The Defender of Magic

di Asuka Kazama
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il giorno in cui tutto ebbe inizio ***
Capitolo 2: *** Non c'è pace per i tutori! ***
Capitolo 3: *** Verità o Illusione della mente? ***
Capitolo 4: *** L'udienza ***
Capitolo 5: *** Dalla padella alla brace ***
Capitolo 6: *** Confronto ***
Capitolo 7: *** Il fantasma della biblioteca ***
Capitolo 8: *** La prova del Giudizio in battaglia ***
Capitolo 9: *** Per Lei mi batterò ***
Capitolo 10: *** Il Risveglio ***
Capitolo 11: *** Verità svelate ***
Capitolo 12: *** Bloody Rain ***
Capitolo 13: *** Ciò che non uccide, fortifica ***



Capitolo 1
*** Il giorno in cui tutto ebbe inizio ***


The Defender Of Magic
Capitolo 1 - Il giorno in cui tutto ebbe inizio


«In guardia!».
Il cavaliere dall'armatura scintillante con un solo balzo, coprì la distanza che li separava e tentò un affondo contro la spalla sinistra di Jacopo.
«Troppo lento!». Facilmente Jacopo deviò la spada del cavaliere, e scintille rosse esplosero dal metallo delle lame. Il cavaliere arretrò. Si volse e ripartì all'attacco più determinato a colpirlo. Jacopo respinse l'avversario eseguendo una specie di manovre complesse e balzò più in alto che poté. La lama sfavillò alla luce del sole mentre provava ad affondare la spada sulla schiena del nemico. Quest'ultimo con un balzo all'indietro parò il colpo, proteggendosi con lo scudo e agitando la spada nel tentativo di colpire Jacopo al fianco sinistro. All'ultimo istante, Jacopo parò il colpo.
«Non male», si complimentò con l'avversario, felicemente sorpreso dei suoi progressi.
«Grazie» ghignò l'altro, provando numerosi affondi ma nessuno andò a buon fine.
«Adesso è il mio turno» così Jaki si lanciò all'attacco e malgrado le manovre diversive del cavaliere, riuscì a toccarlo sul collo, provocandogli un leggero taglio da cui sgorgarono delle gocce di sangue. Hai perso».
Il cavaliere lo guardò con espressione attonita poi scoppiò a ridere. «A quanto pare, non sono ancora alla tua altezza».
«Ti sei battuto bene Sigismondo, non essere così duro con te stesso» replicò Jacopo, rinfoderando la spada.
«Sarà, ma ma io non mi vedo così diverso».
Un applauso attirò l'attenzione dei due cavalieri dalle lucenti armature.
In fondo vi era una ragazza, seguita da un gruppo di uomini, dalla stessa armatura grigia dei due combattenti. Appariva come una ragazza di dodici anni appena, bella come un fiore di ibisco, dolce e sorridente, labbra rosse e lucenti come boccioli di rosa e capelli biondi come l'oro gli cadevano morbidamente sulle spalle incorniciando il suo volto da bambina. La sua veste richiamava in sé tutte le gradazioni del blu, proprio come uno scintillante oceano.
I due cavalieri s'inginocchiarono nel polveroso campo di addestramento chinando la testa in segno di rispetto. Gli atri guerrieri che fino a un attimo prima stavano duellando fra loro, si fermarono e li imitarono.
«Alzatevi pure» disse una vocina delicata, poi si rivolse agli altri guerrieri. «Continuate pure».
Annuirono e ripresero gli scontri interrotti.
«Cavalieri Jacopo e Cavaliere Sigismondo, stavo cercando proprio voi».
«Principessa Angelica, non c'era motivo di venire qui a cercarci in questo luogo sporco e polveroso, inadatto ad una donna del suo rango» mormorò Jacopo, «saremo venuti volentieri noi nel suo palazzo».
La principessa sorrise. «È stato il miglior duello che abbia mai visto; vi faccio i miei complimenti, cavalieri»
«Le vostre lodi ci lusingano» parlò Sigismondo portandosi una mano al torace e chinandosi nuovamente per qualche secondo.
«Conoscevo la vostra bravura nell'uso della spada ma vedervi duellare è stata la prova decisiva. Jacopo e Sigismondo ho scelto voi per affidarvi una delicata missione. Questo però non è il posto migliore per parlarne; vi prego, seguitemi e spostiamoci a palazzo, lontano da questo chiasso e orecchie indiscrete. Inoltre, non vorrei che la mia presenza qui deconcentrasse gli allenamenti altrui».
I due cavalieri annuirono e seguendo la principessa imboccarono un sentiero di terra battuta, circondato da una fitta vegetazione. Alberi alti e rigogliosi si ergevano in tutta la loro imponenza, le foglie verdi bagnate di rugiada brillavano come diamanti brillavano di varie sfumature alla luce del sole. Gli scoiattoli saltavano felici di albero in albero, alcuni dei quali si fermarono incuriositi a osservare il gruppo.
Il sentiero terminò davanti un lussuoso palazzo di pietra circondato da un campo fiorito. Entrati, salirono una rampa di scale, il corrimano d'oro massiccio scintillava, i gradini di marmo riflettevano il loro riflesso. Attraversarono un lungo corridoio, anche quest'ultimo di marmo. Il sole era così splendente quel giorno che non occorrevano torce per illuminare l'interno del castello.
Entrarono in una stanza molto ampia, adornata con bellissimi arazzi e dipinti raffiguranti antiche battaglie e precedenti sovrani, incorniciati d'oro.
Al centro della camera vi era un trono di topazio con delle gemme preziose incastonate, centinaia di velluti rossi si intrecciavano a formare un soffitto sul trono a piramide.
Gli uomini si fermarono, osservando la principessa sedersi sul trono di sua madre e sorridergli teneramente. «Lasciateci soli».
La sua guardia composta da cinque uomini, s'inchinò lievemente poi rapidi uscirono dalla stanza per sorvegliare l'ingresso.
«Bene, come stavo dicendo sul campo di addestramento ho scelto voi per una delicata missione».
«Dica pure mia principessa. Saremo molto lieti di adempiere alla missione che ha deciso di affidarci» mormorò Jacopo.
«Aspettiamo ancora. Non siete gli unici incaricati. Gli altri arriveranno a minuti, ho mandato dei messaggeri a chiamarli», l'informò.
 
 
Alcuni minuti dopo entrarono tre ragazze. La prima dal fisico minuto e gracile aveva dei lunghi capelli blu, morbidi come le onde del mare. La pelle del color del cielo era in perfetta armonia con gli occhi zaffiro. La sua veste era lunga e bianca con delle sfumature chiare richiamanti al colore dei suoi occhi. Sulla schiena scintillavano due paia d'ali celesti. Le orecchie appuntite. La seconda invece aveva i capelli color dello smeraldo raccolti in una complicata acconciatura decorate con fresie, fior d'arancio e violette. La sua veste non era altro che un cespuglio di piante, così tante che risultava impossibile identificarle tutte. L'ultima, era una ragazza dall'aspetto umano, molto di più rispetto alle altre due accanto a sé, vecchia oltre ogni dire, anche se l'unico segno di età erano i suoi occhi ambrati che tradivano una saggezza millenaria. Le tre ragazze si limitarono a scoccare un'occhiata ai due cavalieri fermandosi al loro fianco, dopodiché s'inchinarono al cospetto della principessa.
«Miharu, Lothus, Raziel» mormorò Angelica. Ad ogni nome pronunciato, le ragazze una per una si sollevarono, posando i loro occhi luminosi sulla sovrana. «Ora che siete tutti qui posso mettervi al corrente degli ultimi eventi accaduti. Le sibille hanno ricevuto un messaggio dall'oracolo. Il nuovo guerriero si è rivelato. Al momento i suoi poteri sono ancora assopiti ma si sveglieranno a breve» spiegò scrutandoli, quasi a leggere nel loro animo. «La vostra missione consiste nel proteggere il guardiano e addestrarlo, impedendo che qualcuno ne approfitti per rubare i suoi poteri. Sapete tutti cosa succederebbe se quel potere finisse nelle mani sbagliate».
I cinque annuirono.
«Cavaliere Sigismondo, tu avrai l'incarico di sostituire Jacopo, diventando il capitano della mia guardia seppur temporaneamente; Cavaliere Jacopo, il tuo incarico consiste nell'addestrare il guerriero insegnandogli l'arte del combattimento, sarai il suo maestro e il suo tutore. Fata di tutte le acque Miharu, fata della foresta Lothus e spirito millenario Raziel, voi vi infiltrerete nella sua scuola, le insegnerete i valori morali e la saggezza, la terrete lontana dai pericoli e terrete sotto controllo i suoi poteri. Non possiamo permettere che qualcun altro le si avvicini. Ricordate: non dovrà sapere nulla della sua vera natura finché i suoi poteri non si saranno rivelati; non voglio che si spaventi né che racconti di sé a qualcuno».
I cinque annuirono. Fu Jacopo a prendere parola. «Principessa, chi sarà il nuovo protettore?»
«È una ragazza di vent'anni, una studentessa universitaria», ai quattro incaricati consegnò una pergamena ciascuno sigillata. «Sono passati circa cinquecento anni dall'ultima volta che il protettore si è risvegliato, questo significa che una potente forza maligna si annida all'orizzonte, minacciando di spazzare via tutto ciò che incontra sul cammino».
«Vent'anni» ripeté incredulo lo spirito millenario. «L'ultimo protettore si rivelò all'età di dieci anni»
«Sì, ed è proprio questo a preoccuparmi» mormorò incupendosi in volto. «Vi presenterete a lei, sotto-forma umana e assumerete queste identità: Miharu, fate delle acque, risponderai al nome di Dafne e sarai una comune ragazza di vent'anni»
«Sì» rispose la fata cerulea con una riverenza.
«Lothus, fata della foresta, il tuo nome sarà Aida e avrai ventiquattro anni».
La fata dalla carnagione olivastra si limitò ad annuire.
«Raziel, spirito millenario, corrisponderai al nome di Angela e avrai venticinque anni».
Lo spirito imitò Lothus.
«Per ultimo ma non meno importante, Jacopo. Essendo un mezzosangue di nobile stirpe è stato deciso di rimanere il tuo nome invariato, dopo una lunga discussione diplomatica. Avrai diciassette anni e frequenterai un liceo dove potrai esercitarti nelle scienze, approfondire le tue conoscenze, preparandoti ad addestrarla».
Jacopo s'inginocchiò sul freddo marmo, baciando il dorso della mano della principessa. «Come desideri, mia signora».
Le gote di Angelica a quel gesto inaspettato si tinsero di un leggero rossore.
«La ragazza... come si chiama?» s'intromise lo spirito.
Angelica tossì appena, riprendendo il controllo delle sue emozioni e puntato i suoi occhi azzurri sullo spirito. «Alessia. Il suo nome è Alessia. Troverete tutte le informazioni nella pergamena che vi ho dato. Ora andate e assolvete alla missione che vi ho assegnato. Ricordate di non farne parola con nessuno. Il destino, non solo di Shinar, ma del mondo intero, grava sulle vostre spalle». 

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Capitolo 2
*** Non c'è pace per i tutori! ***


The Defender Of Magic
Capitolo 2 - Non c'è pace per i tutori!


«Sei sicura che verrà?»
Dafne si voltò sorridente. «Certo che sì. Gli mando un sms».
Alessia e Dafne stavano aspettando alla biglietteria, frementi di entrare.
Come ogni anno, la Mostra d’Oltre Mare era ben lieta di ospitare uno degli eventi campani più proficui: il Napoli Comicon.
Durante i giorni della fiera, lo spazio si riempiva di giovani appassionati di fumetti e videogame. La maggior parte di questi veniva da altre zone della città, ma anche da altre regioni italiane.
Alessia e Dafne stavano aspettando ormai da più di un’ora l’arrivo di Aida: dovevano incontrarsi alla stazione centrale e andare insieme ma l’appuntamento era saltato; Aida scusandosi per il ritardo, propose alle amiche di andare avanti senza di lei, magari comprandole il biglietto così da non perdere altro tempo per dover fare una seconda fila.
Le persone in coda avevano assunto l’aspetto di un formicaio in fermento, desideroso di sciamare all’interno del terreno e pregustare il banchetto della vittoria dopo essere riusciti a uccidere l’invasore.
Osservarono i volti vittoriosi carichi di gioia agganciarsi il braccialetto e correre dentro a divertirsi, acquistare ciò che si erano prefissati in mente.
«Sei in ritardo!» disse Alessia correndo incontro ad Aida.
«Cos’è successo?»
Aida scoccò un’occhiata a Dafne. «Pullman inesistenti. Al solito» rispose con una scrollata di spalle.
«Credevo che avessi rinunciato a venire» ammise Alessia.
Alessia era vestita con una gonna di jeans fin sopra il ginocchio e una maglietta stampata dall’orlo eccessivamente lungo. Disse: «D’accordo ecco il tuo biglietto».
Senza perdere tempo in ulteriori giri di parole, afferrò le amiche per i polsi trascinandole all’intero dell’edificio mentre organizzava la loro giornata. Sarebbero andate in giro per lo stabilimento alla ricerca dei suoi personaggi preferiti. Se si fossero divise e avessero trovato uno dei tanti cosplay sulla lista avrebbero dovuto contattarla immediatamente, quasi fosse un qualcosa di vita o di morte.
Ovviamente le amiche si accordarono di dedicare almeno cinque minuti ad ogni stand che incrociavano sul loro cammino. Il loro portafoglio non chiedeva altro di essere liberato da quel pesante peso.
La mattinata passò in fretta con Alessia che correva in tutte le direzioni, eccitata come una bambina la prima volta al parco giochi, scattandosi fotografie con ogni personaggio amato che aveva la sfortuna di passarle sotto gli occhi. Sembrava un predatore. Pazientemente aspettava la sua ignara preda, nascosto fra i cespugli e quando questa le si avvicinava non c’era più alcuna possibilità di salvezza. Come un serpente scattava fuori dal suo nascondiglio, s’impossessava della povero malcapitato imprigionandolo nella sua morsa d’acciaio. Sfuggirle era impossibile.
 
 
«Ehi, scusate l’attesa!», Alessia le salutò sorridendole, mentre teneva ben salda la presa sulla manica di un ragazzo.
«Questo è il mio amico Jaki, quello di cui vi ho parlato! Jaki ti presento Aida e Dafne».
Il ragazzo, incastrato, abbozzò un sorriso e rivolto alle due disse: «Piacere di conoscervi».
Era un ragazzo dall’aria sportiva ed energica, con un sorriso affabile e uno sguardo gentile. Se avesse avuto un buon carattere sarebbe stato sicuramente popolare e non solo fra le donne.
«Piacere di conoscerti Jaki» rispose Dafne sorridendo.
Il ragazzo indossava una tuta di pelle nera coperta da un giaccone cremisi con il cappuccio. I capelli biondi raccolti in una treccia bassa, in mano una lancia.
«Gli avevo chiesto di travestirsi da Roy ma il ragazzo si rifiuta» borbottò Alessia.
«Io non faccio cosplay di persone cieche» replicò maliziosamente il biondino.
«Zitto piccolo alchimista!».
A quel punto i due amici iniziarono a rincorrersi. Jaki l’inseguiva cercando d’infilzarla con la sua lancia amatoriale. Gli era costata 3 giorni di duro lavoro. Alessia cercava di sfuggirgli correndo in cerchio, nascondendosi dietro le amiche in cerca di protezione. Dafne e Aida mangiavano tranquillamente il loro pranzo a sacco, osservando passivamente la scena e parlando fra di loro.
 
 
Alessia vagava fra i giardini del complesso, alla ricerca di uno stand che vendesse noodles. La corsa con Jaki le aveva fatto ritornare l’appetito nonostante avesse finito pochi minuti prima il suo pranzo a sacco, un panino al prosciutto e philadelphia. Era sola. In un primo momento riluttanti e contrari, Alessia era riuscita a convincerli ad andare da sola senza la supervisione dei suoi amici; i suoi argomenti erano fin troppo convincenti e non c’erano motivi per girare con loro al seguito, quasi se fossero i suoi babysitter.
“Tornerò presto” aveva promessa “Così presto che non avrete il tempo di chiedervi dove sono che spunterò alle vostre spalle”.
Seguendo le indicazioni ricevute era giunta nel giardino esterno, dove vi erano delle piccole fontanelle.
«Alessia!»
«Uh?»
«Ehi, ciao da quanto tempo!».
Un ragazzo di bassa statura, dal fisico minuto. I capelli biondo miele spettinati danno l’impressione della criniera di un leone.
«Sabino! Come mai da queste parti? Non sapevo saresti venuto al comicon» disse Alessia, sorridendogli.
«Saremmo potuti venire insieme» convenne il ragazzo leonino. «Raccontami un po’ di te! Sono anni che non ci vediamo!».
Così Alessia camminando al fianco dell’amico, iniziò a raccontare la sua vita, la scelta universitaria, praticamente nessun dettaglio venne tralasciato. Le piaceva parlare di sé, la faceva sentire importante; più di una volta aveva provato a fermarsi e non dare tante informazioni ma non riuscì a tener a freno la lingua così gli confessò tutto, persino un litigio avuto con un’amica in comune. Lui dal canto suo, l’ascoltava interessato, in silenzio e annuendo, non aveva il tempo di fare domande perché veniva travolto dalla raffica di parole di Alessia.
«E questo è tutto» mormorò infine, tirando un lungo respiro per riprendere fiato.
«E dimmi se qui da sola?»
«No con i miei amici»
«Amici? Quali amici?»
«Beh con Aida, Dafne e Jaki. Avrebbe dovuto esserci anche Angela ma aveva una faccenda da sbrigare».
Sabino sembrò pensarci su per istanti che parvero infiniti. «E lo sanno che sei qui?»
«Sì, gli ho detto che andavo a comprare dei noodles…» mormorò Alessia confusa.
Sul volto del ragazzo comparve un ghigno sinistro. «Bene».
«Credo che sia meglio se ritorno da loro, si staranno preoccupando. Gli avevo detto che sarei tornata subito e sono passati parecchi minuti da quando sono andata via…»
«Come mai tanta fretta? Resta ancora qui con me».
Sabino aveva uno strano scintillio negli occhi e nella testa di Alessia iniziò a suonare un campanellino d’allarme. Il suo istinto le suggeriva di fuggire via, il più lontano possibile da quel ragazzo. E fu a questo istinto che decise di dare ascolto. Così provò ad aggirare Sabino nel tentativo di allontanarsi il più possibile. «No, non posso. Io devo andare», si limitò a rispondere.
Sabino le bloccò la strada. «Tu non ti muoverai da qui. Non hai altra scelta».
Con uno scatto si voltò per fuggire ma fu colta di sorpresa da Sabino quando la gettò sul prato. Le afferrò i polsi e glieli tenne sopra la testa.
Alessia gli diede una ginocchiata nelle costole. «Togliti…di…dosso!»
Sabino invece di sdraiò su di Alessia e le allargò le gambe, cosicché non potesse muoverle. Con le braccia e le gambe immobilizzate non poteva fare altro che dibattersi sotto il peso del suo corpo.
«Togliti di dosso…oppure…mi metto a urlare!»
«Stai già urlando e non ti servirà a nulla! C’è troppo chiasso qui, nessuno ti sentirà!». Sfoderò un sorriso crudele «Voglio i tuoi poteri. Dammeli!»
Alessia tratteneva a stento le lacrime.
«Tu sei pazzo!» urlò. «Non so di cosa stai parlando! Lasciami andare brutto pervertito!»
I suoi occhi divennero rosso sangue.
Alessia gridò terrorizzata. «Chi sei? Chi sei veramente?»
Le sue labbra si piegarono in una smorfia. «Non ha importanza»
«Lasciami andare! Ti prometto che non racconterò nulla a nessuno, fingerò che non sia successo nulla ma lasciami andare!»
«Io voglio i tuoi poteri. Con quelli sarò invincibile. E non sarà di certo una mocciosa come te a impedirmi di averli! Avanti! Cosa aspetti ad usarli? Ti consiglio di fare in fretta se non vuoi ritrovarti due buchi sul collo».
Alessia cercò di divincolarsi. Provò a rotolare a destra, poi a sinistra, ma alla fine si rese conto che sprecava inutilmente energie e si fermò. Gli occhi di Sabino, rossi come il sangue, si posarono su di lei.
«Secondo l’oracolo tu saresti la Prescelta. Avanti, mostrami i tuoi poteri, scatenali! Usali per combattermi!» la provocò tirando fuori dalla tasca un rubino e appoggiandolo accanto al viso della ragazza. «Forse non è abbastanza, forse devo fare qualcos’altro per spingerti ad usarli... vediamo se questo ti convince».
Ghignò mostrandole i canini lunghi e affilati. «È abbastanza?»
Alessia impallidì. «No, non può essere. Tu… tu sei un vampiro»
«Esatto»
«Non ci credo! I vampiri non esistono!»
«Così mi offendi! Guarda che io esisto!»
«No, tu sei solo un pazzo! È tutto falso!»
Sabino sospirò. «Il rubino non reagisce ancora… forse ho sbagliato Alessia. No, sono certo che sei tu quella giusta. Beh, non ha alcuna importanza. Dopo aver preso i poteri sarai il mio spuntino della vittoria, il tuo sangue ha un profumo così dolce… sa di cannella»
Il cuore le batteva così forte che lo sentiva persino sotto le dita dei piedi. «Lasciami andare!» gridò. «Io non capisco di cosa tu stia parlando!»
Stava per morderle il collo quando si fermò, scrutandola confuso. «I tuoi amici non ti hanno raccontato ancora nulla?»
«Secondo te?!» chiese sarcastica.
«Beh non sarò di certo io a raccontarti la tua storia!»
«Perché?!»
«Perché? Perché non è compito mio! A me interessano solo i tuoi poteri!».
Alessia chiuse gli occhi, delle lacrime cominciarono a rigarle il volto. Un moto di rabbia s’impadronì del suo corpo e sfuggì alla presa del vampiro. Lo colpì al torace spostandolo di qualche centimetro. Cominciò a prenderlo a pugni, sul petto, sempre più forte, finché le mani non iniziarono a pulsarle.
Sabino dopo un primo momento di confusione gettò un’occhiata fugace al rubino il quale aveva preso a brillare a intermittenza.
«Allora è vero! Sei tu!» con uno scatto la sollevò da terra e la spinse contro un albero, le sue gambe contro quelle di Alessia. «Fantastico! Fra poco avrò ciò che ho sempre desiderato!»
Alessia si sentiva strana. Sentiva dei suoni nelle orecchie e la vista diventò opaca, confusa. Uno strano calore le schiacciava il petto come un grosso macigno. L’orrenda sensazione di essere seppellita fra le fiamme che nascevano dal suo corpo e lo rimasticavano per farsi strada e dispiegarsi con un dolore insopportabile attraverso le spalle e lo stomaco, ustionandole la gola, fino a lambire il viso. Cercò di riempire i polmoni, ma era come se l’aria fosse sparita. Il mondo iniziò a girare e non riusciva a vedere bene Sabino, sembrava sfuocato. Più cercava di respirare, più la gola le si chiudeva. «Cosa… mi stai… facendo?» rantolò.
Sorrise. «Io nulla. Sono i tuoi poteri, si stanno risvegliando e il tuo corpo sta mutando per sopportarli»
«Non… riesco… a… respirare!» si afferrò la gola con una mano.
Sabino lasciò la presa e indietreggiò di qualche passo raccogliendo il rubino e osservando il risveglio.
«Manca poco tranquilla, presto tutte le tue sofferenze avranno una fine» la rassicurò blasfemo.
Alessia non gli credeva. Non poteva essere i poteri cui tanto aspirava, non ci credeva. Se davvero fosse stata la Prescelta di chissà cosa, il suo risveglio non poteva essere così doloroso, soffocante e caldo. No. Sarebbe stato qualcosa di piacevole, libero, delicato. Lui l’aveva morsa. Forse la sua supervelocità, forse il nervosismo e la paura di cui era caduta vittima le aveva offuscato la mente al punto da non farle sentire i denti di Sabino affondare nel suo collo e iniettarle il veleno per trasformarla in un essere come lui.
«Tu… tu mi hai morso» boccheggiò.
«No, non ti ho morso» rispose seccato e trepidante il vampiro. «Te lo ripeterò per l’ultima volta: sono i tuoi poteri. Tranquilla, quando saranno attivi li prenderò io e tu rintronerai come prima. Dopotutto è un piacere quello che ti sto facendo non credi?». Il suo viso si contrasse in una smorfia divertita e maliziosa. «O forse volevi essere morsa da me?»
Alessia non riuscì più a parlare. Il dolore fu così forte da mozzarle il respiro e in quel momento desiderò con tutta se stessa di morire. Non essere mai nata. Non ne valeva la pena. Sopravvivere a quel dolore sentiva che era inutile, né voleva tentare l’esperimento. Non desiderava altro che la morte. Così sotto la tortura incandescente le sue grida mute imploravano l’arrivo della morte.
«Dannazione!»
Una voce familiare la costrinse a riaprire gli occhi. Li sbatté a lungo nella speranza di mettere a fuoco la vista mentre si contorceva in preda al dolore.
«Lo sapevo! Non dovevamo lasciarla da sola!». Un’altra voce familiare giunse al suo orecchio. Questa volta era di una ragazza bella come un angelo. Non riuscii a mettere a fuoco i lineamenti del viso per scoprire chi fossero i nuovi arrivati, né si sforzava per riuscirci. Vedeva solo tre figure sfuocate, delle macchie colorate che le danzavano davanti agli occhi.
«Jacopo! A quanto pare ci incontriamo ancora! Che piacere rivederti!» disse Sabino ghignando.
«Dimitri» si limitò a rispondere digrignando i denti.
«Oh, non sembri molto felice di vedermi» mormorò fingendosi offeso. «Ho forse fatto qualcosa che ti ha infastidito? Chiedo venia».
Jaki strinse forte la lancia che aveva in mano, la stessa usata qualche minuto prima per inseguire Alessia. L’arma s’illuminò prendendo a brillare di un’intensa luce color oro. Il bastone divenne di ferro lucente sostituendo il legno; la lama di cartone si trasformò in una lama affilata e tagliente. «Occupatevi di Alessia, a lui ci penso io» e si lanciò all’attacco contro il vampiro.
Diedero vita ad un cruento combattimento. Jaki affondava la lancia contro il vampiro mirando ai punti vitali; quest’ultimo con altrettanta rapidità schivava i colpi provando a colpirlo con varie tecniche.
Il vampiro si avventò su Jaki gettandolo a terra e gli fece volare via la lancia di mano, immobilizzandolo sul prato per i polsi. «Non ho mai bevuto il sangue di un ibrido» mormorò leccandosi le labbra.
«E non inizierai oggi!» rispose il Cavaliere assestandogli una ginocchiata nelle costole, poi rotolò a destra. Si sollevò con uno scatto e gli diede una gomitata nello stomaco.
«Tutto qui? Mi deludi molto Cavaliere» mormorò Sabino «Devi fare molto di più per sconfiggermi!»
Accigliato Jaki si lanciò nuovamente all’attacco contro il vampiro.
«Vuoi attaccarmi senza un’arma?» gli chiese il vampiro sorpreso poi scoppiò in una fragorosa risata. «Pazzo! Sei solo un pazzo! La tua misera forza non ti basterà per uccidermi, sciocco mezzosangue!»
«Lo vedremo!»
Quando Jaki lo attaccò come un leone, Sabino divenne un’immagine sfocata. Anche Jaki era veloce, ma non quanto lui. Sembrava inconsistente, come un fantasma, e le mani di Jaki diedero più volte l’impressione di averlo colpito, ma in realtà picchiò l’aria.
Con la gamba sinistra il Cavaliere scagliò velocità altissima un calcio circolare girato alto, e servendosi di questa rotazione, con la gamba destra assestò un calcio girato basso. Aveva usato il calcio alto come una finta.
Il vampiro rapidamente schivò i due colpi, probabilmente li aveva previsti per poi sferrargli un pugno in pieno viso. Il cavaliere parò il colpo portandosi il braccio sinistro al viso, ma il colpo fu così violento da spezzargli l’osso della polso all’impatto. Dopotutto Jaki stava combattendo contro un vampiro.
Velocemente balzò all’indietro poi Jaki si bloccò.
Sabino lo aveva preso alle spalle, i denti a pochi centimetri dalla sua gola. Il vampiro era stato più veloce del Cavaliere e lo aveva immobilizzato.
Jaki lanciò un’imprecazione.
«Mi dispiace, per te è finita».
Poi attorno al collo del vampiro comparve una grossa radice che lo strattonò all’indietro. Il vampiro emise un grido strozzato mentre veniva immobilizzato e dal petto gli spuntavano la lama argentata di una spada e uno schizzo di sangue, poi crollò a terra, provò a dire qualcosa ma dalle sue labbra non uscì altro che un debole sussurro incomprensibile , esalando l’ultimo respiro. I suoi occhi rossi puntarono con odio e disprezzo Jaki mentre veniva avvolto nell’abbraccio della morte. Dietro di lui apparve Aida. Gli sorrise sorniona e lo aiutò ad alzarsi.
«Stai bene?» gli chiese la ragazza preoccupata.
«Sì, grazie» rispose il ragazzo osservando il corpo senza vita del vampiro. «Pochi minuti e lo avrei ucciso con le mie mani»
«Pochi minuti e saresti diventato un colabrodo» ridacchiò Aida.
La pelle del vampiro iniziò a spaccarsi creando delle piccole crepe come uno specchio d’acqua incrinato dal lancio di un sasso. Jaki lo colpì al torace con un calcio al torace e il vampiro si disintegrò diventando un cumulo di polvere.
I due si avvicinarono ad Alessia.
«Come sta?» chiese Aida, correndo accanto a Dafne.
Dafne era inginocchiata a terra, la testa di Alessia in grembo. Stava mormorando delle parole in un’antica lingua, la mano poggiata sulla fronte della giovane.
«Bene, si è stabilizzata. Ora sta dormendo»
«I suoi poteri si sono risvegliati?» chiese Jaki.
Dafne scosse il capo. «Quando avete ucciso il vampiro il processo si è annullato improvvisamente»
«Forse il suo corpo non è ancora pronto a sopportare una simile quantità di potere» ipotizzò Aida.
«Oppure perché la minaccia è stata eliminata» azzardò Jaki.
Aida si sollevò. «Beh, qualsiasi sia il motivo non ha importanza. Quel vampiro, Dimitri esatto?»
Jacopo annuì. «Sì, il suo vero nome è Dimitri ma a quanto ho capito si era presentato ad Alessia con un altro nome. È possibile che siano stati amici in passato, prima della predizione dell’oracolo…»
Aida annuì ancora e continuò. «Come dicevo, quel vampiro sapeva di Alessia e questo significa che non è il solo. Risveglio o no, non possiamo aspettare ancora, Alessia deve essere addestrata».
«Non possiamo!» sbottò Dafne «Il suo fisico, la sua mente sono troppo deboli per apprendere!»
«Aida ha ragione. Abbiamo aspettato troppo è arrivato il momento che impari a combattere e a difendersi da sola. Ci sono creature orribili molto più potenti di lui, non possiamo rischiare»
«Vuoi forse che si autodistrugga?!» lo aggredì Dafne.
Jaki restò calmo. «No. Vuoi forse che venga uccisa prima che assolva ai suoi doveri?»
«La proteggeremo noi!»
«Il nostro compito non è fargli da balia! Noi dobbiamo addestrarla!»
«Non la proteggeremo per sempre!»
«Puoi garantire di riuscire a proteggerla fino al giorno del Risveglio? Sai meglio di me che potrebbe avvenire anche fra chissà quanti anni!»
Dafne non rispose.
Fu Aida a spezzare il silenzio. «Jaki ha ragione. Non possiamo più aspettare»
«D’accordo» bofonchiò Dafne. «Prima di prendere una qualunque decisione a riguardo ne parleremo con Raziel. Sarà lei a decidere».
 

