Let Me Be Your Sun

di _hurricane
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Sono di nuovo qui! Sono stata via poco ma mi mancava troppo pubblicare, finalmente ho finito questa storia e la posso condividere con voi! Vi anticipo già da ora che avrà 18 capitoli più l'epilogo, quindi in pratica 19 (numero odioso!).

Non ci sono particolari avvertimenti da fare; il rating arancione è dovuto principalmente al fatto che questa storia, come mi piace definirla, è praticamente angst distillato. Seriamente, inizio a chiedermi come diamine faccio a scrivere cose del genere e poi condurre una vita mediamente normale.

Però c'è tanto, tanto amore, lo giuro. Credo più che in qualsiasi altra mia storia, o almeno io la vedo così. Chi ha letto Hold Me Tight potrà pensare "Più angst di quella? SERIAMENTE?" Beh, diciamo che è un angst... diverso. A poco a poco capirete che intendo.

Essendo AU i personaggi potrebbero risultare leggermente OOC a causa di circostanze molto diverse, ma non particolarmente, o almeno credo!

Ci rivediamo a fine capitolo per alcune note utili :) spero tanto che vi piaccia!

 


 

 

 

Non piangere quando tramonta il sole, le lacrime ti impedirebbero di vedere le stelle.

- Davide Calzolari

 


Sto per raccontarvi una storia, una storia a cui tengo molto. Parla di due persone che si sono amate.

Semplice, direte voi. Banale.

Ma l’amore non è banale, non lo è mai. Beh, il loro non lo fu di certo.

Vi parlerò di due persone che si sono innamorate, presto e in fretta, nonostante avessero tanto da perdere nel farlo, nonostante fosse difficile e rischioso come soltanto l’amore può esserlo, ma dopo averlo fatto non lo rimpiansero mai.

Vi parlerò di due persone che si sono amate con tutto ciò che avevano, vivendo l’una per l’altra come se il mondo intorno non esistesse.

Vi parlerò di due persone che si sono innamorate da capo ogni giorno per il resto delle loro vite. Di due persone destinate a trovarsi.

 


 

“Tu sei come una stella, Kurt. Di giorno nessuno può vederti, è come se non esistessi, ma di notte… di notte appari nel cielo e risplendi più di tutte le altre. Sei una stella, è per questo che sei così. Sei nato per brillare, amore mio.”

Kurt sorrise tra sé e sé, sbattendo le ciglia chiare per scacciare via una piccola lacrima. Alzò di nuovo gli occhi verso il cielo, sdraiato a pancia in su sul prato del giardino, per guardare le stelle, quelle che un tempo aveva davvero considerato sue sorelle proprio come gli raccontava sua madre. Continuava a dirgli che era speciale, diverso da tutti gli altri ma in un modo bello, e giusto, un modo che non faceva altro che renderlo perfetto. Come le stelle.

Le stelle, immobili e splendenti nel buio ma visibili soltanto quando il sole calava al di là dell’orizzonte. Piccoli diamanti incastonati in un infinito manto scuro che avvolgeva il mondo, distanti milioni e milioni di anni luce da lui, eppure così vicini quando passava ore a guardarli, per sentirsi meno solo, per sentirsi capito.

Ma più passava il tempo, più Kurt si rendeva conto di non essere una stella, di non essere neanche lontanamente come una di loro. Perché lui non era un puntino nel cielo, bellissimo e noncurante, incapace di provare emozioni: era un essere umano, e non era fatto per quello. Gli uomini erano fatti per camminare alla luce del sole, sorridere davanti ad una macchina fotografica stringendo le palpebre per evitare di esserne abbagliati, starsene sdraiati su una spiaggia di sabbia bianca sentendone il piacevole calore sulla pelle che si faceva a poco a poco più scura.

Mentre Kurt… Kurt non avrebbe mai potuto fare nulla di tutto ciò. E per quanto sua madre, fino al giorno della sua morte, avesse fatto di tutto per convincerlo che non c’era niente di sbagliato in lui, Kurt non era mai riuscito a crederci davvero. Non era mai riuscito a non pensare di essere contro natura.

Ma questo non gli impedì di continuare a sdraiarsi sul prato per guardare il cielo a notte fonda, come faceva insieme a lei quando era piccolo; non gli impedì di piangere lacrime silenziose ricordando il modo in cui lei gli sussurrava all’orecchio quanto quegli astri sopra le loro teste fossero insignificanti, tutti uguali e monotoni e costretti a rimanere fermi lassù, mentre lui, che era quello più speciale, era caduto sulla Terra per poterla riempire con la sua piccola luce.

Non gli impedì di sorridere mentre piangeva, ricordando l’ingenuità che aveva avuto nel credere davvero a quelle parole, senza però trovare la forza di biasimare se stesso per averlo fatto.

Perché era stato bello pensare di essere una stella, almeno per un po’.

 


 

“Cercasi studente dell’ultimo anno disposto a tenere lezioni private su una o più materie, tutte quelle del corso se è possibile. I dettagli verranno discussi personalmente. Paga molto conveniente, in virtù della quale si richiede la massima discrezione.”

Blaine lesse attentamente il foglio attaccato all’ampia bacheca di sughero che si trovava nella sala di ingresso della Dalton, dalla quale si diramavano varie scalinate che conducevano ai dormitori. Era una richiesta molto strana, visto che dava grande libertà sulle materie e si manteneva su un tono piuttosto vago, e soprattutto quell’ultima frase sulla discrezione aveva un’aria a dir poco misteriosa e sinistra. Era anche vero però che si parlava di paga molto conveniente, e nonostante i soldi in famiglia di certo non mancassero, era da un po’ che voleva trovare un modo per mettere dei soldi esclusivamente suoi da parte ed essere un po’ più indipendente. Così, alzando le spalle e scacciando via la leggera aura di disagio che il foglio sembrava emanare, allungò la mano che teneva stretta alla sua tracolla di pelle e staccò una delle strisce nelle quali era stato tagliato, ognuna con su scritto lo stesso numero di telefono.

Una volta tornato nella sua stanza del dormitorio, visto che le lezioni si erano concluse, si fece la doccia e indossò una comoda felpa per mettersi totalmente a suo agio, dopo di che decise di comporre il numero. Prese il cellulare che aveva lasciato sulla scrivania, recuperò il piccolo foglio di carta dalla borsa, e lo digitò.

Dopo pochi secondi di attesa, la voce di un uomo adulto, forse anche di una certa età, rispose in tono molto formale: “Pronto, questa è casa Hummel, in cosa posso esserle utile?”

“Salve, io sono Blaine. Blaine Anderson” si affrettò a precisare, cercando di conformarsi a quell’atteggiamento elegante. “Ho letto l’annuncio che avete lasciato qui alla Dalton, sulle lezioni private e… beh, sono molto interessato alla cosa.”

“Oh” rispose l’uomo, rimanendo in silenzio per qualche secondo. “La prego di attendere in linea un momento.”

“Va bene” disse Blaine, spostandosi per sedersi sul bordo del letto mentre aspettava. Sentì del movimento dall’altra parte del telefono, e poi la voce ritornò.

“Il signor Hummel vorrebbe incontrarla di persona per discutere i dettagli… questa sera a cena, se per lei va bene.”

“Stasera?” rispose Blaine, un po’ sorpreso. Non credeva che le cose si sarebbero svolte così in fretta, non in quello stesso giorno almeno. Iniziava a sembrare una cosa piuttosto importante, che non era certo di aver capito fino in fondo.

“Se non le è possibile, organizzeremo un incontro un altro giorno” disse l’uomo, anche se dal tono sembrava quasi deluso dalla sua esitazione.

“N-no, no, stasera va benissimo” si affrettò ad aggiungere Blaine, passandosi una mano tra i ricci ancora un po’ umidi. Aveva pianificato di restare a letto a guardare un film dal suo portatile, totalmente rilassato e senza alcuna preoccupazione riguardo al suo look, ma avrebbe dovuto rinunciare. Ormai era più curiosità che altro: voleva capire di cosa si trattava e perché c’era tutto quel mistero.

“Perfetto allora. Alle otto? I signori Hummel gradiscono molto la puntualità, quindi se preferisce un orario diverso sarebbe consigliabile comunicarlo adesso” gli disse l’uomo in tono un po’ piatto. Blaine si rese improvvisamente conto che continuava a parlare di questi fantomatici ‘signori Hummel’ come se la questione non avesse niente a che fare con lui, e la voce cadenzata e professionale gli fece subito pensare ad un maggiordomo. Terribilmente clichè, ma non c’era altra spiegazione.

“Io alloggio qui alla Dalton, quindi credo dipenda da quanto casa Hummel dista da Westerville” rispose in tono pratico, visto che non c’era scritto un indirizzo sull’annuncio e non era stato ancora menzionato un luogo nella conversazione.

“L’indirizzo è Lima, Bellefontaine Avenue, 137. Credo sia un’ora in macchina, a velocità spedita.”

Blaine si preoccupò mentalmente di dover utilizzare per la prima volta il navigatore satellitare della sua auto, visto che non aveva idea di dove fosse quella strada nonostante conoscesse vagamente Lima. Ma preferì non fare ulteriori domande, quell’uomo non sembrava in vena di dargli indicazioni aspettando che prendesse carta e penna per annotarle.

“Perfetto, alle otto allora” disse in tono cordiale, alzandosi dal letto per camminare verso il suo armadio.

“E’ preferibile un abbigliamento formale. A più tardi, signore” rispose l’uomo, prima di chiudere la chiamata. Blaine si tolse il cellulare dall’orecchio e lo fissò alzando un sopracciglio. Certo che si sarebbe vestito in modo formale. Tutto di quella telefonata sembrava gridare Stai per andare a casa di persone così ricche da non dover nemmeno rispondere al telefono di persona. Insomma, doveva pur voler dire qualcosa.

Si mise il cellulare in tasca e aprì l’armadio, cercando la sua giacca nera delle grandi occasioni e una camicia che ci stesse bene.

Non sapeva che quella serata avrebbe cambiato la sua vita, per sempre.

 


 

Bellefontaine Avenue faceva chiaramente parte della zona più ricca di Lima: un lungo viale perfettamente illuminato, con siepi dal taglio regolare ai lati e case enormi di qualsiasi forma e colore, ma tutte con una variabile comune, la bellezza.

Anche Blaine aveva una bella casa, grande, lussuosa e ben arredata, ma quelle… erano manieri. Vaste tenute, così vaste che le case erano ad una distanza considerevole dalla strada principale, unite ad essa da vialetti di ghiaia bianca o addirittura strade secondarie asfaltate al di là di cancelli in ferro battuto dai meravigliosi ricami floreali. La maggior parte erano protette da mura imponenti, ma erano così alte da essere ugualmente visibili.

Ad un certo punto, le case iniziarono a farsi più sporadiche fino a scomparire del tutto: Blaine si ritrovò nel buio, con i fari della sua auto ad illuminare l’ampia strada che aveva davanti e nient’altro che aperta campagna ai lati. Il suo navigatore gli segnalava di continuare dritto, quindi non poteva aver superato la sua meta, anche perché aveva controllato i numeri civici accanto ai cancelli di tanto in tanto, per essere più tranquillo. Non si fidava molto del suo navigatore, dopotutto.

Un po’ preoccupato, accese gli abbaglianti e continuò a viaggiare per quelli che gli sembrarono almeno dieci minuti, finchè i suoi fari non illuminarono qualcosa di solido davanti a lui. Aguzzando la vista, Blaine si rese conto che era un cancello nero, alto, più alto di tutti quelli che aveva visto, con ai lati un enorme muro grigio che sembrava estendersi per una distanza infinita; ma forse era solo un’illusione dettata dal buio della sera. Il suo navigatore gli comunicò che aveva raggiunto la sua destinazione.

Rallentò e continuò a camminare, ma prima ancora che potesse anche solo pensare di scendere e cercare un campanello a cui suonare, sentì un rumore metallico e in un batter d’occhio il cancello si aprì davanti alla sua auto, invitandolo a percorrere una strada interna che sembrava salire verso l’alto. Solo in quel momento Blaine alzò lo sguardo e si accorse che c’era appunto una collina, alla fine della strada, con sopra la casa più grande che avesse mai visto. Anche il solo chiamarla “casa” gli sembrò un’offesa; sembrava più un castello.

Un corpo principale, con due parti sporgenti simili a larghe torri ai due lati e illuminata qua e là da torce esterne. Aveva tanti alberi intorno, e un terreno ai suoi piedi sul quale ci sarebbero potuti tranquillamente entrare dieci campi da tennis.

Blaine deglutì, sentendosi improvvisamente piccolo e mal vestito nonostante fosse impeccabile – papillon, giacca nera e più gel che mai – e si affrettò a premere l’acceleratore prima che il cancello rischiasse di chiudersi. Percorse la strada verso l’alto, scrutando con le palpebre strette il giardino avvolto nel buio che si lasciò a poco a poco alle spalle; ma non riuscì a vedere molto, se non un laghetto in lontananza, illuminato dalla luce della Luna, e figure scure che erano sicuramente alberi curatissimi e forse secolari.

Dopo qualche minuto, si ritrovò in un ampio cortile ricoperto di ghiaia che faceva da ingresso alla casa – o al maniero, o al castello, insomma, all’edificio – con al centro una grande fontana, non in funzione, e che si concludeva con una specie di balconata che permetteva di vedere tutta la tenuta sottostante. Parcheggiò in un angolo, spense il motore e scese, richiudendosi lo sportello alle spalle.

Ebbe giusto il tempo di voltarsi e accorgersi che il colore della casa era marrone, quando un uomo piuttosto anziano apparve dal portone principale e gli fece un cenno. Blaine si lisciò la giacca e si passò le mani ai lati della testa, inconsciamente, prima di affrettarsi a raggiungerlo. Come aveva previsto, era un maggiordomo.

“Benvenuto a casa Hummel, signor Anderson” gli disse con formalità, facendosi da parte per farlo entrare. “Può lasciare a me le chiavi della sua auto, se preferisce.”

“Grazie” rispose Blaine abbozzando un sorriso, prima di consegnargliele.

“Prego, da questa parte. Il signor Hummel la sta aspettando” disse il maggiordomo, iniziando a camminare davanti a lui senza preavviso. Blaine lo seguì a passo svelto, lasciandosi guidare attraverso un enorme ingresso in stile rustico, il pavimento di pietra, il camino a legna, addirittura teste di animali attaccate ad uno dei muri. Non pensava che esistessero ancora case del genere, ma evidentemente si sbagliava. Gli sembrò di essere stato improvvisamente catapultato nella magione estiva di una nobile famiglia dell’ottocento.

Attraverso un ampio corridoio, l’anziano signore lo condusse finalmente nella sala da pranzo, spalancando una grande porta. Era tutta in lunghezza, con uno di quegli immensi tavoli tipici dei castelli medievali, in legno massiccio e circondato da sedie simili a piccoli troni, rivestite di pelle. Candelabri sparsi qua e là illuminavano la stanza, insieme ad un grande lampadario centrale.

E a capotavola, in direzione opposta rispetto a dove si trovava Blaine, c’era un uomo. Era pelato, e indossava un completo impeccabile grigio scuro insieme ad un foulard color prugna avvolto perfettamente al collo. Stava fumando un sigaro mentre lo aspettava.

Avvicinandosi a lui, Blaine si accorse che aveva occhi piccoli ma espressivi, di un bellissimo colore azzurro.

“Buonasera” gli disse l’uomo, poggiando il sigaro su un posacenere e tendendo la mano verso di lui. “Io sono Burt Hummel.”

“Blaine Anderson, molto piacere” rispose Blaine, stringendogli la mano con cordialità. “Ha una casa bellissima” aggiunse, sentendosi istantaneamente un provincialotto ingenuo. Ma Burt non sembrò dello stesso avviso.

“Sei molto gentile” rispose infatti, facendogli poi cenno di sedersi. “Prego, cena insieme a me. Flint, vai a vedere se è pronto in cucina.”

Il maggiordomo fece un piccolo cenno di riverenza, e in un attimo si dileguò come se non ci fosse mai stato. Blaine prese posto sulla sedia più vicina a Burt, vedendo le posate, il piatto e i bicchieri già pronti per lui. Si sistemò sulla sedia, improvvisamente a disagio, e alzò lo sguardo. L’uomo lo stava osservando con attenzione, quasi come se lo volesse studiare.

“Allora, Blaine… posso chiamarti Blaine, non è vero?” disse, portandosi le mani sotto il mento.

“Certamente.”

“Dimmi, cosa ti ha spinto a chiamare? Sono certo che la nostra richiesta sia sembrata un po’ strana e misteriosa” riprese Burt con un piccolo sorriso.

“Beh, ecco…” esitò Blaine, non volendo sembrare troppo attaccato alla paga che ne sarebbe derivata. “Era da un po’ che cercavo un lavoretto, per essere più indipendente dai miei genitori. Sono abituato a impartire lezioni, lo facevo al mio vecchio liceo per aiutare i compagni che erano indietro in matematica.”

“Oh, capisco…” disse Burt, sembrando un po’ pensieroso. Riflettè per qualche secondo, poi riprese a parlare.

“Vedi Blaine, la questione della discrezione è davvero importante per me. Fondamentale. Tu mi sembri un bravo ragazzo, e io mi vanto spesso di saper riconoscere il valore di una persona a prima vista, ma ho bisogno di sapere se saresti davvero disposto a prenderti questo impegno. E’… è molto importante.”

Blaine lo scrutò attentamente, riflettendo sulle sue parole. Ma c’erano ancora troppe domande che gli frullavano in testa.

“Sono una persona molto discreta, se è questo che intende. Non sono quel tipo di ragazzo che condivide ciò che fa con tutti, e alloggiando alla Dalton non dovrei darne conto ai miei genitori. Ma, se mi permette…” disse in tono esitante. Burt gli fece cenno di continuare, ma prima che potesse farlo il maggiordomo, Flint, fece il suo ritorno portando con sé due piatti con sopra coperchi d’argento. Li posizionò sul tavolo e tolse i coperchi, rivelando carne di selvaggina, probabilmente cinghiale.

“Grazie, Flint” disse Burt, e senza dire altro tornò a posare gli occhi su Blaine. “Prego, continua.”

“Beh, diciamo che non ho ancora capito bene di cosa stiamo parlando, signore. Lezioni private su tutte le materie del mio corso, ma… a chi? E perché la discrezione è importante? Le chiedo scusa se le sembro inopportuno, ma-“

“Non lo sei affatto” rispose Burt, interrompendolo. “E’ naturale che tu voglia capire.”

L’uomo rimase a fissarlo, evidentemente ancora indeciso su cosa fare. Se fidarsi di Blaine o meno. Ma alla fine, annuì tra sé e sé e rizzò la schiena, pronto a parlare.

“D’accordo Blaine, mi fiderò di te. Sei il primo ragazzo che sembra davvero interessato alla cosa e che soprattutto sembra veramente gentile, non in soggezione dalla casa o dalla mia presenza. Spero che meriterai la mia fiducia” disse, prima di fare una pausa. Il fumo emanato dalla carne sul tavolo annebbiava leggermente il suo viso, ma Blaine potè vedere quanto fosse titubante, in contrasto con la sicurezza di qualche attimo prima. Così si sentì in dovere di precisare: “Lo spero anch’io, signore.”

“Bene. La persona di cui stiamo parlando è il mio unico figlio, Kurt” rispose, intrecciando distrattamente le dita delle mani sopra il tavolo. “Lui… lui non può frequentare una scuola normale. Ha sempre avuto un insegnante privato, fino all’anno scorso, ma… sono un po’ preoccupato per la sua vita sociale, capisci, quindi ho pensato che sarebbe stato meglio permettergli di imparare e allo stesso tempo rapportarsi con qualcuno della sua stessa età. Si sta… chiudendo in se stesso, ecco.”

Blaine non seppe improvvisamente cosa dire. La situazione sembrava molto più complicata del previsto, e qualsiasi cosa dicesse sarebbe potuta sembrare inopportuna. Così, preferì aspettare.

“Kurt non può uscire alla luce del sole” continuò Burt, in un tono che gli fece improvvisamente provare pena per quell’uomo. La sua voce si era fatta incredibilmente flebile, quasi sul punto di spezzarsi, come se quella fosse la frase che lo faceva soffrire più di qualsiasi altra cosa al mondo.

“Oh” disse Blaine, cercando di metabolizzare l’informazione e darle un senso. “E’ quella specie di… si chiama agorafobia, giusto? La paura degli spazi aperti e-“

“No” lo interruppe Burt, ma con dolcezza. “Non intendevo in senso metaforico, ma letterale. Kurt non… non può stare sotto il sole. Rischierebbe di morire se lo facesse. E’… una malattia molto rara, e non ha soluzione.”

Piombò un silenzio che sarebbe stato imbarazzante, se ci fosse stato spazio per l’imbarazzo dentro quel vortice di emozioni che aveva appena travolto Blaine. Stupore, compassione, dolore e rabbia per quel ragazzo che non conosceva ancora, costretto a vivere al chiuso per tutta la vita. Blaine era fatto così: troppo facilmente si caricava del peso dei problemi degli altri, sapendo che in questo modo li avrebbe resi più leggeri per loro. Spesso, però, poteva essere un’arma a doppio taglio.

Burt abbassò lo sguardo, prese forchetta e coltello e senza dire una parola iniziò a tagliare la carne. Blaine si morse il labbro, interdetto.

“Mi dispiace” disse, non sapendo che altro dire. Ma sapendo che era inutile.

Burt alzò lo sguardo e gli rivolse un piccolo sorriso, che gli scaldò subito il cuore. Iniziò ad apprezzare profondamente quell’uomo, ad ammirarlo e rispettarlo; all’inizio gli era sembrato il classico riccone con il foulard di seta e il sigaro cubano, ma conoscendolo a poco a poco, capì che era molto di più. Era un padre.

“Kurt non vuole che altri all’infuori di chi gli fa da insegnante sappiano delle sue condizioni. E’ una persona molto schiva e riservata. Ho voluto incontrarti io da solo prima, per evitare di dargli false speranze. Ti pregherei di riflettere attentamente, Blaine. Capire se puoi farlo o meno, perché mi rendo conto che è un impegno che può diventare gravoso a lungo andare.”

Blaine abbassò lo sguardo, pensieroso. Come aveva detto, non sentiva il bisogno di condividere tutto ciò che faceva, e a fine lezioni si recava sempre nel suo dormitorio senza dar conto a nessuno: cosa sarebbe cambiato, se invece si fosse recato lì tutti i giorni? Poteva comunque dire di tenere lezioni private, senza dover specificare a chi e per quali ragioni.

La verità, però, era che se anche se ci fossero stati ostacoli, Blaine li avrebbe ignorati o si sarebbe ripromesso di scavalcarli in futuro. Perché nella sua mente, aveva già preso quell’impegno. Aveva già deciso di scindere il peso che quel ragazzo sconosciuto portava sulle spalle, e prenderne un po’ per sè. Anche solo un pizzico, pur sapendo che forse sarebbe cambiato poco.

Blaine era fatto così.

“Lo farò. Glielo prometto, sarò discreto. Ha la mia parola, signor Hummel” disse risoluto. Burt lo fissò intensamente, poi sorrise un po’ più di prima.

“Chiamami Burt” disse.


 


 

 

Ci tengo a precisare che la malattia di cui soffre Kurt esiste davvero, ma ho preso spunto soltanto in parte, evitando di inserire sintomi particolarmente gravi, neurologici e motori, e limitandomi soltanto alla sua "allergia" alla luce solare. E' trattata in un modo molto più "romanzato" rispetto a com'è in realtà, ma non con l'intenzione di sminuirne la gravità, ecco.

Se volete seguire gli aggiornamenti, ho una pagina Facebook e da poco tempo anche Twitter da cui potete farlo! Credo saranno abbastanza veloci comunque :)


Nel prossimo capitolo: Blaine conosce Kurt e Kurt conosce Blaine, e la vera storia ha inizio.


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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


 

 

Non chiedere al sole perché hai freddo al cuore.

- Anonimo

 


Dopo aver finito di cenare – una cena che a Blaine sarebbe bastata per almeno una settimana – Burt si alzò dal tavolo e gli fece cenno di fare lo stesso. Avevano discusso dei dettagli più pratici: il prezzo (cento dollari al giorno, Blaine che aveva rischiato di strangolarsi con il sorbetto nel sentirlo), la possibilità di dormire lì per poi recarsi direttamente a scuola la mattina dopo, gli orari, il metodo e via dicendo. L’unica cosa di cui non avevano più parlato, era Kurt. Blaine era a dir poco curioso di conoscerlo, di capire che tipo di persona fosse. E allo stesso tempo, era terrorizzato all’idea di compiere qualche passo falso, di dire qualcosa di inopportuno come “Fa caldo, andiamo a prendere un po’ d’aria?” senza rendersene conto.

Tutte le sue speranze e le sue paure scoppiarono come un’esplosione dentro di lui, diventando impossibili da distinguere, quando Burt gli disse: “Direi che è il momento di conoscere Kurt.”

Blaine annuì, in piedi davanti a lui, e quando Flint tornò per iniziare a sparecchiare, Burt gli disse di andare a chiamare Kurt nella sua stanza per dirgli di raggiungerli. Rimasero di nuovo soli, a condividere un silenzio tutto sommato confortevole. Blaine si accorse distrattamente che c’era un piccolo fuoco crepitante nel camino alle spalle dell’uomo.

All’improvviso, sentirono dei passi frenetici che riecheggiarono nel corridoio, in netto contrasto con l’aura di quasi immobilità che sembrava regnare nella casa. Flint riapparve dalla porta, leggermente trafelato, ed esordì: “Non è nella sua stanza, signore. E c’è la porta del giardino posteriore aperta.”

“Cosa?!” esplose Burt, precipitandosi verso di lui con così tanta velocità che Blaine ebbe a malapena il tempo di rendersene conto, prima di poterlo seguire a passo svelto.

“Gli ho sempre detto di non andarci, perché non mi ascolta?” continuava a ripetere Burt, camminando a grandi falcate lungo il corridoio. Superarono di sfuggita le cucine, ma Blaine era troppo concentrato su quello che stava ascoltando per farci caso. Non capiva: era buio, non c’era il sole, quindi perché tutta quella preoccupazione?

Alla fine, raggiunsero la porta menzionata e uscirono all’aria aperta, investiti dalla frescura. Il famoso giardino posteriore era grande tanto quanto quello che Blaine aveva intravisto arrivando, se non di più: prati, e prati, e ancora prati, puntellati da piccoli insiemi di alberi e cespugli che creavano tante radure private, e in lontananza un altro lago artificiale. Essendo scarsamente illuminato, l’unico modo per trovarvi dentro una persona era addentrarsi e cercarla nel senso vero e proprio del termine.

Scesero una piccola scalinata di pietra e iniziarono a camminare nell’oscurità, Burt che chiamava a tratti il nome di suo figlio e a tratti farfugliava frasi preoccupate di cui Blaine continuava a non cogliere il senso. Percorsero il giardino in linea retta, scrutando però in tutte le direzioni, finchè non si ritrovarono sopra un piccolo rialzamento che dava proprio sul laghetto. Burt continuava a guardarsi intorno, gridando a gran voce, lo sguardo dritto davanti a sé; invece Blaine, particolarmente affascinato, abbassò lo sguardo per scrutare meglio la riva. E fu così che lo vide.

C’era un ragazzo disteso a pancia in su a pochi passi dall’acqua, le mani dietro la testa e le gambe distese e rilassate, il petto che si alzava e abbassava al ritmo del suo respiro regolare. Aguzzando la vista, ormai abituata all’oscurità, Blaine si accorse che aveva un’espressione assolutamente beata sul viso, gli occhi chiusi, i lineamenti definiti ma allo stesso tempo delicati ed eleganti. Era così bello, così armonioso, che se Blaine non fosse stato proprio in cerca di un adolescente in quel preciso momento probabilmente lo avrebbe scambiato per una parte della natura stessa.

La luce della luna illuminava la sua pelle così come illuminava l’acqua, donandole un aspetto quasi sovrannaturale: era di un colore così pallido da sembrare madreperla, in contrasto con il buio della notte. Assorto com’era, non si accorse che anche Burt se ne era appena reso conto.

“Kurt!” sbraitò, correndo a perdifiato fino a raggiungere suo figlio. Blaine gli corse dietro, giusto in tempo per vederlo scuotere con forza la spalla del ragazzo, che si alzò di scatto con uno sguardo terrorizzato in viso.

“Kurt! Si può sapere che ti salta in mente?!” gli disse suo padre, in tono di rimprovero. “Te l’ho sempre detto, se ti sdrai qui all’aperto di notte rischi di addormentarti, e se poi io non riesco a trovarti? Se si fa giorno?!”

Oh. Improvvisamente Blaine capì, e non seppe più cosa pensare. Burt gli era sembrato troppo severo fino a quel momento, ma era solo preoccupato. Terrorizzato, in realtà. E Kurt sembrava davvero addormentato, quindi forse aveva perfettamente ragione.

“Lasciami” disse semplicemente Kurt, scostando la spalla dalla presa di suo padre e mettendosi in piedi. A Blaine dispiacque molto che quella fosse stata la prima parola pronunciata da lui, troppo breve, troppo perentoria, perché Kurt… aveva la voce di un angelo. Era come se vibrasse nell’aria notturna toccando le note più acute e perfette, come se danzasse sulla superficie dell’acqua lasciandovi sopra piccoli cerchi che a poco a poco si dissolvevano.

Kurt si risistemò il gilet leggermente sgualcito e poi alzò lo sguardo, incontrando quello di Blaine e notando per la prima volta la sua presenza. Trasalì lievemente, quasi spaventato, ma in un attimo passò sulla difensiva e si ricompose. Blaine era troppo impegnato a metabolizzare quanto fossero chiari i suoi occhi e contemporaneamente a respirare per notare il cambiamento.

“Lui chi è?” chiese Kurt, indicandolo. Blaine trasalì a sua volta e lo guardò con aria un po’ colpevole, sentendosi improvvisamente fuori posto.

“Si chiama Blaine. Ti terrà al passo con le lezioni di quest’anno” rispose suo padre, impedendo a Blaine di farlo. “Non cercare di cambiare discorso, tu-“

“Credevo di averti detto che il professor Taylor andava più che bene anche per quest’anno. Io non ho bisogno di nessuno” ribattè Kurt, interrompendo Burt a metà frase e scoccandogli un’occhiata che se avesse potuto lo avrebbe incenerito. Blaine non sapeva cosa dire, né cosa fare. Aveva pensato che sarebbe stato semplice, ma si era sbagliato. Era evidente che Kurt si era creato un muro intorno, forse più alto di quello che circondava la sua bellissima casa.

“Kurt, sei pregato di cambiare atteggiamento quando ti rivolgi a tuo padre! Altrimenti-“

“Altrimenti cosa? Mi metti in punizione dentro casa? Madre natura ci ha pensato al posto tuo, risparmiati lo sforzo” sbottò Kurt, prima di oltrepassarli a passo svelto e correre lungo il sentiero che conduceva alla casa. Blaine pensò di aver visto una lacrima luccicare in uno dei suoi occhi, ma forse era solo un’illusione. Forse era solo la luce della luna.

Forse aveva reso quel ragazzo più bello di quanto non fosse in realtà, stregando Blaine con una sorta di incantesimo, di inganno.

Blaine sperò che fosse così. Perché era passato un secondo da quando Kurt era scomparso dalla sua vista, e faceva già male.

 


 

“Ti chiedo scusa da parte di Kurt. Sono sicuro che non voleva essere così scortese” disse Burt, accompagnando Blaine alla sua auto. Blaine in realtà pensava che Kurt avesse voluto essere esattamente così scortese.

“Non si preoccupi” rispose, grattandosi la nuca. “E’ sicuro che vuole che torni?”

“Si, sono sicuro. Vedrai che domani si sarà calmato, e sarà più gentile. E’ per il suo bene, deve solo capirlo” rispose Burt con un sorriso triste, abbassando lo sguardo.

“Va bene, allora… a domani, signor- ehm, cioè, Burt” precisò Blaine all’ultimo secondo, tirando fuori dalla tasca le chiavi che Flint gli aveva restituito qualche minuto prima.

“A domani, Blaine.”

 


 

Il pomeriggio seguente, Blaine venne condotto per la prima volta nella stanza di Kurt. Flint aprì la porta per lui e lo fece entrare prima di chiudersela nuovamente alle spalle, lasciandolo praticamente solo e… al buio. Completamente al buio.

Blaine si guardò intorno spaesato, stringendo istintivamente la tracolla che aveva sulla spalla, come per ancorarsi a qualcosa di reale e solido.

“Kurt?” disse in tono incerto, squarciando quell’innaturale silenzio.

Si sentì un click, e un angolo della stanza venne improvvisamente illuminato da una piccola lampada a muro. Kurt era seduto sull’ampio davanzale di una delle finestre, il vetro completamente oscurato ma ugualmente dotata di maniglia, in modo da poter cambiare l’aria in sua assenza. Aveva le braccia incrociate appoggiate alle ginocchia, lo sguardo fisso sul vetro. Non disse nulla.

Blaine si guardò brevemente intorno, notando la presenza di un grande letto matrimoniale a baldacchino, un tavolo rotondo al centro della stanza e un enorme armadio di mogano dal lato opposto, tutto scarsamente illuminato da quella piccola luce giallastra, che rendeva l’ambiente vagamente sinistro, avvolto in una sorta di penombra.

Anche i lineamenti di Kurt ne risultavano più accentuati, la luce che si soffermava sullo zigomo visibile creando una linea d’ombra sotto i suoi occhi. Non aveva niente a che fare con l’effetto della sua pelle illuminata dalla luna, però.

“Ciao” disse Blaine, deglutendo così forte che pensò si potesse sentire a distanza. “Io- io sono Blaine.”

“Sì, me lo ricordo” rispose Kurt, continuando ad evitare il suo sguardo. Sembrava riflessivo, quasi rassegnato alla sua presenza. Poi, all’improvviso, si voltò e lo fissò con un’intensità tale da farlo sentire così scoperto, così vulnerabile, che Blaine ebbe la tentazione di girarsi e lasciare quella stanza alla velocità della luce. Ma c’era anche qualcosa, dentro quello sguardo, dalla quale non ebbe la forza di ritrarsi.

Era come una forza magnetica, un’attrazione, che gli rendeva impossibile guardare altrove. Come se gli occhi di Kurt fossero il polo positivo, e i suoi quello negativo; così diversi, eppure fatti per attrarsi. E una volta che Blaine si sentì in grado di fissarlo di rimando, potè vedere in quelle due pozze trasparenti molte più cose.

Fu come guardare un vero e proprio specchio d’acqua: se lo guardi da lontano, o di sfuggita, ti accorgi soltanto del tuo riflesso sulla superficie, del modo in cui l’acqua si increspa, ma soltanto soffermandoti puoi riuscire a vedere quello che è sommerso, nascosto sul fondale. Soltanto se vuoi vedere, puoi farlo. Altrimenti, puoi semplicemente accontentarti di guardare un bellissimo specchio d’acqua, senza preoccuparti di cosa ci vive dentro, di quali tormenti ne animano gli abissi, quali storie.

Blaine decise di immergersi, senza preoccuparsi di poter essere trascinato giù da chissà quale misteriosa forza oscura, incapace di tornare in superficie. Ci vide dentro tanta rabbia, e gli fece male al cuore vederla. Vedere come animava le acque di quegli occhi liquidi, creandovi dentro turbini e vortici che rischiavano di risucchiare tutto quello che c’era di buono.

Ci vide dentro rancore, meno palese ma più radicato, come un’alga malsana attaccata agli scogli del fondale, giù, in profondità, dove pochi potevano allungare una mano e sradicarlo.

Ma soprattutto, ci vide dentro tanta tristezza. Una tristezza silenziosa, non quella di pianti incontrollabili e singhiozzi, ma quella di chi soffre senza dire nulla. Pacata, riservata, quasi delicata mentre aleggiava sull’acqua come una sottile nebbiolina notturna, rendendo lievemente opaco l’azzurro di quegli occhi.

E anche se Kurt in quel momento lo stava guardando come se lo volesse cacciare da un momento all’altro, Blaine lesse nei suoi occhi che non desiderava altro che qualcuno lo salvasse, che allungasse una mano verso di lui, che lo tirasse fuori dall’abisso che si stava creando sotto i piedi. Blaine lesse Resta, non te ne andare, ti prego.

Ed era quello che avrebbe fatto. Se anche avesse avuto dei dubbi dopo l’esito della cena del giorno prima, decise in quel momento che sarebbe riuscito a riportare Kurt alla vita, o che almeno ci avrebbe provato con tutto quello che aveva da dare. Avrebbe cercato di scacciare con una mano quella nebbia opaca di tristezza, placare i vortici impetuosi della rabbia e annientare il rancore più profondo.

Perché se la tristezza rendeva Kurt così bello, poteva solo immaginare come fosse vederlo felice.

“Sono colpito. Solitamente tutti distolgono lo sguardo, dopo un po’” disse Kurt all’improvviso, sbattendo le palpebre e spezzando così quel silenzioso momento, insieme al viaggio mentale di Blaine.

“Tutti?” chiese, scuotendo la testa come per scacciare via quel turbine di pensieri e tornare nel presente.

“Sì, lo faccio spesso. E’ sorprendente scoprire quanto le persone riescano ad intimidirsi, quando provano pena per te” disse Kurt, roteando le gambe per appoggiarle al bordo del davanzale e poi saltando giù con un fluido movimento. Camminò verso Blaine, fermandosi a pochi passi da lui e guardandolo in modo totalmente diverso rispetto a pochi secondi prima. Era come se avesse appena superato un test, e per quanto Blaine non sapesse esattamente che tipo di test fosse, fu molto felice di essere risultato idoneo. Ci fu una breve pausa.

“Io non provo pena per te.”

Kurt ritrasse lievemente la testa, colpito da quella affermazione, ma si ricompose immediatamente, al sicuro dietro il suo solido muro protettivo. Ma Blaine ormai sapeva di aver creato una piccola breccia, e non avrebbe permesso che si richiudesse.

“Comunque sia, direi che quello di ieri non è stato un grande inizio. Forse è il caso che io mi presenti, anche se sai già il mio nome” disse Kurt, cambiando argomento con nonchalance. Allungò una mano verso Blaine. “Sono Kurt.”

Blaine gli sorrise e la strinse, lasciando andare finalmente la tracolla. Si guardarono nuovamente negli occhi, ma fu solo un impercettibile attimo; poi si separarono.

“Allora, Blaine, che cosa mi insegni oggi?”

 


 

Insegnare a Kurt fu sorprendentemente facile. In realtà, Blaine non seppe nemmeno se fosse giusto utilizzare la parola insegnare, perché si trattava semplicemente di ripercorrere insieme a lui le lezioni che aveva avuto quella mattina, come se le dovesse raccontare ad un compagno di scuola con l’influenza che sarebbe tornato presto in classe. Era utile anche per lui, visto che poteva fare i compiti con un’altra persona, ripetere e confrontarsi sugli argomenti.

Kurt era un compagno di studio acuto, attento ed intelligente, non di quelli che ti invitano a studiare per poi trovare qualsiasi scusa plausibile per distrarti. Sembrava prendere la cosa piuttosto seriamente, e Blaine si chiese se fosse per il senso del dovere nei confronti di suo padre, che sborsava una fortuna per tenerlo al passo con il resto dei suoi coetanei, o se fosse per un semplice desiderio di sentirsi “normale” facendo appunto una delle cose più normali del mondo, studiare.

Dopo due ore piene, decisero di fare una pausa. Kurt si alzò dal tavolo e si stiracchiò, massaggiandosi il retro del collo e roteando la testa rimasta china troppo a lungo. Sembrò riflettere per un attimo su qualcosa, poi parlò.

