da un lato.
«Magari si potrà l’anno prossimo, ma sai che senza i
parenti di Nandika che ti ospitano non potremmo mai pagare un hotel, il
viaggio e le spese che farai una volta lì.»
Annuii e mi ficcai il bicchiere con la coca cola davanti alla faccia. «Non fa niente», biascicai.
La cena
continuò fra chiacchiere inutili che mi sforzai di stare a
sentire. Non successe nulla di eclatante finché non tornammo a
casa e Tess s’infilò subito in bagno prima di salutare il
suo nuovo uomo. Io e Benjamin stavano seduti sul divano, e non so
nemmeno perché ci ostinassimo a farlo. Io non volevo parlare con
lui e lui non voleva parlare con me. Non sarebbe stato strano se gli
avessi detto “ciao” e mi fossi chiusa nella mia stanza. In
fondo quella era casa mia e potevo fare come volevo. Stavo quasi per
farlo quando lui parlò. Imparai presto che Ben aveva la grande
capacità di tirare fuori gli argomenti più spinosi nelle
situazioni più drammatiche.
«Melany, io ti sto antipatico vero?»
Lo guardai dalla mia
posa scivolata sul divanetto e alzai un sopracciglio, solo per poi
distogliere in fretta lo sguardo. «Sei l’uomo dei sogni:
attore e pure intelligente.»
Benjamin fece un pallido ghigno. «Voglio pensare che tu sia simpatica sotto sotto.»
«Pensa quello che vuoi.»
«Senti…», Ben si chinò in avanti verso
di me e parlò con sicurezza, «Non so perché ce
l’hai tanto con me e sinceramente credo di non averti fatto nulla
per meritare così tanto disprezzo.»
Mi volsi verso di lui,
stupita, ma non avevo parole in bocca da riversargli addosso, avevo il
cervello bloccato, come al solito quando si trattava di avere la
risposta pronta.
Ben continuò,
imperterrito. «Io non voglio mettermi fra te e tua madre, capito?
E non voglio nemmeno farle del male comportandomi come uno stronzo,
okay? A nessuna di voi.»
Mi faceva sembrare una teenager psicopatica con quel discorso. «Ascolta un attimo coso…»,
cercai le parole da dire e poi sputai fuori: «Non sono una
patetica ragazzina che vuole tenersi la mamma tutta per sé,
d’accordo?».
«E allora
perché fai così?», domandò Ben esasperato
stringendosi nelle spalle e indicandomi con tutte e due le mani.
«Io non…»
In quel momento la porta si
aprì e Tess uscì fuori dal bagno. Ci zittimmo e
risistemammo in una parvenza di apatia, mentre mamma veniva in salotto,
beatamente ignara dell’astio che correva fra noi. «Senti
Mel, perché tu e Ben non vi scambiate il numero di cellulare?
Così se mi cerchi puoi anche chiamare lei», aggiunse
rivolgendosi a lui.
Senza il coraggio di dire di no presi il telefono e scrissi il numero, nominandolo sotto Mama’s-fuckin’-lover.
Era venerdì
sera ed ero appena tornata dal tradizionale giro assieme a Nandy,
Malachi e Seymour. Feci una doccia in silenzio e indossai il pigiama.
Sotto le coperte infilai le cuffie dell’i-pod e presi in mano il
cellulare. Erano quasi le due quando finalmente decisi di mandare un
messaggio a Malachi. C’era scritto “Se per caso quella di
Sabato è una festa a sorpresa sappi che non è il mio
compleanno. Che ci andiamo a fare al war?”. Malachi. Invia.
La risposta
tardò di qualche minuto. “Se ti mando un bigliettino
è perché è una sorpresa. Ti do un indizio: Rolling
Stones.”
I Rolling Stones erano
uno dei miei gruppi preferiti. Ce n’erano parecchi, è
vero, ma loro stavano su un podio. “Ora sì che è
tutto chiaro. Chi c’è con noi?” Sperai che la
domanda sembrasse del tutto casuale.
“Nessuno. Ci vediamo Sabato prossimo allora! Ciao!”
Scrissi in fretta la
risposta e feci scorrere la rubrica fino alla lettera M. In
quell’istante pensai di udire un rumore, tolsi gli auricolari nel
buio e rimasi con le orecchie tese. Non udii nulla. Rimisi gli occhi
sullo schermo del telefono, pigiai il destinatario e inviai il
messaggio.
Alle 10 al war pigs sabato prossimo.
Buonsalve. Allora, da oggi in poi cercherò di aggiornare ogni domenica, spero di farcela.
Mi piace il personaggio di Nandika, il rapporto fra lei e Melany
è simile a quello che c'era fra me e una delle mie più
care amiche (non che ora non siamo più amiche, però non
abbiamo più quindici anni ed è leggermente diverso xD).
Comunque nessuno dei personaggi è ispirato a qualcuno che
conosco u_u
Allora, questo è il primo capitolo dal punto di vista di Mel, e
spero che vi sia piaciuto. Ho deciso di fare questo cambio di
prospettive perché pensavo che sarebbe stato carino entrare
nella testa di entrambi i personaggi, per mostrare quanto la pensano e
reagiscono diversamente anche se sono nella stessa situazione.
Be'... non ho molto altro da dire, quindi ci vediamo settimana prossima ^^
Patrizia
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Capitolo 3 *** A cuore aperto ***
Capitolo
III
A cuore aperto
“Alle 10 al
war pigs sabato prossimo.”
Sono al War Pigs, sono le dieci, è Sabato, e sono
davvero prossimo ad entrare e vedere che succede perché sto
aspettando da venti minuti, pensai.
Quasi alle tre del mattino di settimana scorsa
Melany aveva avuto la bella idea di mandarmi un messaggio. Voleva
vedermi. Mi chiesi se per caso se la fosse presa per quella mini
discussione che avevamo avuto. Be’… a conoscerla
quel poco che la conoscevo io probabilmente sì, se
l’era presa parecchio. Mi stupiva lo stesso però
il fatto che volesse incontrarmi. Anche se capivo perché
aveva deciso di farlo in un luogo lontano da casa sua e soprattutto da
Tess. Quando c’era lei quasi non parlava, non aveva nemmeno
il coraggio di guardarmi negli occhi; invece se lei non c’era
le battutine sarcastiche le defluivano fuori dalla bocca come un fiume
in piena. Aveva solo quattordici anni ma era cazzuta in maniera
insopportabile, avrei preferito quasi che fosse una fan scatenata.
Immaginavo che da grande sarebbe diventata il capo di molte persone, e
tutti avrebbero avuto paura di lei.
Stavo seduto sul marciapiede di fronte al War Pigs e bevevo
birra. Era la seconda da quando ero arrivato. Non sapevo se essere
nervoso o preoccupato, ma la verità era che mi sentivo solo
curioso e leggermente irritato. Sembrava di giocare ad uno stupido
gioco per ragazzini, una sorte di caccia al tesoro. L’unico
motivo per cui non ero completamente a terra era che, almeno, nel
locale c’era una cover band degli Stones.
C’era un po’ di gente fuori dal locale e
proprio di fronte a me stava un ragazzino che parlottava con un tipo
con la barba e gli occhiali. Questo gli passò qualcosa e lui
gli diede un paio di banconote. Il tizio si volse verso di me e tolse
gli occhiali da sole. Se mi ero chiesto di sfuggita come mai li
portasse anche di notte fu tutto chiaro quando incrociai i suoi occhi:
rossi di vene e irritati come se avesse pianto tutto il giorno. Feci un
sorso più profondo degli altri e gettai l’ennesima
occhiata alla strada. Fu in quel momento che vidi arrivare Melany da
lontano, vestita con più cura del solito.
Il ragazzino di fronte a me che aveva
comprato… qualsiasi cosa avesse comprato, alzò lo
sguardo e si avvicinò verso di lei a grandi passi. Fu come
se un campanello d’allarme avesse iniziato a suonare forte
nella mia testa. Per un secondo pensai che volesse farle qualcosa e mi
alzai di scatto dal marciapiede, poi invece vidi che si salutavano e
che il ragazzo le metteva un braccio attorno alla spalla. Rimasi
confuso di fronte al locale e rilessi il messaggio che mi aveva mandato
Mel, girandomi di scatto verso la parete e incurvando le spalle, in un
tentavo di farmi più piccolo. Non potevo sbagliare, era
quello il luogo e il giorno. Ma non credevo che Mel mi avesse invitato
ad una festicciola con gli amici. Nel frattempo i due si erano infilati
dentro il locale e io mi affrettai a corrergli dietro. Li individuai
nella massa di gente e stavo avanzando a spintoni fra un folla di
persone ammucchiate quando all’improvviso mi fermai. Mi venne
in mente che forse io non sarei dovuto essere lì, che forse
era tutto uno sbaglio. Che senso aveva che Melany mi domandasse di
uscire con lei? Mi odiava! Forse aveva solo sbagliato a pigiare i tasti
del telefono.
Mi ritrassi e andai al bancone. Ordinai la mia terza birra e
rimasi a guardare Mel con quel ragazzo. Più volte fui
tentato di andarmene, perché non era giusto stare
lì a guardare e poi se non fossi stato lì avrei
avuto altre mille cose interessanti da fare! …più
o meno.
Passò quasi un’ora; mi ero
già scordato di Melany e ascoltavo la musica assordante che
non era niente male. Mi riscossi quando vidi il ragazzino di prima
ordinare al mio fianco due birre, pagare, e tornarsene da Mel. Immagino
che fossero quelle analcoliche, oppure quelle a basso contenuto di
alcol. I due risero un po’ ad un tavolo, con lei girata che
mi dava le spalle, poi il ragazzo tirò fuori dalla tasca una
fiaschetta e ne versò qualche goccia nei bicchieri di
entrambi. Rimasi a guardare come instupidito, senza sapere bene cosa
pensare.
Il ragazzo si chinò su di lei e la
baciò. Distolsi lo sguardo. Quando li osservai di nuovo
erano già accanto alla porta del locale e si tenevano per
mano. Non ero completamente lucido e conscio di quel che stavo facendo,
non a causa della birra più che altro a causa di un blocco
psicologico. Mi alzai e li seguii, senza nemmeno darmi la pena di
nascondermi o qualcosa di simile, come se fossi stato James Bond.
Quando fui fuori dal locale mi guardai un po’ attorno e li
scorsi in un angolo, semi nascosti e pigiati addosso ad un portone. Si
fecero scivolare a terra, seduti, la schiena contro il legno e in mano
quella che poteva benissimo essere una canna.
Li osservai per qualche secondo e poi mi girai
dalla parte opposta e cominciai a camminare, pensando al giro lungo che
avrei dovuto fare per arrivare alla macchina per non passare loro di
fronte.
Il cellulare squillò e io alzai gli
occhi dalla mia colazione e risposi. «Ben sono io.»
Allyson Foster, la mia agente.
«Ciao Ally, novità?»
«Ascolta, sei interessato ad un
colloquio per una particina piccola piccola?»
«Dipende da cosa si tratta»,
dissi io allontanando il pane tostato e concentrandomi sul
caffè.
«Un cosa da un paio di settimane. Per un
film sulla malavita di New York, ma dai toni drammatici più
che thriller. Tu sei il figlio di una specie di superstar mafiosa. Da
quel che ho capito muori alla prima scena, fai un paio di apparizioni
in flashback e tutto s’intreccia sulla trama. Taxi!»
Scostai l’orecchio perché
Ally non mi massacrasse un timpano. «Dove sei?»
«Vicino a Regent’s Park, sono
appena stata dal produttore. Ti porto il fascicolo con tutte le cose
appena posso.»
«Anche ora se vuoi», dissi.
«Ora no non posso Ben mi spiace, devo andare a
prendere Jamye a scuola, si è sentito male e le insegnanti
hanno chiamato in ufficio. Fammi un favore, facciamo per pranzo
okay?»
«Come vuoi, offro io. Ti va se ci
troviamo al JK?»
«Perfetto, all’una.»
«D’accordo. A dopo
Ally.» Riattaccai.
Una nuova parte non sarebbe stata niente male. Era
da mesi che ero fermo. Da un lato questo non mi dispiaceva
perché dopo un film rilassarmi e fare una pausa andava bene.
All’inizio di questa carriera che non sapevo se sarebbe
continuata mi piaceva l’idea di avere tante produzioni che
riempissero il calendario di tutto l’anno, ma dopo qualche
anno passato proprio in quel modo scoprii che faceva bene avere una
pausa ogni tanto.
All’ora di pranzo ero già
dentro al ristorante e aspettavo Allyson. Quando arrivò
ordinai un’acqua grande per entrambi e solo un primo.
«Allora, di che si tratta?», domandai abbozzando un
sorriso.
«Questa è la cartella con
tutte le cose che devi sapere, il copione ancora non ce l’ho
ma… cosa ne pensi? Da quel che ti ho detto.»
«Da quel che mi hai detto credo che vada
tutto bene, sì mi piace. Però prima lo leggo e
poi ti so dire okay?», dissi mettendo via la cartellina.
«Come si chiama?»
«Beyond
Marshall.»
«Di grande effetto.»
«Se lo dici tu.» Allyson si
servì da bere e gettò un’occhiata ad
una cameriera. Ally aveva trentatré anni, un marito, un
figlio, un cane grosso come un criceto ciccione e un deficiente come me
per cliente. Non avrei mai potuto fare a meno di lei, era la mia
salvezza. «Hm…», posò il
bicchiere e mi informò, «devi andare a New York,
immagino che tu lo sappia già.»
«Sì,
sì… quando?»
«Iniziano a girare a Luglio
ma…»
«No, no, dico… il
provino», precisai.
«Non c’è un
provino. Ti stanno offrendo la parte.»
Rimasi un secondo zitto e poi mi appoggiai allo
schienale della sedia. «Ah.»
Ally sorrise. «Se dici di sì
sappi che inizi a metà Luglio circa, forse prima, a New York
ci rimani due o tre settimane al massimo. Già che ci siamo
pensavo di approfittare del viaggio per fare un'altra cosa.»
Annuii per dirle di continuare. «Ti va di fare
un’intervista per Radio Live Explosive?»
«Ma sì, perché
no?», dissi scrollando le spalle. «A New York, va
benissimo.»
Continuammo a parlare del film per tutto il pranzo,
già che c’ero lessi l’intero fascicolo e
accettai non ufficialmente la parte. Si sarebbe occupata di tutto
Allyson, come al solito. Non dovevo muovere un dito, solo abbandonare
il mio accento incredibilmente inglese.
Quando tornai a casa la sera un messaggio sulla
segreteria del telefono mi attendeva lampeggiando sotto forma di numero
rosso. Pigiai un pulsante e ascoltai Tess che mi chiedeva del nostro
prossimo appuntamento e mi informava che Venerdì andava a
casa di un’amica, invece il week end era libera come
l’aria.
Presi la cornetta del telefono e la chiamai.
Segreteria telefonica. «Ciao Tess sono Ben.» Dovevo
dire per caso: ‘sono
io’? Quand’è che si
può iniziare a dire ‘sono io’? Come fai
a sapere che l’altra persona sa che sei tu? «Passo
da te Sabato dopo cena okay? Noleggio un film, ti va? Mandami un
messaggio così mi dici se ti va bene. Ciao.» Non
sono mai stato troppo sdolcinato, e ringrazio il cielo che nemmeno Tess
lo fosse. Magari se lo fosse stata non saremmo mai finiti assieme.
Passai una giornata intera su internet a cercare un film da
vedere ma mi venivano in mente solo film troppo idioti o troppo
impegnativi. Quando alla fine ne scelsi uno scoprii che il
videonoleggio vicino a casa era chiuso così lo scaricai
– cosa che non faccio spesso perché soffro di
deficienza informatica – e lo misi su un cd.
Sabato prima di uscire feci la doccia, infilai tutte le mie
cose nei jeans, diedi un’occhiata veloce alla posta e poi la
gettai in un angolo. Mi infilai in auto e mi diressi a casa di Tess.
Come se fosse una persecuzione, a pochi isolati di distanza da casa sua
vidi due figure che camminavano vicine. In una di loro scorsi Melany, e
con lei c’era il ragazzo dell’altra sera. Mi
accostai a loro con l’auto e loro si volsero verso di me.
«Ciao Mel», salutai con una
mano.
Il ragazzo mi osservò sospettoso come
se fossi un maniaco e per un istante mi venne in mente di ricordargli
che non ero io quello che comprava fumo per sé e la sua
fidanzata.
«Ben.» Melany si chinò su di
me e strinse gli occhi. Inspiegabilmente cominciò a ridere.
«Vai a casa mia Ben?», domandò come se
la cosa fosse esilarante. «Allora non ci torno. Almeno per le
prossime quattro ore.»
Notai in quel momento che aveva in mano una bomboletta
spray. La indicai con un gesto e domandai: «Mi ci vuoi
rovinare la macchina con quella?».
Mel la osservò confusa. «No.
Certo che hai davvero poca immaginazione, tu.» La mise in
borsa e vidi il suo amico fissare gli occhi addosso alla macchina come
incantato.
Allungai una mano fuori dal finestrino e la tesi
al ragazzo. «Piacere, Benjamin.»
Lui si riscosse e la strinse.
«Malachi.»
Lo guardai negli occhi e vidi la parte bianca attorno
all’iride colorata di un leggero rosso. Il mio sguardo corse
allarmato verso Melany ma vidi con sollievo che i suoi, di occhi, non
avevano nulla che non andava. Sentii distintamente il fiato alcolico
però quando mi parlò vicino al finestrino. Non
capii che cosa diceva. «Cosa?», domandai.
«Ho detto ci vediamo Ben.
Ciao.» I due si volsero e se ne andarono senza aspettare il
mio saluto.
«Ciao», mormorai guardandoli
camminare sullo specchietto retrovisore. Ingranai la marcia e ripartii.
Per tutta la serata fui una specie di morto
vivente e ringraziai il cielo che dovessimo vedere un film. Per ben due
ore di pellicola fui combattuto se raccontare tutto a Tess o lasciare
che se la sbrigassero da sole. In fondo io non c’entravo
ancora quasi niente con quella famiglia, mi dissi. Ero completamente
estraneo ad ogni loro meccanismo di convivenza e a dirla tutta non
volevo nemmeno tirarmi addosso le ire di Melany. Già mi
odiava così, e non vedevo perché farmi odiare
ancora più profondamente.
Tuttavia alla fine del film il mio cervello fu
scosso da altro. Tess si alzò e andò a lavare il
vassoio con le patatine che avevamo fatto fuori, e io andai a lavarmi
le mani. Ci incontrammo mentre mi asciugavo e mentre lei si lavava mi
chiesi ancora se dovessi dirglielo. Le cinsi la vita dietro e poggiai
la guancia sulla sua testa, voltandomi in modo che non mi vedesse bene
allo specchio. «Tess…»
In un secondo si voltò nel mio
abbraccio e mi baciò, posandomi le mani fradice sulla
maglietta. Mi abbandonai completamente a lei e chiusi chi occhi. Fu
come se esistesse solo il suo corpo sotto le mie dita e tutto il resto
fosse come sparito. In fondo a chi importava il resto? Quando ci
separammo sorrisi e lei iniziò a trascinarmi fuori dal bagno
fino in camera sua.
A questo punto vorrei precisare una cosa. Fra me e
Tess non c’erano stati altro che baci e carezze e stop.
Stavamo assieme da più di un mese e da vero gentleman quale
sono volevo che avere un rapporto più intimo fosse una
decisione di entrambi. In quel periodo cercavo una relazione duratura,
e dalle mie precedenti esperienze iniziarla con il sesso incasinava
sempre le cose. Il sesso incasina sempre le cose; se si fa, come si fa,
se non si fa… in ogni caso. Ho sempre pensato che fosse la
donna, in una relazione, ad avere più diritto di scelta. Non
è vero che le ragazze hanno meno voglia di fare sesso dei
ragazzi, però credo che la persona che richiede
più rispetto sia la donna, forse perché
fisicamente parlando sono loro ad essere più... ma che ne
so! E’ solo un’idea che mi frulla in testa. E forse
c’entra anche il fatto che difficilmente l’uomo
dice di no. Io non avrei detto di no. E infatti non lo feci:
Arrotolati nel letto, mezzi svestiti, solo dopo una buona
ventina di minuti mi venne in mente una cosa. «E
Mel?», domandai mentre Tess mi passava una mano sulla schiena
e mi baciava una spalla.
«Tranquillo tornerà solo fra
un paio d’ore. Come minimo.»
«Magari quattro», mormorai
già sulle sue labbra.
Quando mi svegliai il sole filtrava dalle
tapparelle non del tutto chiuse e nella stanza c’era un
tepore sovrannaturale. Mi girai e vidi Tess alla mia sinistra
sonnecchiare ancora a pancia in giù. La sua schiena nuda era
qualcosa di terribilmente sensuale. Mi venne voglia di accarezzarla ma
poi non la volli svegliare. Mi alzai con cautela e guardai
l’orologio. Erano quasi le nove del mattino. Indossai i boxer
e pregai che a Melany piacesse dormire molto. Mi ficcai in bagno e feci
un doccia. Non avevo chiesto il permesso e non ero a casa mia, me ne
rendevo conto, ma quella pareva essere una giornata speciale in cui
erano permesse molte cose che normalmente non lo erano. Misi due
asciugamani puliti accanto alla doccia e mi chiusi nel cubicolo.
L’acqua che iniziò a scorrere fu rilassante e mi
sentii felice. Da solo, lì sotto il getto tiepido, non
poteri fare a meno di sorridere.
Stavo per chiudere tutto e uscire quando la porta
si aprì e io rimasi immobile. «Ciao
Tess.» Oh
cazzo. I divisori della doccia erano opachi ma dubito che
Melany avrebbe scambiato me per il metro e settanta scarso e
decisamente più femminile di sua madre. E infatti vidi la
sua forma vaga che si bloccava accanto al lavandino e si avvicinava
lentamente alla cabina doccia. Probabilmente pensava fossi un ladro, un
maniaco o qualcosa del genere, e rimasi paralizzato. Appena prima che
facesse scorrere il divisorio chiusi l’acqua ed esordii con
un veloce: «Mel sono io».
La sua figura s’irrigidì per qualche
secondo, poi si volse e uscì dal bagno senza più
dire una parola. Chiusi gli occhi in un’imprecazione
silenziosa, poi uscii e iniziai ad asciugarmi velocemente. Indossai i
miei vestiti e andai a vedere Tess, che ancora dormiva profondamente.
Mi avviai alla camera di Melany e bussai. «Mel?»
Nessuna risposta. «Mel per favore fammi entrare.»
Non rispose ancora nessuno e stavo valutando se non fosse stato meglio
andarmene e lasciarla sola con la sua adolescenziale rabbia.
La voce soffocata di Melany mi raggiunse.
«Sei nudo, brutto maniaco?!»
«No!» La porta si
aprì di un filo e solo una piccola parte del viso di Mel mi
osservava con sguardo decisamente incazzato. «Posso
entrare?»
Lei esitò un secondo, poi
annuì e si girò dirigendosi al letto, lasciando
la porta aperta. Entrai con cautela, non del tutto certo che una
trappola per topi stacca-palle non fosse lì per me. Mi
guardai attorno un poco e poi sedetti sulla sedia girevole della
scrivania. Rimasi un attimo in silenzio e quasi pensavo di cominciare a
parlare quando Melany mi precedette: «Io non ce
l’ho con te Ben. È che… mamma
è stata con diversi uomini da quando sono piccola, ma
nessuno era come te.»
Aggrottai le sopracciglia. «Con quanti?
Che significa ‘come me’?»
Lei scrollò le spalle e
ignorò la seconda domanda. «Tre.»
«Per quanti anni?»
«Quello che è durato di
più è durato due anni. Ma non è questo
il punto, ora mi sembra che la cosa sia diversa e non so
perché. Cioè…» Melany
sospirò, era come se non trovasse le parole, cosa
più unica che rara per lei. «L’altro
giorno ho parlato con Nandy, lei è brava a intuire cose di
me che nemmeno io riesco a capire. Dovrebbe fare la
psicologa.» Sorrise tiepidamente.
«E quindi?»
«E quindi sono d’accordo con lei e ho
capito delle cose, di mamma e di me...», si interruppe.
Rimase un attimo pensosa e poi ricominciò:
«Tess… lei non è mai rimasta tantissimo
tempo con un ragazzo, ma si vedeva che non era proprio convinta di
starci. Invece adesso – sarai contento immagino –
è completamente fuori di testa, stravede per te. A me
piacerebbe che mamma stesse con qualcuno che le vuole bene ma non
l’ho mai vista così e… sembra che se
dovesse succedere qualcosa ci resterebbe malissimo.
«Io non ti conosco Benjamin e non so che
persona sei, però mi fido di te proprio per questo motivo,
insomma se ancora non ti conosco non posso mica giudicarti. E poi che
c’entro io, scusa? E’ Tess che deve decidere.
Comunque… non so», si strinse nelle spalle e
lasciò la frase in sospeso.
«Senti Mel», cominciai,
«non dico di essere innamorato di tua madre,
perché per innamorarmi ci metto tanto. Cioè credo
che sia normale, per innamorarti davvero di una persona devi conoscerla
bene altrimenti sei innamorato solo di un’idea che ti sei
fatto che forse non è la realtà. Ma mi piace da
morire te lo giuro. Mi piace tanto, è bello stare con
lei.»
«Sì, sì», fece Mel
annuendo senza guardarmi. Cominciò a rosicchiarsi
un’unghia. «No, io… ci credo che le vuoi
bene, e se funzionerà bene, se non funziona amen.»
Sorrisi e le diedi una leggera pacca sulla spalla.
Sentirmi dire che ero odioso solo perché piacevo un mondo a
Tess era qualcosa di surreale. «Non preoccuparti, adoro stare
con tua madre.»
Melany scattò sui miei occhi, sembrava allarmata
ma cominciò precipitosamente un: «E
stare…?». Si bloccò e richiuse la bocca
senza più guardarmi.
«Cosa?»
«Niente.»
Fu come se si fosse rinchiusa in una corazza. Non
mi guardava più, non parlava più. E in quel
momento abbandonai la visione che avevo di lei di ragazzina spavalda e
dura come la roccia. Quello era solo ciò che voleva sembrare.
«Mel ti piacciono i pan
cake?», domandai.
Melany alzò lo sguardo.
«Sì.»
«E a tua madre piacciono?»
«Hm, sì ma solo se hanno
sopra lo sciroppo di frutta.»