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Capitolo 3
*** Verità o Illusione della mente? ***


The Defender Of Magic
Capitolo 3 – Verità o Illusione della mente?

 

«Sono preoccupato per Alessia» disse Jaki. «Adesso che noi ne siamo sicuri e che anche loro ne sono sicuri...»
«Siamo» lo corresse Dafne. «Siamo preoccupati»
«D’accordo siamo» convenne Jaki.
«Peggioreremmo solo le cose mettendole fretta» s’intromise ancora, precedendo il Cavaliere. «Deve fortificare il corpo!»
«Ti dispiace?» ringhiò il Cavaliere.
Sulle guance della fata si formarono due fossette, poi disse a fior di labbra: «Scusa».
Jaki vide Aida trattenere un sorriso. «Allora come dicevo, forse non ne avrà il tempo»
«Lasciamo che si goda la sua ignoranza finché può!»
Il Cavaliere strinse così forte il bastone della sua lancia fra le mani che le nocche le divennero bianche.  Respirò profondamente cercando di restare calmo. «Vuoi lasciarmi finire, per favore?»
«Anch’io ho il diritto di esprimere le mie preoccupazioni quanto te! No, più di te! Sono più anziana, più saggia e... sono anche una delle sue migliori amiche!»
«E ti dispiacerebbe esprimere le tue preoccupazioni dopo che io ho finito di parlare anziché interrompermi?»
«Scusa»
«Dicevo... Alessia ha visto Sabino, l’ha affrontato!»
«La sua immaginazione» insistette la fata dopo essersi assicurata che Jaki aveva finito di parlare. «Basterà convincerla. Ha sempre avuto una fervida immaginazione»
«Davvero? E cosa le diremo? È staro tutto un sogno?» chiese Jaki sarcastico.
«Perché no? Non è di certo il primo sogno assurdo che fa, né sarà l’ultimo».
Dopo essere stata in silenzio, Aida si decise a parlare. Aveva ascoltato le motivazioni dei due, entrambe corrette e ora era giunta alla sua conclusione. «Avevamo deciso di...»
S’interruppe. Un mugolio aveva attirato la sua attenzione. Alessia che fino a un attimo prima stava dormendo sulle gambe di Dafne si era appena svegliata e si stava stropicciando gli occhi.
I tre smisero di parlare, temendo di essere stati ascoltati dalla giovane.
Alessia si alzò a sedere e li osservò attentamente uno per uno; poi chiese a Dafne: «Dov’è Sabino?»
«Chi?» fece Dafne.
Ma aveva esitato, senza guardarla negli occhi, perciò Alessia pensò fosse uno scherzo.
«Non è divertente» replicò. «È una cosa seria».
Jaki aggrottò la fronte e si sporse in avanti, la faccia un po’ preoccupata. «Alessia non c’è nessun Sabino. Ti senti bene?»
«Sì, perché non dovrei?»
«Hai preso una brutta botta»
«Cosa?»
«Sì, sei inciampata mentre correvi e cadendo a terra hai perso i sensi. Ti senti bene?»
Alessia guardò Aida confusa, in cerca del suo aiuto.
«È vero, ha ragione Jacopo» rispose Aida, i suoi occhi fissi su di lei in un espressione indecifrabile. «Stavi inseguendo un cosplay quando sei caduta e battendo la testa hai perso i sensi. Ti senti bene?».
Alessia era abituata a qualche stranezza di tanto in tanto, ma di solito passavano alla svelta. Questa invece era a tempo pieno. Sentiva il corpo tutto indolenzito, come se qualcuno fosse passato sopra di lei con un carro armato. Per tutta la giornata continuò a chiedere in modo incessante di Sabino, e i suoi amici negarono puntualmente. Alessia non si arrendeva. Sapeva cosa aveva visto e qualcosa nella versione dei suoi amici  non la convinceva del tutto.
Se Sabino era solo il frutto del suo sogno perché Dafne aveva esitato?

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Capitolo 4
*** L'udienza ***


The Defender Of Magic
Capitolo 4 - L’Udienza

 

Raziel era in piedi e fissava la schiera di persone sedute sulle panche in alto.
Ce ne erano sette: tutte, indossavano una veste scarlatta e tutte la fissavano dall’alto in basso, alcune con espressioni molto severe, altre con sguardi di sincera curiosità.
La stanza era molto grande. Le pareti erano di pietra dura, illuminate fiocamente da torce.
Panche vuote si ergevano ai due lati della stanza, ma di fronte, sulle panche più alte, c’erano molte sagome in ombra.
Al centro esatto della fila davanti sedeva Angelica, la principessa di Shinar.
Angelica era una ragazza minuta con indosso un abito verde acido, i lunghi capelli biondi raccolti in un alto chignon.
Raziel stava raccontando al Consiglio degli Anziani Saggi gli ultimi eventi accaduti.
«Così avete permesso a un vampiro di aggredire la vostra protetta?» chiese una voce zelante, seduto su uno scanno più alto per pareggiare la sua altezza con gli altri membri. Aveva un viso dal colorito scuro e dall’aria intelligente, una lunga barba grigia a punta, sedeva alla sinistra della principessa.
«È stato un errore» rispose educatamente Raziel.
Preston, un uomo magro sia di viso sia di corpo, teneva sempre gli occhi socchiusi e aveva l’aria nervosa. «Sappiamo a quale clan apparteneva Dimistri alias Sabino?»
«No» rispose Raziel calma e pacata come l’etichetta imponeva in quelle delicate questioni politiche. «Dimitri non appartiene a nessun clan di vampiri. È un vagabondo»
«Siete riusciti a capire come ha fatto a scoprire il segreto di Alessia e arrivare a lei?»
«Stiamo valutando varie ipotesi»
«Quindi non avete nulla!» intervenne Lauren, un uomo alto il naso affilato e la corporatura robusta.
Il sole stava sorgendo. I suoi raggi obliqui filtravano da un vetro istoriato, colorando ogni cosa di un’intensa sfumatura cremisi.
«Non ho detto questo» replicò Raziel asciutta. «Ognuno di noi sta valutando ogni possibilità e sfruttare le proprie conoscenze»
«Cosa avete scoperto finora?» insistette Lauren.
«Perché avete permesso a quel vampiro di avvicinarsi ad Alessia?».
A parlare fu un bellissimo ragazzo biondo dai capelli arruffati e occhi verdi e profondi. Aveva le labbra piene, di un rosa per cui molte ragazze avrebbero fatto qualsiasi cosa. Ciò che lo rendeva unico dal resto dei presenti, erano le sue sottili orecchie a punta, un tratto distintivo della razza elfica.
Raziel era frustata dalla piega che aveva preso la conversazione, ma consentire all’impazienza e alla rabbia di guidare le sue azioni non le avrebbe giovato. Da secoli ormai presiedeva alle riunioni come una sorta di Anziano Apprendista e ogni volta qualcuno riusciva a farle perdere le staffe; lei manteneva duro, incassava i colpi, rispondeva educatamente come il protocollo le imponeva per poi sfogarsi quando restava sola.
«Risponderò a ognuna delle vostre domande cercando di saziare la vostra curiosità, tuttavia mi duole molto dirlo ma ci sono cose che non posso rivelare, non per il momento almeno».
Il nano la guardò ostile. «Bene, inizia a rispondere alle domande poste in precedenza».
Raziel annuì. «Come ho già detto, stiamo investigando per cercare di capire come ha fatto quel vampiro ad avvicinarsi ad Alessia. Lothus aveva evocato barriere di protezione molto potenti. Magia antica»
«Magia antica, eh? Non sembrerebbe. Io direi magia scadente» disse l’elfo. «Del resto, da quando le alseidi sarebbero capaci di evocare magie?».
«Come intendete procedere adesso? Avete scoperto come ha fatto quel vampiro ad avvicinarsi? Ha dei complici? Magari se qualcun altro è a conoscenza dell’identità della ragazza? Quando inizierà il suo addestramento?» chiese Preston.
«Come ho già detto stiamo valutando tutte le ipotesi, quelle possibili e quelle impossibili. Stiamo investigando per trovare la falla che ha permesso a quel vampiro di eludere le nostre difese e chiuderla prima di ripetere l’esperienza»
«Non darci risposte da politico!» ringhiò il nano, sporgendosi dal suo posto.
I membri del Consiglio borbottarono.
«Io propongo di sollevarli dall’incarico» suggerì ad un tratto l’elfo. «Se avreste affidato a noi elfi l’incarico di proteggerla, com’era giusto che fosse, questa situazione non si sarebbe mai verificata. Addirittura un alseide, puah!»
«Sì per una volta sono d’accordo con orecchie a punta. Mandiamoli a spaccare le pietre! Ai nani farà comodo avere delle braccia in più» aggiunse il nano.
Il consiglio stava ancora borbottando e si agitava irrequieto; solo quando Angelica parlò, le creature si calmarono.
«Sono d’accordo con voi. Il vostro errore ci è costato tanto, al punto da mettere in pericolo la vostra protetta. Mai prima d’oggi, nessun mentore o tutore era incappato in questo grave errore, tuttavia la vostra rapidità ha risolto brillantemente la situazione, scongiurando il disastro».
Raziel annuì.
«Ma... non posso ignorare una simile sottovalutazione del pericolo e del dovere e pertanto sono costretta a rivalutare la vostra posizione. Se tutti i membri del consiglio sono d’accordo, vi sottoporrete ad una serie di prove che stabiliranno se la fiducia che ho risposto in voi per questo delicato incarico è stata ben riposta o se la mia è stata una scelta sbagliata e poco riflessiva»
«Ma principessa! E se non dovessimo superare le prove? Cosa accadrà alla nostra amicizia con Alessia?» chiese Raziel.
In tanti secoli era la prima volta che doveva sottoporsi ad un test.
«Non sarà mai esistita. I suoi ricordi verranno alterati con la magia e voi verrete sostituiti con coloro che prenderanno il vostro posto».
«Sì, mia signora»
«Bene è giunto il momento di votare per alzata di mano. Quanti di voi sono per la condanna?»
La testa di Raziel scattò in su. Il cuore gonfio le bloccava le vie respiratorie. Le mani dell’elfo e del nano furono le prime a scattare e sollevarsi verso l’alto.
Raziel sentì contorcersi lo stomaco. Che l’elfo e il nano, i primi a votare, avessero espresso il suo dissenso per loro era sott’inteso. Dopotutto se l’aspettava da come si erano comportati durante la riunione.
Lauren sollevò la mano in alto, guardando accigliato Raziel.
Raziel strinse forte i pugni lungo i fianchi, gli occhi correvano da un membro all’altro.
Angelica osservò le tre mani alzate e annuì. «Nessun altro?»
Nessuno parlò. «D’accordo, quanti invece sono favorevoli al sostenimento di una prova?»
Gli altri membri del Consiglio, fino a quel momento rimasti in silenzio alzarono la mano. Il primo fu l’uomo dall’aria nervosa che dopo essersi pulito la mano sulla tunica scarlatta la sollevò tremante, decretando il suo favore per la prova.
Fu subito seguito da un uomo bellissimo, forse bello quanto l’elfo, dai capelli neri e gli occhi scuri e poi da una ragazza dalle orecchie a punta, lunghi capelli d’oro a boccoli d’oro.
Raziel sentì un groppo in gola.
Angelica guardò tutti quanti, con aria curiosa, le labbra arricciate in una smorfia seria, poi alzò la mano. «E prova sia!»
Raziel rilasciò tutta l’aria che le si era bloccata in corpo. Non era ciò che voleva ma era di certo meglio che perdere il proprio incarico e finire in una cava a spaccare pietre.
«Bene. In questi giorni vi verrà inviato un messaggero con tutte le informazioni della prova. La seduta è ufficialmente sciolta».

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Capitolo 5
*** Dalla padella alla brace ***


The Defender of Magic
Capitolo 5
 - Dalla padella alla brace

 
Il Consiglio degli Anziani aveva emesso la sua sentenza.
Se volevano mantenere il loro incarico dovevano superare una serie di prove.
Si aspettavano davvero che Raziel avrebbe chinato il capo e obbedito ai loro ordini da brava cagnolina? Chi credevano di essere? Lei era molto più vecchia e saggia di tutti loro messi insieme!
Accigliata, tirò un calcio ad un ciottolo.
Da molte ore vagava per le strade rurali di Shinar, cercando di distrarsi un po’. Non le andava di ritornare a casa da sconfitta, raccontare ai suoi amici di aver fallito nella negoziazione. La sconfitta le bruciava e l’idea di sostenere una prova la disgustava.
La principessa Angelica una volta assicuratasi di essere sola le aveva detto: “Mi dispiace molto Raziel. Il vostro errore poteva costarci caro e il Consiglio ha i suoi buoni motivi per sollevarvi dall’incarico. Hai capito?”
“Sissignora”.
“Non volevo arrivare al punto da costringervi a sostenere un test, ma devo tranquillizzare il Consiglio, assicurargli di aver riposto la mia fiducia nelle persone giuste ed essere sicura delle vostre capacità. Non possiamo permettere a qualcun altro di fare del male ad Alessia, è troppo importante. Se la trasformazione fosse giunta al termine, probabilmente questo piccolo incidente non sarebbe stato preso in considerazione, ma sarebbe diventato un fattore inevitabile. Lo so molto bene. Non dobbiamo focalizzarci sul passato ma vivere il presente e progettare il futuro; dobbiamo rimediare ai nostri errori e innalzare le nostre difese per impedire a chiunque di penetrarle”.
“Sì, lo so”.
“E vedi di non dimenticarlo la prossima volta, potrebbe esserci fatale. Non voglio sollevarvi dall’incarico. Sono stata io a scegliervi e ancora ora sono sicura di fidarmi delle persone giuste. Capita a tutti di sbagliare. È stata l’unica opzione per tenere a freno il Consiglio e darvi la possibilità di rimediare. Avevo e ho tutt’ora le mani legate”.
“Sì, capisco”.
“Ottimo. Adesso va’ e informa gli altri”.
Raziel tirò l’ennesimo calcio ad un ciottolo ed imprecò sottovoce.
«Come mai quell’aria corrucciata?»
Raziel si voltò di scatto. Quella voce la conosceva bene, molto bene ma sperò comunque di essersi sbagliata.
Di fronte a lei c’era un uomo alto e snello. I tratti del volto erano delicati e aveva gli occhi a mandorla, proprio come quelli di un personaggio anime giapponese. Le orecchie a punta lo rendevano ancora più affascinante. In parole semplici, era bellissimo.
«Stai zitto» disse Raziel scuotendo la testa. Perché fra tutte le creature magiche esistenti doveva incontrare proprio un elfo? E perché fra tutti gli elfi doveva incontrare proprio Austin?
Gli elfi non sono affatto le creature gentili e amanti della natura descritti nelle fiabe e nei miti. No, quelle sono le fate. Gli elfi sono complicati e pericolosi.
«Raziel» sussurrò lui. «Quanto tempo»
«Non ti ho detto di stare zitto?»
Lui rise emettendo un suono argentato come quello delle campane e si avvicinò a Raziel.
«Non sei contenta di rivedermi?» le chiese, e con il dito sottile tracciò un disegno immaginario sul dorso della mano di Raziel per poi prenderla per mano.
Con un brusco strattone Raziel si allontanò da Austin.
Lui scoppiò di nuovo a ridere.
«Stupido elfo» borbottò mentre si allontanava lungo il viale, desiderosa di mettere più distanza possibile fra lei e Austin.
All’improvviso se lo ritrovò accanto.
«È tanto che non possiamo del tempo insieme». Parlava sottovoce con tono ammaliente e sinuoso. Poi provò a prenderle di nuovo la mano ma Raziel fece un balzo indietro.
«Indietro» gli ordinò. «Non mi toccare»
«Perché?» chiese avvicinandosi sempre più.
Raziel ignorò le sensazioni che provava. Non ci sarebbe più cascata. Mai più.
«Sono molto occupata» tagliò corto Raziel.
«Avete combinato proprio un bel pasticcio tu e le tue amiche alate».
La ragazza si voltò a guardarlo. «E tu come lo sai?»
«Le notizie volano mia cara»
«È una missione segreta»
«E allora? Noi elfi sappiamo mantenere i segreti» ridacchiò Austin. «Comunque sia, complimenti! Ancora una volta sei riuscita a far saltare i nervi a Canyaner, credo che il tuo sia un talento naturale»
Raziel non rispose e riprese a camminare.
«Non possiamo lasciarci il passato alle spalle?»
«No» rispose asciutta Raziel e toccò il tronco di un immenso albero nodoso, alto quasi cinque metri, il quale si illuminò e su di esso apparve il profilo di una porta.
«Ti accompagno» mormorò l’elfo.
«No, non puoi e lo sai bene. Tornatene da dove sei venuto e restaci per sempre».
Prima che Austin potesse opporsi, Raziel varcò la soglia della porta apparsa sulla quercia.
In un secondo si ritrovò immensa nel caotico e inquinato parco cittadino, molto lontana dalla tranquilla Shinar.

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Capitolo 6
*** Confronto ***


The Defender of Magic
Capitolo 6 - Confronto


Canyaner, un elfo alto dai capelli d’oro e scintillanti occhi del colore dello smeraldo, parlava rapido e irritato nonostante la voce dell’elfo fosse melodiosa quanto un’arpa. Anche quando gli elfi erano furiosi la loro voce non mutava, restando dolce e delicata ma le espressioni di quei visi così candidi si increspavano in una smorfia terrificante seppur bellissima.
Da quando sua madre le aveva ceduto il posto nel Consiglio degli Anziani Saggi fu la prima volta che vedeva un elfo arrabbiato, ne rimase intimorita e affascinata. Canyaner era sempre stato gentile e disponibile con lei, pronto ad aiutarla qualora ne avesse avuto bisogno e ora l’elfo di fronte a lei, appariva diverso, uno sconosciuto. Angelica alzò lo sguardo su Canyaner mostrandosi adulta e risoluta rimpiangendo di essere molto più bassa dell’elfo e non poterlo guardare negli occhi.
Era in piedi davanti lo scranno in mogano intagliato nel suo studio, una stanza della biblioteca reale circondata dai suoi libri preferiti. Il tavolo lungo, era coperto di documenti e mappe.
«Come hai potuto proporre quella assurda prova? Quei quattro hanno fallito miseramente! Hanno messo in pericolo Ainwen! L’hanno praticamente consegnata al nemico. Come puoi insistere nel lasciargli l’incarico? Vanno sollevati subito, puniti per la loro negligenza! A spaccare pietre insieme ai nani e meditare su ciò che hanno fatto! Se fra le schiere ci fosse stato un elfo l’esito sarebbe stato diverso».
«Stai dicendo» replicò angelica «che se ci fosse stato un elfo con Alessia, quest’incresciosa situazione non si sarebbe mai creata?»
«Esatto»
«Un elfo con Alessia c’è. Hai dimenticato il Cavaliere Jacopo?» ribatté asciutta.
Gli occhi di Canyaner si ridussero a due fessure. Levò il mento e disse dispregiativo: «Quell’adanedhel? Non farmi ridere! Non è un elfo!»
«Lo è»
«Forse per te sarà un elfo ma per me, per la nostra razza non lo è. E solo un ibrido e non ha nulla a che vedere con la mia razza! Se ci fosse stato un elfo, un vero elfo, non saremmo qui a discuterne»
«Jacopo ha dimostrato il suo coraggio e le sue doti in tante occasioni e io gli affiderei la mia vita se fossi in pericolo»
«Mi dispiace dirtelo allora, ma avrai vita breve. Un adanedhel resta sempre un adanedhel qualsiasi cosa faccia»
«Non eri venuto qui per insultare il capitano della mia guardia vero? Sei venuto qui per ben altri motivi o sbaglio?»
«Il capitano della tua guardia?»
«Sì»
«E così l’hai elevato così in alto...»
«Come ho già detto merita quel ruolo. Si è distinto molto dagli altri dando prova del suo valore e del suo coraggio»
«È un rinnegato!» sbottò improvvisamente l’elfo furioso.
«È un ottimo condottiero!» replicò Angelica, inviperita quanto l’elfo, alzandosi di scatto e battendo le mani sulla scrivania.
«Principessa» l’elfo abbandonò l’espressione corrucciata per far posto ad un sorriso malizioso, «per caso vi siete infatuata di quel... ragazzo? Se così fosse allora la situazione si complicherebbe. Spero solo che la vostra scelta non si stata dettata dai sentimenti che provate verso di lui ma piuttosto da un’attenta analisi logica»
Angelica sollevò il mento con dare altezzoso. «Non hai nulla da temere Canyaner. La mia scelta è stata un’accurata selezione fra tanti candidati. Può capitare a tutti di sbagliare non credi?»
«Sì, ma io non sono affatto tranquillo a sapere Ainwen affidata a lui»
«Non è l’unico. Hai dimenticato della presenza di Miharu, Lothus e Raziel?»
«Oh fantastico. Ora sì che posso stare tranquillo» mormorò sarcastico. «Due mosche e uno spiritello. Avresti dovuto affidarla ad altri»
«E a chi? Elfi? Nani?»
«No. Ad un vampiro, un licantropo, creature davvero in condizioni di proteggerla!»
«Sai bene quanto me la pericolosità dei vampiri e dei licantropi. Non riescono a trattenersi, sono instabili. E non avrebbero mai potuto collaborare insieme perché sono nemici giurati»
«Era solo un esempio»
«Un esempio sbagliato» ribatté acida.
«Beh, io sono convinto di sostituirli tutti e metterle accanto almeno un elfo. Un vero elfo»
«E così tu sei convinto che un elfo sarebbe migliore del Capitano Jacopo?». Angelica sottolineò la parola capitano.
«Esatto»
«E quel qualcuno saresti per caso tu?»
Canyaner scoppiò a ridere. «No. Sono troppo impegnato per fare da baby-sitter ad un’umana sebbene si tratti di Ainwen. Io mi riferisco al miglior elfo in circolazione. Una vera macchina da guerra ma saggio quanto una quercia».
Angelica sembrò rifletterci su poi si risedette al suo posto, dietro la scrivania. «D’accordo, allora ti propongo una sfida. La prova di Jacopo consisterà in un duello contro questo tuo elfo dalle doti incredibili e il vincitore diventerà il mentore di Alessia».
Sul viso dell’elfo comparì un sorriso soddisfatto. «Come desideri mia principessa, sarà il destino a decretare il vincitore»
«No» lo corresse Angelica. «Non il destino, ma le abilità dei guerrieri»
«Oh sì certo, è proprio ciò che intendevo dire» ghignò l’elfo.
Le porse la mano e quando Angelica gliela strinse lui l’attirò a sé. I suoi occhi verdi erano freddi come il ghiaccio, un espressione blasfema sul volto. «Tua madre non avrebbe commesso un simile errore, non sarebbe mai stata così stupida».
Angelica sostenne lo sguardo di Canyaner in silenzio.
Quando quest’ultimo fu uscito, chiudendo la porta dietro di sé, Angelica affondò il viso nello schienale della sedia e scoppiò a piangere.