“Seguimi” disse, prima di voltarsi senza aspettare risposta e dirigersi verso una porta diversa da quella da cui Blaine era entrato. Il moro si alzò e fece come gli era stato detto, seguendo Kurt al di là della porta e ritrovandosi in un’altra stanza, ovviamente illuminata allo stesso modo da luci artificiali. Rimase a bocca aperta mentre la osservava.

Era una specie di grande sala hobby, piena zeppa di oggetti di ogni tipo. C’era un pianoforte nero al centro della stanza, con degli spartiti sopra, che gli fece luccicare gli occhi come un bambino; un’arpa – l’idea di Kurt che suonava uno strumento così elegante non avrebbe più abbandonato la sua mente – e un violino appoggiato alla sua custodia. Attaccati ai muri, scaffali e scaffali ricolmi di libri di ogni forma, colore e dimensione, e una scrivania con sopra un computer portatile e fogli sparsi senza un preciso ordine, alcuni dei quali addirittura sul pavimento.

All’angolo opposto rispetto a quello riservato alla musica, invece, c’erano tre grandi tele per dipingere e un’altra ampia scrivania, ancora più disordinata: pennelli di tutti i tipi, la maggior parte usati, tavolozze con sopra macchie fresche di colore, panni pieni di ditate.

Vicino alla scrivania troneggiava una specie di solido piedistallo, con sopra un ammasso marroncino ancora informe che Blaine immaginò fosse argilla, o un altro materiale per scolpire. Scolpire.

Più che guardare una stanza, fu come guardare un pezzo di vita. Ovunque si voltasse, poteva immaginare Kurt: seduto al pianoforte, le sue lunghe dita pallide che si muovevano con naturale eleganza sui tasti; all’arpa, gli occhi chiusi per la concentrazione e un sorriso ad increspargli le labbra mentre si lasciava trasportare dalla dolcezza delle note; davanti ad una tela vuota, la tavolozza in una mano e il pennello nell’altra, i capelli arruffati per essersi appena svegliato con un’ispirazione incontrollabile e le guance arrossate sporche dei colori più vivi; e ancora intento a scolpire, l’argilla fresca sui palmi mentre dava forma ad un’idea, un pensiero, un’immagine.

Era tutto… vissuto. Reale. Blaine pensò che quella fosse la stanza più bella che avesse mai visto. Quella casa poteva anche avere un salone grande quanto la Dalton, candelabri di cristallo e tavoli così lunghi da poter farvi sedere intorno tutta la sua settima generazione, ma era sicuro che niente avrebbe eguagliato il modo in cui quella stanza rifletteva l’essenza della persona che ci viveva, che ci passava dentro buona parte del suo tempo.

Era come un piccolo rifugio, dove Kurt aveva disposto in bella mostra le sue passioni, i suoi interessi, il suo modo di essere. Una sorta di santuario, il santuario più sporco e disordinato che Blaine avesse mai visto, ma allo stesso tempo il più vero.

Sarebbe stato presuntuoso da parte sua pensare che Kurt avesse voluto farglielo vedere perché si fidava di lui, perché sentiva il bisogno di aprirsi; si erano appena conosciuti e forse era soltanto un invito a svagarsi durante la loro pausa dallo studio. Ma Blaine si sentì onorato comunque.

“E’ bellissima” disse, ancora intento ad assimilare tutto quello che aveva intorno a sé.

“E’ anche la stanza più caotica della casa” rispose Kurt, dandogli le spalle. “Non permetto neanche alla cameriera di venire a pulire.”

“Però hai fatto entrare me” disse Blaine, prima di poter trovare il tempo di pentirsene. Kurt si voltò lentamente, scrutandolo con aria pensierosa, come se Blaine avesse appena puntualizzato una cosa ovvia di cui però lui si era appena reso conto.

“Già” disse infatti, abbassando leggermente lo sguardo. “Forse non avrei dovuto.”

“Perché no?”

Kurt sembrò vacillare, interdetto. Era la prima volta in cui sembrava incerto su cosa dire.

“Perché è più facile” rispose dopo un po’, la tristezza nei suoi occhi improvvisamente più nitida e palpabile. “Tenere tutto qui e… e non permettere a nessuno di vedere.”

Blaine gli rivolse un piccolo sorriso. “Facile non vuol dire per forza giusto.”

Kurt annuì debolmente, ma non gli rispose. Si voltò di nuovo e con fare pensieroso accarezzò lievemente la superficie del pianoforte a pochi passi da lui, facendo avanti e indietro con le punte delle dita. Blaine lo immaginò ad occhi chiusi, anche se non poteva esserne sicuro, visto che era ancora sulla porta. Non disse niente neanche lui, osservando il modo in cui le spalle di Kurt si alzavano e si abbassavano lievemente e la sua testa faceva movimenti impercettibili, a destra e a sinistra, come se avesse una melodia in atto nella sua mente. Desiderò ardentemente conoscerla.

Desiderò con tutto se stesso conoscere Kurt, come non aveva mai desiderato nient’altro nella sua vita. Di solito le persone erano come libri aperti per lui, agevolate ad aprirsi grazie al suo atteggiamento spigliato e sicuro di sé, con il quale nascondeva la sua segreta fragilità; mentre Kurt… Kurt era un mistero. Un completo mistero.

Tutte quelle cose che aveva visto nei suoi occhi avevano ragioni e implicazioni che conosceva soltanto in superficie, ne era più che certo. C’era molto di più che un ragazzo affetto da una rarissima malattia, davanti a lui. C’era un ragazzo che aveva deciso di lasciare il mondo fuori, perché faceva meno male. Perché era più facile.

Ma forse, Blaine avrebbe potuto fare in modo che fosse il mondo ad entrare lì dentro. Avrebbe potuto mostrargli che valeva la pena sorridere anche senza il sole ad illuminargli il volto.

Perché era più che certo che si sarebbe comunque eclissato, se Kurt avesse sorriso.

 

 


 

 

Nel prossimo capitolo:

Blaine si pone tante, tantissime domande, ma spesso è proprio quando la risposta è davanti ai nostri occhi che è più difficile vederla.


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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 

 

Per chi ama, il sole non tramonta mai; per chi soffre, mai spunta.

- Anonimo

 


“Kurt?”

Blaine si richiuse la porta alle spalle, trovandosi ancora una volta avvolto dall’oscurità.

“Perché stai sempre al buio?” chiese, certo che Kurt fosse lì da qualche parte e potesse sentirlo. E infatti, poco dopo, la solita piccola luce nell’angolo si accese e il ragazzo apparve, seduto sul davanzale di pietra, stavolta con lo sguardo già rivolto verso di lui.

“Preferisco fare finta che sia sempre notte, piuttosto che sapere che non lo è. Lo so che è una cosa stupida” disse, mordendosi lievemente il labbro inferiore e stringendosi le ginocchia con le mani.

“Non è stupido” rispose Blaine senza esitazione, le labbra increspate in un sorriso incerto. Ingenuamente, sperava che bastassero cose così piccole per far sorridere Kurt a sua volta. Ma non funzionò. Non aveva funzionato, in quella prima settimana di studio che avevano passato insieme. Al contrario, vide lo sguardo di Kurt farsi subito più intenso e duro, quasi severo.

“Non farlo” gli disse il ragazzo dagli occhi chiari, mentre scendeva con grazia dal davanzale. Blaine sbattè le palpebre e ritrasse leggermente il viso, colto di sorpresa.

“Non fare cosa?”

“Non comportarti come se capissi” rispose seccamente Kurt, mentre si risistemava i pantaloni lievemente sgualciti lungo le gambe snelle. Aveva un tono autoritario, ma Blaine non riuscì ugualmente a sentirsi offeso. Perché in fondo, anche se era scortese dirlo ad alta voce, Kurt aveva ragione: lui non capiva. Forse nessuno capiva.

Ma non sapeva cos’altro fare per avvicinarsi a lui, se non mostrarsi comprensivo. Purtroppo, il confine tra comprensione e compassione poteva essere molto labile, e a quanto pareva era una cosa che infastidiva molto Kurt.

“Scusami” disse quindi, non sapendo che altro dire e sperando che bastasse, che Kurt capisse che era sincero. Kurt sembrò addolcirsi all’istante, forse rendendosi conto di aver esagerato, i suoi lineamenti delicati un po’ più rilassati di prima. Blaine colse l’occasione per cambiare prontamente discorso: “Allora, oggi matematica. Sei pronto?”

Kurt non rispose, rimanendo in piedi a fissarlo in quel modo che riusciva a farlo sentire terribilmente scoperto, come se stesse cercando di decifrare un codice segreto dentro di lui, di leggere i suoi pensieri. Blaine lo fissò di rimando, deglutendo, aspettando che Kurt dicesse qualcosa.

“Sembri diverso” disse infine, una leggera enfasi sulla seconda parola. Allora stava davvero cercando di decifrarlo. Blaine non seppe bene se esserne felice o meno, visto che la consapevolezza di essere così trasparente lo faceva sentire molto vulnerabile; ma almeno, l’esito era stato positivo. Diverso era un bene, giusto?

“Diverso… da chi?” chiese curioso, togliendosi distrattamente la tracolla dalla spalla e avvicinandosi al tavolo che li separava. La poggiò su una sedia e tornò a guardare Kurt, che sembrava dotato di una specie di capacità soprannaturale di non sbattere le palpebre per almeno un minuto buono. Ma sembrava esitante, in quel momento; come se stesse pesando attentamente le parole.

“Dagli altri” rispose semplicemente, come se fosse ovvio, ma con una strana incertezza che lasciò domande inespresse fluttuanti nell’aria intorno a loro. Dopo un po’, Kurt decise di rispondere almeno ad alcune di loro: “Non… non fai domande. A parte quella del buio, intendo. Non sei curioso.”

“Beh, preferisco conoscere una persona a poco a poco, invece che tempestarla di domande. Così è tutto più naturale” rispose Blaine alzando le spalle, pur sapendo che Kurt non parlava esattamente di quello. Anzi, in un certo senso volle risparmiargli la fatica di specificare di cosa stesse parlando, chiudendo l’argomento. Ma Kurt non aveva paura di farlo, sembrava voler condurre il discorso in una precisa direzione.

“Non parlo di quello, di conoscerci. Lo sai.”

“Io invece sì” rispose Blaine, un accenno di sicurezza nella sua voce. “Mi rifiuto di credere che una malattia definisca una persona. Perché dovrei fare domande?”

Kurt fece un piccolo sbuffo, come se Blaine avesse appena fatto una domanda ovvia, e alzò le spalle, roteando gli occhi.

“Perché è una cosa talmente rara, particolare. Rende le persone curiose.”

“Io sono curioso… di conoscerti” disse Blaine, alzando le spalle a sua volta. “Tutto qui.”

Se avesse detto a Kurt che voleva aiutarlo, forse sarebbe stato frainteso. Forse Kurt avrebbe pensato che ci fosse qualcosa di sbagliato in lui, che Blaine lo guardasse con occhi diversi, allo stesso tempo uguali a quelli di tutte le altre persone che tanto disprezzava. E non poteva bruciare così quell’occasione, gettare al vento quell’accenno di fiducia che Kurt sembrava nutrire per lui, forse per istinto o forse per un’attenta analisi che soltanto lui poteva realmente capire.

“Allora sei davvero diverso” rispose Kurt, gli occhi un po’ più luminosi. Un piccolo bagliore, quasi incerto, capace di estinguersi in qualsiasi momento; quello tipico che ha nello sguardo chi sta per sorridere. Blaine si chiese se volesse farlo, senza riuscirci, o se ne fosse perfettamente in grado ma non volesse, come se nessuno al mondo lo meritasse. Si chiese cosa fosse peggiore, e si chiese se, nel secondo caso, lui avrebbe mai potuto meritarlo.

“Diverso è un bene, giusto?” disse, prendendo posto alla sua sedia e tirando fuori un libro dalla sua tracolla. Kurt si sedette dall’altro lato del tavolo, facendo scomparire le sue mani al di sotto.

“Sì. Direi di sì” rispose. E quando alzò lo sguardo verso Blaine, quel piccolo bagliore c’era ancora.

 


 

Quando finirono di studiare, Blaine si apprestò a sistemare tutte le sue cose nella tracolla per andarsene, ignorando silenzioso il modo in cui Kurt lo stava guardando. Sembrava sul punto di dire qualcosa da almeno un minuto ormai, ed era chiaro che aveva bisogno del suo tempo. Così, con misurata lentezza, Blaine ripose l’ultimo foglio in borsa e fece per alzarsi.

“Blaine?” disse finalmente Kurt, la voce più debole di quanto l’avesse mai sentita.

“Sì?” rispose Blaine, alzando la testa quasi con fare distratto, come se non sapesse che doveva trattarsi di qualcosa di importante.

“Puoi…” – Kurt deglutì, abbassando lo sguardo per un secondo – “…puoi farmi domande. Se- se vuoi.”

Blaine rimase a mezz’aria, né seduto né in piedi del tutto, e lo fissò. Perché sì, era vero, aveva delle domande. Chi non le avrebbe avute? L’idea che Kurt fosse pronto, anzi desideroso, di aprirsi a lui in così poco tempo, lo rese quasi euforico e scombussolato allo stesso tempo, facendogli girare la testa. All’improvviso, turbinarono nella sua mente così tante frasi da poter dire che non seppe da quale iniziare, per paura di sembrare troppo entusiasta davanti a quella concessione.

E se Kurt avesse pensato che non aspettava altro? Se avesse pensato che non era diverso affatto?

Eppure, stava continuando a guardarlo con aria quasi speranzosa, come se avesse paura di essere rifiutato. Come se Blaine avesse il potere di deluderlo, dicendogli che non era interessato abbastanza da fare domande.

“Va bene” rispose, tornando nuovamente a sedersi e appoggiando la tracolla allo schienale della sedia. Distolse lo sguardo, il tempo necessario per riordinare le idee.

Ti senti solo, Kurt? Sei infelice?

Perché lo sono anch’io, lo sai?

Si rese conto che era quello che avrebbe voluto chiedere, perché era la verità. Il fatto che gli piacesse la sua vita non lo rendeva automaticamente felice. Appagato, forse, e soddisfatto di quello che aveva, ma non come qualcuno che aveva tutto ciò che poteva desiderare: come qualcuno che sapeva di avere abbastanza. Abbastanza da sorridere con facilità, abbastanza da trovare il tempo di interessarsi dei problemi degli altri, come in quel momento; abbastanza da vivere serenamente.

Ma ciò che aveva sempre cercato di ignorare, ciò che giaceva sepolto dentro di lui come un ronzio in attesa di venire allo scoperto e travolgerlo, gli era apparso chiaro quando aveva visto Kurt per la prima volta: non era felice. Non viveva di intense emozioni, che fossero gioie o che fossero dolori; viveva e basta, e per cosa? Non lo sapeva.

Non lo sapeva ed era così frustrante non saperlo. Così snervante, sapere che un senso doveva pur esserci, doveva per forza, perché altrimenti qual era il punto?

Preoccuparsi della vita di Kurt, del dolore che si nascondeva dentro i suoi occhi, lo aveva fatto sentire per la prima volta come se avesse una missione, un motivo per cui svegliarsi ogni mattina. Ma allo stesso tempo, gli aveva fatto capire chiaramente che prima questo motivo non c’era, e non era un bene. Perché Kurt era praticamente uno sconosciuto, e poteva davvero affidare a tal punto la sua vita ad uno sconosciuto, per giunta ignaro dell’importanza che aveva improvvisamente assunto, ignaro di quanto valore avessero le sue parole e di quanto contasse per Blaine il sorriso che non voleva concedergli?

Ignaro del fatto che da qualche giorno a quella parte, Blaine si svegliava sperando di poterlo vedere sul suo viso e scoprire che sapore avrebbe avuto il mondo l’attimo dopo?

Non era forse un rischio, un rischio inutile, quando poteva benissimo vivere sereno tra le mura accoglienti della Dalton e lasciare quel ragazzo allergico al calore del sole ai suoi problemi, alla sua vita? Lasciare che passasse il resto dei suoi giorni nel buio, ma quello del cuore e dell’anima?

Sì, Blaine aveva tante, troppe domande. E nessuna, nessuna aveva a che fare con la malattia di Kurt. Avevano a che fare con Kurt, quale fosse il suo colore preferito, quali fiori preferisse dipingere – e gli piaceva dipingere fiori? – e quali canzoni preferisse suonare, e se avesse mai sorriso prima di incontrarlo, se avesse iniziato e poi smesso, e chi era che ci era riuscito? Chi l’aveva fatto smettere? Chi gli aveva fatto credere che non ci fosse luce nel mondo, all’infuori di quella di uno stupido astro del cielo?

E a Kurt era mai battuto il cuore per qualcuno? E gli si erano mai illuminati gli occhi, come qualche ora prima, per qualcuno che non era lui?

Ma alla fine, Blaine sapeva benissimo di non poter fare nessuna di quelle domande; sia perché erano fuori luogo, sia perché lui stesso non voleva farle, sapendo che una volta avute le prime risposte ne avrebbe voluto altre, e altre, e poi altre ancora. Forse era meglio lasciarle inespresse, lì dov’erano, nella sua mente.

Lasciare che vorticassero l’una intorno all’altra come foglie giallastre cadute dagli alberi in autunno, prima di accasciarsi sull’asfalto, ammassate e confusionarie, e poi appassire e raggrinzirsi. Scomparire. Fondersi con il terreno come se non fossero mai esistite aspettando che la neve dell’inverno le ricoprisse, soffocandole del tutto e mettendo a tacere ciò che ancora, pur sepolto, potevano cercare di gridare dalla terra.

E poi, in primavera, foglie nuove, fresche e verdi sarebbero nate dai rami degli alberi, diverse per aspetto, forma e colore. E forse quelle non sarebbero nate per Kurt. Forse l’inverno ormai alle porte avrebbe messo a tacere tutte quelle voci, troppo affrettate, troppo insensate, troppo tutto.

Era quello il problema: mentre la sua vita gli era sembrata fino a quel momento monotona, sì, ma accettabile, all’improvviso, in pochi giorni, stava smettendo di esserlo. Guardare Kurt… era troppo. Era strano, era diverso, era… dio, era intenso e niente lo era mai stato, non così. Niente, nella sua vita, era riuscito a stregarlo a tal punto.

E non si trattava solo di quando i loro sguardi si incontravano; quello, Blaine avrebbe potuto anche capirlo.

Era intenso anche solo guardarlo. Kurt era di un altro mondo.

E quell’intensità, quel calore, quell’emozione terrificante lo fecero pietrificare lì, in quel preciso istante, e domandarsi Blaine, cosa stai facendo?

Così, fece tutte le domande sbagliate. Giuste, perché erano a modo, avevano senso e coerenza ed erano forse ciò che Kurt voleva che lui chiedesse. Ma sbagliate, così sbagliate.

“Sei… sei così da sempre?” fu quella con cui iniziò.

“Sì, da quando sono nato” rispose Kurt, picchiettando distrattamente sul legno del tavolo con le dita mentre sosteneva il suo sguardo. Blaine si chiese se riuscisse a leggergli dentro anche in quel momento, sapendo esattamente che quella era l’ultima domanda che avrebbe voluto fargli.

“Quindi non sei mai uscito da questa casa di giorno?” continuò, imperterrito.

A quella domanda, Kurt esitò. Fu un fremito, un brivido quasi impercettibile, ma si ricompose subito.

“No” rispose seccamente, la mascella più rigida. Blaine deglutì, chiedendosi se quella conversazione potesse davvero fare bene all’amicizia che stavano lentamente creando dal nulla, invece di peggiorare la situazione e allontanare Kurt ancora di più. Ma decise di continuare, almeno per un po’. Fiondarsi in quel discorso perché aveva senso, ed era reale, poteva gestirlo perché era reale e normale provare quel tipo di curiosità. Kurt glielo stava permettendo.

“E non hai mai parlato con qualcuno come te?” gli chiese d’istinto. Pensò che potesse essere una domanda innocua, forse la più irrilevante fatta fino a quel momento; ma si sbagliava. Kurt si irrigidì all’istante, diventando leggermente più pallido del solito.

Il suo sguardo quasi trasparente, dentro il quale avrebbe voluto annegare, vacillò per un attimo come se fosse davvero fatto d’acqua, come se potesse davvero incresparsi per la brezza della sera come quella del lago accanto al quale Blaine lo aveva visto per la prima volta. Come se Blaine, passandoci sopra la mano con delicatezza, avesse potuto delinearvi piccoli cerchi concentrici per poi vederli svanire pigramente sotto le sue dita.

Quando tornò ad essere immobile, fisso su di lui, era tagliente come ghiaccio e gli strinse il cuore in una morsa.

“Mia madre era come me.”

Blaine sgranò gli occhi. Era.

Perché non si era chiesto prima il motivo dell’assenza di una donna in casa? Kurt poteva avere dei genitori separati, era vero, ma dannazione. Troppo preso dal senso di colpa, intento a formulare qualcosa di sensato da dire, non si concentrò molto sulla seconda parte della frase, anche se ugualmente importante. La malattia era genetica, aveva senso.

Ma la madre di Kurt era morta e lui aveva fatto una domanda così stupida, portandolo esattamente a quella risposta e facendo in modo che ricordasse, e lo sguardo di Kurt era già lontano, inafferrabile, poteva sentirlo scorrere tra le dita come gocce di pioggia scrosciante che non avrebbe potuto trattenere e custodire.

“Mi dispiace” disse, prendendosi mentalmente a schiaffi per la risposta. Il trionfo della banalità, la sua voce mortificata e piena di compassione, a Kurt non avrebbe fatto piacere. Ma a quanto pareva, Kurt aveva la mente troppo distante ormai, persa chissà dove, e non sembrò curarsi molto del suo tono. Blaine si chiese a cosa stesse pensando; anzi, lo sapeva: a sua madre.

Così si chiese come e quando fosse morta, se fosse quello il motivo della sua tristezza, il principale almeno. Che tipo di persona fosse, se gli somigliasse almeno un po’. Se fosse bella da far piangere, in modo così intenso e straziante da essere allo stesso tempo meraviglioso, incomprensibile e spaventoso.

All’improvviso, Kurt sbattè le palpebre, come se fosse appena tornato alla realtà da un’allucinazione.

“Sono io che ti ho dato il permesso di chiedere” disse, ma sembrava distratto, come se la questione non importasse più e avesse qualcosa di impellente da fare. “Non importa.”

Blaine aprì la bocca per dire qualcosa, pur non sapendo cosa, ma Kurt riprese: “Ora è meglio che vada. Ci… ci vediamo domani.”

E senza guardarlo negli occhi, si alzò, girò i tacchi e raggiunse a grandi passi la sala hobby. Blaine lo osservò mentre apriva la porta e se la richiudeva frettolosamente alle spalle, restando lì, fermo, senza sapere bene cosa fare né cosa pensare.

Non era riuscito nemmeno a cogliere il suo sguardo mentre si girava per chiudere la porta. Era scorso via, come la pioggia.

Forse aveva rovinato tutto, tirando troppo la corda. Forse Kurt si sarebbe chiuso di nuovo in se stesso, a causa di brutti ricordi che lui aveva risvegliato con le sue stupide domande.

Stupide, stupide, stupide, ma lo erano più di quelle che avrebbe davvero voluto fare?

Mordendosi il labbro e frenando l’impulso di raggiungere la porta e bussare, Blaine si alzò e lasciò la stanza, sapendo benissimo, e tristemente, dove sarebbe andato per non doverle più sentire.

 


 

Baci, e lingue, e morsi, e “Oh, Blaine” mentre respiri affannati si sovrapponevano l’uno all’altro nel silenzio.

Ti prego, più forte, più forte, riesco ancora a sentirle, a sentirlo.

Non bastava. Non più. Più Blaine cercava di aggrapparvisi, più si rendeva conto che non era niente, che non serviva a niente, e mentre il suo nome lasciava quelle labbra ora premute sul suo collo, macchiato dall’estasi del momento e dall’odore sbagliato con il quale avevano impregnato la stanza, si chiese che suono avrebbe avuto sulle labbra di Kurt, intonato dalla sua voce perfetta come fosse una canzone mentre le sue dita danzavano sui tasti bianchi di un pianoforte.

Faceva così paura, provare così tanto e tutto insieme. Non gli era mai successo ed era terrorizzato, e fino a quel giorno, fino a quel momento, la sola intensità che aveva provato era quella di un corpo caldo sopra il suo e mani che lo esploravano cariche di desiderio, quelle stesse che gli tenevano i fianchi stretti in una morsa ancorandolo ad una realtà, un presente, che non contavano più niente.

“Blaine…”

Smettila, smettila di parlare, di baciare, di toccare, smettila.

Come se l’avesse detto ad alta voce e fosse stato magicamente ascoltato, Blaine si rese conto che era finita, era finito tutto e non si era neanche accorto del suo stesso piacere. Perché era vuoto, come tutto il resto.

Dio, ma come aveva fatto? Come aveva fatto a dare ad un’altra persona così tanto potere? Kurt non aveva neanche idea di quello che gli passava per la testa, era sicuramente l’ultima delle sue preoccupazioni, e lui era ridotto ad un ammasso di niente, su lenzuola disordinate, sporche, calde eppure fredde, a domandarsi se in quel momento lo stesse pensando almeno un po’, immobile con il pennello a mezz’aria davanti ad una tela bianca tutta da inventare, magari senza idee, senza ispirazione, oppure con un’immagine in testa che non riusciva a mettere a fuoco.

E allora si sarebbe concentrato per pensare a come fare, mordendosi leggermente il labbro inferiore come aveva fatto due giorni prima per quell’equazione, una ciocca che cadeva silenziosa sulla sua guancia per poi essere distrattamente messa a posto; poi si sarebbe accorto di essere guardato, arrossendo leggermente ma senza sorridere, nemmeno un po’, neanche un accenno, e poi –

“Blaine?”

Blaine guardò quegli occhi chiari che aveva a pochi centimetri dai suoi, domandandosi perché il loro sguardo non fluttuasse come acqua mossa dal vento. Domandandosi che accidenti ci facesse ancora lì.

Domandandosi se, alla fine, Kurt fosse riuscito a tingere la tela di colori intensi e vivi senza rendersene conto, proprio come aveva fatto con il suo cuore.

 


 

Kurt si chiuse la porta alle spalle, accasciandosi su di essa con la schiena e chiudendo gli occhi. Inspirò profondamente, aspettando di sentire una sedia muoversi nell’altra stanza, strisciando sulla dura pietra, e la porta della sua camera aprirsi e poi richiudersi. Quando accadde, riaprì gli occhi e si diresse a grandi passi verso la tela centrale, il desiderio di dipingere che si impossessava di lui come faceva sempre quando qualcosa non andava, quando si sentiva sopraffatto dalla solitudine, dalla rabbia o dal ricordo, come in quel momento.

Prese un pennello e la tavolozza con i colori più scuri e freddi dalla sua scrivania disordinata, per poi posizionarsi davanti alla tela. Solitamente, quando si ritrovava a pensare a sua madre, dipingeva paesaggi tinti di azzurro e blu, come quegli occhi che aveva ereditato insieme alla sua pelle, alla sua condanna.

Colline simili ad onde di un mare in tempesta, alberi spogli ed essenziali come quelli di navi sballottate qua e là nella burrasca, i tratti netti e frettolosi, dettati dall’istinto.

Spesso, troppo spesso, i quadri smettevano di avere una consistenza precisa trasformandosi in ammassi di sensazioni e pensieri; il giorno seguente, riguardandoli, Kurt finiva per buttarli nell’immondizia la maggior parte delle volte soltanto per non doverli più vedere, perché per quanto fossero confusionari e privi di senso, mettevano tutto a nudo in un modo in cui solo l’arte poteva fare, senza bisogno di parole e persino di immagini, a quel punto. Gli mostravano con sconcertante chiarezza il caos che aveva dentro da quando lei se n’era andata, lasciandolo solo in un mondo che non lo capiva e che lui non capiva, un mondo che girava senza sapere neanche della sua esistenza perché era come se Kurt non esistesse.

Perché chi lo avrebbe ricordato, quando anche suo padre sarebbe morto? Il suo maggiordomo? La sua casa? I prati del suo giardino, le stelle del cielo che non gli somigliavano, non lo avevano mai fatto, oppure i fogli privi di senso sparsi sul pavimento e i colori incrostati sul manico dei suoi pennelli?

Kurt era nato nel buio e nel buio sarebbe tornato, era fatto di buio e non voleva più vederlo, non su quella tela. Non quando, almeno per una volta, poteva gettarlo via e fingere di non averlo mai dipinto e mai conosciuto.

Eppure, in quel momento, si ritrovò senza sapere cosa dipingere. Abbassò lo sguardo sui colori e si rese conto che non andavano bene. Così, senza pensare, posò la tavolozza e ne prese un’altra.

Rosso, arancione, tinte di ocra e giallo intenso fino ad arrivare ad accenni di marrone chiaro. Kurt le guardò e si chiese cosa stesse facendo. Si chiese perché le stesse usando.

Soltanto dopo aver finito, facendo un passo indietro e guardando con attenzione le linee contorte che aveva dipinto con quei colori, si rese conto di aver provato a combinarli per creare quello di due occhi chiari, luminosi e belli come il sole che non gli era concesso di vedere, senza esserci riuscito.

 

 

 


 

 

Se Blaine vi sembra troppo paranoico, è semplicemente perchè io lo sono, e in qualche modo finisico sempre per trasmettergli qualcosa di mio quando scrivo. So che può sembrare tutto affrettato da parte sua ma è proprio questo il punto: lo è, ed è per questo che fa paura.


Nel prossimo capitolo:

Mentre Blaine affronta il peso dei suoi sentimenti, Kurt affronta quello dei ricordi.

 

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


 

Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera.

- Salvatore Quasimodo

 


“Dì un po’, è vero che hai iniziato a dare ripetizioni?”

Blaine sbattè le palpebre, sorpreso dalla domanda.

“Sì” rispose con aria esitante. “Perché?”

“Mi chiedevo cosa fosse a tenerti così occupato.”

“Non sono comunque affari tuoi.”

Blaine si alzò dal letto, camminando a piedi nudi sul pavimento di legno della sua stanza del dormitorio, in cerca della camicia. All’improvviso, due braccia gli si avvolsero intorno alla vita e sentì un mento affusolato nell’incavo della sua spalla.

“Ma certo che lo sono” disse il ragazzo, strofinandogli il naso sul collo. “Mi importa sempre quello che fai, dovresti saperlo.”

“Smettila, Sebastian” sbottò Blaine, sciogliendo l’abbraccio e voltandosi per guardare il ragazzo. Aveva i capelli arruffati e indossava soltanto i boxer, come lui.

“Sappiamo entrambi che ti importa soltanto quando toglie tempo a questo” continuò, enfatizzando la parola con un gesto eloquente verso le lenzuola disordinate. Sebastian fece un ghigno compiaciuto e si incrociò le braccia al petto, inclinando il suo peso su un piede.

“Adoro questa cosa di te” disse con la sua voce profonda, la stessa che mesi prima lo aveva lentamente avvolto in una trappola come una farfalla nella tela di un ragno. Blaine lo aveva lasciato fare, semplicemente perché non aveva niente da perdere, e nessun pensiero che glielo potesse impedire. Non ancora. “Come riesci sempre a fare finta che non ti piaccia… dopo.”

Blaine sbuffò, alzando le mani al cielo, ma non disse nulla. Si voltò, aprì la porta del bagno e se la chiuse alle spalle, sapendo che il gesto avrebbe suggerito a Sebastian di andarsene come ogni volta.

Si sfilò velocemente i boxer ed entrò nella doccia, inclinando la manopola dell’acqua calda. Si infilò sotto il potente getto e chiuse gli occhi, rilassando istantaneamente i muscoli e sospirando deliziato, un leggero alone di vapore che nasceva intorno a lui offuscando i contorni del suo corpo. Sperò che, al contrario, potesse rendere più chiari i suoi pensieri.

Era innegabile che provava attrazione per Kurt. Francamente, era piuttosto sicuro che se Kurt avesse potuto andarsene in giro come chiunque altro, anche le piante sarebbero state attratte da lui.

Ma non era solo quello, non poteva esserlo. E non riusciva a dargli un nome, perché non era neanche amore. Pur non avendolo mai provato, Blaine sapeva che non lo era.

Ma proprio perché non lo aveva mai provato, non sapeva di essere già in bilico, sul punto di cadere e innamorarsi, innamorarsi perdutamente. Alla cieca. Senza sapere cosa farsene, come gestirlo, perché non era così che succedeva. Le persone passavano del tempo a conoscersi, uscire, capire i loro interessi.

E cosa più importante, quella che lo frenava e lo faceva sentire un terribile egoista: non era quello ciò di cui Kurt aveva bisogno. Blaine aveva desiderato aiutarlo, farlo stare bene con la sua presenza e la sua riservatezza, e rischiava già di rendere tutto più complicato e contorto quando era una cosa così semplice. Farlo stare al passo con il programma scolastico e magari diventare suo amico, cosa c’era di meglio che un amico? Le amicizie duravano, gli amori no. Non sempre.

E Kurt meritava una cosa che durasse, su cui poter contare. Non qualcosa che lo scombussolasse, togliendogli le certezze da sotto i piedi come stava succedendo a lui.

E poi, dannazione, che cosa si tormentava a fare quando non sapeva nemmeno se Kurt avrebbe potuto ricambiare?

Blaine poteva farcela. Si disse che poteva farlo, era ancora in tempo. Era presto, tutto dettato dalla suggestione dell’aver trovato una bellezza così rara, dal mistero emanato dai suoi occhi, dalla luce della luna sulla sua pelle. Kurt non era un ragazzo ordinario, e questo lo aveva destabilizzato. Sconvolto. Lo aveva alienato dalla realtà facendogliela rivalutare con occhio critico, illudendolo che fosse quella la realtà, mentre erano solo poche ore al giorno passate tra quattro mura di pietra in una casa fuori dal tempo, dove la luce del sole e tutto ciò che illuminava non potevano filtrare attraverso vetri spessi ed oscurati.

Ancora intento a riflettere, Blaine si rese conto troppo tardi che qualcuno aveva aperto le ante della doccia, richiudendosele alle spalle. E quando lo capì, lasciò che accadesse ancora una volta per convincersi che poteva riuscirci davvero, poteva scappare da un sentimento che non capiva e che faceva troppa paura, mentre lì dentro, sotto l’acqua e tra nuvole di caldo vapore, tutto era vero e facile, comprensibile.

Funzionò, ma non abbastanza.

 


 

Le cose sembrarono andare meglio nel corso della settimana successiva. Blaine riuscì ad essere più professionale, distaccato quanto bastava ma ugualmente gentile; per fortuna gli riusciva naturale, non poteva proprio farne a meno. Aiutato soprattutto dal fatto che Kurt non sembrasse più incline alle domande dopo l’incidente dell’ultima volta, e dal sesso con Sebastian che gli offuscava i sensi, pensò di essere riuscito a soffocare una cotta passeggera ed infantile che non avrebbe creato altro che danni e tornò a concentrarsi sull’amicizia che aveva avuto intenzione di instaurare in origine.

Kurt, però, decise in un modo che avrebbe potuto essere tranquillamente definito strategico di mandare tutto a monte un giorno, quando il cellulare di Blaine vibrò più e più volte sul tavolo a causa di messaggi puntualmente ignorati.

“Hai litigato con la tua ragazza?” chiese in tono casuale, mentre Blaine teneva lo sguardo fisso sullo stesso rigo del libro da troppo tempo facendo finta di leggere un passaggio per poi ripeterglielo.

“Come?” rispose, fingendo di non aver capito di cosa stesse parlando.

“Il cellulare… non rispondi? Non è un problema per me, la paga è standard!” disse Kurt con sarcasmo. Vista la mancanza di sorrisi, Blaine sapeva riconoscere le sue emozioni da altri segnali ormai. La concentrazione, quando si mordeva il labbro; l’indecisione, quando abbassava lo sguardo; il sarcasmo, come in quel momento, quando alzava un perfetto sopracciglio. Era strano e bello allo stesso tempo quante cose si potessero capire dal movimento dei suoi lineamenti, nonostante mancasse quello fondamentale. Quello che Blaine continuava comunque a desiderare; come amico, ovviamente.

“Preferisco di no” rispose, sperando di sembrare tranquillo. E poi lo specificò, pentendosene non appena le parole gli sfuggirono: “E non è la mia ragazza.”

Kurt annuì e abbassò lo sguardo con aria vagamente pensierosa. Anche Blaine lo fece, ma era come se sapesse che mancava qualcosa, che stava per succedere, che Kurt avrebbe fatto una domanda che avrebbe cambiato tutto, spezzando quella nebbia di dubbi e cose non dette che sembrava avvolgerli da sempre, da quando si erano conosciuti, quasi proteggendoli rinchiusi in una gabbia dorata e a suo modo sicura, ma pur sempre una gabbia.

Kurt alzò lo sguardo e lo fissò. Oh no. Non così. Non guardarmi così.

“Ragazzo?”

Blaine cercò di ignorare l’accenno di velato interesse nascosto in quella frase, ma fallì miseramente. Kurt aveva quell’innata capacità di porre una domanda cruciale, o di dire una cosa importante, senza che la minima preoccupazione trasparisse dal suo viso. Aspettava una risposta, ma era come se avesse a disposizione tutto il tempo del mondo. Lo stava fissando, e tanto bastava per far sentire Blaine come se fosse nudo in mezzo ad una calca di persone.

“Sì” rispose con voce debole, deglutendo. Kurt sbattè le palpebre ad una velocità impercettibile, scomponendosi leggermente sulla sedia prima di rimettersi dritto.

“Ma non…” – Blaine esitò, mordendosi il labbro – “…non è il mio ragazzo. Lui- io-“

Per una volta, sperò di essere interrotto e salvato miracolosamente dalla fossa che si stava scavando, ma un’altra caratteristica di Kurt era che non permetteva ad un discorso di concludersi, a meno che non lo volesse. Continuava a fissarlo, aspettando che continuasse. Ma non con severità, né con aria autorevole, solo… in attesa.

“Non stiamo insieme” concluse Blaine.

“Ma…?” incalzò Kurt, la curiosità che traspariva dal suo sguardo. Se fosse stato un cane, avrebbe avuto la coda e le orecchie alzate, all’erta. Blaine ormai era convinto che volesse saperlo per un motivo ben preciso, e l’illusione era dolce e acre allo stesso tempo.

“Ci… vediamo, ecco. Quando ci va” rispose titubante. Lo sguardo di Kurt vacillò.

“Oh” rispose, abbassando lo sguardo. “Non me lo aspettavo.”

Blaine trasalì lievemente e alzò un sopracciglio. “Che vuoi dire?”

“Che pensavo cercassi qualcosa di più, non so perché. Scusami, è- tutto questo è inopportuno da parte mia.”

Blaine non rispose, riflettendo su ciò che aveva appena sentito. Kurt lo reputava una persona migliore di ciò che era, evidentemente. O aveva sperato che quel qualcosa di più, lo volesse con lui?

“…e tu?” chiese quindi, consapevole di essere appena entrato in un vortice di interrogativi senza via d’uscita. Giorni e giorni di sforzi buttati al vento, ed era in bilico, di nuovo, forse senza saperlo.

“Io… cosa?” chiese allora Kurt, alzando un sopracciglio. Stavolta non in modo ironico, ma semplicemente per curiosità e con una punta di scetticismo che fece scattare qualcosa dentro Blaine.

“Scusami, è una domanda stupida” disse frettolosamente.

“E’ stupido chiedermi se ho una ragazza o un ragazzo?”

“No, cioè, io- non intendevo-“

“Blaine, sta tranquillo” disse Kurt, facendo un gesto di noncuranza con la mano al di sopra del tavolo. “Cercavo solo di capire. Comunque no.”