«Ti va di aiutarmi a farli? Non conosco
la tua cucina.»
Melany rispose di sì, ma non perse quel
cipiglio austero che la caratterizzava quando stava con me.
Io e Tess continuavamo a vederci sempre
più spesso e sentivo di volerle sempre più bene.
Ne iniziavo a conoscere tutti i pregi e tutti i difetti e stava
accadendo una cosa terrificante e bellissima: li adoravo entrambi.
Melany era sempre più spesso a casa perché doveva
studiare perché non voleva nessun corso estivo (e un
po’ perché la sua amica Nandika e Tess la
obbligavano), quindi la vedevo molto di frequente a casa con la testa
china sui libri, un po’ addormentata. I nostri rapporti non
si erano in nessun modo intensificati o erano diventati migliori, si
era solo placata la nostra vena sarcastica l’uno nei
confronti dell’altro. Avevo accettato ufficialmente il lavoro
a New York e mi stavo organizzando per andarci. Una sera dopo aver
fatto un giro in città con degli amici di Tess glielo dissi.
«Ho accettato un lavoro a New
York.»
«Davvero? E cosa fai?»
«Ah, delle riprese per un film d’azione
ma si tratta solo di poche settimane, tre al massimo se tutto va a
rilento. E poi un programma alla radio.»
Tess sedette assieme a me al tavolo e
domandò: «Quando?».
«A Luglio.» A quel punto diedi voce ad
uno dei pensieri che mi aveva fulminato qualche giorno prima e che una
parte di me considerava un’idea geniale, mentre
l’altra metà la considerava un suicidio.
«Se tu sei d’accordo… se
vuoi… pensavo che potevate venire anche tu e Mel.»
Tess sorrise e disse: «Mi spiace ma io non posso
assolutamente. Lo studio dentistico non chiude mai, i due dottori si
danno il cambio. Ma la segretaria rimane sempre una e prende le ferie
solo a fine Agosto», aggiunse ridendo.
La parte da suicidio:
«Allora… allora solo Melany».
«Qualcuno ha detto il mio nome? Se
parlavate male di me potevate dirlo, mica mi offendo.» Melany
scelse proprio quell’istante per comparire in cucina e
rimanere in piedi accanto alla porta.
«Ovviamente»,
cominciò Tess. «Ma non dovevi studiare
tu?»
«Non ci capisco niente di quelle cose,
me le dimentico non appena le leggo.»
«Che stai studiando?»
«Lettere. La prof mi ha detto di fare una ricerca
su qualcuno degli argomenti che abbiamo fatto. Ha detto che devo
trovare qualcosa di interessante e poi esporlo in classe.»
Sorrisi e domandai: «E su cosa la
fai?».
«Shakespere.» Melany fece una
smorfia e precisò: «Veramente non è che
mi piaccia particolarmente, è solo che siccome è
famoso pensavo che avrei trovato un sacco di cose interessanti su di
lui. Ovviamente sbagliavo: era l’uomo più noioso
che sia mai esistito.»
«Shakespeare?», domandai
stupefatto. «Noioso? Ma stai scherzando spero!»
«Hai mai letto una biografia su di
lui?»
«A centinaia», replicai
soddisfatto.
«Oh scusa, dimenticavo che tu sei l’uomo
acculturato.» Melany alzò gli occhi e poi si
sciolse letteralmente addosso al tavolo. «Allora che mi
dici?»
«Be’ vediamo se mi
ricordo…», ci pensai un po’ su e Tess mi
mise davanti un caffè caldo, «Ah grazie.»
«Prego.» Sorrise di quel
sorriso tanto bello.
«Allora, alcuni credono che in
realtà sia italiano, è morto lo stesso giorno di
Cervantes, tutti i suoi ritratti sono stati fatti dopo che è
morto, il quartiere dove abitava…»
«Ma questi sarebbero fatti
interessanti?», interruppe Melany. «Spremiti un
po’ di più.»
Sollevai un sopracciglio. Ragionai qualche secondo
poi le chiesi: «E se portassi Blake? Secondo me ti
piacerebbe».
«Chi?»
«William Blake.»
«William Blake? Perché? E
poi, sempre di William si tratta.»
«L’avete fatto?»
«No, non credo. Di che anni
è?»
A volte mi stupisco di me stesso per le cose che
ricordo. «Settecento se non sbaglio.»
«Troppo in là. Sono solo in
prima, per chi mi hai preso?»
«Allora scegli
un’opera», tentai con l’ultima cosa che
mi venisse in mente.
«Allora abbiamo fatto Romeo e Giulietta
ma, sinceramente, sono pessimi, pessimi.» Melany
alzò gli occhi al cielo e sbuffò.
«Perché?»,
domandò Tess, «Non sono molto romantici? Vuoi del
tè tesoro?»
«Hanno un po’
rotto», disse Mel con eloquenza. «E…
sì grazie.»
Intervenni: «Hanno fatto parecchi film
su Romeo e Giulietta.
Perché non parli del libro, dei film e trai delle
conclusioni?» Avevo colto nel segno. «Che ne dici
di Romeo + Giulietta?
C’è Leonardo Di Caprio. Oppure West Side Story.»
«Teatro?»
«È una rivisitazione di Romeo e Giulietta
in chiave moderna, è un musical.»
«Hm… sì, posso
vedere il film.»
«Ho un’idea
fantastica!», esordì Tess sorridendo.
«Mi spaventi», disse Melany in
tono piatto.
La madre la osservò indispettita ma poi
proseguì senza badarle: «Ben sa tutto su Romeo e Giulietta,
no?».
Esitai. «Sì?»
«Sei laureato o no?», mi
rimbeccò Melany.
Stavo per risponderle come un bambino di cinque anni ma Tess
proseguì la sua proposta: «Potresti darle una mano
a fare il compito, no?».
Ma anche no… «Mi sembra
un’idea fantastica.»
Come si faceva a dirle di no? Maledetta!
Capitolo lungo, lo so. E' venuto così...
Comunque volevo dire che ho alzato il rating ad arancione
perché c'è questo piccolo excursus sulle canne e
altro, non solo qui ma anche più avanti ci sarà.
Ora, non so voi che ne pensate, ma nel caso qualcuno fosse disgustato
dalla faccenda, io metto il rating giallo giusto per avvisare (mi
sembra corretto).
Poi, chi dire? Mi piace questo Ben che prova affetto paterno, lo trovo
così tenero! ^^
A parte questo non è che ho molto altro da dire, tranne che
spero che il capitolo vi sia piaciuto. Capisco che questa sezione sia
stata un po' abbandonata negli ultimi mesi, ma io ci provo lo stesso, e
anche se le letture e le recensioni non sono a centinaia
continuerò a postare, quindi i lettori silenziosi non devono
temere (seh, come no, la verità è che la gente
spera che cancelli la storia xD). Ringrazio comunque chi legge e
soprattutto chi scrive una recensione, anche piccola piccola. Yeah u_u
Bene, dopo questo vi saluto, buondì!
Patrizia
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Capitolo 4 *** Nuove prospettive ***
IV
Capitolo IV
Nuove prospettive
Io e Nandy stavamo sedute nel parco e
sorseggiavamo granite rosse che ci facevano venire la lingua dello
stesso colore. Lei si stava completamente rilassando, invece io dovevo
ancora fare quel maledetto tema su Shakespeare. E quel pomeriggio sarei
andata a casa di Ben. Sapevo che doveva fare un servizio fotografico o
simili nel mattino, e così ci eravamo messi d’accordo
perché mi venisse a prendere in questo parco. Io ne avevo
approfittato per fare un giro con Nandika nel frattempo.
«Fa vedere», disse ad un tratto. Tirai fuori
la lingua più che potevo. «Bella. La mia?»
Tirò fuori la lingua.
«Uguale», dissi.
«Mel…», Nandy sembrava incerta,
«Seymour mi ha detto una cosa su Malachi.» La guardai
interrogativa.
Avevo raccontato tutto a lei della nostra uscita, e del
fatto che ci eravamo ufficialmente messi insieme. E sì, anche di
aver fumato una canna. All’inizio non era molto entusiasta,
diceva che mandano in pappa il cervello, ma io le avevo promesso che
non lo avrei più fatto perché tanto non avevo sentito
niente ed era inutile fumare, spendere soldi e tutte quelle cose
lì legate alla marijuana quando non t’interessa nemmeno un
po’ alla fine.
«Cosa?», domandai.
«Ha detto che a volte Malachi fuma anche a scuola.
Con certi ragazzi più avanti. Malcom, Tracey, quelli di terza e
poi boh, non lo so.» Corrugò le sopracciglia in un modo
che mi fece capire che era preoccupata. Io rimasi in silenzio, un
po’ perché non volevo ammettere questo difetto nel mio
nuovissimo ragazzo, un po’ perché ero rimasta stupita
anch’io. Nandy continuò: «Voi avete un bel rapporto,
e adesso sei anche la sua ragazza, forse dovresti dirgli
qualcosa».
Deglutii a vuoto. Bevvi un sorso di granita e me la feci
scivolare sulla lingua. «Sì buona idea», dissi
annuendo. «Come vanno i preparativi del matrimonio?»
«Oh si sposano a Luglio. Ci sono un sacco di cose da
fare, ospitiamo anche mia zia e i miei cugini. Papà sta
avvisando tutti i parenti e vorrebbe una festa tradizionale. Sta
facendo le cose in grande, ha già prenotato un posto dove si
terrà la festa.»
«E tua sorella?», domandai. «E se lei volesse cose semplici?»
Nandy scrollò le spalle. «A lei non dispiace
un bella cerimonia, sta solo lottando con papà per non fare la
cosa troppo vistosa.»
«E se tu ti sposi? Come lo vuoi il tuo matrimonio?»
Gliel’avevo chiesto per curiosità, ma in realtà
c’era anche un discorso ideologico dietro: il libero arbitrio. Io
e Nandy ne parlavamo un sacco, la sua famiglia tentava di radicare nei
figli molta della loro cultura, e c’erano delle cose che
semplicemente mi sembravano assurde.
«Boh, ho ancora un bel po’ di tempo per pensarci», rise Nandy.
Sorrisi anch’io ma insistetti: «E se ti promettono in sposa a qualcuno?».
«Non esagerare adesso», mi riprese lei, «Mia sorella ha trovato lei il suo fidanzato.»
«Come si chiama?»
«Vikas.»
Alzai le sopracciglia. «E’ indiano.»
«Sì», disse Nandy come se fosse ovvio.
«E se t’innamorassi di un ragazzo inglese cosa direbbero i tuoi?»
Di nuovo Nandika si strinse nelle spalle. «Non lo so. Forse li convincerei a lasciarmelo sposare.»
«Hmmm.» Non dissi nulla e bevvi la mia granita.
«A che ora viene a prenderti Ben?»
«Prima di pranzo.» Guardai l’ora. «Dovrebbe arrivare fra poco in realtà.»
«Hai parlato con lui?»
«Seh.»
«E che è successo?» Nandy si
alzò e gettò la sua granita ormai vuota nel primo
cestino. Tornò indietro, le porsi anche la mia, lei alzò
gli occhi al cielo ma gettò anche quella. «Potevi anche
avvisarmi prima.»
«Scusa… Comunque, niente, ha detto che vuole
bene a Tess, e secondo me stanno bene assieme. Credo.»
Nandy ricominciò con il suo discorso maledettamente vero:
«Lo sapevo che era perfetto! Lo sapevo che non ti piaceva per
quello!».
«Io non sono gelosa di Tess», ripetei per l’ennesima volta.
«Sì, ci credo; ma forse è una cosa
inconscia, che ne sai? E poi è normale, scusa, mica
c’è qualcosa di male ad assicurarsi che uno stronzo
qualunque non si metta con tua mamma.» Annuii, convinta.
Dopo qualche minuto vidi la figura di Ben arrivare lungo
il sentiero. Ci scorse e gli andammo incontro. Sempre sorridente,
sempre perfetto quel maledetto! Mai una volta che si arrabbiasse, che
sembrasse annoiato! Ma che prendeva, eccitanti?! «Ciao Mel, ciao
Nandika.»
«Okay, allora vado a casa», disse Nan
salutando, «Mi raccomando uno studio approfondito che una volta
fatta questa hai l’estate libera.»
«D’accordo», borbottai. Nandy sorrise, salutò e ci separammo.
«Hai mangiato?», domandò Ben camminando in
mezzo al sentiero di terra. «L’altro giorno sono venuti a
trovarmi i miei e mi hanno portato un sacco di cose da mangiare.»
«Ah sì? Lo sai che non so niente della tua famiglia?»
«I miei sono psicolabili.» Lo guardai in
silenzio senza credere ad una parola. «Cioè… mio
padre insegna psicologia all’università, mia madre
è psicoterapeuta… Sono favolosi, cercano sempre di
psicanalizzarmi.»
«Un bella famiglia di pazzi», lo interruppi sorridendo.
«Ah grazie mille. E tu? So che hai uno zio.»
«Oh sì, mio zio Tom. E’ il fratello
maggiore di Tess, abita a Dublino. Con tutta la sua famiglia. E di
solito andiamo a trovarlo per le feste. Ho quindi una zia acquisita e
ben due cugini più grandi, è una cosa molto
ingiusta.»
Ben sorrise e domandò:
«Perché?». Nel frattempo eravamo arrivati alla
macchina e aprii le portiere.
«Non è bello essere sempre la più
piccola della famiglia. Non c’è nessuno sotto di me,
capito? Tu hai fratelli?»
«Sì, uno più piccolo. Jack.»
«Io come sai ho una tartaruga ed è come se
fosse mio fratello. E mi devo accontentare di quello, immagino. Solo su
di lei posso far valere la mia autorità di sorella
maggiore.»
Una volta in macchina rimpiombammo nel silenzio. Non so se mi
piaceva quella conversazione sulla famiglia, io non volevo parlare
della mia famiglia. Ovviamente il talento di Ben nell’essere
tanto inadeguato si fece sentire ancora una volta, e non lasciò
cadere l’argomento finché non fummo a casa. Odioso.
«Wo!», esclamai quando entrai nel salotto.
«Ma quante stanze ha questa roba? Sei sicuro che è solo
tua?» La casa era enorme, non avevo mai visto una casa tanto
grande. Per fortuna non era super moderna con i mobili monocolore in
stile minimal white. Anzi era piuttosto rustica e accogliente, le
stanze erano grandi e ariose.
«Facciamo così: scaldo l’arrosto di ieri e ci guardiamo il film.»
«Dov’è il film?», domandai abbandonando la borsa e guardandomi attorno.
«Sul ripiano vicino alla tv!», disse Ben dalla
cucina. «Vuoi una coca? Ah no, aspetta… questo è
vino.» Mi addentrai in cucina e osservai Ben che si dava da fare
con l’arrosto solo da scaldare.
«Dovresti proprio imparare a cucinare. Hai trent’anni, cacchio!»
«Io so cucinare. Pochi semplici piatti, ma li so cucinare bene.»
Sbuffai e andai a mettere il film nel dvd. Ben fece girare la tv
in modo che fosse più comodo vederla dal tavolo in salotto, poi
guardammo tutto il film con l’arrosto e poi dei biscotti
buonissimi che aveva fatto sua madre. Me ne mangiai almeno una decina e
alla fine mi stava venendo sonno da quanto avevo mangiato. Come i
bambini appena nati che dopo la poppata devono fare il ruttino e
dormire. Io saltavo la parte del ruttino, ormai ero grande per quello,
ma solo per quello intendiamoci. Quando sparecchiammo aiutai Ben a
lavare i piatti e dopo, con sforzo sovrumano, mi misi sul tavolo con
libri e quaderni. Il più felice lì sembrava proprio
Benjamin.
«Si può sapere che hai da ridere?», domandai indispettita.
«E’ che sono anni che non faccio una cosa del genere.»
«Studiare? E ti lamenti? Non appena finisco la
scuola non toccherò mai più un libro in vita mia.»
«Mai dire mai», canticchiò lui con il
sorriso sulla bocca prendendo un foglio e una biro. «Nemmeno a me
piaceva particolarmente la scuola, però sono contento di essere
andato a Kingston. Cominciamo: facciamo una lista delle cose principali
del libro e del film, troviamo similitudini e differenze e poi fai il
tuo tema.»
Così passò il resto del pomeriggio. Non sapevo
bene se mi sentivo più annoiata dal compito o più
indispettita del fatto che Benjamin fosse comunque un bravo insegnante.
O per lo meno riuscisse a tenere la mia mente abbastanza sveglia. Aveva
una gran parlantina e non mi distrassi nemmeno un attimo. Forse questo
suo pregio derivava dallo spettacolo. Immagino che si debba saper
parlare correttamente e in modo non troppo prolisso in tv. Comunque
sia, il mio tema fu un vero successo.
La scuola era finita. Provavo un piacere quasi fisico.
Avevo invitato a casa per cena Malachi, Nandy e Seymour, avremmo
mangiato pizza, bevuto coca cola e magari saremmo anche scesi per
strada a provare quel trucco delle caramelle infilate nella coca che la
facevano esplodere. Da quando l’avevo visto fare in tv impazzivo
dalla voglia di provare. Alla fine finimmo fino all’ultima goccia
di coca cola, quindi ci fu mancanza di materia prima per il mio
esperimento. Peccato…
Dopo esserci guardati un film e aver goduto
dell’imitazione di Seymour della prof di ginnastica, il cellulare
di Nandy squillò. Era suo padre, ovviamente. Anche se abitavamo
abbastanza vicini voleva che non si avventurasse per la bellezza di
mezzo isolato da sola in un’ora troppo tarda, così aveva
il coprifuoco di mezzanotte, e lui veniva a prenderla all’angolo
della strada. «Tranquillo papà, sto tornando», disse
Nandy mentre metteva la borsa in spalla. «Sì, aspettami
pure lì.» Mise giù e ci salutò: «Devo
andare, ci vediamo eh».
«Aspetta Nan, vengo con te.» Seymour indossò
la felpa e disse: «Non lasciarmi solo con questi due, chi sa cosa
potrebbero fare! Potrei avere dei traumi, non voglio che mi si blocchi
la crescita».
Nandy rise sguaiatamente, invece Malachi gli diede un
calcio nelle chiappe non troppo forte. «E statti zitto!»,
commentò.
I due uscirono e io e Malachi restammo soli. La faccenda
sembrava seria… Non che io e Malachi non fossimo mai rimasti
soli prima di allora, ma questa volta eravamo soli dentro una casa,
assieme ad un comodissimo divano e ad un ancor più comodo letto.
Era quasi noioso da quanto era scontato. Mi pareva che dovesse
all’improvviso scattare un segnale, che dovessimo fare qualcosa
di passionale e molto, molto imbarazzante. Non avevo ancora nemmeno
pensato a questo genere di cose, e sperai che in fondo nemmeno Malachi
lo avesse fatto. Purtroppo i ragazzi sono una specie quanto mai inutile
e incomprensibile, così non mi arrischiai a chiederglielo e
dissi invece: «Mi aiuti a mettere un po’ a posto?».
Malachi si alzò dal divano. «Sì»,
disse venendo in mio aiuto. Sparecchiammo in fretta e poi Malachi fece
un sorriso furbo risedendosi sul divano, come quando aveva appena
mentito a un prof. Si frugò in tasca e ne trasse una canna.
«Ti va?»
Esitai. «Sì.»
La prima volta che avevamo fumato ero solo curiosa. Mi ero
sentita uguale prima e mi ero divertita, e non vedevo perché no
per due motivi principali: il primo era abbastanza stupido, ossia per
fare qualcosa assieme a Malachi; il secondo era perché se la
prima volta non avevo sentito nulla, che male faceva rifarlo? Non avevo
idea di aver fumato nel modo sbagliato e di non aver aspirato proprio
un bel nulla, in fondo non lo avevo mai fatto.
La seconda volta lo feci nel modo giusto.
Dopo quasi un’ora di risate e discorsi filosofici
campati per aria e discorsi stupidi con una logica schiacciante il
campanello suonò. Malachi corse ad aprire la finestre e fece
partire la ventola sul soffitto, io andai a rispondere sapendo
benissimo chi fosse. «Siamo noi tesoro!» Tess e Ben. Io e
Malachi ficcammo in bocca due gomme da masticare alla fragola e sedemmo
sul divano, facendo finta di aver avuto la tv accesa praticamente da
sempre.
Quando Tess entrò riconobbe Malachi da una volta in cui
l’aveva visto a scuola. «Oh ciao ragazzi. Come va? Passato
bene la serata?»
«Tutto bene, grazie. Avete mancato Nandy e Seymour per un
soffio», disse Malachi sorridendo a mia madre. Io sorridevo
falsamente e li osservavo. Mamma sembrava tranquilla, cominciò a
parlare del ristorante dov’erano stati e di come il cameriere le
aveva portato il piatto sbagliato. Malachi se la lavorava per bene e la
ascoltava come se tutto ciò che dicesse fosse di fondamentale
importanza. Per fortuna gli effetti della canna stavano passando e per
lo meno non scoppiammo a ridere da soli, piuttosto avevamo una grande
parlantina, ma nulla di più.
Smisi di curarmi di mamma quando vidi che era impegnata in un
fitto discorso con Malachi riguardo alla carne (ben cotta o al sangue?
E’ incredibile quel che poteva inventarsi quel ragazzo solo per
parlare), mi volsi verso Ben, se non altro per salutarlo dato che
ancora non gli avevo detto nemmeno ‘ciao’. Quando lo vidi
ingoiai tutte le parole che stavo per dirgli. Rimasi ammutolita di
fronte alla sua espressione, era freddo come il ghiaccio e guardava
Malachi con occhi piedi di disprezzo. «Ciao?», domandai
esitante. «Che ti è successo? Anche tu hai chiesto le
vongole e ti hanno portato i calamari? Ci sono cose peggiori nella
vita. Coraggio, beviamoci su!»,
quest’ultima l’avevo presa da Jack Sparrow, l’avevo
detto tirando una pacca sulla spalla di Ben, ma lui non pareva aver
compreso l’umorismo. Mi osservò serio e non disse una
parola, invece andò da Tess e rimase ad ascoltare i discorsi fra
lei e Malachi in silenzio.
Mi sentii quasi tagliata fuori e mi arrabbiai moltissimo.
Quell’uomo dalla dubbia capigliatura mi aveva già privato
di gran parte del – poco – tempo che potevo passare con mia
madre, e adesso non mi lasciava neanche parlare con il mio ragazzo? Per
fortuna dopo appena pochi minuti Malachi si alzò e
annunciò a tutti: «Be’ io devo andare. Ci vediamo
eh. Ciao Tess», salutò mia madre con una stretta di mano,
«Benjamin, ci vediamo», e strinse anche quella di Ben.
«Ti accompagno giù», dissi velocemente
seguendo Malachi fuori dalla porta e nel corridoio. Quando fummo fuori
dall’edificio, sicuri che non ci avrebbero sentiti, domandai:
«Secondo te se ne sono accorti?».
«Nah», disse lui ghignando. «E’ simpatica tua mamma.»
«Grazie. Hai visto quanto parla? Non si riesce a fermarla quando comincia.»
«E’ giovane. Quanti anni ha?»
«Trenta.»
«Wow, magari avessi anch’io genitori
così.» Rimase un attimo in silenzio. «Ti va di
venire a conoscere i miei un giorno?»
Sorrisi, felice che me lo avesse chiesto. La cosa in quel
modo sembrava ancora più ufficiale. «Sì,
perché no?»
«Allora glielo dico domani, poi ti avviso.» Malachi
quando sorrideva aveva un viso meraviglioso. «Posso chiederti una
cosa?» Rimasi in silenzio. «Ma quello lì è il
ragazzo di tua madre?»
Sbuffai sonoramente. «Sì.»
Malachi scoppiò a ridere e domandò: «E perché fai pfff?».
«Oddio ti giuro che non lo sopporto. Cioè…
Nandy dice perché so che a Tess piace e forse è vero. Ma
t’immagini a vivere con quello? Potrei macchiarmi di
omicidio.»
«Perché? Che ha che non va? A me non sembra
male. Cioè non ha detto una parola, quindi veramente non lo
so.»
«A me sta bene che stia con Tess, ma sembra quasi-
è come se voglia… intromettersi anche nella mia vita.
Cioè io sto bene come sto, non mi serve un papà o simili,
sono stata così bene senza per tutti questi anni! Però
adesso che c’è lui… mi chiede le cose, vuole sapere
di me, e io non ho voglia di dirglielo. Proprio, come se fossi stanca.
Non mi voglio sforzare di parlare con lui.»
Malachi annuii piano, guardandomi negli occhi.
«Sì… ho capito cosa intendi.» Rimase un
attimo in silenzio e mi parve che celasse qualcosa sotto gli occhi
scuri. «Un giorno forse ti starà simpatico. Scommetto che
se piace a tua mamma allora non può essere tanto una cattiva
persona, no?»
«Immagino di no», sospirai. «E’ solo che
non voglio conoscerlo, adesso. E lui non vuole conoscere me.»
Rimasi in silenzio, riflettendo su quel che avevo appena detto.
«E’ solo un periodo brutto, quando lo
conoscerai meglio vedrai, no?» Sorrisi debolmente. «Ci
sentiamo okay?» Malachi mi diede un bacio e ci separammo.
Quando tornai di sopra Tess e Ben stavano ancora seduti
attorno al tavolo, e mamma si era messa il pigiama. Volevo correre in
camera mia e non parlare con nessuno di loro, magari se fossi stata
abbastanza veloce ce l’avrei fatta. La dura realtà era che
per andare in camera dovevo passare davanti alla cucina. E
infatti…
«Mel!»
Cacchio. «Sì?» Andai in cucina e rimasi sulla porta. «Chi era quello?»
Sgranai gli occhi. « Ci hai parlato per quasi mezz’ora e non sai nemmeno chi sia?»
«Malachi, lo so. Siete fidanzati?», domandò
Tess con un sorrisino. Non potei fare a meno di sorridere anch’io
e Tess iniziò a saltellare. «Ah! Ti giuro che
l’avevo capito subito! E’ uno di quei presentimenti da
mamma. Da quanto state assieme?»
«Non tanto», dissi ritornando seria e rimando sul
vago. Benjamin non diceva nulla, ma vederlo così mi faceva
sentire strana, a disagio. Sembrava che ce l’avesse con me. Ma
c’erano ben due cose che non mi andavano giù: primo, che
cos’avevo fatto di male?, secondo, che cosa importava a lui?
«Vabbè io vado a dormire ma’. Notte. Ciao Ben.»