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Capitolo 7
*** Il fantasma della biblioteca ***


The Defender of Magic
Capitolo 7 - Il fantasma della biblioteca


«Nella lingua cinese l’articolo non esiste e quindi passiamo al sostantivo».
Alessia era in biblioteca immersa nella lettura di un tomo grande il doppio di lei. Studiava per l’esame di lingua cinese. I suoi fogli erano fissi sulle pagine ingiallite del manuale usato come approfondimento al suo libro di testo. Da più di un’ora cercava di memorizzare i sostantivi, allenandosi nella grafia e nella pronuncia. Le bastava dimenticare un trattino o pronunciare male una parola e l’intera frase avrebbe mutato di significato.
Col cinese non puoi permetterti di sbagliare.
La sua attenzione però divagava, spostandosi continuamente su i suoi amici. Da molto tempo non riusciva a mettersi in contatto con loro sembravano essersi volatilizzati e a nulla servirono i messaggi lasciati su facebook e su cellulare. La stavano evitando?
Senza le sue pazze amiche l’università le sembrava un posto vuoto e freddo. Le mancavano moltissimo le chiacchierate con Jaki... scosse la testa. Non poteva abbandonarsi a simili sentimentalismi, doveva chinare la testa sui libri e immergersi a capofitto in quel mare di caratteri cinesi.
«I sostantivi si dividono in: semplici; composti con l’aggiunta di un suffisso semplice; composti con un suffisso che determina la classe a cui appartiene; composti con un suffisso con significato di pluralità, gruppo, partito».
Provò a scrivere l’ideogramma di terra, sostantivo semplice, ma lo sbagliò così tante volte da dover strappare la pagina e concentrarsi su un ideogramma più facile sempre appartenente al primo gruppo dei sostantivi. Cielo. Se non riusciva a scriverli nel giusto ordine dei tratti e a renderli anche solo leggibili consultando il libro di testo, come avrebbe fatto all’esame?
Gettò la testa all’indietro e allungò le gambe, sciogliendo le ossa intorpidite dalla posizione scorretta. La sua attenzione fu attirata dal soffitto d’oro pieno di segni intricati; Alessia non s’intendeva di storia dell’arte ma rispolverando qualche vecchia lezione della professoressa Picariello, doveva trattarsi di arte rococò. Al centro, circondata da una cornice vi era un foro probabilmente un tempo un grosso lucernario illuminava ciò che ora era la sala lettura n°4 della biblioteca. Si chiese a quale secolo risalisse quell’antico palazzo, quali stanze segrete vi celava e quale fantasma infestava quella sala.
Fantasma. Spettro. Spirito.
Fra gli studenti correva voce di un fantasma che infestava la sala 4. Chi l’aveva percepito racconta di un bambino vivace che si diverte con innocenti scherzetti quali sedersi sulle gambe degli studenti o tirarli verso il basso come se volesse sussurrargli qualcosa all’orecchio o essere preso in braccio. Secondo le fonti il bambino diventava irrequieto verso le diciotto, terrorizzando gli studenti. Gli scettici invece avevano un’altra teoria. La stanchezza gioca brutti scherzi al corpo ma soprattutto alla mente, suggestionati poi dai racconti dell’orrore, immaginavano tutto mentre altri si divertivano a tener vivo il mito del fantasma della sala 4.
Alessia provò a scrivere di nuovo il carattere di terra per l’ultima volta e lo sbagliò ancora. La sua mente si rifiutava di memorizzare i tratti nel giusto ordine e iniziò ad odiarlo. Lo riconosceva, sapeva pronunciarlo correttamente ma non sapeva scriverlo.
Chiuse il libro e trasse un respiro profondo.
Ancora una volta non aveva concluso nulla. Si era concentrata su un unico argomento, un misero ideogramma, e aveva perso la cognizione del tempo.
La campana della chiesa lì vicina scoccò l’ora. Le diciotto. Il fantasma sarebbe arrivato a breve. Cosa c’era di meglio di una caccia ai fantasmi per scacciare la noia? Nulla.
Aprì il libro e finse di studiare sorvegliando di sottecchi la porta della biblioteca aspettandosi, probabilmente, di veder entrare il bambino, magari saltellando, oppure con una scia argentata come i fantasmi nei film di Harry Potter. Il tempo scorreva lento come sabbia in una clessidra e nel frattempo si chiedeva cosa avrebbe fatto se Casper si sarebbe manifestato. Doveva aiutarlo a trovare la pace eterna? E se avrebbe cercato di farle del male? Non si era mai parlato di uno spettro cattivo ma poteva succedere. La sua mente allora ritornò a ritroso nel tempo, esaminando gli episodi di Supernatural. Secondo il telefilm americano e il folklore, il sale e il ferro erano ottimi alleati contro gli spiriti... sarebbero bastati davvero? E dove trovava un sacco di sale un ferro da usare come arma in un’università?
Il tempo continuava a scorrere lento e di Casper nessuna traccia. Forse il fantasma non voleva darle questa soddisfazione, forse al momento aveva cose più importanti da fare che manifestarsi a lei, forse semplicemente non esisteva. Il cuore le palpitava forte nel petto all’unisono con la lancetta dei secondi. Iniziava ad agitarsi. Del fantasma nessuna traccia. Lo aspettò per un’ora sino alla chiusura della biblioteca, quando il custode la invitò ad uscire.
Depressa, stanca e sconsolata a malincuore andò via, chiedendosi in dove aveva sbagliato e respingendo l’idea che il fantasma fosse solo il frutto dell’immaginazione studentesca.
 

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Capitolo 8
*** La prova del Giudizio in battaglia ***


The Defender Of Magic
Capitolo 8 – La prova del giudizio in battaglia

 
«Tutti i partecipanti alla prova sono pregati di venire al padiglione rosso».
Sotto una tenda scarlatta montata per l’occasione vi erano delle persone le quali pazientemente aspettavano l’inizio della gara. L’abito rosso di Angelica spiccava fra le tuniche bianche da cui era circondata: il Consiglio degli Anziani al completo. Le tre ragazze avrebbero dovuto affrontare una prova per scoprire se erano adatte a ricoprire il ruolo di tutori, titolo messo in dubbio dal loro errore che aveva quasi causato la fine del Difensore della Magia. Jaki invece, avrebbe sostenuto una prova diversa su richiesta di Angelica, la quale aveva finto di cadere nella trappola tesa da Canyaner. Shinar era l’insieme di diversi regni e culture, e sebbene governasse su questi gruppi non poteva permettersi di inimicarsi anche solo una fazione: avrebbe dato il via ad una sanguinosa e violenta faida.
«Quando arriva quell’insetto?» grugnì Gaher il nano, lisciandosi irrequieto la lingua barba a punta.
«Fra poco» rispose calma la principessa. «Fra poco. Pazientate ancora un po’»
«Pazientare? Io la solleverei dall’incarico anche per il suo ritardo! Siamo qui da mezz’ora! Non possiamo aspettare i suoi comodi, fra poco sarà il crepuscolo!»
«Vi chiedo di aspettare ancora!»
«Come possiamo affidargli Ainwen se non è in orario? I suoi ritardi possono essere causa di rovina!» si aggiunse l’elfo.
«Arriverà, ha solo problemi a raggiungerci»
«Problemi? Stai scherzando? È una ninfa, maledizione! Che usi i suoi poteri oppure non li ha?»
«Vive in una città umana» spiegò Angelica «E come tu stesso dovresti ricordare gli umani non devono essere a conoscenza della nostra esistenza. Non può usare i suoi poteri magici»
«E come diavolo arriverà qui?»
Angelica si concesse un sorriso divertito. «Con i mezzi pubblici».
«Siamo rovinati» si lasciò sfuggire dalle labbra l’elfo, deprimendosi e imprecando nella sua lingua. Poi tirò un pugno contro il tronco di un albero lì vicino. Angelica si concesse un sorriso divertito. «Segreto».
«Fantastico! Davvero, davvero fantastico! Ascoltami bene principessa dei pesci, tu sei...»
«Arrivata!».
Lothus correva verso di loro, agitando le braccia per farsi vedere. «Eccomi! Eccomi!», la morbida chioma castana raccolta in una coda di cavallo alta si muoveva ritmata ad ogni passo della fata. Era vestita con una maglietta arancione al centro la stampa di un angioletto dagli occhi blu con indosso un trench al posto della solita tunica. Un jeans largo e sbiadito dal tempo.
Canyaner la guardò ostile. «Vatti a cambiare subito! Abbiamo perso sin troppo tempo!».
Lothus annuì e seguì Angelica in un’altra tenda poco distante, di colore arancione come la sua maglietta.
Si trovavano in una fitta foresta, nel cuore della città degli elfi, Florestia. Alti e antichi rami si ergevano maestosi raggiungendo altezze incredibili, ricoprendo tutto con i loro rami spessi e millenari. Trasudavano saggezza ovunque.
«Ehi, alla fine ce l’hai fatta!» disse Raziel smettendo di armeggiare con i suoi capelli argentati quando vide entrare Lothus seguita da Angelica, lasciando cadere la chioma morbidamente sulle spalle.
«Pensavo non venissi più!» gridò Miharu entusiasta, il vestito blu marino corto svolazzante, correndo ad abbracciare l’amica.
«Non c’è tempo per i convenevoli!» s’intromise Angelica. «Come avrete notato, il consigliere Canyaner non vede l’ora di sostituirvi con gli elfi perciò concentratevi!»
«Perché Jaki non è qui?» chiese Miharu.
«Perché affronterà un altro tipo di prova dopo di voi»
«Fammi indovinare, è stato “Canaglia” a proporlo?» sghignazzò Raziel.
«No, io».
Nessuna delle tre si aspettava una simile risposta dalla principessa, sicure che fosse stato Canyaner a chiedere una prova diversa per Jaki e invece... Angelica notò subito la confusione e lo stupore sul loro volto perché prima che quest’ultime potessero aprir bocca e chiedere spiegazioni, la principessa si affrettò a dire: «Non c’è più tempo per le chiacchiere! Sbrigatevi e fatevi onore».
Liberandosi degli indumenti umani, Lothus indossò il suo abito corto di foglie e fiori, e corse al padiglione rosso, la partenza.
Furono sorprese di scoprire di non essere le sole a dover affrontare la prova. Dinnanzi a loro vi erano forse un migliaio di creature di tutte le razze, impazienti di iniziare.
«Cosa significa?» sbottò Raziel «Cosa ci fanno qui?»
«Mi sembra ovvio, sono qui per sostenere la prova» rispose Canyaner con un enigmatico sorriso.
«Avete trasformato la prova in una selezione?»
«Sì com’è giusto che sia. Angelica avrebbe dovuto usare questo criterio per scegliere il mentore di Ainwen fin dall’inizio».
«Nell’udienza non si è mai parlato di una selezione ma di una prova!»
«Vero» s’intromise il nano «non si è mai detto però che voi sareste state le sole a sostenerla. Quando ci siamo riuniti in consiglio...»
«Vi siete riuniti in consiglio senza di me?!» Raziel era infuriata e faticava a restare calma. «Perché non mi avete convocato?»
«Perché avremmo dovuto?» replicò l’elfo «Tu non fai parte del Consiglio»
«Ad ogni modo» riprese il nano «abbiamo deciso di aprire la competizione a tutte le creature senza distinzione di razza. Cosa c’è? Avete paura di una sana competizione?»
Raziel guardò Angelica in cerca d’aiuto, lei non fiatò, probabilmente aveva accolto subito l’idea per non creare casini. Si morse l’interno della guancia. «No».
«Bene»
La voce nell’altoparlante annunciò l’inizio della gara, chiedendo ai partecipanti di sistemarsi in modo ordinato, poi spiegò in cosa consisteva. Una corsa attraverso un territorio stregato dove i partecipanti dovevano riuscire a superare gli ostacoli e i pericoli che avrebbero incontrato sul loro cammino.
«Nulla di più semplice!» pensò sarcastica Raziel. Fra le tre lei era di sicuro la più svantaggiata.
Un nano grassottello fischiò brevemente. La gara era ufficialmente iniziata. Raziel, Miharu e Lothus scattarono in avanti spintonandosi con gli altri partecipanti per restare fra le prime righe.
 
 
Il cielo era di un intenso limpido azzurro e cominciavano a spuntare le prime stelle.
Correvano lungo un sentiero battuto coperto di foglie secche,  gli alberi schizzavano ai loro lati come macchie d’inchiostro. Furono sorpresi di scoprire ciò che li aspettava. Il nulla. Si ritrovarono davanti uno spazio completamente bianco dove le leggi della fisica e del tempo non esistevano. Una distesa infinita, e il pensiero di addentrarsi al suo interno scatenava il panico fra i concorrenti. Non c’era nulla a delineare il percorso da seguire, nulla da poter usare come punto di riferimento per orientarsi, solo il bianco.
«Fa paura» mormorò Raziel.
Lothus cercò di sollevare il morale alle amiche. «Beh, è come il sentiero delle fate. Miharu vaga nell’oscurità qui invece nella luce. Cambia solo il colore»
«Non ne sono così sicura» mormorò Miharu mordicchiandosi l’unghia del pollice.
«Non lasciarti spaventare, dopotutto è solo un’illusione. Se lo fai, sei fottuta».
Miharu respirò profondamente e si guardò intorno. Molti partecipanti come lei, avevano paura di muovere un passo, di sprofondare nel vuoto.
Le amiche si divisero: Raziel andò a sinistra, Lothus a destra ed entrambe sparirono dalla vista di Miharu.
Chiuse gli occhi e si mosse appena. La sua mente fu subito invasa da immagini di cadute e ritrasse velocemente il piede. Sapeva di trovarsi su una superficie solida, Raziel e Lothus non erano sprofondate e nel caso fosse successo, sulla sua schiena aveva u bel paio di ali azzurre.
“Maledizione! Sono una fata!” pensò, avanzando di nuovo, ignorando le immagini. Il terreno era molto più solido di quanto sembrava. Si sentì sollevata nonostante il forte e improvviso mal di testa, affidandosi al suo orientamento senza avere il coraggio di svoltare a destra oppure a sinistra. Si chiedeva da quanto tempo stava camminando in quella distesa bianca, rabbrividendo di orrore e di paura ogni qualvolta assisteva ad una scena di follia collettiva: i partecipanti avevano perso il lume della ragione, piangevano, si auto-lesionavano o si scontravano fra di loro ingaggiando piccole battaglie.
“Se non mi sbrigo subirò lo stesso destino” e nel frattempo in cuor suo sperava che nessuno l’avrebbe attaccata. Non poteva perdere il suo tempo in quel modo!
Dopo una cinquantina di metri i suoi occhi parvero vedere in lontananza, qualcosa di colorato, molto lontano dalla monotonia del bianco dominante. Si strofinò gli occhi credendo di trovarsi nel bel mezzo di un’allucinazione, di impazzire come gli altri ma quel punto colorato era ancora lì sempre più vivido. Man mano che gli si avvicinava correndo, riusciva a scorgere sempre più dettagli, la figura iniziava a delineare le forme sebbene restasse ancora indefinita. Uno spiraglio di speranza si fece breccia nel suo cuore e corse a perdifiato, e ciò che la sua acuta vista da fata aveva scorto adesso s’ingrandiva e si estendeva per diverse leghe. Lo spazio bianco venne sostituito da una radura fiorita e un lago a separare le due estremità. Alti muri di pietra circondavano il perimetro.
Miharu ebbe l’impressione che quei muri potessero muoversi e schiacciarla come in uno schifo di film avventuroso. Avanzò rapida cercando di vedere il più avanti possibile. Solo una distesa d’acqua.
“Alessia, tutto questo lo faccio per te!” pensò.
In un altro frangente non avrebbe esitato a gettarsi in acqua, ora invece sapeva bene che quel lago rappresentava una nuova sfida. Si vibrò in volo ma solo dopo pochi centimetri, la forza di gravità la schiacciò al terreno.
«Ma cosa...» mormorò, e anche il secondo tentativo andò a vuoto così come tutti gli altri che seguirono.
Non poteva volare. Qualcosa le impediva di sollevarsi dal terreno obbligandola a proseguire a nuoto.
Trasse un respiro profondo e si tuffò nel lago scintillante.
L’acqua era ghiacciata, più fredda di quanto temesse. Le onde sembravano azzuffarsi come per prendere Miharu, sbattendola in tutte le direzioni come se ognuna desiderasse un pezzo di lei. L’acqua furiosa era una massa nera; la gravità era invincibile quando si opponeva all’aria, ma di fronte alle onde non poteva niente e Miharu si sentiva spingere verso il basso sempre di più. Terrorizzata cercava di nuotare verso la riva, cercare un appiglio cui aggrapparsi ma non c’era nulla.
Si sforzò di trattenere il respiro, di sigillare le labbra per non sprecare l’ultima scorta di ossigeno.
Il freddo le intorpidiva braccia e gambe. Miharu non sentiva più nemmeno il tremore. Era diventato uno spasmo, fatto di inutili contorsioni subacquee.
“Com’è possibile?!” pensò agitata, “io sono una fata delle acque! Io so nuotare e respirare sott’acqua perché qui non ci riesco?”.
Il silenzio premeva contro le orecchie mentre sprofondava in uno strano, tetro paesaggio. Non riusciva a vedere nulla, solo il buio. Aveva le orecchie tappate dall’acqua ghiacciata, in quel momento la corrente ebbe la meglio e la spedì nelle profondità del lago.
Era così freddo che sentiva la pelle delle gambe bruciare come se fosse fuoco e non acqua ghiacciata. La veste inzuppata, di solito fluida e leggera, ora l’appesantiva mentre avanzava sprofondando negli abissi del lago. Poi, all’improvviso, Miharu si sentì come se qualcuno gli stesse premendo un cuscino invisibile sul naso e sulla bocca. Cercò di inspirare, ma gli girava la testa: aveva i polmoni vuoti.
Chiuse gli occhi e si abbandonò al flusso. L’ultima cosa che vide fu qualcosa muoversi verso di lei.
Era nata dall’acqua e sarebbe morta nell’acqua. Un buon modo per morire.
 
 
 
In quel momento, la coscienza di Miharu riaffiorò.
Eppure, era certa di essere annegata.
Sentiva qualcosa colpirla ripetutamente e sputava acqua dai polmoni. Ne aveva ingurgitata tantissima, era un vero fiume che sgorgava dalla bocca e dal naso.
«Respira!», ordinò una voce preoccupatissima.
L’acqua nera e ghiacciata le riempiva il petto e bruciava.
Un altro colpo, proprio tra le scapole, e tossì l’ennesima sorsata d’acqua dai polmoni.
«Respira, Miharu! Avanti!», implorò la voce.
Si rese conto che era la mano di Lothus, che cercava di liberarle i polmoni. Quella cosa che si era avvicinata era un ramo di un albero, usato da Lothus per ripescarla dal lago.
«Miharu?», chiese Lothus, ancora nervosa ma più tranquilla di prima. «Miharu, mi senti?».
Si rese conto di essere ferma. Non era più in balia della corrente. La superficie su cui stava era piatta e solida. La sentiva ruvida e fangosa sotto le braccia nude.
Miharu cercò di aprire gli occhi. Le ci volle un bel po’, ma alla fine riuscì a vedere il manto nero ricoperto di luminose stelle. «Lothus?» gracchiò.
«Oh, Miharu, tutto bene? Mi senti? Ti fa male qualcosa?».
«S-sto bene» balbettò con le labbra tremanti dal freddo.
Quando smise di tremare per il freddo e la sua mente ritornò lucida, non più vittima della paura di annegare, si accorse delle condizioni di Lothus. L’abito era tutto bruciacchiato ancora fumante, il viso sporco di fuliggine. «Cosa ti è successo?».
«Se ti dico che mi sono ritrovata nella bocca di un vulcano attivo, ci credi?».
Miharu sgranò gli occhi. «Come hai fatto a ritrovarti nella bocca di un vulcano attivo?»
«Come hai fatto a ritrovarti qui?»
«Non lo so».
Lothus sorrise. «Ti sei risposta da sola».
«Ah. Beh, hai notizie di Raziel?»
«No, purtroppo no. È stata una faticaccia uscire dalla montagna sputa fuoco e mi sono ritrovata qui. Ho visto che stavi annegando e sono corsa a salvarti. Strano però. Una fata delle acque che non sa nuotare»
«Io so nuotare» ribatté acida Miharu «è quell’acqua! Ha qualcosa di strano e oscuro! Volevo evitare di tuffarmi ma qualcosa mi impediva di volare»
Lothus si rabbuiò in volto. «Beh, basta perdere tempo in chiacchiere!».
Miharu annuì. «Secondo te perché non riesco a volare?».
Lothus ci pensò su prima di rispondere. «Magia».
Camminarono in silenzio senza dirsi altro, ognuna immersa nei propri pensieri e combattendo l’una al fianco dell’altra ogni qualvolta si ritrovavano a dover affrontare un nuovo insidioso ostacolo. Bruciacchiate e ferite.
«Odio questo schifo di prova» si lagnò Miharu, «non bastava il lago inghiotte tutto, no! Dovevamo affrontare anche i draghi!».
«Io mi sono ritrovata a un tanto così da un bagno di lava» replicò Lothus.
«Queste prove sono crudeli, ideate da menti contorte e malate per giudicarci nel peggiore dei modi. Non... non sono umane»
«Neanche noi siamo umane, l’hai dimenticato?»
«No, non l’ho dimenticato. Sono comunque crudeli»
«Lo so»
«Riesci a capire quanto siamo distanti dal traguardo?».
Lothus scosse il capo. «Hanno confuso le piante, non posso chiedere qual è la direzione giusta da seguire. Ho tentato subito dopo essere uscita dal vulcano, è tutto inutile. Dovremmo affidarci alle nostre conoscenze e ai nostri sensi. Per nostra fortuna ci sono le stelle a guidarci». Lothus sollevò gli occhi al cielo, «se troviamo la stella polare, troveremo il nord. Beh, io opterei per il nord è più semplice. Scorgiamo il cielo alla ricerca delle costellazioni su».
«Hanno messo tutti sullo stesso livello» mormorò Miharu pensando alle creature come i lupi mannari e i vampiri. Rispetto ai poteri delle fate e degli elfi erano in svantaggio.
«Già»
«Così però non troveremo mai il traguardo!»
«Consideralo un allenamento»
«Eh?»
«Immagina di dover salvare Alessia e non puoi usare i tuoi poteri. Puoi solo affidarti ai tuoi sensi sviluppati di fata, alle tue conoscenze».
Miharu non rispose. Mugugnò sul suggerimento di Lothus cercando di sfruttare la situazione a suo vantaggio e vedere i lati positivi della faccenda. Peccato che non vedeva alcun lato positivo!
«Avanti muoviamoci, o perderemo la sfida».
Così proseguirono puntando al nord e affidandosi alle stelle.
 