Blaine si rilassò, le spalle che sembrarono abbassarsi di dieci centimetri nel farlo. Stava giusto riportando lo sguardo sul libro per cambiare pagina, quando Kurt parlò di nuovo.

“Se l’avessi, comunque… sarebbe un ragazzo.”

Il mondo si fermò e i loro sguardi si incontrarono per un secondo, ma fu troppo. E Blaine capì di aver appena perso la sua guerra.

Cercò di non dare a vedere il fremito che lo scosse quando il contatto visivo si spezzò, perché quella frase rendeva improvvisamente tutto reale, tangibile, a portata di mano. Poteva concedersi di desiderarlo. Da quel momento, poteva osservare Kurt e domandarsi se stesse pensando a lui, ma un po’ meno in astratto. Molto meno.

All’improvviso, una domanda gli balenò nella mente e non riuscì a fare a meno di trattenerla.

“Kurt, posso farti una domanda?”

“Certo.”

“Tuo padre… lo sa?”

Kurt sbattè le palpebre, sorpreso.

“Perché me lo chiedi?” domandò, il tono leggermente sulla difensiva come se sospettasse qualcosa. Blaine distolse lo sguardo e arrossì, e Kurt capì immediatamente.

“Pensi che ti abbia assunto perché sei un ragazzo?” chiese, il tono vagamente accusatorio. Ma prima che Blaine potesse rispondere, i suoi lineamenti si addolcirono e lui continuò a parlare: “L’annuncio era per tutti, Blaine, o almeno così mi ha detto dopo averti assunto visto che non ne sapevo nulla. Lo sa, ma dubito che fosse quello l’intento. Voleva solo che avessi uno straccio di vita sociale.”

Blaine annuì debolmente, l’aria pensierosa. Aveva un’altra domanda.

“Perché non volevi che trovasse qualcuno della tua età?”

Kurt ci mise un po’ di più a rispondere, stavolta. Come per sua madre, la sua mente sembrò improvvisamente lontana e Blaine si pentì di aver chiesto, terrorizzato all’idea di vederlo allontanarsi di nuovo al di là di una porta senza concedergli i suoi occhi neanche un secondo di più.

“Perché i rapporti includono la fiducia, Blaine. E quella… non è il mio forte.”

Blaine si chiese se qualcuno lo avesse ferito a tal punto da arrivare ad una conclusione del genere, o se Kurt semplicemente non ne sentisse il bisogno. In entrambi i casi, quella frase lo riportò bruscamente alla realtà, a quanto fossero complicate le cose, a quanto fosse vicino al rendere tutto più difficile con la sua stupida attrazione. Se Kurt aveva dei problemi persino a fidarsi di qualcuno, come poteva pretendere che lo facesse a tal punto da amare?

 


 

“Kurt, lui è Andrew. E’ il figlio di Margaret, la mia amica, te la ricordi? Perché non giocate insieme adesso?”

Kurt alzò lo sguardo verso sua madre e poi lo riportò sul bambino biondo che aveva davanti, che lo stava fissando con aria speranzosa. Gli rivolse un piccolo sorriso.

“Va bene” disse annuendo. “Ciao, io sono Kurt!”

“Andrew” rispose il bambino, porgendogli la mano con cordialità. Kurt la strinse.

“Andrew, io e tua madre siamo in salotto a prendere il tè. Ti ricordi quello che ti ho spiegato, vero?” chiese Elizabeth, rivolgendogli uno sguardo particolarmente intenso. Il bambino trasalì lievemente a quella improvvisa serietà, ma annuì nella sua direzione.

“Bene” disse la donna. “Kurt, c’è la piscina gonfiabile nella stanza accanto alla tua, potete togliervi la maglietta e fare il bagno se volete.”

Kurt annuì e alzò le braccia, aspettando che fosse lei a farlo. Elizabeth roteò gli occhi, ma gliela tolse senza dire altro. Anche Andrew rimosse la sua e poi tornò a guardare Kurt, e insieme i due corsero via, verso la sua camera piena di tutti i giochi che un bambino di sei anni potesse desiderare.

Ma era estate, e con le finestre chiuse faceva caldo, terribilmente caldo, nonostante fossero in costume. E ad Andrew non piacevano i peluche di Kurt, né la sua casa delle bambole, né la collezione di piccoli vestiti con i quali amava cambiarle giornalmente e simulare sfilate di moda. Non gli piaceva il suo piccolo servizio da tè, simile a quello di sua madre, né i pasticcini di plastica con i quali organizzava finti rendez-vous con tutti i suoi giocattoli.

Non volle nemmeno fare il bagno nella sua piscina di plastica, dopo averla vista, perché diceva che quella era per bambini piccoli, non per loro.

Andrew voleva piste con le macchinine, oppure robot, o videogiochi, o… una palla. Kurt aveva una palla.

“Questa ti piace?” gli chiese, sperando che questa volta il bambino annuisse. Erano passati dieci minuti e non avevano ancora iniziato a giocare a niente, e Andrew continuava a guardarsi intorno come se disprezzasse tutte le sue cose, il suo mondo. Non gli piaceva.

“Si” rispose Andrew, sorridendo ampiamente. “Ma non si può giocare a palla dentro casa!”

Kurt abbassò lo sguardo, fissandosi i piedi. “Lo so, ma- la mia mamma non vuole che esco di giorno. Il sole mi brucia la pelle, e-“

“Secondo me lo dice solo perché non vuole che ti sporchi, le mamme lo fanno sempre!” disse Andrew, annuendo vigorosamente come per voler dare più peso alla sua affermazione. Elizabeth gli aveva detto che potevano giocare solo ed esclusivamente dentro casa, perché uscire era molto, molto pericoloso per Kurt. Era stata molto chiara, e molto seria, ma Andrew in quel momento si convinse fermamente di avere ragione.

“No, lei- lei non dice le bugie” sbottò Kurt, improvvisamente offeso.

“Hai paura di farla arrabbiare, vero? Fifone!”

Andrew fece una piccola risatina. Voleva davvero giocare a palla, gli Hummel avevano un giardino meraviglioso che sua madre aveva sempre invidiato, e faceva davvero troppo caldo lì dentro. E poi, in fondo stava facendo il bravo: non si giocava a palla dentro casa, si rischiava di rompere qualcosa di prezioso, come quel vaso di ceramica di sua zia a Natale. Si era arrabbiata molto, e aveva iniziato ad urlare così tanto da farlo piangere.

“Io non sono un fifone!” disse Kurt, lacrime di rabbia che si addensavano nei suoi occhi.

“Allora vieni con me!” rispose Andrew, e senza dire altro gli afferrò la palla dalle mani e lo oltrepassò, iniziando a correre per uscire dalla stanza e attraversare il corridoio che conduceva al giardino posteriore. Kurt si voltò e lo seguì correndo, il cuore che batteva forte, troppo arrabbiato per pensare attentamente a quello che stava facendo.

E se Andrew avesse avuto ragione? E se sua madre lo avesse tenuto in casa per tutto quel tempo soltanto perché non voleva che si sporcasse, o che rovinasse le piante del giardino?

Ma lei non diceva le bugie. Lei era dolce e gentile, e voleva solo il suo bene.

Ma lui non era un fifone. Kurt era coraggioso. Voleva dimostrare ad Andrew di essere coraggioso proprio come i principi delle favole, e magari lui avrebbe acconsentito a stringergli la mano come facevano nei cartoni, quando scendevano lunghe scalinate insieme alle loro principesse. Magari avrebbero potuto giocare ad essere entrambi principi, se lui gli avesse fatto vedere che non aveva paura di niente.

E così, senza la minima esitazione, seguì l’altro bambino fino alla porta e poi fuori, all’aperto, sotto il sole. La sua luce lo abbagliò, ma non fu quello a fare male: era la sua pelle. Ovunque, in qualsiasi punto, era come se fosse in fiamme.

Per fortuna, Kurt ebbe la prontezza di coprirsi il viso con la mano non appena ebbe oltrepassato la zona d’ombra, con l’intenzione di ripararsi dalla luce, e subito dopo dal dolore. Inciampò sulla ghiaia e si accasciò a terra, contorcendosi, appiattendo il viso su di essa e sotto il suo corpo e stringendosi le braccia al petto dove il sole non poteva arrivare, dove non faceva male, dove tutto era fresco e sicuro.

Cercò di alzarsi ma non poteva farlo, perché avrebbe dovuto alzare la testa, avrebbe dovuto poggiare le mani sulla ghiaia, e non riusciva a vedere, non riusciva a pensare; sapeva solo che stava gridando, piangendo e singhiozzando e che in lontananza Andrew stava correndo nella direzione opposta, rientrando dentro casa per chiamare aiuto.

E la schiena bruciava, pulsava, vibrava come se avesse voluto staccarsi dal suo corpo e prendere il volo, e Kurt desiderò che lo facesse, desiderò di scomparire pur di non sentire, pur di non provare più dolore.

Dolore. Dolore. Dolore.

Non c’era nient’altro, ed era troppo intenso, troppo sbagliato.

All’improvviso sentì delle voci sconvolte, delle grida, e poi il corpo robusto di suo padre fu subito sopra il suo, coprendolo del tutto e riportando l’ombra su di lui. Divenne tutto buio.

 


Kurt si svegliò spalancando gli occhi, le lenzuola disordinate ai suoi piedi per la foga con cui si era mosso nel sonno, in preda all’incubo che lo tormentava quasi ogni notte. Il ricordo che gli rammentava, come un incancellabile promemoria, che aveva sbagliato.

Aveva sbagliato a fidarsi. Aveva sbagliato a credere ad un’altra persona. Aveva sbagliato a voler dimostrare qualcosa pur di non essere più solo.

E quella notte, dopo che nel pomeriggio aveva confessato velatamente a Blaine ciò che non avrebbe dovuto, il ricordo assunse un significato diverso, più profondo. Era un avvertimento.

Era un modo per dirgli Lo stai facendo di nuovo, Kurt. Perché lo stava facendo di nuovo?

Anni e anni passati da solo, da quel giorno, ed era sempre andata bene. Per quanto sua madre si ostinasse a presentargli altri bambini istruiti a dovere, stavolta con più insistenza, per quanto avesse espressamente vietato di lasciare la porta che dava sul giardino aperta durante il giorno, per quanto Kurt avesse giurato che non avrebbe mai più messo piede all’esterno sotto la luce del sole, non fu mai più la stessa cosa. Non fu mai più in grado di affidarsi a qualcun altro, perché aveva fatto troppo male.

Così male, che gli bastava ricordare per sentire un doloroso formicolio alla schiena. Aveva la sua musica, l’arte, e loro non lo avrebbero mai tradito. Non gli avrebbero mai chiesto qualcosa che non poteva dare.

Mentre gli uomini, loro non facevano altro. Le persone non sapevano accontentarsi. Perché chi mai l’avrebbe fatto? Chiunque, prima o poi, avrebbe preteso da lui qualcosa in più, più di una vita passata tra quattro mura, più di un’esistenza buia illuminata soltanto dalla luce della luna e delle stelle.

Soltanto sua madre pensava davvero che fosse speciale. Per tutti gli altri, Kurt era un giocattolo rotto impossibile da aggiustare e lo sarebbe sempre stato.

E Blaine non era diverso, perché avrebbe dovuto esserlo? Sì, Kurt gli aveva detto che lo era e continuava a pensarlo. Blaine era… migliore.

Ma sotto sotto, presto o tardi, si sarebbe dimostrato come loro. Kurt non sarebbe mai andato bene per quello che era, quindi perché illudersi?

Chiuse gli occhi, serrando la mascella, per fare in modo che le lacrime non cadessero, e poi si girò sul letto per mettersi a pancia in giù. Allungò un braccio dietro di sé e si toccò la schiena, trasalendo lievemente e soffocando un leggero piagnucolio contro il cuscino.

Faceva male, ed era giusto così. Perché aveva sbagliato.

E non avrebbe sbagliato più.

 

 

 

 


 

 

 


Ok, sono curiosa: lo avevate intuito che il ragazzo misterioso era Sebastian? E' la prima volta che lo uso in una mia storia, e pur non amando molto il personaggio è innegabile che sia un cattivo come si deve, e i cattivi fanno sempre comodo!


Nel prossimo capitolo:

Blaine scoprirà un segreto di Kurt... quello che gli permetterà di arrivare al suo cuore.


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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


 

 

Rugiada diverrò se tu sarai raggio di sole: così, mio amore, noi ci uniremo.

- Sandor Petofi

 


Fu come un fuoco graduale, una piccola scintilla all’inizio, così piccola da poter essere facilmente ignorata, ma che Blaine l’avesse ignorata o meno, sarebbe cresciuta comunque. In grandezza e intensità, trasformandosi in una fiammella debole, minacciata dal primo soffio di vento, ma poi ancora in una fiamma sicura, alimentata giorno per giorno contro il suo volere.

Una fiamma che un giorno, nel giro di un attimo, esplose come se fosse stata appena ricoperta da una tanica di benzina.

Erano passate due settimane, e Blaine era diventato in un certo senso “di casa”. Flint non andava più ad aprire alla porta, lasciandola socchiusa in vista del suo arrivo, e sapendo la strada per arrivare alla camera di Kurt non aveva bisogno di essere accompagnato. Solitamente lo trovava al buio, seduto sul davanzale della finestra, oppure al tavolo ad aspettarlo, ma quel giorno non fu così.

Aprì la porta della stanza e se la richiuse alle spalle, e quando si voltò si sorprese nel non vedere nessuno. C’era la solita penombra prodotta dalla piccola luce nell’angolo, e così notò subito lo spiraglio creato dall’altra porta, quella della sala hobby, leggermente aperta. Incuriosito, lasciò la sua tracolla sulla prima sedia disponibile e con passo felpato raggiunse la porta, per poi aprirla lievemente e sbirciare. Quello che vide lo lasciò senza fiato.

Kurt era direttamente di fronte a lui, dal lato opposto della stanza, ma gli dava le spalle ed era a petto nudo. Da quello spiraglio Blaine potè vedere che stava dipingendo, il braccio alzato con un pennello in mano sul punto di passarlo sopra la tela, il muscolo ben definito e teso.

Blaine ne seguì le linee con una meticolosità quasi preoccupante, ma non riuscì a darci peso al momento, non poteva. Perché il braccio ad un certo punto diventava spalla, e la spalla diventava collo, e oh, c’era un incavo delicato, quasi impercettibile, che era da perdere la testa.

Ed era forse amore quello? Ritrovarsi a venerare un dettaglio così piccolo? Forse era soltanto desiderio.

Blaine non seppe distinguere la differenza, in quel momento. Sapeva, però, che anche se non fosse riuscito a toccare quella pelle, sarebbe stato felice finchè gli fosse stato concesso di guardarla. Fermo lì, sulla porta, pubblico silenzioso di uno spettacolo che non aveva né attori né trama, su un palco piccolo, angusto e mai calcato prima che non era altro che il suo cuore.

Ma i suoi occhi, avidi e impazienti e incapaci di averne abbastanza, di accontentarsi di quel dolce tratto di pelle bianca, non poterono fare a meno di spostarsi verso il basso, seguendo la linea della colonna vertebrale. Blaine aprì lentamente la porta per poterlo fare e trasalì, portandosi una mano alla bocca.

Perché lì, a deturpare quella schiena pallida, bellissima, c’era una cicatrice. Una cicatrice enorme. Percorreva la pelle di Kurt da qualche centimetro sotto il collo fino alla linea dei suoi jeans, occupando buona parte della schiena anche in larghezza. Era lievemente rosata, abbastanza da risaltare rispetto al suo candore naturale, e la pelle su di essa sembrava più morbida, leggermente increspata. Come una scottatura, ma la più grande che avesse mai visto e che probabilmente avrebbe mai visto.

A quanto pareva, Blaine aveva emesso un piagnucolio senza neanche rendersene conto, perché Kurt trasalì abbassando il pennello e si voltò di scatto, incontrando il suo sguardo sconvolto. Sgranò gli occhi e spalancò la bocca, senza che ne uscisse nulla. Sembrava spaventato, più che mortificato. Spaventato all’idea che Blaine lo fosse. Di lui.

Era così bello, così bello, i capelli scomposti e arruffati così tanto che Blaine poteva immaginarlo mentre ci passava le mani attraverso, torturandosi il labbro in cerca di un’idea; qualche macchia di colore sulle guance improvvisamente arrossate e sul collo, per averci sicuramente poggiato il palmo senza rendersene conto, impercettibili puntini colorati come piccoli sassi sparsi nella neve; il petto liscio eppure definito come se qualcuno lo avesse scolpito dall’argilla del suo piedistallo, così dannatamente pallido, i fianchi arcuati e meravigliosi, perfetti, era perfetto e Blaine voleva piangere all’idea di quanto fosse vicino eppure così lontano, mentre tutti al di fuori di quella casa vivevano ignari di quanto fosse bello, di quella meraviglia venuta al mondo per non essere mai apprezzata, capace di stregare, ammaliare e far innamorare con due oceani al posto degli occhi.

Uno sguardo che era un mare in tempesta: paura, imbarazzo, rabbia, perché c’era anche quella, Blaine poteva vederla agitarsi e travolgere ad ondate tutto il resto.

E lui aveva lavorato così tanto, così tanto, per fare in modo che Kurt lo lasciasse entrare, per essergli amico perché era di quello che Kurt aveva bisogno, per quanto facesse male ammetterlo.

Aiutarlo a studiare, per poi raccontargli la sua giornata e fare battute stupide su qualche ragazzo della Dalton, e poi ascoltare Kurt parlare di un’idea che aveva avuto per una scultura, un quadro, una canzone, una storia (aveva scoperto che il computer serviva proprio a quello).

Non poteva permettere che tutto crollasse in quel modo, senza preavviso, non dopo che il cuore gli era appena esploso nel petto.

“Kurt, io- scusami” farfugliò, facendo un passo in avanti. “Avrei dovuto bussare.”

Kurt si ritrasse lievemente, coprendosi il petto con un braccio come per volersi proteggere, e abbassò lo sguardo. Blaine si morse il labbro a quella vista.

“E’ colpa mia, ho perso la concezione del tempo e ho dimenticato che stavi per arrivare. Poi ho macchiato la maglietta, e-“

“Kurt, è tutto a posto.”

“Non lo è!” esplose Kurt, alzando improvvisamente lo sguardo e fulminandolo. Lanciò il pennello contro un muro, facendo trasalire Blaine, e si mise le mani ai capelli. “Niente è a posto.”

“Kurt” disse Blaine, avvicinandosi ancora. Kurt aveva gli occhi chiusi e respirava affannosamente, cercando di calmarsi, così non se ne accorse. Blaine continuò a camminare. “Kurt, dimmi cosa c’è che non va. Puoi fidarti, puoi fidarti di me.”

Perché era vero, poteva fidarsi. Blaine non avrebbe mai chiesto niente, niente, si sarebbe accontentato di guardare, davvero, lo avrebbe fatto. Tutto pur di averlo comunque, pur di guadagnarsi la sua preziosa fiducia, quella che non riponeva più in nessuno.

“Tu- tu l’hai vista” sussurrò Kurt, strattonandosi i capelli come per volersi punire. Blaine vide una lacrima tentare di lasciare i suoi occhi, ma Kurt sembrava intenzionato a non piangere davanti a lui a qualsiasi costo, così tanto che tutti i suoi muscoli sembravano improvvisamente tesi per lo sforzo.

“Sì, ma- non fa niente, Kurt, davvero-“

Blaine allungò una mano per toccargli la spalla, ma Kurt fece un passo indietro e alzò nuovamente lo sguardo. Era furioso, in un modo così intenso e sconvolgente da fare davvero paura, specie in contrasto con i suoi lineamenti delicati. Sembrava ferito, nel profondo, e Blaine non capiva del tutto, non poteva capire.

Non sapeva di aver appena visto la testimonianza più vivida di un errore, un tragico errore, il ricordo di un’infanzia in cui Kurt aveva creduto di poter essere come gli altri, di un giorno in cui, anche solo per un attimo, aveva abbassato le difese ed era stato punito per questo.

E ora lui gli stava chiedendo proprio quello: di fidarsi, di abbassare le difese e lasciarlo entrare ma Kurt non poteva perché poi avrebbe avuto un’altra cicatrice, e che fosse sul petto, su un braccio o sul cuore, non faceva differenza perché non c’era posto. Non c’era posto per un’altra scottatura, un altro lembo di pelle morta a ricordargli ancora una volta quanto era stato stupido.

Non c’era posto per Blaine. Non dopo che aveva appena visto con i suoi occhi il suo più grande segreto, la sua inconfessabile debolezza, non dopo che lo aveva messo a nudo in quel modo e senza permesso, entrando dalla porta come se gli fosse dovuto. E lo aveva fatto perché sapeva di potere, perché stavano diventando amici e quindi ne aveva il diritto.

Dio, aveva avuto ragione. Aveva sempre avuto ragione, ed era così arrabbiato che riusciva a malapena a mettere a fuoco davanti a sé.

“Tu non dovevi vederla” disse a denti stretti. “Nessuno, nessuno deve vederla!”

“Mi dispiace, scusami, Kurt-“

“Vattene via.”

Blaine rimase a bocca aperta e lo fissò, la mano ancora a mezz’aria, lo shock e il dolore nei suoi occhi. Kurt non poteva dire sul serio. Se l’avesse fatto, a Blaine non sarebbe rimasto niente, neanche quel poco che aveva avuto fino a quel momento e che si sarebbe fatto bastare.

“Kurt” sussurrò, ricacciando indietro le sue stesse lacrime. “Non farlo, io- io voglio starti vicino, voglio aiutarti.

“Ma io non te l’ho chiesto, Blaine!” esplose Kurt, alzando le braccia al cielo. “Chi ti ha detto che ho bisogno di aiuto? Dio, sei come gli altri, tu- tu pensi che io sia triste e solo e bisognoso di affetto, pensi di dovermi aggiustare, ma io- io-“

Kurt si interruppe, scosso da un improvviso singhiozzo, e si coprì il viso con una mano tentando di oltrepassare Blaine e raggiungere la porta. Ma lui allungò una mano, senza pensarci, e lo tenne fermo per un braccio.

“Ti stai sbagliando” disse in un sussurro, e Kurt alzò il viso e lo guardò. Quella piccola lacrima riuscì finalmente a fare capolino e gli percorse la guancia, lasciando una scia salata sulla sua pelle macchiata qua e là da punti colorati. “Io- io non penso questo di te.”

Ci fu una pausa che sembrò interminabile.

“E cosa pensi?” chiese Kurt, la sua voce quasi impossibile da sentire.

Blaine pensò di mentire, per un attimo. Pensò di salvare quello che ancora c’era da salvare, di dire semplicemente che non c’era niente di sbagliato in lui, che voleva essergli amico, che potevano far finta che non fosse mai accaduto e continuare a studiare insieme ogni giorno. Ma si rese conto che non poteva farlo, perché Kurt l’avrebbe capito, Kurt aveva due occhi che sapevano leggergli l’anima. E forse avevano già capito tutto, quegli occhi, ancor prima di Blaine e ancor prima di Kurt stesso, incapace di dare un senso a quello che vedeva, o forse intenzionato ad ignorarlo.

Avevano entrambi così tanto da perdere, da nascondere e custodire al sicuro dentro di loro dove nessuno poteva arrivare, toccare, sgualcire e ferire. Avevano entrambi così tanta paura di amarsi, che era ridicola e sensata allo stesso tempo in un modo che non faceva altro che confonderli e destabilizzarli.

Ma Blaine non potè mentire, più di tutto, perché non voleva. Perché qualcuno in quel dannato mondo avrebbe dovuto dire a Kurt ciò che era, avrebbe dovuto fargli capire che non c’era niente, niente da cambiare se non ritrovare un sorriso perso chissà dove, in una notte lontana.

Così, incontrò volutamente il suo sguardo e si lasciò cadere, senza sapere se sarebbe annegato tra quelle onde implacabili, o se in qualche modo sarebbe sopravvissuto per raccontare di un giorno, di un tempo, in cui si era ritrovato ad amare senza sapere come fare. Un attimo prima che l’acqua lo inghiottisse, che tutto gli vorticasse intorno senza poter più tornare indietro, parlò senza esitare.

“Che sei perfetto.”

 


“Mamma?”

“Kurt” rispose debolmente Elizabeth, allungando una mano verso di lui dal grande letto matrimoniale su cui si trovava, distesa inerme e ormai quasi senza forze mentre la fragilità del suo corpo aveva la meglio su di lei. “Kurt, ti ricordi cosa ti ho detto?”

Kurt scosse la testa, lacrime silenziose che gli scorrevano sulle guance perché sua madre era pallida, troppo pallida, e aveva gli occhi vitrei e vuoti, non più azzurri, non più meravigliosi. Non più suoi. Stava svanendo e per quanto lui le stringesse la mano, tenendola ancorata al presente, poteva sentirla scivolare via e non sapeva che fare.

Elizabeth gli sorrise teneramente, asciugandogli le lacrime con l’altra mano, e lo guardò come se fosse la cosa più bella che avesse mai visto, perché lo era. Lo sarebbe sempre stato.

“Tu sei come una stella, Kurt. Come una stella.”

Kurt annuì tirando su col naso, ma non voleva essere una stella, non voleva brillare in un cielo in cui non aveva lei accanto, non aveva senso.

“E mi devi promettere una cosa” continuò sua madre, il tono improvvisamente più serio. “Che ricorderai sempre, qualsiasi cosa accada, che-“

Si interruppe, inspirando profondamente per resistere quel tanto che bastava, ancora un attimo, uno solo.

“Cosa? Mamma? Cosa devo ricordare?” chiese Kurt febbrilmente, singhiozzando, aggrappandosi a quella promessa, perché era tutto ciò che gli sarebbe rimasto di sua madre. Una piccola lapide di pietra, i suoi vestiti nell’armadio densi del suo profumo e una promessa.

“Mamma? Mamma?”

Elizabeth lo guardò un’ultima volta, sorridendo con gli occhi lucidi e ormai lontani, troppo, Kurt lo sapeva.

“Che sei perfetto.”

 


Kurt sbattè le palpebre, tornando improvvisamente alla realtà. Blaine lo stava guardando con aria sconvolta, una mano stretta alla sua spalla mentre un’altra gli accarezzava i capelli, e si rese conto del perché soltanto quando capì di essere sul pavimento, accartocciato su se stesso con il viso sepolto tra le mani, a singhiozzare.

Perché aveva rotto la promessa. Kurt aveva rotto la promessa. E non sapeva come fare a rimediare, perché non si sentiva perfetto neanche un po’.

“Kurt?” continuava a chiedere Blaine, la voce leggermente roca, spezzata. “Kurt, cosa ho detto? Scusami, mi dispiace, non lo dirò mai più, lo giuro non lo dirò mai più ma tu non piangere, non piangere, Kurt…”

Solo in quel momento, Kurt ricordò cosa lo avesse spinto a ricordare: era stato Blaine a dirlo. Lo pensava davvero? Com’era possibile? Cosa vedeva in lui, che evidentemente lui stesso non riusciva a vedere?

Alzò il viso dai palmi delle sue mani, e lo fissò. Blaine sembrava distrutto, come se qualcuno lo avesse appena straziato in tanti piccoli pezzi: anche lui stava piangendo, mordendosi il labbro fino a farlo sanguinare, e continuava ad accarezzarlo in modo quasi febbrile, per paura che scomparisse. Come lui si era aggrappato a sua madre tanti anni prima, quel giorno, per poi vederla scivolare via.

“Blaine-“ disse, la voce flebile e stanca per aver pianto chissà quanto tempo – non ne aveva idea – e quel nome pronunciato per la prima volta con incertezza dalle sue labbra. Aveva così tanta paura. Paura di capire perché Blaine lo avesse detto, di scoprire che non lo pensava veramente, che c’era un trucco, un inganno, perché c’era sempre. Perché non poteva essere.

“Scusami, Kurt-“

“Come- come fai a dirlo?” chiese, e in quel momento c’era solo il suo respiro affannato, il suo cuore che batteva con quell’accenno di speranza che desiderava tanto non avere, perché stava sbagliando, stava sbagliando di nuovo e la cicatrice pulsò all’improvviso come se volesse ricordarglielo, a causa della posizione incurvata che aveva assunto. Kurt la ignorò, serrando la mascella, perché ormai lo aveva chiesto e non poteva tornare indietro.

“Che vuoi dire?” chiese Blaine, sbattendo le sue lunghe ciglia sopra occhi nocciola ancora colmi di lacrime inespresse. Kurt li fissò, sperando di ricordarne meglio il colore per riuscire a dipingerlo, prima o poi, su una delle sue tele. Doveva pur esserci un modo, così come doveva esserci un modo per spiegarsi razionalmente le cose che provava senza capire.

“Come fai a dire che sono perfetto, Blaine? Io- io sono allergico al sole” disse, enfatizzando l’ultima parola, perché era come dire di essere intollerante all’acqua, alle nuvole del cielo, al vento tra i capelli.

“Lo so questo” rispose Blaine, continuando a non capire. Kurt inspirò profondamente.

“Lo sai a cosa serve il sole, Blaine?” chiese, e per quanto potesse sembrare stupida era una domanda serissima. Blaine ci riflettè per un attimo; sembrava un bambino incapace di risolvere un problema di matematica, terribilmente concentrato mentre la risposta fluttuava ovvia davanti ai suoi occhi.

“Beh, a riscaldare la terra e far crescere le piante ed evaporare l’acqua e-“

“Il sole serve a vivere. Senza di lui, la vita non potrebbe neanche esistere, noi non potremmo esistere. Io sono allergico alla cosa più naturale del mondo, Blaine. Come può essere perfetto questo?”

Blaine sorrise, guardandolo come se volesse silenziosamente ammonirlo per la sua stupidità e per ciò che era così lampante e ovvio per lui, da essere quasi ridicolo. Lentamente, ancora accovacciato di fronte a lui, smise di accarezzargli i capelli e poggiò una mano sul suo viso, il tocco delicato ed incerto, poi più deciso quando non trovò alcuna resistenza.

Kurt lo stava guardando senza capire, senza capire cosa lo rendeva perfetto, e Blaine decise che quello, quello sarebbe stato il suo sguardo preferito. Pura incredulità, ingenuità e fragilità, come se il mondo dipendesse da ciò che lui avrebbe detto in quell’attimo, e lui sapeva cosa si provava perché era lo stesso per lui.

Acque chiare, così terribilmente limpide, improvvisamente trasparenti permettendogli di guardarci dentro ed estrarre tutto ciò che c’era di impuro, sporco e sbagliato, bonificandole dal dolore, il rancore, la rabbia, ma allo stesso tempo dandogli la possibilità, senza riserve, di deturparle ancora di più con le sue azioni. Blaine, in quel momento, aveva il controllo.

Per la prima volta dipendeva da lui, Kurt dipendeva da una sua parola, un suo movimento, non il contrario; ma questo non gli diede l’ebbrezza del potere, la consapevolezza di poter decidere del destino di un altro senza preoccuparsene. Al contrario, lo fece sentire ancora più fragile. Il peso della responsabilità gravava su di lui, immerso in quegli abissi sconosciuti tutti da esplorare, a rischio di perdersi, di non tornare mai più indietro.

Ma senza ritrarsi, gli accarezzò la guancia e lo fissò negli occhi mentre gli diceva: “Non ho detto che ciò di cui soffri è perfetto, Kurt. Ho detto che tu sei perfetto. Io- io non so come spiegarlo, so solo che non esiste nessuno, nessuno come te. Sei intelligente, pieno di talento, e bello, così bello, mi togli il fiato. Vorrei che riuscissi a vedere, a capire. Vorrei che lo sapessi così come lo so io.”

Kurt lo guardò sconvolto, le lacrime che continuavano a cadere bagnando la mano di Blaine, così calda e reale sulla sua pelle, così morbida. Non riusciva a capire, non ancora.

Ma per la prima volta dopo tanto tempo, pensò di poterci riuscire. Pensò di poter afferrare quella mano e lasciarsi guidare verso una verità lontana ma raggiungibile, verso una promessa infranta ma che forse poteva ricostruire, raccogliendone i pezzi sparsi lungo la strada.

Verso il giorno in cui, forse, sarebbe stato felice.

E la schiena faceva ancora male, ma era un dolore lontano e distante, perché forse non stava sbagliando in fondo. Come poteva un errore farlo sentire così leggero?

Blaine non lo avrebbe condotto alla luce del sole a tradimento, lasciandolo solo e avvolto su se stesso sulla ghiaia. Voleva soltanto aiutarlo a trovare un’altra luce, un altro astro a cui affidarsi nel buio.

E mentre ancora si domandava se stesse facendo bene a fidarsi, Blaine disse una cosa che gli fece capire che era così. Una cosa che avrebbe ricordato per il resto della sua vita, ad anni e anni di distanza, chiedendosi ogni volta che la ricordava come avesse fatto Blaine anche solo a pensarla, perché era perfetta, era ciò che lui non sapeva ancora di essere e in quel momento fu tutto.

“Lascia che io sia il tuo sole, Kurt.”

 

 

 

 


 

 


Questa è stata una delle prime scene completamente nitide nella mia mente, e infatti la frase finale spiega il titolo di tutta la storia. Devo dire che è uno dei miei capitoli preferiti (si possono avere capitoli preferiti della propria storia? bo :S) e spero sia piaciuto anche a voi!


Nel prossimo capitolo:

Blaine scoprirà che essere il sole di qualcuno può essere incredibilmente facile, nonostante le nuvole all'orizzonte.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


 

Nella vita si vedono nascere due soli: uno che sorge tutte le mattine e l'altro che sorge una sola volta nella vita; questi è il sole del vero amore.

- Andrea Principe

 


Kurt aveva ragione riguardo al sole. Aveva ragione a dire che riscaldava, e rendeva possibile la vita; ma c’era una cosa, una cosa fondamentale, su cui si era sempre sbagliato: aveva pensato che di sole ce ne fosse uno soltanto.

Ma Blaine era come il sole. Entrava dalla sua porta a passo incerto, sbirciando all’inizio, cercando di scovarlo con i suoi piccoli raggi dorati e illuminarlo con il suo sorriso. Emanava calore dai suoi occhi, infondendo la vita in tutto ciò che faceva. Ma era anche meglio, perché Kurt avrebbe potuto toccarlo senza bruciarsi e stringerlo tra le braccia senza avere cicatrici che glielo potessero ricordare.

Kurt permise a Blaine di essere il suo sole, e Blaine, semplicemente, lo fece. Come se fosse nato per esserlo, come se non avesse aspettato altro, da sempre. Da quel giorno, dedicò ogni attimo della sua vita a fare in modo che Kurt sapesse che era perfetto e ad innamorarsi di lui ancora, e ancora, e ancora.

Vi chiederete come faccio a sapere tutte queste cose. Beh, il fatto è che Blaine aveva un diario. Prima di conoscere Kurt lo usava raramente, soltanto per annotare avvenimenti che in quel momento gli sembravano importanti ma non lo erano mai davvero; dopo averlo incontrato, invece, iniziò a scriverci ogni giorno. Ogni sera, quando tornava alla Dalton, accendeva la piccola luce che aveva sul comodino, si sedeva a gambe incrociate sul letto, e scriveva.

Scriveva di occhi azzurri come il cielo e profondi come il mare, di pelle bianca come neve appena caduta, di tutte quelle emozioni che gli vorticavano dentro e che Kurt, invece, esprimeva dipingendo a tinte sempre più accese sulle sue tele, alla ricerca della combinazione perfetta, quella che avrebbe finalmente reso giustizia ai suoi occhi. Ma non ci riuscì mai.

E intanto, mentre l’inchiostro sulle pagine e la tempera sulle tele si accumulavano, Kurt e Blaine imparavano a conoscersi e riscoprirsi noncuranti del sole, del tempo, del mondo.

 


 

“La vedi quella? E’ l’Orsa Minore” disse Kurt, allungando un braccio per puntare l’indice verso la costellazione nel cielo notturno.

“Sei sicuro? Secondo me è la Cintura di Orione” rispose Blaine, disteso a pancia in su sul prato del giardino, le loro spalle che si sfioravano leggermente. Kurt inclinò il viso verso di lui e alzò un sopracciglio.

“Ammettilo, ne hai detta una a caso solo per contraddirmi” disse con fare saccente.

“Non è vero!” sbottò Blaine, colpendolo con la sua spalla e ricevendo un leggero schiaffo sullo stomaco di rimando. “E poi, chi mi dice che non sia tu ad averne detta una a caso?”

“Perché le so a memoria” rispose Kurt, la voce improvvisamente più bassa e riflessiva. Blaine smise di guardare il cielo e si voltò del tutto, scrutando i suoi lineamenti nel buio. Ancora una volta, la luce della luna ne accentuava i contorni e faceva brillare la sua pelle come fosse cristallo. Blaine desiderò accarezzargli la guancia con il dorso della mano, il collo, il petto, tutto.

Non ci erano ancora arrivati. Non avevano neanche parlato espressamente di quello che sentivano. Semplicemente, entrambi sapevano che era lì, ed era bello crogiolarsi in quell’aura di pace e serenità che riuscivano a regalarsi a vicenda con la loro compagnia. Sapevano che il momento sarebbe arrivato, quello in cui si sarebbero guardati e avrebbero capito che era giusto, e le loro labbra si sarebbero incontrate in un bacio perfetto mentre le loro mani si cercavano per trovarsi e stringersi.

“Davvero?” chiese Blaine, osservando il modo in cui Kurt si leccava distrattamente le labbra prima di parlare, lo sguardo ancora fisso verso il cielo e le mani incrociate sullo stomaco.

“Io e mia madre venivamo qui quasi ogni notte, per guardare le stelle” rispose, gli occhi che scintillavano e il petto che si alzava e abbassava, la sua voce quasi un sussurro eppure così carica di intensità in quel momento. Così dolce e piena.

“Oh” disse Blaine, inclinando di nuovo il viso verso l’alto. “E’… è per questo che lo fai tutt’ora anche se tuo padre non vuole?”

“Sì” rispose Kurt, annuendo lievemente. Ci fu una breve pausa, poi continuò. “Sai, lei… lei diceva sempre che anche io ero una stella.”

Blaine si voltò di scatto, gli occhi improvvisamente lucidi. Dio, quanto aveva ragione quella donna che non aveva mai conosciuto, e quanto doveva essere speciale per aver messo al mondo la persona che aveva davanti.

E quanto dovevano apparire diversi, un sole e una stella. Non dal punto di vista strettamente astronomico, certo. Ma erano come il giorno e la notte, in un certo senso; Blaine, con la sua allegria irradiata dai pori come vero e proprio calore fisico, e Kurt, splendente nel buio eppure in qualche modo freddo, e lontano, così lontano.

Blaine poteva vedere chiaramente che aveva cose per la testa, cose che non aveva ancora il coraggio di dirgli, o che forse non gli avrebbe mai detto. Il motivo della cicatrice, per esempio. Non ne avevano più discusso, e l’ultima cosa che voleva fare era mostrarsi troppo curioso ed insistente, ma non poteva negare di essersi più volte domandato cosa fosse successo. Perché non era soltanto una scottatura sulla pelle, era una storia. Una storia così dolorosa da avergli fatto perdere il controllo, una storia che detestava e di cui forse si vergognava.

Ma non era il momento, non ancora. Blaine avrebbe aspettato. Avrebbe sempre aspettato. Perché Kurt era perfetto e qualsiasi cosa avesse fatto, o gli avessero fatto, non lo avrebbe mai reso diverso, peggiore.

“Aveva ragione” rispose a bassa voce, e finalmente anche Kurt si voltò a guardarlo, i loro occhi che si trovarono e rimasero fissi, persi gli uni negli altri. La brezza leggera scuoteva i loro capelli, provocando di tanto in tanto qualche brivido nei loro corpi vicini, vicini ma non troppo, non abbastanza.