«Ciao», biascicò lui senza guardarmi.
Se con l’inizio delle vacanze speravo di non dovermi
più sorbire Tess e Benjamin per casa che amoreggiavano, mi
sbagliavo di grosso. Ben era molto spesso a casa da noi, più
raramente mamma era da lui. Ma non potevano vedersi in giro altrove?
Purtroppo per me anche le mie uscite erano state limitate
perché, come previsto, a Tess era venuto in mente di farmi fare
ogni giorno almeno tre ore di compiti delle vacanze. Io ci provavo,
davvero, ma il più delle volte dopo la prima mezz’ora mi
ritrovavo a scarabocchiare sul libro frasi di canzoni sconosciute ai
più. Ovviamente mamma doveva porre un rimedio a questo,
così mi consigliò di fare i compiti di scienze, chimica e
matematica assieme a Nandy, e quelli di inglese e arte assieme a
Benjamin. «Per rinsaldare il vostro legame, tesoro. Mi piacerebbe
che lo conoscessi meglio, e anche a lui piacerebbe conoscere te.»
Sì, come un agnello vorrebbe conoscere le fauci di un leone. Non
ho certe manie suicide. Purtroppo era un vero dispiacere per me dire di
no a Tess, chiedeva le cose in maniera tanto gentile che non ci si
poteva rifiutare! Io e lei avevamo un rapporto che non era quello
solito che vedevo fra i miei amici e loro genitori: gli altri padri e
le madri dicevano ai figli di fare le cose, Tess invece me lo proponeva.
Ne parlavamo. E’ qualcosa di sottile ma fa una grande differenza.
E così mi ritrovavo incastrata con Benjamin ben due volta alla
settimana. Mi chiedevo se a lui non desse fastidio. Non aveva di meglio
da fare piuttosto che badare a me? Decisi che glielo avrei chiesto, e
così feci.
«Ben posso chiederti una cosa?», esordii appena dopo aver finito di scrivere un tema.
«Non te lo correggerò mai. Lo posso leggere e
dirti se va bene o è da rifare, ma non esageriamo.»
«Ma perché no?», domandai cocciuta. Era
lì per aiutarmi e non lo faceva nemmeno fino in fondo.
«Perché altrimenti sarebbe ingiusto nei confronti degli altri, no?»
Mi riscossi. «Sì be’, comunque non
volevo chiederti questo.» Lui alzò gli occhi dalla sua
posta e mi osservò. «Perché mi aiuti con i
compiti?»
«Perché tu non li faresti mai da sola.» Accennò un sorriso e fece per tornare a leggere.
«Ah, ah, grazie. No, volevo dire… non hai nient’altro di meglio di fare?»
Parve pensarci qualche secondo, alla fine rispose:
«Be’ immagino di sì, ma tua madre me lo ha chiesto
per favore e a me non costa nulla».
In realtà ero un tantino delusa da quella risposta.
«Melany.» Ben mi chiamò e io alzai lo
sguardo. «Ti piace quel ragazzo? Quel… Malachi?»
Inarcai un sopracciglio. «No, lo odio. Stiamo assieme per
scommessa.» Ben alzò le sopracciglia e io roteai gli occhi
al soffitto, esasperata. Non si poteva fare nemmeno una battuta,
però! «Sì, certo che mi piace. Altrimenti che ci
sto a fare con lui?»
«Sei andata a cena dai suoi genitori l’altro giorno, no? Com’è andata?»
«Bene, grazie.» In realtà era stato
più formale di quanto avessi mai desiderato, ma per lo meno era
stato breve: i suoi genitori erano molto impegnati con i loro lavori,
sempre. Dalla mattina alla sera. Suo padre era il capo di una ditta che
produceva non so cosa per le auto, sua madre invece era a capo di una
catena di ristoranti per famiglie. Avevano un sacco di soldi.
Ben abbandonò il libro che aveva in mano e si
sporse in avanti. «Senti, ne ho già parlato con tua madre
e lei ha detto di sì. E se io ti facessi una
proposta…»
«Volete sposarvi?», lo interruppi, orripilata.
«No.»
«Volete un bambino?»
«No.»
«Vuoi mandarmi in collegio?»
«No, lasciami finire!», esclamò Ben,
però sorrideva quindi suppongo si stesse divertendo alle mie
ipotesi idiote. «Fra un mese parto per New York, lo sai
no?» Annuii. «Mi chiedevo se volessi venire anche tu. Con
qualcun altro. Insomma io me ne starò la maggior parte del tempo
a fare riprese o cose del genere, non posso stare con te, allora tua
madre ha pensato che potevi portare… che ne so, Nandy, o qualche
altra tua amica.» Era surreale. Ben voleva che passassimo del
tempo assieme, voleva farmi un favore. «Allora?»
«E le spese?», domandai solo.
«Be’ sì, ci ho pensato ma, sai, la stanza
dell’hotel io ce l’ho pagata. Di solito sono camere molto
grandi, ci sono anche dei divani dove si può dormire, e comunque
far aggiungere un letto non farà male a nessuno. Non ci vorranno
troppi soldi per l’aggiunta di un letto, l’ho già
detto a Tess. Praticamente sarà solo il viaggio e quello che
spenderai là. Prendi in considerazione però che i pasti
sono pagati.»
«E il tuo lavoro?»
«Non preoccuparti, ho già sistemato tutto io.»
«E…», mi morsi un labbro, incapace di
trovare un altro difetto in quello che era il piano magnificamente
studiato di Ben.
«Allora?», ripeté lui, «Credevo ti avrebbe fatto piacere.»
«Sì! Sì, sì», dissi
subito. In pochi istanti mi si allargò un sorriso sulla faccia.
Afferrai le mie cose e le misi nella borsa velocemente. «Devo
andare subito ad avvisare Nandy! Dobbiamo decidere un sacco di
cose.» Misi la borsa in spalla e mi avviai alla porta, prima di
andarmene mi rivolsi a Benjamin e sorrisi: «Grazie». Non
attesi la sua risposta e corsi giù in strada fino alla fermata
dell’autobus. Quando stavo a pochi metri dallo stop lo vidi
girare all’angolo e corsi più veloce. Riuscii a salire per
un soffio. Quando fui su guardai verso il palazzo dove abitava Ben.
C’erano troppe finestre per poter capire quale fosse la sua.
Quando arrivai a casa di Nandika suonai impazientemente
fino a che sua mamma non mi aprì la porta. «Oh ciao
Melany, entra.»
«Ciao Charu, c’è Nandy?»
«Sì, è di sopra.» Mi fiondai su
per le scale facendo i gradini due a due. La voce della mamma di Nandy
mi seguì: «Vi porto qualcosa da mangiare
d’accordo?!».
«Grazie mille!» E dopodiché entrai
nella stanza senza nemmeno bussare. «Nandy! Nandy ho una notizia
bellissima!»
Nandika, che stava di fronte allo specchio con addosso drappi di
tela colorata che sembrava le fossero caduti addosso senza un ordine
preciso, si spaventò tanto che fece un salto alto un metro.
«Oddio Mel! Ma sei pazza?!»
«Scusa, scusa! E’ che ho una notizia
bellissima: tu sei formalmente invitata a venire a New York con me e
Benjamin.»
Nandy strabuzzò gli occhi. «Quando?»
«A Luglio. Alla fine, il matrimonio sarà
già finito. Hai detto che si sposa presto tua sorella.»
«Il 9 Luglio.»
«Ah! Perfetto! Noi dovremmo partire per il 13 e rimanere lì fino alla fine del mese.»
«Ma… come, perché?»
«Ben ha un film a New York, fa più la
comparsa che altro, per questo sta là poco. Ha detto che posso
andare con lui, e che posso portare qualcuno.»
Il sorriso di Nandy cominciò ad allargarsi piano
sul suo viso, poi ci abbracciammo e ci lanciammo in una folle danza che
nemmeno gli aborigeni avrebbero mai fatto. «Mel! Andiamo a New
York! Dobbiamo organizzare il nostro itinerario, che cosa vogliamo
vedere? Facciamo una lista delle cose da vedere, così quando
saremo lì non ci dimenticheremo più.»
«D’accordo, okay.» Tolsi le scarpe e le
gettai in un angolo. «Cosa diranno i tuoi? Non sarai dai tuoi
parenti.»
«Ah, dì a Benjamin e tua madre di prepararsi, di
sicuro papà vorrà organizzarmi tutto il viaggio e
conoscere lui», disse Nan sorridendo, «Comunque, insomma,
è un personaggio famoso, lo sappiamo che è affidabile. E
poi tua mamma lo conosce, e tu lo conosci. E io conosco te,
quindi… non possono non fidarsi di lui, ecco.» Nandy si
chinò a prendere dei fogli e il pc portatile, e un lembo di
quella stoffa colorata cadde a terra.
«Che è quella cosa?»
«Cosa?»
«Il vestito.»
«E’ per la cerimonia, è un vestito tipico
indiano, si chiama sari. Non l’hai mai visto?» Scossi la
testa. «Non è male, solo un po’ difficile da
incastrare.»
«Sembra una tenda», commentai.
Nandy sedette al mio fianco. «Scema», mi rimproverò.
Passammo tutta la giornata a programmare il nostro
itinerario, e Nandy disse che quella sera a cena avrebbe parlato con
suo padre del viaggio e di Ben.
Arieccome!
Allora, vorrei precisare un paio di cose, anche se magari non interessano a nessuno xD
La scena delle granite viene dal film "Juno". Se siete curiosi di
vederlo (magari perché non avete nulla da fare, non che io
m'illuda che la mia fanfiction sia così interessante da far
venire voglia di vedere un film che cito) buon per voi, è molto
bello.
Seconda cosa, il discorso sulle culture che fa Melany. Non so, non ha
né capo né coda, non verrà ripreso mai più,
e non è importante in questa storia, ma pensavo fosse
interessante metterlo, perché se hai amici che hanno un modo di
vivere e di pensarla così radicalmente diverso da te non puoi
fare a meno di pensarci, no? A me è capitato di fare discorsi
senza fine riguardo alla cultura assieme ai miei amici, e ovviamente
non siamo arrivati a nessuna verità universale! xD Io
però penso sempre che se le cose le faccio io allora non posso
certo essere l'unica, per cui le metto nelle fanfiction, ed ecco
spiegato il perché di quella parentesi.
Poi, sempre riguardo Melany, in questi capitoli potrebbe apparire
antipaticissima: dice cose senza senso, sembra che neghi l'evidenza e
ci si metta d'impegno a trovare il pelo nell'uovo, ma io credo che,
essendo lei nel pieno dell'adolescenza, ci stia bene un comportamente
del genere, per cui è assolutamente voluto. Non è una
cattiva ragazza, cerca solo disperatamente di sembrarlo. Volevo dire
questo per difendere il mio personaggio, perché mi rendo conto
che a volte è insopportabile! Ma se non vi piace, tranquilli,
cambierà.
Be', a parte questo, all'argomento droghe arriveremo più avanti,
e vi prometto che tenterò di non scrivere al riguardo un papiro
simile.
Spero che il capitolo sia piaciuto, ciao a tutti e buona Domenica!
Patrizia
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Capitolo 5 *** Cambio di programma ***
V
Capitolo V
Cambio di programma
Conoscere i genitori di Nandika fu una
cosa davvero… surreale. Mi fece sentire bene in un certo senso,
un po’ come se fossi davvero un padre. Insomma, tutta quella
storia di viaggiare io e Mel, e poi incontrare i genitori
dell’amica per metterci d’accordo… non so, forse
credevano che fossi un maniaco, ma non è quello il punto. Mi
piaceva pensare che io e Tess stessimo diventando qualcosa di simile ad
una famiglia, o per lo meno una specie. Le settimane passarono
inesorabili, e fra interviste per il nuovo film e altri impegni, mi
resi conto ancora una volta che Tess mi piaceva sul serio. O meglio,
non è che mi piacesse, cominciavo a sospettare di qualcosa di
più profondo. Dopo due settimane in cui non riuscivo a pensare
ad altro ne ero sicuro. Era qualcosa che mi tormentava, non riuscivo a
tenermelo dentro, così un giorno decisi di prendere il coraggio
a due mani e dirglielo.
Eravamo andati in giro tutto il giorno per trovare un
regalo per un suo amico di lavoro, il ragazzo che si occupava degli
spaventosi attrezzi del dentista e li puliva e faceva non so che altro,
così avevamo fatto un giro per diversi negozi, tenendoci
per mano come due ragazzini di sedici anni.
«Vuoi un gelato?», domandai a Tess
all’improvviso passando di fronte ad una gelateria artigianale.
Lei si strinse nelle spalle. «Perché
no?» Dopo aver ordinato due coni sedemmo in un parco poco
distante e guardavamo la gente passare, i ragazzi con la chitarra e le
famiglie con i bimbi piccoli.
«Tess», cominciai, «posso chiederti una cosa?»
«Dimmi tutto.» Un filo di vento le fece volare
i capelli davanti alla faccia e lei li scostò. In quel momento
la vidi bellissima. Ma volli rovinare lo stesso la bella atmosfera, per
colpa della mia capacità innata di essere inopportuno,
soprattutto con le persone che conosco bene.
«Com’è che hai avuto Melany?»
Inaspettatamente, Tess sorrise. «Mi aspettavo che un
giorno me lo avresti chiesto.» Fece una piccola pausa.
«Mah, sai… io e suo padre eravamo fidanzati, io sono
rimasta incinta e per un po’ siamo rimasti assieme, o almeno ci
abbiamo provato. Ma eravamo molto giovani, avevo quindici anni e tutta
l’intenzione di finire la scuola e fare carriera e tutte quelle
cose lì. La scuola l’ho finita, carriera non l’ho
fatta», disse stringendosi nelle spalle. «Ma non è
che mi dispiaccia tanto in fondo. In compenso c’è Mel,
sai», sorrise ampiamente.
Accennai un sorriso anch’io e continuai a mangiare il mio gelato. «E il padre di Mel?»
«Mai più sentito.» Tess si volse verso di me
e quando mi vide in faccia mi diede una spintarella. «Non fare
quella faccia triste, io non ci sto male. Eravamo ragazzini, non
saremmo mai rimasti assieme per tutta la vita! È successo
praticamente per sbaglio, ma alla fine siamo riusciti a tirare
avanti.» Fece una pausa. «Quando Mel aveva un anno lui si
trasferì con la famiglia in Francia, suo padre lavorava per una
grossa azienda e lo dovevano trasferire da mesi. I miei genitori mi
aiutarono molto, io e Mel siamo rimasti a casa con loro finché
non ho finito di studiare, trovato un lavoro e una casa. Mel aveva
quattro anni e mezzo quando ce ne siamo andati di lì.
Poi… i miei sono morti in un incidente d’auto, te
l’ho detto, e io e mio fratello abbiamo venduto la casa e abbiamo
fatto a metà.»
«A Mel non dà fastidio non aver mai conosciuto suo padre?»
«Se le dà fastidio non me l’ha mai detto fin
ora. Ma non credo, perché di solito mi racconta tutto, o quasi.
Adesso che sta diventando grande mi racconta un po’ meno cose.
Immagino che comunque più che suo padre possa mancargli un padre. Insomma, una figura paterna capito? Come può sentire la mancanza di qualcuno che non ha mai incontrato?»
Rimasi in silenzio, annuendo. Sospettavo che Melany non le
avesse raccontato che lei e il suo ragazzo fumavano frequentemente.
Forse la cosa non doveva traumatizzarmi tanto, in fondo erano solo
canne, nessuno era mai morto per quelle! Sì, forse ti rendevano
un po’ stupido nel momento in cui eri lì, ma… a
volte si usavano anche come presidio medico. Be’ forse questa non
era la scusante più adatta.
In quel momento fummo distratti da una figuretta che si
avvicinò a noi e domandò senza troppi fronzoli: «Tu
sei il principe Caspian?». Era un bambina piccola, aveva i
capelli sottili castano chiaro. Tess non poteva trattenersi dal
sorridere mentre la guardava.
«Ah… sì», risposi.
«Perché non sei a Narnia?»
«Sono in vacanza», inventai lì per lì.
«Ah.» Un uomo alto corse verso di noi e prese
la bimba per mano. «Lui è il mio papà, ha detto che
mi compra un’Aslan per il mio compleanno.»
«Scusate tanto», disse l’uomo rivolgendosi a noi.
«Ah, si figuri», fece Tess sorridente. Salutò
la bimba con la mano e guardammo padre e figlia allontanarsi lungo la
via. «Che carina!» Quando Tess si volse non potei fare a
meno di mettermi a ridere. «Cosa c’è?»
«Hai del gelato sulla faccia!», esclamai
sbellicandomi. «Aspetta, aspetta… te lo tolgo.» Le
passai un dito sul naso e poi mangiai il gelato che vi era rimasto
sopra. Trasportato dall’atmosfera mi chinai su Tess e la baciai.
Quello che all’inizio era un bacio semplice divenne
sempre più dolce, e quando ci separammo le carezzai una guancia
e dissi le due parole fatidiche. Mi parve di pronunciarle in maniera
goffa, e scoprii che anche così non rendevano neanche vagamente
l’idea di ciò che provavo per lei. Avrei dovuto inventare
delle parole nuove. Ma quel che venne dopo fu ancora peggio:
l’attesa spasmodica perché lei rispondesse. Sembrarono
passare secoli e lei si divertiva a torturarmi lasciando scattare i
secondi uno dopo l’altro.
Poi sorrise e mi baciò di nuovo. «Ti amo anch’io.»
Fu come se il mondo intero in quell’istante mi
appartenesse. Mi si tappò la gola per l’emozione, avevo
voglia solo di stare con Tess, di abbracciarla, baciarla e fare
l’amore con lei.
Melany alzò gli occhi dal foglio, in uno dei nostri ennesimi pomeriggi di studio.
Mentre lei studiava, se non aveva bisogno di chiarimenti o altro,
di solito leggevo o stavo al pc. In pratica ero lì solo come
sorvegliante colto, per assicurarmi che non si distraesse. Recentemente
aveva iniziato a chiedermi perché cavolo stessi lì con
lei anche se non ne avevo alcuna voglia. Non so perché avesse
questa fissa, ma più che dirle la verità non sapevo che
altro rispondere: perché me l’ha chiesto tua madre. Sembrava insoddisfatta delle mie risposte, come se volesse scoprire se c’era qualcosa in più.
«Ben.» Alzai gli occhi dal giornale. «Ho finito.»
«Così in fretta?»
«Era un capitolo corto.»
«Ah.» Mi volsi a guardare che ore fossero.
«Sono quasi le otto, ti porto a casa se vuoi.»
Provvidenziale come non mai, Tess chiamò sul telefono di casa.
«Pronto?»
«Ciao Ben sono io.» Sorrisi istintivamente.
«Ascolta ho un emergenza. Ti ricordi di Tanya, la mia amica di
cui ti ho parlato?»
«Quella incinta?»
«Esatto. Sta per passare dallo stato incinta a quello di pre-madre dolorante e incazzosa, e mi ha chiesto se posso farle compagnia in ospedale.»
«E quindi?»
«Non è che Mel potrebbe stare con te? Solo
per oggi. Domani può tornare a casa, è solo che non
voglio lasciarla sola tutta la notte, e io non so bene quando
sarò libera. Il marito di Tanya in questo momento è fuori
città e non ho idea di quando riuscirà a tornare.»
Mel mi guardava interrogativa. «Per me non
c’è problema, tranquilla. Ci organizziamo. Te la
passo?»
«Sì, grazie.»
Tess le spiegò velocemente la situazione e ad ogni
parola Mel sembrava raggiungere nuovi livelli di sopportazione,
individuabili da diverse espressioni di stupore, rabbia e indignazione.
Alla fine salutò e mise giù il telefono. Si volse verso
di me con le mani suoi fianchi. «A quanto pare sono
condannata.»
«Anch’io», risposi atono.
Mel sospirò e disse: «Non è che potremmo
fare un salto a casa? Solo per prendere la mia roba, sai, pigiama,
spazzolino… eccetera.»
Ci pensai un po’ e osservai: «E’ dall’altra
parte della città, quasi. Facciamo così: vengo io a casa
vostra, così non dobbiamo fare avanti e indietro». Mi
fermai un attimo a pensare. «Ti va di andare a mangiare
fuori?»
«Sì ti prego: è tardissimo e muoio di fame.» Mi preparai in fretta.
In macchina pensavo a dove andare a mangiare. «Pizzeria.»
«L’ho già mangiata ieri, non potremmo andare in qualche altro posto?»
«Allora ristorante normale.»
«Non troppo elegante, per favore, niente cose hollywoodiane sullo stile attore molto fico.»
Ridacchiai e dissi: «Ti pare che io sia il tipo?».
«Effettivamente no», biascicò Mel
guardando fuori dal finestrino. «Ben tu sei stato in molti posti,
non è vero?»
«Abbastanza, credo, per la media popolare.»
«Quali?»
«Hm, vediamo: Nuova Zelanda, Islanda, Giappone, Italia,
Francia, Stati Uniti, Messico … e poi che ne so, non mi ricordo
nemmeno più», commentai sbuffando.
Melany mi osservava con gli occhi di fuori. «Non ti
ricordi più? Ma sei scemo? Se io avessi
l’opportunità di visitare tutti quei posti farei in modo
di ricordarlo per il resto della mia vita!»
«Ma non è che li abbia proprio
visitati… cioè solo alcuni. In molti ci sono stato solo
per lavoro, due o tre giorni pieni di roba da fare e poi di ritorno a
casa, oppure da qualche altra parte. Ho visitato Tokyo e Parigi, ecco,
ma ad esempio a Roma ci sono andato solo per una notte, in pratica, e
non ho visto niente.»
Melany parve delusa. «Oh… Ma a che serve
allora fare l’attore? E i posti in cui hai girato? So che sei
stato in Nuova Zelanda.»
«Sì, appunto», precisai, «a girare.»
«Sei sicuro che ne valga la pena?»
«Cosa?»
«Fare tutta questa fatica per poi non… non godersi nulla.»
Ci fermammo di fronte ad un ristorante e mi rivolsi a
Melany. «Immagino di sì: a me piace recitare, è una
delle cose che amo di più fare. Anzi, è la cosa che amo di più fare.»
«E tutto il resto? Le prime, le interviste… non ti rompono?»
Sorrisi. «Quello è il lavoro.» Melany
non chiese più nulla e scese dall’auto, io la seguii.
Una volta nel ristorante ordinammo e, mentre attendevamo
che il cameriere ci servisse, domandai curioso: «E tu che cosa
vorresti fare?».
Mel inarcò un sopracciglio come solo lei riusciva.
Perché? Avevo chiesto qualcosa di strano? «Ho solo
quattordici anni», sottolineò con voce acida.
«Fra un po’ quindici, anzi fra meno di un mese.»
«Ti ricordi anche il giorno», commentò lei fingendosi impressionata.
«3 Agosto, non è così complicato. E
comunque, anche se sei giovane, che significa? Non puoi avere
un’idea al riguardo? Ce l’hanno tutti fin da bambini! La
ballerina, la maestra, quelle cose lì», dissi
gesticolando. «Giuro che non rido.»
Melany sbuffò. «Non lo so per davvero, so solo che
mi piace la musica, ma non nel senso che mi piace suonare. Mi piace
ascoltarla. Non ho mai saputo di nessuno che pagasse qualcun altro per
ascoltare musica.»
«Be’ perché no? Potresti fare il
critico, scrivere recensioni sui tuoi… tantissimi, ma tantissimi
cd.»
Melany rise e si scostò per fare spazio al
cameriere che ci stava portando da bere. «Sono tanti, lo
so», commentò piano. «Test sulla personalità:
gruppo preferito.»
«Sono un po’, vediamo… Kings of Leon, Stevie Wonder, Rolling Stones…»
«Te scherzi», m’interruppe.
«No, perché?», domandai accigliato.
«I Rolling Stones sono uno dei miei gruppi preferiti, non me li puoi rubare.» Si versò un po’ di coca cola e ghignò.
«Solo perché tu lo sappia: anche altre
migliaia di persone sono suoi fan, perché non te la prendi anche
con loro?»
«Perché non c’è gusto se non sei
tu», disse lei come se fosse ovvio facendo un sorrisino.
«E tu?»
«Anche io tantissimi. A parte gli Stones, Nirvana,
Guns’n’Roses, alcune canzoni di Blondie…»
«Davvero?», domandai stranito.
«Perché? Sarebbe strano?»
«No, è solo che ho visto tutti quei poster di
gruppi metal appesi in camera tua… insomma, Blondie non è
esattamente metal.»
«Ma è una figa, tanto basta.»
«E poi ha una bella voce.»
«Sì, è vero. Comunque quei poster sono
lì perché mi piacciono anche loro, è solo che
ormai non vendono spesso nei giornalini poster di cantanti degli anni
ottanta e novanta. Magari li vendevano quando eri piccolo, e di tempo
ne è passato.»
«Ehi, attenta a come parli. Guarda che qui ho io
potere in questo momento, potrei anche decidere di abbandonarti
qui.» Mel si mise a ridere, io accennai un sorriso e iniziai a
mangiare i grissini che avevano messo in tavola. «Comunque io
odio la musica metal, fa troppo casino.»
«A me piace, alcune canzoni sono molto belle. Ad
esempio… i Dream Teathre sono classificati come progressive
metal, ma sono bravissimi secondo me.»
«Non li conosco troppo bene», dissi scuotendo la testa.
«Blasfemia!», esclamò Mel mettendosi una mano sulla fronte come se soffrisse molto.
«Posso fare anch’io una domanda sul test della personalità?», chiesi.
«Ma certo.»
«Film preferito.»
«Ci avrei scommesso che me lo avresti chiesto. Fa tanto
appassionato di cinema…» Mel ci pensò su per un
attimo. «Veramente non guardo moltissimi film perché ce ne
sono pochi che m’interessano. Mi piacciono però quasi
tutti quelli di Quentin Tarantino, e il genere thriller più in
generale. E tu?»
Scossi le spalle. «Hm, molto lontano, molto lontano.
Sono più sul genere… film che parla di vita, filmoni
dell’anno che tutti non vedono l’ora di guardare, e cose
così.»
Melany si scostò quando arrivò il suo
piatto, ma lo mise da parte e incrociò le braccia di fronte a
sé. Al mio sguardo interrogativo ripose: «Ti aspetto.
Comunque sia… tu hai fatto un film fantasy. E mi parli di
vita?»