 
 
Una siepe alta otto metri correva per tutto il suo perimetro. C’era un’apertura davanti a loro: l’ingresso di un enorme labirinto. Le siepi torreggianti proiettavano ombre nere sul sentiero, e, forse perché erano così alte e fitte o perché erano state stregate.
«No, non ci credo!»
«Su manca poco ormai, ne sono sicura!» provò a consolarla Lothus sollevando Miharu per la spalla e costringendola a rimettersi in piedi.
«Chissenefrega! Voglio restare qui! Lasciami qui!» si lagnò stanca e isterica la fata delle acque.
«Scordatelo»
«Sono stufa di affrontare questa misera prova! Non sono uno spettacolo da baraccone!»
«Una volta uscite di qui…»
Miharu la interruppe. «Uscire? Chi ci assicura che usciremo da questo labirinto? Stiamo vagando chissà da quante ore e non abbiamo fatto altro che incontrare creature di ogni tipo e magie complesse! E ora vogliono che entriamo in quel labirinto?! Pazzi! Sono pazzi, ecco cosa sono! Mi avete sentito?» gridò guardandosi intorno certa che qualcuno la stesse spiando «Siete dei pazzi ecco cosa siete! Ma io non farò il vostro gioco! Non sarò la pedina sacrificabile dei vostri scacchi e sapete perché? Perché io non salirò su quella scacchiera!»
«Stai esagerando»
«Esagerando? Esagerando?! Io non sto affatto esagerando! Loro hanno esagerato, non io!»
«Stiamo perdendo tempo»
«Stiamo perdendo tempo? Forse volevi dire “tu” stai perdendo tempo! Perché io non verrò con te! La mia corsa finisce qui!».
Lothus si avvicinò a Miharu e le tirò uno schiaffo. «Riprenditi! Non vedi cosa ti sta facendo questo luogo maledetto? Siamo qui per Alessia ricordi? La nostra amica...».
Miharu lentamente stava ritornando in sé. «Alessia...»
«Sì, Alessia»
«Dobbiamo proteggerla...»
«Esatto».
Miharu si passò una mano sul volto respirando profondamente. «Scusami, non so cosa mi è successo io...»
«Va tutto bene» la tranquillizzò, «Scuse accettate».
«Quando questa storia sarà finita, Alessia dovrà costruirmi una statua d’oro» bofonchiò Miharu.
Lothus ridacchiò. «Chissà cosa starà affrontando Raziel»
«Qualsiasi cosa sia sarà sicuramente meglio di tutto questo!»
«Dico sul serio Miharu»
«Anch’io. In ogni caso io non mi preoccuperei, dopotutto Raziel ha dalla sua parte Assassin’s Creed».
Scoppiarono a ridere ritrovando il buon umore.
«Allora te la senti di continuare?».
Miharu sorrise. «Per Alessia e per la mia statua d’oro? Certo!»
«Bene, era proprio ciò che volevo sentirti dire! Su entriamo in questo labirinto e facciamola finita una volta per tutte».
Il labirinto era sempre più immerso nell’oscurità, man mano che avanzavano.
La strada era deserta. Non sapeva perché ma l’assenza di ostacoli rendeva Miharu nervosa.
Destra... sinistra... ancora destra. Tante volte si ritrovarono in un vicolo cieco.
Imboccarono un sentiero a destra e videro una luce davanti a loro. L’uscita scintillava di morbida luce dorata avvolgendole nel suo caldo abbraccio invitandole a entrarvi ed emanando un’aura benefica che rilassò all’istante le stanche e stressate fate.
Titubanti si guardarono e annuirono.
Si gettarono nella luce accecante, prendendosi per mano così da non rischiare di dividersi di nuovo e avanzare a tentoni, le braccia distese in avanti per evitare di scontrarsi contro muri o roba del genere.
 
 
 
Miharu aprì gli occhi e fu accecata da una luce verde e oro; non sapeva cosa fosse successo, sapeva solo di essere distesa fra foglie e rametti. Si sforzò di inspirare aria nei polmoni che sentiva compressi, batté le palpebre e scoprì che quel bagliore sgargiante era la luce del sole che pioveva attraverso un tetto di foglie. Poi qualcosa si mosse vicino al suo viso. Si mise carponi, pronta ad affrontare una piccola creatura feroce, ma si accorse che era la mano di Lothus. Si guardò intorno e vide che loro due erano distese nella foresta, sole.
Miharu scattò in piedi come una molla e si massaggiò la testa dolorante. «Dove siamo? Cos’è successo?»
«Non lo so» rispose Lothus guardandosi intorno incuriosita. «Io... io era certa di... noi siamo entrate in quella luce calda...»
«...e ci siamo ritrovate qui» completò la fata delle acque. «Io non ricordo di aver battuto la testa, ricordo solo che... che camminavano lentamente»
«Quella luce... non era benefica come abbiamo creduto» rifletté Lothus.
«Tu hai capito cos’è successo?»
«Forse» mormorò Lothus fissando il paesaggio circostante. «Forse. Quella luce non so come ma... ha manipolato gli elementi naturali circostanti, ci ha indotto in uno stato di gioia e benessere, ci ha reso totalmente inermi, ha tolto ogni percezione... se fossimo state colpite, semmai avremmo incontrato qualcuno o ci fossimo scontrate contro qualcosa noi... noi non ce ne saremmo rese conto...»
«Ecco perché mi scoppia la testa» bofonchiò Miharu stringendosi la testa fra le mani.
«Tu hai sempre mal di testa»
«Sì è vero, questo è diverso però. Ho l’impressione di aver sbattuto contro qualcosa... ho un tamburo che mi martella il cervello»
«Il traguardo! Vedo il traguardo!» gridò Lothus tutto ad un tratto, balzando in piedi e correndo verso la fine di quel percorso angusto.
Un raggio di sole, accecante, limpido illuminava in modo innaturale il traguardo, a diversi metri di distanza dalle fate.
«No, fermati! Potrebbero esserci altre trappole!» l’avvertì, ma Lothus non sembrava dar retta all’amica.
La fine di quel viaggio insidioso ormai stava per giungere al termine e nessuno sarebbe riuscito a fermarla, a strapparle via la vittoria dalle mani.
«Lothus sta attenta!», Miharu scattò in avanti con un balzo e si vibrò in volo afferrando l’amica per le ascelle prima che quest’ultima sprofondasse nella crepa del terreno.
«Come facevi a...»
«Te l’ho detto. Stiamo ancora giocando. Non devi muoverti così bruscamente. Credo proprio che hai attivato delle trappole...»
«Come mai puoi volare adesso?»
«Non lo so. Forse qui ci è concesso usare i nostri poteri... forse è l’unico modo per proseguire»
«Hai ragione», Lothus sospirò, «dunque siamo pari»
«Sì»
«Beh, dato che puoi volare conviene arrivare la traguardo».
Il volo stranamente fu tranquillo. Nessun ostacolo si parò dinnanzi a loro e quando arrivarono alla fine del percorso ad attenderle c’era Raziel. Sbracciava felice.
Tutte e tre erano riuscite ad aggiudicarsi i primi tre posti. 

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Capitolo 9
*** Per Lei mi batterò ***


The Defender Of Magic
Capitolo 9 - Per Lei mi batterò

 

Canyaner si mangiò le unghie, nervoso, adirato e deluso. Le tre ragazze sostenendosi a vicenda avevano vinto la prova aggiudicandosi i primi tre posti mentre gli elfi si erano lasciati soggiogare dalle magie del percorso stregato. Nel loro stesso territorio. Inammissibile!
Canyaner si stropicciò gli occhi con il pollice e l’indice riacquistando il controllo delle sue emozioni, non tutto era perduto. Aveva ancora un’ultima carta da giocare, il suo asso nella manica.
«Sai già chi sarà l’avversario di Jacopo?» chiese Raziel preoccupata e curiosa.
«No. Canyaner ha deliberatamente tenuto nascosto il nome del suo condottiero» rispose Angelica tesa come la corda di un violino.
«“Canaglia” ci ha tenuto nascosto molte cose» replicò aspra Miharu, «non può farlo!»
«Non ha importanza» s’intromise Jacopo stringendo la spada nella mano destra e lo scudo nella sinistra, «chiunque sia il mio avversario lo sconfiggerò! Io sono imbattibile, io sono l’eccelso maestro nell’arte della scherma, io sono...»
«...vanitoso sino ai capelli» completò Miharu ridacchiando.
«Stavo per dire sicuro di sé, ma va beh»
«L’incontro sta per avere inizio. I Cavalieri sono pregati di venire nell’arena» annunciò il nano paffuto, lo stesso che aveva dato il via alla prova del percorso ad ostacoli.
«Buona fortuna» mormorò Lothus.
Jaki ghignò. «Fortuna? Servirà al mio avversario».
 
 
«Dov’è il tuo elfo?» chiese Angelica spazientita.
«Sta indossando l’armatura» spiegò Canyaner «non dirmelo. Il ritardo del mio ti sta innervosendo? Se paragonato al ritardo di quella creatura cosa vuoi che siano cinque minuti?».
Angelica però non era intenzionata a dargli alcuna soddisfazione. Sorrise. «Non volevo dire questo»
«E cosa?».
La conversazione fu interrotta dall’entrata in arena dell’elfo. I capelli lunghi erano stati legati in uno chignon sulla testa per impedire a questi di coprirgli la visuale o venire tagliati; indossava una cotta di maglia come Jaki e alla mano sinistra brandiva una spada dall’elsa particolare, una mezzaluna sul dorso della mano proteggeva in parte il polso del Cavaliere da tagli e ferite di lieve entità. La lama era incredibilmente lunga e sottile, dall’apparenza facile da spezzare. Nella mano destra invece, stringeva uno scudo rotondo decorato con oro e argento, e il simbolo del suo nobile casato: una peonia.
Raziel sgranò gli occhi e impallidì quando l’elfo entrò nell’arena, poi il suo viso si contrasse in una smorfia di orrore e rabbrividì nelle spalle.
Austin.
«Lo conosci?» chiese Lothus notando subito la reazione dell’amica. Angelica e Miharu si voltarono subito a squadrarla con attenzione, gli occhi puntati su di lei.
«Sì»
«Cosa puoi dirci di lui?». Angelica cercava di raccogliere più informazioni possibili sull’avversario del suo capitano.
Raziel sorrise amaramente, i suoi occhi dorati si offuscarono mentre la sua mente vagava indietro nei ricordi. «È un gran bastardo»
«Cavalieri tenetevi pronti. Ai vostri posti». Gridò il nano paffuto.
Una cupola trasparente calò su i due Cavalieri separandoli dal resto della folla, scintillando per alcuni istanti e poi scomparire. Un incantesimo. Impediva ai due guerrieri di far uso della magia, nessuno poteva entrare o uscire dall’arena finché lo scontro non fosse ufficialmente finito; in questo modo se le armi volavano via dalle mani non feriva gli spettatori, né gli spettatori potevano accorrere in aiuto del proprio favorito.
«Ready. Fight!» gridò ancora il nano.
Senza allontanare gli sguardi l’uno dall’altro, Jaki e Austin si aggirarono, studiandosi per anticipare le mosse dell’avversario.
«Ainwen è una ragazza molto carina. Almeno così ho sentito dire in giro» lo provocò Austin.
«Sì, se ti piace quel genere di ragazza» replicò Jaki senza distogliere lo sguardo dal suo avversario. I suoi occhi non tradivano alcuna emozione.
«Sai» mormorò l’elfo mentre mulinava la spada sulla testa «mi dispiace dirtelo ma... Ainwen sarà mia. In tutti i sensi». Un’altra chiara provocazione.
Austin si lanciò in avanti varando un fendente diritto al ventre di Jaki, lui balzò all’indietro riuscendo a stento a bloccare la spada. Jaki rispose con un colpo alto e Austin scartò di lato.
Si fermarono tutti e due guardandosi di sottecchi. Quando nessuno attaccò ripresero a muoversi in circolo.
«Non te la cavi male per essere un adanedhel»
«Neanche tu»
«Mi dispiace doverti affrontare in un frangente come questo, sei molto abile nell’uso della spada e mi sarebbe piaciuto duellare con te in modo meno... bellicoso».
Jaki sorrise. «Beh, dopo che avrò vinto e avrò portato a termine il mio incarico potremo allenarci insieme».
Austin scoppiò a ridere. «Non sperarci troppo, adanedhel», provò una finta a sinistra e Jaki si riparò dietro lo scudo. Austin nel frattempo si stava spostando velocemente a destra per tentare di superare la sua guardia. Jaki si voltò appena in tempo per vedere la lama tracciare un arco verso il suo collo; il filo della lama scintillò. La respinse solamente con la guardia crociata e balzò all’indietro. Jaki tentò un colpo di punta, ma Austin usò lo scudo per deviare la lama. Riprovò quella mossa più volte ma fu tutto inutile. Austin conosceva quella danza e la ballava in perfetta sintonia con Jaki quasi se fossero da sempre compagni.
A lungo si scambiarono una serie di attacchi via via sempre più complessi, per tentare di spezzare le difese dell’avversario ma senza esito.
«Non capisci quando è il momento di arrendersi, eh? Puoi provarci quanto vuoi, ma tanto perderai!» gridò Austin incrociando la sua lama contro quella di Jaki.
«Questo è ancora tutto da vedere!» replicò il Cavaliere.
Duellarono al massimo delle loro capacità, nessuno sembrava intenzionato a cedere, la posta in gioco era troppo alta per arrendersi.
Andarono avanti interrottamente per ore.
Si scambiarono colpi mortali e quando le loro spade si toccavano, nascevano una pioggia di scintille rosse e dorate. La folla esultava entusiasta gridando il proprio favorito, sorpresa dall’abilità di Jaki e schierarsi in due fazioni incoraggiando i guerrieri a vincere. Austin si avventò con una rapida scoccata e Jaki contraccambiò ferendolo alla gamba. Entrambi si ferirono a vicenda incassando colpi su colpi, le ferite grondanti, e il dolore offuscava sempre più la vista di Jaki rendendolo molto spesso vulnerabile agli attacchi, mentre Austin nascondeva bene la sua sofferenza rifugiandosi dietro una maschera imperscrutabile sebbene i suoi movimenti lo tradivano, scendendo di forza, intensità e velocità ad ogni colpo.
Se sarebbero andati ancora avanti si sarebbero uccisi a vicenda.
Doveva porvi fine prima possibile, o  avrebbe perso.
Austin si lanciò contro di lui, mirando al ventre, Jaki provò a schivare il colpo ma la lama lo colpì al fianco destro, appena sotto la gabbia toracica: la spada gli trapassò la carne e Jaki impallidì. Aprì la bocca come se volesse parlare e un rivolo di sangue fuoriuscì insieme a un colpo di tosse strozzato, e scorrergli all’angolo sinistro poi cadde in ginocchio, continuando a stringere la spada fra le mani.
«Jaki!!!» gridò terrorizzata Miharu. «Rimettiti in piedi!!»
«E il vincitore è...»
«Non... non ancora» tossicchiò Jaki, impiantando la spada nel terreno e usarla come leva per sollevarsi da terra. «Io sono ancora in piedi e... e la mia spada è ancora qui»
«Guardati! Non ti reggi in piedi!», lo schernì Canyaner.
Le gambe di Jaki tremavano come la sua vista e faticava non poco per mantenerla vivida.
Un coro si sollevò dalla folla, incoraggiando Jaki ad alzarsi e continuare a combattere.
«Forza Jacopo!! Alzati e combatti!» gridò un vampiro.
«Fa vedere chi sei a quella creatura dalle orecchie a punta!» gridò una nana.
Jaki sorrise. Era la prima volta che qualcuno tifava per lui, qualcuno che non fosse Alessia. Quelle persone credevano in lui. Ignorò i fan di Austin e si rimise in piedi, la schiena dritta, gli occhi puntati contro il suo avversario. «Io posso combattere ancora o forse hai paura?»
«Paura?» replicò Austin «Io paura di te? Non farmi ridere!»
«E allora continuiamo lo scontro»
«D’accordo. Se è la morte a volere, te la darò. Sciocco adanedhel».
Jaki sorrise soddisfatto.
Il nano indeciso scoccò un’occhiata ad Angelica la quale annuì e il nano gridò: «Continuate!».
Jaki strinse con gli ultimi frammenti di forza l’elsa della sua spada come se la sua vita dipendesse dall’esito dello scontro. Il suo corpo aveva subito molti danni e si rifiutava di obbedire; non poteva più fare affidamento ai suoi riflessi ma alla sua mente, doveva escogitare un piano per ottenere la vittoria in semplici e poche mosse prima di crollare sotto la rapidità e la furia dei colpi di Austin.
Se il combattimento sarebbe proseguito ancora a lungo probabilmente sarebbe morto. Jaki lo sapeva bene. Le ossa indolenzite, i muscoli feriti e sanguinanti gli bruciavano, la vista non smetteva di tremolare.
Ancora una volta fu Austin a scagliarsi contro il suo avversario brandendo la spada e mirando nuovamente al fianco trapassato deciso a infilargli la spada in corpo sino all’elsa.
All’ultimo minuto Jaki si abbassò schivando il colpo, la lama gli sfiorò la testa e tutto intorno a lui si mosse al rallentatore. Con un abile movimento del polso usò una seconda scoccata mirando al polso di Austin e nonostante il tentativo di proteggersi con lo scudo, l’attacco andò a buon fine. Per il dolore Austin non riuscì a mantenere la presa sulla spada e volò a diversi metri di distanza, infilzandosi nel terreno.
Austin lo guardò sorpreso massaggiandosi il polso dolorante. «Tu...»
«Io ho vinto» completò la frase jaki. «Non male per un adanedhel, vero?» sogghignò in direzione di Canyaner.
La folla scoppiò in grida entusiaste mentre il nano si apprestava ad annunciare il vincitore dello scontro.
Jaki incontrò lo sguardo di Angelica e dopo averle sorriso rassicurante cadde a terra privo di sensi. 

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Capitolo 10
*** Il Risveglio ***


The Defender Of Magic
Capitolo 10 - Il Risveglio


Alessia era esausta. Gli esami si stavano avvicinando, doveva studiare dieci libri entro ventisette giorni. Una missione impossibile. Voleva solo farla finita e andare a letto, e l’indomani quando si sarebbe svegliata avrebbe scoperto che gli esami non erano altro che un brutto incubo, di avere ancora davanti a sé molti mesi per concentrarsi sugli studi e assaporare la libertà dagli esami.
Alessia continuava a fissare da più di un’ora la prima domanda. Una collega era riuscita a procurarsi le simulazioni d’esami di lingua cinese, esami passati, ottimi per la preparazione. Ci mise alcuni secondi prima di rendersi conto di non aver capito una parola, distratta com’era dal ticchettio dell’orologio. A fatica, cominciò infine a scrivere la risposta.
Incontrò molte difficoltà nel riconoscere i caratteri e a interpretare correttamente le frasi. Più volte si era ritrovata con traduzioni assurde non riuscendo a capire in cosa sbagliava. Saltò a piè pari l’esercizio degli aggettivi, dicendosi che vi sarebbe tornata più tardi. Fece un tentativo con la coniugazione dei verbi, ma anche qui scoprì di avere grosse lacune e difficoltà nello scrivere il giusto tempo di verbo, per non parlare poi del corretto ordine dei tratti dell’ideogramma!
Quell’esame la stava mettendo in crisi. Gli esercizi erano molto più difficili di quelli presenti sul suo libro di testo e non aveva modo di controllare gli errori perché non aveva con sé il foglio delle risposte.
"Che stupida!", si disse. Eppure la sua collega gliel’aveva offerto quando gli aveva dato quella simulazione. Lei però aveva rifiutato, certa di imbrogliare copiando le soluzioni e non impegnandosi nella risoluzione se avrebbe avuto quel foglio... doveva mostrare più determinazione e autocontrollo, lo sapeva bene e per questo si colpevolizzava dandosi mentalmente della stupida.
Scorse il foglio alla ricerca di una domanda alla quale rispondere con sicurezza, ma non ne trovò nessuna.
Chiuse gli occhi e affondò il viso fra le mani, sforzandosi di ricordare...
"Pensa", si disse, "Pensa".
Era in biblioteca. Vagava senza meta alla ricerca di qualcosa senza sapere esattamente cosa. Gli scaffali alti torreggiavano tutto il perimetro della biblioteca. Il soffitto decorato in oro sembrava aver perso il suo solito splendore e ora appariva spento, opaco, privo di vita. Camminava fluida come se stesse galleggiando in aria, i suoi piedi sfioravano appena il liscio pavimento di pietra lucida e si dirigeva verso la sala 8 della biblioteca. Un grappolo di studenti erano rannicchiati attorno ad un tavolo, la testa chinata sui libri e nessuno sembrava accorgersi di lei. Quella situazione la inquietava un po’. I suoi passi dovevano emettere il classico tonfo pesante della gomma sulla pietra, per quanto indossasse delle scarpe da ginnastica, ogni qualvolta camminava fra gli alti scaffali, tutti si voltavano a guardarla cupi per il rumore che provocava, alcuni incuriositi altri forse perché aspettavano un amico... in quel momento però nessuno badò a lei. Nessuno si muoveva, né emetteva alcun suono. Di essere finita in una sfera di cristallo. Gli studenti poi davano l’impressione di essere stati pietrificati. Come se il tempo si fosse fermato e lei per qualche strano scherzo del destino non era stata intrappolata e continuava a camminare, l’unica in grado di varcare quel territorio.
Accelerò il passo ed entro nella sala 8. Anche qui gli studenti erano immobili. In un primo momento provò l’impulso di avvicinarsi ad uno qualunque e toccarlo per controllare qualcosa, probabilmente accertarsi che fosse vivo così come gli altri, ma senza sapere il perché represse il suo istinto e continuò a camminare ignorando tutto ciò che aveva intorno. Il suo sguardo venne rapito da una porta dorata in perfetto stile rococò. Quella porta l’aveva sempre incuriosita fin dal suo primo ingresso all’università. Costantemente chiusa. Il palazzo risaliva a chissà quale secolo e la sua mente aveva sempre immaginato che quella porta celasse qualche oscuro e fantastico segreto. No, roba come tesori perduti esistevano solo nei miti, lei mirava a qualcosa di diverso, di macabro come una camera delle torture o uno scheletro. D’accordo, forse l’idea di trovare uno scheletro era inquietante né l’allettava più dell’idea di un tesoro dimenticato ma era sempre meglio di scoprire una semplice stanza chiusa a chiave temendo che qualche vandalo o ladruncolo danneggiasse la stanza. E poi, sarebbe stato bello finire sui giornali per aver rinvenuto il cadavere di qualcuno risalente al secolo del palazzo, magari qualche nobile misteriosamente scomparso... così da poter effettivamente dire: “questo era il corpo del fantasma che infesta la biblioteca!”.
La voglia di trovare un cadavere risedeva nell’accertare l’esistenza del fantasma della biblioteca, di poter dire: “Le cose paranormali non succedono sono in America, ma anche qui!”.
Qualsiasi cosa quella porta celasse la incuriosiva. Magari la stanza nascondeva un passaggio segreto e chissà dove si sarebbe ritrovata una volta scoperto il meccanismo!
Avvicinò la mano tremante alla maniglia ma prima di toccarla si illuminò improvvisamente e le si spalancò davanti. La luce era così forte che dovette coprirsi gli occhi con le mani per non restarne abbagliata e incerta avanzò all’interno.
Si trovò in una grande stanza circolare. Tutto era nero, pavimento e soffitto compresi; ma nonostante ciò lei riusciva a vedere tranquillamente e avanzò verso un grosso dipinto. Lo osservò per un istante poi si spostò alla destra e iniziò a bussare su un punto preciso del muro. Al quinto colpo il quadro si illuminò come la porta e si aprì sul fianco silenziosamente svelando un passaggio segreto. Eccitata vi si infilò dentro e lo percorse correndo a perdifiato e ritrovarsi in una stanza vuota. Le pareti erano completamente bianche, accecanti, ma qualcosa all’interno stonava, brillando di luce propria. Una figura incappucciata di nero era chino su una sfera di cristallo dai mille colori.
Rapita da quella figura Alessia vi si avvicinò senza alcun timore, quasi ipnotizzata.
La figura continuò ad armeggiare con la sfera, le sue dita erano lunghe e sottili, scheletriche, e Alessia si sporse in avanti per guardare meglio. Infilò una mano nel mantello e ne estrasse fuori una sfera luminosa al cui interno custodiva qualcosa che Alessia non seppe decifrare. Strizzò gli occhi nel tentativo di scorgere qualche dettaglio utile in grado di farle capire cosa contenesse ma fu tutto inutile.
«Lo vuoi?» chiese la strana figura incappucciata.
Gli occhi di Alessia scintillarono come la sfera che aveva preso a fluttuare. «Sì».
«Allora vieni a prenderlo».
Alessia si svegliò di soprassalto, passandosi una mano sul volto, stanca e febbricitante. Quel sogno era stato così vivido da sembrarle reale, voleva che fosse reale! Desiderava così tanto avere quella sfera luminosa, scoprire cosa nascondesse al suo interno... le venne un’idea.
Forse era folle, forse era troppo incredibile per essere vera ma doveva tentare. Doveva andare all’università ed entrare in quella stanza misteriosa. Non le importava se non avrebbe trovato nulla, di trovare la porta chiusa come al solito, doveva tentare. Qualcosa le diceva di andare lì e lei non riusciva a resistere a quel richiamo così dolce. No, doveva andarci. Qualsiasi cosa avrebbe trovato, aspettava solo lei.
 