Blaine spostò la mano poggiata sul suo fianco sopra l’erba soffice, le dita che formicolavano per il desiderio di continuare il loro viaggio, di raggiungere quelle di Kurt. Ma proprio quando Blaine, determinato a non affrettare le cose, stava per stringere la mano a pugno sopra i fili d’erba, sentì un impercettibile contatto e si rese conto che Kurt la stava sfiorando con la sua.

Rimasero in quel modo, in silenzio, gli sguardi incatenati e le mani che facevano quella strana e tranquilla danza, accarezzandosi senza mai stringersi davvero l’una all’altra, assaporando ogni centimetro di polsi, dita, palmi.

Era perfetto. Il lago a pochi passi da loro, il vento fresco, la luna e le stelle lassù a guardarli, senza pensieri, senza preoccupazioni, senza tempo. Potevano essere minuti come potevano essere ore; non importava, perché in quel momento c’erano soltanto loro in tutto il mondo. Blaine avrebbe voluto restare così per sempre.

Tutto sembrò improvvisamente reale, però, quando in qualche modo le loro mani, quasi per volontà loro, finirono per stringersi. Si guardarono negli occhi ancora una volta, ma era diverso. C’era qualcosa di diverso.

E a poco a poco, senza rendersene conto, iniziarono ad avvicinarsi l’uno all’altro, i respiri che si fondevano in uno solo. Kurt alzò leggermente il viso per sfiorargli il naso con il suo, e Blaine fece un piccolo sorriso, lo sguardo che sfrecciò per un attimo alle labbra di Kurt e poi di nuovo sui suoi occhi, dentro i suoi occhi, in cerca di un’esitazione che non c’era.

Poi Kurt si avvicinò ancora, e Blaine dischiuse le labbra, chiuse gli occhi e-

“Kurt!”

Kurt scattò subito a sedere, voltandosi in direzione della voce che lo chiamava dalla sua casa.

“Kurt, vieni dentro adesso!”

Anche Blaine si mise a sedere, passandosi una mano sugli occhi ed emettendo un sospiro frustrato, mentre il loro momento perfetto scivolava via, svanendo insieme al vento che scuoteva le foglie degli alberi intorno a loro. Il tempo e il mondo, con prepotenza, li risvegliarono da un sogno e loro si guardarono per un attimo, in modo che durasse almeno un po’ di più.

Poi Kurt si alzò, sistemandosi i pantaloni, e allungò una mano per aiutare Blaine a fare lo stesso.

“A domani” gli disse, lo sguardo triste e rassegnato ma non più come lo era stato un tempo. Consapevole del fatto che il loro momento era svanito, ma speranzoso all’idea che ce ne sarebbe stato un altro.

“A domani” gli fece eco Blaine, stringendogli la mano prima che gli scivolasse tra le dita come il resto. Lo guardò andare via, risalendo il sentiero scuro che conduceva alla casa scarsamente illuminata, dopo di che sospirò scacciando via la leggera eco di frustrazione che sentiva dentro e si avviò per fare il giro della casa attraverso il giardino e raggiungere così il parcheggio, per tornare alla Dalton.

 


 

Quella notte, Kurt fece un sogno diverso. Per la prima volta nella sua vita, fece un sogno che non era un incubo, eppure la cosa lo terrorizzò più di quanto quello stesso incubo – quello stesso ricordo – avesse mai fatto.

Era lo stesso giorno di tanto tempo prima, nella sua stanza dei giochi con un bambino della sua età, figlio di un’amica di sua madre. Un bambino che non aveva i capelli biondi e lisci, ma scuri e ricci, così ricci che non appena lo vide, nel sogno, pensò che se ci avesse messo dentro le mani non sarebbe più riuscito a tirarle fuori. Aveva due occhi luminosi e dorati, gli ricordarono il miele che sua madre gli metteva nel latte la mattina.

La scena andava avanti praticamente allo stesso modo, il bambino – il bambino sconosciuto, eppure familiare, terribilmente familiare per la sua mente ormai cresciuta – che gli chiedeva di andare a giocare a palla in giardino e lui che accettava per dimostrargli di essere coraggioso, di non avere paura di far arrabbiare sua madre.

E proprio quando Kurt, nonostante fosse addormentato e in preda all’incoscienza, si irrigidì nel sonno in attesa di ricordare il terribile dolore del sole che scottava sulla sua pelle come se ci fossero cento gradi, questo non accadde. La sua versione dell’infanzia, nel sogno, uscì in giardino indossando soltanto un piccolo costume blu e si mise a correre per stare al passo con il suo nuovo amico, che si stava già precipitando giù per la collina, a piedi nudi sull’erba, la palla lanciata in aria verso il cielo, verso il sole che la illuminò per un attimo con i suoi raggi prima che ricadesse al suolo.

Kurt la guardò rimbalzare debolmente e poi fermarsi, mentre correva sotto il sole e piccole gocce di sudore si formavano già agli angoli della sua fronte, un sorriso spensierato e sollevato sul viso nel rendersi conto che aveva fatto bene ad uscire, perché non c’era nulla da temere lì fuori. Era tutto così bello: il cielo azzurro con qualche piccola nuvola passeggera, il prato ben curato che gli pizzicava leggermente la pianta del piede, la luce del sole che creava zone d’ombra sotto le fronde delle piante e dietro la figura del bambino dai capelli ricci, come se avesse un doppione che gli stava sempre vicino.

“Vieni a giocare!” gli disse il bambino, e Kurt lo fece senza esitazione perché poteva, e sembrava così divertente anche solo poter sorridere quando c’era così tanta luce.

Quando raggiunse l’altro bambino, lui gli prese tutte e due le mani nelle sue e gli rivolse un sorriso enorme, che fece battere il suo piccolo e ingenuo cuore immaginario dentro il suo petto, e fece lo stesso con quello vero, più grande e ferito, che pompava sangue nel suo corpo disteso sul letto.

“Sei così bello, Kurt” gli disse, stringendogli le mani e avvicinandosi a lui, senza preavviso, eppure sembrò la cosa più naturale del mondo quando arrivò ad un centimetro dal suo viso e lasciò un tenero, quasi impercettibile bacio sulle sue labbra. Le folte ciglia di Kurt svolazzarono debolmente a quel tocco, quel lieve sfiorare così estraneo ma allo stesso tempo giusto e meraviglioso.

E quando riaprì gli occhi, sorridendo con aria assente mentre farfalle vorticavano felici nel suo stomaco, si trovò davanti un ragazzo. Improvvisamente più grande, eppure non doveva alzare lo sguardo per incontrare i suoi occhi; perché anche Kurt era cresciuto.

Il ragazzo, la mascella più scolpita, la pelle un po’ più scura, ma i capelli neri come il carbone e meravigliosamente ricci come un tempo, gli sorrise di nuovo, e Kurt trasalì nel rendersi conto di quanto fosse bello sotto il sole. La sua luce che si rifletteva sul lieve accenno di sudore che aveva sulla fronte, sul collo e il petto esposto, non più infantile e liscio ma tonico e scolpito; il modo in cui i suoi occhi sembravano fatti di luce del sole, risplendendo intensamente come se volessero raccoglierne tutta la luce, privandone il resto del mondo, per poi catalizzarla in un’unica direzione e regalargliela senza chiedere niente.

E quando Kurt si svegliò, si rese conto che c’erano lacrime sulle sue guance e che a un certo punto aveva iniziato a singhiozzare. Perché quello non era il ricordo di qualcosa che era stato. Era il futuro che non avrebbe mai avuto.

E il suo cuore batteva così forte, così forte, che non poteva essere altro se non amore. Kurt si portò una mano al petto, chiudendo gli occhi e ascoltandone il suono mentre il respiro a poco a poco si calmava.

La cosa più sconvolgente del sogno, quella che lo stava riempiendo di profonda paura piuttosto che tristezza, era la consapevolezza che, in un modo o nell’altro, Kurt avrebbe costretto Blaine a rinunciare a qualcosa nella sua vita. A rinunciare a quello.

Alla luce del sole che danzava sui lineamenti della persona che amava mentre correvano insieme su un prato verde, senza nessun pensiero, come due bambini in una calda giornata estiva.

Kurt si chiese se ne avesse il diritto. Si chiese se fosse giusto condannare all’oscurità la vita di un’altra persona, piuttosto che lasciarla risplendere. Si chiese se Blaine lo amasse a tal punto da rinunciarvi, così come lui amava Blaine a tal punto da accontentarsi di restare a guardare, come il piccolo puntino nel cielo che sua madre pensava che fosse, mentre la sua vita prendeva la piega che doveva prendere, con una famiglia e vacanze al mare e compleanni all’aria aperta sotto un gazebo bianco e fiori profumati tutti intorno.

Pur rimanendo sveglio per il resto della notte, non riuscì a trovare una risposta.

 


 

“Che cazzo significa che è meglio se non ci vediamo più?!” gridò Sebastian, entrando a grandi passi nella piccola stanza in cui Blaine amava rifugiarsi per occuparsi degli arrangiamenti musicali dei Warblers nelle settimane in cui toccava a lui farlo. Alzò lo sguardo dalla scrivania ricoperta di fogli e spartiti e si sorprese nel vederlo così furioso, i capelli solitamente impeccabili ora quasi stravolti e l’unico accenno di compostezza dettato dalla sua divisa blu. Aveva in mano il cellulare, sul quale Blaine poteva intravedere il messaggio lapidario che gli aveva inviato la sera prima.

Avrebbe dovuto farlo molto prima, in realtà. Forse subito dopo aver conosciuto Kurt, invece di usare Sebastian per cercare di fuggire da un sentimento che gli faceva paura soltanto perché era vero, più di qualsiasi altra cosa nella sua vita. Ma non ne aveva avuto il coraggio, preferendo evitare con frequenza sempre maggiore i loro “appuntamenti” trovando scuse di volta in volta.

Ma Kurt stava per baciarlo, e se non fossero stati interrotti sarebbe successo, ne era certo. Non si era immaginato tutto nella sua mente: Kurt provava qualcosa per lui. Non voleva semplicemente che lui desse una botta di vita alla sua autostima, con affetto, fiducia, amicizia. E si stava donando a lui, giorno per giorno e pezzo per pezzo, senza neanche domandarsi cosa fosse successo con quel fantomatico ragazzo di cui avevano parlato una volta. Kurt si fidava di lui.

“Significa esattamente quello che hai detto” rispose in tono piatto, guardandolo come se fosse appena scappato da uno zoo o qualcosa del genere. Sebastian emise un lieve “tsk” e si rimise il cellulare in tasca prima di portarsi le mani ai fianchi.

“E non ti degni nemmeno di darmi uno straccio di motivo?!” chiese a voce bassa ma decisa, e anche se Blaine non lo stava guardando poteva praticamente sentire il suo sguardo arrabbiato, tra palpebre strette, che tentava invano di fulminarlo e costringerlo ad alzare il suo, per poi addolcirsi magicamente e trasformarsi in quel bagliore seducente che gli riusciva bene, fin troppo bene.

“Sebastian, non sei il mio ragazzo, io non ti devo niente” rispose, guardando con eccessivo interesse i fogli che aveva davanti per far capire all’altro Warbler che aveva cose più importanti da fare. Sebastian sembrò sul punto di urlargli contro qualcosa, ma poi il suo sguardo saettò per un attimo verso gli oggetti sparsi sul tavolo, e si bloccò. All’improvviso, un ghigno compiaciuto si distese sul suo volto e lentamente si avvicinò alla scrivania, appoggiandovi una mano sopra e inclinandosi verso Blaine.

“Ti stai facendo scopare da qualcun altro, Blaine?” chiese, la voce subito più profonda e provocatoria mentre la mano che Blaine non poteva vedere vagava dietro la sua schiena, sopra la superficie di legno.

“Non sono affari tuoi” gli rispose l’altro, alzando finalmente lo sguardo per incontrare il suo e sostenerlo, senza paura né esitazione.

“O forse stai scopando qualcun altro” continuò imperterrito Sebastian, la mano nascosta che si immobilizzò di colpo, e sorrise.

Sebastian” lo ammonì Blaine, scoccandogli un’occhiataccia. “Ho del lavoro da fare, quindi se non ti dispiace…”

“Va bene, va bene, me ne vado” rispose il ragazzo, incrociando per un attimo le braccia dietro la schiena e poi riportandole davanti a sé per infilarsi le mani nelle tasche dei pantaloni con aria casuale. Senza dire altro, lasciò la stanza.

 


 

Più tardi, quello stesso giorno, Blaine era a mensa. Stava discutendo in tono casuale con altri ragazzi seduti al suo stesso tavolo, chiacchierando e ridendo su nulla in particolare, intento a mangiare distrattamente un tramezzino. La sua tracolla pendeva dallo schienale della sedia su cui si trovava, dietro di lui, lasciata aperta senza prestarvi molta attenzione; si potevano intravedere fogli e libri risaltare rispetto al marrone del tessuto.

Ci fu un fruscio, e Blaine si voltò quasi senza pensare, soltanto per intravedere la divisa blu di un altro Warbler che gli era appena passato dietro la schiena, dirigendosi ad un altro tavolo della mensa con un vassoio in mano.

Continuò a mangiare, ignaro di tutto.

 

 

 


 

 

E' probabile che abbiate capito cosa ha fatto Sebastian, ma in fondo era mia intenzione lasciarvelo intuire. Vi anticipo però che non si scoprirà nel capitolo 7, ma più avanti.

Volevo ringraziarvi tutti per l'apprezzamento a quello precedente, che mi ha lasciato senza parole! Siete fantastici.


Nel prossimo capitolo:

Blaine decide di passare dalle parole ai fatti, e far capire a Kurt quanto sia perfetto ai suoi occhi. Ci riuscirà?

 


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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


 

 

Dubita che le stelle siano fuoco, dubita che il sole si muova, dubita che la verità sia mentitrice, ma non dubitare mai del mio amore.

- William Shakespeare

 


“Possiamo finire qui per oggi? Sono esausto!” disse Kurt dopo quasi due ore piene di studio, massaggiandosi le tempie e alzando la testa da sopra il tavolo, dove l’aveva appoggiata per un minuto buono. Blaine lo guardò con un piccolo ghigno, l’aria vagamente divertita.

“Va bene” disse, chiudendo il libro che aveva davanti. “Così posso darti la sorpresa che ti ho portato.”

Kurt alzò la testa di scatto, gli occhi spalancati e le guance improvvisamente arrossate, anche se solo un accenno. “Sorpresa?”

“Già” mormorò Blaine in tono casuale, prima di ruotare sulla sedia per aprire la tracolla e prendere qualcosa all’interno. Potè sentire lo sguardo di Kurt che cercava di scavare dentro di lui, capire di cosa si trattasse, ma per una volta sapeva di avere il coltello dalla parte del manico. Si voltò di nuovo e passò a Kurt una piccola busta sopra il tavolo.

“Non- non è un vero e proprio regalo” disse, dopo che l’altro ragazzo la ebbe accettata con riluttanza. “E’ mia, ma non la uso mai, così ho pensato di darla a te.”

Ancora più incuriosito, Kurt abbassò lo sguardo sulla busta ora nelle sue mani: era di cartone ruvido, di quelle usate per la spesa nei negozi di alimentari, avvolta su se stessa creando così una specie di pacchetto. Sembrava contenere qualcosa di vagamente rettangolare, pesante sul suo palmo ma non eccessivamente. La prese in mano in modo da poter esporre l’apertura verso l’alto, ci mise la mano dentro, e tirò fuori l’oggetto misterioso trattenendo il fiato.

Era una macchina fotografica. Di quelle professionali, forse non quella più all’avanguardia ma sicuramente capace di fare foto nitide e definite, nera e con un grande obiettivo rotondo sul davanti. Kurt tirò leggermente indietro la testa, osservandola con aria interrogativa.

“Non ti piace?” chiese Blaine, e Kurt alzò lo sguardo per vedere che si stava mordendo il labbro con fare nervoso. Era adorabile. Kurt stava quasi per sorridere.

“No, no, certo che mi piace! E’ solo… strano” rispose, tornando a guardarla. “Perché vuoi darla proprio a me?”

Blaine arrossì lievemente. “Beh, perché tu suoni, dipingi, scolpisci e… sì, insomma, ho pensato potesse essere bello aggiungere un’altra forma d’arte alla tua stanza. Qualcosa… qualcosa che ti ricordasse di me.”

Kurt sbattè le palpebre per ricacciare indietro le lacrime. Era un gesto così semplice, eppure in quel momento sembrò così tanto. Il fatto che Blaine volesse dargli qualcosa di suo, da aggiungere alle sue passioni, a tutte quelle cose che componevano il suo piccolo e triste mondo da pochi metri quadrati che Blaine rendeva ogni giorno più luminoso semplicemente respirandovi dentro.

Kurt non pianse, né sorrise; nel primo caso perché odiava farlo, nel secondo perché non sapeva più come fare. Così, invece, accese la macchina fotografica dal grande tasto rotondo che aveva in cima, la appoggiò lievemente al suo occhio destro chiudendo l’altro, e scattò la prima fotografia inquadrando Blaine senza preavviso.

L’immagine apparve subito nel piccolo schermo digitale: Blaine, con un dolce sorriso sulle labbra mentre osservava felice la sua reazione, le guance tinte da un accenno di rosso e due bellissime fossette ai lati. Kurt decise che quella avrebbe potuto diventare la sua passione preferita.

“Ehi! Non puoi farlo!” disse Blaine imbarazzato, alzandosi subito per fare il giro del tavolo e guardare la foto. Kurt tornò prontamente a inquadrarlo e ne scattò un’altra, prima che il ragazzo la afferrasse.

“Tocca a me adesso” disse, ma non in tono scherzoso come Kurt si sarebbe aspettato. Era improvvisamente serio, deciso, come se parlasse di qualcosa di davvero importante e risolutivo. Kurt si fermò dall’alzarsi per recuperare la macchina fotografica, e lo fissò.

“C’è anche un altro motivo per cui l’ho portata” continuò Blaine, abbassando per un attimo lo sguardo. “Voglio fotografarti, Kurt. Mentre fai le cose che ti piacciono, come se non sapessi di essere inquadrato… così forse potrai vederlo anche tu. Che- che sei perfetto, come ti ho detto.”

Kurt aveva praticamente la bocca spalancata a quel punto.

Dio, quanto ti amo.

Il suo cuore mancò un battito e rimase in quel modo, la mano a mezz’aria, a domandarsi cosa farsene di tutto quell’amore, come fare a capire cos’era che Blaine gli aveva fatto. A domandarsi Perché? Perché Perché? mentre in fondo, dentro di lui, una voce gli diceva che un perché semplicemente non c’era.

“Io… va bene” riuscì a rispondere, la voce istantaneamente più flebile e incerta, e Blaine gli sorrise ampiamente e fece un cenno verso la porta della sala hobby. Kurt annuì e insieme la raggiunsero, entrando nella piccola e confusionaria stanza.

“Cosa vuoi che faccia?” chiese Kurt, sentendosi lievemente a disagio come se dovesse farsi fotografare nudo o qualcosa del genere. Perché in un certo senso, era così. Era come mettere a nudo le cose che lo rendevano lui, che facevano parte della sua vita, che erano la sua vita; le uniche certezze che avesse mai avuto.

“Kurt, rilassati” gli disse Blaine, percependo il suo nervosismo. “Sii naturale, come se io non ci fossi.”

Kurt annuì ed emise un lieve sospiro, prima di guardarsi intorno per decidere. Avrebbe voluto suonare, ma pensò che per delle fotografie dipingere avesse più senso; così camminò a grandi passi verso una tela che aveva lasciato incompleta, raffigurante due piccole figure che si tenevano per mano. Poco definite e stilizzate, come faceva sempre; i contorni netti e interamente riempite con lo stesso colore del resto del paesaggio, uno strano miscuglio di marrone chiaro, ocra, giallo, un colore indefinibile ma non quello. Mai quello.

Raccolse dalla scrivania disordinata un pennello e, dopo qualche secondo di riflessione, decise di aggiungerci delle striature di verde perché in quegli ultimi giorni si era accorto anche di quelle, e come aveva fatto, come accidenti aveva fatto a non notarle prima?

Blaine, ignaro del suo segreto intento e soprattutto di chi fossero quei due bambini immaginari, si posizionò a qualche passo di distanza e iniziò a scattare, scattare, scattare, i click della macchina fotografica che diventarono quasi un ritmo cadenzato a tempo con le pennellate. Da dietro, poi tre quarti, poi il profilo di Kurt, e dal basso, inginocchiandosi sul pavimento per cogliere così l’intero corpo di Kurt, il braccio alzato che sosteneva il pennello, e il disegno stesso.

E in tutte, tutte le fotografie, era bellissimo. In alcune aveva gli occhi chiusi, persino mentre dipingeva, come se non avesse bisogno di vedere per sapere cosa stava facendo; in altre, invece, aveva lo sguardo più concentrato del mondo, come se ci fosse qualcosa di fondamentale che continuava a sfuggirgli. In altre ancora, sembrava aver dimenticato per un attimo di dover fare finta di essere solo, perché guardava dritto nell’obiettivo con quegli occhi luminosi che Blaine sapeva trattarsi del suo modo di sorridere, di quello che un tempo era stato un sorriso.

Blaine le riguardò l’una dopo l’altra mentre Kurt dava gli ultimi ritocchi, nuovamente perso nella sua attività, e pensò Ti amo.

Pensò Sei perfetto, come puoi non vederlo?

E decise che era venuto il momento, una volta per tutte, di mostrarglielo.

 


 

“Signor Hummel, posso parlarle un momento?”

“Blaine, quante volte devo dirtelo? Dammi del tu!” rispose Burt, appoggiato distrattamente alla balconata che dava sul giardino principale, quella che contornava l’area d’ingresso adibita a parcheggio. Blaine, che aveva appena lasciato Kurt nella sua stanza dicendogli che si sarebbero visti il giorno dopo al solito orario, si avvicinò all’uomo per appoggiarsi allo stesso modo, i gomiti sulla ringhiera e il mento sopra i palmi delle mani.

“Chiedo scusa” disse con gentilezza, guardandolo con la coda dell’occhio. “Io… ho bisogno del permesso per far uscire Kurt in giardino una di queste sere.”

Burt si girò completamente, staccandosi dalla balconata per guardarlo in viso. Si incrociò le braccia al petto con aria quasi minacciosa, ma Blaine in qualche modo percepiva che non avrebbe mai potuto esserlo davvero.

“E perché?”                                  

“Vorrei fargli una sorpresa, gli farà molto piacere. Prometto che mi assicurerò che non si addormenti fuori” rispose Blaine, la voce pacata e tranquilla. Era abbastanza ottimista sulla risposta, e meno nervoso di quanto avrebbe immaginato.

Burt sembrò pensarci per un po’, lo sguardo basso e riflessivo, poi rispose: “Mi sorprende che tu me lo chieda, in realtà. So per certo che siete usciti in giardino in passato.”

Blaine deglutì, mortificato ma in fondo senza il minimo accenno di rimpianto. Se soltanto Burt avesse saputo cosa aveva interrotto…

“Sì, è vero, ma… questa volta volevo che tu lo sapessi, perché ti rispetto ed è… molto importante. Per me, e per Kurt.”

Burt sembrò irrigidirsi a quell’ultima frase, come se lo avesse realmente colpito in qualche modo. Abbassò lo sguardo, e dopo qualche secondo lo rialzò su di lui. Blaine ci vide così tanto affetto, dentro quegli occhi. Simili a quelli di Kurt, ma non abbastanza; forse li aveva presi da sua madre, pensò distrattamente, mentre si chiedeva il perché di quel calore nello sguardo di Burt Hummel.

Durante la sua permanenza in quella casa – era più di un mese, ormai – era stato schivo e di poche parole, rivolgendogli rapidi saluti quando lo incontrava in corridoio mentre arrivava o andava via. Gli sorrideva quasi sempre, però. Come se riponesse in lui una grande speranza, che aveva smesso di nutrire per se stesso.

“Tieni molto a lui, vero?” gli chiese Burt quasi in un sussurro. Blaine sbattè le palpebre, colto di sorpresa, ma non fu esitante nel rispondere.

“E’ tutto per me” disse, sperando di non complicare le cose nel renderlo partecipe di ciò che stava silenziosamente accadendo tra loro. Ma Burt si limitò a sorridere, gli occhi improvvisamente più lucidi.

“Spero che tu lo renda felice” gli disse, e Blaine ebbe l’impressione che stesse per piangere. “Io… io ci ho provato, sai? A farlo stare bene. Ma lui- lui non parla. Non mi dice mai cosa pensa, non fa altro che respingermi perché io non capisco. Da quando sua madre è morta, non ha più sorriso. Mi manca così tanto.”

“Lo so” rispose Blaine, perché anche se quel sorriso non lo aveva mai visto, non aveva dubbi che fosse bellissimo e di certo, se lo avesse fatto, sarebbe mancato anche lui. Si chiese come dovesse essere, per un uomo, perdere una moglie e poi un figlio anche se non realmente, non fisicamente, ma perderlo comunque giorno dopo giorno, vederlo chiudersi in se stesso senza fare niente. Forse Burt sbagliava ad imporgli di non andare in giardino di notte, ma era per la sua sicurezza in fondo. Blaine non riusciva a biasimarlo, anche se capiva Kurt per il significato che dava a quel rituale notturno.

Si sentì un po’ in colpa, però. Forse avrebbe potuto fare di più, dire a Kurt ciò che suo padre gli aveva detto a cena quando lo aveva assunto, il suo desiderio di vederlo più aperto e socievole con qualcuno della sua stessa età. Burt gli voleva così bene, e Kurt viveva praticamente in due stanze della casa, lontano da lui in quel grande maniero.

Blaine si rese conto solo in quel momento che non li aveva mai visti insieme, a guardare la televisione o qualsiasi altra cosa di normale e quotidiano. Kurt era sempre nella sua stanza quando arrivava, e chissà, forse raggiungeva suo padre per cena o passava del tempo con lui la mattina, ma qualcosa gli disse che non era comunque lo stesso. Troppo preso dall’amore che cresceva dentro di lui, dal tempo che avevano passato insieme, Blaine aveva messo da parte il resto e in quel resto c’era anche Burt. Sperò di mettere a posto anche quello, presto, molto presto. Perché se Kurt avesse capito davvero, forse avrebbe smesso di tenerlo a distanza.

“Fa la tua sorpresa, Blaine” gli disse Burt, dandogli una pacca sulla spalla prima di allontanarsi silenziosamente, la testa bassa. Blaine lo guardò tornare dentro casa e sorrise lievemente. Aveva una persona in più per cui farlo, e non avrebbe fallito.

 


 

“Perché devo chiudere gli occhi? E’ buio!” disse Kurt, mentre Blaine lo teneva per mano conducendolo lungo il corridoio e poi all’aperto, in giardino.

“Perché altrimenti non è una vera sorpresa” gli rispose, mettendosi davanti a lui in modo che non potesse lanciare occhiate al di sotto della collinetta su cui si trovavano, quella che andava a finire sulla riva del lago dove lo aveva visto per la prima volta.

“Un’altra?!” gli disse Kurt roteando gli occhi, ma senza obiettare ulteriormente decise di obbedire e li chiuse, incrociandosi le braccia al petto per fingersi rassegnato. Blaine annuì compiaciuto e lo prese sotto braccio, per guidarlo lungo il sentiero buio. Kurt non poteva vederlo, ma al di sotto della collina non lo era più: si poteva già intravedere il debole tremore di candele disseminate sul prato in un grande cerchio, le più lontane quasi aderenti alla riva del lago artificiale.

Quando arrivarono dove voleva lui, Blaine lasciò andare il suo braccio e controllò che tutto fosse a posto con una rapida occhiata; poi, prendendo un respiro profondo, disse: “Apri gli occhi.”

Kurt lo fece all’istante, troppo curioso per aspettare oltre, ma se ne pentì subito perché una vista del genere avrebbe dovuto essere assaporata a poco a poco, gradualmente, per non rischiare di morire di infarto o per mancanza improvvisa di ossigeno.

Sul prato a pochi passi da lui, al centro di un grande cerchio creato dalle candele in modo che tutto fosse visibile, c’erano tanti piccoli quadrati di carta plastificata, lucida sotto le fiammelle che danzavano nell’oscurità. Erano fotografie. Sue fotografie.

Tutte quelle che Blaine gli aveva scattato mentre dipingeva, e altre scattate nei pochi giorni successivi: Kurt che girava la pagina di un libro con aria annoiata, un sopracciglio alzato nel mostrare finto interesse; Kurt che roteava gli occhi dopo aver detto per l’ennesima volta a Blaine di smetterla; Kurt seduto sul davanzale della sua finestra, lo sguardo rivolto verso l’esterno oscurato dal vetro, e di quella foto non si era neanche accorto perché Blaine l’aveva scattata non appena era entrato dalla porta, a sua insaputa; Kurt che dava la forma di un bocciolo di rosa ad un piccolo ammasso di argilla, lo sguardo concentrato e le mani unite a coppa davanti a sé come se stesse custodendo un diamante; Kurt che suonava il pianoforte, gli occhi chiusi e le labbra semi-aperte nel sussurrare una canzone senza cantarla davvero; Kurt che guardava Blaine, per una volta intenzionalmente, con due occhi che brillavano come le stelle che avevano sopra le loro teste in quel momento, due occhi che dicevano Ti amo mentre le sue labbra non ne avevano ancora il coraggio.

Ti amo, proprio come la scritta che Blaine aveva composto con le fotografie.

Kurt si portò una mano alla bocca, mentre una lacrima gli percorreva la guancia e altre si apprestavano ad arrivare, offuscandogli la vista.

“Io- io non-“

“Kurt” disse Blaine, prendendogli la mano che aveva sul viso e poi anche l’altra, nelle sue. E quando Kurt si concesse di guardarlo negli occhi, capì che stava per dirlo e quello sarebbe stato diverso. Sentirglielo dire lo avrebbe reso reale, e lui voleva che fosse reale, lo voleva così tanto, ma allo stesso tempo voleva che Blaine fosse libero e che fosse felice e né la libertà né la felicità si trovavano tra le mura della sua casa dimenticata da tutti. Non erano lì.

“Blaine, non-“

“Ti amo” gli disse Blaine, stringendogli le mani con le sue e guardandolo come se non ci fosse niente, niente di più bello in tutto il mondo. Le candele creavano giochi di luce sui loro visi e le fotografie erano ancora lì, leggermente mosse dal vento ma ancora in grado di formare quella frase, quell’insieme di lettere che singolarmente non significavano nulla e che unite significavano tutto.

Tutto quello che avrebbe voluto, tutto quello che non pensava di meritare abbastanza, tutto quello che sapeva di provare per Blaine.

“Non farlo” sussurrò, le lacrime che continuavano a cadere sul suo viso e i singhiozzi pronti a esplodere da un momento all’altro. Perché dio, quanto voleva che Blaine lo facesse. Quanto voleva che qualcuno lo baciasse e lo stringesse e gli dimostrasse che andava bene così, che non c’era niente di sbagliato in lui, che poteva essere felice senza vivere con il rimorso di aver tolto quella possibilità a qualcun altro.

Blaine era il suo sole. Ma lui non poteva oscurarlo. Non poteva tenerlo rinchiuso tra quattro mura, perché alla fine, a forza di essere compresso, sarebbe esploso come una supernova per poi autodistruggersi e risucchiare tutto ciò che aveva intorno in un buco nero. Nero. Come il buio, come la sua vita, e Kurt non poteva, non poteva condannarlo perché lo amava così tanto.

“Come?” chiese Blaine, sconvolto dalla risposta, mentre si domandava se le lacrime sulle guance di Kurt fossero di felicità o di tristezza. Preoccupato, lasciò le sue mani per avvolgergli il viso bagnato con i palmi e si avvicinò, pochissimi centimetri tra di loro ormai.

“Non farlo, Blaine” insistette Kurt, la voce spezzata e irriconoscibile perché quella era in assoluto la cosa più difficile che avesse mai fatto, e forse la più giusta.

Ma Kurt fu così stupido, in quel momento; ingenuo, forse. Credere che l’amore si possa controllare, è come pensare di poter dire alle nuvole quando far piovere, o alle stelle con quanta intensità brillare. E chissà, forse qualcuno ci riuscirà un giorno, ma sarà forse vera pioggia? Sarà forse vera luce?

“Non posso” rispose Blaine, stringendogli il viso e iniziando a piangere anche lui. Perché Kurt continuava a non capire, com’era possibile?

“Anche per te è così. Non è vero?” gli chiese, e l’espressione di Kurt vacillò per un attimo, tentando di distogliere lo sguardo, ma Blaine lo teneva stretto ed era come se lo stesse ipnotizzando, obbligandolo a guardare dentro quelle pozze di miele uguali agli occhi del bambino del suo sogno, a quelli del Blaine ancora piccolo e spensierato che lo aveva preso per mano e lo aveva baciato come fosse una delicata e impalpabile piuma sulle sue labbra.

“Perché fai così? Perché non capisci?” domandò Blaine quasi febbrilmente, e Kurt avrebbe voluto prendergli le mani per staccarle dal suo viso e correre via, chiudersi a chiave nella sua stanza e dipingere le sue tele di rosso, nero, verde, giallo, blu, tutti i colori che riusciva a trovare, tutti quelli che servivano per cancellare quello dei suoi occhi che tanto non sarebbe mai riuscito ad immortalare perché erano di un altro mondo, di un altro pianeta. Scappare nel suo rifugio sicuro e tornare alla vita di prima, vuota e spenta ma sicura, protetta da tutto quel vortice di emozioni che gli facevano girare la testa e che non facevano altro che sussurrargli Dillo dillo dillo dillo dillo.

“Perché voglio che tu sia felice, Blaine” riuscì a dire invece, le mani che pur di fare qualcosa finirono per stringere i fianchi di Blaine al di sopra della maglietta. “Non qui, non al buio, non con me-“

“Ma mi ami” insistette Blaine, ignorando tutte quelle inutili obiezioni per arrivare al punto, all’unica cosa che contava veramente. La felicità era dove c’era Kurt. Cosa se ne faceva del sole, quando aveva tra le mani la stella più luminosa del cielo?

“Dillo, Kurt. Lo so che è così, lo so che pensi di fare il mio bene in questo modo, ma stai sbagliando, a me non importa, non importa di niente se non ci sei tu. Dio, accetterei di vivere in un sotterraneo per il resto dei miei giorni se significasse starti accanto. Cosa vuoi che me ne freghi del sole, una stupida palla di fuoco che non sarà mai, mai perfetta quanto lo sei tu? Ti prego, devi credermi. Ti amo. Ti amo così tanto, Kurt, così tanto che all’inizio ho cercato di non farlo, davvero, ci ho provato, perché era troppo e troppo in fretta e non riuscivo a capire. Ma non è servito. Perché non si può controllare, non si può cambiare, e lo stesso vale per te.”

Kurt scoppiò letteralmente a piangere tra le mani di Blaine. Era così ingiusto, così dannatamente ingiusto, per tutti e due. Così ingiusto che Blaine si fosse innamorato di lui tra tante persone al mondo, e così ingiusto che lui lo amasse così tanto da non riuscire a lasciarlo andare.

Kurt non sapeva, invece, che era l’esatto contrario. Era giusto perché era amore, e l’amore lo è sempre.

E alla fine, pur ignorando questa grande verità, dovette arrendersi ed essere egoista perché non dirlo gli stava facendo male al petto, più di quanto la sua cicatrice avrebbe mai bruciato. Se non lo avesse detto, avrebbe avuto una scottatura sul cuore o forse peggio, perché si sarebbe spezzato, compresso da troppe parole e troppe emozioni non dette.

Alzò lo sguardo verso Blaine, i suoi occhi più chiari di quanto lui li avesse mai visti, non più annebbiati, non più in tempesta, ma limpidi e calmi come se un uragano fosse appena passato distruggendo tutto il resto ma lasciando intatte le sue acque. Eterne, che non sarebbero mai cambiate, proprio come il suo amore.

“Ti amo.”

E quando Blaine sorrise, continuando comunque a piangere, Kurt non riuscì ad odiarsi per averlo detto se due semplici parole erano in grado di provocare quell’effetto, perché era raggiante e bellissimo e se il sole fosse apparso nel buio in quel momento, senza avvisare, per rovinare quell'istante, non se ne sarebbe neanche accorto perché Blaine stava splendendo.

Il suo sole personale lo guardò per un attimo, le mani ancora sulle sue guance, e poi si avvicinò per unire le loro labbra. Kurt si rilassò istantaneamente, sospirando, e gli strinse i fianchi con le mani per assicurarsi che fosse tutto vero, che quello non fosse il Blaine del suo sogno pronto a svanire e lasciarlo solo in un letto pieno di lacrime e speranze distrutte e visioni di un futuro irraggiungibile.

Le loro labbra si unirono e si separarono più volte, finchè non furono le lingue a danzare l’una sull’altra, ma fu comunque dolce e delicato in un modo che non si può spiegare a parole. Fu perfetto.

Perfetto, proprio come sentì di essere Kurt in quel momento.

 

 

 

 


 

 


Altro capitolo che amo tanto, giusto perchè voi lo sappiate ** THEY KISSED! :D


Nel prossimo capitolo:

Anche per Kurt arriva il momento di passare dalle parole ai fatti, prima di ricevere una sorpresa a dir poco inaspettata.



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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


 

La canzone citata in questo capitolo è "I See The Light" dal film d'animazione Tangled (in italiano Rapunzel), cantata in originale da Mandy Moore e Zachary Levi. Potete ascoltarla qui al momento giusto :)

Warning: questo capitolo contiene una descrizione di lieve violenza fisica.

 

 


 

 

Le persone sono come le vetrate. Scintillano e brillano quando c'è il sole, ma quando cala l'oscurità rivelano la loro bellezza solo se c'è una luce dentro.

- Elisabeth Kubler Ross

 


“Kurt?”

Burt entrò titubante nella stanza di suo figlio, completamente buia. Prima che potesse ripetere, una piccola luce si accese accanto al suo grande letto a baldacchino e lo vide, disteso sotto le coperte, con le braccia incrociate al petto.

“Ti ho svegliato?” chiese l’uomo, mentre si richiudeva la porta alle spalle.

“No” rispose semplicemente Kurt, guardando davanti a sé. Ci fu un attimo di silenzio, quello che solitamente precedeva il momento in cui suo padre se ne sarebbe andato, incapace di trovare qualcosa da dire. Ma quella sera fu diverso.

“Volevo sapere com’era andata la sorpresa” disse Burt, avvicinandosi lentamente al bordo del letto e rimanendo in piedi, le mani unite davanti a sé per il nervosismo. Kurt alzò lo sguardo verso di lui, visibilmente sorpreso.

“Tu lo sapevi?”

“Sì, Blaine mi ha chiesto il permesso qualche giorno fa” rispose Burt, la voce quasi un sussurro.

“Oh” disse Kurt, come se stesse riflettendo su cosa aggiungere nel frattempo. “E come mai glielo hai dato?”

Burt trasalì visibilmente e lo fissò. Si sedette lentamente sul bordo del letto, vicino alle gambe del figlio, ed esitando allungò una mano per poggiarla sulla sua. Kurt sembrò indeciso su cosa fare, ma alla fine la lasciò dov’era, senza rispondere realmente al tocco ma permettendogli comunque di farlo.

“Kurt” disse suo padre, schiarendosi la voce. “L’ho fatto perché ti voglio bene. Tutto quello che faccio è per questo, solo per questo. Anche se non sempre ti sembra così.”

Kurt distolse lo sguardo, la mascella visibilmente serrata e l’altra mano chiusa a pugno. Burt gli strinse la mano che stava sfiorando, catturando di nuovo la sua attenzione e guardandolo negli occhi.