«Che c’entra? Quello è recitare,
è diverso. E’ bello recitare cose diverse, è
come… come una specie di sfida. E’ per provare a vedere
cosa mi piace di più, per cosa sono portato di più. Se
sono capace di fare una cosa. Capito?»
«Credo di sì.»
In quel momento arrivò il mio piatto e mangiammo
commentando il cibo e i camerieri, che gironzolavano per la sala in
pattini a rotelle.
«Immagina se uno di loro cadesse», osservò Mel, «sarebbe magnifico.»
«Oh no, poveraccio.»
«Sarebbe divertente», proseguì scrollando le spalle.
Uscimmo dal ristorante alle dieci e mezza e Mel propose di
noleggiare un film tanto per passare la serata. In un videonoleggio
abbastanza grande stavo analizzando la sezione novità quando
vidi Melany apparire con un sorriso largo e furbo. Venne verso di me e
mi porse un cd. Lo presi in mano. «No», decretai deciso.
«E andiamo! Non l’ho mai visto! Parla di vita.», esclamò lei con tono lamentoso.
«Guardatelo con Nandika, le farà piacere», borbottai poggiandolo su uno scaffale in alto.
«E’ il primo film che ti ha dato un minimo di fama, non puoi rinnegarlo così.»
«Non lo sto rinnegando, è solo che non voglio
vedermi sullo schermo, ti spiace?» Continuai a camminare e presi
in mano la prima cosa che trovai, giusto per distrarre Mel.
«Lascia stare Jessica Biel, che ne dici di questo?»
«Ho visto un po’ delle Cronache di Narnia due
con Nandy, e sono rimasta molto colpita», disse solo rimettendolo
al suo posto.
«Da cosa?», domandai sospettoso guardandola di sottecchi.
Melany fece un’espressione curiosa e disse:
«Chi cavolo ha scritto il copione? Insomma, la metà della
battute di Peter sono… ‘per Narniaaa!’», e
mimò un atteggiamento di sciocco attacco con la spada. Risi di
gusto e presi un altro cd, questa volta una commedia. Decidemmo per
quello e ci avviammo alla cassa.
Una volta davanti al divano, ridendo come scemi a quella
commedia leggera, mi resi conto che quella serata con Melany non era
stata affatto male. Insomma, ci eravamo divertiti, era stato bello
stare assieme, e per una volta Mel non aveva storto il naso a dover
passare del tempo con me. Alla fine non era una persona antipatica,
solo una ragazzina leggermente chiusa e con la lingua tagliente sempre
pronta. Quando imparavi a conoscerne i difetti e i pregi, quando lei
conosceva te e diventava meno rigida, la si poteva trovare anche
simpatica.
Mancava una settimana alla partenza e Mel saltava lungo le
stanze come se ai piedi avesse avuto delle molle. Non ero tanto
entusiasta per quello, speravo di non doverla fermare lungo le strade
di New York per impedirle di saltellare allegramente anche lì.
Tess aveva iniziato con le raccomandazioni, e siccome ormai passavo da
loro gran parte del tempo non era raro che le sentissi anch’io.
«Tieni sempre il telefono a portata di mano e mi
raccomando a tenere portafoglio e documenti in tasca, non nella
borsa.»
«Sì mamma.»
«Chiamami appena arrivi e tutte le sere capito?»
«Sì mamma.»
«Dì sempre a Ben dove andrai e cosa farai, e se cambi programma avvisalo, d’accordo?»
«Sì mamma.»
«E comportati bene!»
«Sì Tess.» Oh. Questo ero io. Molto imbarazzante.
Appena due giorni prima del fantomatico matrimonio
ricevetti una telefonata chiaramente disperata di Tess,
dall’altra parte della cornetta si sentiva la voce di Melany che
snocciolava parole a raffica e altre voci ignote. «Ben ascolta,
abbiamo avuto un problema.»
«Cosa c’è?»
«La sorella di Nandika si è rotta un polso e
ha voluto rimandare il matrimonio, così adesso Nandy non
può più venire.»
Rimasi un attimo in silenzio. «E quindi?»
«Io non vorrei mandare Mel da sola, tutto il giorno
a New York senza nessuno, ma scherziamo? Quella si perde e non torna
mai più.» Udii la voce di Mel replicare sullo sfondo.
«Mi chiedevo se a te va bene se… invitasse qualcun
altro.»
«Chi?», domandai. Intimamente conoscevo la risposta, come poteva essere altrimenti? E infatti…
«Malachi.»
«Chi?!», ripetei giusto per esprimere il mio disappunto.
«Il suo ragazzo, Malachi. Non te lo ricordi? A
quanto pare ai suoi genitori va bene anche senza troppo preavviso. Non
devi fare niente tu, niente incontri, niente.» Tranne che
accompagnare quel disgraziato a New York e ritorno, per di più
assieme a Melany. Avevo paura di cosa potessero combinare. «Se
dici di no ti capisco.»
«Be’», cominciai titubante, «la
situazione cambia un po’. Insomma, so che Nandy è una
ragazza tranquilla, a dirti la verità speravo che fosse la parte
razionale del duo. Com’è questo ragazzo?»
«E’ a posto, davvero. Non che lo conosca
benissimo», eh già, «ma mi sembra un ragazzo a
posto, non combinerà guai.» Ma certo, dopotutto un arresto
per possessione di droga, per spaccio!,
cosa vuoi che sia? No, okay, stavo viaggiando troppo con la fantasia.
Dopotutto il ragazzo non mi conosceva troppo bene, e so per esperienza
che di solito gli adolescenti sono più mansueti con un adulto
che non conoscono. E’ quando lo conoscono e scoprono i suoi punti
deboli che diventano dei mostri. Per lo meno… io ero
così. No, ma dài!, io sono sempre stato uno tranquillo,
non si possono fare paragoni! Malachi è come un avanzo di galera
in confronto a me da ragazzo!
Sospirai. «D’accordo. Va bene, sì.»
Allora non lo sapevo, ma avevo firmato la mia condanna a morte.
Bonjour!
Allora, be' non so che dire di preciso su questo capitolo... hm, solo
che è il preludio per qualcosa di veramente doloroso per il
povero Ben! xD Ah, gliene faccio passare di tutti i colori, se mai
venisse a saperlo di certo penserebbe che sono sadica.
Comunque, spero che il cambio di programma del viaggio a NY sia stato
inaspettato (ma forse no, non so, ditemi voi xD), avete ragione a
pensare che dopo questo capitolo arriverà il picco di
drammaticità della storia u_u In realtà nel capitolo
sette, però vabbé, pazientate.
Spero sia piaciuto il piccolo momento Ben/Tess, anche se non è
la vicenda centrale. I pov di Ben mi lasciano sempre incerta, temo
sempre di farl sembrare diverso da come appare nelle interviste.
Per il resto, che dire? Con questo capitolo abbiamo raggiunto la
metà della fanfiction. Non so perché ve lo dico,
così, tanto per...
Be', buona Domenica a tutti, ciao ciao =)
Patrizia
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Capitolo 6 *** Jet Lag ***
VI Jet lag
Capitolo VI
Jet lag
Quando Nandy era venuta a casa a dirmi
cos’era successo quasi mi era venuto voglia di andare da sua
sorella e spaccarle anche l’altro polso. Giusto una piccola
vendetta. Avevo passato tre terribili ore nella disperazione più
totale, e già mamma iniziava a dire frasi come
“Sarà per un’altra volta” o “E’
troppo pericoloso andare in giro a New York da soli senza conoscere la
città”. Ma cosa credeva? Che mi sarei ficcata in un ghetto
pieno di mafiosi? Infine era giunta da parte di Nandika una flebile
proposta: «Perché non lo chiedi a qualcun altro? Sono
sicura che a Ben non dispiacerà troppo; era già
organizzato a viaggiare con altre due persone». Mi ero voltata
verso di lei come avendo un’illuminazione.
«Hai assolutamente ragione.» Corsi verso il
telefono e digitai il numero di Malachi. Da allora la storia è
risaputa.
Ci eravamo organizzati per la partenza di modo che Ben venisse a
prendermi a casa prima di partire. Dovevamo essere all’aeroporto
per le dieci, il che significava partire un paio d’ore prima, e
il check in sarebbe stato circa un’ora dopo. Tutto era pronto.
Avevo invitato Malachi a dormire da noi per non doversi alzare troppo
presto; purtroppo Tess non aveva colto il significato del mio piano.
«Sveglia ragazzi! Veloci! Fate subito colazione e
poi cambiatevi!» Tess entrò in camera facendo un rumore
della miseria, e per di più aprì le tende facendo entrare
la luce fredda del mattino.
Mi svegliai di soprassalto con la bocca impastata e gli occhi
caccolosi (come li chiamavamo io e Nandy), boccheggiando per la
sorpresa. «Che ore sono?» Affianco a me, nel letto
estraibile che sbucava da sotto il mio, Malachi sbadigliò
rumorosamente si girò con il sedere all’aria. I suoi boxer
a quadretti blu e rosa erano qualcosa che non dimenticherò mai,
molto inquietanti!
«Sono le sei e mezza, e dovete muovervi. Controllare
le valige, vestirvi, lavarvi, fare colazione, mettere a posto le ultime
cose…»
Tess parlava a voce troppo alta per me, ma mi rassegnai e
scavalcai Malachi per sgranchirmi le gambe. «Perché ci hai
svegliati così presto?»
«E’ sempre meglio essere in anticipo Mel, non voglio
far aspettare Ben. Ha detto che viene in Taxi, e quindi non possiamo
far aspettare nemmeno il tassista! Il tassametro gira, non voglio che
spenda una fortuna.»
Mi stropicciai gli occhi mentre Tess andava in giro per la
stanza a raccogliere vestiti e rimettere almeno un po’ in ordine.
«Ma lui è ricco, sai cosa gliene frega?»
«Ricco o non ricco non è giusto approfittarsi
di lui. E non dovete essere in ritardo comunque, è una questione
di rispetto.» Così dicendo Tess diede una manata a
Malachi, che ancora non aveva dato segni di comprendere ciò che
gli accadeva attorno, e uscì dalla stanza.
Solo allora Malachi si tolse di faccia le coperte e vidi
che il suo viso era tutt’altro che addormentato. Sorrise furbo e
disse: «Tua mamma parla davvero a voce alta».
«Hai visto? Immaginalo tutte le mattine dall’età di sei anni.»
Malachi ridacchiò e scivolò giù dal letto. «Vuoi andare prima tu in bagno?»
«No, no… come vuoi è uguale.»
«Okay.» Malachi aprì la valigia e
acchiappò un coso bianco dove aveva messo lo spazzolino e tutte
quelle cose lì, poi si chiuse in bagno.
Nel mentre scelsi i vestiti da indossare e mi cambiai, sperando
ardentemente che Malachi non entrasse in quel momento. Ragionavo nel
frattempo sul fatto che non mi aveva ancora fatto nessuna proposta
sconcia, non me lo aveva né chiesto né fatto capire, e
nemmeno aveva provato a fare qualcosa a parte baciarmi con trasporto e
posarmi una mano sul seno. Era stato un po’ imbarazzante
all’inizio, continuavo a pensare a quella mano che stava
lì sulla mia tetta sinistra, ma alla fine ripetemmo
l’esperimento un paio di volte e smisi di pensarci. In fondo lui
aveva il permesso di farlo: era il mio ragazzo e a me non dava
fastidio. L’unico problema era che mi sentivo estremamente timida
nei confronti della mia fisicità. Avevo iniziato a pensare di
non piacere molto a Malachi, almeno in quel senso; altrimenti mi
avrebbe chiesto che voleva approfondire il nostro rapporto, o almeno
avrebbe provato a… non so, a sperimentare! Non che volessi fare quello
subito, volevo solo capire se Malachi era sì o no interessato a
me anche in quel senso. Smisi di farmi problemi inesistenti quando
Malachi rientrò dal bagno. Ero in reggiseno. «Wow, tornavo
prima se lo sapevo», sghignazzò lui chinandosi sui suoi
vestiti. Okay, era interessato.
«Scemo», sibilai arrossendo. Mi vestii in
fretta e andai in bagno a lavarmi. Quando aprii la porta per uscire
trovai Malachi, con quei suoi adorabili capelli ricci che gli cadevano
sul viso. Sorrideva e non appena mi vide mi cinse per la vita e mi
baciò. Ridendo come idioti, andammo in cucina a fare colazione.
«Cosa vuoi per colazione Malachi?»,
domandò Tess. «Ho fatto i pan cake, però ci sono
anche i cereali, e il latte, e il caffè…»
«I pan cake vanno bene, grazie Tess», disse
lui sorridendo. E’ incredibile come diventi raffinato quando si
trova in casa d’altri o in situazioni particolari, quando
è a casa sua, con me, o quando siamo fuori con gli amici,
diventa… diventa un vero idiota: non fa che ridere tutto il
tempo e dire cose cretine. Fa ridere un sacco, e lo adoro quando lo fa,
però riesce anche a fare discorsi seri a volte. Sono cotta al punto giusto, ancora un po’ e sembrerò uno dei pan cake di Tess, pensai in quel momento rivolgendo la mia attenzione ai cereali.
Dopo la colazione e il controllo delle borse da parte di
mamma, che è davvero pignola per certe cose, eravamo pronti, e
Ben suonò alla porta perfettamente puntuale. Mamma ci
aiutò a portare giù due valigie, e anche Ben salì
a dare una mano. Non c’era molto, in realtà, da portare:
sia io che Malachi avevamo un trolley abbastanza grande (dentro
c’erano quasi esclusivamente vestiti) e una borsa ognuno.
«Ci siamo?», domandò Ben mentre il
tassista caricava le cose nel bagagliaio. Salutò Tess con un
bacio, poi lei salutò me e quando fummo dentro il taxi si
affacciò ai sedili posteriori, dove c’eravamo io e Malachi.
«Mi raccomando, chiama quando arrivi okay?»
«Sì tranquilla ma’», la rassicurai.
«D’accordo.» Diede un ultimo bacio a Ben e poi si ritrasse per lasciar partire l’autista.
Una volta in aeroporto imbarcammo le valigie, io e Malachi
comprammo alcune schifezze da mangiare e infine sedemmo ad aspettare
dopo aver fatto il check in. «A che ora arriviamo?»
«Alle tre, più o meno. Forse un po’
prima», disse Ben rispondendo ad un messaggio.
«Perché?»
«Per sapere se potevamo fare qualcosa. Si può
salire sulla Statua della Libertà di notte?»
Ben si strinse nelle spalle. «Sì, non credo
ci siano problemi. Certo, forse non fino alle tre del mattino,
però immagino che ti basti il buio, no? E’ incredibile la
città illuminata.» Sorrise e io annuii. In quel momento il
suo telefono squillò e lui dovette rispondere.
«Allyson!», salutò con un sorriso. Troppo felice per
salutare un’altra donna? Indubbiamente sì.
«Sì, sì, sono qui all’aeroporto, fra poco
partiamo.» Fece una pausa. «Oh, non c’è
problema. Sì per quell’ora dovrei già essere
là. D’accordo, ciao.»
«Chi era?», domandai curiosa.
«Il mio agente.»
«E che devi fare oggi?», chiese Malachi con sagacia.
«Cena assieme a tutti gli altri della troupe. Quindi
voi volete andare alla Statua della Libertà?» Annuii.
«Hm. Avvisa tua madre non appena atterriamo.»
«D’accordo.»
Il volo durò più di sette ore, le passai
ascoltando musica, litigando con Malachi perché barava a carte e
guardando un film che passavano in un piccolo schermo posizionato
dietro il sedile del passeggero che avevo davanti. Che sarebbe successo
se quello avesse voluto stendere il suo sedile e dormire? Bah…
non lo fece. Stavo seduta in mezzo a Malachi e Ben, che si era beccato
il posto vicino al finestrino. Ben rimase per la maggior parte del
tempo ad ascoltare musica e leggere un libro. Fece una partita a carte
con noi, ma da parte sua non udii una parola fino a che Malachi non si
addormentò nel bel mezzo del film, quello finì e io
rimasi senza nulla da fare.
Tolsi le cuffie per l’audio e decisi finalmente di aprire
il pacchetto con il cibo che ci avevano portato le hostess. Era davvero
terribile, un surrogato di carne di vitello con delle pallide patate al
fianco e le salse spremute in un piccolo comparto del vassoio. Storsi
il naso. «Ben tu mangi sempre queste cose quando viaggi?»
Benjamin alzò gli occhi dal libro e diede
un’occhiata al vassoio. «No, non mangio troppo la roba
dell’aereo. Piuttosto se ho fame mangio quando arrivo.»
Delusa, abbassai gli occhi sul mio cibo e piluccai una
patata. Be’ non sapeva di niente, quindi non mi potevo lamentare.
L’unico che aveva mangiato tutto era Malachi, uno stomaco di
ferro come il suo era da elogiare in casi come questi. Ben aveva
gentilmente declinato l’offerta dell’hostess e si era fatto
portare una soda. «Non vuoi nemmeno assaggiare?»
Ben chiuse il libro e mi osservò con un sopracciglio alzato. «Vuoi avvelenarmi?»
«Ti sembra possibile?»
«Certo.»
«Invece non è possibile: il vassoio era
chiuso quando me l’hanno portato, non c’era modo in cui lo
aprissi per metterci del veleno senza che tu te ne accorgessi.»
Ben rise di gusto e io lo seguii a ruota. «Scusa, ti sottovaluto.»
«E poi…», boccheggiai riprendendomi,
«non ti ucciderei mai in un luogo dove le persone che possono
farlo sono così poche. Rischierei troppo.»
«Mi ricordi Niccolò Machiavelli», osservò Benjamin sorseggiando la soda.
«Non ho idea di chi sia ma… grazie.»
Rimasi un attimo in silenzio. «Quindi… quando arriviamo
andiamo in hotel, no? E poi devi… cosa devi fare? Hai detto che
devi cenare con quelli della troupe. A che ora?»
«Allyson mi ha detto che ci dobbiamo trovare alle
sei nella hall dell’hotel. Voi volete fare qualcosa prima?»
«Non lo so. Non hai tempo nemmeno per fare un giro?»
Ben fece una smorfia. «Non credo.»
«Dove andrete a girare? Ci sono degli studi?»
«Sì certo.»
«Chi è il regista?»
«Un regista esordiente a quanto pare. Giapponese francese.»
«Posso divulgare le notizie e diventare ricca?»
Ben rise e commentò: «Non credo che diventerai ricca divulgando questo tipo di notizie».
«Peccato», osservai stringendomi nelle spalle.
Continuavo a mangiare nel frattempo e Ben mi fece segno di pulirmi dove
mi ero sporcata. «Grazie», biascicai con la bocca piena
passandomi il tovagliolo ruvido sulla bocca.
A quel punto Ben stava per ricominciare a leggere il suo
libro, ma ad un tratto parve cambiare idea; lo richiuse per la seconda
volta e mi guardò con occhi indagatori.
«Come…», cominciò, «come va
con…», e indicò Malachi.
Gli gettai un’occhiata e lo vidi tanto addormentato da
pensare che nemmeno se l’aereo fosse caduto si sarebbe svegliato.
«Bene», dissi annuendo. «Perché?»
Ben si strinse nelle spalle. «Così, per sapere. Come sono i suoi?»
«Normali… molto impegnati… Sono spesso in
giro, lui rimane da solo con sua sorella grande un sacco di
tempo.» Mi zittii. Era qualcosa che a Malachi costava fatica
raccontare, io lo sapevo perché lo conoscevo da un po’, lo
sapevamo tutti -Seymour, Nandika e io- che a Malachi dava parecchio
fastidio non vedere mai i suoi genitori, soprattutto perché
quand’era piccolo erano una famiglia molto unita a quel che mi
diceva. Lo avevo notato in particolare da quando ci eravamo messi
assieme. Le prime volte che veniva a casa mia guardava me e mamma
mentre parlavamo e sembrava quasi affascinato, si divertiva a stare con
noi (cosa che credevo impossibile, suppongo perché io ero
abituata a Tess e non la vedevo tanto divertente).
«Ah… gli dà fastidio?» Ben
sapeva essere molto sagace quando voleva. E molto stupido invece la
maggior parte delle volte.
Esitai. «S-sì, un po’. A volte.»
Ben fece un verso incomprensibile. «Come hai detto?»
«Niente.» Rimase per un po’ in silenzio.
«Mel… e se ti rendessi conto che qualcuno che conosci
è un vero stronzo? O una persona… poco
raccomandabile?»
Stava parlando di Tess? Voleva dire che pensava che Tess
fosse una stronza? O magari parlava di lui. Aveva un segreto da dire a
Tess, e aveva paura che lei lo considerasse uno stronzo. Sì,
doveva essere così. Lo analizzai con lo sguardo, tentando di
carpire qualcosa dal suo volto. «Cioè?»
«Be’, se tu conoscessi una persona da un po’,
e ti accorgessi che non è più una persona affidabile,
cosa faresti? Smetteresti di vederla?» Voleva smettere di vedere
Tess? Ma non aveva senso! Che ci facevo allora io lì con lui?
Che modo di tagliare i ponti è quello di invitare in vacanza la
figlia della tua ragazza? «Cioè, metti caso che comunque
tu voglia molto bene a questa persona, ma che ti renda conto che ha dei
problemi seri. Smetteresti di vederla? O le rimarresti vicino?»
O mio Dio. Ben
voleva lasciare Tess. E voleva che io gli dessi un consiglio. Ma che in
mondo parallelo eravamo capitati?! Doveva essere l’ossigeno ad
alta quota. E poi che razza di problemi poteva avere Tess? Intervenni
velocemente: «No!». Lo gridai un po’ troppo forte. Mi
ricomposi e mi guardai furtiva attorno, come se dovessi nascondermi da
qualcuno. «No al contrario, gli starei vicina. Se è una
persona a cui voglio bene…», dissi con fare ovvio.
Ben fece una smorfia. «Ma se quella persona coinvolgesse anche te nei suoi problemi?»
Primo: Tess non aveva problemi. Secondo: lo stava
coinvolgendo in qualcosa? Non mi risultava… «Ma tu non
farti coinvolgere… e poi in che senso?»
«Non c’entro niente io», disse Ben
frettolosamente. «E comunque, nel senso che poi anche tu potresti
avere gli stessi problemi.»
«Hai un problema?»
«No.»
«Qualcuno che conosci ha un problema?»
«N-no.»
«E allora qual è il problema?» Ritornai a sedere dritta e infilai gli auricolari.
Accidenti! Speravo di aver capito male la situazione. Che voleva
dire? Tess aveva un problema, secondo lui, e lo stava coinvolgendo? E
forse Ben voleva lasciare mamma? Se lo faceva giuro che gli avrei
staccato le palle!
Ci rimuginai su finché Malachi non si svegliò.
Allora iniziammo il nostro secondo giro a carte e poi mi addormentai
anch’io. Quando mi svegliai sentivo dei bisbigli attorno a me.
Non aprii gli occhi finché non capii di chi erano. «No,
fermo, faccio io», disse Ben.
«Ma perché? Io sono più vicino.» Malachi.
«Non sai nemmeno come si lega una cintura di sicurezza. E
poi non puoi cercarla lì…» In quel momento
realizzai che avevo la cintura esattamente sotto il sedere.
«Come no? Preferisci farlo tu?», sibilò rabbiosamente Malachi. «Sei un maniaco.»
«Non ti permetterò di palpare Melany quando è affidata a me», disse Ben.
«E’ abbastanza grande per essere palpata,
primo. Secondo: sono il suo ragazzo, credi che non l’abbia
già palpata?» Questo andava assolutamente a favore di
Malachi, e a quanto pare anche Ben parve pensarla allo stesso modo,
perché si zittì. In quel momento aprii gli occhi e
nessuno dei due profferì parola o mi palpò – anche
se per motivi di sicurezza. Mi guardai a destra e a sinistra
finché Malachi non disse: «Allacciati le cinture, stiamo
per arrivare». Ma non potevano solo svegliarmi? In quali abissi
di perversione capita la mente maschile!
«D’accordo.»
Inspiegabilmente, in un impeto di passione, mi
passò un braccio sopra le spalle e mi appicciò a lui. Ero
abbastanza soddisfatta della mia sistemazione sulla spalla, ma ero
anche sicura che lo avesse fatto solo per dare fastidio a Ben. Eppure
credevo che non gli stesse tanto antipatico... O forse faceva
così con lui solo per riflesso, perché lo facevo
anch’io. Mi ripromisi di dirgli di comportarsi bene con lui, in
fondo non era male.
Scendere dall’aereo, recuperare le valigie e andare
in taxi fino all’hotel fu niente meno che noioso e terribilmente
lungo. Un’attesa che aveva dell’incredibile. In tutto non
ci vollero più di due ore o poco più, ma a me parve un
tempo infinito. Mentre il tassista sfrecciava per le vie stavo con il
naso incollato al finestrino e non volevo perdermi una sola cosa di
tutta quella città. Gli edifici, le persone, i colori, tutto mi
sembrava unico, inimitabile: nessun’altro posto al mondo avrebbe
mai potuto essere così. Era bellissimo.
Una volta in hotel ci condussero nella nostra stanza e
diedero ad ognuno di noi un pass. Quando entrammo ci si spalancò
davanti il paradiso terrestre, doveva essere quello il luogo dove erano
stati Adamo ed Eva: 25°esimo piano, camera 87G.
La stanza era enorme, era formata da due aree divise da un
muro e il bagno. Nella prima non appena si entrava c’erano due
divani con un tavolino tondo in mezzo, oltre che una finestra alta come
tutta la parete che si affacciava su una vista spettacolare. Diversi
pouf erano disposti lungo tutta la lunghezza della finestra, e
formavano una specie di lungo divanetto, perfetto per guardare fuori e
godersi il tramonto, lo avrei fatto di certo. C’erano un frigo
bar e una piccola scrivania con tanto di sedia girevole.
Nell’area notte invece c’erano un letto a due piazze, un
grosso armadio a specchi e il bagno. Sarà scontato ma:
sì, anche quello era favoloso.
«Ragazzi io faccio una doccia e poi vado. Facciamo una
cosa: Mel tu hai il mio numero, tornate prima di mezzanotte,
anch’io tenterò di tornare per quell’ora. Faccio
portare un altro letto qui e…»
«Noi dormiamo in quello», disse velocemente Malachi indicando il lettone a due piazze.
«D’accordo», fece Ben piattamente. «Allora ci sentiamo, Mel, mi raccomando.»
«Non ti preoccupare, non ci succede niente!»,
esclamai tirando fuori dalla borsa tutto ciò che mi ero portata
per il viaggio che non mi serviva e lanciandolo su un divanetto.