 
Alcune ore dopo stava salendo in gran fretta la rampa di scale che portava fino alla biblioteca. L’ascensore ci aveva impiegato troppo tempo e Alessia aveva fretta di scoprire la verità. Di solito non faceva caso ai suoi sogni. Erano fin troppo strani per i suoi gusti e dopo averli raccontati a Dafne preferiva dimenticarli. Questa volta però era diverso. È vero, era il sogno più bizzarro che avesse mai fatto eppure qualcosa le diceva che celava un segreto importante, qualcosa di cui doveva venire a conoscenza obbligatoriamente. Si sentiva stupida. Precipitarsi lì a perdifiato solo per aver sognato un tizio incappucciato con una sfera in mano eppure non riusciva ad ascoltare la parte razionale del suo cervello, a non andare in quel luogo a fare la figura dell’idiota. Il cuore le batteva all’impazzata nel petto man mano che si avvicinava alla meta. Spinse la grande anta della biblioteca e vi entrò salutando l’uomo seduto dietro al bancone velocemente e precipitandosi all’interno in gran fretta lasciando lo zaino a terra incustodito.
«Lo zaino!» gridò il ragazzo sporgendosi dal bancone. «Devi posarlo nell’armadietto! Noi non siamo responsabili se smarrisci qualche oggetto di valore!».
Ma Alessia stava già percorrendo il corridoio della sala 1 per poter rispondere al ragazzo e tranquillizzarlo. Non aveva altro che libri. Il cellulare il portafogli lo aveva con sé e chi persona sana di mente avrebbe mai rubato dei testi universitari? Fotocopiati per di più. Solo un disperato o un pazzo.
Incurante degli sguardi innervositi degli studenti continuò a correre, senza badare al chiasso dei suoi passi ogni qualvolta poggiava i piedi sul pavimento lucido di marmo.
La sala 8 era deserta. Nessun ragazzo era lì a studiare. Solo lei. Alessia guardò la porta dorata davanti a lei. Finalmente, dopo averla sognata, era lì. Proprio come nel sogno avvicinò la mano tremante alla maniglia ma prima di toccarla si illuminò improvvisamente e le si spalancò davanti. La luce era così forte che dovette coprirsi gli occhi con le mani per non restarne abbagliata e incerta avanzò all’interno.
Si trovò in una grande stanza circolare. Tutto era nero, pavimento e soffitto compresi; faceva piuttosto freddo e l’unica flebile luce proveniva dalla sala 8 dietro di lei, tremolante si rifletteva sul lucido pavimento di pietra e dava l’impressione di camminare su una grossa pozza di acqua scura. Si voltò a guardare la sala e gli apparse tremolante e instabile come se si trovasse dietro la parete d’acqua di una cascata, le immagini erano sfocate per poi sparire improvvisamente. Corre alla porta dorata ma questa è scomparsa cedendo il posto alla fredda e liscia parete nera. Terrorizzata, Alessia picchiò con tutte le sue forze, a pugni chiusi, contro la parete. Sperando che qualcuno la sentisse e l’aprisse dall’esterno. Il rumore che riuscì a produrre era sorprendentemente basso. Tanto basso che arrivava appena appena alle sue stesse orecchie. Nessuno poteva sentirla. E si stava soltanto facendo male alle mani. Nel suo sogno la porta non era scomparsa, era rimasta lì ad illuminare flebilmente la stanza. Iniziò a gridare e come per i colpi, anche la sua voce arrivava bassa alle sue orecchie. Si sentì persa. Respirò profondamente e cercò di aggrapparsi al muro per non cadere sentendosi intrappolata in un attacco di panico. Era la prima volta e non sapeva come comportarsi, sapeva solo di doversi calmare prima che il cuore le scoppiasse nel petto. Se solo avesse prestato più attenzione al primo soccorso spiegato dalla professoressa di educazione fisica al liceo... si pentì amaramente di aver chiacchierato con le amiche mentre la prof spiegava. Le sarebbe stato utile ricordare come evitare di collassare per un attacco di panico. Si sforzò di calmarsi e si accovacciò per terra appoggiando la schiena alla parete. Chiuse piano gli occhi e aspettò che la vertigine passasse. Quando si fu calmata riaprì gli occhi e notò delle fiammelle azzurre illuminare la stanza. Si alzò di scatto in piedi, chiedendosi da dove fossero spuntate e man mano che gli occhi si abituavano alla luce poté scorgere dei particolari. La stanza era rotonda e al centro vi era un grosso tappeto rosso persiano con quattro poltrone gialle sistemate in cerchio. Alle pareti oltre alle torce erano appese numerosi quadri, molti dei quali erano dei ritratti raffiguranti probabilmente i signori di quell’antico palazzo. In sogno, una volta là dentro, si era diretta verso un ritratto, l’unico presente nella stanza. Ma ora c’erano almeno una dozzina e non riusciva a scorgere alcun dettaglio che le indicasse il ritratto. Sapeva di non poter ricordare ogni singolo dettaglio del sogno perché se non fosse così secoli di studi sul sonno sarebbero andati a farsi friggere così come la teoria dei sogni di Freud. Si concentrò con tutta se stessa osservando i quadri e si maledì mentalmente per non ricordare quel dettaglio così piccolo eppure così importante. Fra tutti gli elementi del sogno proprio quello doveva dimenticare? Così non le restò da fare l’unica opzione possibile: si avvicinò ad ogni quadro e picchiettò sulla parete cinque volte in attesa che la porta designata si aprisse. Al settimo tentativo, il quadro si illuminò come la porta e si aprì sul fianco silenziosamente svelando un passaggio segreto. Eccitata e allo stesso tempo spaventata si infilò dentro e lo percorse correndo a perdifiato per poi ritrovarsi in una stanza vuota. Come nel sogno, le pareti erano completamente bianche, accecanti, ma qualcosa all’interno stonava, brillando di luce propria. La figura incappucciata di nero era chinata su una sfera di cristallo dai mille colori.
Alessia si avvicinò osservando la figura incuriosita.
«Ti stavo aspettando Alessia» mormorò la figura continuando ad armeggiare con la sfera. La sua voce risuonava fredda e metallica come quella di un computer.
Alessia rabbrividì e si limitò ad annuire.
«Benvenuta. Non devi aver paura, sono qui per svelarti tutto ciò che desideri conoscere, ma ogni cosa ha un suo prezzo. Chiedi e ti sarà data la risposta»
Alessia aveva tante domande da chiedere, prima fra tutte, cosa intendeva per prezzo. Valutò attentamente cosa chiedere e alla fine disse: «Non ho nulla da chiedere».
«Tutti hanno delle domande Alessia, anche tu. Lo leggo nei tuoi occhi. Fa’ la tua domanda dunque».
La ragazza non si fece intimidire ma piuttosto ribatté decisa: «Non sono venuta qui per delle risposte».
«E allora per cosa sei venuta?», per quanto possibile, Alessia parve scorgere nella voce della creatura un tono divertito e incuriosito.
«Sono venuta qui per avere quel che mi spetta».
La figura continuò ad armeggiare con la sfera, le sue dita erano lunghe e sottili, scheletriche, e Alessia si sporse in avanti per guardare meglio. Infilò una mano nel mantello e ne estrasse fuori la sfera luminosa al cui interno custodiva qualcosa che Alessia non era stata in grado di decifrare. Adesso invece riusciva a vedere. Al suo interno racchiudeva una piccola creatura rannicchiata in posizione fetale. Dormiva, o almeno così le sembrava.
«Lo vuoi davvero? Lo desideri così tanto?»
«Sì» rispose rapita da quella sfera luminosa. Gli occhi di Alessia erano fissi su quella creatura dai lunghi capelli scuri.
La figura incappucciata alzò lo sguardo mostrando il suo volto. Il cappuccio nascondeva un teschio. Le fessure orbitali emanavano una luce rossa come il sangue. «Come desideri».
La sfera di cristallo si oscurò diventando un buco nero risucchiando la sfera luminosa e tentando di risucchiare anche Alessia. Alessia si gettò a terra, cercando qualche appiglio mentre la creatura rideva sguaiata, la risata riecheggiava spaventosa e acuta per tutta la stanza come un eco.
“Perché finisco sempre in queste situazioni?” si chiese Alessia chiudendo gli occhi e percependo una strana sensazione. Le era familiare. L’aveva già provata. Un dolore insopportabile che le ustionò la gola. Quel giorno, al comicon con Sabino. L’orrenda sensazione di morire.
«Scatenati Alessia!» gridò la creatura senza smettere di ridere.
Sentiva dei suoni nelle orecchie e la vista diventò opaca, confusa. Uno strano calore le schiacciava il petto come un grosso macigno. L’orrenda sensazione di essere seppellita fra le fiamme che nascevano dal suo corpo e lo rimasticavano per farsi strada e dispiegarsi con un dolore insopportabile attraverso le spalle e lo stomaco, ustionandole la gola, fino a lambire il viso.
«No...» rantolò a fatica «non di nuovo...».
Si aggrappò con le unghie al pavimento, cercando di restarci aggrappata ma il vortice era sempre più intenzionato a risucchiarla al suo interno. Le energie la stavano abbandonando. Sia per i forti dolori che provava, sia per il forte turbine.
Più cercava di respirare, più la gola le si chiudeva. Il dolore fu così forte da mozzarle il respiro e in quel momento ancora una volta, desiderò con tutta se stessa di morire. Non essere mai nata. Non ne valeva la pena. Ne era sempre più convinta. Sopravvivere a quel dolore sentiva che era inutile, né voleva tentare l’esperimento. Non desiderava altro che la morte. Non sapeva cosa stava succedendo né il perché desiderava solo farla finita una volta per tutte. Così sotto la tortura incandescente le sue grida mute imploravano l’arrivo della morte. Il suo udito si fece sempre più acuto: riusciva a contare i battiti frenetici e accelerati del suo cuore che segnavano il tempo. Riusciva a sentire qualsiasi cosa. Il fuoco torturatore continuava a bruciarla sempre più violento e furioso. Iniziò a contorcersi per il dolore e quando aprì gli occhi un grido acuto e pieno di orrore fuoriuscì dalla sua gola. Persino la vista l’aveva abbandonata, si sentì persa, sola e inerme. Non vedeva altro che il buio. Percepiva chiaramente il forte ronzio del vortice, la gutturale e metallica risata della creatura incappucciata eppure non vedeva dove fosse. Era diventata cieca. Iniziò a piangere disperata all’idea di aver perso la vista, chiedendosi come fosse possibile, ma le domande durarono poco e un senso di apatia s’impadronì del suo corpo. Se prima il suo desiderio di morte era dettato dalla sofferenza adesso invece dalla rassegnazione, stanca di lottare, di tutto.
Le forze l’abbandonarono lentamente e sentì il corpo esplodere in un’ondata di calore.
Chiuse di nuovo gli occhi.
“Sto morendo”, pensò, “che strano modo di morire”.
E poi tutto tacque. Il dolore stava scemando lentamente per poi sparire così com’era venuto. L’incendio si ritirò e lasciò il suo corpo fresco e libero da ogni dolore. Aprì gli occhi e restò sorpresa.
Tutto era così limpido. Nitido. Definito. I suoi occhi riuscivano a scorgere ogni singolo dettaglio come tutte le venature del legno scuro del soffitto. I suoi occhi si posarono sulla figura incappucciata che nel frattempo aveva chiuso il vortice e la stava osservando interessato. Adesso su quel viso ossuto riusciva a scorgere ogni singola emozione ed ebbe l’impressione di potergli guardare all’interno. La figura incappucciata non era altro che un involucro vuoto in cui risedeva una sostanza incorporea, uno spirito maligno.
«Ti sei risvegliata» mormorò osservandola con i suoi occhi scarlatti. «A quanto pare il risveglio ha creato una sorta di barriera impedendoti di venire risucchiata nel vortice...»
Alessia non rispose e continuò a fissarlo.
«È da molto tempo che non ci vediamo, Ainwen. L’ultima volta che ci siamo visti avevi scelto una bambina adesso una ragazza adulta perché?».
Alessia però non sembrava intenzionata a rispondergli e continuò a fissarlo freddamente.
«A quanto pare il gatto ti ha mangiato la lingua eh? Non ha importanza. Ti sto aspettando da molti secoli e ora sei di nuovo qui. Non mi sembra vero. Avresti dovuto risvegliarti molto prima, con quel mediocre di un succhiasangue ma qualcuno lo ha impedito, ha preferito lasciarti dormire ancora un po’ non è vero? Peccato, davvero un peccato. Beh, l’importante è averti qui, adesso. Poiché sono stato io a risvegliarti e a riportati qui, agirai come mia servitrice. Ho molti programmi per te mia piccola Ainwen e questa volta non c’è alcun seccatore nei paraggi».
«Sei un mostro» mormorò Alessia. La sua voce era bassa ma risuonava carica d’odio.
«Suvvia Ainwen! Ancora con quella storia? Sono passati più di tre secoli o forse più non ti sembra di essere paranoica e melodrammatica?»
«Sei un mostro» ripeté ancora, la sua voce affilata come la lama di una spada.
La creatura si incupì. «Bene, non mi lasci altra scelta allora» e detto ciò iniziò ad armeggiare vicino alla sfera di cristallo pronunciando strane formule magiche in un’arcana lingua.
«Non ti permetterò di manovrarmi» si gettò all’attacco scagliandosi contro la figura ma questa levitò in aria prima che Alessia riuscisse a mettere a segno il suo colpo, senza smettere di recitare la formula.
«Dannazione» si morse l’interno della guancia destra e si guardò intorno alla ricerca di un appiglio. Non c’era nulla che potesse usare per arrampicarsi e alla fine decise di tentare il tutto per tutto. Senza perdere tempo corse contro la parete di fronte a sé velocemente e vi saltò contro, per poi saltare come la pallina di un flipper sulle pareti arrampicandosi in quel modo fino a raggiungere la figura incappucciata. Si lanciò contro la creatura, la mano tesa verso di essa.
«Sparisci per sempre!» gridò. Dal palmo della sua mano fuoriuscì un getto di luce rossa che lo avvolse nel suo fascio per poi incenerirlo.
Con grazia atterrò sul pavimento, il suo corpo sembrava fluttuare e incuriosita osservò nell’aria, distinti e separati i granelli in cui la creatura era esplosa.
Restò ad osservarli a lungo, il suo sguardo carico d’odio risultava vuoto come se qualcuno o qualcosa si fosse impadronito del corpo della giovane Alessia.
Si voltò ad osservare la stanza. Ora che la creatura era stata annientata, lentamente la stanza stava riacquistava il suo vero aspetto: il bianco delle pareti venne sostituito da un colore ocre sbiadito dal tempo e rendeva impossibile identificare il colore originario; un forte e nauseante odore di muffa appestò l’aria rendendola irrespirabile ma Alessia non sembrava farci caso, i mobili comparvero lentamente, sporchi, distrutti e impolverati, una grossa libreria da parete con tomi dall’aria antichissima, due sedie di legno, una scrivania e una lampada ad olio rotta riversa su di essa. I muri erano cosparsi di numerose crepe e davano l’impressione di potersi frantumare all’istante e franare seppellendola sotto una marea di detriti. Si diresse al quadro da dove era entrata e una volta che si fu richiuso alle sue spalle, vi poggiò una mano sopra. Il quadro si illuminò ancora sigillando l’ingresso. Lei stessa non riusciva a capire come e cosa aveva fatto, il suo corpo agiva da solo controllato da una misteriosa forza, così potente da impedirle spesso persino di pensare. Uscì dalla biblioteca come se niente fosse e si sedette su una panchina vuota nel cortile dell’università.
Lentamente chiuse gli occhi ritrovandosi fra le braccia di Morfeo.  

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Capitolo 11
*** Verità svelate ***


The Defender Of Magic
Capitolo 11 - Verità Svelate


Lothus si era appena addormentata quando un allarme suonò. Si svegliò di soprassalto, confusa, credendo di aver sentito la sveglia. Poi, però, si rese conto che non si trattava della sveglia, ma del suo cellulare. Sbadigliando afferrò il cellulare e lesse il nome sul display. Raziel.
Uno dei lati positivi di fingersi umana. Avevi un oggetto utile come il cellulare. Nel mondo paranormale dove viveva, il tempo sembrava essersi congelato e la tecnologia non esisteva. Per comunicare si utilizzavano modi diversi ma lei preferiva di gran lunga il cellulare perché aveva tante applicazioni divertenti, dai giochi alla connessione internet.
«Pronto?»
«Oi!» gridò Raziel euforica «buon giorno!»
«Sì buon giorno» rispose mezza addormentata, passandosi una mano sul volto.
«Ti ho svegliata?»
«Sì» sbadigliò, la voce impastata dal sonno.
«Perché?»
«Perché cosa?» si sentiva ancora intorpidita dalla prova e la pelle non voleva accennare a guarire dalle scottature.
«Perché sei nel letto ancora a poltrire?! Io sono già in viaggio!»
«Oggi non verrò all’università. Non voglio rischiare di rivelare i miei poteri per colpa di uno stupido mezzo pubblico. Inizio a pensare che la principessa lo abbia fatto apposta a spedirmi qui, magari le sono antipatica...»
«No, non credo» ridacchiò Raziel «avrà le sue buone ragioni»
«Spero per lei che siano davvero buone!»
«Comunque» riprese lo spirito «siamo state convocate in consiglio! L’hai dimenticato?»
«Di nuovo?» gridò Lothus sorpresa. Non ne sapeva nulla. «Ti prego! Dimmi che non dobbiamo affrontare un’altra prova solo perché quell’elfo non vuole ammettere la sconfitta!»
«No» mormorò Raziel «non credo. Vedi, ieri mi è stato recapitato un messaggio dove mi invitavano a partecipare ad una riunione del consiglio»
«Partecipare?»
«Sì. Una forma gentile per dire “sei sott’accusa”. Ho sentito Miharu e anche lei ha ricevuto la missiva...»
«A che ora è dunque la carneficina?».
Raziel trattenne a stento una risata. «Alle 10».
Lothus guardò l’orologio. Mancava un’ora all’appuntamento. Non sarebbe mai riuscita ad arrivare in orario.
«Beh, io non ho ricevuto nulla, probabilmente la mia presenza non è gradita».
Non ebbe il tempo di aggiungere altro quando una piccola creatura alata dall’aspetto vagamente umano bussò alla finestra della sua camera.
«Ti ha recapitato il messaggio una pixie?»
«Sì perché?»
«È appena arrivata. Aspetta un attimo»
«Okay».
Lothus aprì la finestra e la pixie con un abito blu da postino schizzò all’interno della camera come una saetta. La ninfa dovette abbassarsi per non essere colpita.
«Ma dove diavolo vivi?!» chiese stanca e isterica la pixie, sollevandosi la visiera del cappellino per asciugarsi la fronte imperlata di sudore. «Sono ore che ti cerco! Ho un messaggio per te, è da parte del consiglio».
«Lamentati con la principessa» fu la risposta di Lothus «è stata lei a spedirmi qui».
La pixie non rispose e tirò fuori dalla piccola borsa in pelle che aveva a tracollo, un pezzo di carta bianca dalla forma rettangolare. Il coriandolo prese a fluttuare a mezz’aria. Agitò l’indice e di colpo s’ingrandì assumendo le normali dimensioni di una busta da lettere. Era sigillata con un timbro dove vi era raffigurato un leone, simbolo di Shinar. Borbottando la pixie sfrecciò fuori di nuovo e si librò nel cielo diventando un puntino luminoso, facilmente scambiabile per una stella.
Ma Lothus stava già strappando la busta e sfilando la lettera, col cuore che le batteva fortissimo nel petto.
 
Cara signora Lothus,
La sua presenza è gentilmente richiesta per una riunione speciale al Consiglio della Magia alle ore 10 del 15 maggio.
Sperando che stia bene,
Cordiali saluti,
 

Canyaner
Consigliere Anziano
Erein degli Elfi.

 
 

Lothus lesse tutta la lettera tre volte.
Quelle poche righe non spiegavano il perché di quella comunicazione improvvisa, né la tranquillizzavano. Il mittente era Canyaner e non Erykah, la scrivana ufficiale. Di solito era lei l’incaricata a spedire le missive del consiglio, una sorta di segretaria, i membri non si scomodavano a scrivere lettere per convocare qualcuno, tantomeno Canyaner e se l’aveva fatto allora era accaduto qualcosa di grave, qualcosa da non poter essere delegato a terzi.
«Allora?».
La voce di Raziel riportò Lothus alla realtà.
«Ci sei ancora?».
Il cervello temporaneamente inebetito di Lothus parve risvegliarsi. «Sì, dimmi»
«Hai letto la lettera?»
«Sì. Anche la pixie si è lamentata del posto dove vivo» scherzò Lothus.
Raziel scoppiò a ridere. «Hai visto chi è il mittente?»
Il viso di Lothus si contrasse in una smorfia. «“Sperando che stia bene” Ma scherza o mi prende in giro?! Per colpa sua ho solo perso tempo e salute, le mie chiome sono secche!! Quanto vorrei poterlo mandare nel mondo degli umani ad aspettare gli autobus in eterno! Quel maledetto...!!»
Raziel ormai non riusciva a smettere di ridere. 
«Perché alla fine, per la questione “dell'inaffidabilità" ha contribuito anche il mio ritardo... DOVUTO AGLI AUTOBUS UMANI! Non dipende da me! Lo spedirei volentieri ad Alcatraz ad attendere un bus per evadere!».
«Cerca di non fare tardi»
«Siamo in vena di fare battute, eh?»
Raziel rise di nuovo poi riagganciò.
Dentro la testa di Lothus, tutto era gelato e stordito. Come avrebbe fatto a recarsi a Shinar in così poco tempo? Doveva raggiungere il portale che si trovava nella villa comunale dall’altra parte della città. A piedi avrebbe impiegato troppo tempo e con i mezzi pubblici... non voleva nemmeno pensarci. Solo l’idea di dover aspettare per ore un pullman che probabilmente non sarebbe mai passato la gettò nello sconforto.
Ma non poteva lasciarsi scoraggiare così. Non poteva, non voleva dare questa soddisfazione a Canyaner né era da lei arrendersi e piangersi addosso in questo modo.
“Ho appena ricevuto la lettera e non credo di riuscire ad arrivare in orario. Cercate di prendere tempo”.
Lothus scrisse queste parole sul cellulare e indirizzò il primo a Miharu e il secondo a Jaki.
Le faceva ancora male la schiena, e le bruciavano le escoriazioni della prova, non volevano accennare a guarire; gli impacchi e le pozioni non erano serviti a nulla se non ad affievolire temporaneamente il dolore.
“Me la pagherà!” pensò Lothus tirando un pugno contro l’armadio infervorata. “Quello stupido elfo me la pagherà! Aspetta solo che gli metto i rami addosso… lo faccio diventare un salice piangente alla fermata dell’autobus!”.
Così si lasciò andare, imprecando mentalmente contro Canyaner e preparandosi per la riunione.
Due ore dopo, Lothus sfrecciava fra i lunghi corridoi del Consiglio della Magia tappezzati con arazzi che raffiguravano antiche battaglie e i membri del consiglio. Si precipitò giù per una scalinata da sembrare infinita e si ritrovò poi, a correre lungo un corridoio alquanto diverso dai precedenti. Le pareti erano spoglie; non c’erano arazzi né finestre né porte, finché non svoltò a sinistra dove c’era un’apertura che dava su una rampa di scale. Scese due gradini alla volta. Lothus si sentiva stanca e ansiosa, quella corsa le stava prosciugando tutte le energie e l’idea di rivedere Canyaner non la metteva di certo di buon umore.
Raggiunse la base delle scale e fece un altro corridoio, con torce appese alle pareti di pietra viva.
Lothus si fermò barcollando davanti a una porta scura lucida con un grosso emblema d’oro raffigurante un leone e si afflosciò contro la parete, premendosi la mano sul petto.
Respirò profondamente e quando ebbe riprese fiato, decise di entrare. Spinse la pesante porta ed entrò nell’aula.
Era la prima vola che si trovava lì eppure le era terribilmente familiare: Raziel le aveva descritto quella stanza ogni qualvolta si era ritrovata a dover affrontare una riunione con il consiglio. Le pareti erano di pietra scura illuminate da torce e di fronte a lei, panche vuote si ergevano ai due lati della stanza, ma di fronte, sulle panche più alte, c’erano molte sagome con indosso una veste scarlatta. Al centro esatto della fila davanti sedeva Angelica, la principessa di Shinar. I partecipanti alla riunione, si scambiarono sguardi severi e inflessibili. Ombre scure si annidavano tra le rughe sulle tempie dei membri del consiglio. L’unica a non avere la fronte aggrottata era la principessa.
Una fredda voce maschile risuonò nella stanza.
«Sei in ritardo. Di nuovo»
«Mi dispiace» disse Lothus nervosamente. Conosceva troppo bene quella voce. «Io... io non sapevo di dover venire qui».
«Non per colpa del consiglio» ribatté la voce. «Ti è stata mandata una pixie e i messaggi vengono sempre recapitati in tempo. Avvicinati».
Lothus si avvicinò alle panche, i suoi passi echeggiavano forte attraverso il pavimento di pietra. Si fermò accanto a Raziel. Raziel, Miharu e Jaki le scoccarono un veloce sguardo d’intesa e continuarono a tenere i loro occhi fissi sui membri del consiglio.
«Molto bene» continuò Canyaner «dal momento che ci sono tutti... finalmente... cominciamo».
I quattro annuirono.
«Miharu ci racconti cos’è successo il giorno del 13 maggio» tuonò Canyaner sforzandosi di avere un tono educato.
«Sì» rispose Miharu con la sua voce tremula. «Io... io stavo divinando Alessia attraverso uno specchio d’acqua. È il modo migliore per controllarla quando nessuno è con lei»
«E perché nessuno era con lei?» chiese il nano dalla lunga barba.
«Perché si era deciso di saltare l’università quel giorno. Alessia aveva deciso di studiare a casa e tornare a Napoli solo a Giugno per gli esami».
«Cos’è successo?». A parlare era stata una ragazza, seduta accanto a Canyaner. Aveva folti capelli rosso scuro che le arrivavano alle spalle e occhi a mandorla di un verde incredibile. Piccole ali azzurre si muovevano flebilmente, trasparenti e velate sulla schiena.
«Sì. Ecco. Come ho già detto, ho osservato Alessia per tutto il tempo. L’ho vista correre agitata e solo troppo tardi ho realizzato che si stava dirigendo all’università. Ha scoperto una porta e ne è uscita soltanto un’ora dopo. Ma era diversa. I suoi occhi erano freddi e duri. Sembrava... non essere se stessa».
«Così è corsa a controllare»
«Esatto»
«E?»
«Nulla. Alessia era confusa, scossa, borbottava frasi senza senso e quando le ho chiesto della stanza si è irrigidita, spostandosi subito sulla difensiva e nascondendosi dietro una barriera. Ha iniziato a guardarmi in cagnesco, poi è corsa via prima che potessi fermarla o chiederle ulteriori spiegazioni. Ho continuato a divinarla ma non è successo nulla di rilevante. Ha passato tutta la giornata davanti la televisione e non ha avuto contatti se non con i suoi familiari».
«Bene» mormorò Angelica prendendo la parola. Indossava un abito celeste dalle tonalità del cielo, pieno di merletti. «Il motivo per cui vi abbiamo convocato è molto semplice. Alessia si è risvegliata».
Fra i presenti si sollevarono note di stupore.
«Miharu tu non hai parlato con Alessia ma con Ainwen»
«Com’è possibile?» balbettò Miharu terrorizzata. «Ainwen è...»
«Vedi, siamo giunti ad una conclusione. Non si sono risvegliati solo i poteri ma anche l’anima del primo guerriero. Ainwen. Non siamo ancora in grado di dare una spiegazione di come ciò sia potuto accadere ma Alessia deve essere controllata più di prima. Quando userà i suoi poteri, temiamo che Ainwen possa influenzarla nelle scelte e nelle azioni. Si sostituisca ad Alessia impadronendosi del suo copro e non sappiamo se durante questa fase lei sia cosciente oppure no».
«E ancora una volta è colpa vostra!» sbottò Canyaner. «Ainwen ha avuto molti tutori e non è mai successo niente di simile in tutti questi secoli! Arrivate voi e create questo casino!»
«Con tutto il rispetto Canyaner, ma non credo che loro quattro siano i responsabili» mormorò la fata in loro soccorso.
«Certo che lo sono!» ruggì Canyaner, indicando Jaki con un gesto teatrale. Il suo capro espiatorio preferito. «Hai dimenticato l’incidente con il vampiro?».
«No, non l’ho dimenticato. Alessia avrebbe dovuto risvegliarsi allora ma non è successo perché loro sono intervenuti, risolvendo il problema al posto suo. Se fossero stati con lei i suoi poteri probabilmente sarebbero ancora assopiti» osservò la fata.
«Cosa diavolo vai farneticando Faith?! Sei impazzita?!» grugnì il nano sbattendo il martello sulla panca.
«Non siamo qui per giudicarli» replicò calma Faith «né per condannarli. Siamo qui per decidere come procedere d’ora in poi. Alessia si è risvegliata e non possiamo permettere ad Ainwen né a nessun altro di manovrarla come un burattino. Ainwen un tempo era la nostra salvezza ma se fosse corrotta o accecata da sentimenti negativi come l’odio, diventerebbe la nostra rovina» spiegò Faith, poi si rivolse ai quattro tutori. «Dovete impedirlo a qualsiasi costo».
«Sì» risposero in coro.
«Basta!» ruggì Canyaner. «Parli così solo perché fra i tutori c’è una dei tuoi, una fata!»
«Se non sbaglio c’è anche uno dei tuoi»
«Unadanedhel» mormorò sprezzante Canyaner sottovoce.
«Quando Alessia si è risvegliata ha sprigionato tutto il suo potere. Per il momento, finché non avremo ben chiara la situazione dovrete insegnare ad Alessia a tenere sottocontrollo i suoi poteri, limitarli. Se si dovessero scatenare potrebbe succedere una catastrofe». Il viso della fata aveva assunto un espressione seria.
«Io sono d’accordo con orecchie a punta» mormorò il nano battendo un pugno sul petto. «È inammissibile! Ancora una volta se la sono cavata!»
«Davvero stupefacente, come continuano a strisciar fuori dai buchi più stretti...» commentò con voce strascicata Canyaner.
«Sì», disse Lothus, «siamo bravi a cavarcela».
Faith riuscì a malapena a trattenere un sorriso divertito. Tossicchiò cercando di prendere il controllo.
«Tu... brutta...»
«Basta così!» tuonò Angelica «Questa è un luogo sacro non un posto dove poter appestare l’aria con i vostri insulti! Siamo creature civili non bestie! Comportatevi come tali, dunque!».
Canyaner si accigliò ancora di più, ma decise di non insistere. Sprofondò nella sedia alle sue spalle, da dove rimase a fissare i quattro con occhi fiammeggianti.
«Come ha detto Faith adesso l’importante è assicurarci che Alessia riceva l’adeguato addestramento» continuò la principessa «e sarete voi a rivelarle la sua vera natura. Quando sarà il momento la convocheremo qui per conoscerla e assicurarci che è pronta per il loro ruolo. La riunione è ufficialmente sciolta. Andate subito ad informare Alessia e iniziate il suo addestramento».
Si inchinarono alla principessa poi lentamente uscirono dalla stanza. Quando la porta si richiuse alle loro spalle, felici corsero su per le scale e una volta fuori dall’edificio diedero il via libera alla gioia.
«Perché non mi hai detto di Alessia?» chiese Jaki scoccando un’occhiataccia a Miharu. «Dovevi informarmi, avevo tutto il diritto di sapere»
«Non l’ho tenuto nascosto solo a te» replicò Miharu e indicò le due amiche, «anche a loro».
«Perché?»
«Dopo aver parlato con Alessia ho pensato che la cosa giusta da fare fosse parlare con la principessa Angelica, lei era la prima a dover sapere di questa cosa ma Angelica...»
«Angelica cosa?»
«Mi ha fatto giurare di non dirvi nulla» rispose agitata Miharu.
«Perché... perché Angelica ti ha dato un ordine così...»
«Non lo so» si affrettò a rispondere Miharu. «Mi ha dato l’ordine di sorvegliare Alessia costantemente fino ad oggi, il giorno della riunione»
«Cosa diavolo sta macchinando quel pesce?!» sbottò Lothus. «Prima mi spedisce in un posto isolato e dimenticato dal mondo ora ci nasconde importanti informazioni!»
«Non lo so» rispose Raziel. «Non riesco a capire cosa le passa per la testa. Sono stata il consigliere di molti precedenti sovrani, molti erano davvero facili da prevedere ma lei... il buio totale».
«Non ha più importanza ormai» commentò Jaki «quel che fatto è fatto. Adesso dobbiamo solo dire ad Alessia la verità»
«Finalmente!» sbottò Lothus.
«Sì ma con calma! Non voglio che le prenda un colpo! Dobbiamo stare attenti, potremo traumatizzarla!» replicò preoccupata Miharu.
«Dicci qualcosa che non sappiamo già» commentò Raziel.
 