“Ti voglio bene, Kurt” gli disse, quasi in tono di supplica. “Ti prego, possiamo- possiamo tornare come prima. Voglio che tu sia felice, e che sorrida-“

“Non torneremo mai come prima” gli rispose Kurt, lo sguardo severo ed implacabile. “Come puoi dirlo? Tu l’hai dimenticata, l’hai già dimenticata, non è vero?!”

Burt sembrò sul punto di saltare in piedi dal letto a quell’accusa, gli occhi spalancati e la bocca dischiusa per la sorpresa di fronte alla durezza di quelle parole.

“Kurt, come puoi anche solo pensare una cosa del genere?” gli disse, lo sguardo basso e una lacrima che scivolava sulla sua guancia. Kurt se ne accorse e trasalì, sentendosi improvvisamente in colpa.

“Io lo so che lei ti capiva, che era l’unica al mondo che poteva capirti” continuò suo padre, senza guardarlo negli occhi. “E anche se non sarà mai così per me, io- io voglio provarci, Kurt. In tutto questo tempo ho lasciato che ti chiudessi in te stesso ed è anche colpa mia, so che è così. Ma Blaine… era così determinato, sembrava disposto a fare qualsiasi cosa per te, eppure ti conosce da così poco tempo, non ti ha messo al mondo, e questo mi ha fatto molto riflettere.”

Burt alzò lo sguardo, incontrando finalmente quello di suo figlio. Kurt sentì il cuore stringersi nel petto, perché era così, si era chiuso in se stesso perché le cose non sarebbero più state allo stesso modo senza di lei. Ma non si era mai preoccupato di come fosse per suo padre. Era stato così egoista da non aver nemmeno notato il suo dolore.

“Papà-“

“Ti ama, non è vero?” gli chiese Burt, un accenno di calore e dolcezza nella sua voce quasi sussurrata. Kurt sentì gli occhi improvvisamente annebbiati.

“Sì” disse annuendo. Burt si aprì in un piccolo sorriso e allungò una mano per accarezzargli la guancia, facendo cadere all’istante una lacrima nel farlo. La scacciò via con il pollice.

“E tu lasciaglielo fare. Lasciaci entrare, Kurt” gli disse, continuando a sfiorargli la pelle. “Mi manchi così tanto.”

Kurt lo guardò, e per la prima volta dopo anni non provò rancore nei suoi confronti. Non avrebbe mai dovuto, in realtà, perché non era colpa sua se non era come lui a differenza di sua madre, non era colpa sua se non poteva capire quanto fosse importante guardare le stelle di notte. Non era colpa sua se lui era così, non era colpa di nessuno.

“Oh, papà” disse scoppiando a singhiozzare, ed era già la seconda volta quella sera, dopo così tanto tempo passato ad imparare come fare a non mostrare emozioni, a non provarle. Si sentì quasi sopraffatto da tutto ciò che stava succedendo, con così tanta velocità.

Suo padre lo avvolse subito in un abbraccio e gli accarezzò teneramente i capelli, e Kurt continuò a piangere sulla sua spalla per molto, molto tempo. Quando smise, fu come se un altro tassello di un vetro distrutto in mille pezzi fosse stato appena rimesso al suo posto.

Ne mancavano ancora tanti, forse, scorci di una vita che non avrebbe mai vissuto che avrebbero continuato a tormentare i suoi sogni; ma poteva concentrarsi sulla vita che avrebbe vissuto, su coloro che ne facevano parte. Aveva Blaine, e aveva suo padre, insieme ad un sorriso svanito nel tempo e una cicatrice impossibile da cancellare.

Ma forse andava bene così.

 


 

Nei giorni che seguirono, Kurt e Blaine studiarono insieme tenendosi per mano. Era tutto strano e nuovo, un tocco semplice eppure così intimo, come se sentissero il bisogno di essere sempre collegati l’uno all’altro in qualche modo.

Blaine gli fece leggere il suo diario, e gli chiese di scriverci dentro anche lui, in modo che le pagine si alternassero giorno per giorno e i ricordi, ora più completi, si accumulassero sulla carta così che, anche ad anni di distanza, potesse bastare aprirlo per ritrovarli tutti lì, come se il tempo non fosse mai passato. Kurt era certo del fatto che li avrebbe ricordati comunque, ma acconsentì alla richiesta.

Furono giorni di occhiate fugaci, guance che si tingevano di rosso, dita che si sfioravano esitanti sopra la superficie del tavolo, baci rubati di nascosto come se qualcuno potesse scoprirli, come due amanti segreti dentro un grande castello. Come se di colpo non si conoscessero e tutto fosse ancora una volta nuovo per loro, come se non sapessero a memoria ogni reazione, movimento e postura dell’altro.

Fu questo il segreto che, nonostante tutto, permise loro di andare sempre avanti. La capacità innata di vivere ogni giorno come se fosse il primo e l’ultimo.

Kurt continuava a pensare di non essere perfetto, ma giunse alla conclusione che era così semplicemente perché, senza Blaine, non lo sarebbe mai stato. Senza Blaine era incompleto. C’era soltanto un momento, nel corso della giornata, in cui finalmente credeva alle sue parole: quando le loro labbra si incontravano. O quando i loro sguardi si trovavano e Blaine sorrideva e la luce tornava nella sua vita come se non se ne fosse mai andata.

Blaine lo rese perfetto. E così, per farglielo capire, Kurt compose una canzone a sua completa insaputa, approfittando delle mattine libere. Ci mise il suo cuore, in quelle parole. Perché forse non sarebbe mai riuscito a dipingere il colore degli occhi di Blaine, ma magari sarebbe riuscito a infondere la sua essenza, la loro essenza, in un connubio perfetto di voce e musica.

Un pomeriggio, Blaine entrò come sempre nella sua stanza ma non venne accolto né dal buio, né dal silenzio: c’era una musica, delicata e melodiosa, che si espandeva nell’aria come vapore, avvolgendo tutto e avvolgendo lui. Blaine sbattè le palpebre incuriosito e raggiunse l’altra porta, al di là della quale avrebbe sicuramente trovato Kurt al pianoforte.

E infatti lo trovò lì, intento a suonare, chiaramente in attesa del suo arrivo; perché soltanto quando Blaine apparve sulla soglia Kurt alzò lo sguardo, fece un accenno, un accenno di sorriso, e iniziò a cantare richiudendo gli occhi.


All those days watching from the windows
All those years outside looking in
All that time never even knowing
Just how blind I've been

Now I'm here, blinking in the starlight
Now I'm here, suddenly I see
Standing here, it's all so clear
I'm where I'm meant to be


Kurt riaprì gli occhi e guardò Blaine, in piedi sulla porta, la tracolla improvvisamente gettata sul pavimento e una mano sul cuore mentre lo osservava totalmente rapito dalla sua voce, dalle parole, da ciò che significavano.


And in last I see the light
And it's like the fog has lifted
And in last I see the light
And it's like the sky is new

And it's warm and real and bright
And the world has somehow shifted

All at once everything looks different
Now that I see you

 

Lacrime silenziose scivolarono sulle guance di Blaine, mentre Kurt richiudeva gli occhi concentrandosi sulle sue mani che si muovevano sinuose sopra i tasti, eseguendo un piccolo intervallo musicale prima di passare alla seconda strofa.

Blaine non aveva mai creduto che potesse essere più bello di com’era. Ma in quel momento pensò di essere stato uno stupido a pensarlo, perché Kurt sembrava… diverso. Per la prima volta, la sua bellezza non era triste, malinconica e misteriosa; era raggiante, come se una piccola luce lo stesse animando dall’interno facendolo diventare una specie di lanterna umana.

Ed era stato lui a renderlo possibile. Non poteva esistere al mondo una gioia più grande di quella.

 

All those days chasing down a daydream
All those years living in a blur
All that time never truly seeing
Things, the way they were

Now he's here shining in the starlight
Now he's here, suddenly I know
If he's here it's crystal clear
I'm where I'm meant to go

 

And in last I see the light
And it's like the fog has lifted
And in last I see the light
And it's like the sky is new

And it's warm and real and bright
And the world has somehow shifted

All at once everything is different
Now that I see you

 

Kurt lo fissò dritto negli occhi, come se non fosse già abbastanza chiaro che stava parlando di lui, che era Blaine ad aver riportato quella luce di cui parlava. Poi cantò l’ultima frase con la sua voce delicata e perfetta; Blaine aveva avuto ragione a pensare che fosse quella di un angelo.

 

Now that I see you.

 

Smise di suonare e di cantare, e non ebbe neanche il tempo di alzarsi dal pianoforte perché Blaine era già su di lui, baciandolo con intensità e sorridendo tra un bacio e l’altro.

“Ti amo” gli disse sulle labbra, prima di baciarlo di nuovo e avvolgergli le braccia intorno al collo.

“Ti amo anch’io” gli rispose Kurt, seppellendo il viso nei suoi ricci e inspirando il suo profumo. Sapeva di pulito, di buono e di casa. Sapeva di sole.

“E’ bellissima” disse Blaine, tirando su col naso. “Io- io non so che cosa dire-“

“Non devi dire niente, Blaine. E’ per te. E’ bellissima perché tu lo sei” disse Kurt, e Blaine alzò il viso dalla sua spalla e gli sorrise ancora una volta tra le lacrime. Lo baciò ancora, intrecciando le dita ai suoi capelli, e Kurt sospirò deliziato perché era così bello sentirsi perfetti.

 


 

“Mi scusi se insisto, ma il signor Hummel non ha mai parlato di lei!”

“Le assicuro che lo conosco, andiamo, mi faccia entrare-“

“Non credo sia il caso- ehi! Si fermi!”

Kurt ascoltò questa conversazione da dentro la sua stanza, non molto distante dall’ingresso della casa dove evidentemente Flint stava discutendo con una persona che non conosceva, visto che aveva una voce mai sentita. Scese dal davanzale, dove stava seduto in attesa di Blaine, e poi sentì altre frasi sovrapposte l’una all’altra e passi rapidi lungo il corridoio, sempre più vicini. Fece un passo in avanti verso la porta, leggermente preoccupato, e all’improvviso questa si aprì.

Un ragazzo, con indosso una divisa uguale a quella di Blaine, era in piedi nella sua stanza. Magro e alto, i capelli lisci e perfettamente modellati verso l’alto di un colore castano-dorato, un ghigno malizioso sul viso. Il ragazzo lo squadrò dalla testa ai piedi, senza il minimo imbarazzo nel trovarsi in una casa dove non era chiaramente desiderato, e annuì tra sé e sé come se avesse appena avuto la conferma di qualcosa.

Kurt trasalì visibilmente e rimase in piedi dov’era, drizzando subito la schiena per non mostrarsi intimidito dalla sua presenza. Non lo era, non del tutto; ma c’era qualcosa di strano nel modo in cui lo guardava, come se avesse appena scoperto una cosa fondamentale e non vedesse l’ora di dirgliela.

Flint, naturalmente più lento del ragazzo, raggiunse finalmente la porta e disse in tono mortificato: “Le chiedo scusa, non sono riuscito a fermarlo.”

“Non fa niente, Flint” rispose Kurt, senza staccare gli occhi dall’inaspettato ospite. “Puoi andare.”

Quando il maggiordomo se ne andò, un po’ titubante, il ragazzo aspettò che richiudesse la porta per poi incrociarsi le braccia al petto e sorridere compiaciuto, ma rimase in silenzio.

“Chi diavolo sei?” sbottò finalmente Kurt, in piedi tra il letto ed il tavolo ancora a pochi passi dal davanzale da cui era sceso. Il ragazzo fece qualche passo in avanti, fermandosi tra i due oggetti, ancora un accenno di distanza a dividerli.

“Mi chiamo Sebastian” disse con aria imperturbabile. Kurt alzò un sopracciglio, visto che il nome non gli suonava per niente familiare. Ma qualcosa, nel retro della sua mente, continuava a dirgli che quel ragazzo poteva essere una persona soltanto, perché chi altri si sarebbe preso la briga di andare fino a casa sua? Continuava però a sfuggirgli come avesse fatto.

“E perché sei in casa mia, Sebastian?” gli chiese, incrociandosi le braccia al petto come fosse un suo riflesso. Il ghigno di Sebastian si allargò visibilmente.

“Ero curioso” disse, facendo qualche altro passo in avanti. Kurt non trasalì né si tirò indietro, nemmeno quando i centimetri tra loro erano palesemente diminuiti. “Curioso di sapere cosa ci trovi Blaine in te. Francamente, sono un po’ deluso.”

Aveva avuto ragione. Era quel ragazzo misterioso a cui Blaine aveva accennato una volta, quando non voleva rispondere ai suoi messaggi. Quindi era quello che aveva baciato Blaine, che lo aveva stretto a sé in un letto e lo aveva toccato. Certo, Blaine glielo aveva permesso e non stava a lui giudicare al tempo. Ma questo non impedì ad un lampo di gelosia di accecarlo per un attimo.

“Come ti permetti di ficcare il naso negli affari nostri? E come hai fatto a sapere dove-“

“Oh, è stato facile. Blaine ha una memoria così corta, che annota tutto sul suo diario. Persino il tuo indirizzo.”

Kurt si congelò all’istante, sperando che non si notasse quanto fosse improvvisamente più pallido. Quel ragazzo aveva letto tutto. Non poteva sapere se avesse messo le mani sul diario prima o dopo che anche lui avesse iniziato a scrivere, ma non importava, perché sapeva ciò che Blaine aveva scritto di lui. Su quelle pagine c’era il suo cuore, tutte le sue paure, le sue emozioni, le incertezze che aveva ormai messo da parte. C’era il modo in cui vedeva Kurt, il modo in cui lo amava. C’erano Kurt e Blaine in quel diario.

Non seppe se sentirsi più arrabbiato o più umiliato all’idea che qualcuno avesse frugato in quello che avevano senza alcun ritegno, e per cosa? Per il sesso? La sola idea che quel ragazzo avesse toccato quelle stesse pagine gli fece venire la nausea.

Sebastian, compiaciuto della sua reazione, continuò a parlare: “Lo sai che cercava me per scopare, quando già pensava di provare qualcosa per te?”

Kurt rabbrividì visibilmente, stringendo i pugni lungo i fianchi, ma si disse che non stava a lui giudicare cosa aveva fatto Blaine quando non c’era alcun vincolo a legarli. Blaine non aveva scritto nulla al riguardo, anche quando non aveva ancora in programma di condividere con lui il diario. Perché non aveva importanza per lui, Kurt lo sapeva, lo sentiva. Sebastian non contava niente, lo stava solo provocando.

“Vattene da casa mia” sibilò a denti stretti, fulminandolo con lo sguardo, quello più furioso che riuscì a tirar fuori in quel momento al di sotto dell’umiliazione. Ma Sebastian non sembrava intimidito, anzi, vederlo arrabbiato sembrava compiacerlo ancora di più.

“Scommetto che non lo avete ancora fatto” continuò imperterrito, avvicinandosi ancora per poi camminargli intorno e fermarsi dietro di lui. Kurt chiuse gli occhi e serrò la mascella, un respiro caldo che improvvisamente gli pizzicò il retro del collo. “Altrimenti, avresti sicuramente visto i segni delle mie mani sui suoi fianchi.”

Kurt si voltò di scatto e afferrò Sebastian per il colletto, sbattendolo contro il muro al di sotto del davanzale. E anche in quel momento, quel dannatissimo ragazzo non sembrò accigliarsi neanche un po’, come se lo avesse previsto, come se fosse tutto calcolato. Kurt non riusciva praticamente a vedere dritto davanti a sé per la rabbia, un profondo desiderio di prenderlo a pugni che lentamente si impossessava di lui mentre lo guardava furioso, i visi vicinissimi.

“Non ti permettere di parlare di lui così. Non devi permetterti neanche di pronunciare il suo nome” sibilò, prima di sbatterlo ancora contro il muro e poi lasciarlo andare, facendo un passo indietro. Sebastian si limitò a sistemarsi la divisa leggermente sgualcita e raddrizzare il colletto della camicia al di sotto, mentre osservava il suo tentativo di respirare di nuovo normalmente.

“E perché no? In fondo, io e lui abbiamo condiviso una cosa che voi due non avete” rispose, appoggiando con aria distratta il gomito al davanzale. Kurt alzò lo sguardo dalle mani che si era premuto sul viso e lo fulminò ancora una volta. Era chiaro, voleva farlo esplodere. Ma non poteva dargli una soddisfazione del genere, non doveva fare il suo gioco, doveva mantenere la calma e farsi scivolare tutto addosso. Reagire con il suo malizioso sarcasmo, perché ne aveva uno anche lui, per la miseria.

“E cosa, il sesso?” sbottò, cercando di ricomporsi e alzando un sopracciglio. “Pensi davvero che questo ti renda più vicino a lui di me? Proprio non capisco come abbia fatto ad andare a letto con una puttana da quattro soldi come te.”

Per la prima volta, Sebastian cambiò la sua espressione e gli scoccò un’occhiata adirata, togliendo il braccio da sopra il davanzale. Quello che Kurt non si aspettava, però, era che reagisse anche lui, vittima della sua stessa trappola, afferrandolo per il colletto del maglione e sbattendolo con molta più forza contro il muro vicino, tra il letto e la finestra.

Kurt chiuse gli occhi e piagnucolò di dolore, la cicatrice alla schiena che colpì violentemente il muro di pietra dietro di lui facendogli vedere tutto bianco davanti a sé per un attimo. Ricacciò indietro le lacrime dovute al bruciore improvviso e inaspettato, perché non si sarebbe azzardato a piangere davanti a quel ragazzo. Sarebbe morto piuttosto.

“Lavati la bocca quando parli di me, piccolo Lord” sussurrò Sebastian, prima di allontanarlo dal muro di un passo e sbatterlo di nuovo contro di esso, stavolta lasciando la presa in modo che vi si accasciasse contro. Kurt si morse il labbro per il dolore, tutta la schiena che bruciava e pulsava senza dargli tregua, e probabilmente anche qualche goccia di sangue che fuoriusciva dalla pelle troppo tenera.

Ora seduto sul pavimento, i pugni stretti e gli occhi chiusi, cercò di concentrarsi sul suo respiro, dentro e fuori, dentro e fuori, ma non funzionò perché Sebastian riprese a parlare, guardandolo dall’alto in basso.

“Ho capito il tuo gioco” disse, tornando ad indossare quel sorriso malizioso e soddisfatto. “Il ragazzo dai grandi occhi blu, pieno di soldi, misterioso, che vive in una grande tenuta in campagna... Non mi sorprende che Blaine stia con te, dopo essersi reso conto di non riuscire a contare sulle dita di due mani le stanze della casa.”

“Pensa pure quello che vuoi se ti fa stare meglio, ma ora vattene da casa mia. E non ti azzardare ad avvicinarti a me o a Blaine, mai più” sibilò Kurt, alzando lo sguardo su di lui mentre cercava di rialzarsi, ma scivolando contro la parete non fece altro che aumentare il dolore alla schiena. Sebastian sembrò leggermente stranito dalla sua reazione, eccessiva ai suoi occhi, ma non se ne preoccupò e fece finta di non aver sentito. Come se un pensiero gli fosse appena balenato alla mente, si guardò intorno e poi riportò lo sguardo su di lui.

“Senti un po’, me la spieghi una cosa?” disse in tono casuale, come se quella fosse una normale conversazione e Kurt non fosse immobile sul pavimento a causa sua. “Si può sapere perché diamine non aprite le finestre in questa casa?”

E poi, ignorando lo sguardo di assoluto terrore negli occhi di Kurt, si voltò e girò la maniglia della finestra.

 

 

 


 

 

....

.......

...........

Ok, direi di prenderci un momento per assimilare ciò che abbiamo letto... e soprattutto per non augurare alla povera autrice una morte tra atroci sofferenze! Purtroppo i cliffhangers sono un vizio che non mi toglierò mai, nonostante li odi quando li usano gli altri. Bella storia, eh?

So che probabilmente il Kurt che conosciamo non avrebbe alzato le mani in quel modo, ma bisogna ricordare che in questa storia non ha subito bullismo visto che non è mai andato a scuola, non ha portato avanti una campagna contro la violenza, e in più c'è il bonus di Sebastian molto più stronzo del normale.

Ringrazio tutti coloro che hanno letto e recensito lo scorso capitolo, che sembra essere il più apprezzato fino ad ora, e ci tengo a farvi vedere questo disegno ad opera di Giuliana Tarallo. Grazie ancora carissima! **



Nel prossimo capitolo:

La visita di Sebastian innesca una catena di inaspettate conseguenze.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


 

 

Una volta che il sole è tramontato, nessuna candela può sostituirlo.

- George R. R. Martin

 


Avvenne tutto nel giro di un secondo. Kurt cercò di alzarsi, ma era come se la sua schiena fosse praticamente in fiamme; allora cercò di dire a Sebastian di non farlo, ma era così pietrificato dal terrore all’idea di cosa stava per succedere da non riuscire a formulare una singola parola, un “no” incastrato in gola insieme al suo respiro mentre allungava una mano verso di lui, sperando che capisse ciò che evidentemente non sapeva. Perché per quanto potesse avercela con lui, poteva davvero essere così meschino da volergli infliggere una morte orrenda e terribilmente dolorosa?

Forse non aveva letto tutto il diario, solo qualche pagina, saltando le parti in cui Blaine o lui stesso accennavano chiaramente alla sua situazione. Non poteva essere davvero un assassino, era solo ignaro, era così per forza.

Ma non cambiava il fatto che la sua mano stava girando sulla maniglia, che la finestra dal vetro oscurato si sarebbe aperta illuminando per prima cosa proprio il punto in cui si trovava, e per quanto Kurt fosse vestito e avesse potuto coprirsi il viso, la luce lo avrebbe trovato. E avrebbe fatto così male, così male, lui lo sapeva perché lo ricordava come se fosse successo il giorno prima, ed era così spaventato da non riuscire neanche a gettarsi in avanti, carponi almeno, per ritardare il momento in cui il sole lo avrebbe investito.

E in quell’attimo pensò a tante cose, al dolore, a sua madre, a BlaineBlaineBlaine perché sarebbe morto, sarebbe morto e non l’avrebbe più rivisto e non gli avrebbe più potuto dire che lo amava e che era il sole e-

“SEBASTIAN!”

Sia Kurt che Sebastian si voltarono di scatto verso la porta d’ingresso, dove c’era Blaine, in piedi con gli occhi sgranati che saettavano tra di loro cercando di capire cosa fosse successo, perché Kurt era a terra, ma la sua attenzione venne subito catturata dalla mano del Warbler sulla maniglia della finestra. Rimase a fissarlo, terrorizzato almeno quanto Kurt, e tremò visibilmente.

“Sebastian…” disse, la voce improvvisamente più bassa come se stesse parlando ad un rapitore sul punto di uccidere il suo ostaggio, le mani in avanti con l’intento di tranquillizzarlo. “Sebastian, per l’amor di Dio, leva la mano da lì!

Sebastian trasalì leggermente sentendo il tono di Blaine, che era sull’orlo delle lacrime ormai, e rimase fermo con la mano sulla maniglia e un sopracciglio alzato, l’aria interrogativa.

“Blaine, è una finestra” disse con sarcasmo, prima di voltarsi di nuovo a guardare Kurt scosso da piccoli tremiti in tutto il corpo, gli occhi lucidi per le lacrime che stava trattenendo dovute al dolore e alla paura insieme. “Si può sapere che problema avete voi due?!”

“Leva la mano da lì. Ti prego, Sebastian, non aprire la finestra, ti prego non lo fare!” piagnucolò Blaine, facendo un passo in avanti verso di loro e rivolgendogli uno sguardo supplichevole.

Non capiva perché Kurt fosse ancora lì, perché non si fosse alzato per rifugiarsi in un angolo in un cui la luce non sarebbe arrivata, ma l’espressione terrorizzata che aveva parlava da sé. Che cosa aveva fatto Sebastian?! E soprattutto, cosa ci faceva lì?

Sebastian si accigliò nel vedere che Blaine stava davvero per piangere, e senza capire ancora di cosa si trattasse tolse la mano e la alzò insieme all’altra in segno di resa.

“Ok, ok, non la apro, ma mi vuoi spiegare-“

“Kurt non può stare sotto il sole, dannazione! Avresti potuto ucciderlo, te ne rendi conto?!” esplose Blaine, praticamente gridando, mentre l’espressione di Sebastian vacillava visibilmente e l’idea di essere sul punto di uccidere una persona penetrava nella sua mente, facendogli girare la testa e stordendolo all'improvviso.

“Io- oh mio Dio” sussurrò in un tono mortificato e sconvolto insieme che non gli si addiceva per niente, ma che sembrava del tutto sincero. “Non lo sapevo, Blaine-“

“Fuori” sibilò Blaine avvicinandosi ancora, e notando di sfuggita che Kurt aveva il viso tra le mani per non far vedere che aveva iniziato a piangere, non riuscendo più a trattenersi. “Fuori!

Sebastian sembrò sul punto di dire qualcosa, ma si limitò a guardarlo con una sorta di dolore negli occhi, come se fosse stato ferito, e uscì a grandi passi dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle. Il suo rimbombo riecheggiò nella stanza, prima che il silenzio la avvolgesse con la sua pesante assenza di suono.

Blaine abbassò lo sguardo verso Kurt, ridotto ad un piccolo ammasso pallido, troppo pallido, il viso tra le mani e il corpo che tremava.

“Kurt” sussurrò, avvicinandosi con molta cautela e inginocchiandosi di fronte a lui. Poteva sentire i suoi singhiozzi attutiti dalle mani e si sentì morire lentamente a quella vista. Non avrebbe mai dovuto frequentare Sebastian, in un certo senso era anche colpa sua.

“Kurt, guardami” disse, allungando lentamente una mano per toccargli la spalla, ma Kurt si ritrasse colpendo leggermente il muro e piagnucolò, alzando per un attimo lo sguardo. Blaine riconobbe la sua smorfia di dolore e tirò indietro la mano, sgranando gli occhi.

“Oddio, la schiena, ti fa male la schiena? Kurt? Dì qualcosa, ti prego!”

Flint” riuscì a dire Kurt tra i singhiozzi, mordendosi il labbro fino a farlo sanguinare perché ogni singhiozzo lo scuoteva troppo forte e faceva ancora più male, ma non poteva farci niente. Blaine capì cosa voleva dire e in un attimo fu fuori dalla stanza, alla ricerca del maggiordomo.

I due tornarono quasi subito, l’anziano signore con in mano una piccola valigetta che faceva da kit medico, e con molta cautela, tenendolo ognuno da un braccio, alzarono Kurt e gli tolsero il maglione per poi farlo distendere sul letto a pancia in giù.

La pelle della schiena era visibilmente più rossa di quando Blaine l’aveva vista l’ultima volta, l’unica volta, infiammata e con qualche punto troppo esposto che sembrava sul punto di sanguinare. Flint si sedette sul bordo del letto e vi passò sopra un panno umido, premendo in quei punti per far uscire il sangue e rimuoverlo, Kurt con il viso affondato nel cuscino e le mani strette ai bordi del letto mentre soffocava i singhiozzi.

Blaine non sapeva cosa fare, non sapeva se sedersi al suo fianco e provare a tenergli una mano, se accarezzargli i capelli, ma Kurt sembrava così fragile che aveva paura di romperlo, distruggerlo in tanti piccoli pezzi come fosse cristallo, e lo era, così non potè fare altro che camminare avanti e indietro a lato del letto e guardare di tanto in tanto, piangendo più forte ogni volta che Kurt accennava un grido.

Flint prese un flacone dalla valigetta e passò una specie di gel protettivo e trasparente sulla schiena di Kurt, cercando di massaggiare con più cautela possibile, ma Kurt non faceva che singhiozzare e soffocare le urla e Blaine si mise le mani ai capelli perché non sapeva che fare, a chi dare la colpa, non sapeva se avesse potuto avvalersi delle attenuanti dopo l’omicidio di Sebastian perché in fondo non lo aveva premeditato da tempo, lo aveva appena deciso, poteva farlo passare per un raptus di follia e in fondo non importava nemmeno, che lo arrestassero pure basta che Kurt la smettesse di soffrire e gridare e piangere.

Quando Kurt singhiozzò così forte da inarcarsi quasi a novanta gradi sul letto, Blaine non ce la fece più e lo raggiunse, raggomitolandosi accanto al bordo e spostandogli ciuffi di capelli dalla fronte sudata.

“Shh, è tutto a posto, tutto a posto” iniziò ad intonare come fosse una ninnananna, pur sapendo che Kurt non si sarebbe addormentato tranquillamente come un bambino assonnato. Continuò a sussurrarglielo all’orecchio mentre Kurt si contorceva e cercava disperatamente la sua mano alla cieca, finchè non la trovò e la strinse forte, così forte da rischiare di non far passare il sangue ma non aveva importanza. 

Dopo un lasso di tempo che sembrò interminabile, Flint concluse la procedura e si alzò dal letto, richiudendo la valigetta.

“E’ meglio se torna domani, deve riposare” disse a Blaine con uno sguardo quasi severo, avendo intuito che aveva a che fare in qualche modo con il ragazzo che aveva provocato tutto questo. Blaine non vi prestò attenzione e annuì distrattamente, accarezzando i capelli di Kurt con il dorso della mano mentre l’altra era ancora stretta alla sua, la presa di Kurt un po’ meno salda di prima e i muscoli che a poco a poco si stavano rilassando. Aveva gli occhi chiusi, una guancia appoggiata al cuscino bagnato di lacrime come il suo viso, e una piccola smorfia di dolore ancora sui suoi lineamenti, ma aveva smesso di piangere.

Blaine si abbassò per lasciargli un lieve bacio sulla tempia, e gli sussurrò all’orecchio: “Sei stato così bravo, amore, così coraggioso. Tornerò domani, ora dormi, va bene? Ti amo tanto.”

Kurt annuì debolmente ed emise un piccolo piagnucolio in risposta, lasciando lentamente la sua mano. Con riluttanza, Blaine lo guardò ancora una volta prima di voltarsi e uscire.

 


 

Il pomeriggio seguente, Blaine ritornò come promesso. Aveva a lungo dibattuto con la parte razionale della sua mente per stabilire cosa farne di Sebastian – precisamente se ucciderlo, e in che modo in caso di esito affermativo – ma alla fine aveva stabilito che la cosa importante prima di tutto era accertarsi che Kurt stesse bene, e capire meglio come erano andate le cose. Quella mattina, tra l’altro, Sebastian non si era fatto vedere, intuendo probabilmente che avrebbe rischiato la sua incolumità fisica.

Aprendo la porta della stanza di Kurt, Blaine lo trovò a letto, in posizione quasi seduta, la schiena ora avvolta da una grande fascia bianca appoggiata ad una pila di cuscini che la mantenevano dritta. Aveva lo sguardo dritto davanti a sé, talmente perso in chissà quali pensieri che saltò leggermente in aria quando sentì la porta richiudersi. Si voltò e guardò Blaine, i suoi occhi incredibilmente tristi, quasi vitrei, e Blaine fu sul punto di congelarsi sul posto nel rendersene conto. Era come se tutti gli sforzi che aveva fatto fino a quel momento fossero andati in fumo nel giro di qualche secondo. La parte irrazionale della sua mente fece di nuovo capolino, aggiungendo altre modalità di tortura a quelle vagliate in precedenza.

Decise di comportarsi come se tutto andasse bene, almeno all’inizio, ignorando volutamente il pallore innaturale di Kurt e il modo in cui lo stava guardando, ancora una volta, come se volesse scavare dentro di lui e tirar fuori chissà quale verità. Come se non lo conoscesse più.

“Ciao” disse, lasciando distrattamente la cartella sul pavimento prima di raggiungere il letto a grandi passi. Si sedette sul bordo e prese la mano di Kurt, per poi avvicinarsi lentamente a lui e dargli un bacio delicato sulle labbra. Kurt non ricambiò il movimento, e Blaine si ritrasse leggermente stranito, stringendogli ancora di più la mano e deglutendo sonoramente.

“Come stai?” gli chiese. L’espressione di Kurt si fece più dura.

“Come hai potuto permettere che leggesse il diario?” rispose, ignorando completamente la domanda. Blaine dischiuse la bocca e sgranò gli occhi, colto di sorpresa.

“Cosa? Lui ha- ha detto così?”

“Ci ha letto dentro il mio indirizzo, e chissà cos’altro” disse Kurt, la mascella serrata e gli occhi fissi su di lui in un modo che fecero sentire Blaine come se stesse diventando più piccolo ogni secondo che passava, fino a scomparire. Qualcosa scattò nella sua mente, permettendogli di collegare tutto: il momento in cui Sebastian si era inclinato su di lui, proprio mentre il diario era sul tavolo insieme ai fogli sparsi; e quello dopo, quando aveva sentito un fruscio dietro di sé a mensa senza rendersi conto che gli era appena passato accanto per rimettere a posto l’oggetto come se niente fosse.

Quel verme. Riuscì a mettere da parte i suoi piani omicidi soltanto perché Kurt sembrava averne di migliori in quel momento.

“Lo ha preso di nascosto e poi lo ha rimesso nella tracolla, non me ne sono neanche accorto” disse, mentre ripercorreva ancora quel giorno domandandosi come avesse fatto a non notarlo nel rimettere a posto i fogli da sopra il tavolo. Gli arrangiamenti occupavano una parte troppo grande della sua concentrazione, evidentemente. “Non- non è colpa mia.”

Kurt abbassò per un attimo lo sguardo, come per riflettere su qualcosa. I suoi lineamenti sembrarono addolcirsi, e quando alzò di nuovo il viso c’era qualcosa di diverso nei suoi occhi.

“Lo so questo” rispose, sorprendendo Blaine con la sua voce improvvisamente più bassa ed esitante, come se volesse pesare le parole. “Ma Blaine… io- io ho riflettuto su quello che è successo.”

Si interruppe, non sapendo che quella pausa non avrebbe fatto altro che aumentare l’ondata di panico che Blaine sentiva già crescere dentro di sé. Blaine strinse più forte la mano di Kurt, aspettando che continuasse e mordendosi il labbro nell’attesa, gli occhi grandi e lievemente lucidi. Kurt evitò di guardarli quando continuò, fissando un punto nel vuoto al di là della sua testa come se stesse guardando lui in fondo, ma non era così, Blaine lo sapeva e aveva una brutta, terribile sensazione.

“Avevo giurato a me stesso che non avrei permesso più a nessuno di provocarmi un dolore simile. Questa cicatrice, Blaine… esiste perché sono stato stupido. Perché mi sono fidato di un bambino e ho lasciato che mi conducesse in giardino un giorno, soltanto per impressionarlo e dimostrare a me stesso che potevo essere come gli altri. E anche questa volta lo sono stato. Io- io non intendo dire che sei stato tu a provocarlo, perché non è così, lo so che tu non mi faresti mai, mai del male. Ma se fossi stato più forte, se avessi resistito, forse tu- tu non ti saresti innamorato di me, e io di te. E questo… questo non sarebbe mai successo.”

Blaine sbattè le palpebre più volte, cercando di metabolizzare tutte quelle informazioni. Era come se nella sua mente ci fosse una rotella difettosa che non voleva ingranare, inceppandosi ogni qualvolta stava per giungere al significato nascosto sotto quelle parole, a ciò che Kurt intendeva dire.

“Kurt, io non- non capisco cosa vuoi dire” disse, la voce incredibilmente flebile, quasi timida, perché era la verità; non capiva, o forse non voleva capire. Kurt inspirò profondamente e chiuse gli occhi, prima di riaprirli e continuare.

“Penso che non dovremmo più vederci per un po’.”

Blaine sentì il sangue nelle sue vene diventare improvvisamente ghiacciato, anche se a quanto pareva stava continuando a scorrere a sua insaputa, perché gli permise di ritrarre la mano che aveva poggiato su quella di Kurt e spostarsi scompostamente sul letto, come se fosse a disagio e volesse cambiare posizione senza trovarne una migliore. Lacrime brucianti iniziarono a pizzicargli gli occhi, e anche se le ultime parole della frase la rendevano in qualche modo meno definitiva, era come se la sua mente le avesse arbitrariamente cancellate con una gomma per sconvolgerlo ancora di più e far crollare in pezzi il suo mondo.

Non dovremmo più vederci. Non dovremmo più vederci. Non dovremmo più vederci.

Il suo inconscio traditore aveva estrapolato queste parole e deciso di sua volontà di ripetergliele all’infinito nelle orecchie, stordendolo come se qualcuno lo avesse appena colpito alla testa.

“Tu- tu mi stai lasciando?” disse alzandosi dal letto, lo sguardo ferito e disperato e la voce quasi stridula per il suo grande sforzo di non piangere. Kurt allungò una mano verso di lui e aprì la bocca per parlare, poi la richiuse e abbassò lo sguardo, la mascella serrata.

Non sapeva cosa dire. Quella notte non aveva dormito, animato da una lotta senza tregua tra il suo cervello, fatto di neuroni collegati ad altrettanti nervi che gli ricordavano in ogni momento quanto avesse fatto male, e il suo cuore, che cercava di dirgli che ne valeva la pena, ne sarebbe sempre valsa la pena, perché aveva Blaine e lui valeva tutto il dolore del mondo.

Ma non appena ricordava quel momento, quanto era stato spaventato, non riusciva a non collegarlo a quello di tanti anni prima e domandarsi se non si fosse trattato dello stesso errore, seppur in circostanze diverse: l’errore di aver fatto entrare qualcuno nella sua vita. Se Blaine fosse semplicemente stato il suo insegnante come doveva essere, nessun adolescente omosessuale geloso e pieno di sé si sarebbe presentato alla sua porta e avrebbe messo a rischio la sua vita.

Il problema era che, se anche avesse potuto tornare indietro, sapeva per certo che non sarebbe riuscito a non innamorarsi. Non sapeva a chi dare la colpa: a Blaine per aver telefonato a casa sua e accettato l’incarico, a suo padre per averglielo dato, a se stesso per aver ignorato l’ammonimento della sua cicatrice ancora una volta. E non sapeva come fare a rispondere alla domanda di Blaine, una domanda così diretta e così semplice, perché lui non voleva lasciarlo.

E se fosse stato soltanto per evitare il dolore e la paura, forse Kurt non lo avrebbe neanche preso in considerazione. Ma c’era dell’altro in ballo, molto più importante, perché aveva a che fare con Blaine.

Blaine che intanto, sull’orlo dell’esasperazione a causa del suo prolungato silenzio, alzò le mani al cielo e gridò: “Pensavo che tu mi amassi!”

Il cuore di Kurt si disgregò letteralmente in un milione di pezzi. Non poteva mentire su quello, e Blaine non poteva andarsene pensando davvero che non fosse così.

“E’ così, io ti amo, ti amo. E’ per questo che lo sto facendo!” piagnucolò, prima di mordersi il labbro per aver detto quell’ultima frase, decisamente non necessaria. Blaine si bloccò dal gridare di nuovo e lo fissò con aria riflessiva, soffermandosi proprio su quell’affermazione.

“Cioè?” chiese in un sussurro.

Blaine” disse Kurt con voce supplichevole, pregandolo silenziosamente di lasciar perdere e uscire dalla stanza per permettergli di scoppiare a piangere come avrebbe voluto. Ma Blaine ovviamente non poteva farlo. Aveva bisogno di capire. La rotella continuava ad incepparsi, arrivando ad un passo da ciò che doveva sapere e poi tornando subito indietro, facendolo lentamente impazzire.

“C’è dell’altro, non è vero?” chiese, avvicinandosi di nuovo al letto ma rimanendo comunque in piedi, fissando intensamente Kurt. Lui chiuse gli occhi e sospirò, preparandosi a dire ciò che, più degli incubi e del bruciore alla pelle, lo aveva tormentato per tutta la notte.