«Allora ci vediamo… stasera. Ho i soldi, ho il
telefono… ho… ho Malachi, lui sa come orientarsi.»
Ben alzò un sopracciglio ma non disse nulla. Ci salutammo e
uscimmo per le strade di New York.
Mezzanotte meno venti. La metropolitana passò proprio di
fronte a noi, giusto per farsi beffe. Mezzanotte meno un quarto.
Correvamo tenendoci per mano e ridendo come pazzi, mentre Malachi
urlava: «Mi sento come Cenerentola lesbica!»,
«Lesbica?», «Non mi piacciono gli uomini!».
Mezzanotte meno dieci. Le gambe iniziavano a cedere, ma non volevo dare
a Ben ragione di preoccuparsi dopo nemmeno ventiquattr’ore.
Mezzanotte meno cinque. «Buona sera», disse la receptionist
dell’hotel. Mezzanotte meno quattro. Premevo convulsamente il
bottoncino dell’ascensore. Mezzanotte meno tre. «Muoviti,
muoviti, muoviti.» Pregavo. Mezzanotte meno due. Pregavo ancora.
Mezzanotte meno uno. «Eccoci!», esultai aprendo la porta della stanza, trionfante.
La luce era accesa, le coperte si mossero all’improvviso
rivelando un Benjamin alquanto sconvolto avvinghiato nelle lenzuola,
ancora vestito e con gli occhi gonfi.
«Oh scusa, non credevo di svegliarti», mi giustificai.
Lui si passò una mano sul viso e fece cenno che non
importava. «Che ore sono?», domandò con voce roca e
stanca.
«Mezzanotte in punto», annunciò Malachi fiero.
Ben si alzò e sbadigliò. «Ma come fate? Lo sapete che ore sono in Inghilterra adesso?»
«No ho una vaga idea.»
Effettivamente mi sentivo stanca morta, così mentre Ben
andava in bagno a cambiarsi e lavarsi io frugai nella mia valigia e
indossai il pigiama. A turno andammo in bagno. Ormai ficcata sotto le
coperte, con il letto di Ben sistemato affianco a quello di me e
Malachi, guardavo il ‘grande attore’ semi svenuto con la
testa riversa sul cuscino. Sarebbe stato un perfetto Romeo morto. Me la
vedevo Tess come Giulietta. Drammaticità teatrale, le si
addiceva. «Ben?», chiamai incerta. Lui fece un verso per
dimostrarmi che era sveglio, o forse che non lo era ancora per molto.
«Che fai domani?»
«Ah già…», biascicò lui.
Fece una lunga pausa, e quasi pensavo che si fosse di nuovo
addormentato, invece, contro tutte le mie previsioni, parlò.
«Devo alzarmi presto domani, chiamami quando vi alzate e ditemi
dove andate.» Pausa. «La colazione c’è fino
alle dieci giù… al ristorante. La prenotazione è a
nome mio.»
«Okay… grazie. Mille. Davvero.»
«Domani mi racconti che avete fatto, okay?»
«Sì!», dissi raggiante.
«Posso dormire ora?»
«Sì», dissi più pacatamente.
«’Notte.»
«’Notte Ben.»
Buona Domenica a tutti =)
Allora, per prima cosa vorrei dirvi che il prossimo capitolo
sarà quello più carico di phatos! O almeno si spera... io
spero di averlo scritto per bene. Be', mi direte voi.
Ma parliamo di questo, di capitolo! Allora, Melany è ancora
piccola, ha quattordici anni (quasi quindici), perciò ho
ritenuto che il discorso "fare l'amore con il proprio ragazzo" dovesse
essere affrontato in maniera un po' cervellotica. Vi dico subito che
non lo farà, anche perché la cosa perderà
d'importanza dal prossimo capitolo, però pensavo che il
ragionamento ci stesse bene. Io il ragazzo a quattordici anni non ce
l'avevo, quindi non mi facevo problemi di questo tipo, però le
pippe mentali sono sempre molto divertenti da scrivere, e ancor di
più se provengono da adolescenti!
Poi, che altro? Hm, basta così direi, per oggi.
Vi auguro una buona settimana e ci vediamo Domenica prossima!
Patrizia
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Capitolo 7 *** E invece... ***
Capitolo
VII
E invece…
Mi passai un mano sulla fronte
con gli occhi chiusi e poi osservai l’uomo di fronte a me con
sguardo serio. «Non posso farlo Quentin», dissi con
tutta la risolutezza di cui ero capace. Poi mi alzai facendo raschiare
la sedia dietro di me ne andai dalla stanza.
«Stop!»
Mi volsi verso quella decina di persone tutte intente a fare
il loro lavoro e mi diressi verso Noburo. Stava dietro la telecamera e
osservava di nuovo la scena. Era molto giovane, davvero molto giovane,
ma aveva le idee chiare. Per il suo primo film aveva messo assieme con
-relativamente- pochi soldi un buon cast, dei collaboratori capaci e
dei set che avevano dell’incredibile. I produttori erano
rimasti incantati dalla storia e non avevano esitato a metter mano ai
portafogli. Immaginavo che Noburo sarebbe diventato il nuovo Tarantino
franco-nipponico. Quando lo raggiunsi stava riguardando la scena con
occhi concentrati, e alla fine prese in mano il copione e
cominciò a scrivervi febbrilmente. «La
rifacciamo!», gridò Noburo, e tutti si rimisero in
posizione pronti per ricominciare. Venne poi verso di me e Ronald, che
interpretava Quentin, e ci mostrò il copione che aveva
modificato. «Provate a metterci queste battute.»
Conclusione? Ci misi in tutto mezza giornata per
una scena da sei minuti circa. Risultato: non male, devo ammetterlo,
molto più dinamico del tentativo precedente.
Era quasi ora di cena quando decisi di chiamare
Melany per sapere se fosse ancora viva o se fosse fuggita decidendo di
andare ad abitare abusivamente a Times Square, piazza di cui si era
innamorata. «Mel?»
«Ciao! Come va? Hai finito? Noi stiamo
tornando in hotel, ceni con noi oggi?»
«Sì… sì
credo di si.»
«E tutti i tuoi amici del film? Sei
sicuro che non devi cenare con loro?»
«No, ceno con te. Con voi.» Mi
diressi al camerino e mi ficcai nel bagno. «Senti devo andare
adesso, ci troviamo davanti all’entrata, okay?»
«Va bene, a dopo.»
«Ciao.»
Levai il trucco e tolsi il costume di scena.
Mezz’ora dopo stavo salutando tutti. Uscito
dall’edificio chiamai un taxi e mi feci portare in hotel.
Quando scesi vidi Mel venirmi incontro correndo, con il cellulare teso
verso di me. «E’ Tess», disse.
«Pronto Tess!», esclamai
sorridendo automaticamente e facendo cenno ai ragazzi di entrare.
«Ciao», salutò lei,
e potevo giurare che stesse sorridendo… spero.
«Come va? Come va con Mel?»
«A posto, tutto a posto. Davvero,
è brava. Sono passati solo cinque giorni, ma è
brava… ancora… per ora.»
«Ah bene. E tu, come vanno le
riprese?»
Parlai con Tess per quasi venti minuti, e quando misi
giù stavano già servendoci da bere.
«Chi ha ordinato la birra?», domandai con voce
involontariamente acuta.
Malachi alzò una mano, piano.
«Io.»
Alzai un sopracciglio. Non ero suo padre, dopotutto. Poteva
fare come voleva. Ma perché doveva farlo quando
l’unico adulto responsabile ero io? Non che con una birra ci
si potesse ubriacare, ma non si sa mai. «Che avete fatto
oggi?»
Mel prese parola, entusiasta: «Siamo
andati a vedere il Ponte di Brooklyn, abbiamo visto che stavano facendo
un documentario, era una specie…». Lo ammetto,
smisi di ascoltare poco dopo, ma solo perché ero un
po’ stanco, e perché Mel ci stava mettendo
più dettagli del previsto. Mangiai come se fosse
l’ultima cena e rubai la birra fredda di Malachi.
«Ben quando finisci le
riprese?», domandò Melany.
«Il 26 dovrei finirle.»
«Però noi torniamo il
31.»
«Sì.»
«Pensavo una cosa», disse Melany
entusiasta. «Ti va di fare un pic nic assieme a noi? A
Central Park. Sei mai stato a Central Park?»
«Hm, no…», mi pulii
la faccia con il tovagliolo perché avevo la
capacità di sembrare un dalmata dopo ogni pasto, e ci
dirigemmo nella stanza. «Comunque devo ancora fare due cose
in quei giorni, però sì, possiamo trovare un
giorno libero. Che volete fare domani?»
«Vogliamo andare all’Empire
State Building, e se riusciamo anche al Rockfeller Centre»,
mi informò Malachi saltando vari gradini della piccola
scalinata.
«Oh!», esclamò
Melany, «E quando facciamo il pic nic dobbiamo anche vedere
il Guggenheim Museum.»
Aggrottai le sopracciglia. «Non sapevo
che t’interessassi d’arte.»
«Infatti non lo faccio, ma è
un museo famoso dove girano un sacco di film, e quindi ci voglio
andare.»
Misi le mani in tasca. «Anche se non
capirai niente di quello che vedi?»
Mel annuì. «E’
lì che si sono svolte centinaia di finte sparatorie dei
film, e poi voglio vedere la spirale gigante.» Sbuffai una
risata e continuai a camminare.
Nei giorni seguenti Melany e Malachi se la presero con calma
per visitare la città, i suoi dintorni e anche alcune
città vicine. Io invece andavo parecchio di fretta con le
riprese ed ero sul set tutti i giorni alle sei e mezza in punto per
farmi truccare e per filmare almeno fino alle sei del pomeriggio, o
forse di più.
I giorni trascorsero abbastanza velocemente. Ogni
mattina mi svegliavo presto e andavo agli studi, all’ora di
pranzo chiamavo Mel per sapere dov’era, poi facevo una
telefonata a Tess e infine ricominciavo fino a tardo pomeriggio.
L’unica volta in cui terminai tardi fu un giorno
particolarmente funesto, in cui avevo una scena notturna, per farla
breve rimasi sveglio tutta la notte e riuscii a ficcarmi a letto solo
alle cinque di mattina. Ma non era così grave dopotutto: mi
piaceva Beyond Marshall,
non assomigliava a nessun film che avevo già fatto. La sera
di solito cenavo assieme a Mel e Malachi e infine crollavo sul letto,
distrutto. In quei giorni ero parecchio distratto e non mi rendevo
minimamente conto di cosa succedesse al di fuori del set. E’
uno dei miei difetti: vengo assorbito completamente dal lavoro, non
vedo altro durante le riprese. Sono terribile quando faccio
così. Quella volta in particolare si dimostrò un
fatale errore.
Era l’ultimo giorno di riprese e quella volta
anche i ragazzi si erano alzati presto perché dissero che
volevano passare tutta la giornata a Coney Island, al parco
divertimenti.
In quei giorni avevo notato che Melany chiedeva di continuo
quando avrei avuto del tempo libero, o quando sarei riuscito a passare
con loro un paio di giorni. Immaginavo che Tess ci fosse sempre per lei
e forse era abituata a stare con sua madre molto spesso: in questo modo
io diventavo il surrogato da viaggio, così voleva passare un
po’ di tempo con me. La cosa da un certo punto di vista mi
lusingava, ma in realtà la mia mente era altrove.
«Oggi è l’ultimo
giorno», dissi a Mel, «domani devo andare a fare
due interviste, una nel mattino e una nel pomeriggio. Poi
sarò libero come l’aria, te le prometto.»
«D’accordo.» Mel
sorrise e mise il telefono in tasca. «Ti chiamo verso
mezzogiorno, okay?», disse mentre eravamo in ascensore.
«Okay.»
Sulla strada ci dividemmo e io presi la macchina
che mi avrebbe portato sul set, questa volta all’aperto. Per
il mio ultimo giorno avevo una scena abbastanza facile, non ci misi
più di tanto a farla, e poi dovetti andare in sala montaggio
per ridoppiare il mio personaggio in una scena che avevamo girato
qualche giorno fa, anche quella fuori dagli studi. Quando terminai la
mia ultimissima scena nei panni di Nicolas Roman, con tanto di morte e
sangue dappertutto, salutai i membri della troupe, il cast, e tutti gli
assistenti che avevo conosciuto. In più la costumista mi
fece tenere i guanti da motociclista che avevo usato per un sacco di
scene e che mi piacevano tanto. Non me ne sarei mai fatto nulla, non ce
l’avevo neanche una Harley Davidson; imparare a guidarla per
quelle due scene in cui dovevo farlo però fu più
difficile del previsto: era pesantissima e io non ero mai stato su una
moto. Comunque avevo avvisato Tess che quella sera a cena non ci sarei
stato, io e alcuni ragazzi avevamo deciso di fare un’ultima
uscita assieme, così lei si prese l’impegno di
avvisare Melany al posto mio.
Quando tornai in hotel era passata da poco la mezzanotte e
mi trascinai in camera sperando di infilarmi a letto il più
presto possibile. Quando entrai tuttavia scorsi Malachi accasciato
malamente su uno dei divani, che guardava fuori dalla finestra con
occhi spenti. «Ciao», salutai. Lui non mi
degnò di uno sguardo. Non ci feci caso a proseguii diretto
al bagno. Stavo per entrare e chiedere dove fosse Melany quando un
rumore dall’interno me lo chiarì. Mi ritrassi un
secondo con una smorfia involontaria e poi optai per un:
«Mel? Sei tu?».
«Vattene via!», la sentii
esclamare.
«Ti senti bene?»
«No! Che domanda
è?!»
«Posso entrare?»
Momento di esitazione.
«Sì.»
Spinsi piano la porta e trovai Melany accasciata accanto al
wc. «Ti senti male?», domandai. Domanda retorica
ovviamente, si vedeva che si era appena presa la prima sbronza della
sua vita.
«Sì. Sto vomitando», disse
con ovvietà quasi parodistica. La sua voce era impastata di
stanchezza e sconforto, i sintomi del malessere da ubriacatura.
Nonostante la situazione quasi ridacchiai. Io non
avevo bevuto tanto fino all’età di diciassette
anni, ad una festa in casa di amici. Mi ero sentito male come poche
volte nella mia vita e per i seguenti tre mesi non avevo bevuto niente
di niente, ero disgustato. Da allora non tocco la vodka. Ma che volete?
Capita all’80% della popolazione mondiale almeno una volta,
di questi tempi.
«Sì, vomiti»,
osservai cauto, «Lo vedo.» Mi chinai su di lei che,
con gli occhi chiusi, tentò di scacciarmi debolmente con una
mano. «Vuoi che rimanga qui?»
Qualcuno doveva pur farlo, se non lo faceva Malachi.
Mel parve esitare di nuovo e fece una smorfia.
«Sì.»
Mi sedetti al suo fianco, la schiena contro la vasca da
bagno che occupava una parete intera. «Come va fin ora? Hai
già fatto qualcosa?»
«Sì. Due volte.»
«E hai ancora nausea?»
«No, un po’ è
passata… Va e viene.» Melany si portò
una mano alla fronte e sussurrò qualcosa come ‘Oh
Cristo’.
«Se ti arriva il vomito…
fallo, davvero», le consigliai. «E’
meglio così fidati, poi starai bene.»
Passò almeno mezz’ora e siccome Mel non accusava
altri sintomi mi arrischiai a portarle un bicchiere d’acqua
per sciacquarsi la bocca. Lei eseguì e poi si
appoggiò alla mia spalla, sospirando con gli occhi chiusi.
«Ben», chiamò con
voce sottile.
«Sì?»
«Mi dispiace se sono stata antipatica
con te.»
«Oh, non importa», dissi
leggermente sconsolato. Il mio sogno di dormire si affievoliva sempre
di più. Sperai di non dover stare a sentire Melany che mi
rivelava i suoi più oscuri segreti in preda al dopo sbornia.
«Anche a Malachi dispiace.»
Ne dubitavo. «Già.»
Rimasi un po’ in silenzio. «A proposito di Malachi:
lui come sta?»
«Bene… più o
meno.» Melany cominciò a ridacchiare ad occhi
chiusi, convulsamente. «E’ uno scemo, non sarebbe
dovuto salire su quell’affare dopo il quarto hot dog, e dopo
aver bevuto quella roba con quella… roba dentro. Gli
è costata un occhio della testa»,
sussurrò piano.
Mi si drizzarono i capelli sulla nuca.
«Che cosa?», domandai ad alta voce voltandomi verso
Mel. «Che cos’ha bevuto?»
«Ha bevuto del vino, con dentro una
cosa… che gli ha dato… coso.»
Inutile parlare con lei, si vedeva che stava per
addormentarsi, ma me la stavo facendo sotto dalla paura e dovevo sapere
assolutamente che cosa fosse successo. «Chi? Cosa gli ha
dato?», insistei.
«Una cosa… una
pillolina… che ne so io…»
Mi alzai di scatto e tirai su Melany con me, che
era talmente stanca che non ebbe nemmeno la forza di protestare. La
trasportai di peso a letto e ve la lasciai, raggiungendo Malachi che si
era spostato sul pavimento e guardava il soffitto senza dire una
parola. I suoi occhi erano grandi e le pupille dilatate. Mi
spaventò. «Malachi che cos’hai fatto?
Che cos’hai preso?», domandai.
Lui si volse verso di me mi guardò con
occhi vacui. Poi si alzò e disse: «Niente. Niente,
abbiamo solo bevuto un po’.»
«Stronzate!», dissi in modo
più duro di quanto lo volessi, «Me l’ha
detto Melany.» Feci una pausa e mi passai le mani sul viso.
«Senti… dimmi solo una cosa», mi
inginocchiai sul pavimento e lo guardai in quegli occhi strani,
«Qualsiasi cosa fosse… l’ha presa anche
lei?».
Malachi distolse lo sguardo dal mio.
«No.»
«Malachi!», lo costrinsi a guardarmi,
«Davvero?»,
domandai serio. Tenevo gli occhi spalancati e non me ne rendevo nemmeno
conto. Dentro di me ero terrorizzato, ma la confusione si era
trasformata in un rumore sordo che non mi faceva capire nulla.
Malachi si alzò infastidito.
«No ti ho detto.» Mi scacciò con la mano
e se ne andò dall’altra parte della stanza
biascicando qualcosa come “stronzo”.
«Che cosa?!», strillai ancora
io, più incazzato di quanto volessi sembrare. In fondo,
perché prendersela con uno stupido ragazzino di quindici
anni?
Raggiunsi Malachi a passi lunghi e veloci e lui si
voltò. Per tutta risposta disse qualcosa a cui non diedi
peso in quell’istante: «Tu non capisci un cazzo.
E’ da tutto il tempo che siamo qui che si agita come una
pazza per te e… è fatica sprecata, tu nemmeno te
ne accorgi», aggiunse scrollando le spalle.
In quel momento presi una decisione veloce.
«Dammi il tuo cellulare.»
Lui si volse verso di me.
«Perché?»
«Dammelo.»
«No.»
«Malachi, ‘sta zitto per una
volta e fa quel che ti dico! Dammi il tuo cazzo di
cellulare», sillabai tendendo la mano.
Malachi pareva non aver voglia nemmeno di ribattere.
Indicò con gesto molle il tavolino e biascicò un:
«E’ lì, prenditelo se lo vuoi».
Non me lo feci ripetere. Lo presi e mi chiusi nel bagno, cercando il
numero di casa nella rubrica. Mi rispose una voce femminile che pareva
alquanto seccata. «Pronto?»
«Pronto sono Benjamin Barnes, sono qui a
New York con suo figlio Malachi.»
Dall’altra parte c’era
silenzio. Un brusio indistinto e poi: «Chi è
lei?».
Confuso, ripetei: «Sono- Sono Benjamin
Barnes, ho accompagnato io vostro figlio a New York. Vostro figlio
Malachi. Voi siete i suoi genitori vero? E’ qui con me,
assieme alla sua ragazza Melany». Un dubbio atroce mi si
insinuò sottopelle.
«Mio figlio Malachi è a casa
della sua ragazza, assieme a lei e a sua madre Tess.»
Perfetto.
«Mi spiace informarla signora… che non
è così», dissi lentamente.
«Io sono il fidanzato di Tess. Ho portato Melany in vacanza a
New York e le ho detto che poteva invitare qualcuno se voleva. Vostro
figlio è con noi al momento. Ha detto che poteva venire, ha
detto… che per voi andava bene. Non ha parlato con Tess? Lei
ha detto di aver parlato con la madre di Malachi, al
telefono.»
La donna dall’altra parte scambiava
parole con qualcun altro. «Mi passi Malachi», disse
poi con voce dura.
«D’accordo.» Tornai
nella stanza e porsi a Malachi il cellulare. «E’
tua madre», dissi con voce secca. Lui impallidì,
sgranò gli occhi e mi osservò con odio. Prese il
telefono e si rinchiuse nel bagno.
Per farla breve, fu una lunga nottata.
Scoprimmo che Tess non si era mai messa d’accordo
con la madre di Malachi per telefono, ma lo aveva fatto con sua sorella
maggiore, la quale aveva acconsentito a reggere il gioco a Malachi
finché non fosse tornato. Il mattino dopo un uomo dai
capelli bianchi e grigi vestito in giacca e cravatta venne a prendere
Malachi e si scusò profondamente per tutto quel che aveva
combinato. Fui certo di lasciarlo al padre quando Malachi si chiuse in
un mutismo da troglodita e non ne uscì se non per dirmi di
salutargli Melany. Dormii per quattro ore e alle undici ero nello
studio radiofonico di Radio Live Explosive per un’intervista.
Avevo lasciato un biglietto a Melany nel quale le dicevo di rimanere in
camera, non preoccuparsi per l’assenza di Malachi e chiamare
sua madre non appena si fosse svegliata. Avevo avvisato Tess su quel
che era successo con Malachi, ma avevo glissato sul fatto che i due
fossero ubriachi e uno di loro anche fatto, e Tess era rimasta
perplessa e un po’ delusa. Appena dopo essere uscito dagli
studi radiofonici andai a fare un’intervista con un
giornalista che, per fortuna, fu abbastanza comprensibile e
notò che non ero dell’umore adatto.
Così tutto fu tranquillo, niente domande impegnative, e me
ne tornai in hotel per le cinque del pomeriggio. Quando entrai vidi che
Melany aveva ordinato da mangiare ma aveva lasciato tutto
lì, poi si vede che si era rimessa a dormire,
perché la trovai nel letto rannicchiata sotto le coperte. Mi
gettai nel letto ad una piazza e mi addormentai all’istante.
Quando mi svegliai vidi che Melany si era alzata e aveva
fatto una doccia. Stava seduta su una delle poltrone con addosso il
pigiama e guardava fuori dalla finestra con le cuffie nelle orecchie e
l’asciugamano arrotolato sui capelli. Non avevo voglia di
parlare con lei in quel momento, così mi infilai nel bagno
senza farmi vedere e feci una doccia. Quando uscii Melany stava seduta
a terra al tavolino basso. Aveva abbandonato l’asciugamano
sul letto e i capelli le ricadevano umidi sulle spalle. Scarabocchiava
qualcosa su un foglio, un disegno non troppo elaborato né
convinto. Quando alzò gli occhi e mi vide qualcosa a
metà fra l’imbarazzo e il rimorso le
passò sul viso. «Ciao», disse con voce
appena udibile.
Sedetti di fronte a lei e mi appoggiai con i
gomiti al tavolino di vetro. «Ciao.» Restammo un
attimo in silenzio finché lei non prese parola:
«S-senti Ben… mi dispiace un
sacco per quello che è successo. Davvero. Io non lo sapevo,
credevo che Malachi avesse il permesso, te lo giuro!»,
cominciò a dire precipitosamente.
Le feci cenno con un braccio di calmarsi e annuii.
«Lo so. Non c’è bisogno che chiedi
scusa.» Sorrisi. «Come ti senti?»
«Meglio, grazie.» Melany
aggottò le sopracciglia e parve ad un tratto combattuta.
«Ben, se ti chiedo una cosa… tu mi risponderai con
la massima sincerità, non è vero?»
«Sì, certo.»
Mel prese un grosso sospiro. «Vuoi
lasciare Tess?»
Fra tutto quel che poteva chiedermi quella era
l’ultima cosa che mi ero aspettato.
«Cosa?», riuscii solo a domandare.
«Rispondi», ingiunse Melany
decisa.
«Ma no», dissi io in fretta,
smarrito. «Perché me lo chiedi?»
All’improvviso parve incerta. «Io
credevo che tu volessi. Quel discorso che mi hai fatto in aereo; ci ho
pensato un sacco. Mi hai chiesto se io sarei rimasta vicino ad una
persona a cui volevo bene, anche se mi causava problemi, e tutte quelle
robe lì.» Ritrovò la sicurezza perduta.
«Parlavi di Tess, non è vero?» Tentai di
replicare ma lei non me ne diede il tempo. «Avanti dillo! Lo
puoi dire; non mi offendo, davvero. Insomma», fece una risata
sardonica che di allegro non aveva un bel niente, «tanto lo
so che sono solo una gran rottura di scatole per tutti voi. Volete
solo… cose semplici e niente problemi
e…»
«Melany di chi stai parlando?», la
interruppi a forza prendendole le mani che continuavano a gesticolare
in ampi movimenti nervosi e facendogliele abbassare.
«Dico solo… che se vuoi lasciare Tess
per colpa mia, perché sono un problema»,
aggiunse sottolineando le ultime due parole e liberandosi rabbiosamente
dalla mia stretta, «potresti anche farlo senza venire a
chiedere consiglio a me! Durante un volo in aereo!»
«Ma io no stavo parlando di quello!»
Alzai la voce anch’io per farmi sentire attraverso le sue
urla senza senso. «Io non voglio lasciare Tess!»
«Ah, e allora di cosa
parlavi?!»
«Di Malachi!»
Il silenzio piombò nella stanza
all’improvviso e Melany parve essere stata colpita da un
fulmine. Si zittì completamente e rimase rigida sul posto, a
guardarmi con gli occhi spalancati. Infine parve afflosciarsi e farsi
più stanca. Non disse niente e non mi guardò
più. Io mi spostai dalla mia posizione di fronte a lei e la
affiancai, passandole una mano sulle spalle.
«Melany… non voglio lasciare Tess, e se mai un
giorno succederà che ci vorremmo lasciare non
sarà di sicuro per colpa tua.»
La voce di Melany tremò quando lo
chiese: «Sei innamorato di lei?».