 
«Alessia dobbiamo parlare» mormorò Raziel seria.
«Che è successo?» chiese Alessia spaventata. «Se... se ho fatto o detto qualcosa che ti ha offeso, ti giuro! Non era mia intenzione! Perdonami! Non lo farò più! E ti giuro che farò qualsiasi cosa tu vorrai per farmi perdonare, ma ti prego, non avercela a morte con me!».
Raziel, Miharu e Lothus erano andate a trovare Alessia approfittando dell’assenza temporanea dei suoi genitori. Erano fuori città ad una manifestazione sportiva. Erano in cucina, sedute intorno al tavolo.
«Alessia» mormorò Jaki comparendo improvvisamente sulla soglia della porta.
«Jaki?! Cosa? Ma tu... come... da dove…» mormorò confusa.
Quando era andata ad aprire si era ritrovata di fronte solo le sue amiche non lui. Da dove diavolo era saltato fuori? Come faceva a sapere dove abitava se non era mai stato a casa sua?
«Non ha importanza» tagliò corto lui «dobbiamo parlare di una questione urgente»
«Una questione urgente?» balbettò Alessia.
«Ascoltami attentamente Alessia» mormorò Lothus «tu sei una guerriera mistica e hai il preciso incarico di mantenere l’equilibrio fra il mondo degli umani e quello della magia».
Alessia sbatté le palpebre diverse volte poi scoppiò a ridere. «Bello scherzo, sul serio. Per un attimo c’ero cascata!»
«Non è uno scherzo» replicò la ninfa «tu sei la protettrice di questo mondo»
«Certo! E adesso mi direte che in realtà voi non siete umani ma delle creature mandate qui per addestrarmi!» rise sarcastica.
«Esatto»
«Smettetela di prendermi in giro. Lo scherzo è bello quando dura poco»
«Non è uno scherzo, è la verità»
Alessia scattò in piedi irritata allontanandosi dai suoi amici. «Oh certo! Come no! Siete venute qui per riempirmi la testa di frottole? Ma cosa credete? Non sono così stupida da credere a una storia del genere!»
«Alessia» disse Jaki.
«Che vuoi?!» rispose irritata fulminandolo con lo sguardo.
Jaki rimase impassibile. «È tutto vero. Perché dovremo mentirti? Cosa ci guadagno io a partecipare a questo scherzo? Nulla. Lo sai, non voglio ferirti, questa è la verità»
«Per favore credici» piagnucolò irritata Miharu.
«No! Voglio una prova!»
«Cos’è successo in quella stanza all’università due giorni fa?» chiese Jaki mantenendo la calma.
«Cosa? Io... io non so di cosa tu stia parlando...»
«Non mentire. Te lo leggo negli occhi. Quel giorno hai affrontato una creatura vero? Chi era?»
«Io...»
«Chi era».
Alessia lo fissò nei suoi occhi neri come la notte ed ebbe l’impressione di venirne inghiottita. In quel momento, il suo sguardo così duro la terrorizzò annullando tutte le sue difese.
«Io... io... io non lo so» balbettò. «Era una specie di fantasma... l’avevo sognato, aveva in mano una sfera luminosa e all’interno c’era... c’era... una ragazza piccolissima che dormiva. Mi ha detto di volere i miei poteri come Sabino al comicon. Tutto è diventato confusionario, mi sono sentita male mentre lui provava a risucchiarmi nella sua strana sfera che aveva in mano e...»
«E?»
«E poi non so come io... io credo di averlo ucciso. Il mio corpo si muoveva da solo e... non... non...»
«Va bene così» mormorò Jaki sorridendo per tranquillizzarla. «Sei stata brava».
«Cosa significa? Non vorrete dire che... allora…»
«Sì» rispose Raziel «È così».
«Questo... questo non significa nulla... è impossibile… io…»
«Lo sai anche tu, smettila di fingere» disse Lothus. «Per giorni hai continuato a chiederci di Sabino e noi ti abbiamo sempre nascosto la verità fino al momento in cui saresti stata pronta. E adesso che la conosci, la neghi?»
«No... io... Dafne» mormorò sempre più sconvolta, in cerca dell’aiuto dell’amica.
«No» rispose la fata scuotendo il capo. «Il mio nome non è Dafne. Io sono Miharu, fata delle acque»
«È ridicolo»
«Dalle una prova» disse Lothus.
«Cosa?» replicò Miharu.
«Ho detto dalle una prova. Mostrale la tua vera natura».
Titubante Miharu acconsentì. Alessia aguzzò la vista e sporse la testa in avanti chiedendosi cosa avrebbe fatto. Le mostrò il palmo della mano e improvvisamente comparì una sfera d’acqua che prese a fluttuare.
«No, non… non è possibile...». La testa iniziò a girarle, le pulsavano le tempie. Era la prima volta che provava una sensazione del genere. Si piegò in avanti, posò le mani sulle ginocchia e inspirò.
«Oh mio Dio!» gridò Miharu correndo accanto ad Alessia preoccupata. «Alessia! Alessia! Cosa ti succede?!».
Subito fu circondata da Raziel, Lothus e Jaki.
Non riusciva più a respirare e la vista le stava diventando opaca. Più cercava di respirare più le si chiudeva la gola.
All’improvviso, Jaki la prese tra le braccia e la portò verso la sedia. «Metti la testa fra le ginocchia» disse.
Mise giù la testa, mentre Jaki teneva la mano sulle spalle di Alessia. Respirò tentando di riempire i polmoni. Lentamente, sentì l’ossigeno rimettersi in circolo.
«Va meglio?» chiese Jaki dopo un paio di minuti.
Alessia annuì.
«Resta così e respira».
Alessia seguì le sue istruzioni mentre la morsa che aveva nel petto si allentava. «Grazie» mormorò.
Le sue amiche che avevano assistito in silenzio e terrorizzate alla scena, tirarono un sospiro di sollievo.
«Cos’è successo?» chiese Miharu, la voce le tremava ancora per lo spavento.
«Un attacco di panico» rispose Jaki.
«Ve l’avevo detto io! Vi avevo detto io di essere delicati!» sbottò Miharu. La preoccupazione cedette il posto alla rabbia. «Ma voi non mi ascoltate mai! Stavamo per ucciderla!»
Ma nessuno ci badò. Erano troppo concentrati su Alessia.
«Voi... voi...»
«Sì» rispose Jaki accarezzandole i capelli con fare paterno.
«Io... io...»
«Sì».
A turno si presentarono, rivelando le loro vere identità. Alessia li ascoltò passiva, troppo frastornata per riuscire a metabolizzare tutte quelle informazioni. Troppe cose aveva scoperto in un solo giorno e rischiavano di ucciderla.
«Perché… perché non me l’avete detto prima?»
«Non potevamo» rispose Raziel. «Scusaci».
«Per... per tutto questo tempo... voi… voi avete finto di essere miei amici...»
«No, Alessia...»
«Io mi fidavo di voi. Credevo che... foste miei amici e invece...»
«Ascolta Alessia…»
«Invece avete finto per tutto questo tempo! Mi avete ingannato! Vi siete divertiti alle mie spalle!». Alessia si asciugò bruscamente una lacrima che era riuscita a scappare fuori.
«No, ti prego Alessia lascia che ti spieghi...» mormorò Miharu.
«Vi odio. Io... vi odio tutti!»
Si girò e velocemente uscì di casa sbattendo la porta, il cuore gonfio di dolore fuggendo da una realtà crudele e fantastica. Non voleva credere di essere una guerriera, significava accettare il fatto di essere stata ingannata da quelli che aveva considerato i suoi migliori amici.
Li lasciò lì, soli nella sua cucina.
«Alessia!» gridò Miharu ma la ragazza era già troppo lontana perché lei potesse sentirla.

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Capitolo 12
*** Bloody Rain ***


Vorrei ringraziare le mie care amiche, Nemesis No Tamashii Spnbiri per avermi corretto gli orrori grammaticali. 

The Defender Of Magic
Capitolo 12 - Bloody Rain

 
«L’avevo detto io! L’avevo detto io!» continuava a ripetere Miharu. «Dovevamo essere delicati ma no! Gli abbiamo sbattuto in faccia la verità come una pesante porta blindata! Una cascata fredda...»
«Abbiamo capito» la interruppe Lothus.
«Non possiamo lasciarla vagare da sola per la città» mormorò Jaki. «È troppo scossa e finirebbe sicuramente preda dei nemici»
«Per non parlare delle auto» aggiunse Raziel. «C’è anche la possibilità che venga coinvolta in un incidente d’auto. Potrebbe finire investita!».
«Non c’è tempo da perdere» mormorò il Cavaliere «dividiamoci. Io andrò a Est, Miharu a Sud, Lothus a Nord e Raziel a Ovest».
Annuirono e si separarono. Miharu si vibrò in volo, nascondendosi dentro le nuvole per non farsi vedere dai mortali, gli altri tre proseguirono a piedi.
Jaki sfrecciava fra le strade della città, scontrandosi qualche volta con i passanti e rischiando di finire sotto un auto quando attraversava senza dare la precedenza, rispettare la segnaletica stradale, o peggio ancora, guardare la strada.
Il suono di un messaggio catturò la sua attenzione. Con il cuore gonfio d’ansia, prese il cellulare e lesse il nome sul display. Alessia. Avevano provato a telefonarla senza sosta ma la ragazza aveva spento il cellulare per non essere rintracciata. Ora invece era ritornato attivo e lei gli aveva scritto. Aprì il messaggio e lesse febbrile:
 
Al mio caro amico Jacopo.
Quest’oggi ti libererò dall’incantesimo
e dal peso di quella strega.
Curunìr.
 
Una sensazione sgradevole gli attanagliò la bocca dello stomaco. Lesse il messaggio altre due volte, posò il cellulare in tasca e corse più veloce che poté.
La sua, una corsa contro il tempo.
 