“Blaine, io- io ti ho visto. Ho visto quanto eri terrorizzato, e mi ha spezzato il cuore perché sarà questa la tua vita, non lo capisci? Preoccuparti che qualcuno non mi sbatta contro un muro o che non apra distrattamente una finestra, che la cicatrice venga idratata una volta a settimana, che i vetri siano a prova di luce solare anche in piena estate. Io lo so, l’ho visto fare a mia madre e a mio padre per tutta la vita. E so che tu avevi detto che non importava, che ti bastava starmi accanto, ma lo dici adesso. Perché importa, Blaine. E’ la tua vita. E ti conosco abbastanza da sapere che non me lo diresti, che rimarresti in silenzio al mio fianco pur soffrendo, e io non posso permetterlo. Perché ti amo. Perché voglio che tu abbia un matrimonio in una domenica di sole, su una spiaggia esotica o un parco in primavera, e figli con cui giocare all’aria aperta dentro una piscina gonfiabile e picnic in campagna sotto un grande albero. E sapere che non potrò mai darti tutto questo mi uccide, Blaine, perché tu meriti tutto, meriti ogni alba e tramonto di questo mondo, e io-“

Kurt interruppe il suo lungo monologo per sopprimere un singhiozzo, distogliendo lo sguardo da Blaine che lo stava guardando senza sapere cosa dire, il respiro affannato e le lacrime sul viso. Riprese senza più guardarlo, perché la tristezza deturpava i suoi occhi in un modo che non era fisicamente in grado di sopportare.

“Io posso fare almeno questo. Posso lasciarti libero. Ed è quello che farò.”

Blaine aprì la bocca per dire qualcosa, ma non ne uscì niente. Rimase fermo a guardare Kurt, che aveva la testa volutamente girata dal lato opposto, per almeno un minuto che sembrò eterno.

Erano troppe informazioni, troppe e tutte insieme, perché anche se Kurt gli aveva detto che voleva che fosse felice non pensava che ci fosse tutto questo dietro. E per un attimo, quando Kurt elencò tutte quelle cose che non gli avrebbe potuto dare, Blaine provò davvero dolore nel rendersene conto perché era umano, e voleva quelle cose, normali, semplici, quotidiane, scorci ipotetici e vaghi di un futuro ancora da definire ma che tutti, in fondo dove nessuno può vedere, dipingiamo già pur cercando di non farci troppe illusioni.

Ma non riusciva ad immaginarle con qualcuno che non fosse Kurt. Era quello il problema. Avrebbe potuto dirlo, ma non lo fece, perché Kurt era così determinato, così sicuro delle cose che aveva detto, che Blaine si chiese con una bruciante punta di sospetto e rancore se per lui fosse davvero così difficile come voleva far credere. Non era la prima volta che cercava di “fare ciò che era meglio per lui”, e Blaine era stanco, stanco di sentirglielo dire, di vederlo comportarsi come se lui non fosse in grado di decidere per sé, per la sua vita, come se fosse l’unico in grado di prendere decisioni.

E così, per una volta, prese una decisione anche lui. Si voltò senza guardarlo, raccolse la tracolla da terra, e se ne andò.

“Ti amerò per sempre” sussurrò Kurt non appena sentì i suoi passi al di là della porta chiusa, prima di scoppiare a piangere e coprirsi il viso con le mani.

Il suo sole se n’era andato. Kurt era di nuovo nel buio, ma in fondo ci era sempre stato, ci era nato. Lo aveva restituito al mondo, al posto a cui apparteneva, e un giorno qualcun altro avrebbe goduto della sua luce e Blaine avrebbe capito che era meglio così.

Aveva fatto la cosa giusta. Allora perché faceva così male?

 

 


 

 

Nel prossimo capitolo:

Kurt dipinge, Blaine scrive, Kurt dipinge, Blaine scrive. Ma quanto possono resistere due persone destinate ad amarsi?


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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


 

 

Il sole abbraccia la Terra e i raggi di Luna baciano il mare. Ma a che vale tutto questo baciare, se tu non baci me?

- Percy Bysshe Shelley

 

 


“Ti fa ancora male?”

Kurt alzò lo sguardo dal suo piatto di cibo praticamente intatto, destato all’improvviso dai suoi pensieri dalle parole di suo padre. Pensieri di occhi dolci come miele che guardavano intensamente quelli di qualcun altro, regalandogli un sorriso per riceverne uno in cambio.

“Un po’” ammise, prima di prendere la forchetta e fare finta di avere un minimo di appetito per non far preoccupare troppo Burt. Un silenzio di tomba calò tra loro per lunghi minuti, interrotto di tanto in tanto dal crepitare del camino.

“Blaine ha l’influenza o qualcosa del genere?” esordì infine suo padre, e Kurt lo guardò nuovamente con aria sorpresa, non aspettandosi affatto una domanda così diversa da quella precedente. Si morse il labbro.

“Perché me lo chiedi?”

“Perché sono tre giorni che non viene, è strano” rispose suo padre, fissandolo intensamente per cogliere le sue reazioni. In quei tre giorni, Kurt aveva parlato il minimo indispensabile e mangiato anche meno, e la cosa lo stava preoccupando molto.

“Lui… non verrà. Non verrà più.”

Burt poggiò immediatamente le posate sul tavolo, senza staccare gli occhi dal figlio.

“Perché?”

Kurt distolse lo sguardo, sentendosi improvvisamente sotto processo. Sapeva che prima o poi le domande sarebbero arrivate, ma non era sicuro di voler rispondere. Non era sicuro di voler spiegare ad un’altra persona il perché della sua decisione, per sentirsi dire ancora una volta la stessa cosa: che stava sbagliando, perché Blaine lo amava e lui amava Blaine ed era l’unica cosa che contava. E Kurt odiava sentirlo dire, perché era esattamente ciò che avrebbe voluto: che fosse davvero l’unica cosa importante. Ma non era così. Il futuro di Blaine era importante.

Mentre il suo, quello era condannato dal giorno in cui aveva aperto gli occhi. Sarebbe stato un egoista, a sacrificare quello della persona che amava di più al mondo per aggiustare qualcosa che sarebbe rimasta per sempre uguale.

Kurt non sarebbe mai più stato perfetto senza Blaine, senza le sue labbra sulle sue, ma in fondo non si era mai sentito tale prima di conoscerlo. Poteva custodirne il ricordo, sapere che almeno una volta nella sua vita lo era stato, e poteva farselo bastare. Giusto?

“Dobbiamo parlarne per forza?” disse in tono piatto, non facendo altro che aumentare la preoccupazione di suo padre. Burt, stranamente, non insistette subito come Kurt si sarebbe aspettato. Rimase in silenzio ad osservarlo, come se stesse valutando varie ipotesi, studiandolo, e Kurt capì finalmente da chi aveva ereditato quell’abilità. Sua madre non era in grado di guardare le persone in quel modo, a tratti invasivo, capace di bruciare sulla pelle; era così sensibile e rispettosa da poter aspettare pazientemente per giorni che Kurt le dicesse cosa non andava, senza battere ciglio.

“E’ per quello che è successo, vero?” domandò infine suo padre, avendo evidentemente concluso la sua analisi. “Hai avuto di nuovo paura, lo capisco. Ma Kurt, lui-“

“Lui mi ama. Lo so, lo so. Pensi che sia facile lasciarlo andare? Fare la cosa giusta? Ma qualcuno qui dovrà pur farla!” sbottò Kurt, passandosi una mano tra i capelli per il nervosismo.

“Che intendi con ‘la cosa giusta’?” chiese Burt, incuriosito.

“La cosa giusta per lui, papà” rispose Kurt con voce flebile, subito più calmo. Se lo era ripetuto così tante volte nella mente che stava iniziando a crederci davvero. “Per fargli avere una vita felice.”

Burt scosse la testa, sorridendo leggermente, come se dovesse ammonire con tenerezza un bambino piccolo che aveva appena sbagliato il risultato di un’addizione o qualcosa del genere.

“Kurt, io e te lo sappiamo bene” gli disse, allungando una mano per poggiarla sopra la sua. “Senza le persone che si amano, non si potrà mai avere una vita felice.”

“Ma forse lui- lui amerà qualcun altro un giorno” rispose Kurt, e fece così male anche solo pensarlo ma in fondo era per quello che lo aveva fatto, perché Blaine avesse con un’altra persona ciò che non avrebbe mai avuto insieme a lui. Una persona senza volto e senza nome, un’entità astratta, una forma indistinta che un giorno, prima o poi, sarebbe diventata improvvisamente reale e palpabile. “Insomma, siamo giovani, e-“

“Io e tua madre ci siamo conosciuti alla vostra stessa età, Kurt” disse Burt con quel tono tra il rimprovero e la dolcezza, che nessun altro sapeva assumere bene quanto lui. “E credimi, anche lei mi ha detto più volte che ero libero di andare se volevo, che potevo avere di meglio. Ma se lo avessi fatto, me ne sarei pentito per tutta la vita. Non avrei avuto te. E se Blaine ti ama come io penso che ti ami, non credo che riuscirà a trovare qualcun altro. E’ vero, siete giovani e i tempi sono cambiati, ma Kurt… il modo in cui sorride quando parla di te, è- è abbagliante. Pensaci bene, ti prego. Prima di compiere il più grande sbaglio della tua vita.”

Kurt sbattè le palpebre, rendendosi conto di avere avuto la vista leggermente offuscata da quando suo padre aveva nominato il sorriso di Blaine. Non aveva mai pensato ai suoi genitori in quei termini, concentrandosi sul modo in cui si erano comportati con lui, piuttosto che tra loro. Non li aveva mai considerati una specie di esempio da prendere in considerazione per la sua situazione, ed era stato terribilmente stupido perché sua madre era come lui, mentre suo padre non lo era, proprio come loro. E Burt era stato felice con Elizabeth. L’amava tutt’ora, Kurt lo sapeva in fondo al suo cuore. Ma Elizabeth era morta.

“C’è- c’è un’altra cosa” disse, schiarendosi la voce leggermente roca. Il suo sguardo e quello di suo padre si incontrarono per un attimo.

“Lo so” disse Burt con voce spezzata.

 


 

Accumularono più inchiostro e più colori in una settimana, di quanto avessero fatto fino a quel momento. Blaine iniziò a scrivere sul diario durante le lezioni, cosa che non aveva mai fatto per paura che qualcuno lo vedesse – il che non era comunque servito – e persino durante la pausa pranzo, seduto al tavolo più isolato da tutti. Iniziò a scrivere in piena notte. Iniziò a non usare più gel per capelli e radersi con meno frequenza. Saltò la riunione settimanale dei Warblers.

Perché un pensiero, un’eco lontana eppure dannatamente insistente, non faceva che tormentarlo: la sensazione di essersi arreso troppo facilmente. Di aver permesso a Kurt di salvarlo, quando invece non aveva fatto altro che condannarlo. Non appena aveva oltrepassato la sua porta, già in corridoio per uscire dalla sua casa, quella voce aveva fatto capolino nella sua mente e sembrava non volerlo più lasciare, né di giorno né di notte.

Forse avrebbe dovuto soltanto rassicurarlo di più. Forse avrebbe dovuto insistere e fargli capire che poteva fare a meno di quelle cose che aveva detto, per lui. Perché poteva farne a meno, giusto?

L’unica cosa positiva di quella settimana, in effetti, fu che ebbe molto tempo per riflettere. Non vedere Kurt ogni giorno, per quanto stesse scavando una voragine dentro di lui, gli rese le idee un po’ più chiare, non offuscate da occhi azzurri e pelle bianca e labbra rosse di baci segreti. Perché continuando a passare così tanto tempo con Kurt, era impossibile che Blaine potesse pensare di fare a meno di lui, della sua presenza.

Era come una droga, era intossicante in un modo sbagliato e giusto allo stesso tempo, perché Blaine era come dipendente da lui, dal suo profumo, dai suoi occhi, persino dal sorriso che non aveva mai visto ma che riusciva ad immaginare, pur sapendo di non potergli rendere giustizia con la fantasia. Kurt gli annebbiava la mente, gli rendeva impossibile pensare.

Certo, fu comunque difficile farlo, perché si ritrovava a pensare a lui. Ma più passavano i giorni, più Blaine si rendeva conto che non ce l’avrebbe fatta, perché Kurt semplicemente aveva cercato di regalargli una vita che senza di lui non avrebbe avuto senso.

Guardò il sole un giorno, schermandosi gli occhi con il braccio, e si chiese se fosse così importante che stesse a guardare nel cielo mentre lui si sposava o festeggiava il compleanno di suo figlio, o se fosse così indispensabile guardare albe e tramonti accanto ad una persona speciale tenendosi per mano.

E alla fine, la risposta fu che non lo era.

Perché negli occhi di Kurt, Blaine poteva vedere albe, tramonti, aurore boreali. Poteva vedere il sole sorgere sulle acque tranquille del suo sguardo tingendole di mille colori e poi timidamente tramontare. Perciò, se tutte quelle cose le avesse avute con Kurt, del vero sole non se ne sarebbe fatto niente.

Lo guardò di nuovo, e si rese conto che non riscaldava affatto.

 


 

Kurt mangiava sempre meno, preferendo chiudersi nella sua sala hobby dove fingeva di portarsi dietro il cibo, per poi buttarlo con poca grazia nell’immondizia.

Evitò di suonare, perché sapeva che senza volerlo avrebbe finito per suonare la canzone che aveva scritto per Blaine, ma non potè fare a meno di frenare l’impulso che aveva di dipingere.

Lo fece tutti i giorni, quasi perennemente, in modo insensato e febbrile mentre con colpi sempre più forti e decisi dei suoi pennelli cercava di scacciare le parole di suo padre, la sensazione di aver fatto un errore.

In alcuni quadri, i colori si sovrapponevano senza un preciso significato, rappresentando alla perfezione ciò che aveva in testa: il caos. In altri invece era stranamente tutto molto chiaro, perché per l’ennesima volta aveva utilizzato le sfumature di colore che più si avvicinavano a quelle degli occhi di Blaine. Quei quadri in particolare, venivano subito girati al contrario e ammassati in un angolo per non guardarli, perché quel colore lo angosciava già abbastanza nei sogni.

Aveva smesso di sognare Andrew. Non faceva altro che sognare Blaine, seduto su una tovaglia da picnic a quadretti rossi e bianchi mentre tagliava una fetta di pane, con in mano una mazza da baseball in attesa che un piccolo bambino dai capelli ricci lanciasse la palla, in fondo ad una navata con un enorme sorriso mentre porgeva la mano ad una persona senza volto che non era lui.

E si svegliava piangendo, in silenzio, perché quello era il motivo per cui lo stava facendo, ma sapere che lo avrebbe tormentato ogni notte lo stava distruggendo. Forse era una punizione, un modo per ricordargli che se avesse resistito sin dall’inizio Blaine avrebbe avuto quelle cose comunque e lui sarebbe stato nella stessa identica situazione, ma senza la consapevolezza di averlo amato, continuare ad amarlo e non sapere cosa farsene.

Non sapere da che parte guardare, non sapere dove poter gettare quell’amore come aveva fatto con il cibo che non voleva, non sapere se avrebbe mai potuto cancellarlo come i segni a matita dei suoi schizzi sparsi sul pavimento o se avrebbe almeno potuto diluirlo come fosse acquerello.

Quadri e sogni, quadri e sogni, si susseguirono senza sosta l’uno dopo l’altro così tanto che ad un certo punto Kurt si domandò se avesse dipinto Blaine disteso su una spiaggia soleggiata una volta, o se avesse sognato un’insensata esplosione di colori un’altra volta.

Si chiese se avrebbe potuto passare così il resto della sua vita, chiuso nel ricordo di ciò che avrebbe potuto essere, domandandosi se avesse preso la decisione giusta. Ma quei sogni erano così belli, Blaine illuminato dal sole in un modo che gli stritolava il cuore, la luce che danzava sulla sua pelle alla perfezione. Evitò di domandarsi come avrebbe danzato sulla sua, perché quella era una domanda che aveva smesso di porsi da tanto tempo.

Sapeva che non lo avrebbe mai dimenticato, che non avrebbe mai smesso di amarlo. Così, inevitabilmente, si chiese se Blaine ne potesse essere in grado. Forse era più forte di lui, e forse, potendo vivere in un mondo molto più grande, luminoso, multiforme e variopinto del suo, avrebbe avuto molte più distrazioni e alla fine, in qualche modo, lo avrebbe fatto. Kurt era rinchiuso tra quattro mura, era inevitabile che almeno un minuto della giornata pensasse a Blaine.

Ma era davvero così? Come poteva esserne sicuro? E se ad anni di distanza avesse scoperto che Blaine era ugualmente infelice, magari arrabbiato a morte con lui e consumato dall’odio? E se non ne fosse valsa la pena?

Domande, domande, domande, che Kurt continuò a dipingere sulle tele per poi fare un passo indietro, i capelli arruffati e le guance arrossate, e scrutarne attentamente i colori in cerca di una risposta che non trovò mai.

Ma dimagrì così visibilmente, e in così poco tempo, che Burt alla fine decise di prendere le redini della situazione e fare una cosa che non si sarebbe mai sognato di fare: intromettersi nella sua vita privata. Sapendo che Kurt stava dipingendo, si intrufolò nella sua camera, prese il suo cellulare da sopra il comodino, e fece ciò che andava fatto.

 


 

Ci fu un sogno che fu diverso da qualsiasi altro. Kurt intento a dipingere, a petto nudo come faceva spesso per evitare di sporcarsi la maglietta e perché, per qualche ragione, lo metteva più a suo agio. Era strano, perché in quel modo non faceva altro che esporre ancora di più le sue debolezze, ma forse era quello il punto. Per trasferirle nell’arte, doveva prima metterle a nudo e allo stesso tempo sentirsi bene nel farlo.

Ad un certo punto la porta si aprì scricchiolando e dei passi ne seguirono il rumore, per poi fermarsi bruscamente. Kurt abbassò il pennello da sopra la tela e si voltò, trasalendo visibilmente nel trovarsi davanti Blaine.

Si sorprese molto, perché di solito lo sognava circondato da quei particolari scenari soleggiati che non avrebbero potuto condividere insieme, quindi che cosa ci faceva lì?

Il silenzio tra loro sembrò prolungarsi in eterno, Blaine che lo fissava con i suoi occhi luminosi e la bocca dischiusa, come se avesse delle parole incastrate in gola.

“Ciao” disse con una voce impercettibile, e fu come se un enorme strato di nebbia si fosse istantaneamente dissolto, perché Kurt sbattè le palpebre e si rese conto che quella era la realtà.

Blaine era lì, nella sua casa, a pochi passi da lui. E la cosa lo mandò subito nel panico, perché la consapevolezza di essere al sicuro nel mare dell’immaginazione aveva reso tutto più facile, più sopportabile. Poteva riuscire a vedere Blaine nei suoi sogni, sapendo di non poterlo toccare. La realtà era diversa.

Nella realtà, Kurt avrebbe voluto corrergli incontro e baciarlo dappertutto.

“Ciao” disse di rimando, la gola improvvisamente secca. Blaine si bilanciò da un piede all’altro, le mani giunte davanti a sé e le dita che si rincorrevano tra loro per il nervosismo. Abbassò per un attimo lo sguardo e poi lo rialzò, e Kurt ci vide dentro una sorta di confusione, una domanda che aleggiava nell’aria, il che finì per confondere anche lui.

“Perché-“ provò a dire, ma la gola era ancora secca e dovette schiarirsi la voce. “Perché sei qui?”

Blaine ritrasse lievemente la testa a quella frase. “Tu- tu mi hai scritto di venire. Hai detto che volevi parlarmi.”

“Cosa? Io non-“

Oh. Oh. C’era una sola persona che si sarebbe presa la briga di usare il suo cellulare in quella casa, e di certo non era il suo maggiordomo. Si ripromise di fare una chiacchierata con suo padre in un altro momento, troppo preso dal fatto che Blaine era lì. Credeva che non l’avrebbe mai più rivisto, e pensava di averlo memorizzato bene, specie dopo tutti quei sogni, invece lo stava sorprendendo ancora una volta, togliendogli il fiato e rendendo difficile anche solo parlare.

Era passata una settimana e Kurt rimase senza parole rendendosi conto di quanto fosse bello, come se non lo avesse mai visto.

“Non l’hai scritto tu?” disse Blaine, la delusione così palese nei suoi occhi che sembrava sul punto di scoppiare a piangere da un momento all’altro. Kurt potè praticamente sentire il rumore del suo cuore che si spezzava, un sonoro crack che gli risuonò nella gabbia toracica al di sopra di quell’insopportabile silenzio.

“No” sussurrò, distogliendo lo sguardo e fingendo di non notare il modo in cui Blaine sbattè le palpebre per ricacciare indietro le lacrime.

“Capisco” disse semplicemente, prima di voltarsi e accennare un passo verso la porta. La crepa nel cuore di Kurt sembrò aumentare ancora di più, rimbombando nelle sue orecchie.

Fermati. Ho sbagliato, non te ne andare, non mi lasciare, Blaine-

“Non te ne andare.”

Kurt si rese conto di averlo detto ad alta voce e trattenne il fiato. Vide Blaine rimanere immobile per un secondo, prima di voltarsi lentamente verso di lui. I loro sguardi si incontrarono e calò ancora una volta il silenzio, prima che Blaine facesse un passo verso di lui con esitazione, come se avesse paura che muoversi troppo in fretta avrebbe rovinato tutto.

Era come se il tempo stesse fluttuando intorno a loro, aspettando il momento giusto per irrompere bruscamente con una parola, un suono, anche solo un pensiero che potesse saettare nelle loro menti e farli tornare sui loro passi. E alla fine, in qualche modo lo fece.

“Kurt-“

Blaine” disse Kurt scoppiando letteralmente a singhiozzare, prima di lasciar cadere il pennello che non si era reso conto di avere ancora tra le dita e corrergli incontro in meno di un secondo. Atterrò contro il suo petto, due braccia che istintivamente gli si strinsero intorno alla vita mentre le sue si incrociavano dietro il collo di Blaine, ed era tutto così caldo lì, così avvolgente, così perfetto.

Sentì Blaine stringerlo con forza, forse troppa per la cicatrice ancora sensibile, ma Kurt si rese conto che non fece male abbastanza da tirarsi indietro. Niente lo avrebbe mai fatto.

Pensava ancora quelle cose che aveva detto a Blaine, che meritasse di essere felice, ma in quel momento, tra le sue braccia, le dimenticò tutte senza neanche avere la forza di sentirsi in colpa. Forse lo avrebbe fatto, in futuro.

Ma non gli sembrò possibile poter rimpiangere ciò che stava facendo, non quando poteva sentire il respiro di Blaine tra i suoi capelli, le sue lacrime sulla pelle e i palmi delle sue mani sulla schiena, un dolce, dolcissimo dolore a ricordargli che era lì, che era reale.

“Ci ho provato, lo giuro, ci ho provato, ma io-“ singhiozzò sulla sua spalla, stringendolo ancora più forte. “Non posso stare senza di te, mi manca l’aria.”

Blaine alzò la testa dalla sua spalla e tolse le braccia da dietro la sua schiena per cingergli il viso con entrambe le mani e baciarlo disperatamente, con una foga tutta nuova, che raramente avevano condiviso, ma che sembrò la cosa più giusta in quel momento. Era come se non sapesse cosa dire, o forse non ne aveva semplicemente la forza, preferendo quindi dimostrarglielo con i suoi gesti, le sue mani, il modo quasi febbrile con cui lo stava baciando e l’irruenza della sua lingua che trovò facile accesso tra le labbra di Kurt, mentre si teneva stretto ai suoi ricci neri come se potessero sfuggirgli da un momento all’altro.

Insieme incespicarono all’indietro, continuando a baciarsi e stringersi l’un l’altro, finchè Kurt non urtò la scrivania disordinata accanto alla tela lasciata incompiuta, facendo cadere a terra oggetti di cui non si preoccuparono minimamente mentre continuavano a baciarsi, e baciarsi, e baciarsi, Blaine che si appiattiva sempre di più contro di lui per fare in modo che i loro corpi potessero aderire perfettamente l’uno all’altro.

Kurt si ritrasse dal bacio boccheggiando in cerca d’aria, e Blaine ne approfittò per far scivolare una mano dal suo viso e stringergli un fianco, le dita conficcate con forza nella sua pelle mentre abbassava la testa e iniziava a mappare il collo di Kurt di piccoli morsi, prima di passare dolcemente la lingua sopra le macchie rosse lasciate sul loro cammino.

Blaine” sospirò Kurt tirando la testa all’indietro e dandogli maggiore accesso, una mano ancora stretta ai suoi ricci mentre con l’altra si teneva al bordo della scrivania, sopraffatto da quel turbine incomprensibile di emozioni mentre i loro respiri affannati riempivano l’aria e Blaine continuava a baciare, mordere e leccare come se avesse voluto farlo da sempre, scendendo lentamente lungo la linea del collo per arrivare a quel punto incavato di cui si era innamorato vedendolo per la prima volta, e mordendolo lievemente prima di baciarlo.

“Perfetto” sussurrò, e Kurt si rese conto che era la prima parola che aveva detto da quando si erano abbracciati, e ritrovati. La prima cosa che gli era venuta alla mente, la prima che meritava di essere espressa anche a parole, come se la sua venerazione per Kurt non fosse già abbastanza chiara. “Sei perfetto, perfetto” continuò a sussurrare, prima di rialzare il viso e catturare le sue labbra in un bacio appassionato, spingendosi contro di lui e facendo scontrare i loro bacini.

Si separarono per un attimo e si guardarono, oceani limpidi e miele lucente fusi insieme, accomunati da un’ombra scura di lussuria, capendo esattamente cosa entrambi stessero pensando in quel momento.

“Voglio fare l’amore con te, Kurt.”

Kurt smise di respirare per un attimo, perso completamente nello sguardo di Blaine, i loro petti uniti che si alzavano e abbassavano quasi all’unisono e i loro visi a pochi centimetri di distanza. Poteva sentire il suo respiro pizzicargli le labbra, le sue dita strette con possessività al fianco, gli occhi fissi su di lui in grado di arrivare nel profondo, dove nessuno era mai arrivato, e nonostante questo non tirarsi indietro. Poteva sentire ancora il collo pulsare lievemente per tutte le attenzioni che Blaine gli aveva appena dedicato, e si chiese come potesse essere fare l’amore, se quelle cose così semplici sembravano già terribilmente intime, come se Blaine avesse cercato di imprimersi sul suo corpo lasciandone il segno.

Blaine lo vide esitare e si avvicinò leggermente, strofinando il naso contro il suo e lasciando un bacio quasi impercettibile sulle sue labbra, il soffio di una piuma, eppure Kurt sapeva che lo avrebbe ricordato per sempre.

“Non fa niente se non vuoi” sussurrò contro le sue labbra, rilasciando leggermente la presa dal suo fianco. Un’altra persona avrebbe potuto vedere del risentimento o della falsità in quella frase, ma Kurt sapeva che non ce n’erano.

“Lo voglio” rispose prontamente, la voce decisa e sicura anche se lievemente roca. “E’ solo che… ci siamo appena ritrovati dopo che io ti avevo lasciato, e non- non voglio che questo ricordo sia legato a quello. Ora voglio solo che mi baci, Blaine. Mi è mancato così tanto.”

Blaine gli cinse nuovamente il viso e sorrise prima di baciarlo di nuovo. Rimasero in quel modo per quelle che probabilmente furono ore, a scambiarsi baci così dolci che ognuno sembrava sempre meglio del precedente, sussurrandosi che si amavano e sorridendo tra l’uno e l’altro nel rendersi conto che potevano sembrare un po’ ridicoli, ma senza preoccuparsene minimamente.

E ogni bacio riempì la stanza con il calore di mille soli.

 

 

 

 


 

 

 

Nel prossimo capitolo:

Kurt e Blaine scopriranno come dipingere la felicità, ma ne scopriranno anche il più grande difetto: più si è in alto, più è facile cadere.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


 

In origine non contavo di fare avvertimenti iniziali, ma mi sono resa conto a poco a poco di quanto siate 'sensibili' a questa storia (colpa mia, I guess) e quindi forse è giusto che io lo dica, anche se non posso entrare in dettagli.

Ad un certo punto di questo capitolo, c'è probabilmente il più alto picco di angst della storia intera. Spero però che riusciate a godervelo comunque, senza ansia, perchè anche questo è tra i miei preferiti per un altro motivo, che presto scoprirete.

Buona lettura, ci risentiamo alla fine!

 

 


 

 

 

 

Dimmi che potrò ogni sera guardare i tuoi occhi che si chiudono e vederli riaprire con il sorgere del sole, dimmi che continuerai a camminare nei miei pensieri, sul mio cuore impazzito e nei miei sogni.

- Ejay Ivan Lac

 

 


“Ancora fotografie? Ma così vengono tutte uguali!” obiettò Kurt nel rendersi conto che Blaine gli aveva scattato l’ennesima foto, seduto su uno sgabello a pochi passi di distanza dalla tela su cui stava dipingendo un parco verde e soleggiato. Roteando lo sgabello girevole a destra e a sinistra, la macchina fotografica in mano e un entusiasmo genuino negli occhi, gli sembrò un bambino, quello stesso bambino che gli aveva regalato un bacio leggero nei suoi sogni sotto il sole dell’estate. Kurt sorrise tra sé e sé, pur non riuscendo a farlo davvero.

“Non vengono tutte uguali se ci sei tu” gli rispose Blaine con un piccolo sorriso, alzando prontamente la macchina fotografica per immortalare Kurt che si voltava a guardarlo, la tenerezza lampante nei suoi occhi che svanì quando vennero investiti dall’improvviso flash accecante.

“Basta! La macchina fotografica è mia e decido io” sbottò con aria fintamente offesa, poggiando il pennello sulla scrivania e raggiungendo Blaine a grandi passi, prima di prendergli la macchina fotografica dalle mani. Blaine fece un piccolo broncio e lo guardò come un bambino a cui avevano appena tolto un peluche.

“Facciamo al contrario. Tu dipingi e io fotografo” propose Kurt, sperando di farlo sorridere con quella nuova e originale idea. Il viso di Blaine si illuminò, un sorriso che lo riempì praticamente da parte a parte, e Kurt ringraziò il cielo per la facilità con cui riusciva a farlo accadere, perché era uno spettacolo da guardare.

Blaine si alzò ancora sorridendo dallo sgabello, lasciandogli il posto, e raggiunse la tela. Improvvisamente sembrò rendersi conto di cosa stava per fare ed esitò, alzando una mano per accarezzarsi distrattamente i capelli sul retro del collo e mordendosi il labbro.

“E se la rovino?” disse, voltandosi verso Kurt con un leggero rossore sulle guance.

“Ne farò un’altra. Ma la conserverò comunque, perché l’avrai dipinta tu” rispose Kurt con semplicità, la macchina fotografica pronta a scattare. Blaine annuì timidamente e diede un’occhiata veloce ai pennelli, prima di prenderne uno un po’ più piccolo di quello usato da Kurt – con l’intenzione di fare meno danno – e intingerlo nella tavolozza dalle varie sfumature di verde che aveva usato.

Kurt lo osservò attraverso lo schermo, scattando ad ogni suo movimento ed incertezza, innamorandosi di ogni singola espressione, battito di ciglia, rossore sulle guance e accenno di indecisione mentre Blaine tingeva timidamente la tela senza apportare in realtà grandi modifiche, ma limitandosi ad accentuare sfumature che Kurt aveva già delineato.

“Stai andando bene” lo incoraggiò lui, anche se in realtà per quanto ne sapeva Blaine poteva aver dipinto un carro attrezzi nel bel mezzo del suo parco immaginario. Non gliene sarebbe importato un accidente.

“Davvero?” rispose Blaine, un accenno di sarcasmo nella sua voce e un improvviso bagliore negli occhi, quello di un’idea appena nata. Kurt la riconobbe prontamente attraverso l’obiettivo e abbassò la macchina fotografica, alzando un sopracciglio.

“Sì, perché?” disse esitando. Blaine sfoggiò un ghigno malizioso e in un secondo fu davanti a lui. Si inclinò velocemente, prima che Kurt potesse capire, e lasciò una generosa quantità di tempera verde sul suo naso. Fece un passo indietro e scoppiò a ridere, portandosi la mano alla bocca mentre Kurt apriva la sua, sconcertato, coprendosi il petto per simulare il suo shock.

“Ma che diavolo-“

“Sto andando ancora bene?” rispose Blaine, avvicinandosi ancora una volta e tingendogli la guancia.

“E adesso?” disse, colorando l’altra.

“E adesso?” dopo avergli dipinto la fronte con una spessa linea di colore. Kurt scosse la testa, ancora sconvolto, e gli scoccò un’occhiataccia prima di alzarsi con una sorta di inquietante autocontrollo, lasciare la macchina fotografica sullo sgabello, e gettarsi sulla scrivania per intingere le dita nella prima tavolozza che riuscì a trovare.

Ben presto fu una vera e propria guerra, Kurt e Blaine che lottavano agitando le mani tra di loro per sporcarsi di qualsiasi tipo di colore – anche Blaine ad un certo punto aveva optato per utilizzare il suo intero palmo piuttosto che il pennello – mentre la loro pelle e i loro vestiti diventavano a poco a poco irriconoscibili, in particolare la divisa di Blaine in netto contrasto con la sua solita aria impeccabile.

I capelli, i nasi, le guance, il collo, qualsiasi tratto di pelle esposta fu puntualmente e minuziosamente ricoperto di colore, facendoli diventare una specie di arcobaleno vivente mentre le loro risate riempivano l’aria. Nel corso di quei minuti il resto della vita di Kurt scomparve, sovrastato dalle risate di Blaine quando riusciva a solleticargli un punto sotto l’orecchio e dalle sue, che diventarono addirittura più frequenti, come se inconsciamente volesse rimediare a tutte quelle che si era negato del corso degli anni.

E sorridere fu così semplice. Naturale ed istintivo come avrebbe dovuto essere, lo fece senza pensarci. Era quello il problema: quando pensava di farlo non ci riusciva mai, come se non gli fosse permesso, come se fosse sbagliato mostrare apertamente che era felice. Perché il fatto che non ci fosse riuscito fino a quel momento non significava che Blaine non lo rendesse felice. Era solo che Kurt non pensava di meritarlo. Mentre in quel momento non ebbe il tempo di farlo, non ebbe il tempo nemmeno di rendersene conto.

Ma Blaine se ne accorse. Non avrebbe mai potuto ignorare una cosa del genere. Fu come se il mondo, in quel momento, si fosse improvvisamente fermato. Come se una voce dall’alto gli avesse detto Stop, fermati, guarda. Guarda cosa sei riuscito a fare.

E Blaine lo fece: si fermò, e rimase a guardare. Perché quello era il suo premio. Era la cosa che aveva desiderato di più al mondo, e si era appena realizzata proprio lì, davanti a lui, senza un accenno di preavviso, senza un indizio che potesse fargli capire che stava per succedere. Il che rese tutto ancora più speciale.

Si disse che, se avesse saputo che bastava dipingere il viso di Kurt di mille colori per farlo sorridere, avrebbe potuto farlo molto prima, rimproverandosi mentalmente per non averci pensato. Ma era giusto così, proprio perché non lo aveva programmato, non lo aveva fatto per quello di proposito.

Ed era… era perfetto. Blaine si rimproverò ancora una volta, perché il suo repertorio di aggettivi sembrava ridursi tragicamente quando si trattava di Kurt, ma non riuscì a trovarne uno migliore per quanto si sforzasse.

Stupendo. Meraviglioso. Bellissimo.

Un sorriso che si estendeva da una guancia all’altra creando due piccole fossette, Kurt con le guance arrossate – per quanto fosse visibile – e colori sparsi ovunque, ovunque sulla sua pelle chiara, persino intorno agli occhi e sulle sopracciglia, totalmente ricoperto da ditate e manate di Blaine. Per quanto Blaine amasse il colore della sua pelle, si rese conto di preferirla ancora di più in quel momento, perché poteva vedersi dappertutto come se l’avesse marchiata, come se Kurt fosse suo. E lo era.

Kurt, che stava per aggiungere una gradazione di viola ai colori sulle guance di Blaine, si fermò allo stesso modo, preoccupato nel vederlo improvvisamente immobile. Erano in piedi, l’uno di fronte all’altro, a pochi passi di distanza. Vide gli occhi di Blaine scintillare.

“Sapevo che avevi un sorriso meraviglioso” sussurrò Blaine, una piccola lacrima che creò un solco sopra i vari strati di pittura accumulatisi sulla sua guancia. Kurt si bloccò, rendendosi conto soltanto in quel momento di aver sorriso, e subito si rilassò, sentendosi più leggero mentre quel peso opprimente lasciava finalmente il suo corpo. Alzò una mano per toccarsi le labbra, come per accertarsi che fosse reale, e provò di nuovo. Ci riuscì.

Prima che Blaine potesse fare un passo in avanti verso di lui, Kurt lo raggiunse e gli strinse i fianchi, guardandolo dritto negli occhi con determinazione.

“Adesso” soffiò sulle sue labbra, indugiandovi sopra per un attimo e trattenendosi dal baciarle mentre Blaine si avvicinava ancora, il suo respiro terribilmente vicino e tentatore. “Blaine, adesso.”

Blaine gli avvolse le braccia intorno al collo e unì finalmente le loro labbra, sospirando felicemente quando Kurt lo attrasse di più a sé per i fianchi. Si baciarono languidamente, stavolta senza fretta, come se avessero a disposizione tutto il tempo del mondo, senza bisogno delle parole per dirsi l’un l’altro ciò che desideravano in quel momento.

Quando le magliette vennero rimosse, e poi anche il resto, si ritrovarono per terra, intrecciati l’uno all’altro, a toccarsi ovunque tranne che dove sarebbe stato più ovvio viste le circostanze. Lasciarono segni di mani e dita trascinate sopra petti, spalle, e braccia, tracciando accuratamente le linee delle costole e dei muscoli più accentuati; Blaine si soffermò in particolare sulle ossa sporgenti dei fianchi di Kurt, creandovi intorno piccoli cerchi con il pollice sporco di blu, mentre Kurt colorò minuziosamente i due profondi solchi che conducevano verso l’inguine di Blaine, creando una grande V. E poi la schiena, percorrendo su e giù la sua spina dorsale mentre Blaine lo baciava sulle labbra, accontentandosi di accarezzargli dolcemente i fianchi e la parte più bassa, conficcando le dita nel piccolo incavo che vi trovò, non potendo toccare allo stesso modo la sua schiena per via della cicatrice.

Fu lento e graduale, una specie di rito segreto su cui entrambi avevano silenziosamente concordato, con il quale impararono a conoscersi in un modo tutto nuovo e sconvolgente per entrambi, perché non era fare sesso, non era fare l’amore, non era neanche toccarsi nel senso vero e proprio del termine.

Fu come esplorarsi, venerarsi a vicenda, le mani che vagavano ovunque lasciando un segno tangibile del loro passaggio in modo che potessero ricordare ogni tocco, ogni lieve sfiorare, ogni bacio vedendone la forma impressa sopra i colori ormai irriconoscibili, mischiati l’uno all’altro in una tinta che Kurt non sarebbe mai riuscito a riprodurre, proprio come quella degli occhi di Blaine.

Perché non era solo un miscuglio di colori. C’erano tocchi sparsi di paura, quella leggera e quasi dolce sensazione di ansia all’idea di essere sul punto di fare qualcosa di importante, davvero importante, qualcosa che avrebbero ricordato per sempre e che quindi non potevano permettersi di rovinare; era impressa a piccole ed esitanti ditate, quasi impercettibili puntini ormai nascosti dagli altri strati a mano a mano che si facevano più coraggiosi, sepolta al di sotto delle tinte più forti.

C’erano sfumature di bruciante desiderio, e quelle erano a forma di mani sui fianchi e sul sedere, oppure lunghe strisce di colori indistinti sulle cosce nell’accarezzarle febbrilmente facendo su e giù.