«Sì», dissi senza
esitazione. Ero sicuro che fosse una risposta adatta, che le avrebbe
fatto piacere. In più era assolutamente vero e credevo che
volesse solo sapere se io ero sincero con Tess. Abbassai lo sguardo
verso Mel cercando segni di uno dei suoi sorrisi maligni, ma notai che
grosse lacrime le solcavano il viso. Mi guardò negli occhi e
quando parlò non credetti a quel che diceva.
«E di me non sei innamorato neanche un
po’?»
Il cervello mi si era inceppato. Avevo
l’impressione di essermi perso qualcosa.
«Come?», domandai con voce flebile, e non riuscivo
a staccare gli occhi dai suoi.
«Ti ho chiesto», Melany
mandò giù della saliva a fatica, potevo quasi
sentire io stesso il groppo che le faceva male in gola, «se
per caso non sei innamorato anche di me, oltre che di mamma. O se vuoi
bene solo a lei, perché nessuno dei ragazzi che mamma aveva
avuto fino ad ora si era interessato anche a me come hai fatto
tu.» Melany fece qualche singhiozzo e continuò a
parlare a fatica, gesticolando e con il viso rosso di pianto.
«Tu mi chiedi come sto, cosa faccio, cosa mi piace... E
nessuno oltre Tess l’aveva mai fatto, nessuno di grande, un
adulto. Però quando te lo chiedo tu dici sempre che stai con
me solo perché te lo ha chiesto lei, come per i c-compiti. E
quindi… i-io penso che non lo fai perché ti fa
piacere stare anche un po’ con me, lo f-fai solo
perché te le ha chiesto lei. E credi che in fondo sarebbe
meglio che io non ci fossi affatto, così potresti stare solo
con Tess.» Melany terminò di parlare a fatica e
subito dopo iniziò a piangere silenziosamente. Io mi sentii
un idiota.
Anche se non avrei dovuto, mi rilassai. Se inizialmente
pensavo che era successo un casino, che c’era una qualche
sorta di triangolo amoroso leggermente imbarazzante e anche
illegittimo, mi sbagliavo. Melany aveva passato tutti questi mesi a
sperare che io mi affezionassi a lei. Tutti i suoi discorsi, le
domande, gli atteggiamenti che aveva con me, all’improvviso
acquistarono un senso. E mi resi conto che anche ciò che
avevo fatto e detto io aveva avuto un peso enorme su tutta quella
faccenda. Perché mi ero interessato tanto, in fin dei conti?
Forse perché volevo che avessimo un ben rapporto solo
perché Tess fosse felice, o forse perché non mi
andava di litigare sempre con lei e dover essere costretto a vederlo.
Si, magari all’inizio era così, ma poi ovviamente
mi ero affezionato a Melany. Anche se tentava sempre di farmi la
guerra, anche se si agitava in continuazione. Le volevo davvero bene.
Ma cosa voleva Mel da me? Che le dicessi che le
volevo bene come a Tess, che fossi… cosa? Che diventassi suo
padre? Non ne aveva mai avuto uno, come poteva passarmi per la testa
che ne volesse proprio uno come me? E poi io non ero capace di farlo,
non sapevo come si faceva, non ci avevo mai neanche pensato. Era una
faccenda surreale, credevo che mi odiasse invece voleva solo delle
attenzioni, come ogni altro ragazzo della sua età in fin dei
conti. Voleva che il fidanzato di sua madre diventasse qualcosa anche
per lei, solo che a lei non serviva un fidanzato, le serviva una figura
paterna. Ma ti può servire dopo tutti questi anni senza? Ma
io che ne sapevo? Perché non me lo aveva detto subito? La
cosa si sarebbe risolta molto meglio e molto più presto.
“Senti Ben, non è che ti andrebbe di mettere su un
bel rapporto padre-figlia nel frattempo che mi aiuti nel
tema?”, ecco, avrebbe potuto dire così. Io non
sono bravo a capire queste cose non dette. Io amo Tess, è
così, ma…
In quel momento ci pensai davvero seriamente: cosa
sentivo per Melany? Era solo una palla al piede per me? O magari in
fondo mi stava simpatica… Era difficile scoprirlo in due
minuti, ma immaginavo di doverlo fare, per lo meno per impedirle di
trasformare la stanza nel Windermere.
«Io credo che non mi sarei mai innamorato di Tess
se non ci fossi stata tu.» Melany alzò gli occhi
rossi e gonfi e mi osservò smarrita. «Tess
è quello che è anche grazie a te, e se tu non ci
fossi sarebbe una persona completamente diversa, e io forse non le
avrei mai nemmeno parlato.» Feci una pausa, mi umettai le
labbra. «E anche se all’inizio litigavamo, io mi
diverto un sacco con te, lo sai? E’ bello aiutarti a fare i
compiti e anche- anche mangiare fuori assieme e parlare. Anche se dici
cose stupide o cattive… verso di me, la maggior parte delle
volte.
«Comunque sia… tu sei una persona
bellissima, tu riesci a vedere sempre il meglio negli altri, e sai fare
quel gioco con le mani dove sembra che ti stacchi il dito e io non lo
so fare, ti piacciono un sacco di cose che piacciono anche a me.
Cioè dài, mi sembra di conoscerti almeno un
po’, e mi piaci! Sono felice di averti conosciuta. Sono
felicissimo di aver conosciuto tutte e due, tu e tua madre.
E…», sospirai e strinsi Mel più forte,
come rassegnato alla dichiarazione che stavo per fare, ma diceva
qualcosa di vero «sì… io amo tutte e
due.»
Melany mi strinse in uno degli abbracci
più sinceri che avessi mai ricevuto.
Buona Domenica a tutti!
Allora, questo capitolo mi sembra così drammatico che sono
stata incerta se postarlo così o cambiarlo e farlo un po'
più leggero. La fanfiction è già
scritta, ma mi chiedevo se avessi esagerato con il dramma e se non
fosse il caso di ridurlo.
Cooomunque, alla fine abbiamo scoperto che Mel in realtà si
è affezionata a Ben, solo che il suo modo di fare era un po'
ingannevole (non si può biasimare il povero Ben se non l'ha
capito! xD).
Mah, non so... continua a sambrarmi così drammatico... Ma
non vi preoccupate, nel prossimo ci risolleviamo, prometto!
Insultate pure Malachi, fate fate! Lo insulto anche io che l'ho creato
xD
Un saluto a tutti,
Patrizia
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Capitolo 8 *** New York! New York! ***
VIII
Capitolo VIII
New York! New York!
Girellavo fra gli scaffali e guardavo
dolci di ogni tipo, indecisa su cosa prendere che fosse gustoso e allo
stesso tempo pratico. Infine optai per dei biscotti e li aggiunsi alla
pila di calorie che già trasportavo nel carrello. C’erano
il pane, il prosciutto e le pizzette, una bottiglia da un litro di
aranciata e dei biscotti secchi al cioccolato. A ripensarci mi viene la
nausea. Pagai con i soldi che mi aveva dato Ben e tornai in hotel. Alla
reception c’era il solito ragazzo gentile che salutava tutti
quando entravano. Mi avvicinai e gli chiesi di far portare su alla
camera dei coltelli per il pane, alcuni bicchieri di plastica,
tovaglioli di carta e magari una borsa.
Ben non c’era: l’avevano invitato
all’improvviso ad una trasmissione televisiva nel mattino e ci
era andato senza farsi troppi problemi, lasciandomi da sola ad
organizzare il nostro pic nic a Central Park. Gli avevo chiesto se
almeno sarebbe stata una diretta e lui mi aveva detto in che canale
fosse. Una volta in camera, assieme a tutto quello che mi ero fatta
portare, accesi la tv e misi il canale dove doveva esserci Ben. Ancora
non era lì, e la conduttrice parlava con un tizio che a quanto
pare aveva una grandissima collezione di farfalle rare… vive.
Iniziai a preparare i panini e la borsa con tutte le cose che ci aveva
dato l’hotel. Un hotel a cinque stelle non mi avrebbe mai deluso,
lo sapevo.
Se ripensavo a cos’era successo l’altro giorno
mi venivano i brividi lungo la schiena, mi sentivo particolarmente
idiota e sarei voluta tornare indietro nel tempo se fosse stato
possibile. Non potevo credere di aver detto quelle cose! Sì,
erano tutte assolutamente vere, ma non avrei dovuto dirle comunque.
All’inizio lo detestavo, è vero, lo detestavo come tutti
gli altri ragazzi di Tess. Ma con loro non avevo mai avuto questo
problema che era sorto con Ben perché non erano stati assieme a
mamma abbastanza da conoscerli meglio, e anche perché per loro
era sempre stato come se non fossi mai esistita. Semplicemente mi
rivolgevano un saluto cortese, ricambiato da un grugnito di odio, ma
poi tiravano avanti e mi ignoravano. Cominciavo a pensare che mamma non
avrebbe trovato un uomo che mi avrebbe per lo meno parlato, e poi era
arrivato quel deficiente di Benjamin! Deficiente in senso affettivo,
ovvio.
Dopo il mio tradizionale scontro a muso duro, giusto per
vedere come reagiva, mi ero stupita nel vederlo rodersi così
tanto per la faccenda. Nessuno dei precedenti ragazzi si era mai dato
la pena di chiedermi perché lo detestassi, o anche solo di
parlare con me al di fuori delle conversazioni-tipo che la buona
educazione dettava. Lui invece voleva sapere, insisteva, sembrava
davvero dispiaciuto della cosa e… a forza di parlare e di
tentare di andare d’accordo alla fine non lo trovavo più
tanto antipatico. Ero arrivata ad un livello nel quale non solo
riuscivo a sopportare Ben, ma addirittura cominciavo a trovarlo
piacevole. Quando passammo un po’ più tempo assieme per
quegli stupidi compiti mi ero addirittura arrabbiata con me stessa
perché non vedevo l’ora di farli assieme a lui! Certo, non
che fosse così divertente, ma il solo fatto che lui fosse
lì, che mi spiegasse le cose quando non le capivo, che mi
venisse a prendere e mi riaccompagnasse a casa, era piacevole. Mi ero
arrabbiata perché non volevo essere così felice di
vederlo, perché notavo che a lui non faceva alcuna differenza se
io ero lì o se non lo ero. Piano piano, senza nemmeno rendermene
conto all’inizio, cominciai a fargli domande strategiche, delle
quali nemmeno io volevo sapere la risposta, né tantomeno sapevo
quale sarebbe stata quella che mi sarebbe più piaciuta. Lui
continuava a dire la cosa sbagliata, non riuscivo a capire se gli
piacesse stare con me, o se lo facesse solo per fare un piacere a Tess.
Quando li vedevo assieme i suoi occhi brillavano, sorrideva sempre e
pareva che tutto il suo mondo fosse perfetto. Quando era con lei
nemmeno le mie battute taglienti dopo un po’ avevano effetto.
Come non immaginare che lui sopportasse me solo per stare con lei? Mi
sentivo come una delle piaghe d’Egitto.
Intendiamoci: Benjamin può anche essere considerato
da alcune un uomo bellissimo -compresa quell’orba di mia madre-
ma non volevo le sue attenzioni in quel senso, neanche minimamente! A
me, ad essere sinceri, sembrava un vero scherzo della natura, qualcosa
a metà fra un maiale e un tucano, con quel naso enorme che gli
occupava tutta la faccia e quel mento diviso in due che sembrava un
sedere. Be’, sarà anche stato un mento-sedere, ma era
simpatico, e tanto mi bastava perché cominciassi a desiderare di
essergli simpatica anch’io. Poi mi venne in mente una cosa
strana: se Ben stava con Tess, e Tess era mia madre, lui diventava il
mio patrigno. Patrigno è una così brutta parola, e
l’unica altra parola che poteva essere usata è padre. Mi
ritrovai a pensare che, se Ben fosse stato mio padre, sarebbe stata di
sicuro la cosa migliore che mi sarebbe mai potuta capitare. Era
simpatico, amava mamma, riusciva anche a far valere su di me un
po’ della sua autorità, proprio come dovrebbe fare un
padre vero, ma era simpatico e si comportava come un amico.
Però, irrimediabilmente, mi venne un dubbio: se lui non volesse
affatto una figlia come me? D’altronde, chi mai vorrebbe per
figlia una che non ha fatto altro che insultarti da quando ti conosce?
Lui mi aveva detto che era felice di avermi incontrata,
assieme a Tess, ma aveva anche precisato una cosa: se non fosse stato
per me, Tess sarebbe stata una persona diversa. Insomma alla fine,
mettiamola come ci pare, tornava sempre a Tess. Dovevo solo rassegnarmi
all’idea che Ben sarebbe rimasto un buon amico, uno adatto con
cui andare a mangiare fuori, guardare un film e… magari anche
fare un pic nic.
Per questo motivo mi sentivo stupida ad aver detto
ciò che avevo detto: ancora una volta era così chiaro che
lui avrebbe preferito che io non ci fossi. Quella che aveva detto era
stata una stupida scusa, in un arrampicarsi sugli specchi favoloso, non
c’è che dire.
«E adesso, reduce dal successo di Killing Bono e in
procinto di lanciare un nuovo film… Ben Barnes!» La
presentatrice lo annunciò alle telecamere, sorridente, e
cominciò ad applaudire assieme agli ospiti. Inquadrarono un paio
di ragazzine con uno striscione per Ben. Se io avessi dovuto fargli uno
striscione ci sarebbe stato disegnato sopra un dito medio. Anche quello
in segno di affetto.
«Allora Ben, sappiamo che hai recitato in una nuova
pellicola, che ci racconti?», domandò la conduttrice.
Ben prese a parlare, seduto su quel divanetto bianco con
nonchalance, come se lo facesse tutti i giorni. Io me lo vedevo seduto
in tuta alla cucina di casa mia, e tutta quella nonchalance non ce
l’aveva da sudato reduce dal jogging. «Ho finito le riprese
giusto l’altro ieri. Il film si chiama Beyond Marshall è
una specie di film d’azione, ma è molto particolare
perché intreccia le vite private di tutti i personaggi come se
fosse, in effetti, un romanzo o simili.»
«Il regista è l’esordiente Noburo Kora, com’è stato lavorare con lui?»
«Ah, Noburo è magnifico, sono rimasto stupito di
come lavora sul set. Tenta di curare ogni minimo dettaglio di persona,
sia nella scenografia, nei costumi…»
Se devo essere sincera smisi di ascoltare con attenzione,
perché non ero particolarmente interessata a cosa diceva
più che a come si comportava. Il divario fra com’è
veramente e il suo atteggiamento in tv era grandissimo. Un po’
speravo che facesse anche una minuscola brutta figura, o magari una
delle sue facce strane, quelle smorfie stupide che gli uscivano ogni
tanto, solo per poi poterlo prendere in giro. Quando l’intervista
finì io avevo tutto pronto nella mia borsa e mi affrettai ad
uscire per incontrarci a Central park come avevamo deciso.
Non mi ci volle molto per arrivare, avevamo scelto di
incontrarci all’entrata fra la 97esima e la 5th Avenue, dato che
era la più vicina all’hotel e la più facile da
raggiungere per me (quel pigrone di Ben aveva la macchina della tv che
lo avrebbe scorato dove voleva lui). Dopo meno di dieci minuti vidi Ben
scendere da una bella macchina nera tirata a lucido e attraversare la
strada. «Ho visto la trasmissione», esordii.
«Commenti maligni?», domandò con un sorriso
stampato in volto. Era come se dalla conversazione dell’altro
giorno le mie frecciatine non lo disturbassero più, il che era
terribile.
«Nessuno a dir la verità, credo solo che il tizio che collezionava farfalle fosse davvero fico.»
«Ah sì?», domandò tendendo una mano e prendendo la borsa al posto mio.
Annuii. «Non sapevo che collezionassi poster di
film», aggiunsi poi in riferimento ad una domanda che gli avevano
fatto.
«Oh sì! Da quando avevo qualcosa come… diciannove anni? Una roba del genere.»
«L’ultimo che hai comprato?»
Ci pensò su un attimo stringendo gli occhi e
guardando altrove come faceva di solito. «Ahm… “Man
in Black”.»
Lo guardai con gli occhi di fuori. «Uno o due?»
«Uno. Il due non l’ho mai nemmeno visto. Di solito le parti due dei film fanno schifo.»
«Hai assolutamente ragione, ma quello dovresti vederlo
giusto perché c’è il carlino che canta una versione
diversa di “I will survive”.»
Iniziammo a camminare lungo una stradina molto bella
affiancata da qualche albero. Attorno a noi c’era un prato
immenso di cui non si vedeva la fine. Tanta gente stava seduta
sull’erba, a passeggiare, a correre, qualcuno suonava una
chitarra acustica in lontananza e secondo il mio modesto parere era
anche bravo.
«Dove vorresti andare a fare questo pic nic?»,
domandò Ben dopo un po’ che camminavamo in silenzio.
Sorrisi e mi volsi verso di lui. «In riva al
lago», dissi prontamente. «Non è lontano da qui.
Vicino c’è anche il Guggenheim.»
Ben tirò fuori l’orologio e guardò
l’ora. «Non è neanche mezzogiorno, hai fame?»
«Veramente non tanto», ammisi.
«Senti… prima di mangiare ti andrebbe di fare
un giro in barca?» Ben abbozzò un sorriso e io quasi mi
strozzai con la saliva.
«Si può fare?», domandai ad occhi sgranati.
«Ma certo che si può fare, basta noleggiare
una barca.» Ben si guardò attorno. «Adesso…
basta solo trovare dove. Ma non ci sono cartelli delle
indicazioni?»
Lo guardai con un sopracciglio sollevato. «Dovrebbero? Per
il momento siamo su una strada dritta, e diceva che andavamo in
direzione del lago.»
«Gnà gnà gnà», mi
scimmiottò Ben continuando a camminare. Lo guardai per un
secondo indispettita ma poi vidi che si era girato per ridermi in
faccia, così sorrisi anch’io e lo raggiunsi.
Arrivati vicino al lago vidi, in lontananza, qualcosa che
poteva essere un ristorante da quanto era grande, e lo era
probabilmente, ma dallo stesso edificio si noleggiava la barca e
c’era il molo sul retro. Guardai verso il lago: era uno
spettacolo pazzesco. Era grandissimo e pulito, immagino che fosse
tenuto sotto stretto controllo per impedire che nessuno vi gettasse
dentro niente. Comunque non avevo intenzione di farlo. Poco distante da
noi c’erano diverse barche attraccate alla riva, due signori che
pescavano poco più in là e altre barche nel lago che
viaggiavano pigramente.
Io e Ben entrammo e ci avvicinammo ad una cassa con
scritto sopra ‘noleggio barche’. La ragazza si stava
comodamente limando le unghie mentre osservava un registro di fronte a
sé. «Buongiorno», disse Ben con il suo sorriso
più smagliante.
La ragazza nascose la lima per le unghie e sorrise. «Buongiorno a voi. Volete noleggiare una barca?»
«Sì, siamo in due.»
«Preferite remare voi o volete qualcuno che lo faccia al
posto vostro?» La ragazza sorrideva di continuo e mi chiesi come
mai facesse ad essere così cordiale.
«Facciamo da noi, grazie.»
La ragazza strappò un biglietto e vi scrisse sopra
l’ora e il numero della barca; lo porse a Ben dicendo:
«Sono dodici dollari la prima ora, e tre dollari per ogni quarto
d’ora in più. Quanto pensate di metterci?»
Ben mi osservò chiedendo un parere. «Cominciamo con un’ora, poi si vedrà», proposi.
«D’accordo. Dodici allora.»
Ben pagò e io presi il biglietto entusiasta,
sventolandolo come se fosse un premio. Mi fiondai verso l’uscita
che dava ad un portico e poi ad una sorta di molo che stava a circa un
metro dall’acqua. Di fronte vi trovai un ragazzo abbronzato e
muscoloso, indossava una maglietta senza maniche e dei pantaloni al
ginocchio. Gongolai verso di lui e gli tesi il biglietto, mentre Ben
veniva verso di noi. «Barca numero sedici. Prego venite.»
Ci accompagnò fino alla barca giusta e ci aiutò a salire.
«Mi raccomando non perdete il biglietto, eh.» Sorrise
bonario e diede una spinta alla barca con il piede.
Ben teneva i remi con sicurezza, erano legati alla barca
tramite corde spesse e anche se li lasciava non sarebbero affondati. Io
mi guardavo attorno e non potevo fare a meno di sorridere fino a
staccarmi le guance. Notai che anche Ben mi guardava e sorrideva di
rimando. «Come mai così allegro?» Lui si strinse
nelle spalle e continuò a remare.
Passammo sotto diversi ponti, tutti pieni di viavai e
molto belli a vederli. Ad un tratto intimai a Ben: «Passami un
remo».
«A te», disse porgendomene uno.
«Possiamo fare quella cosa di girare in tondo? Io remo da un lato e tu dall’opposto?»
Ben rise e scosse la testa. «Per favore, vorrei evitare di farmi notare come il coglione del lago.»
«Ma saremmo in due! Due coglioni!», insistetti.
«Ma si suppone che quello intelligente sia io.»
Incrociai le braccia infastidita. «Perché, ho la faccia da scema?»
«No, solo perché sono il più grande. E poi,
sì», disse come ammettendo qualcosa, «hai proprio
dei capelli da scema, quella pettinatura…» Lo colpii con
un debole calcetto mentre lui rideva sguaiatamente.
Dopo qualche minuto non riuscivamo più a scorgere
il molo dal quel eravamo partiti perché avevamo oltrepassato
diversi alberi e ponti e curve del lago. Non c’era nessuno
attorno a noi e Benjamin propose di fermarci. Al centro esatto
nell’acqua calma sembrava di essere in qualche posto lontano, non
mi pareva neanche si stare in una delle metropoli più grandi del
mondo, era come se i grattacieli fosse scomparsi. Ben allungò le
gambe al mio fianco e si appoggiò con i gomiti alla barca,
abbandonando la testa all’indietro e guardando il cielo con un
mezzo sorriso. Alzai gli occhi anch’io, ma alla fine optai per
levare scarpe e calze e immergere i piedi nell’acqua distesa di
traverso sulla nostra piccola imbarcazione.
«Se dovessi salvare tre cose da casa tua da un
incendio», cominciai con una delle mie tipiche domande idiote,
«cosa sceglieresti?»
«Non lo so, inizia tu.»
«Hm… il mio pc, il porta cd e Hugo.»
«In ordine d’importanza?»
«Hugo, pc, cd.»
«Alla fine i cd?»
«Li ho nel computer comunque, nel caso andassero
persi», annuii convinta. «Comunque li ho scelti
perché gli originali sono sempre molto più belli.»
Ben si tirò su e iniziò a slacciarsi le
scarpe. «Io prendersi di peso Tess, Hugo e anche te
immagino.»
«In ordine d’importanza?»
«Ovviamente prima Hugo, che scherziamo?» Mi feci sfuggire un sorriso e guardai altrove.
Restituimmo la barca solo dopo un’ora e mezza, e poi
continuammo a camminare senza méta. Il sole era alto, la gente
passeggiava come noi e sentivo che era una giornata niente male. Ad un
tratto arrivammo davanti ad una folla di gente e vidi un bellissimo
carosello, grande, pieno di colori che si muoveva lentamente con una
dolce musica di fondo. Evidentemente la mia faccia dovette parlare per
me perché Ben domandò: «Vuoi salire?».
«Sì ti prego.»
La fila durò quasi mezz’ora ma alla fine riuscii a
guadagnarmi un cavallo nell’ultima fila, era bianco con la
criniera gialla, ed era talmente alto che feci fatica a salirci. Mi
voltai a destra e a sinistra per vedere dove fosse finito Ben e lo
scorsi a qualche cavallo da me, mi fece un cenno di saluto con la mano
e io ricambiai entusiasta. In quell’istante ricordai
com’era stato il giorno prima in quel maledetto hotel, quella
maledetta dichiarazione d’affetto! Ancora sentivo la vergogna
inondarmi tutto il corpo se ci ripensavo. Poi si chiedevano
perché ci fosse certa gente che non parlava delle proprie
emozioni: per forza, è meglio così piuttosto che far
venire fuori situazioni spinose! A meno che non si trattasse di
Nandika, ovvio.
Il carosello partì e se ogni volta che il cavallo
scendeva mi sembrava di cadere, ne valeva la pena lo stesso
perché guardare il mondo muoversi con quella musica nelle
orecchie e il rumore della gente e il movimento che faceva confondere
gli occhi, era davvero una bella sensazione. Una volta scesi Ben
confessò: «Menomale che l’abbiamo fatto prima di
mangiare».
Trovammo uno spazio di prato vuoto, all’ombra degli
alberi, e ci sedemmo per pranzare, allungando sull’erba la nostra
tovaglia gialla. Tirai fuori tutte le meraviglie culinarie che avevo
comprato nel supermarket a basso costo ed erano tutte buonissime. Credo
che mangiai tanto solo perché non avevo mai fatto un pic nic in
vita mia, e dovevo godermelo, cacchio!
«L’altro giorno pensavo una cosa», cominciai con la bocca piena.
«Cosa?» Anche Ben parlava con la bocca piena a volte.
«Come si chiama quello che mette la musica nei film? Io vorrei un sacco fare quello!»
Ben corrugò le sopracciglia. «Come fai a dirlo?»
«Mi sembri non-convinto. Non dovresti incoraggiarmi?»
«Tecnico del suono tipo? Cioè… non si occupa solo di musica.»
Mi agitai sulla panchina. «Non importa, ho solo
quindici anni! Ne ho di tempo per cambiare idea. Forse finirò a
fare la segretaria, o magari la sarta o la cuoca in un
ristorante.»
«Non ti faceva così cinica.»
«Cinica è il mio secondo nome.»
«E’ una cosa orribile da dire! E poi tu non sei cinica.»
«Lo so, infatti non lo sono. Ma ho sempre sognato dire:
‘x è il mio secondo nome’; e questo momento sembrava
buono.» Ben rimase un attimo serio, poi scoppiò in un
risolino fin troppo da donna secondo il mio parere. «Che cosa
c’è?»
«Sei molto brava a parlare di nulla.»
«Grazie», replicai. Diedi un morso al panino e proseguii: «Hai un animale preferito?».
Ben fece una smorfia e ci pensò. «No, non
credo. Cioè, non sono uno da animali, non ho mai avuto nemmeno
un pesce in casa. E non l’ho mai voluto un animale.»
Lo guardai con occhi fintamente tristi. «Dev’essere stata un’infanzia terribile la tua.»