 
La prima cosa che Alessia notò fu che i colori le sembravano diversi.
Non si trovava più nella sua cucina ma in una stanza diversa. Una stanza piuttosto grande, una sorta di aula magna. Grandi finestre apribili e una fila di lampade al neon sul soffitto. Però Alessia non vedeva nemmeno un mobile. Sbatté le palpebre più volte. La forte luce aveva abbagliato i suoi occhi costringendola a richiuderli subito. Li riaprì alcuni minuti dopo, con cautela. Provò a coprirsi gli occhi con una mano ma solo in quel momento realizzò di avere una catena stretta ai polsi; la tenevano appesa al soffitto con anelli di metallo.
Terrorizzata, afferrò la catena sopra di lei e la strattonò con tutta la forza che aveva in corpo. I ganci resistettero, ma lei non si arrese. Continuò a tirare con violenza, incurante delle ferite che si stava procurando. Doveva fuggire.
«Aiuto!» gridò disperata. «Vi prego! Qualcuno mi aiuti! Mi sentite? Aiuto!».
Alla fine fu costretta ad arrendersi e si abbandonò, esausta; sangue caldo le sgorgava dai polsi e le colava lungo il collo e la schiena. A fatica riuscì a sopprimere un conato di vomito, odiava il sangue. Solo sentirne l’odore la faceva stare male. Si costrinse a non pensare al sangue, a non guardarlo.
Provò a ricordare come fosse finita in quella situazione ma l’ultimo ricordo che aveva era il litigio con i suoi amici.
Solo allora decise di guardarsi intorno con più attenzione. Al centro della stanza c’era una sedia. Una vecchia sedia di legno con i braccioli, piena di intagli complicati. Vi era seduto qualcuno. Era immerso nell’ombra e a giudicare dalla corporatura, era certa che la persona lì seduta fosse un uomo. Stava leggermente piegato in avanti, rivolto verso di lei.
Rabbrividì. Per tutto quel tempo, l’uomo era rimasto in lì in silenzio, quasi invisibile ad osservarla dormire, vederla dimenarsi nel disperato tentativo di liberarsi dalle catene e fuggire via da quel luogo a lei sconosciuto.
«Cosa vuoi da me?» chiese terrorizzata con un fil di voce.
«Salve» mormorò l’uomo con tono cordiale «mi dispiace aver dovuto usare le maniere forti, Alessia. A proposito, non ci siamo ancora presentati vero? Mi chiamo Curunìr piacere».
«Come... come fai a conoscere il mio nome?»
«Il tuo nome? So tutto della tua vita cara piccola Ainwen»
«Chi sei?» mormorò terrorizzata Alessia «mostrati».
L’uomo era immerso nell’ombra, ma quando si protese in avanti, verso la luce, Alessia lo vide benissimo. Aveva la carnagione lievemente olivastra, il volto lungo e scarno; occhi sottili e allungati, duri come pietre, di uno scintillante blu; i capelli erano lunghi, gli ricadevano sulle spalle, argentati. E poi, per quanto le sembrava impossibile, le orecchie... le orecchie erano allungate e appuntite.
L’uomo si toccò la punta delle orecchie. «Queste non ti dicono nulla?»
«Sono vere?» balbettò.
«Sì, certo che sono vere. Cosa credevi?»
«Sei un folletto...» Alessia era sconvolta.
«Ti sembro un folletto?»
Alessia non rispose.
«No» continuò irritato Curunìr «Io sono un elfo. Un elfo!»
«Sicuro di non essere un folletto?»  
«Sì ne sono sicuro» bofonchiò.
«A me sembri proprio un folletto» insistette Alessia.
«Sono sicuro! Vuoi forse farmi credere che non so cosa sono?!»
«D’accordo, se ne sei convinto tu...»
Il viso dell’elfo si contrasse in una smorfia irritata. «Non ti hanno raccontato la tua storia?».
Alessia scoccò la lingua sotto il palato. «Sì, mi hanno accennato qualcosa», ammise.
L’elfo si rilassò e le sorrise affabile. «Bene».
«Se vuoi i miei poteri...»
«No» la interruppe «i tuoi poteri non mi interessano. Sarebbero comodi è vero, ma no, non li voglio. Puoi tenerli»
«Si può sapere cosa diavolo vuoi da me allora?! Liberami subito!» sbottò. La paura aveva ceduto il posto alla rabbia.
«Sei un ospite, il testimone vivente del nuovo fatidico incontro tra me e Jacopo». Gli occhi dell’elfo brillarono per l’emozione. «Sì, questo è il posto perfetto per incontrare di nuovo Jacopo dopo così tanto tempo»
«Incontrare di nuovo? Che c’entri tu con Jaki?»
«Jaki?» ripeté velenoso. Lo sguardo che aveva negli occhi era più che folle. Era malvagio. Le afferrò la gola con la mano e iniziò a stringere, soffocandola. «Hai detto Jaki? Una ragazzina come te, che nemmeno lo conosce, si prende la confidenza di chiamarlo Jaki?!».
La porta al lato destro del trono si spalancò in silenzio. Una donna varcò la soglia. «Smettila. Non ha senso che ammazzi la ragazza adesso, ha il diritto di sapere prima di morire».
L’elfo lasciò la presa dal collo di Alessia. «Chiedo scusa. Abbi pazienza, Ainwen. Jacopo è il mio importantissimo amico del cuore, quando si tratta di lui perdo sempre la testa» spiegò sorridendole. «Preferisci che ti chiamo Alessia o Ainwen?»
«Alessia»
«Bene»
«Ci stai dando parecchi problemi ragazzina. Credevi davvero di cavartela così?» chiese la donna appena entrata. Sui trent’anni, capelli biondi come l’oro liquido, zigomi arrotondati e lineamenti morbidi. Aveva la chioma raccolta in una stretta coda di cavallo sulla nuca che le arrivava alle spalle. Indossava un abito in pelle nero, stretto e aderente, sembrava le fosse stato cucito addosso.
«Io... io non so di cosa tu stia parlando» mormorò Alessia sempre più confusa.
Anche la donna era un elfo. Le sue orecchie erano a punta proprio come quelle di Curunìr e sembrava più pericolosa di lui.
«Te lo spiego io» mormorò l’elfo sorridendo. «Tu sei quella che gli ha fatto un incantesimo, dannata strega».
Il sorriso dell’elfo era inquietante. Freddo, pungente. Ingannevole. Appariva innocente ma in realtà celava una lama affilata pronta ad infilzarti.
«Incantesimo? Cosa? Si può sapere di cosa stiamo parlando? Vi giuro, io non ci sto capendo più nulla! Spiegatevi!»
«D’accordo. Come ti ho detto io sono il migliore amico di Jacopo e tu, tu sei la strega cattiva, colei che gli ha lanciato un sortilegio»
«Cosa?!» sbottò Alessia. Quella storia era assurda, quell’elfo, qualsiasi fosse il suo nome, stava delirando. Lei una strega? Non sapeva neanche leggere i tarocchi figuriamoci lanciare un incantesimo. «Tu sei pazzo»
«Pazzo?» ripeté l’elfo «pazzo? Io sarei pazzo? Sì forse lo sono o forse no. Ho cercato di essere gentile con te ma non ci riesco. Quando guardo il tuo disgustoso viso mi viene voglia di... di...»
«Curunìr» lo richiamò la donna.
«Excuse-moi»
«Cosa ti ho fatto?» chiese Alessia. «Io non ti conosco! Non sapevo neanche della tua esistenza finché non mi hai rapito e rinchiuso qui!»
«Per colpa tua, Jacopo ha dovuto sostenere una prova! È stato ferito a causa tua! Da quando tu sei entrata nella sua vita, Jacopo sta avendo tanti problemi! Sei solo un peso per lui! Ma non ti preoccupare, io metterò fine ai suoi problemi e per farlo ti ucciderò. Se tu non ci sarai più, lui ritornerà ad essere libero, sarà di nuovo il mio importantissimo amico del cuore».
«Ja...» Alessia stava per dire Jaki ma si corresse in tempo. «Jacopo... io… io sono solo un peso per lui... la prova...» ripeté  interdetta abbassando lo sguardo al pavimento. Non poteva, non voleva crederci. Era tutto vero. Ogni singola parola che i suoi amici le avevano detto prima che fuggisse via e finisse dritta nella tela del ragno. E lei era stata così stupida da trattarli male. Adesso capiva. Avevano cercato di proteggerla da pazzi come Curunìr e lei si era comportata da ingrata con loro.
«Esatto. Per questo motivo, ti farò fuori poco a poco»
«Aspetta! Raccontami... della prova...»
«Vuoi sapere della prova? ».
La donna lanciò una spada all’elfo che l’afferrò al volo. Curunìr l’estrasse dal foderò e ne saggiò la lama. «La prova dici? Bene». Si avvicinò ad Alessia, i suoi occhi malvagi brillavano perversi. «Devi sapere che il Consiglio della Magia ha costretto Jacopo ad affrontare una prova. Un duello. Il suo avversario era abile ma Jacopo lo era di più. Le sue grandi doti però erano offuscate, distratte da qualcosa, da te. Per colpa tua è stato ferito più e più volte» l’elfo rapidamente mulinò la spada sopra la testa e iniziò a ferire superficialmente Alessia agli arti da cui sgorgò del sangue.
«E poi...»
La lama la colpì al fianco destro, appena sotto la gabbia toracica: la spada le trapassò la carne e Alessia impallidì.
«E poi gli ha trapassato il fianco» spiegò, leccando la lama grondante di sangue. «Delizioso, davvero delizioso».
Alessia ansimava. I muscoli feriti e sanguinanti le bruciavano, la vista iniziò a tremolare.
L’elfo sorrise e le sollevò la testa. I suoi occhi azzurri si specchiarono in quelli cioccolato della ragazza. «Hai capito adesso? Questo è solo un assaggio di ciò che Jacopo ha passato a causa tua. Tranquilla, sto per mettere fine alle sofferenze di entrambi perché anch’io ho un cuore. Ti ucciderò così vi libererò dalle pene».
L’elfo alzò la spada al soffitto. La lama scintillò illuminata dal neon.
Il terrore si impossessò di Alessia insinuandosi nelle sue membra come un potente veleno. «Dì addio alla vita, Alessia!» gridò euforico Curunìr abbassando la lama su di lei.
Gli occhi di Alessia si riempirono di lacrime bollenti. Terrorizzata si limitò a chiuderli e aspettare la sua morte. Non aveva la forza di gridare, di reagire, sapeva che sarebbe stato inutile; il suo corpo non poteva fare nulla, non in quelle condizioni, non immobilizzato alla parete del muro. Non voleva vedere gli occhi malvagi e folli dell’elfo ucciderla, preferiva di gran lunga il buio a quello sguardo perverso.
Il dolore però non arrivò mai. Immaginava di dover sentire un dolore così forte da mozzarle il respiro, più forte del fianco trapassato, ma nulla. Forse quell’elfo dopo tutte quelle sofferenze aveva deciso di darle una morte indolore...
Un rumore la costrinse ad aprire gli occhi.
L’elfo era lontano da lei e si massaggiava la guancia dolorante. E accanto a lei, c’era Jaki. Il viso aggrottato in una smorfia che non seppe decifrare. Forse era arrabbiato, forse teso, forse entrambi. Aveva il respiro corto.
L’elfo scoppiò a ridere. «Sei stato veloce Jacopo. Non mi aspettavo di vederti così presto. Capisco perché sei arrabbiato, però non fraintendere, quello che sto facendo è per il tuo bene»
«Il mio bene?» chiese il ragazzo.
«Certo. Quella donna è una strega che sta cercando di corromperti. Non te ne sei accorto, ma ti sta ingannando. Altrimenti perché avresti permesso a un essere inferiore come Austin di ferirti durante la prova? Per questo la uccido. Per cercare di salvarti».
Jaki corse verso di lui e gli assestò un pugno colpendolo alla guancia destra. «Tu vaneggi! E a quanto pare vuoi morire!»
Curunìr si alzò da terra e si asciugò il sangue all’angolo della bocca con la mano. «Jacopo sei accecato da lei. Io sono qui per aiutarti, io voglio aiutarti. Che tu lo voglia oppure no. Credimi. Se adesso la uccido tutte le tue sofferenze avranno fine»
«Davvero?» replicò sarcastico Jaki. «E chi ti dice che sto soffrendo?»
«Io ti conosco, te lo leggo negli occhi. Avresti dovuto perdere quella sfida così da liberarti per sempre di lei ma non l’hai fatto. Perché sei un tipo orgoglioso e non potevi permetterti di perdere contro quella nullità. Hai ragione. Anch’io avrei vinto ad ogni costo. Non potevi permetterti di venire umiliato in quel modo. Allo stesso tempo però hai firmato la tua condanna. Vedi, qualsiasi cosa tu avresti scelto sarebbe stata la tua rovina: perdere la sfida equivaleva a gettar fango e disonore su di te; vincere invece, continuare ad essere sotto il controllo di quella arpia. La morte di quella ragazza è l’unico modo per salvarti. Perché non lo capisci?»
«Perché la tua è una follia» rispose Jaki.
«Lo so, adesso la pensi così e mi odi, ma un giorno mi ringrazierai. Lo faccio per te». Curunìr mosse un passo verso Alessia ma Jaki velocemente si mise davanti a lei, facendole da scudo.
«Non ti permetterò di toccarla. Non più»
«Peccato. Davvero un peccato. Non mi resta che soccorrere la tua anima, uccidendoti con le mie stesse mani».
«Io non morirò e nemmeno Alessia, combatterò con tutto me stesso per proteggerla», rispose freddamente Jaki.
Curunìr si avventò contro di lui, vibrando un fendente diritto al ventre di Jaki, che balzò all’indietro riuscendo a bloccare a stento la spada.
«Jaki!» gridò Alessia, terrorizzata all’idea di vederlo morire a causa sua. Frustrata lottò contro le catene, in lacrime, non sapendo che altro fare per tentare di fermare ciò che stava per succedere. Non poteva fare a meno di sentirsi in colpa: se non si fosse arrabbiata con i suoi amici e non fosse fuggita in quel modo, Jaki non starebbe lì a rischiare la sua vita per lei. Era tutto sbagliato.
Le due lame sfregarono l’una contro l’altra fino a metà della loro lunghezza, e lì si fermarono. Per tenere ferma la spada di Curunìr, Jaki dovette usare tutta la sua forza. Gli tremavano le braccia. Curunìr era abile con la spada e non si sarebbe mai arreso. A guidarlo erano la rabbia e l’odio.
Alla fine l’elfo cedette e arretrò. «A quanto pare ti ho sottovalutato. Non sei più quello di un tempo. Sei l’unico uomo al mondo che ho rispettato... proprio per questo non ti perdono. Per liberarti dall’incantesimo di quella donna ormai non mi resta che ucciderti»
«Ti sbagli. Io non sono cambiato e non sono sott’incantesimo. L’unica cosa che è cambiata è la tua anima. È diventata marcia».
Ancora una volta Curunìr si lanciò all’attacco, mulinando furioso la spada sopra la testa.
Jaki studiò attentamente il modo in cui combatteva, e cominciò a capire i suoi movimenti. Non aveva uno schema ben in mente, colpiva alla cieca, offuscato da sentimenti negativi e questo lo rendeva un avversario pericoloso ma anche possibile da battere. Curunìr usava tutta la sua forza anche per scagliare affondi che di norma avrebbero dovuto impiegare meno energia e sforzo; si sarebbe stancato subito, Jaki doveva solo tenere duro e al momento opportuno attaccare fulmineo, segnando il colpo che avrebbe decretato la fine dello scontro, la sua vittoria.
«Puoi dire tutto ciò che vuoi. Non mi interessa. Ormai tu per me non sei più Jacopo». Curunìr fintò a destra, accompagnando la mossa con un gran urlo, e subito dopo fece guizzare la punta in un arco stretto per tentare di superare le difese di Jaki.
Jaki alzò la spada e ruotò il polso parando il colpo.
«È colpa tua, Jacopo. È colpa tua perché mi fai arrabbiare. Non sai quante volte ho fatto il possibile per evitare che avvenisse...»
«Non dire cose senza senso» replicò Jaki, «Non sei forse tu che hai causato tutto questo?»
Curunìr non l’ascoltò. «Nonostante questo è stato tutto inutile... tutto quanto!»
«Cosa vuoi dire?» chiese Jaki. Avevano smesso per un attimo di combattere.
Senza allontanare gli sguardi l’uno dall’altro, Jaki e Curunìr si aggiravano, studiandosi per anticipare le mosse dell’avversario.
«Sei davvero uno sciocco» mormorò deluso Curunìr. «Credevi davvero che quel... quel succhiasangue fosse stato in grado di rintracciare lei da solo? Una sanguisuga senza il minimo senso dell’orientamento? Sono stato io. Io gli ho detto chi era Alessia, io gli ho detto dove trovarla»
«Perché?»
«Era uno scambio equo. Lui avrebbe avuto i suoi tanti agognati poteri credendo di diventare una spanna più forte della mezza calzetta che in realtà era, e io, io non avrei dovuto sporcarmi le mani con la sua morte. Tutti avrebbero avuto quello che volevano. Vincevano tutti... ma si è dimostrato più incompetente di quanto pensavo, si è lasciato uccidere da una ninfa dei boschi» mormorò sprezzante «e ha costretto te a sostenere una prova. È difficile trovare buoni aiutanti al giorno d’oggi», sospirò.
«Non dirlo a me» replicò la donna.
Jaki si voltò a guardarla. Non si era accorto della sua presenza. Il suo sguardo correva da lei a Curunìr e si chiese come mai era rimasta lì  ad osservare la scena in silenzio.
«Non mi importa nulla» replicò la donna quasi gli avesse letto nella mente. «È una questione che riguarda solo Curunìr e io non ho intenzione di interferire».
Approfittando della distrazione di Jaki, Curunìr si scagliò all’attacco ferendolo al fianco, lo stesso punto dove un mese prima, Austin lo aveva trapassato. La ferità si riaprì ma Jaki sembrò non badarci e roteò il polso cercando di fermare la furia dell’elfo.
Si scambiarono colpi mortali e ogni qualvolta la lama feriva Jaki, Alessia strattonava le catene disperata. La tirava, la scuoteva, provò a usare il sangue dei polsi come ungente così da scivolare attraverso gli anelli di metallo, senza risultato. Le lacrime le offuscavano la vista, per il dolore e per la rabbia. Ogni qualvolta Jaki veniva colpito, sentiva il suo stesso dolore, così forte da farle male. Il cuore le batteva furioso nel petto e sentì il suono sordo del sangue rimbombargli nelle orecchie. I polsi continuavano a bruciarle, così lesionati da aver danneggiato il muscolo ma non ci badò e continuò ad agitarsi nel tentativo di liberarsi. Il corpo pervaso da forti tremori.
«Jaki!» gridò Alessia, il viso solcato dalle lacrime.
«Sta’ zitta! Tu sei la colpevole di tutto questo... taci misera sgualdrina!»
«Non rivolgerti a lei in quel modo!» tuonò furioso Jaki partendo all’attacco e menando una serie di fendenti e affondi. Curunìr riuscì a pararli a tutti senza molta difficoltà. La spada di Curunìr sotto quella di Jaki e i due si separarono. E poi, un istante prima del Cavaliere, Curunìr scattò in avanti, affondando prima a destra e poi a sinistra e infine contro le costole di Jaki. Ma l’elfo non si fermò: si ritrasse di colpo e subito dopo attaccò di nuovo, affondando la punta nel fianco trapassato.
Alessia gridò terrorizzata.
Jaki lasciò l’elsa della sua arma, che cadde sul pavimento con un tonfo metallico. 
«Jaki! Jaki! Jaki!» continuava a gridare senza smettere di strattonare la catena. Il dolore di poter perdere l’amico era distruttivo se paragonato alle sue ferite.
Jaki cadde a terra in ginocchio, si portò una mano al fianco poi vomitò sangue.
Curunìr si avvicinò a Jaki. I suoi occhi erano umidi di lacrime ma freddi come il ghiaccio. «Questo è il nostro addio, Jacopo!».
«NO!» gridò Alessia con tutto il fiato che aveva in gola.
Qualcosa di poco familiare irruppe nelle sue vene. L’adrenalina, che chissà da quanto non le scorreva dentro, fece galoppare il cuore a mille. 
E con un ultimo grido la catene che la teneva bloccata cedette, sradicandosi dal muro. Alessia cadde in avanti, in ginocchio, e sollevò lo sguardo verso i due, nessuno si era accorto che era riuscita a liberarsi. Con uno scatto fulmineo corse verso Jaki. Il ragazzo aveva recuperato la spada, si era rimesso in piedi e cercava di difendersi dalla furia di Curunìr senza grandi risultati; E quando Jaki si abbassò per schivare la lama di Curunìr, Alessia saltò, sferrando un calcio in pieno viso all’elfo, così forte da fargli perdere la presa sull’elsa e cadere a terra, a diversi metri da loro.
«Maledetta!» gridò Curunìr rimettendosi in piedi, ma prima di muovere un passo verso di lei, Alessia aveva afferrato al volo la spada e fulminea si avventò contro Curunìr mirando al ventre, squarciandolo a metà. L’elfo cadde a terra, in una pozza di sangue morente.
Lanciò uno sguardo carico d’odio alla ragazza poi esalò l’ultimo respiro.
Dall’altro lato della sala un grido carico di dolore e odio, squarciò il silenzio della stanza. Alessia sollevò lo sguardo. A gridare era la stata la donna bionda. La donna estrasse dalla scollatura della tuta un pugnale e furiosa si avventò contro Alessia. Alessia si abbassò e con un rapido movimento le trapassò il cuore per poi vederla cadere a terra, priva di vita.
«A-Alessia» chiamò Jaki.
Alessia non si mosse. I suoi occhi fissi sul cadavere della donna.
«Ainwen» tentò ancora.
«Dimmi» mormorò voltandosi verso Jaki. I suoi occhi castani erano completamente bui e assorbivano ogni parola, ogni gesto di Jaki come un buco nero.
«Perché... perché sei qui?»
Lei si limitò a sorridere. «Bye bye»
«No, aspetta!».
Ma era troppo tardi. Al suo posto c’era Alessia. La ragazza batté le palpebre confusa e si guardò intorno. Le ferite avevano riprese a farle male e barcollò avanti e indietro nella speranza di non perdere l’equilibrio.
«Jaki!» gridò correndo verso il ragazzo.
Il ragazzo le sorrise. Era caduto a terra in ginocchio, mentre lei uccideva la bionda. Si strinse le braccia intorno alla vita, si piegò in due e abbandonò la fronte sulla pietra levigata.
«Alessia... sei proprio tu?»
«Sì» rispose la ragazza, gli occhi bagnati dalle lacrime.
«Stupida» mormorò il ragazzo chiudendo gli occhi.
«No! No! NO!».
Lo sdraiò a terra e osservò le ferite: aveva tagli ovunque, ma le ferite più gravi erano il fianco trapassato e un profondo taglio: partiva dal pettorale destro, gli attraversava lo sterno e finiva sotto il capezzolo sinistro.
«Oh, mio Dio! Oh, mio Dio! Oh, mio Dio! Cosa devo fare? Cosa devo fare?!» si chiese, fissando impotente il corpo martoriato dell’amico.
«Jaki? Mi senti? Ti prego, non morire! Apri gli occhi! Maledizione! Non puoi morire così! Non... io... io... io non voglio che tu muoia! Non puoi! Mi hai sentito? Io... io non lo permetterò!».
Poggiò la mano sul petto insanguinato, pensando a qualcosa per chiudere o quanto meno, coprire la ferita, l’aveva visto fare in un telefilm poliziesco, come prestare il primo soccorso ad un paziente in quelle condizioni, ricordava vagamente qualcosa che aveva a che fare con le sue dita, doveva inserirle da qualche parte per... per... le mani le tremavano così come la vista. Alessia lo sapeva bene. Non doveva toccarlo se non sapeva cosa fare, ma non poteva neanche lasciarlo lì in quello stato. In ogni caso, qualsiasi scelta avrebbe fatto il risultato non sarebbe cambiato, Jaki sarebbe morto. Perché non tentare il tutto per tutto dunque? Non voleva arrendersi, non senza lottare. Non dopo averlo visto difenderla con tutte le energie contro quel pazzo. Era in debito con lui. Si sentiva troppo responsabile nei suoi confronti. 
«Ti prego... non morire...» gli sussurrò flebilmente all’orecchio.
E poi accadde qualcosa di incredibile. Senza rendersene conto, la mano poggiata sul petto s’illuminò di una luce dorata e una sensazione calda e piacevole fluì da lei per entrare nel corpo del ragazzo.
Non sapeva cosa stava facendo, né come faceva. Sapeva solo di doverlo fare per il bene di Jaki. La ferita scintillava e per quanto impossibile, Alessia ebbe la sensazione di vederla risanarsi lentamente. Come sabbia in una clessidra.
«Va tutto bene» singhiozzò Alessia, «presto tornerai a star bene».
Jaki riaprì gli occhi, il viso sofferente, e le sorrise.
Alessia tirò un sospiro sollevato, vedendo Jaki riprendere i sensi e ritornò a tranquillizzarlo, accarezzandogli dolcemente i capelli con la mano libera, tremante.
«Alessia!».
Sollevò lo sguardo e vide tre figure correre verso di lei, ma ci volle molto tempo per metterle a fuoco, abbastanza da capire chi fossero.
Alessia scosse la testa e batté più volte le palpebre. Davanti a lei c’erano Lothus, Raziel e Miharu.
Mentre li raggiungeva, Lothus ficcò la mano dentro la borsa che aveva con sé. Tastò una serie di oggetti: sentì la plastica del cellulare, la pelle del portafogli...
«Maledizione! Dove diavolo è andata a cacciarsi?!».
Afferrò una fiala. All’interno vi era uno strano liquido rosso sangue.
Si avvicinò ad Alessia ma lei scosse la testa. «Io sto bene, pensa a Jaki!». Si allontanò da lui e lasciò campo libero all’amica.
Jaki era sdraiato a terra, il volto bianco grigiastro e gli occhi socchiusi. «Sto bene» rantolò.
«Sta’ zitto stupido!» gridò furiosa e spaventata, passandosi la mano sporca di sangue sul viso per spostare dagli occhi i capelli madidi di sudore.
Lothus si avvicinò al Cavaliere, gli sollevò la testa e gli fece bere il contenuto della fiala. Poi ne prese un’altra, di colore giallo, e versò cinque gocce su ogni ferita. Si levò un fumo grigio misto a scintille dorate e quando si fu dissolto, Alessia vide che il sangue si era fermato. La ferita stava guarendo da sola, sembrava già vecchia di qualche giorno; uno strato di pelle fresca stava ricrescendo su quella che un attimo prima era carne aperta.
«Come ti senti?» sussurrò Alessia.
«Bene» gracchiò lui in risposta, e assunse il suo solito sorriso sghembo.
«Sicuro?»
«Tranquilla».
«Alessia, è il tuo turno». Lothus strappo il tappo e esattamente come con Jaki, versò tre gocce sulle ferite sanguinanti. Quando si levò il fumo, Alessia cominciò ad avvertire un prurito insopportabile e doloroso come un mal di denti.
«Fa male» gemette stringendo i denti.
Lothus non rispose, si limitò a sorridere fra sé.
Il prurito risalì in superficie, e, quando superò lo strato di pelle, il dolore svanì.
«Ecco fatto, ho finito», mormorò Lothus posando le provette vuote nella borsa.
Barcollando Alessia si rimise in piedi. Osservò le amiche una ad una e sentì un’ondata di gratitudine. «Siete arrabbiate con me?»
«Arrabbiate?» Miharu scrollò le spalle. «Sono fiera di te. Hai sconfitto da sola quell’elfo. Che te ne fai di noi accanto?»
«Dafne...»
«No» la interruppe l’altra, «te lo spiego io perché ti fa comodo avere noi accanto: per tenerti fuori da catastrofi come quella in cui ti stavi ficcando! E come se niente fosse, vorrei aggiungere. Ma che ti è saltato in mente? Fuggire in quel modo poi!»
«Ci hai fatto prendere una paura del diavolo» disse Raziel.
Alessia ascoltava lo sfogo delle amiche in silenzio non osando controbattere in alcun modo. Avevano ragione. Se Jaki non fosse arrivato in tempo, adesso sarebbe carne morta. E per colpa sua Jaki aveva rischiato di morire a sua volta.
«Lo so, scoprire di essere la reincarnazione di un guerriero ti ha sconvolto ma noi non ti abbiamo mentito, la nostra amicizia è sincera, se non lo fosse non saremmo qui a cercarti».
Alessia non rispose e abbassò lo sguardo al pavimento di pietra bagnato di sangue. Si vergognava troppo. E non voleva affrontare il litigio, non ora almeno. Si sentiva stordita, spaventata e spossata per l’esperienza vissuta ma le sue amiche invece, volevano chiarire al più presto quell’incresciosa situazione così da non doversi trascinare dietro all’infinito quel fardello. Alessia preferiva sempre il “poi” al “prima”. Per non parlare del “mai”.
Raziel fece un cenno del capo a Lothus; la ninfa si avvicinò sollevandosi le maniche della maglietta verde mostrandole le braccia: erano piene di bruciature, tagli e lividi.
«Ma...» mormorò Alessia sopprimendo un conato di vomito.
«Abbiamo dovuto sostenere una prova per continuare ad essere tuoi tutori e amici» spiegò Lothus riabbassando le maniche, «se avessimo fallito il Consiglio della Magia avrebbe alterato i tuoi ricordi rimpiazzandoci con altri. Se questa non è vera amicizia, allora non so cos’è...»
«Mi dispiace». Alessia trasalì. Il suo comportamento era stato inqualificabile. Li aveva trattato malissimo mentre loro rischiavano continuamente la vita per lei.
“Bell’amica”pensò “Sono proprio un’ipocrita!”.
«Scusatemi. Io... io non volevo dire davvero quelle cose... ero shockata, non è vero che vi odio... potete perdonarmi?» furono le uniche cose che riuscì a dire. Voleva dire di più ma la vergogna e il senso di colpa che provava erano così forti da non saper esprimerle, non trovava le parole e qualsiasi cosa avrebbe detto le sarebbe sembrato di minimizzare.
«Cosa ne dite ragazze?» chiese Raziel guardando le amiche. «Possiamo?»
«Mah... non saprei...» fu la risposta di Miharu.
«L’ha fatta grossa questa volta e io ho ancora queste ferite dalla prova...» replicò Lothus.
«Vi prego! Farò qualsiasi cosa vogliate! E non mi lamenterò più!» piagnucolò Alessia.
«D’accordo» risposero le tre ragazze sorridendo.
«E tu Jaki? Mi perdoni?»
Jaki nel frattempo si era ripreso. Adesso era seduto a terra e sorrideva. «L’ho già fatto, tranquilla»
«Grazie».
«Bene» mormorò Raziel «adesso che Alessia sa la verità dobbiamo iniziare subito il suo addestramento. Ha subito troppo attacchi, gli ultimi a distanza di soli due giorni e non possiamo rischiare. Io direi subito di iniziare con Jacopo»
«Certo» rispose lui.
«Jaki?» chiese Alessia «perché proprio lui?»
«Vedi Alessia, ognuno di noi è qui per insegnarti qualcosa. Miharu ti insegnerà l’uso della magia, come usarla, i tipi di magia esistenti, riconoscere gli effetti di un incantesimo; Lothus invece ti insegnerà come mescere le pozioni dalle più semplici alle più potenti. Bada bene, può sembrare semplice ma non lo è. Anche i migliori maghi e streghe sbagliano e credimi, la storia testimonia tantissimi eventi del genere, alcuni davvero disastrosi e macabri ma molti sono davvero divertenti. Io ti darò la conoscenza, insieme ricorderemo le tue vite passate, studierai tutte le razze presenti in questo mondo, i loro punti deboli da sfruttare per fermarle quando infrangeranno le leggi, ti insegnerò a concentrarti, a tenere sotto controllo i tuoi poteri e a usarli nel modo più corretto, sarò il filo conduttore che legherà tutti gli insegnamenti ricevuti; infine Jacopo ti insegnerà l’arte della scherma e il combattimento corpo a corpo» spiegò Raziel.
Alessia annuì ascoltando con attenzione. «Leggi? Ci sono delle leggi?»
«Certo! Cosa pensavi? Anche noi siamo civili anzi ti dirò di più, gli umani non fanno altro che guardare e copiare! La maggior parte delle cose lo devono solo a noi e a nostri insegnamenti»
«Che genere di poteri ho? Tutti li vogliono... e come fanno a prenderli?»
«Queste informazioni te le svelerò durante il nostro allenamento. Se ti rivelassi tutto ora a cosa servirebbero le mie lezioni?» ridacchiò.

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Capitolo 13
*** Ciò che non uccide, fortifica ***