E poi c’erano le tinte più accentuate, che risaltavano sopra le altre essendo le più frequenti, le più intense. Quelle dell’amore dipinto sulle loro guance quando si stringevano l’un l’altro per baciarsi, con la forma delle loro mani; dei piccoli baci sul collo e sul petto che creavano vuoti di colore sparsi qua e là; degli accenni di pittura lasciati tra i loro capelli, a causa delle dita che li accarezzavano.

Kurt smise di essere Kurt, e Blaine smise di essere Blaine, fondendosi in una cosa sola, un nuovo corpo senza nome, un’entità fatta solo di sguardi, baci, mani e dipinta con i colori del cuore.

Fare l’amore fu facile, perché era come se l’avessero già fatto. L’esitazione e la paura ormai sepolte, si guardarono per tutto il tempo senza provare vergogna, baciandosi quasi costantemente e continuando a lasciare le mani libere di vagare, perché anche quelli erano ricordi da immortalare con le loro dita.

E quando alla fine rimasero distesi sul pavimento, sporchi e intrecciati, ripresero ad accarezzarsi lentamente per aggiungere un’altra sfumatura al loro quadro: la felicità.

 


 

Quando Kurt sorrise, e subito dopo gli disse che voleva fare l’amore, Blaine si rese conto con una certezza praticamente assoluta che non l’avrebbe mai più lasciato. Non lo ammise mai ad alta voce nei giorni che seguirono la loro riappacificazione, ma aveva ancora paura che tornasse sui suoi passi da un momento all’altro e smise di esserlo soltanto in quell'istante.

E quando giunse a quella conclusione, Blaine commise un errore. Perché era umano, e gli esseri umani, tra le tante cose, hanno un difetto: rincorrono perennemente l’unica cosa al mondo che non si può comprare con il denaro, l’unica che non aspetta nessuno, non ascolta le suppliche, non si può né prestare né regalare perché semplicemente non si può controllare. Il tempo.

Blaine iniziò a pensare al futuro. A lui e Kurt insieme a distanza di dieci, venti, trent’anni, distesi sul prato a guardare le stelle inventando nuove costellazioni, a fotografarsi l’un l’altro, a dipingersi mentre facevano l’amore. Iniziò a pensare in termini di giorni, numeri, compleanni, anniversari. Ad immaginarsi più grande e magari un po’ più alto, mentre aspettava Kurt alla fine di un sentiero disseminato di petali bianchi e illuminato dalla luce della luna, per poi prenderlo per mano e diventare suo marito.

Blaine desiderò avere tempo, ma non era colpa sua, era normale. Così, fece qualcosa che non aveva mai fatto: si sedette alla scrivania della sua stanza, accese il portatile, e fece una ricerca sulla malattia di Kurt, giusto per capire come gestirla a lungo termine e conoscerne i dettagli senza doverglieli chiedere, ora che sapeva con certezza di essere destinato a passare con lui il resto della sua vita, desideroso di condividere con lui tutte le difficoltà come un vero compagno, un vero amante, un vero amico.

Non ne aveva mai sentito il nome, ma era piuttosto rara ed era sicuro di riuscire a trovarla scrivendo una definizione che potesse calzare su Google. E infatti la trovò.

E il suo cuore si fermò.

 


 

Passarono settimane prima di trovare il coraggio di dire a Kurt cosa aveva letto su Internet. Era dicembre inoltrato, e la neve aveva iniziato a cadere su Lima anche se a piccoli fiocchi, ricoprendo il giardino degli Hummel di un sottile strato bianco che dava alla tenuta un’aura quasi paradisiaca, fuori dal tempo, più di quanto non fosse nel resto dell’anno.

I fiocchi leggeri si dissolvevano sulla superficie del laghetto, la temperatura ancora non troppo fredda incapace di rendere l’acqua ghiacciata, e rimanevano incastrati tra i rami degli alberi ormai spogli, il colore marrone dei loro tronchi che risaltava rispetto alla coltre candida. Era uno spettacolo meraviglioso.

Kurt indossava un cappotto marrone di tessuto pesante e un cappello di lana con delle renne bianche ricamate sopra, i due pon-pon alla fine che rimbalzavano all’altezza del suo petto mentre camminava mano nella mano con Blaine lungo il sentiero che portava al laghetto. Il vantaggio dell’inverno era che il sole calava molto prima, quindi potevano uscire anche se erano soltanto le sei del pomeriggio.

Stava sorridendo per un motivo inesistente – lo faceva molto di recente – e se la cosa prima faceva fare al cuore di Blaine una specie di triplo salto mortale con avvitamento, ora riusciva a farlo lentamente calare a picco fino a raggiungere il suo stomaco, mentre le parole a caratteri neri in risalto sullo sfondo bianco del computer sbucavano all’improvviso nella sua mente, luminose come se fossero su un’insegna. Blaine ingoiò forzatamente il nodo che aveva in gola e continuò a camminare, stringendo la mano di Kurt con la sua, anche se entrambe erano coperte da guanti.

“E’ bellissimo” disse Kurt, guardandosi intorno con aria praticamente estasiata, il buio che lentamente calava sopra di loro e che rendeva il colore della neve quasi fosforescente, accentuando allo stesso modo quello della sua pelle. Il rossore delle guance e del naso risaltava ancora di più, così come la tinta rosata delle sue labbra e il castano chiaro delle sue folte ciglia, che svolazzavano con entusiasmo. Blaine si sentì sul punto di svenire guardandolo.

“Amore?” gli disse Kurt, stranito dal suo silenzio, distogliendo lo sguardo dal paesaggio per posarlo su di lui. Trasalì: Blaine lo stava fissando con lo stesso sguardo disperato che aveva quando lo aveva lasciato, come se qualcuno gli avesse appena frantumato il cuore con un martello e lui ne stesse ascoltando il suono mentre si sgretolava pezzo dopo pezzo.

“Blaine? Cosa c’è?” chiese, allungando una mano per prendergli anche l’altra e guardandolo negli occhi, sperando di capire in modo da poter scacciare il suo dolore.

Blaine sbattè le palpebre e alzò per un attimo lo sguardo al cielo, ricacciando indietro le lacrime, poi si schiarì la gola.

“Ho fatto una ricerca su Internet…” disse con aria solenne, ma Kurt aggrottò le sopracciglia, continuando a non capire. “…sulla tua malattia.”

Kurt si congelò. Sbattè più volte le palpebre, sperando di aver capito male, ma lo sguardo di Blaine parlava chiaro: lo aveva scoperto. E forse lo stava odiando per non averlo detto, per non essere stato completamente sincero, perché se l’avesse saputo non sarebbe tornato da lui, avrebbe ignorato il messaggio mandato da suo padre e avrebbe preferito andare avanti con la sua vita.

Perché Kurt era stato egoista, per una volta nella sua vita. L’aveva omesso proprio perché, inconsciamente, voleva che una porta rimanesse aperta. E per quanto considerasse Blaine diverso da tutti gli altri, da chiunque altro, la pietà sarebbe stata una componente inevitabile se lo avesse scoperto e non lo avrebbe sopportato, non da lui. Ma era andato tutto in fumo ormai. Lo guardò negli occhi, aspettandosi da un momento all’altro pianti, insulti, grida, o semplicemente un sentito e triste addio.

Non arrivò niente di tutto questo, invece. Blaine rimase a fissarlo, aspettando di vedere la sua reazione, pendendo praticamente dalle sue labbra con la speranza che dicesse Sono cavolate, Blaine, su Internet si sbagliano. Solo uno stupido crederebbe a certe cose.

Dopo almeno un minuto di silenzio, i loro respiri chiaramente visibili nell’aria tra di loro, Kurt capì che avrebbe dovuto parlare per primo.

“Mi dispiace” sussurrò, gli occhi che lentamente si riempivano di lacrime. Si rese conto che avevano passato più tempo a piangere che sorridere, soprattutto lui. Doveva immaginare che quel momento sarebbe arrivato, in fondo. Prima o poi avrebbe dovuto dirlo. “Mi dispiace, Blaine.”

Nel giro di un secondo, sentì le mani di Blaine sfuggirgli tra le dita e lo ritrovò a terra, nella neve, raggomitolato su se stesso completamente scosso da singhiozzi. Si precipitò su di lui e lo strinse forte, avvolgendogli le braccia intorno al collo. Blaine ritrasse il viso dalla sua spalla e lo guardò, le lacrime che scorrevano senza sosta sulle sue guance mentre altre rimanevano incastrate tra le sue ciglia scure, il respiro affannato e irregolare mentre cercava di parlare.

“Ti prego, ti prego” singhiozzò, afferrando il colletto del suo cappotto e stringendolo con forza. “Dimmi che si sbagliano, che non è vero, Kurt-“

“Lo è” rispose Kurt, la voce incredibilmente tranquilla nell’ammettere ciò che aveva sempre saputo. Era quasi un semplice dato di fatto per lui, una cosa con cui aveva imparato a convivere. Ma non Blaine. E fu quello che lo fece lentamente crollare: sentire e vedere Blaine piangere così forte che pensò di poterne morire.

“Blaine” disse, rendendosi conto di averlo pronunciato sotto forma di singhiozzo, mentre Blaine gli piangeva sulla spalla. “Shh, non piangere, non piangere, non piangere…”

Continuò a dirlo, ma non servì a niente. Anzi, sembrò fare peggio, perché Blaine iniziò a tremare visibilmente e a respirare a fatica come se fosse in preda ad un attacco di panico. Kurt si ritrasse dall’abbraccio e gli prese il viso tra le mani, tenendolo fermo con determinazione e costringendolo a guardarlo.

“Blaine, guardami” disse con fermezza, la voce leggermente strozzata. “Va bene così. Lo so da sempre, da quando- da quando mia madre è morta.”

Blaine ritrasse lievemente la testa, metabolizzando con rapidità l’informazione.

“Io non- non avevo capito” ammise, tirando su col naso.

“Lo so” gli rispose Kurt con dolcezza. “Non avevi motivo di pensarlo, io ti avevo solo detto che era morta, non il perchè.”

L’espressione di Blaine si distorse nuovamente tra le sue mani, una smorfia di pura disperazione. Kurt non riuscì più a sopportarlo e si avvicinò per baciarlo sulle labbra, dolcemente e lentamente, ingoiando i suoi singhiozzi e le sue lacrime e stringendogli le guance per mantenerlo nel presente, in quell’istante, nel fatto che erano lì insieme e che si amavano.

Quando si ritrasse, una raffica di parole che non pensava di custodire dentro di sé lasciò le sue labbra riempiendo l’aria fredda dell’inverno, pronunciata in modo concitato e quasi febbrile.

“Mi dispiace, mi dispiace così tanto, Blaine. Non l’ho mai sognato per me, non importava, andava bene così, ma se potessiDio, se potessi invecchierei al tuo fianco e ti amerei anche con i capelli bianchi, le rughe, i reumatismi. Ti amerei anche se indossassi orribili cardigan di lana fatti a mano e volessi passare noiosi pomeriggi seduto su una sedia a dondolo davanti al camino. Ti amerei sempre, Blaine, lo farei, devi credermi. Mi dispiace, io- io avrei dovuto dirtelo, ma sapevo che te ne saresti andato e in fondo al mio cuore io non volevo che lo facessi, volevo che tornassi, e sono stato un egoista pur facendo di tutto per non esserlo e adesso-“

“Io non me ne andrò mai” sussurrò Blaine con disarmante ovvietà, i singhiozzi momentaneamente interrotti per ascoltarlo, la voce ridotta ad un piccolo e supplichevole lamento. Kurt abbassò lo sguardo, piangendo silenziosamente, le lacrime che cadevano creando piccoli cerchi trasparenti nella neve.

“Fino a quando…?” sentì dire a Blaine nel silenzio, la voce quasi impercettibile. Alzò il viso e lo guardò negli occhi, cercando dentro di sé la forza per formulare la risposta. Non gli era mai sembrato così reale come in quel momento. Non aveva mai fatto così male dire ad alta voce fino a che età avrebbe vissuto.

“Trent’anni” rispose in sussurro.

 

 

 


 

 

 

 

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Lo so, credetemi, lo so. Vi starete chiedendo perchè diamine ho dovuto rovinare tutto (il Paint!Sex ** - sì, gli ho anche dato un nome) con QUESTO. Ma come al solito non ho una risposta, perchè nella mia mente doveva andare così. Date la colpa a lei!

Ci sono delle precisazioni che sento il bisogno di fare:

- No, questa storia non diventerà una specie di "I passi dell'amore" (amo quel film, sia chiaro) nel senso che il punto della questione, sempre e comunque, sarà che si amano, non il fatto che Kurt è malato. Non nego che la cosa sicuramente influenzerà la vicenda, ma personalmente, mi 'piace' il modo in cui la influenza e l'unico modo per farvi capire come esattamente è chiedervi di fidarvi ancora di me (perchè sì, ho paura che qualcuno non voglia più farlo dopo questo capitolo e sono in ansia!)

- Non mettendo l'avvertimento "Carachter Death" a inizio storia forse ho fatto una cosa poco carina, ma mettendolo avrei sicuramente rovinato l'effetto, e non so quanti avrebbero dato un'occasione alla fanfiction se l'avessero saputo dal principio. Inoltre, ci tengo a precisare che la morte di Kurt NON verrà descritta graficamente, l'ho già fatto una volta in una one-shot e c'è gente che probabilmente mi sta ancora cercando per dirmene quattro xD

- In parte, questa svolta rispecchia la verità. Ho letto che chi soffre di questa malattia ha una durata media della vita molto, molto più bassa del normale, sui 40 anni più o meno. Nel prossimo capitolo vedrete cosa esattamente ha letto Blaine su internet, ma in quel caso tenete a mente che ho romanzato la questione inventando di sana pianta dei dettagli per farli quadrare con la storia.

 

Immagino che capiate, adesso, cosa intendevo quando in alcune risposte alle recensioni ho scritto di 'sperare che alla fine ne valga la pena', perchè è così, lo spero tanto, tantissimo. E anche se quando ho scritto la storia non avevo addosso il peso dell'aspettativa che ho adesso, tornando indietro non la cambierei. Spero immensamente che continuerete a seguirmi, ma capisco anche che alcuni potrebbero non apprezzare l'evolversi delle cose. Quello che posso assicurarvi è che non ci saranno solo lacrime, ma tanto tanto tanto amore.

 


Nel prossimo capitolo:

Lo spirito del Natale insegnerà a Kurt e Blaine ad andare avanti, e ad apprezzare ciò che conta davvero: il presente.

 

 

 

 


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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


 

Prima di lasciarvi al capitolo, vi chiedo un attimo di attenzione perché devo ringraziarvi. Ringraziare tutti voi perché, beh, perché siete rimasti. Chi se l’aspettava, chi no, ma siete stati tutti ‘dalla mia parte’ perché vi fidate di me. E io non lo do per scontato, ricordatelo sempre! L’ultimo capitolo è stato il più recensito fino ad ora, e io sono senza parole, per farla breve.

Passiamo alle cose utili: 1) la spiegazione sulla malattia di Kurt è farina del mio sacco, nel senso che l’unica cosa vera è che chi ne è affetto non vive oltre i 40 anni; il resto l’ho inventato per far quadrare un po’ di cose, ma spero che suoni ‘credibile’ nonostante la mia ignoranza a livello di gergo medico.

2) la canzone citata in questo capitolo è ‘Auld Lang Syne’ in questa versione (cantata da Lea Michele in ‘New Year’s Eve’). Il titolo è scozzese, e significa più o meno “i bei tempi andati”; nella cultura anglo-americana viene cantata a capodanno, per dire addio all’anno vecchio e dare il benvenuto a quello nuovo, oppure per congedi, pensionamenti, lauree ecc. come ringraziamento e saluto alle persone presenti per l’importanza che hanno avuto, in parole povere.

Se volete approfondire, qui trovate la storia della canzone e a fine capitolo una mia traduzione approssimativa, visto che il testo in questa versione è stato rivisitato rispetto a quello originale (in Old English) e non ne ho trovata una decente su internet.

Buona lettura! 

 


 

 

 

 

 

Il sole è nuovo ogni giorno.

- Eraclito

 


“I soggetti affetti da xeroderma pigmentoso hanno una durata vitale non superiore a quarant’anni, a causa dell’impossibilità delle cellule di rigenerarsi oltre quell’età. Se esposti al sole una o più volte nel corso della loro vita, però, questa durata va riducendosi a causa del danno provocato alle cellule. La riduzione dipende dalla gravità dell’esposizione stessa (assenza o presenza di vestiti, stagione dell’anno, temperatura solare), dalla sua durata e dall’età del soggetto, e pertanto va stabilita e monitorata dal dermatologo di fiducia. Generalmente, però, incidenti avvenuti in tenera età tendono ad avere conseguenze più serie, vista la fragilità dell’epidermide.”

 

Blaine rimase a fissare quelle poche righe, scritte alla fine di un’enorme pagina web su un sito di dermatologia, dopo averle rilette almeno venti volte nell’ultima mezz’ora. E ogni singola volta tutto quadrava, perché Kurt aveva una grande cicatrice sulla schiena provocata da un incidente dell’infanzia, e improvvisamente si ritrovò a voler uccidere un bambino, anzi, ormai un ragazzo, che non conosceva nemmeno, ma che in un giorno d’estate senza neanche rendersene conto si era preso dieci anni di vita come se non contassero niente. Forse neanche lo sapeva.

Provò a rileggere ancora, ma arrivato a “quarant’anni” si accorse che non riusciva più a distinguere le lettere l’una dall’altra, ridotte ad un ammasso nero, sfocato e indistinto davanti ai suoi occhi annebbiati dalle lacrime che aveva pianto per tutto il viaggio di ritorno da casa di Kurt alla Dalton.

Kurt avrebbe compiuto diciotto anni a febbraio. Ne rimanevano dodici. Dodici, un numero così grande in termini di relazioni, e così piccolo in termini di vita. Tolti due, li poteva contare sulle dita di due mani. Tolti altri cinque, sulle dita di una sola.

Era soltanto un numero, uno stupido numero, eppure aveva appena infranto i suoi sogni e mandato in pezzi il suo mondo. Lui e Kurt non sarebbero mai invecchiati insieme. Poteva sembrare affrettato per un ragazzo della sua età immaginare una cosa del genere, ma lui lo aveva fatto, ed era troppo tardi per non farlo più perché quell’immagine era lì, nella sua mente; loro due insieme sotto un portico con i dolci e ronzanti rumori della notte intorno a loro, qualche lanterna ad illuminare il giardino mentre le stelle brillavano e loro ripensavano insieme alla loro vita, alle cose che avevano fatto, ripercorrendole una per una e ridendo delle cose più stupide, delle loro follie da adolescenti.

Uno, due, tre, quattro…

Provò a dirsi di smetterla di contare, di pensare in termini di numeri, ma il suo cervello sembrava non voler fare altro, mostrandogli quanto fosse facile contare da uno a dodici, e da dodici a uno, ancora e ancora e ancora finchè non si mise le mani sulle orecchie e strinse i suoi ricci tra le dita, accartocciandosi sulla sedia della sua stanza e portandosi le ginocchia sotto il mento.

Respira, respira, non pensare, non contare, devi solo respirare.

Proprio quando un nuovo singhiozzo stava per scuoterlo, crepitandogli dentro per poi esplodere, sentì qualcuno bussare alla porta. Trattenne il fiato, cercando di evitare di scoppiare a piangere e stringendosi il petto con la mano per stabilizzare il respiro. Chiuse gli occhi, l’altra mano sulla bocca per simulare il silenzio, in attesa che chiunque fosse fuori dalla sua porta se ne andasse.

“Blaine, si vede la luce accesa da sotto la porta, apri!”

Blaine trasalì e sgranò gli occhi, voltandosi di scatto verso la porta e facendo ruotare la sedia.

“Voglio solo parlare, per favore” disse la voce da fuori, il tono quasi supplichevole. Blaine sospirò, si asciugò velocemente le lacrime dalle guance e dagli occhi incredibilmente rossi, e si alzò. Raggiunse la porta a grandi passi e la aprì, trovandosi davanti Sebastian.

Il ragazzo aprì leggermente la bocca per la sorpresa, rendendosi conto di come era ridotto. Blaine indossava una tuta invece della solita divisa, era vero, ma non aveva niente a che fare con l’abbigliamento. Era distrutto. I capelli rivolti in tutte le direzioni per averci passato le mani attraverso senza sosta, gli occhi rossi e gonfi per averli toccati ripetutamente, e la carnagione di un pallore quasi cadaverico.

Ignorò volutamente lo sguardo sconvolto del Warbler, lasciando la porta aperta soltanto per metà, pronto a chiuderla da un momento all’altro. Non aveva tempo per Sebastian. Non aveva tempo per niente in realtà, perché aveva soltanto dodici anni.

All’improvviso si rese conto di tutto il tempo che aveva sprecato. Quelle poche settimane passate a tormentarsi per scacciare un sentimento che non capiva, e a farlo proprio con la persona meschina che aveva di fronte, mentre i secondi, i minuti, le ore passavano ed erano secondi, minuti ed ore che non avrebbe mai più riavuto. Li aveva sprecati, buttati via come soffioni nel vento. Li aveva persi.

E vedere Sebastian lì, a ricordarglielo con la sua presenza, gli fece venire voglia di vomitare.

“Non ho tempo per parlare” gli disse senza incrociare il suo sguardo, e in fondo era la verità. Fece per richiudere la porta senza dire altro, ma Sebastian la bloccò prontamente con la sua mano e si avvicinò.

“Blaine” lo ammonì, la voce bassa e cauta in un modo che a Blaine era totalmente estraneo. “Fammi entrare. Sono preoccupato per te.”

“Ah si? E da quando?” sbottò Blaine, alzando lo sguardo per fulminarlo mentre la rabbia che non aveva opportunamente espresso trovava finalmente una via di sfogo. “Eri preoccupato per me anche quando hai quasi ammazzato il mio ragazzo?!”

“Ti ho detto che non lo sapevo! E poi è proprio di questo che volevo parlarti, fammi entrare-“

“Tanto non ha importanza” mormorò Blaine, più tra sé e sé che all’altro Warbler. “Non ha più importanza ormai.”

“Blaine, che-“ esordì Sebastian, quasi scosso dalle sue parole, incapace di capirne il senso. “Che ti succede? Kurt ha fatto qualcosa?”

“Oh, ma quanto sei furbo! Pensi di approfittarne per farti una bella scopata, non è vero? Il povero e triste Blaine, ci pensi tu a consolarlo, non è così?” esplose Blaine, e se avesse potuto sputare veleno probabilmente lo avrebbe fatto. Era passato dall’essere triste all’essere arrabbiato quasi costantemente nell’ultima ora, un ciclo eterno di emozioni che lo stavano lentamente prosciugando dall’interno rendendolo completamente esausto, ma non sapeva come porgli fine. E Sebastian era un bersaglio perfetto per cercare una via di scampo; per una volta, avrebbe potuto rendersi utile.

Ma lo sguardo negli occhi del ragazzo lo sorprese: sembrava davvero ferito. Sebastian sgranò gli occhi e accennò un passo all’indietro, la bocca dischiusa per lo shock.

“Blaine” disse, passandosi una mano attraverso il ciuffo perfettamente alzato con fare nervoso ed esasperato. “Cristo, sarò anche uno stronzo e mi piace esserlo, ma sono in grado di riconoscere quando non è il caso, quando è una cosa seria. Cercavo solo- cazzo, per una volta che cerco di essere-“

“Entra” lo interruppe Blaine, prima di avere il tempo di rimangiarselo e prendersi mentalmente a schiaffi. Sebastian lo guardò con aria interrogativa, come se volesse cercare una conferma, ma Blaine fece semplicemente un passo indietro dentro la sua stanza e gli permise di seguirlo.

Quando Sebastian fu dentro, Blaine chiuse la porta e si voltò verso di lui, la schiena appiattita contro la porta per avere un minimo di sostegno, qualcosa a cui appoggiarsi. La sua mente sembrava fluttuare in una specie di nuvola di vapore, rendendo i suoi movimenti più lenti e i suoi pensieri affannati, stanchi, e sperò che Sebastian facesse in fretta a blaterare le sue scuse su come si era comportato così avrebbe potuto fingere di accettarle, farlo uscire dalla stanza e tornare a fissare il computer, o distendersi a guardare il soffitto, o forse scrivere sul diario, ma non era sicuro di volerlo fare.

Scriverlo lo avrebbe reso reale, per quanto quel pensiero sembrasse stupido e infantile. Scrivendolo, avrebbe potuto rileggerlo all’infinito, invece di cliccare su una crocetta su uno schermo e fingere di non averlo mai letto. Chiuse gli occhi e sospirò, i palmi contro il legno della porta, tentando di mantenere la sua voce il più normale possibile.

“Per favore, sii breve” sussurrò, ma quando rialzò lo sguardo su Sebastian si accorse che gli stava dando le spalle e che stava guardando proprio il suo computer, ancora aperto sulla scrivania a pochi passi dalla porta. Lo vide camminare lentamente verso di esso, per poi appoggiarsi allo schienale della sedia con le mani e avvicinare il viso allo schermo per leggere rapidamente cosa c’era scritto sopra.

“Sebastian, non-“ disse Blaine con voce strozzata, ma prima che potesse continuare l’altro ragazzo si voltò e lo fissò con gli occhi sgranati.

“Blaine” sussurrò, l’aria incerta di chi non sapeva cosa fare né cosa dire per la mancata abitudine di preoccuparsi delle emozioni degli altri. Blaine pensò che fosse solo pietà, compassione, forse semplice shock e quel minimo di tristezza naturale nello scoprire qualcosa di terribile e sapere che accadrà a qualcuno che non sei tu.

Ma non gli importò in quel momento, perché Sebastian ora sapeva, e per quanto Blaine lo odiasse, lo avesse voluto morto in più di un’occasione e lo disprezzasse, si rese conto che era l’unico al di fuori di casa Hummel con cui poteva parlarne. L’unico davanti a cui poteva piangere. Non avrebbe mai voluto, un senso di orgoglio e dignità che cercava in tutti i modi di dirgli di non farlo, di contenersi, ma non fu abbastanza. Senza il minimo preavviso, scoppiò a piangere e si raggomitolò sul pavimento, il viso tra le braccia ora incrociate sopra le ginocchia.

Sentì Sebastian fare passi incerti ed esitanti verso di lui, per poi rimanere fermo, in piedi, senza sapere bene come comportarsi. Ma poi si abbassò su di lui e gli poggiò una mano sulla spalla con cautela, come se Blaine scottasse.

Rimase in silenzio per tutto il tempo, ad ascoltarlo piangere senza sosta. Fu terribilmente stancante, i singhiozzi che lo scuotevano fino a fargli male al petto, le ginocchia e le braccia intorpidite per la posizione assunta, ma quando a poco a poco sembrò calmarsi Blaine si rese conto che era stato meglio tirare tutto fuori così, in un’esplosione, piuttosto che gradualmente. Perché avrebbe perso altro tempo con Kurt per farlo, e non poteva. Non più.

Alzò lo sguardo dalle sue braccia con aria titubante e si sorprese nel trovare Sebastian ancora lì, inginocchiato accanto a lui. Non si era neanche accorto che la sua mano era ancora sulla sua spalla, e che l’aveva accarezzata in piccoli e confortanti cerchi immaginari. Provò a dire qualcosa, ma aveva la gola secca per aver pianto troppo o forse semplicemente non sapeva bene cosa dire.

Sebastian, l’aria quasi impassibile macchiata da un accenno di preoccupazione, come se si stesse volutamente trattenendo, si mosse senza preavviso e gli mise un braccio sotto le ginocchia e un altro dietro la schiena, alzandolo da terra con un po’ di sforzo ma senza lamentarsi.

Blaine avrebbe voluto obiettare, ma pensò in tutta franchezza di non averne la forza mentale né tantomeno fisica. Chiuse gli occhi e lasciò che Sebastian lo adagiasse sul suo letto, prima di togliergli le scarpe, tirare le coperte da sotto il suo corpo e poi rimettergliele sopra. Sentì dei passi sul pavimento di legno, una breve pausa, e poi la porta che si apriva e si chiudeva.

Era così stanco di soffrire, che si addormentò all’istante.

 


 

Blaine non tornò a casa per le vacanze di Natale quell’anno. Mentì spudoratamente e senza il minimo rimpianto ai suoi genitori, dicendo che era troppo indietro con alcune materie, che aveva uno spettacolo natalizio dei Warblers da organizzare – spettacolo riservato solo al corpo studentesco, ovviamente – e fece i bagagli per trasferirsi momentaneamente a casa Hummel.

Fu un Natale strano. Diverso. Non propriamente triste, per quanto la sua recente scoperta sembrasse aleggiare nell’aria come una nebbiolina nefasta, solo… riflessivo. E in qualche modo più intenso di qualsiasi altro Natale avesse mai passato, solitamente pieno di sorrisi, canzoni gioiose, un momento per dimenticare le preoccupazioni del resto dell’anno e fingere che non esistano, che l’unica cosa importante sia il colore degli addobbi sull’albero di Natale o la giusta cottura del tacchino ripieno al cenone.

Quel Natale ebbe uno spirito molto più significativo, perché Blaine sapeva che avrebbe dovuto imparare a convivere con la situazione se voleva restare al fianco di Kurt, e lo voleva, non era mai stato in discussione. Quel Natale gli insegnò ad apprezzare quello che aveva, per quanto avesse la data di scadenza.

Perché in quel momento, in quell’esatto momento, Blaine aveva tra le mani la cosa più bella dell’intero mondo. Kurt era suo. E non poteva permettersi di sprecare nemmeno un secondo a disperarsi per ciò che non avrebbe avuto, perché era un secondo in meno per godere di ciò che invece aveva.

Fu difficile farlo. Fu difficile non parlarne, e fingere che non fosse così, perché ad entrambi bastava guardarsi per sapere che ci stavano pensando in quel preciso istante. Ci furono alti e bassi, ma nel corso degli anni andò meglio. Partendo da quel Natale.

Addobbare tutta la casa fu un’attività estenuante che si portò via quasi una giornata intera: oltre a Flint e ai cuochi c’erano altri domestici – che Blaine non aveva mai visto, forse perché avevano un’ala della casa riservata a loro – ma Kurt insistette affinchè fossero loro due a farlo. Non aveva più toccato un addobbo da quando sua madre era morta, visto che solitamente lo facevano insieme, e voleva riprendere quell’usanza insieme a lui. Blaine ovviamente ne fu entusiasta.

Fecero l’albero di Natale nel salone principale, disseminarono ghirlande verdi e rosse, fili di luci all’esterno, sulle balconate e sugli alberi, i loro piccoli bagliori multicolore che spuntavano dal bianco della neve come bacche selvatiche; e poi mazzi di vischio – più del dovuto, soltanto per avere la scusa di baciarsi ogni volta che vi passavano sotto – e calze e bastoncini bianchi e rossi. Alla fine, era tutto un trionfo di luci e colori, forse un po’ eccessivo, ma si guardarono l’un l’altro con aria orgogliosa ed entusiasta ed entrambi sapevano che era giusto che fosse così. Era il loro primo Natale insieme, e andava celebrato.

Alla vigilia, mangiarono insieme a Burt nel grande salone, proprio dove Blaine aveva conosciuto il ricco signore mesi prima, anche se sembravano praticamente anni. Si raccontarono a vicenda storie delle loro famiglie, battute su vecchie zie tirchie, i soliti calzini impacchettati sotto l’albero, quella volta in cui la cugina di Blaine mandò quasi a fuoco la cucina e quell’altra in cui la madre di Kurt inciampò e finì direttamente sopra l’albero di Natale, portando con sé luci, addobbi e palline e facendo ridere suo figlio e suo marito per settimane all’idea. La conversazione fu così spontanea e naturale, che nonostante tutto, nonostante il dolore lancinante che probabilmente non avrebbe mai lasciato il suo cuore, Blaine si sentì al sicuro. Si sentì a casa.

Kurt e Blaine si strinsero le mani sotto il tavolo per tutto il tempo, i pollici che si sfioravano di tanto in tanto e piccoli sorrisi che nascevano sulle loro labbra quando si giravano l’uno verso l’altro e si rendevano conto di averlo fatto nello stesso momento. E ogni sorriso, ogni sfioro, ogni sguardo e ogni gesto riuscì in qualche modo a sembrare migliore, più speciale e prezioso, perché a differenza di tante altre coppie loro sapevano già fino a quando avrebbero potuto goderne.

Tanti altri forse si sarebbero divisi, chiudendosi ognuno nel proprio dolore. Tanti, al posto di Blaine, avrebbero mollato. Sarebbe stato più facile, forse, perdere in quel momento qualcosa che tanto, alla fine, avrebbe perso comunque. Ma Blaine non lo fece, non si arrese. Assaporò ogni secondo, e amò Kurt ogni secondo, per fare in modo di arrivare alla fine della sua vita e poter dire Ne è valsa la pena.

Poter dire di aver lottato, di aver amato con tutto il suo cuore, di non aver avuto rimpianti. Poter dire di essere stato il sole di qualcuno e di aver brillato per lui nel cielo senza mai eclissarsi, di aver sorriso, pianto, urlato, respirato per la persona che amava.

E poi, alla fine della cena, Kurt lo sorprese rimuovendo improvvisamente la mano dalla sua. Blaine alzò lo sguardo e incontrò il suo, pieno di amore e tenerezza, un mare così vasto e ancora sconosciuto per lui, ma aveva dodici anni per esplorarlo tutto. Sperò che fossero abbastanza.

“Voglio cantare” esordì Kurt, rivolgendogli un sorriso e poi facendo lo stesso verso suo padre, che lo guardò con gli occhi improvvisamente lucidi. Blaine si sorprese e si chiese come mai quella frase lo avesse colpito a tal punto, aggrottando leggermente le sopracciglia.

“Era tradizione che io cantassi per i miei genitori a Natale, ma non… non lo faccio più da anni” gli spiegò Kurt, capendo cosa stava pensando. Blaine annuì lievemente e guardò di nuovo Burt, che si stava asciugando una lacrima dalla guancia con aria furtiva.

“E da adesso lo farai tutti gli anni?” gli chiese Blaine, osservandolo mentre faceva il giro del tavolo per dirigersi verso il pianoforte – quello che aveva in camera non era l’unico della casa – sistemato accanto al camino crepitante, il suo legno scuro illuminato dal fuoco che vi creava sopra intensi giochi di luci ed ombre.

“Si” rispose Kurt, voltandosi a guardarlo con intensità. Blaine capì cosa volesse dire, pur non avendolo espresso ad alta voce. Voleva dire che ogni anno andava ricordato, da quel momento in poi. Il letargo era finito, era il momento di vivere.

Kurt si sistemò al pianoforte, il viso rivolto verso di loro e i tasti nascosti alla vista. Blaine rimpianse di aver lasciato la macchina fotografica in camera, perché avrebbe voluto immortalare quel momento. Kurt era bellissimo, un semplice maglione rosso che in qualche modo si accoppiava perfettamente alla sua carnagione bianca, i capelli sistemati con la lacca verso l’alto, le candele rosse sopra il pianoforte che, unite alla luce del camino, facevano scintillare i suoi occhi azzurri come fossero due addobbi aggiunti alla sala, i più luminosi di tutti. Ma scacciò quel pensiero rapidamente, perché una foto non avrebbe comunque immortalato la sensazione che provava in quel momento, potendolo semplicemente guardare.

Kurt sorrise dolcemente a suo padre, che aveva lo sguardo completamente perso, rivolto ad anni lontani che Blaine non poteva conoscere, ma poi si voltò verso di lui e rimase in quella posizione anche quando le sue mani iniziarono a muoversi con grazia sopra i tasti bianchi.

Quando iniziò a cantare, Blaine sentì le lacrime fare capolino dai suoi occhi, ma non era tristezza. O meglio, non del tutto. Era una strana sensazione, un miscuglio di sofferenza, malinconia e felicità insieme, una contraddizione in termini, eppure aveva dannatamente senso in quel momento.


Should auld aquaintance be forgot,
And never brought to mind?
Should auld aquaintance be forgot,
And auld lang syne.


La voce di Kurt si levò nell’aria e Blaine si chiese come avrebbe fatto senza, un giorno. Ma allo stesso tempo ringraziò il cielo perché gli era stato concesso di sentirla almeno una volta nella sua vita, come fosse una rarissima cometa che passava una volta ogni diecimila anni e lui era lì, un ignaro passante sotto il cielo notturno, ad alzare gli occhi per vedere una stella luminosa squarciarlo e riempirlo di luce.


For auld lang syne, my dear
For auld lang syne,
We'll take a cup of kindness yet,
For auld lang syne.

And surely you will buy your cup and surely I'll buy mine,
We'll take a cup of kindness yet,
For auld lang syne.


La sua voce sembrava curvarsi intorno alle parole, intorno alle note, avvolgendole e danzando insieme a loro nell’aria e Blaine si ritrovò a piangere senza rendersene conto, senza preoccuparsi di asciugare le lacrime, perché nel farlo si sarebbe distratto. Kurt aveva gli occhi chiusi adesso, il viso illuminato dal camino eppure ugualmente pallido. Sembrava un angelo.


We two have run about the slopes
And picked the daisies fine,
But we've wandered many weary foot,
Since auld lang syne.

For auld lang syne, my dear,
For auld lang syne,
We'll take a cup of kindness yet,
For auld lang syne.


Kurt smise di cantare per suonare soltanto il pianoforte, una breve interruzione musicale durante la quale riaprì gli occhi e Blaine si accorse che erano lucidi, più chiari del solito, mentre guardavano i suoi con calore e intensità. Cantò la strofa successiva nel silenzio, senza suonare, lo sguardo fisso su di lui.


We two have paddled in the stream
From morning sun til night,
But the seas between us broad have roared,
From auld ang syne.

For auld lang syne, my dear,
For auld lang syne,
We'll take a cup of kindness yet,
For auld lang syne.
We'll take a cup of kindness yet,
For auld lang syne.


Kurt sbattè le palpebre e una piccola lacrima gli percorse la guancia, mentre accennava un debole sorriso e continuava a guardarlo, una mano ora alzata dai tasti e poggiata sul suo cuore.

Blaine si portò una mano alle labbra e soffiò verso di lui un leggero bacio immaginario, continuando a piangere nel silenzio.

Gli rimanevano ancora undici Natali.

 

 

 


 

 

 

 

Si dovrebbero dimenticare le vecchie conoscenze

E non riportarle mai alla mente?

Si dovrebbero dimenticare le vecchie conoscenze

Insieme ai bei tempi andati?

 

In onore dei bei tempi andati, amore mio,

in onore dei bei tempi andati,

berremo insieme un’altra coppa di tenerezza,

in onore dei bei tempi andati.

 

E certamente tu pagherai la tua e certamente io pagherò la mia,

berremo insieme un’altra coppa di tenerezza,

in onore dei bei tempi andati.

 

Io e te abbiamo corso giù per le colline

e raccolto margherite selvatiche,

ma abbiamo vagato molte volte con i piedi stanchi,

sin dai bei tempi andati.

 

In onore dei bei tempi andati, amore mio,

in onore dei bei tempi andati,

berremo insieme un’altra coppa di tenerezza,

in onore dei bei tempi andati.

 

(La parte che Kurt canta a cappella senza il pianoforte, guardando Blaine: )

 

Io e te abbiamo corso a piedi nudi nel ruscello

dal sole del mattino fino a sera,

ma i grandi oceani tra di noi ruggendo ci hanno separato

sin dai bei tempi andati.

 

In onore dei bei tempi andati, amore mio,

in onore dei bei tempi andati,

berremo insieme un’altra coppa di tenerezza,

in onore dei bei tempi andati.

Berremo insieme un’altra coppa di tenerezza,

in onore dei bei tempi andati.

 

 

Nel prossimo capitolo:

Kurt e Blaine festeggiano l'arrivo dell'anno nuovo con una promessa.


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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


 

 

L’amore ristora come il calore del sole dopo la pioggia.