Lui s’indignò con un: «Perché?!».
«Tutti i bambini vogliono degli animali, tu sei
l’unico secondo me a non aver voluto un cane, un gatto, o un
pappagallo da compagnia. Io ho Hugo, lui è bellissimo e ha il
collo rugoso.»
«Che schifo!»
«Non parlare così di lui.»
«Comunque sia, non ho un animale preferito. Oh, hai
sentito Nandika in questi giorni?», domandò ancora una
volta con quel suo interesse malriposto.
«Un paio di volte.»
«Come sta? Non è triste di non poter essere venuta?»
Mi strinsi nelle spalle. «Non sembra particolarmente
triste, il che è strano», aggiunsi poi pensandoci meglio.
«Magari è solo impegnata con il matrimonio. Non fanno un sacco di cerimonie?»
«Sì infatti, ma ormai il matrimonio è
bello che finito… Glielo chiederò poi quando
torniamo.»
Ben parve sulle spine quando aggiunse a voce bassa: «E... hai sentito Malachi?».
Titubai leggermente ma poi mi decisi per un atteggiamento
di totale indifferenza: «No è in punizione, è
tagliato fuori dal mondo, me lo detto un mio amico in un messaggio. Ha
detto che i suoi lo hanno confinato in casa e non ha niente da
fare». Forse intimamente Ben era d’accordo con i genitori
di Malachi, perché assunse un’aria soddisfatta.
«Mel cosa ne pensi di lui?»
«Stai tentando di psicanalizzarmi?
Cos’è, tuo padre ti ha convinto a darti alla
psicologia?»
Benjamin mi guardò con rimprovero. «No», si
strinse nelle spalle e fece una smorfia, «sono solo curioso.
Insomma, non è il prototipo di bravo ragazzo, immagino che le
persone si preoccupino per questo genere di cose con i propri…
con i ragazzi della tua età.» Terminò in fretta la
frase e parve pensoso.
Io ci pensai su e risposi con sincerità. «Io
voglio bene a Malachi, non voglio che sia triste. E se stare assieme a
me lo rende un po’ più felice, perché no? Cosa
c’è di male?»
Ben sbuffò. «Mel ma non te ne rendi conto?»,
disse chinandosi in avanti e agitando il panino che avevo preparato con
tanto amore. «E’ colpa sua se ti sei ubriacata
l’altra notte.»
«Hey», lo ammonii, «fino a prova contraria non mi ha messo un imbuto in gola!»
«Sì ma se lui non ci fosse stato tu non lo
avresti fatto. Non avresti bevuto se fossi stata con Nandy,
perché ti saresti sentita bene con lei anche così, anche
senza bere come un spugna!»
«Stai dicendo che bere è sbagliato? Tu lo fai!»
«No, non dico che è sbagliato, è vero
tutti lo fanno. O quasi… Comunque, voglio dire che è
stato da stupidi bere fino a stare male qui, quando l’unica
responsabile per te -e per Malachi, che non capiva nemmeno dove fosse-
eri tu stessa.» Inghiottii saliva a vuoto a quel discorso; si
stava facendo più ‘paternale’ e serio del previsto.
«Hai presente l’amico sobrio, quello che deve guidare per
tornare a casa? Ecco, dovevi essere tu.»
«Perché io? Perché non Malachi?»
«Perché se conosci Malachi sapevi che non lo
avrebbe mai fatto! E tu… se lui non ci fosse stato non avresti
bevuto.» Fece una pausa. «In qualsiasi altro caso puoi bere
quanto vuoi, fino a vomitare l’anima», proseguì dopo
qualche secondo, «tanto prima o poi la smetterai di divertiti in
quel modo, ci passano in tanti e poi ci si stufa. L’unica cosa
che volevo dirti è che… niente, sarebbe bello che tu
decidessi di bere per te stessa, cioè: ti è andata male
una giornata e hai voglia di fare un po’ di stronzate inutili, o
vuoi divertiti con le tue amiche e fare un gioco idiota nel quale si
beve, o magari, che ne so, ti piace il sapore del vino. Ma farlo per
qualcun altro… voglio dire: perché? Che senso ha? Pensi
che quella persona crederà che tu sia più adulta
perché bevi birra? O pensi che ti considererà più
figa?», scosse la testa. «Se proprio hai voglia di non
capire più da che parte sei girata, fallo perché sei tu
che ne hai voglia. E quando non devi guidare.»
Tenevo lo sguardo basso, colpevole. Aveva ragione, se non ci
fosse stato Malachi non mi sarebbe mai nemmeno passato per la testa
anche solo di comprare una red bull. Non volevo dirlo a lui
però, non volevo dirgli che aveva ragione, era come ammettere di
non avere spina dorsale. Bevvi altra acqua per tenermi la bocca
occupata e con la mia faccia corrucciata guardai più in
là.
«Ehi… sei arrabbiata?»
«No», mormorai.
Ben iniziò esitante il discorso, e dovevo capirlo fin da
subito che quello che sarebbe arrivato sarebbe stato anche peggio.
«Mel senti… Malachi era fatto la notte scorsa, no?»
«Io non lo ero», lo anticipai mettendo le mani davanti a me come a ripararmi.
«E lo sai mai stata? Voglio dire… con cose… pesanti.»
Lo guardai con curiosità sincera. «Ma tu mi credi quando parlo? …e comunque no.»
«D’accordo.» Ben si alzò e
cominciò a mettere tutta la spazzatura che avevamo fatto in una
busta di plastica, poi gettò la busta in un cestino. Quello che
avanzava lo mise nella borsa che ci aveva dato l’hotel. Quando fu
di ritorno disse: «Ma guarda che io ti credo quando parli».
Alzai gli occhi al cielo e mi misi la borsa a tracolla. «Grazie dell’onore concessomi.»
Andammo al Guggenheim a piedi e prima di entrare scattai
parecchie foto con la digitale: era un edificio molto bello, moderno e
dinamico. «Vuoi fare una foto anche a me?», domandò
Ben mettendosi in una posa stupida.
«Neanche morta. La macchina si romperebbe.»
«Allora ne facciamo una assieme.»
Sorrisi involontariamente. «D’accordo.»
Una signora gentile ci fece due foto davanti al museo e poi se ne
andò, solo diversi giorni dopo scoprimmo che una delle foto era
mossa e l’altra sorta. Una volta entrati ci diedero una chiave
per gli armadietti per mettere via le borse e le macchine fotografiche,
che non potevano essere portate, così misi il cellulare e il
portafogli in tasca e rinchiudemmo tutto in uno di quegli stretti
depositi. Quando toccava a noi mi appoggiai comodamente al bancone.
«Due prego, per la mostra al padiglione uno», disse Ben preparando alcune banconote.
La cassiera mi diede una veloce occhiata e domandò velocemente: «Quanti ha sua figlia signore?».
Io e Benjamin rimanemmo di sale. Io perché non
volevo essere vista come sua figlia, per qualche stupido principio
impiantato nel cervello, lui probabilmente perché non voleva
sembrare così vecchio da essere considerato papà. Ma
d'altronde oggi si possono avere figli a sedici anni come a cinquanta,
è qualcosa di discutibile forse. Fatto sta che volli difendere i
miei geni da una possibile parentela:
«Io non…», cominciai, per venire presto interrotta.
«Quattordici. Paga ridotto?»
«Gratis fino a diciotto anni.» La cassiera prese
velocemente i soldi che Ben le porgeva e restituì resto e
biglietti. «Se volete una guida elettronica potrete ritirarla al
bancone qui affianco, buona giornata.» Per la prima volta si
aprì in un sorriso e io e Ben ci dileguammo in fretta, senza
dire una parola.
Ci avviammo al grosso ascensore che ci avrebbe portati
fino in cima all’edifico per poi scivolare dolcemente verso il
basso in quella grossa rampa a spirale dove c’erano i quadri e le
statue. Quando uscimmo e la gente si fu dileguata ritrovai la parola.
«Vuoi che ti chiami papà?»
Ben mi guardò qualche secondo come se stessi dicendo sul
serio, poi parve ricredersi ricordandosi che, in fondo, era con me che
stava parlando. «Se lo fai io ti chiamo ‘mia amata
progenie’. Tranquilla comunque, ti farò vergognare in ogni
singolo momento della tua vita. Perché è questo che fanno
i genitori.»
«Oh grazie.»
Ben sorrise e mi diede una pacca sulle spalle. Iniziammo il nostro giro nel museo.
Volevo scrivere "Buona Domenica" in francese, perché mi
veniva così, ma alla fine ho rinunciato perché non sapevo
come si scriveva e non avevo voglia di cercarlo su internet... Buona
Domenica.
Comunque, spero che questo capitolo vi sia piaciuto. A me è
piaciuto scrivere di Ben e Mel che visitano New York! Ho anche cercato
un sacco di cose su New York, e noleggiare una barca per il laghetto di
CP costa davvero quel che ho detto (o almeno era così l'ultima
volta che ho controllato).
Il discorsone filosofico sull'alcol è una mia invenzione e parte
della mia idea sull'argomento. Meglio non starci a discutere
però altrimenti scrivo più nel commento che nel capitolo
xD
Be', fra un po' questa fanfiction sarà terminata, e anche se i
lettori sono stati pochi (capisco che questo sezione sia abbandonata
non avendo noi fan notizie dell'uomo dai fluenti capelli) sono contenta
lo stesso di averla pubblicata =)
A settimana prossima!
Patrizia
P.S. Alcune notizie multimediali:
Per chi volesse vedere lo sbellicoso video del carlino di Man in Black che canta cliccate qui. Io lo adoro! Ogni tanto mi ricordo che esiste e me lo guardo xD
Il titolo del capitolo è tratto dalla canzone di Frank Sinatra,
ma io preferisco la versione di Liza Minelli. Se vi va di
ascoltarla eccola.
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Capitolo 9 *** Dinamico ***
IX
Capitolo IX
Dinamico
Io e Tess stavamo distesi a letto e
fissavamo il soffitto chiaro di luce lunare. Era bello vederlo
così, ma io ero concentrato a pensare ad altro. Avevo appena
chiesto a Tess se voleva venire ad abitare come me, lei e ovviamente
Melany. Era dall’altra parte della città certo, e non ero
sicuro che Mel sarebbe stata la persona più felice del mondo
quando l’avrebbe saputo, ma speravo che Tess prendesse in
considerazione il fatto che stavamo andando d’accordo, e quindi
potevano trasferirsi senza troppi drammi esistenziali da parte di
Melany.
C’era troppo silenzio nella stanza. Fu strano.
Alla fine Tess rispose. «Come?»
Deglutii e mi voltai verso di lei. «Ti ho chiesto se
tu e Mel volete venire a vivere con me.» Per un secondo, solo
uno, ebbi paura che mi dicesse di no. Poi vidi la sua espressione sul
viso farsi allegra e aprirsi in un largo sorriso luminoso.
«Dici sul serio?»
«Suppongo che sia un sì.»
«Sì che è un sì!»
Sorrisi e l’abbracciai, anche se si moriva di caldo
quel giorno. Agosto. Una delle estati più calde che riuscivo a
ricordare. «Allora va bene?», domandai sorridendo.
«Sì», rispose Tess dandomi un bacio sulle labbra.
«Sì?»
«Sì.»
«Sì…»
«Hm-m.»
Melany si trattenne per qualche secondo, e pareva che tutto
stesse andando bene. In fondo, perché essere pessimisti? Non che
è tutto ciò che riguardasse Melany doveva essere morte e
distruzione. Ovviamente, ero stato troppo ottimista.
«Sì un corno!»
«Mel, tesoro, non mi piace che parli così, lo
sai», la riprese Tess, quasi più preoccupata per il suo
linguaggio che per il suo rifiuto.
«Be’ allora sì un broccolo!»
Sospirai, e mi misi le mani nei capelli, sciogliendomi letteralmente sul tavolo.
Erano le dieci mattina, ed eravamo seduti attorno al tavolo
della cucina, in una specie di riunione familiare, o almeno così
mi piaceva pensare. In realtà somigliava più che altro a
una faida familiare, e la presenza della tartaruga poggiata nella sua vasca al mio fianco non faceva che deprimermi di più.
«Ma mamma! Come hai potuto dire sì?»,
si lagnò Mel. «Non è passato nemmeno un anno, avete
mandato a rotoli il mio piano.»
«Quale piano?», domandai.
Melany mi fulminò con gli occhi. «Il mio
piano per non dover mai vivere con voi due assieme», disse
tagliente.
Tess la osservò interessata. «E com’era?»
«Be’ è semplice, davo per scontato che
sareste rimasti assieme almeno cinque anni prima di sposarvi, dopo
quelli io avrei finito la scuola e avrei trovato un lavoro.»
«Ma hai idea di quanto tempo ci voglia a mettere da
parte dei soldi per una casa tua? E trovare un lavoro di questi tempi
non è mica facile», biascicai di malavoglia; non volevo
farmi coinvolgere in quel discorso senza senso, tuttavia era più
forte di me.
«E qui viene il grande piano. La prossima estate vi
avrei convinto ad andare in vacanza nel Grand Canyon e avremmo comprato
una roulotte, poi avrei preso la patente a sedici anni e, appena afferrato
il diploma, avrei rubato le chiavi e sarei fuggita assieme a
Hugo.» Melany si mise le mani sui fianchi con sussiego.
«Infallibile, no?»
«Proprio», borbottai.
Tess sbuffò. «Melany, sai una cosa? E’
da due ore che ne stiamo parlando, e sono stufa. E’ vero, la cosa
potrà anche non piacerti, ma qui sono io che decido, e ho deciso
che andremo a vivere da Ben.»
Mel s’irrigidì. Credo che fosse raro che Tess
la sgridasse in quel modo. Poteva dispiacermi molto per Melany ma, in
quel momento, stavo osservando Tess: era incredibilmente sexy quando si
arrabbiava.
«Non credere che non abbia considerato anche i tuoi
bisogni in questo trasloco. Avrai una camera tua, puoi raggiungere la
tua stessa scuola in autobus se non vuoi cambiarla, c’è
spazio per tutto quello che vuoi nella stanza che Ben mi ha fatto
vedere di là, e se non ti piace potrai scegliere quale
sarà la tua.»
«Ma… i miei amici…»
«Mel, andavate sempre in giro in città, sarai anche più vicina!»
«E Nandy?», chiese lei sfoderando
un’espressione ferita che, a me, personalmente, avrebbe fatto
cedere. Ma Tess doveva esserci abituata.
«Ci vogliono quaranta minuti in autobus da là a
qua.» Fece una pausa, poi ricominciò con voce un po’
più allegra, tentando di coinvolgere Melany. «Avanti Mel!
Avrai una stanza più grande, e una casa più grande. E con
quello che otterremo dalla vendita di questa casa potremmo fare un
piccolo viaggio assieme, no?», si rivolse verso di me e io mi
affrettai ad annuire.
«Sì, è vero.»
«E poi il quartiere di Ben è così
bello, c’è anche una piscina lì vicino a casa tua,
non è vero?» Annuii di nuovo. «Non sei
contenta?»
Mel alzò gli occhi e guardò sua madre con espressione
torva. «Tanto lo so che me lo chiedi tanto per fare. Potevi
almeno chiedere il mio parere prima, invece hai già
deciso.»
Tess assunse un’espressione dura. «Sì, in
effetti è già deciso. Ma credevo che ti facesse piacere.
Saremo come una famiglia, Mel, una famiglia vera!»
«Ma noi siamo già una famiglia vera! Cosa siamo, una famiglia finta?»
«Una famiglia non è composta da solo due persone,
ce ne devono essere di più, delle persone vicine, su cui fare
affidamento. A Benjamin fa piacere che siamo già in tre!»
Sorrise incoraggiante.
Melany mi guardò torva. Era inutile, andavamo
avanti così dalle otto e mezza quasi, e fra poco Tess doveva
uscire. Io non ero uno psicologo come papà, ma ero abbastanza
intelligente da capire che Melany avrebbe potuto andare avanti per ore
solo a parlare. Mi alzai e battei leggermente una mano sul tavolo.
«Forza muoviamoci», dissi facendo cenno a Mel di alzarsi e
seguirmi. Aggirai il tavolo, presi le chiavi dell’auto e mi
diressi alla porta.
«Dove stai andando?», domandò lei con gli occhi fuori dalle orbite.
«Andiamo a prendere degli scatoloni, ho appena deciso che
dovete venire il più presto possibile. Quindi abbiamo bisogno di
un furgone, scatole da imballaggio, magari un bel po’ di giornali
per avvolgere le cose che si rompono…», elencai sulle dita.
«Ma…», Mel tentò di protestare. «Non sono ancora d’accordo!»
«Oh, che importa? Lo sarai prima o poi. E poi, via
il dente via il dolore», dissi stringendomi nelle spalle. Uscii
dalla porta. Melany mi seguì solo per continuare a rimproverarmi.
«Io credo che dovremmo sederci a discuterne!», mi
gridò sulle scale, inseguendomi. Io scendevo velocemente e,
quando mi guardai alle spalle, vidi che faticava a starmi dietro. Con
un sorrisino iniziai ad andare più veloce. «Dove stai
andando?! Ben!» Corsi fuori, fino al cancello del condominio, e
uscii di corsa diretto verso la macchina. Ogni tanto mi voltavo
sorridendo, e vedevo Melany che mi inseguiva, a metà tra il
furioso e il divertito. «Ben fermati! Torna subito qui! Te lo sto
ordinando!»
«E per chi mi hai preso? Un cane?!», le gridai
dietro mentre aprivo la macchina. Entrai nell’abitacolo e misi in
moto. Lei comparve dietro il finestrino e io le feci cenno di salire,
sorridendo.
Sbuffò, un po’ contrariata, ma alla fine
salì e allacciò la cintura. «Dove andiamo?»,
borbottò.
«Andiamo a noleggiare un furgone.»
«Non possiamo chiamare una ditta di traslochi?»
«E dove sta il bello?» Le passai il mio
telefono. «Chiama Tess, dille che ci vediamo oggi pomeriggio, la
vado a prendere.»
«D’accordo», borbottò lei con il
broncio ancora sul viso. Dopo la telefonata iniziò ad accusarmi.
«Per colpa tua a Nandy verrà un infarto!»
«Non è troppo giovane per essere debole di cuore?»
«Ma è una notizia enorme, sarà un colpo per lei.»
«Oh, capisco.»
«Non fare il sarcastico.»
«Non lo faccio.»
«Lo fai!»
«No.»
Continuammo così fino alla concessionaria. Noleggiava
furgoni a giornate, e io ne prenotai uno per un giorno intero di
lì a settimana prossima.
«Settimana prossima?», si lagnò Mel. «Nemmeno tutta l’estate lasciate finire?»
«A Settembre inizi il secondo anno. Non voglio che ti distrai appena inizi la scuola.»
Lei mi soffiò addosso infastidita. «Quanta premura.»
Risi, mentre parcheggiavo di fronte a casa dei miei, non
troppo distante dalla mia in effetti. «Scendi», dissi
uscendo dall’auto.
«Dove siamo?», domandò lei osservando la casa. «Chi ci abita qui?»
Le sorrisi e suonai il campanello. «I tuoi quasi nonni.»
«I miei…? I tuoi genitori?!» Mel
guardò la porta allarmata, e quando mia madre aprì aveva
gli occhi spalancati e la fissava. Se non ci fossi stato io forse mamma
avrebbe pensato che era una pazza.
«Benjamin, ciao! E’ da mesi che non vieni a
trovarci, come mai qui ora?» Mia mamma mi abbracciò, mi
baciò, e mi fece entrare in casa tutto con un solo gesto.
«Oh niente, volevo solo andare in soffitta a
prendere quegli scatoloni che sono rimasti lì da Natale.»
Mi rivolsi a Melany e le diedi una spintarella per farla avanzare.
«Questa è Melany.»
Mia madre ovviamente aveva già sentito parlare di
lei, l’avevo informata di che razza di rompipalle fosse. Lei non
aveva colto il lato lagnoso della mia descrizione. «Oh ciao
Melany, io mi chiamo Tricia. Vuoi un po’ di tè freddo? Fa
un caldo in questi giorni…»
Mel sorrise imbarazzata e disse di sì. Io la
abbandonai nella tana dei leoni e salii gli scalini di due in due per
raggiungere la soffitta. Presi diversi scatoloni vuoti appiattiti e li
portai giù. A metà scale trovai mio padre. «Ben,
cosa stai facendo?»
«Ciao papà. Ho bisogno di queste scatole.
Va’ in cucina, c’è mamma con un ospite.»
«Davvero?», domandò lui perplesso. «Non ho sentito niente, Dio se sto invecchiando.»
Quando tornai su sentii che dalla cucina provenivano delle
risate, ma non me ne curai e, preso l’ultimo carico di scatole,
scesi per caricarle in macchina. A metà strada incontrai Jack.
«Ben! Ciao, che fai qui?», domandò sorridendo.
«Sono solo passato a prendere queste», dissi agitando le scatole vuote.
«Tu sai chi c’è in casa? Ho sentito mamma che
parlava di preparare un tè freddo, è dalla settimana
scorsa che non fa altro che preparare tè freddi.»
Ridacchiai e gli feci cenno verso la cucina. «C’è Melany di là, la figlia di Tess.»
«Davvero?», domandò Jack stupefatto. «La diavolessa?»
«Non dirle che l’ho chiamata così, altrimenti è la volta buona che mi uccide.»
«Ha quindici anni, non può essere tanto male.»
«Seh, come no.»
Caricai le ultime scatole e rientrai. In cucina qualcuno se la
stava ridendo della grossa. Con un sorriso stampato in volto li
raggiunsi, erano tutti lì chini su qualcosa con una grossa
caraffa di tè affianco. «Qui è nel carnevale
dell’87, aveva sei anni», stava dicendo mio padre.
«Tu non hai idea di quanto ha rotto per quel costume.»
Assalito da un dubbio, mi avvicinai. «Che fate?»
Jack mi guardò ghignando, invece mia madre sorrise e mi
porse subito del tè. «Ho tirato fuori le tue foto di
quando eri piccolo per farle vedere a Melany. Oh, guarda che
cicciottello che eri.»
Allungai il collo per vedere la foto e quasi mi strozzai.
Un intero album dedicato unicamente a me e a mio fratello, nelle mani
della crudele Melany. La foto che stavano commentando in particolare
era la foto di un carnevale che nemmeno ricordavo. Vi basti sapere che
ero vestito da uomo ragno.
Melany ridacchiava ad ogni foto e passò quasi
un’ora prima che finisse di sfogliare l’album. Ad un tratto
mio padre guardò l’orologio. «Ben è
mezzogiorno passato, perché non vi fermate a mangiare?»
A me non sarebbe dispiaciuto nemmeno un po’, era da
tanto che non vedevo la mia famiglia. Tuttavia non ero sicuro che
Melany volesse restare, anche se non lo dava a vedere era una ragazza
alquanto riservata e addirittura un po’ timida con gli adulti. Le
lanciai un’occhiata e, con mio sommo stupore, la vidi parlare
allegramente con Jack e papà. Sorrisi a mia madre e dissi:
«Sì certo».
Quando alla fine riuscimmo a liberarci di tutti loro per andare
a casa e iniziare a impacchettare ogni cosa, Melany aveva guadagnato un
vecchio bracciale di mia madre, tutta la simpatia di mio fratello
(effettivamente avrei dovuto prevederlo: quei due avevano in comune il
divertimento di prendermi in giro), e la promessa di una seduta di
psicoanalisi da mio papà.
«A presto!», disse mamma dalla porta mentre salivamo
in macchina, «Dì a tua madre di passare per un tè
freddo qualche volta, così la conosciamo!»
«D’accordo!», rispose Melany con un sorriso stampato sul volto.
Quel sorriso non si spense nemmeno quando fummo in macchina e,
per fortuna, nemmeno quando arrivammo a casa e scaricammo assieme le
scatole vuote. Mi guardai attorno con le mani sui fianchi.
«Possiamo iniziare dalla tua stanza.» Melany mi
guardò e smise di sorridere. Accidenti, che idiota che sono! Fece una smorfia ma poi annuì.
Presi due scatole e le trascinai di là, mentre lei
mi seguiva mogia. «Mettiamo un po’ di musica?»,
domandai. «Posso?», chiesi poi avvicinandomi alla sua
fornita collezione di cd.
«Fai pure.»
Mentre sceglievo notai che Mel si aggirava incerta per la
stanza, guardava qua e là, si fermava ad osservare qualcosa e
poi riprendeva la sua peregrinazione. Alla fine, dopo che ebbi messo un
cd in una piccola radio, sbuffò e disse: «Uff! Non so
nemmeno da dove incominciare!»
Mi volsi verso di lei e la trovai seduta sulla sponda del
letto, sconsolata. La raggiunsi e la affiancai. «Basta che
incominciamo, no?» Mi guardai attorno. «Ad esempio i cd, li
puoi tenere nella tua stanza se vuoi, altrimenti ho un porta cd in
salotto, e c’è anche lo stereo quindi… se vuoi la
tua radio…»
Melany fece una smorfia. «No, grazie. Cosa credi? Che con
un impianto come il tuo vorrei portarmi dietro la mia radiolina
scassata?»
«Magari aveva un significato affettivo.»
«No», brontolò lei alzandosi e iniziando a tirare fuori i cd.
Io nel frattempo misi in sesto una scatola, dato che se
stavano tutte smontate in mezzo alla stanza. «Sai Mel, io non
credo che sarà così male, in fondo», cominciai.
«E poi, ti stai temprando… insomma, dovrai ancora
trasferiti in vita tua, almeno una volta… mettila così,
stai facendo pratica.»
Mel mi raggiunse con i cd e una smorfia in viso. Li
sistemò con cura sul fondo della scatola e poi mi guardò
con le braccia incrociate al petto. «Ma perché ora? Potevo
arrivare impreparata a quel momento, sarebbe stato molto più
eccitante. E comunque…», tornò ai cd, «non
pretenderai che scoppi di gioia. Questa è casa mia.
C’è Nandy qua vicino, e c’è la scuola dove ho
i miei amici, e li posso raggiungere tutti in dieci minuti di
camminata.»
«Su questo non hai torto, davvero: dieci minuti di
camminata sono molto meglio che quaranta di autobus. Però tu ti
sforzi davvero di guardare il lato negativo.»
Mi lanciò un’occhiataccia. «Non è vero.»
«Sì invece. Tutti i problemi che ti stai facendo
sono facilmente risolvibili, è solo che non ti vuoi trasferire e
cerchi della scuse stupide.»