The Defender of the Magic
Capitolo 13 – Ciò che non uccide, fortifica

 Una sequenza di sibili echeggiò in tutta la radura.
Jaki stava combattendo da solo, contro un avversario invisibile.
Ingaggiò una rapida sequenza di toccate e parate con movimenti esperti. Deviò una lama avversaria immaginaria in un ampio arco sulla sinistra e affondò in avanti. Fece roteare la spada sopra la testa e la calò di taglio, con una mossa che avrebbe falciato a metà qualsiasi avversario; bloccò la spada a un palmo dal suolo: la lama vibrava nel suo pugno, e contro il verde del prato il metallo azzurro si stagliava lucente, quasi irreale.
Alessia lo guardava incantata.
Non era la prima volta che vedeva Jaki combattere, era già successo il giorno prima quando quel folle di un elfo l’aveva rapita eppure non riusciva a smettere di osservarlo. Ora che Jaki non rischiava la vita, poteva guardarlo tranquilla, senza temere per la sua incolumità. Veloce come il vento, silenzioso come la foresta, aggressivo come il fuoco. Quando le avevano spiegato la situazione e la suddivisione delle sue materie di studio con i rispettivi tutori, non avrebbe mai immaginato che Jaki fosse tanto bravo; lo aveva sospettato è vero, altrimenti non sarebbe stato scelto lui, ma non pensava fino a quel punto.
Era qualcosa di strabiliante.
Sembrava che danzasse. Una bellissima danza omicida.
«Sei in ritardo».
Quelle parole la destarono dal suo sogno ad occhi aperti. «Cosa?».
«Sei in ritardo» ripeté lui continuando a menare fendenti.
«Scusa, non volevo. È solo che ho perso il pullman e ho dovuto prendere il successivo e...»
«Tranquilla» la interruppe Jaki sorridendole. «Non preoccuparti, non è un problema».
Ecco. Qualsiasi cosa Alessia diceva o faceva, Jaki non si arrabbiava mai. Era davvero incredibile.
Più volte Alessia si era ritrovata a chiedersi il perché di quel comportamento tanto strano perché prima o poi capita di arrabbiarsi con qualcuno, per quanto lo si voglia bene è normale che succeda ma lui no. Eppure lo conosceva da tanto tempo, e a differenza delle sue amiche lui non si era mai arrabbiato con lei. Qualsiasi cosa combinasse, lui ci passava sopra incurante della gravità delle sue azioni e quando gli chiedeva scusa per i suoi comportamenti infantili lui le rispondeva prontamente: «Sono io che devo scusarmi per il mio comportamento e ringraziare te perché mi sopporti». Peccato che lui non aveva nulla di cui scusarsi né doveva essere lui a ringraziare lei.
Alessia si concesse un sorriso. Era sempre buono e premuroso con lei.
«Grazie».
Se fosse stato un allenamento con Raziel o Miharu di sicuro adesso sarebbe carne per barbecue. Insomma, due ore di ritardo non è roba da poco!
«Bene, io direi di iniziare subito. Oggi ti insegnerò la sacra arte della scherma. Devi sapere che non c’è posto per le forme di guerra moderne. Pugnali, fioretti, frecce, dardi e grandi spade: queste saranno le tue armi fino alla fine dei tempi. La tecnologia lasciamola ai comuni mortali, queste armi sono più che sufficienti. Non dimenticare: dalla tua parte avrai sempre e comunque i tuoi poteri» spiegò Jaki.
«Il punto fondamentale è scoprirsi il meno possibile» continuò «quindi carica il peso sul piede opposto alla mano con cui impugni la spada, porta avanti l’altro, e avanza e retrocedi, dentro e fuori dalla portata dell’avversario».
All’improvviso Jaki lanciò la spada che aveva in mano e Alessia l’afferrò con grande prontezza di riflessi. Jaki si concesse un sorriso divertito che Alessia non seppe interpretare.
«Per ora useremo queste per allenarti. Sarebbe un suicidio per te iniziare fin da subito con delle spade vere».
«Non capisco» mormorò confusa la giovane guerriera.
«È semplice. Per quanto possano sembrare vere queste non sono altro che delle spade giocattolo, sono simili a quelle usate nella scherma. Vedi?» gli chiese toccando la lama della spada «non è stata affilata e per di più la punta è arrotondata. Questo impedirà di ucciderti o di farti male seriamente».
Alessia guardò la spada e saggiò la lama. In effetti non era per nulla affilata. Si rigirò la spada nelle mani perché non sapeva come reggerla: litigò con l’impugnatura, incapace di decidere se prenderla nella sinistra o nella destra. Era mancina. Scriveva, mangiava con la sinistra ma quando aveva provato a tenere la spada aveva avvertito una sgradevole sensazione, come se fosse sbagliato reggerla con quella mano. Non sapeva spiegarselo neanche lei.
Senza dire nulla, Jaki si mise alle sue spalle, gli appoggiò il petto contro la schiena, e, praticamente abbracciandola, le prese la mano sinistra, facendole impugnare la spada.
«Nell’uso della spada ero mancino» gli disse.
«Cos’è successo?» chiese incuriosita.
«Sono dovuto diventare ambidestro. E anche tu lo sarai ma più avanti. Adesso è importante che tu sappia usare la spada almeno con una mano».
Alessia era senza parole.
Jaki si chinò in avanti e gli lanciò un’occhiata d’intesa. E mentre gli sistemava la presa sull’impugnatura, Alessia avvertì qualcosa di caldo e tranquillo fluire in lei dalle dita del ragazzo. L’aiutò a disporre le dita sotto la guardia e sull’impugnatura. «Se stringi troppo la lama perderà di velocità, e anche la tua difesa sarà meno rapida. Ma se stringi troppo poco la lama può volarti di mano».
Alessia annuì cercando di memorizzare tutte le informazioni. Non doveva né stringere troppo né poco. Facile a dirsi.
Jaki allentò la presa sulla mano di Alessia e si allontanò da lei la per vedere se riusciva a eseguire quel semplice passo.
Una cosa semplice da fare eppure Alessia si sentiva agiata. Le faceva strano venire addestrata dal suo amico Jaki, era il suo cocco e lei la sua bambolina. Questo non sarebbe mai cambiato fra loro, beh è quello che sperava. Inoltre si sentiva sotto esame, in soggezione. Lui non l’avrebbe giudicata né si sarebbe arrabbiato con lei –non lo faceva mai– eppure aveva paura di sbagliare e di sfigurare davanti a lui.
Strinse l’impugnatura stando attenta a non usare troppa forza ma Jaki scosse il capo.
«Non ci siamo» mormorò portandosi dinnanzi a lei. Estrasse un’altra spada dal fodero legato al fianco sinistro e con un gesto fulmineo menando un fendente laterale verso Alessia, le fece volare via dalle mani la spada e altrettanto velocemente affondò in avanti, toccandola appena sul cuore. Non sentì alcun dolore. La lama l’aveva solo sfiorata.
«Capisci cosa voglio dire?» gli chiese recuperando la spada di Alessia. «Se stringi troppo poco la spada ti volerà di mano e a quel punto sarai un spiedino pronto per essere cotto. Questa non è solo uno strumento di attacco ma può essere anche la tua ancora di salvezza. Se non hai uno scudo con te puoi parare la maggior parte dei colpi se sarai abbastanza agile; bada bene alle mie parole: non tutti ma quasi».
Alessia annuì e prese la spada che Jaki le porgeva.
«Stai stringendo troppo adesso»
«Come lo sai?»
«Le nocche ti stanno diventando bianche» spiegò indicandole la mano.
Ancora una volta Jaki si portò dietro di lei, avvolgendola nel suo abbraccio, le sue dita guidarono ancora una volta quelle di Alessia, stringendole sull’impugnatura dell’arma subito sotto la guardia. Poi, con una mano sulla spada e l’altra sulla spalla, Jaki mosse un passo leggero di lato, abbozzando un movimento.
Alessia annuì.
A quel punto Jaki si posizionò di nuovo di fronte ad Alessia e sorrise.
«Pronta?»
«Non... proprio!»
«En garde!» esclamò Jaki.
Si studiarono per un momento, poi Jaki si avventò contro di lei, roteando la spada. Alessia tentò di bloccare l’assalto, ma fu troppo lenta. Guaì quando Jaki la colpì alle gambe e cadde a terra.
Senza riflettere, si scagliò in avanti, ma Jaki parò facilmente il colpo. Troppo prevedibile. Allora mirò alla testa di Jaki, ma all’ultimo momento deviò la traiettoria della spada, con l’intenzione di colpirlo al fianco. Il sonoro schiocco del legno contro le ossa. Jaki non solo aveva schivato il colpo, ma aveva anche replicato la mossa di Alessia e a differenza di quest’ultima il tiro era andato a buon fine: infatti, era riuscito a colpirla al fianco. Alessia avvertì un’esplosione di dolore mozzarle il respiro. Crollò come un sacco vuoto, stordita.
Un getto d’acqua fredda la fece rinvenire, le scoppiava la testa. Jaki era in piedi accanto a lei, la spada posata sulla spalla e l’osservava disinvolto.
«Mi hai fatto male» disse Alessia infuriata, alzandosi.
Le gambe le tremavano, faticava a reggersi in piedi.
Jaki inarcò un sopracciglio. «Un vero nemico non ti tratterebbe con i guanti come sto facendo io. Ci sto andando piano con te. Più di così non posso. Non impareresti nulla. Non si insegna con la teoria ma con la pratica e questo può portare dei dolori».
Alessia strabuzzò gli occhi incredula. «Piano? Tu ci stai andando piano? Vuoi scherzare?! Sono svenuta e ho dolori ovunque! Per colpa tua mi usciranno dei lividi grossi quanto una mongolfiera! Sono delicata io! La mia pelle è sensibile!»
«Sempre meglio avere dei lividi che perdere la vita in uno scontro non ti sembra?»
«No, non mi sembra affatto! Per niente! Non ho scelto io di combattere! Io... io non voglio essere una guerriera!»
«Alessia...»
«No! Alessia niente! Sono stufa di tutta questa storia! Nessuno mi ha mai chiesto se accettavo l’incarico, nessuno mi ha mai dato l’opportunità di scegliere, sono stata obbligata!».
Raccolse la spada che Alessia aveva lasciato cadere a terra e disse: «Ancora. En garde!»
Alessia scosse il capo. «No, ne ho abbastanza di tutta questa storia! Me ne vado!» si volse per allontanarsi quando sulla schiena si abbatté un colpo violento, gridò.
Si girò di scatto, le lacrime agli occhi per il dolore.
«Regola numero due. Non devi mai voltare le spalle al tuo nemico, può esserti fatale» disse Jaki. Gli lanciò la spada e ripartì all’attacco. Alessia indietreggiò mentre Jaki continuava a gridare istruzioni; Alessia però non lo ascoltava, ferita e arrabbiata menava colpi alla cieca nel tentativo di ferirlo e allo stesso tempo di schivare i suoi colpi.
«No, no, no! Ti ho detto di piegare le ginocchia!»
«Sta’ zitto!»
«Ti sto insegnando come si combatte!»
«Sta’ zitto!».
Jaki sospirò affondando la spada nel fianco destro di Alessia.
Ancora una volta le si mozzò il respiro e Alessia crollò a terra priva di sensi.
Quando Alessia si risvegliò ormai era il tramonto. L’ultimo raggio di sole danzava tra sottili strati di nuvole. Cercò di mettersi seduta, ma le sfuggì un grido soffocato, il suo corpo aveva qualcosa di strano. Ogni singolo muscolo, osso, cellula, le faceva male. Si sentiva un gigantesco livido.
«Oh, ben svegliata».
Jaki era accanto a lei, seduto sull’erba con un piccolo ramoscello in bocca e osservava il tramonto. «È molto bello non credi? Il tramonto intendo».
Alessia non rispose.
«Forse avremmo dovuto iniziare con qualcosa di più semplice delle spade, come ad esempio il corpo a corpo. Saresti stata di sicuro più agile»
«Tu dici?» chiese sarcastica e allo stesso tempo irritata.  
«Mi dispiace averti riempito di lividi, non era mia intenzione».
Alessia non riuscì a trattenere una smorfia sarcastica.
«Sul serio» mormorò lui voltandosi a guardarla. «Non voglio che ti accada nulla di male. Sto solo cercando di prepararti al meglio così da poter affrontare e sconfiggere qualsiasi nemico intralcerà la tua missione. E se per tenerti in vita dovrò riempirti di lividi grandi quanto una mongolfiera, beh allora sarò felice di procurarteli».
Ecco adesso si sentiva un verme. Non sarebbe mai dovuta essere sgarbata con lui. Cercava solo di aiutarla e il fatto che mentre era svenuta lui gli aveva medicato e fasciato le ferite poteva solo significare una cosa. Non voleva il suo male. «Scusa per prima, per... per quello che ti ho detto»
«Non devi scusarti. Va tutto bene».
Ancora una volta lui la giustificava. Quando si comportava così lo odiava a morte. Preferiva di gran lunga ricevere un rimprovero invece che compassione o pena.
«Invece sì» ribatté.
«No. Non devi invece»
Non riuscì più a trattenersi e scoppiò. «Perché? Perché non ti arrabbi mai con me? Perché non mi sgridi come farebbe una persona normale? Perché?!»
«Perché dovrei?»
«Perché? Perché sbaglio sempre con te! Ti ho trattato malissimo! Per una volta, una sola volta vorrei che ti arrabbiassi con me come farebbe una persona normale! Tu non te ne rendi conto ma i tuoi sorrisini, questo tuo modo di comportarti mi fanno stare male!»
«Io non potrei mai arrabbiarmi con te»
«Cosa?»
«Non ne ho la forza, né il coraggio. Qualsiasi cosa tu faccia mi basta guardarti, sentire la tua voce e tutto passa. Non so spiegarti neanch’io il perché. In qualche modo plachi il mio animo e non so se è per via del tuo essere la guerriera mistica o semplicemente perché è una tua specialità»
«È assurdo» bofonchiò Alessia appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «Te ne rendi conto?»
«Sì, ma è così. Per qualche strana ragione non riesco ad arrabbiarmi con te. Inoltre...»
«Inoltre?»
«Sei una ragazza molto fragile e non potrei fare mai nulla che ti ferisca»
Alessia arrossì e distolse lo sguardo da lui. Non era la prima volta che si trovava di fronte a simili sentamentalismi. Il settanta per cento delle loro conversazioni finiva sempre in quel modo. E lei non sapeva dire se questa cosa la spaventava oppure le piaceva. I sentimenti, le persone, tutte cose troppo complicate. Quando si trovava in situazioni del genere, non sapendo cosa dire, come reagire preferiva fuggire via oppure cambiare argomento, qualcosa di tranquillo.
«Sei molto abile con la spada» si complimentò lei.
«Ho alle spalle anni e anni di pratica» rispose lui sorridendogli «e un giorno, per quanto possa sembrare incredibile, tu sarai più brava di me».
«Impossibile» bofonchiò sconsolata.
«È vero. Tu possiedi un grande potere, delle abilità che non ti immagini nemmeno. Credimi se ti dico che mi batterai e sarai la più forte di tutti. È il tuo destino. Salvare il mondo dalla distruzione. Devi solo credere in te stessa».
Alessia sbuffò. Autostima. Non sapeva neanche cosa fosse. Se ci fosse stata una gara di bassa autostima non avrebbe partecipato, certa di pedere.
«Non sei sola. Ci sono io con te. E ci sono anche Miharu, Raziel e Lothus»
«Io... io non voglio deludervi»
«Non lo farai»
«Come fai a dirlo?»
«Ti conosco, almeno un pochino. Non ci deluderai. Lo so»
Alessia scoppiò a ridere. «Grazie. Grazie per tutto quello che fai per me»
«Se la metti in questi termini dovrei ringraziarti per due giorni consecutivi per tutto l’aiuto che mi hai dato, anzi mi sa che dovrei ringraziarti un intero anno e, no, non lo farò».
«Però tu sopporti i miei sbalzi d’umore improvvisi, i miei comportamenti infantili e stupidi, ascolti le mie scemenze e non ti lamenti mai»
Jaki scoppiò a ridere. «E tu sopporti la mia insopportabilità: siamo pari».
I due amici iniziarono a ridere e a prendersi in giro, scusandosi a vicenda e mettendo a nudo i loro difetti. Alla fine Jaki risultò un ragazzo egocentrico, taciturno e playboy mentre Alessia una ragazza competitiva, orgogliosa e troppo insicura.
«È meglio se torni a casa. È tardi. I tuoi potrebbero preoccuparsi»
«Hai ragione» mormorò Alessia lanciando un’occhiata al display del cellulare. «Meglio andare».
Alessia mosse alcuni passi quando si voltò indietro a guardarlo.
«Cosa c’è?»
Senza rispondere con due grosse falcate eliminò la distanza che li divideva e si catapultò fra le braccia di Jaki. Per poco lui non perse l’equilibrio e riuscì a restare in piedi. «Ehi, adesso che succede?».
«Nulla, volevo solo salutarti» rispose Alessia con un innocente sorriso.
Jaki la guardò per diversi minuti poi scoppiò a ridere. «Tu sei strana».
«Ma come? Non ero la tua consolazione divina?»
«Mai detto questo!» replicò lui confuso. «Chi l’ha deciso?»
«Io!».
La guardò sempre più confuso poi scoppiò a ridere. «Okay. Su ora va’ a casa»
«Sì. Grazie per l’addestramento»
«Lo sai che devi allentarti ancora per molto tempo? Hai ancora tanto da imparare e... adesso abbiamo solo accennato all’abc»
«Lo so, lo so» rispose sconsolata andando via. «Dobbiamo ancora fare tanto, tanto lavoro! Insomma, io devo ancora finire in ospedale per tutte le mazzate che mi darai in futuro!».
 
 
 
Il mattino seguente Alessia si svegliò piena di lividi.
L’allenamento con Jaki le aveva procurato diverse ferite e ora si sentiva dolorante e indolenzita come se qualcuno le fosse passato sopra con un carro armato. Aveva tentato di spostare la lezione di pozioni ma Lothus non aveva voluto sentire ragioni, confermando dunque la loro sessione pomeridiana. A nulla erano servite le scuse, varie e fantasiose, alcune davvero incredibili  quali un suo possibile rapimento alieno o partenze impreviste per luoghi lontani.
«Mamma, vado a casa di Aida a studiare» mormorò Alessia, infilandosi lo zaino sulla spalla sinistra.
«D’accordo, non fare tardi come ieri»
«Alle otto sarò a casa»
«E vedete di studiare anche un po’. Non perdete tempo con le vostre sciocchezze»
«Credimi mamma» mormorò sbuffando Alessia, «studierò sodo. Lothus non permetterà che mi distragga anche solo un momento».
Alessia si sentiva male a mentire così spudoratamente a sua madre. No che non l’avesse già fatto in precedenza. Semplicemente le sue erano state sempre piccole bugie e se c’era qualcosa dove era vietato mentire era proprio la scuola. La madre infatti, credeva che Alessia andava lì per studiare. In effetti era vero, ma la materia presa in esame era pozioni, non linguistica o qualsiasi cosa aveva a che fare con la scuola.
La madre di Alessia era una donna alta e magra, dai lineamenti duri e severi, e dai capelli corti biondi. I suoi occhi azzurri riflettevano l’apprensione per la figlia. «Sta’ attenta».
«Sì»
«Alessia hai capito?»
«Sì!» sbottò esasperata.
Una mamma sa sempre tutto.
Da quando i poteri di Alessia si sono risvegliati, sua madre è diventata più protettiva e apprensiva nei confronti di sua figlia quasi se avesse avvertito il cambiamento. La donna non sapeva dire in cosa sua figlia fosse cambiata solo che non era più la sua bambina e non aveva fatto domande aspettando che fosse lei a rivelarglielo. Alessia però non aveva aperto l’argomento e aveva finto nonchalance perché una delle regole era mantenere il segreto, anche con la propria famiglia. Non poteva dire di essere la reincarnazione di un guerriero mistico, di dover proteggere il mondo della magia, sarebbe stato troppo pericoloso se qualcuno avrebbe saputo di Alessia, prendendo in ostaggio le persone a lei care per arrivare ai loro scopi malvagi.
«Io vado»
«Ciao e non fare tardi. Ti voglio bene»
«Anch’io te ne voglio».
Arrivare a casa di Lothus era come superare il labirinto senza avere con sé il filo di Arianna.
Tutte le strade della città in un modo o nell’altro ti portavano in un vicolo cieco oppure diventavano così lunghe e intricate da portati all’altro della città. Le correnti aeree poi, rendevano difficoltoso se non impossibile il volo, e uno dei modi per raggiungere quel luogo era il portale, unico mezzo di collegamento efficiente in grado di trasportarti ovunque. Da Shinar a una città umana che possedeva un portale. A renderlo irraggiungibile però c’erano i mezzi pubblici. Il parco infatti, si trovava a diversi chilometri dall’abitazione di Lothus e nonostante la città vantasse di ben cinque autobus ne passava solo uno, e spesso nessuno. Lothus raccontava alle amiche di vivere in una sorta di Alcatraz e quando riusciva a evadere di prigione, prima di raggiungere la libertà, doveva affrontare l’ostacolo dei bus fantasmi.
Era la prima volta che Alessia andava a casa di Lothus. I racconti dell’amica l’avevano incuriosita al punto da convincere la fata a tenere le lezioni a casa sua anziché altrove.
Per evitare ritardi e possibili fughe, Lothus aveva dato appuntamento ad Alessia alla stazione tranviaria e da lì sarebbero proseguite insieme.
Ci volle un’ora –e a detta di Lothus, Alessia era stata fortunata ad aver aspettato così poco- e quindici minuti per giungere finalmente alla dimora della ninfa.
Appena arrivate, Alessia apparecchiò la tavola mentre Lothus cuoceva il pollo al forno. Alessia raccontò nei dettagli il suo allenamento con Jaki lamentandosi delle ferite riportate e Lothus l’ascoltava divertita mangiando il suo pollo.
«Ti rendi conto?» sbottò, e un pezzetto di cibo le sfuggì dalla forchetta cadendo a terra. «Mi ha riempito di lividi! Io sono un livido ambulante!»
«Secondo me stai esagerando» mormorò Lothus mangiando un boccone.
«Esagerando?» ripeté stizzita «esagerare è dire: “ho messo cinque chili guardandolo solo un dessert”! questo non è esagerare»
«Dai, ci è andato leggero»
«Tu dici?»
«Certo, fossi in lui avrei osato di più, soprattutto dopo le tue due ore di ritardo»
«Scusami ma il mio sedere non è d’accordo». Si alzò dal tavolo e le diede le spalle, le mani appoggiate sui lembi della gonna. «Vuoi vedere in quali condizioni è?»
«No, no, no!» si affrettò a dire Lothus «ci credo! Ci credo!».
Alessia si sedette di nuovo imbronciata. Riprese a mangiare lentamente e lamentarsi per il suo primo giorno di allenamento con Jaki.
Quando ebbero finito, Lothus tirò fuori da vari scaffali, ripiani e mobiletti tantissimi oggetti interessanti, provette dalla forma più insolita, barattoli con strani oggetti all’interno –Alessia giurò di aver visto il barattolo pieno di bulbi oculari fissarla e seguire i suoi movimenti- una bilancia da cucina, ciotole trasparanti, contenitori di plastica e un fornello portatile.
«Cosa imparo oggi?» chiese Alessia abbandonando il discorso Jaki per concentrarsi sulla lezione.
«Qualcosa che ti sarà molto utile» mormorò Lothus prendendo altri contenitori dalla dispensa. «Ho pensato  molto alla tua situazione e visto che collezioni ferite su ferite, ti insegnerò a fabbricare la pozione che ti ha guarita. Sono sicura che ti sarà molto utile» ridacchiò.
«Sarà la mia bibita preferita» rise Alessia. «Da dove inizio?»
«Prima di metter mano agli strumenti occorre un po’ di teoria».
«Teoria?! Stai scherzando?!»
«No, affatto. Le pozioni non solo gettare a casaccio della roba in un calderone, no, è molto di più! Una forma d’arte, una...»
«…noia mortale» completò Alessia. «Dai saltiamo la parte teorica e andiamo direttamente alla pratica»
«No»
«Ti prego! Ti prego! Ti prego!» Alessia lanciandole uno dei suoi sguardi tristi e allo stesso tempo dolci. Nessuno poteva resistere a quello sguardo.
«Spiacente, non attacca. Questa tecnica funziona solo con Miharu e Jaki. Ora se hai finito di recitare iniziamo la lezione».
O almeno quasi nessuno.
Alessia sbuffò rassegnata. «D’accordo».
La ninfa sorrise. «Bene. La caratteristica principale che bisogna avere per preparare bene una pozione è la concentrazione. Le ricette delle pozioni sono spesso complicate e gli ingredienti vanno miscelati con un ordine preciso, quindi è necessario, prima di iniziare, leggere più volte attentamente le istruzioni» spiegò porgendole un grosso libro rilegato in pelle nere. Manuale di pozioni era scritto in oro, al centro del libro.
«Il segreto di una buona pozione è la pazienza. Mescola attentamente e lentamente i liquidi nel calderone»
«Nel calderone? Quale calderone?» la interruppe Alessia. «Questo non è un calderone!» e detto ciò indico il contenitore vuoto davanti a lei.
«Sì, lo so. I tempi sono cambiati. Ho deciso di modernizzare un po’ le nostre lezioni. Devi sapere che questo contenitore ha le stesse qualità di un calderone»
«Sono quelli usati per la chimica?» la interruppe ancora.
«Esatto e...»
«Forte!».
«Questo è un altro motivo del perché ho scelto questi strumenti. Mantengono alta la tua attenzione»
«Sono una scienziata. No, un chimico. No, aspetta! Sono un’alchimista!»
«No, aspetta!» mormorò Lothus «sei una scema»
«Ehi!»
«Continuiamo altrimenti si fa sera. Dicevo? Ah sì. Devi mescolare con attenzione e lentamente i liquidi nel calderone o nel nostro caso, qui dentro. Inoltre dovrai sempre fare attenzione alla modalità da seguire per mescolare. Per esempio, in alcune pozioni, dovrai mescolare prima in senso orario e poi in senso antiorario per un periodo di tempo ben preciso».
Alessia annuì. «Ora possiamo iniziare con la pratica?»
«No» rispose secca Lothus. «Un altro elemento da tenere sottocontrollo è il colore. Nei libri, oltre alla ricetta, troverai anche una descrizione dettagliata sull’aspetto che la pozione può assumere durante le varie fasi di preparazione. Se la pozione ha un aspetto diverso,allora significa che hai sbagliato qualcosa. Un ingrediente mancante o di troppo, il fuoco troppo alto o troppo basso... a proposito di fuoco, quasi mi dimenticavo! Il calderone o nel nostro caso il contenitore, va posto sulla fiamma quando lo dice la ricetta, né prima né dopo. Inoltre, devi fare attenzione anche al calore della fiamma. Le pozioni più difficili richiedono diversi livelli di calore e se sbagli la temperatura o fai bollire la pozioni per più tempo del dovuto... beh, buona fortuna!».
«Ora possiamo iniziare con la pratica?». Alessia era sempre più impaziente di iniziare. La teoria non le era mai piaciuta, qualsiasi cosa fosse, preferiva di gran lunga la pratica.
Lothus sospirò ancora e tentò di non badarci. «Conviene sempre imparare una pozione a memoria o almeno quelle importanti che potrebbero servirti come questa. Se ti trovi in emergenza devi riuscire a fabbricarla velocemente senza avere con te il manuale. Infine prima di usare la pozione devi accertarti che il risultato ottenuto sia effettivamente quello voluto. Magari ricontrollando tutti i passaggi... gli effetti di una pozione sbagliata potrebbero essere nel peggiore dei casi permanenti!».
«Oddio!»
«Già, conosco una ninfa che...»
«C’è anche una pozione che rende invisibile a chi la beve!». Alessia stava leggendo il libro di pozioni mentre Lothus, concentrata com’era dalla sua spiegazione non si era accorta della distrazione della sua allieva.
«Potrei fare un sacco di scherzi divertenti» continuò Alessia. «Oh, guarda! C’è anche una pozione in grado di farti cambiare aspetto! Puoi assumere le sembianze di chiunque tu voglia!».
Lothus le strappò di mano il manuale.
«Ehi! Ridammelo!»
«Hai ascoltato una sola parola di quello che ti ho detto?»
«Certo».
La ninfa inarcò un sopracciglio.
«Soprattutto quando hai detto quella cosa riguardo l’altra cosa e eccetera eccetera» spiegò nervosa.
«Di solito quando qualcuno aggiunge eccetera eccetera alla fine di una frase è per nascondere una bugia»
«Non so di cosa tu stia parlando» mentì Alessia. «E ora... il manuale prego».
Per nulla convinta, la ninfa le restituì il libro. Velocemente Alessia lo aprì e prese a sfogliarlo febbrile e ancora una volta la sua attenzione fu rapita da una pozione in particolare.
«Guarda! Un filtro d’amore! Voglio impararlo! Ti prego Lothus! Insegnami a fare questo oggi! Non vedo l’ora di usarlo!»
Lothus ridacchiò. «E così vuoi usare un filtro d’amore eh?»
«Tutte le ragazze vorrebbero usarlo se potessero» fu la riposta di Alessia.
«E sentiamo su chi vorresti usarlo? Jaki?»
«Cosa?!» sbottò. «No, assolutamente no!»
«Certo come no!» replicò maliziosa la ninfa «vuoi solo usarlo su Jaki!»
«Ti dico di no!»
«Ah già, non ne hai bisogno. Siete già cotti l’uno dell’altra» ridacchiò.
«No, non è affatto vero!».
«Sì certo, se lo dici tu...»
«Sì, lo dico io!» sbottò sempre più inviperita Alessia. «Possiamo iniziare questa maledetta pozione?!»
«Come desideri principessa» e così dicendo Lothus le spiegò il lungo procedimento. A detta della ninfa era una pozione semplice ma lunga e richiedeva tempo, pazienza e concentrazione. Si voltò un attimo per prendere il succo di frutta in frigo quando la cucina fu invasa da una nube di fumo verde acido e un sibilo potente. Non si sa come, Alessia era riuscita a far esplodere il recipiente, e la pozione, colando sul pavimento evaporava, emanando quel fumo.
«Ma che diavolo hai combinato?!» sbottò Lothus mentre correva a prendere gli strofinacci per pulire il pavimento dalla pozione. «Suppongo che tu abbia aggiunto le foglie di eucalipto prima di togliere dal fuoco. Non è così?».
Alessia si limitò a ridere imbarazzata, grattandosi la nuca.
Lothus sospirò e gli lanciò uno strofinaccio.
«Cosa dovrei farci con questo?»
«Rimedi al pasticcio che hai combinato cosa se no?».
Senza dire una parola la ragazza iniziò a pulire.
«Dovremo iniziare tutto da capo... ti prego, questa volta non fare saltare in aria la cucina!»
«Tranquilla, ma non posso iniziare con qualcosa di più semplice?»
«Più semplice della pozione guaritrice?» chiese scettica
«Beh qualcosa ci sarebbe... l’ho letto prima sul libro...»
«E cioè?» la ninfa aveva inarcato un sopracciglio.
«La pozione che rende invisibili!»
«Scordatelo è pericolosa»
«Ma...» provò ad opporsi Alessia ma non ci fu verso di convincere Lothus.
«Scordatelo. Rifarai questa pozione da zero finché non imparerai».
Sconsolata si arrese. Ci vollero circa altri cinque tentativi prima che Alessia riuscisse a fabbricarla correttamente.
«Bene, per oggi abbiamo finito»
«Finalmente!»
«Avrei voluto insegnarti altre due pozioni ma non immaginavo impiegassi così tanto… siamo in ritardo sulla tabella di marcia...»
«Perché non hai voluto insegnarmi la pozione che rende invisibili?»
«Perché è molto pericolosa» rispose Lothus seria in volto.
«Cos’ha di così pericoloso?»
«Te lo dirò solo se farai dei progressi, adesso è troppo presto per svelarti tutto».
«Segreti, segreti! Sempre e solo segreti!» sbottò Alessia.
«Ti accompagno».
Il ritorno a casa fu più rapido. Uno dei pullman stranamente passò puntuale senza far attendere le due ragazze e Alessia riuscì a tornare a casa in tempo per la cena, sotto gli occhi sbigottiti di Lothus che non poté fare a meno di imprecare contro quei bus. 

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