Mel rimase pensosa. «Okay, è vero, è
tutto risolvibile. Però… non lo so, mi mancherà
questa casa. Insomma, è la mia casa, capito? E poi mamma
è tutta emozionata… Boh.»
Feci un risolino. «Che vuol dire boh?»
«Vuol dire che non lo so, che mi sembra una cavolata, un po’. Un bel po’.»
La guardai accigliata. «Perché?»
Mel parve sulle spine, ma alla fine sbuffò e sputò
fuori: «E se poi le cose non vanno bene? Se poi cominciate a
odiarvi e noi ci ritroviamo senza casa?».
Era incredibile che Mel si facesse problemi di questo tipo, io
credevo che fosse una che vive molto più nel presente, se non
altro perché aveva quindici anni! «Ma che vai
pensando?!»
«Be’ che c’è? E’ una
possibilità! Non una possibilità che mi auguro accada,
certo, però potrebbe. Insomma, non state mica insieme da tanto.
Come ti è saltato in testa di chiederglielo?! Non dovresti
essere responsabile? In fondo sei vecchio!»
«Senti…», mi massaggiai la base del
naso, «ora come ora non ho intenzione di lasciare tua madre,
soprattutto perché le ho chiesto di venire a vivere con me. E lo
so che sembra avventato, che non è passato nemmeno un anno, e
che sembriamo due stupidi quindicenni!» Mel mi lanciò uno
sguardo di rimprovero. «Scusa.» Alzò gli occhi al
cielo. «Comunque sia, io credo che tua madre sia la donna giusta
per me. Senti…» esitai, «non ridere ma… per
come sono fatto io, ho realmente bisogno di qualcuno che mi stia
dietro. Lo so che ormai sono grande abbastanza da…»
«O, sei vecchio abbastanza.»
«Non ho nemmeno trent’anni!», protestai.
«Li compirai fra una settimana.»
Sbuffai. «Comunque, in questi ultimi anni ho passato
più tempo fuori casa mia che dentro, e tornarci all’inizio
non era neanche male. Dopo un po’ però diventava…
deprimente, non c’era nessuno, sai? Tutto il tempo in
silenzio.»
«Quindi è solamente per non sentirti troppo
solo soletto che ci costringi a venire da te?», domandò
scettica.
«No! Senti, è che io non so parlare. Sembra che
sappia parlare, davanti ai giornalisti e così, ma non è
vero. Con le persone che conosco, e soprattutto quando si parla di cose
serie, non sono capace di dire le cose», mi lagnai.
Mel fece un sorrisino. «L’ho notato.
L’ultima volta che mi hai fatto un discorso serio mi hai
consigliato di ubriacarmi. Va’ avanti.»
A quel punto mi sentivo in trappola. Dovevo
dire qualcosa. «Be’, per farla breve… prima di
conoscere te e tua madre, mi mancava davvero qualcosa. Insomma,
c’era la mia famiglia sì, e gli amici, ma non è la
stessa cosa. Tu e Tess a poco a poco siete diventate importanti per me,
io voglio stare con voi tutto il tempo», conclusi con un tono
come a dire che quell’idea era una cosa assurda. «E poi,
credo che Tess sia giusta per me. Io sono sempre incasinato con tutto,
soprattutto quando lavoro, però a lei piace tenere le cose in
ordine, organizzare le cose più importanti… insomma, va
bene no? Siamo… diversi nelle cose stupide, nei gusti musicali o
in quello che leggiamo, però per le cose importanti la pensiamo
allo stesso modo.»
«Che bel quadretto», commentò Mel con un sorriso storto che le sbucava sulle labbra.
«Grazie. E ora, se non ti dispiace, vorrei
continuare a impacchettare tutto, così almeno la tua camera
sarà pronta quando sarete di là, e non ti lagnerai come
una bambina di quattro… ahi!» Melany mi aveva dato un
pugno sul braccio, e io avevo anche finto che mi facesse davvero male.
«Tu guarda con chi devo convivere…»,
sbottò sorridendo mentre prendeva alcuni libri e li ficcava
nella scatola.
Hmmm, questo capitolo non mi convince u_u
Non so, ha qualcosa di strano...
Tanto per cominciare Mel che si fa problemi per ogni cosa... non so,
forse non ci sta tanto. Ho pensato che fosse il suo spirito
adolescenziale/ribelle a parlare per lei, dato che solitamente una
delle cose più importanti da fare quando sei adolscente è
contestare tutto quello che i genitori dicono, anche se parlano del
tempo che fa.
Mah, non so bene cosa pensare di questo capitolo, non mi soddisfa molto
a parte il fatto che pensare a Ben da piccolo vestito da uomo ragno mi
fa impazzire *w* Che caruccio!
Per il resto, vi auguro una buona Domenica!
Patrizia
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Capitolo 10 *** Sogni d'oro ***
X
Capitolo X
Sogni d’oro
Tutti e tre
assieme -tranne quando mamma andava a lavorare- ci mettemmo circa una
settimana a decidere cosa andava portato da Ben e cosa potevamo
lasciare, cosa impacchettare e di cosa potevamo fare a meno. Alla fine
non ero molto insoddisfatta, la mia camera era molto più grande
e Ben mi aveva regalato un piccolo divano per due da metterci in un
angolo. C’era anche il balcone e il tetto era spiovente. E va
bene, mi piaceva parecchio, inutile negarlo.
La prima sera in cui dormimmo lì, tuttavia, vi fu un imprevisto.
«Credo che, dato che abbiamo lavorato tutto il santo
giorno, dovremmo andare a mangiare una bella pizza», propose Ben
ammirando gli scatoloni ammucchiati da un lato. Ci erano volute ore per
trovare un posto a tutte le nostre cose e sistemarle assieme a quelle
di Ben.
Ovviamente lui sprizzava gioia da tutti i pori, era sempre
allegro e non si lasciava scalfire nemmeno dalle mie battute –
eppure stavo tirando fuori il meglio di me. Tess, almeno, mi dava la
soddisfazione di avere i piedi un po’ più a terra e
pensare praticamente. Così, mentre mia madre dava ordini a
destra e sinistra come se fossimo nel Terzo Reich, e Ben svolazzava di
qua e di là come una fatina, io me ne stavo pacata a fare quello
che mi dicevano.
Erano le sei di sera quando rimaneva solo Hugo nell’ormai
ex-casa. Avevamo concordato che avremmo portato lui alla fine,
perché Ben aveva insistito per comprargli una nuova vasca
più grande e un amico tartaruga per fargli compagnia. La vasca e
la nuova tartaruga erano arrivati quel pomeriggio presto, e io volevo
correre a prendere Hugo.
«Facciamo così», proposi, «voi preparatevi, e io vado a prenderlo.»
Mamma era d’accordo, perché era da due ore
che sognava di fare una doccia. Ben ci pensò qualche minuto e
poi disse: «Io finisco qui, ma poi devo passare da quelle parti
per parlare con Allyson, abita lì vicino.»
«La tua manager?», domandai. Era ridicolo! Io ero
più sospettosa di mia madre per quanto riguardava le donne che
Ben frequentava. Non sapevo come diamine faceva a sopportare
che Ben lavorasse e dovesse baciare altre donne, flirtare con loro;
poteva passare mesi lontano e lei pareva non storcere mai il naso.
Sarà che si fidava.
Ben annuì. «Ti va se ci troviamo lì? Passo a prenderti e portiamo Hugo a casa.»
«D’accordo.» Uscii e corsi a prender l’autobus.
In sette giorni la mia vita era drasticamente cambiata; o
meglio, aveva tutta l’intenzione di farlo di lì a poche
ore. Non so bene per quel motivo mi ostinassi ad essere
scorbutica e un po’ di malumore, ma suppongo fosse per il mio
essere ancora quindicenne, quindi mi perdono (troppo indulgente?). In
quella settimana, oltre a fare una finta festa d’addio assieme a
Nandy nella nostra vecchia casa e guardare con occhi cattivi una coppia
di giovani sposi che era venuta a vederla per comprarla, mi era parso
che tutto passasse con troppa velocità. Le ventiquattro ore di
cui era composta la giornata sembravano passare così
velocemente, a dispetto di altre occasioni in cui ci avevano messo
secoli a trascinarsi avanti. Senza nemmeno rendermene conto Agosto
stava per finire. Lasciare quella casa era come lascarmi qualcosa
indietro, anche se la mia vita non sarebbe effettivamente cambiata di
molto. La solita scuola, i soliti amici, le solite serate passate ad
ascoltare musica o fare un giro nei dintorni. Ma avevo qualcosa in
sospeso, qualcosa che avevo lasciato indietro ma che presto,
inaspettatamente presto, avrebbe bussato alla porta.
Toc. Toc. Toc.
Me ne stavo seduta con la vaschetta di Hugo di fronte, e
lo guardavo tentare di scalare un sasso finto. Qualcuno bussò,
più presto del previsto, e io mi alzai e aprii senza nemmeno
chiedere chi fosse, tanto ero sicura che fosse Benjamin. «Hai
fatto in fretta, sono qua da appe-»
Mi bloccai sulla porta, in viso stampata un’espressione di
stupore misto a vergogna misto a terrore. Stupore perché non mi
aspettavo certo di vederlo, non volevo vederlo e in quel momento avrei
preferito essere in Alaska piuttosto che lì assieme a lui.
Vergogna perché le mie intenzioni di andarmene dal paese erano
state ben chiare fin da più di un mese addietro, quando avevo
iniziato ad evitarlo e ignorare le sue chiamate. Terrore, perché
avevo paura di cosa avrebbe potuto uscirmi di bocca, e soprattutto di
cosa avrebbe potuto dire lui.
Malachi mi stava davanti con una smorfia incerta sul viso,
probabilmente indeciso se essere ironico e allegro o pensieroso e serio.
Ci fissammo per qualche istante e infine, senza riuscire a distogliere lo sguardo da lui, dissi: «Ciao».
«Ciao Mel.» La sua voce era qualche cosa di
strano: non la sentivo da parecchio e non avevo desiderato sentirla, ma
ad una parte di me era sempre piaciuta troppo.
«Posso…?», domandò, indicandomi
l’ingresso.
Mi scostai per farlo passare, automaticamente. Forse se ci
avessi pensato con un po’ più di razionalità gli
avrei chiuso la porta in faccia e mi sarei calata dalla finestra per
fuggire. O forse quella si chiama codardia.
Non vedevo e non parlavo più con Malachi -in
realtà non avevo nemmeno più notizie di lui- da quella
notte a New York. Era stato relegato in casa e non usciva mai. Una
volta Nandika era andata a trovarlo, e anche Seymour. Invece io no. Mi
sentivo un po’ traditrice per quello. Ma non volevo vederlo, non
volevo parlare con lui. Dopo la chiacchierata con Ben mi ero sentita
particolarmente stupida; a quanto pare lui ha la capacità di far
sentire la gente ingenua e di illuminarla con scomode verità.
Per di più mi sentivo alquanto scema a parlare con lui, dato che
dopo le rivelazioni shock da parte dell’illuminato Buddah-Ben
sulla natura umana, mi sentivo come usata. Mi sentivo come se Malachi
volesse un appoggio per fare le sue cavolate come fumare e bere;
cavolate che avevano poco a che fare con lo stare con me e molto a che
fare con l’estraniarsi dal mondo.
Perché diavolo l’avevo fatto entrare?
Malachi, le mani in tasca e l’andatura sciolta,
entrò incerto e si guardò attorno. Non parve stupito di
trovarsi di fronte alla casa vuota. Sicuramente lo aveva avvisato
Nandika. «Stai traslocando, eh?»
Chiusi la porta, e mi sentii in trappola. In trappola in casa mia.
«Già», riuscii solo a dire. Non stavo realmente
ascoltando ciò che diceva, mi limitavo a dire qualche
monosillabo per fargli credere che stessimo parlando.
Malachi rimase in silenzio ancora per un po’, gli
occhi rivolti al pavimento, poi cominciò:
«Mel…».
«Scusa se non ti ho chiamato.» Scusarmi era
l’ultima cosa che avrei voluto fare, ma era più forte di
me. Ero un ragazza gentile in fondo.
Malachi si passò la lingua fra le labbra, incerto.
«No, figurati. Non è un problema. Volevo solo
sapere… Insomma, non stiamo più assieme, vero?»
Esitai. A quello, ad essere sincera, non avevo ancora pensato.
«Comunque, perché non mi hai chiamato?»
Lo guardai a metà fra l’infuriato e l’allibito. «Cosa?», domandai glaciale.
«Volevo solo sapere come mai eri arrabbiata», sputò fuori all’improvviso.
Sgranai gli occhi. «E’ una domanda vera?»
Scossi la testa, incredula. «Malachi hai detto bugie a tutti! E
hai rovinato il viaggio. Doveva essere un viaggio perfetto! E poi lo
sai che Ben avrebbe potuto passare dei guai enormi se ti fosse successo
qualcosa? Lui si è fatto in quattro per-»
A quel punto mi interruppe malamente, gridando e
frapponendo la sua voce alla mia. «Oh! Ancora con questo Ben?!
Ben, Ben, Ben! Solo ‘Ben’ sai dire!» Mi ammutolii.
Non l’avevo mai visto così. «Dici di odiarlo, ma in
realtà muori dalla voglia di piacergli!»
«Be’ scusa se ho cambiato una prima
impressione, ma di solito quando una persona si rende conto di aver
sbagliato lo fa! Una persona con un cervello», aggiunsi poi
malignamente.
«Tu?», mi schernì lui. «E comunque sia mi sembra tempo perso», sbuffò.
Incrinai le sopracciglia, e non ero più tanto sicura di me. «Che vuoi dire?»
«Voglio dire che lui sta con tua madre. Mica sta con te.»
«E chi lo vuole? Sarebbe una cosa contro natura!», sbottai.
«Voglio dire che…», Malachi parve
triste, «che per tutto il tempo che siamo stati a New York, lui
è stata la persona più assente di questo mondo. E tu hai
cercato in tutti i modi di attirare la sua attenzione.»
«Non è vero», protestai automaticamente, ma con tono debole.
Malachi sbuffò. «Sì che è vero, solo che non te ne accorgi nemmeno.»
«Be’ a me lui piace», dissi controvoglia, dato che con Malachi mi ero sempre lamentata di Ben.
«E tu piaci a lui?»
Fresca della mia nuova confidenza con Ben stavo per rispondergli
per le rime, quando all’improvviso proprio il soggetto della
nostra discussione si precipitò nella stanza. Doveva aver salito
le scale di corsa, perché era tutto ansimante.
«Primo», cominciò a dire, «avete chiuso male
la porta, perché vi si sente per tutte le scale. Secondo: non ti
azzardare a dire a Mel che lei non mi piace! E’ stato già
orribile convincerla che le voglio bene e farle capire che dicevo sul
serio, non mi serve che tu la confonda.»
Malachi rimase paralizzato. L’ultima volta che aveva
visto Ben era stato quando lui era fatto e Ben era furioso. Il suo viso
si oscurò ancora di più. «Se è
così…», disse sputando veleno ad ogni sillaba e
guardando Ben con odio, «posso anche andarmene, dato che siete
una famiglia così felice.»
«Sì, grazie tante», esclamai andando verso la cucina.
Mi sedetti bruscamente al tavolo e ripresi a fissare torva Hugo. La porta dell’ingresso si chiuse forte.
Non ero triste, il che era un bene da un lato. Almeno adesso
sapevo che la mia cotta per Malachi era solo quello: una cotta. Se
fosse stato qualcosa di più sarebbe stato peggio. Purtroppo
però, anche se non ero triste, non è che mi invadesse la
calma. Anzi, al contrario: ero furiosa. Furiosa con Malachi,
perché si comportava come uno scemo! Come se non avesse ancora
capito che aveva fatto di sbagliato. Lui,
che aveva rovinato quella che doveva essere la mia estate perfetta. E
poi era così infantile, come cavolo avevo fatto a stare con lui?!
«Mel?» I passi di Ben nella cucina vuota erano
stranamente rumorosi. Grugnii, per fargli notare che ero viva. Udii una
sedia scostarsi e posizionarsi al mio fianco, poi Ben si sedette.
«Come… cosa…»
«Per favore, non mi parlare», sibilai.
Lui rimase per un attimo zitto, e subito mi pentii di
averglielo detto. Comunque, non potevo sperare che mi desse retta per
molto. E infatti: «Non ho origliato, se è questo ce
credi».
Sbuffai. «Non me ne frega nulla che hai sentito.»
Alzai la testa, arrabbiata. «Lo detesto, mi ha fatto sentire una
stupida!», confessai. Ben mi osservava in silenzio, spronandomi a
continuare. «Insomma, tutti dicevano che era uno stupido, ma io
non ci credevo. Lo hai detto tu, e Nandy, e anche i suoi genitori
volevano tenerlo sotto controllo. Io volevo passare una bella settimana
in vacanza, e invece lui voleva… voleva solo un modo per stare
lontano dai suoi genitori. E poi da quando gli avevo detto che mi stavi
antipatico sembrava quasi soddisfatto!» Feci un verso di
frustrazione. «Come se in fondo ne fosse felice, come se volesse
che le cose mi andassero male…»
«Mel, hai mai pensato che potesse essere geloso?», mi interruppe Ben.
Mi bloccai. «Ma che cavolo dici?»
«Be’ io non conosco Malachi, ma lui era il tuo
ragazzo, e a quanto ho capito lui… lui vedeva che… che
volevi piacermi, in un modo o nell’altro. Insomma, forse ha
frainteso.»
Per qualche secondo rimasi zitta. «Non credo»,
dissi solo. Poi mi alzai, presi in mano Hugo e dissi:
«Andiamo?».
E con quello, il discorso era chiuso.
Eravamo andati a cena fuori, e Ben, grazie a Dio, aveva
taciuto del mio incontro con Malachi. Meglio così, non avevo
proprio voglia di raccontarlo a mamma, se ne sarebbe venuta fuori con
un discorso serio che non mi andava di affrontare. Mi ero riempita come
un uovo ma, non bastandomi, avevo anche ordinato il dolce.
Probabilmente era quello che mi aveva rovinata, e dovetti pagarne le
conseguenze una volta tornati a casa. Mi faceva malissimo la pancia, ma
siccome era la prima notte che passavamo a casa di Ben ufficialmente non volevo disturbare lui e mamma.
Erano le due e venti di notte quando mi alzai, decisa a farmi un
tè caldo per placare i dolori. Mi diressi in cucina, e avevo
già imparato quasi a memoria dove stavano le cose da mangiare, e
la teiera, e tutto quello che mi poteva servire. Quando stavo per
arrivare, tuttavia, notai che c’era una luce fioca ad illuminare
la stanza. Entrai in silenzio, e vidi Ben in grande dilemma davanti al
frigorifero aperto. «Ciao», dissi piano, sperando che non
si spaventasse.
Il risultato? «Oddio mio, Mel. Mi hai fatto prendere
un colpo», disse lui a voce bassa chiudendo gli occhi, dopo
essersi voltato di scatto.
«Scusa. Hai ancora fame? Ma sei un mostro», osservai aggrottando le sopracciglia.
Ben sbuffò e chiuse il frigo. «E’ che mi sto annoiando, non riesco a dormire.»
Ridacchiai e accesi la luce. «E invece scommetto che
Tess è caduta come un sacco di patate. Non so se l’hai
notato, ma ha il sonno pesante.» Andai a prendere la teiera e la
riempii di acqua.
«Anche io ho il sonno pesante, ma è questione
di addormentarmi.» Ben mi seguì con lo sguardo. «Che
fai?»
«Mi faccio un tè, mi fa male la pancia.»
«Oh, mi spiace.» Si alzò e raggiunse uno
scaffale. «Ho del tè alla pesca, alla vaniglia… e
basta. Anzi no, qui c’è dell’ottimo tè
verde.»
Sorrisi mentre accendevo il fornello e dissi: «Pesca, grazie».
Ben prese un cucchiaino e lo zucchero e li mise sul tavolo, poi
mi porse una tazza. L’acqua doveva ancora bollire, così ci
risedemmo al tavolo.
«Hai progetti a breve termine?», domandai, «Di lavoro intendo.»
«Mi hanno fatto un paio di offerte,
sì.» Ben non faceva la barba da un po’ di giorni,
intimamente credevo che stesse meglio così, ma non
gliel’avrei mai detto solo per vederlo compiaciuto.
«Accetterai? Che film sono?» Ero seriamente
interessata, il lavoro di Ben era certo emozionante, e mi sarebbe
piaciuto andare a vedere come si svolgevano le riprese. Non posso dirmi
un appassionata di cinema, ma di sicuro mi piaceva molto il
“dietro le quinte” di un film.
«Credo di sì. Uno è una commedia,
l’altro un film fantasy. E credo che mi abbiamo preso in
considerazione per il doppiaggio di un cartone, ma non sono fra i primi
candidati.» Ben sorrise leggermente e appoggiò il mento
sulle mani giunte.
«Un giorno potrò venire a vederti recitare?», domandai.
«Oh, ma tu mi vedi sempre recitare.» Lo
osservai accigliata. «Quando ci sei tu faccio sempre finta che tu
mi stia antipatica.»
Feci una risatina. «Grazie.»
Ben ridacchiò. «Dubito seriamente di poter usare le mie conoscenze per farti vedere i set.»
«E se diventassi la più famosa spazzina di
set che si è mai vista sulla faccia della terra?»
«In quel caso…»
Ci pensai un po’ su. «Potrei fare la
truccatrice», proposi, «o quella che regge quella specie di
piumino sopra gli attori quando parlano.»
«E’ per il suono», commentò Ben a
occhi bassi giocherellando con un bracciale sottile che non toglieva
mai.
Mi alzai e finii di preparami il tè. Ci misi un
po’ di zucchero e, dopo essermi scottata la lingua, decisi che
era più prudente aspettare e soffiare. «Hai sempre saputo
che avresti fatto l’attore?»
«Sapevo che mi piaceva recitare», disse Ben.
«Certi hanno tutte le fortune», commentai.
Lui fece una piccola smorfia. «Perché?»
«Be’ mica è da tutti sapere da sempre
cosa si farà… “da grandi”.»
«Mi è parso di capire che non
t’interessasse l’argomento.» In fondo, come potevo
dargli torto? Tutte le volte che aveva introdotto la conversazione mi
ero dimostrata poco interessata anche al mio stesso futuro. Ma,
d’altronde, mi dicevo sempre che c’era tempo.
«A te invece sembra interessare parecchio», bofonchiai.
Ben sorriso, d’un tratto contento. «Non dovrebbe?»
«Dovrebbe?»
«Ormai dovrebbe interessarmi pure cosa mangi a
merenda, Mel, abitiamo nella stessa casa e sei diventata come
una…», si bloccò improvvisamente. Era sicura che
stesse dicendo qualcosa di stupido, così lo osservai sospettosa.
«Be’, magari non proprio come una figlia, dato che non so
come sia averne una, ma… come una persona di cui prendersi
cura.» Ben teneva gli occhi bassi, io invece tenevo la mascella
aperta dallo stupore, tanto che avrebbero potuto farci il nido i
piccioni.
Ebbene, allora l’aveva confessato! O meglio, al posto di
dirmelo per rassicurarmi durante una crisi isterica in un hotel di
super lusso a New York, l’aveva detto così, senza un reale
motivo. Perché non aveva bisogno di un reale motivo, era
così e basta. Ben alzò gli occhi e io sorrisi, senza
sapere quanto era largo il mio sorriso, ma la sua reazione me lo
confermò: il mio sorriso era il più felice che poteva
esserci in quel momento, perché così era anche quello di
Ben.
Iniziai a bere il tè, ancora sorridente. «Ho deciso: farò la tua manager.»
«Cosa?»
Annuii. «Hai sentito bene.»
«Ma io ce l’ho già, e non la voglio
licenziare. Finora è stata così
d’aiuto…» Ben parve perplesso. Ancora non aveva
capito che non ero affatto seria. In fondo, avevo solo quindici anni.
Come potevo sapere che cosa volevo fare nella vita? Insomma, come ho
già detto, quello è privilegio di pochi.
Terminai in fretta il mio tè e misi tutto nel
lavandino. Mi stiracchiai. «E’ logico che fra quaranta
minuti al massimo mi sveglierò per fare pipì, ma adesso
ho talmente sonno che vado a dormire.» Sbadigliai rumorosamente.
«Sì, credo che andrò
anch’io.» Ben si alzò e io feci cadere uno sguardo
sul suo pigiama estivo: una maglietta di Batman e dei boxer a
quadretti, una cosa che aveva del terrificante.
«Sei proprio terribile», commentai con voce strascicata.
«Perché?», chiese lui sulla difensiva.
«Sappi che se un giorno i miei amici ti vedranno con
quella cosa addosso, io negherò che tu sei il mio
patrigno.»
«Oh, patrigno suona così male!» Ben s’incamminò verso le scale e io lo seguii.
«Fa tanto Cenerentola però. Se preferisci posso chiamarti in un altro modo.»
Arrivammo al secondo piano, al corridoio dove c’erano
entrambe le nostre stanze. «Buona notte pa’», dissi
tentando di far sembrare il mio tono naturale, mezzo nascosta dietro
alla porta della mia stanza. Non avevo mai chiamato nessuno papà.
Ben mi guardò con espressione indecifrabile, alla
fine sorrise e disse: «’Notte anche a te. Sogni
d’oro.» Mi diede un bacio sulla guancia e chiuse piano la
porta.
Fine
Questa
storia non è stata scritta a fini di lucro, ma per divertimento.
Non conosco Ben Barnes e lui non ha dato l’autorizzazione a
questa storia. Qualsiasi riferimento a persone e fatti reali è
puramente casuale.
E... fine!
Uh, allora.
Mmm, che dire? Non so proprio.
Mi è piaciuto postare questa fanfiction, anche se non ha avuto eccessivo successo! ^^
Ringrazio moltissimo CinderNella
(se cliccate c'è il link del profilo, perché fa sempre
bene un po' di pubblicità u_u) perché ha recensito tutti
i capitoli e ha sempre dato la sua opinione senza dire solo "Brava,
aggiorna", ma dicendomi chiaramente che cosa le piaceva e cosa no.
Grazie mille donna! =)
A parte lei, ringrazio anche tutti i lettori silenziosi che hanno messo
la storia fra le Seguite, le Ricordate e le Preferite. grazie anche a
voi, spero che la storia vi sia piaciuta.
E con questo... adios! Ciao a tutti!
Patrizia
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