- William Shakespeare

 


“Cinque, quattro, tre, due, uno…”

La folla di gente riunita al concerto di Capodanno di Times Square esultò in un enorme boato, mentre i fuochi d’artificio esplodevano rumorosi creando giochi e disegni di mille colori nel cielo notturno di New York, inquadrato dalle telecamere della televisione nazionale per tutti gli Stati Uniti.

Kurt e Blaine si strinsero l’un l’altro, in piedi davanti alla tv, e si baciarono con passione, rischiando di far cadere un po’ dello champagne che si erano già versati nei bicchieri in attesa del conto alla rovescia, completamente noncuranti della presenza di Burt a pochi passi da loro, per fortuna intento a fare gli auguri al suo fidato maggiordomo. Si separarono con uno schiocco di labbra e si guardarono, le guance rosse e due grandi sorrisi.

“Buon anno” disse Blaine, allungando il braccio per levare in alto il suo calice.

“Buon anno, amore mio” rispose Kurt, imitando il suo movimento per fare il brindisi e poi bere lo champagne.

“Ragazzi, andiamo fuori a vedere i fuochi d’artificio dei Foster!” esordì Burt voltandosi verso di loro, e alludendo alla famiglia che viveva nella casa più vicina, una distanza considerevole ma abbastanza breve da permettere loro di godersi lo spettacolo. Kurt e Blaine annuirono, si munirono prontamente di cappotti e si presero per mano, seguendolo lungo il corridoio e poi all’esterno, verso la balconata principale che dava sul giardino d’ingresso.

L’aria fredda di dicembre – gennaio, ormai – li investì con forza mentre si sistemavano contro la ringhiera, le spalle che si toccavano al di sotto dello spesso strato di tessuto. Senza dire una parola, Blaine abbassò un braccio e lo fece scivolare intorno alla vita di Kurt, che inclinò la testa e la poggiò sulla sua spalla, chiudendo gli occhi e strofinando lievemente la guancia su di lui come un gatto che faceva le fusa.

Blaine sorrise, stringendolo a sé in modo che i loro fianchi combaciassero, e gli baciò dolcemente la testa. Era tutto così semplice. Stringersi e godere silenziosamente l’uno del calore dell’altro, in silenzio, soltanto loro due. Sarebbe rimasto in quel modo per tutta la vita.

Il silenzio momentaneo venne interrotto dai fuochi d’artificio che esplosero nel cielo scuro in lontananza, riempiendolo di rosso, giallo, verde, blu, giochi di luce sempre più grandi ed articolati. Blaine li guardò rapito per un po’, prima di rendersi conto che Kurt aveva alzato il viso dalla sua spalla. Si voltò e si rese conto che lo stava guardando; poteva quasi vedere i fuochi d’artificio riflessi nelle sue pupille nere come il cielo.

“Ti amo” disse Kurt in un sussurro, caricando la frase di così tanta importanza che sembrò quasi come se fosse la prima volta. Blaine sentì le farfalle nello stomaco, proprio come se lo fosse davvero.

“Ti amo anch’io” rispose con un piccolo sorriso, accarezzandogli il fianco verso l’alto e verso il basso con lentezza, quasi pigramente. Kurt si fece più vicino e gli sfiorò le labbra con le sue, un tocco quasi inesistente che fece girare la testa a Blaine, prima che il mondo tornasse al suo posto e il bacio diventasse un vero bacio, pieno e intenso e carico di tante cose, lacrime versate e parole non dette e anni che non avrebbero mai vissuto, concentrati tutti lì, in un istante, in due respiri diventati uno soltanto.

Se solo avesse potuto passare tutti i giorni a non fare altro che baciare Kurt, le cose sarebbero state molto più semplici. Sarebbe stato così facile non pensare a niente, Kurt che lentamente gli avvolgeva il collo con le sue braccia per stuzzicargli i capelli alla base del collo, le sue labbra a poco a poco più audaci, il suo petto che si alzava e si abbassava contro il suo con un lieve affanno mentre il cuore batteva forte e tutto il resto scompariva, il sole, il buio, il dolore, e il loro nemico più grande, il tempo.

“Possiamo… andare nella tua stanza?” disse Blaine quando si separarono, ormai senza fiato, le guance arrossate per il bacio e il freddo e le labbra un po’ più gonfie. Kurt gli sorrise e annuì, prendendolo delicatamente per mano.

Quando lo fecero si chiusero la porta alle spalle, a chiave, e Blaine indietreggiò per guardare Kurt come se lo stesse esaminando con una lente di ingrandimento.

“Cosa c’è?” disse lui, lievemente a disagio. Blaine riportò lo sguardo sul suo viso di scatto, come se lo avesse distratto da un’importante attività che richiedeva tutta la sua attenzione.

“Non muoverti” sussurrò, il miele dei suoi occhi incredibilmente intenso e profondo, e Kurt non potè fare altro che annuire davanti ad uno sguardo del genere. Blaine si avvicinò a lui lentamente, quasi con cautela, come se dovesse toccare un pericoloso animale selvatico. Poi, senza distogliere neanche per un attimo lo sguardo dai suoi occhi, alzò una mano e con il dorso iniziò ad accarezzargli lo zigomo, la guancia, poi la linea della mascella fin sotto al mento, con una dedizione e una cura tali che Kurt potè sentire il cuore esplodergli dal petto. Era come essere sfiorato da una soffice piuma, le punte delle dita di Blaine così lisce e morbide che gli facevano formicolare la pelle.

Quando Blaine gli sfiorò leggermente il naso e poi le labbra, Kurt sospirò e chiuse istintivamente gli occhi, scivolando languidamente in quel tocco impercettibile, i muscoli così rilassati da sembrargli quasi liquidi. Con la stessa mano, Blaine passò all’altro lato del suo viso e gli sfiorò l’orecchio, la tempia e la fronte, spostando qualche ciuffo ribelle di capelli castani.

“Cosa fai?” chiese Kurt a bassa voce, senza aprire gli occhi.

“Shh” lo ammonì dolcemente Blaine, il suo indice ancora una volta sulle sue labbra leggermente dischiuse.

“Non- non parlare” aggiunse, la voce incrinata dall’emozione. Kurt se ne accorse e aprì gli occhi.

“Ehi” sussurrò in tono preoccupato, alzando le mani per cingergli il viso e asciugare una lacrima con il pollice. “Ehi, no, non piangere. Non devi più piangere. Cosa c’è?”

Blaine sbattè le palpebre per ricacciarne indietro altre e riprese ad accarezzargli pigramente la guancia, mentre Kurt continuava a tenere il suo viso tra i palmi e a guardarlo in attesa di una risposta.

“Ho solo bisogno di toccarti” disse dopo una breve pausa, la sua mano che scivolava con aria assente giù lungo il collo di Kurt. “Di- di sentirti sotto le dita. Ho bisogno di sapere che sei qui, adesso.”

Kurt ritrasse lievemente la testa, ma non abbastanza da impedire a Blaine di continuare a sfiorarlo in quel modo così lieve, delicato eppure terribilmente intimo e profondo. Era come se lo stesse memorizzando, creando a poco a poco un ricordo da custodire per il giorno in cui non avrebbe avuto nient’altro che quello, i ricordi. Non seppe cosa dire di fronte ad un pensiero così… grande. Così carico di importanza e di significato. Così non disse niente, limitandosi ad abbassare con lentezza le mani dal viso di Blaine. Lui gli fece un piccolo sorriso, gli occhi lucidi di miele scintillante ma senza più una lacrima, e riprese a tessere con cura il suo ricordo.

Si avvicinò ancora di più a Kurt, i loro nasi che praticamente si sfioravano e i loro sguardi incatenati, e fece scivolare le mani lungo le sue braccia per fargliele alzare sopra la testa. Quando Kurt lo fece, Blaine prese con gentilezza il bordo del suo maglione e glielo tolse, arruffandogli leggermente i capelli nel farlo, prima di lasciarlo cadere sul pavimento.

Kurt avrebbe dovuto sentirsi esposto e vulnerabile, a petto nudo mentre Blaine era del tutto vestito. Ma non lo era affatto, proprio come se fosse sul punto di dipingere una sua tela. Non aveva più nulla da nascondere a Blaine, niente da dimostrare o di cui vergognarsi. Specialmente se lo guardava in quel modo, un misto di segreta commozione, stupore e pura meraviglia nei suoi occhi.

Lasciò che le sue mani gli accarezzassero il collo prima di scivolare sulle spalle e lentamente raggiungere il petto, i palmi piatti sopra la sua pelle liscia come per volerla avvolgere, infondendogli un immenso calore. Quando con il pollice gli sfiorò un capezzolo, mentre l’altra mano gli accarezzava delicatamente le costole e l’addome, Kurt rabbrividì e dischiuse leggermente le labbra, le braccia aderenti ai fianchi e le mani chiuse a pugno, senza sapere a cosa aggrapparsi.

Blaine si accorse dell’improvvisa tensione del suo corpo e del lieve tremolio del suo sguardo, diventato subito più scuro, e continuando a sfiorarlo colmò quei pochi centimetri di distanza e catturò le sue labbra in un bacio, dolce e possessivo insieme, la lingua che cercava la sua per accarezzarla proprio come le sue mani stavano facendo con il resto.

Kurt sospirò nel bacio e si concesse finalmente di alzare le mani e infilarle tra i suoi ricci scuri, attraendolo ancora di più verso di sé mentre il silenzio intorno a loro era interrotto soltanto dai lievi suoni delle loro labbra che si incontravano e si separavano, dai loro respiri sempre più pesanti e, in lontananza, da fuochi d’artificio che ancora squarciavano il cielo per festeggiare il nuovo anno e illuminare con i loro colori tante altre persone che potevano fare progetti e fantasticare sui sogni che avrebbero realizzato.

Ma Kurt non le invidiò, in quel momento. Che si tenessero pure botti ed esplosivi artificiali: lui stava baciando il sole.

 


 

“Sei ancora triste?”

Blaine distolse lo sguardo dal soffitto del letto a baldacchino di Kurt, per girarsi leggermente e guardarlo. Gli sorrise, allungando una mano per accarezzargli una guancia mentre Kurt gli sfiorava pigramente il petto creandovi sopra piccoli cerchi, le gambe nude intrecciate alle sue sotto le lenzuola. Ma non rispose.

“Non voglio che tu sia triste” disse allora Kurt, alzando la testa dal cuscino e poggiandovi sopra un gomito per farsi leva. I suoi occhi azzurri vagarono brevemente sul viso di Blaine, le sue labbra arrossate e lucide e i capelli arruffati, prima di soffermarsi sui suoi e trovarvi dentro un mare dorato di tristezza.

“Tu ce la faresti?” chiese Blaine in un sussurro, spostando la mano per appoggiarla sull’osso sporgente del suo fianco, visibile al di sopra del bordo delle lenzuola. Il suo tono profondamente serio colse Kurt di sorpresa.

“A fare cosa?” chiese.

“A sapere che mi perderai, senza poter fare niente per impedirlo. A guardarmi ogni giorno e contare quelli che mancano.”

Kurt trattenne il fiato e si irrigidì, interrompendo il movimento della sua mano. Blaine se ne accorse e strinse la presa sul suo fianco, come per impedirgli di scappare via o chiudersi in se stesso.

“Non vado da nessuna parte, Kurt” lo rassicurò, capendo esattamente cosa stava pensando. “Non lo farò mai.”

“Potresti farlo” gli rispose Kurt a bassa voce, come se fosse troppo pericoloso dirlo più fermamente e rischiare di renderlo davvero possibile. Ma non era in tono di rimprovero. “Io lo capirei.”

“Non lo farò. Però non hai risposto alla mia domanda” rispose Blaine, la voce stranamente tranquilla e naturale nonostante l’argomento, come se in quel momento stessero parlando di due persone che non erano loro, di due impavidi protagonisti di un libro e di cosa avrebbero fatto al loro posto, se sarebbero stati in grado di essere due grandi eroi o se invece avrebbero preferito tirarsi indietro, essere personaggi sullo sfondo della loro vita e lasciare le scelte difficili e i sacrifici a qualcun altro.

Kurt ci pensò su. Era sempre stato al corrente del suo destino, ormai lo dava quasi per scontato e sinceramente, prima di conoscere Blaine e di ritrovare un equilibrio con suo padre, non gli era neanche pesato più di tanto. Non che volesse morire, ma semplicemente non sentiva di avere un vero motivo per vivere. Ma Blaine aveva cambiato tutto.

E chissà come doveva essere per lui, del tutto impotente, consapevole di poterlo avere soltanto fino ad un certo punto. Kurt stesso a volte si chiedeva come facesse, come trovasse il coraggio di non scappare via, la forza di affrontare ogni giorno insieme a lui pur sapendo di poter avere una vita più semplice, scelta che lui invece non aveva. Ma sapeva la risposta, perché Blaine lo amava e lui poteva capire benissimo cosa volesse dire. Sapeva, con assoluta certezza, che al suo posto non sarebbe scappato, che non lo avrebbe abbandonato e avrebbe goduto del tempo che avevano. Così, alla fine, potè rispondere senza esitare: “Sì. Lo farei per te.”

Blaine fece un piccolo sorriso, come se fosse compiaciuto nello scoprire che Kurt era arrivato alla sua stessa conclusione, mentre la sua mano iniziava a creare piccoli cerchi sul suo fianco con il pollice. Sembrò soffermarsi su quel movimento per qualche secondo, la pelle di Kurt liscia e calda per aver smesso di toccarla da così poco tempo, ma poi lo guardò di nuovo in viso e fece un’altra domanda.

“E dopo?”

Kurt si morse il labbro, abbassando lo sguardo. Ma lo rialzò prontamente, guardando Blaine negli occhi, perché era troppo importante e non poteva fargli capire che, in fondo al suo cuore, non aveva idea di come avrebbe fatto se fosse stato al suo posto. Era quella la questione che li metteva su piani diversi: Kurt non avrebbe avuto un dopo. Non si sarebbe dovuto preoccupare di sentirsi solo, perso e abbandonato.

Blaine, invece, si sarebbe ritrovato con un pugno di mosche in mano, tele incompiute e fotografie e pagine ricoperte di inchiostro ingiallite dal tempo, quello stesso tempo che li stava rincorrendo, anche lì, anche nel suo letto, il loro letto. Non se n’erano accorti perché il suo ticchettare era impercettibile, inconsistente al di sotto dei loro respiri e sussurri, delle loro mani che si cercavano febbrilmente e dei loro corpi intrecciati, ma la lancetta dell’orologio appeso al muro aveva continuato a girare, anche mentre si perdevano l’uno nell’altro. Non si era fermata e non lo avrebbe mai fatto, e Kurt si disse che neanche Blaine avrebbe dovuto. Non avrebbe potuto sopportarlo.

“Continuerei a vivere, perché è ciò che tu vorresti” disse, fissandolo intensamente per infondere importanza alle parole. “Ed è ciò che io voglio, Blaine.”

Blaine trasalì e distolse immediatamente lo sguardo, colpito dall’improvviso cambio di tono e non più protetto da frasi ipotetiche e supposizioni, la realtà che sembrò piombargli addosso con quella semplice frase e scuoterlo violentemente per le spalle, dicendogli che non si trattava di due eroi di un romanzo, ma della sua vita, di ciò che avrebbe fatto, di come avrebbe fatto. E Blaine non lo sapeva.

Sapeva per certo che voleva approfittare del tempo che aveva, ma il dopo era un’incognita che stava cercando in tutti i modi di ignorare. Kurt la faceva fin troppo facile, o forse voleva soltanto rassicurarlo in mancanza di una vera soluzione.

“Promettimelo.”

Scosso dai suoi pensieri, riportò lo sguardo su Kurt, trovandosi di fronte i suoi occhi azzurri più decisi che mai, l’espressione seria macchiata da una punta di speranza e preoccupazione. Aprì la bocca per parlare ma rimase in silenzio, travolto dall’intensità del momento e dal significato profondo della richiesta che Kurt gli stava facendo. Come poteva dire di no a quegli occhi? Ma come poteva promettere una cosa di cui non era certo?

“Io- Kurt-“

Promettimelo” ripetè Kurt, con una fermezza ancora maggiore.

Lo stava guardando in un modo quasi doloroso, scavando e scavando nel profondo dentro di lui per arrivargli fin dentro al cuore e stringere, togliendogli il fiato allo stesso tempo con la bellezza dei suoi occhi di ghiaccio. La penombra della stanza, accentuata dalla piccola luce vicino al davanzale, lo rendeva ancora più pallido e faceva risaltare il bagliore del suo sguardo, come se stesse guardando il tremolante riflesso della luna sulla superficie scura di un mare vasto e calmo, eppure ugualmente minaccioso e pronto a travolgerlo.

“Ma Kurt” rispose con la voce flebile, quasi il lamento di un bambino, una supplica affinchè smettesse di guardarlo in quel modo e smettesse di chiedergli l’impossibile. “Io non posso vivere senza di te.”

E il modo in cui lo disse, così semplice e spontaneo come se fosse la frase più normale del mondo, unito al suo sguardo supplichevole e perso, fece scattare qualcosa in Kurt. Fu come se qualcuno lo avesse appena pugnalato al petto, una lama ben affilata che gli si conficcò nel cuore e lì rimase, girando e girando come per volerlo ulteriormente torturare, farlo gridare di dolore e domandarsi Kurt, guardalo, che cosa hai fatto?

Senza neanche accorgersene esplose, liberando tutte le lacrime accumulate che aveva ricacciato indietro soltanto per non far soffrire Blaine ancora di più in quei giorni, coprendosi il viso con tutte e due le mani e seppellendolo nel cuscino accanto alla spalla di Blaine per soffocare i singhiozzi.

Kurt” gli sentì dire con voce strozzata, prima di sentire una mano sulla sua spalla che lentamente lo fece ruotare, rimuovendo il suo viso dal cuscino.

“Non fare così, ti prego, non-“

“Mi dispiace” singhiozzò Kurt prima di riuscire a controllarsi, le parole che fuoriuscirono affrettate quasi soffocandosi l’una con l’altra, una mano ancora sulla bocca e l’altra stretta alle lenzuola per aggrapparsi a qualcosa mentre il cuore pulsava dolorosamente nel suo petto. “Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace-“

Non sapeva cos’altro dire, poteva soltanto chiedere scusa a Blaine per aver incasinato la sua vita ma non era abbastanza, Kurt lo sapeva.

“Per cosa?” domandò Blaine, mettendosi a sedere e trascinandolo con sé in modo da potergli cingere il viso e costringerlo a guardarlo. Kurt sbattè le palpebre, i singhiozzi che a poco a poco diventarono respiri affannati mentre lo sguardo di Blaine lo tranquillizzava lentamente.

“Per averti fatto questo” rispose, abbassando lo sguardo per piangere ancora, ma Blaine gli alzò il viso e lo tenne stretto, facendo quasi male, per impedirglielo. Lo attrasse a sé e lo baciò con forza, facendo scivolare una mano dietro la sua nuca, e Kurt soppresse un lieve piagnucolio e si lasciò baciare prima di ricambiare, sciogliendosi completamente, un inerme fiocco di neve alla mercè del calore del sole.

Blaine era quasi febbrile, le sue mani che iniziarono a vagare ovunque, tra i capelli di Kurt, sul suo petto, lungo i fianchi, come se volesse fargli capire che era lì e che era quello che voleva, che andava bene così nonostante tutto.

Blaine avrebbe potuto odiare Kurt per averlo messo in una situazione del genere, lasciando che si innamorasse di lui e poi condannandolo in questo modo. E invece non fece che amare Kurt di più. Non fece che continuare a consolarlo quando ne aveva bisogno, ad accorrere al suo fianco quando scoppiava a piangere, a scacciare il dolore e il senso di colpa con le sue mani e le sue labbra proprio come in quel momento, Kurt che lo baciava con altrettanta disperazione semplicemente perché non poteva farne a meno, perché Blaine era ovunque e le sue mani erano così calde, le sue labbra così morbide, e il letto sotto di loro profumava ancora di loro, di sesso e amore e casa.

Quando Blaine si ritrasse, il respiro affannato, gli cinse di nuovo il viso e gli sussurrò sulle labbra: “Sei la cosa più bella che mi sia mai capitata, Kurt. Non dispiacerti per questo. Io non lo farò mai.”

Kurt gli rivolse un accenno di sorriso, avvicinandosi ancora per sfiorargli il naso con il suo e poi baciarlo velocemente sulle labbra. Si distesero insieme, le lenzuola stropicciate e disordinate intorno a loro, e Kurt si voltò in modo che il petto di Blaine aderisse alla sua schiena.

Avevano dormito insieme tutte le notti da quando si era trasferito, e Kurt aveva scoperto che il calore del suo corpo contro la cicatrice non gli provocava fastidio, anzi, era come se la avvolgesse e la proteggesse, un po’ come una morbida coperta.

Aveva anche scoperto che gli piaceva molto quella sensazione, avere qualcuno nel suo letto e sentirne il respiro tranquillo nel buio della notte, percepirne la presenza e l’odore anche la mattina, quando poteva annusare le lenzuola, chiudere gli occhi e sentirlo ancora. Avere Blaine dietro di lui, un braccio intorno alla sua vita quasi con aria protettiva, per tenerlo al sicuro dal mondo, mentre gli stuzzicava i capelli alla base del collo con il naso e lasciava baci leggeri sulla sua pelle fino ad addormentarsi.

Blaine lo strinse a sé, la mano piatta sul suo stomaco e il respiro che gli pizzicava l’orecchio.

“Buonanotte” sussurrò, prima di baciargli il lobo.

“Buonanotte” gli fece eco Kurt, chiudendo gli occhi e sorridendo. Ci fu una breve pausa, e pensò che Blaine si fosse già addormentato, ma poi parlò.

“Kurt?”

“Sì?”

“…te lo prometto.”

 

 

 


 

 

 

 

Nel prossimo capitolo:

Kurt compie diciotto anni, e Blaine decide che è già passato troppo tempo per non essere folli.

 


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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


 

La canzone citata è "Rule The World" dei Take That, ascoltatela al momento giusto, come sempre :)

 

Questo capitolo è dedicato ad E., per ricordarle che, come un fiore può crescere dall'asfalto, si può trovare un raggio di luce anche nel buio più profondo. It gets better <3

 


 

 

 

Ti amerò come le praterie amano la primavera, e vivrò in te la vita di un fiore sotto i raggi del sole.

- Kahlil Gibran

 



Il tempo è una cosa strana. Passa sempre allo stesso modo, cadenzato e regolare, mentre le persone si affannano nel tentativo di rincorrerlo, o di guadagnarne altro, o di fare in modo che passi più lentamente, senza riuscirci mai davvero.

Ma la cosa più strana di tutte, è che a noi sembra passare in modo diverso a seconda di ciò che proviamo, come se la nostra mente, vittima di chissà quale illusione o miraggio, voglia farci credere che sia più veloce o più lento quando semplicemente non lo è. E noi lo sappiamo, ma ci crediamo lo stesso.

Fu così che Blaine credette che il tempo, dall’inizio di quel nuovo anno, avesse iniziato a scorrere più lentamente. O forse si illuse soltanto, perché crederlo rendeva le cose più facili. Ma ecco un’altra cosa strana del tempo: le date.

Quelle serie di numeri, giorno, mese ed anno, che all’improvviso ci danno una pacca sulla spalla e ci dicono Ehi, guarda che il tempo è passato, sei tu che non te ne sei accorto.

E quando la data del diciottesimo compleanno di Kurt iniziò a farsi sempre più vicina, fu come un lento risveglio per Blaine, una sorta di intorpidimento sempre più leggero che a poco a poco lo rese cosciente del fatto che sì, il tempo era passato. In circostanze normali non sarebbe stata una realizzazione sconvolgente, ma in quel caso lo era.

Dopo la fine delle vacanze di Natale era tornato ovviamente alla Dalton, e lui e Kurt erano ricaduti nella loro routine iniziale, cioè le ore di studio passate insieme nella sua stanza intervallate ormai da piacevoli pause passate a fotografare, baciarsi, dipingere, fare l’amore. E Blaine amava quello che avevano, lo amava davvero: il modo in cui ogni giorno, oltre che imparare inutili nozioni da un libro, imparavano qualcosa in più l’uno dell’altro, che fosse un nuovo modo di sorridere, una nuova postura sulla sedia, uno sguardo con una tinta diversa di amore.

I giorni si susseguivano l’uno dopo l’altro, tutti uguali da un certo punto di vista eppure tutti diversi, e ognuno valeva la pena di essere ricordato ed era quello che avrebbe fatto, li avrebbe ricordati e custoditi per sempre. Ma quella data incombente gli fece capire all’improvviso che poteva fare di più. Poteva avere di più. Il tempo lo stava rincorrendo e doveva essere più veloce di lui, per quanto questo potesse significare bruciare delle tappe che altre persone avrebbero assaporato più lentamente, ma Blaine non aveva quel lusso.

Una settimana prima del compleanno, si alzò nel bel mezzo della riunione dei Warblers e chiese l’attenzione dei suoi compagni alzando la mano. Tutti si zittirono improvvisamente, lasciandogli la parola.

“Ho una richiesta da farvi” esordì, guardandosi intorno per coinvolgere tutti con il suo sguardo. Si soffermò brevemente su Sebastian, appoggiato alla parete di fronte a lui con le braccia incrociate al petto e la solita aria svogliata, prima di continuare.

“Tra una settimana è il compleanno di una persona molto importante per me, e ho bisogno che voi mi aiutiate. Vorrei che…” – si fermò, schiarendosi la voce – “…che ci esibissimo fuori dal campus.”

Il vociare che si levò nella stanza era stato altamente previsto: i Warblers non si esibivano in spazi aperti e in generale al di fuori della Dalton da anni ormai. Blaine riuscì a carpire soltanto qualche frase, prima che il membro del consiglio con in mano il martello da giudice riportasse l’ordine.

“Lo so che è una richiesta particolare” continuò, gesticolando con le mani con fare nervoso. “Ma non ve lo chiederei se non ci tenessi. Ve lo chiedo da amico, non da Warbler.”

Gli altri ragazzi smisero di confabulare a quell’affermazione, colpiti dal tono fermo di Blaine e dal suo sguardo speranzoso, carico di affetto. In fondo, pur non avendo potuto condividere con loro la situazione in cui si trovava, quei ragazzi erano come una seconda famiglia per lui. Il dubbio iniziò a serpeggiare, sguardi sempre più convinti che si diffondevano sui volti dei ragazzi in divisa, finchè il Warbler asiatico con il martello in mano, Wes, parlò di nuovo: “Allora votiamo! Chi è a favore alzi la mano!”

Lui stesso la alzò, rivolgendo a Blaine un piccolo sorriso, e a poco a poco la maggior parte dei ragazzi lo fece. Alla fine, anche quelli inizialmente intenzionati a rifiutare alzarono la mano con aria titubante, ultimo fra tutti Sebastian, che sembrava semplicemente in attesa di capire da che parte schierarsi. Era chiaro che Blaine, mesi prima, aveva segretamente goduto di buona parte della sua comprensione e che difficilmente avrebbe potuto averci a che fare ancora. Ma il fatto che stesse mantenendo il suo segreto era abbastanza per Blaine.

“Grazie davvero” disse, sfoggiando un ampio sorriso e mimando un breve inchino prima di tornare a sedersi sul divano di pelle accanto ad un ragazzo dai capelli biondo ossigenato.

“Allora, Blaine, che cosa hai in mente?” chiese Wes.

 


 

“Buon compleanno splendore!” esordì Blaine, entrando dalla porta della stanza di Kurt quasi saltellando. Lo scorse appoggiato al davanzale e gli corse subito incontro, abbracciandolo con forza e dandogli un bacio sulle labbra. Kurt lo baciò di rimando e poi si ritrasse sorridendo.

“Grazie” rispose quasi timidamente, un accenno di rosso sulle guance nel sentire quel nomignolo. Blaine sorrise a sua volta, prima di togliere le braccia da dietro la sua schiena per mostrargli un pacchetto. Era una confezione dalla forma lunga e stretta, come se fosse un fascio di qualcosa, tenuta insieme da un nastro dorato.

“Per te!” esclamò, come se non fosse già abbastanza chiaro. Kurt alzò un sopracciglio e si incrociò le braccia al petto.

“Pensavo che dopo la macchina fotografica i regali fossero finiti! E poi ti avevo detto che il compleanno non è poi così importante per me” disse, il tono quasi di affronto nella sua voce. Ma l’espressione subito più triste di Blaine, quasi imbronciata, lo fece addolcire all’istante. Roteò gli occhi e sospirò, prima di prendere il pacchetto dalle sue mani e aprirlo.

Erano dei pennelli nuovi di zecca, di varie lunghezze e dalle punte tutte diverse, in modo da poter essere utilizzati per grandi macchie di colore, sfumature leggere, puntini impercettibili. Kurt li osservò con attenzione, passandovi sopra le dita di una mano mentre li teneva con l’altra, controllandone la fattura con occhio critico ed esperto.

“Vanno bene, vero?” chiese Blaine, preoccupato di aver sbagliato qualcosa. La pittura non era proprio il suo campo, ma quando li aveva comprati si era fatto consigliare dal titolare del negozio in modo da acquistare pennelli che coprissero le esigenze più svariate. Kurt alzò lo sguardo dal suo regalo e gli sorrise ampiamente, uno di quei sorrisi che Blaine stava segretamente accatastando in una specie di pila immaginaria, un ammasso indistinto nella sua mente a cui poter accedere quando ne aveva bisogno. Quando ne avrebbe avuto bisogno.

Certo che vanno bene! I miei erano tutti rovinati! Grazie, sei fantastico!” esclamò Kurt prima di gettargli le braccia al collo e stringerlo a sé. Blaine sorrise tra i suoi capelli, pregustando silenziosamente il sorriso che Kurt avrebbe fatto quando il vero regalo sarebbe arrivato.

“Però non è giusto, io non ti ho mai regalato nulla. Mi sento un egoista” mormorò Kurt, ritraendosi da lui ma continuando a tenere le braccia incrociate dietro il suo collo. Blaine sorrise e gli sfiorò una guancia con il dorso della mano.

“In realtà, lo hai fatto” sussurrò, la voce improvvisamente dolce che smorzò per un attimo la spensieratezza del momento. Kurt gli rivolse uno sguardo intenso.

“Quando?” chiese, le palpebre che sbattevano leggermente mentre tutto il suo corpo si rilassava sotto quel tocco impercettibile, quello di Blaine che più amava tra tutti perché era in grado di farlo sciogliere con la sua semplicità.

“Continuamente” rispose Blaine, spostando a poco a poco la mano sulle sue labbra per tracciarne il contorno con l’indice. “Ogni volta che sorridi.”

Kurt sorrise d’istinto, gli occhi luccicanti per l’emozione mentre si avvicinava ancora una volta per baciare Blaine sulle labbra.

“Ti amo così tanto” sussurrò quando si separarono.

“Allora chissà quanto mi amerai, dopo” disse Blaine, un improvviso ghigno di soddisfazione sul suo viso mentre cingeva la vita di Kurt con le braccia e gli stuzzicava il naso.

“Dopo cosa?” chiese Kurt alzando un sopracciglio, ma assecondando allo stesso tempo quel piccolo gioco quasi infantile che facevano spesso.

“Lo scoprirai” gli rispose Blaine, staccandosi a malincuore dal calore del suo corpo per prenderlo per mano e iniziare a camminare verso il tavolo intorno al quale studiavano. Kurt fece resistenza, aspettando che si voltasse per rivolgergli un’occhiata sospettosa.

“Cosa stai facendo?” chiese a Blaine.

“Mi siedo per iniziare a studiare! Visto che il compleanno non è poi così importante, non dobbiamo sprecare così un pomeriggio utile, giusto?”

Kurt aprì la bocca per parlare, ma optò semplicemente per roteare gli occhi con aria stizzita e seguirlo al tavolo.

Quando Blaine, dopo più o meno dieci minuti, si scusò perché doveva andare in bagno, la cosa ovviamente non gli sembrò sospetta. Ma quando poi passarono altri dieci minuti, forse anche di più, iniziò a preoccuparsi leggermente e decise di andare a controllare se tutto era a posto. Il bagno era lungo il corridoio, così si alzò dalla sedia, raggiunse la porta della sua stanza e la aprì.

Facendo un passo in avanti, si accorse di aver appena calpestato un bigliettino di carta piegato su se stesso. Con curiosità, si abbassò e lo raccolse da terra per poi aprirlo.

Sempre dritto davanti a te!

Kurt alzò un sopracciglio, rendendosi conto di essere stato palesemente ingannato, e senza dire altro iniziò a percorrere il corridoio fino a raggiungere la porta che dava all’esterno, sul giardino posteriore. Blaine voleva sicuramente condurlo al di sotto della collinetta, la stessa che ora gli oscurava la visuale e che sicuramente nascondeva ciò che aveva architettato, qualunque cosa fosse. Kurt si chiese se fosse in grado di superarsi da solo, di fare qualcosa di ancor più grandioso della sorpresa delle fotografie, un’immagine che non avrebbe mai potuto dimenticare. Ma in fondo non aveva importanza, perché era Blaine, e qualsiasi cosa avrebbe fatto sarebbe andata bene.

Era già buio, ma il sole era appena calato, perciò le forme intorno a lui erano ancora distinguibili; scese lungo il sentiero, sentendo delle voci sommesse sempre più vicine che però, all’improvviso, si zittirono, come se avessero percepito la sua presenza dai passi sulla ghiaia del sentiero. Incuriosito, continuò a camminare finchè non oltrepassò la collina, quella che impediva di vedere il laghetto artificiale da lunghe distanze. Ma non potè vedere il laghetto questa volta, perché disposti a pochi passi dalla sua riva, l’uno accanto all’altro come perfetti soldatini, c’erano dei ragazzi con la stessa divisa della scuola privata di Blaine.

Kurt rimase impietrito dov’era, sconvolto dalla presenza di sconosciuti nel suo giardino, prima di squadrarli uno per uno cercando di trovare nei loro occhi una spiegazione finchè il suo sguardo non si poggiò su Sebastian, terzultimo della fila. Kurt si bloccò e lo fissò in tono severo, già pronto a fare un passo in avanti, quando i ragazzi, come se avessero voluto impedirglielo e tranquillizzarlo sulle loro intenzioni, iniziarono a cantare.

Non era un vero e proprio canto, ma più che altro un bellissimo e armonico coro che si sostituiva chiaramente alle note di una canzone, rendendo superflua la presenza di uno stereo o di qualcuno che suonasse davvero la musica. Le mani dietro la schiena, sembravano molto concentrati in ciò che stavano facendo, ma Kurt continuava a non capire cosa ci facessero lì, chiedendosi se Blaine avesse detto loro della sua situazione, della loro situazione, ma sapeva che Blaine non lo avrebbe mai fatto senza il suo permesso.

Spaesato e confuso, fece un passo indietro senza neanche rendersene conto prima che una voce, la più bella che avesse mai sentito, squarciasse l’aria.

 

You light the skies up above me
A star so bright, you blind me 
Don't close your eyes
Don't fade away, don't fade away, ooh


All’improvviso i Warblers si separarono, dividendosi in due come il mar Rosso e rivelando dietro di loro Blaine, che non indossava più la sua divisa ma si era evidentemente cambiato in poco tempo per mettersi uno smoking nero. Kurt si ritrovò a bocca aperta senza neanche accorgersene, domandandosi come aveva potuto non chiedergli mai di cantare qualcosa per lui.

Il ragazzo gli sorrise ampiamente e i Warblers si unirono a lui per il ritornello.


Yeah you and me we can ride on a star
If you stay with me girl
We can rule the world

Yeah you and me we can light up the sky
If you stay by my side
We can rule the world


Blaine iniziò a camminare verso di lui, fino a fermarsi a pochi passi di distanza e prendere le mani di Kurt nelle sue. Lo guardò dritto negli occhi, Kurt che si perse in quel miele dorato e profondo mentre Blaine cantava per lui dicendogli che ci sarebbe sempre stato.


If walls break down, I will comfort you
If angels cry, oh I'll be there for you
You've saved my soul
Don't leave me now, don't leave me now, ooh

Yeah you and me we can ride on a star
If you stay with me girl
We can rule the world

Yeah you and me, we can light up the sky
If you stay by my side
We can rule the world

Blaine alzò gli occhi verso il cielo e poi li abbassò su di lui, portandosi tutte e due le mani di Kurt sul cuore.


All the stars are coming out tonight
They're lighting up the sky tonight
For you, for you

All the stars are coming out tonight
They're lighting up the sky tonight
For you, for you


La musica, o meglio quell’insieme perfetto di voci armoniche che faceva da sottofondo a quella di Blaine, intensa, profonda e così piena di calore da arrivare fin dentro al cuore di Kurt, cessò con una sorta di delicatezza, disperdendosi nell’aria fredda che avevano intorno. Come se sapessero esattamente cosa fare – sicuramente era così, pensò Kurt – i Warblers si misero in fila indiana e lentamente si apprestarono a lasciare il giardino, istruiti su come fare il giro della casa senza entrarci, per lasciarli da soli.

Kurt avrebbe voluto ringraziarli, rivolgere loro un sorriso sincero ora che sapeva come fare, ma non riusciva a smettere di guardare Blaine e i suoi occhi che sembravano luccicare nel buio più che mai. Con le loro mani ancora strette al petto, lo stava guardando con una sorta di esitazione negli occhi, in attesa che i ragazzi fossero lontani; qualcosa di segreto e importante che Kurt poteva quasi percepire sulle sue labbra, in attesa di poterlo udire davvero.

“Blaine, è-“

“Shh” lo zittì dolcemente Blaine, e Kurt avvertì una sorta di tremore nel suo sguardo e nella sua voce. “Aspetta.”

Lo vide inspirare profondamente e poi rilasciare l’aria, i suoi muscoli leggermente più rilassati ma la presa sulle sue mani più salda. Lo guardò di nuovo, in un modo in cui non lo aveva mai guardato prima. Erano quelli i momenti in cui Kurt si innamorava da capo: quando Blaine faceva o diceva qualcosa che gli faceva scoprire un nuovo aspetto di lui, e scoprire allo stesso tempo che amava quell’aspetto proprio come tutto il resto. Quando i suoi occhi brillavano di un bagliore diverso, quando il suo sorriso si distendeva sul suo volto in modo più ampio del normale, quando lo toccava con un insieme diverso di amore, desiderio e disperazione.

Era come se Blaine fosse un prisma di vetro: pur avendo un numero ben preciso di lati, di espressioni, qualità, difetti, modi di comportarsi, in qualche modo la luce riusciva a farli apparire sempre diversi creando giochi di colori e sfaccettature meravigliose. E Kurt aveva tutta la sua vita, anche se breve, per scoprirle.

“Kurt” sussurrò Blaine, la voce come trattenuta insieme ad un turbine di emozioni che Kurt poteva vedere nei suoi occhi ma non poteva realmente capire. Lo fece, però, quando Blaine lasciò andare le sue mani per stringerne una sola e si inginocchiò davanti a lui. Il suo cuore mancò un battito e sgranò gli occhi, improvvisamente lucidi.

“Lo so che siamo giovani e che non stiamo insieme da molto tempo” esordì Blaine, guardandolo dal basso verso l’alto mentre gli accarezzava il dorso della mano con il pollice, forse cercando di calmare se stesso più che Kurt con quel gesto. “Ma io non posso più aspettare, Kurt. So che è stupido, ma questa ricorrenza mi ha fatto capire che il tempo sta passando e io non posso più aspettare. Voglio darti tutto, tutto di me, voglio addormentarmi stringendoti al mio petto e risvegliarmi al tuo fianco per portarti la colazione a letto, voglio- voglio che tu sia mio, mio davvero e per sempre. Te l’ho detto anche nella canzone, tu- tu illumini il cielo per me. E insieme possiamo superare tutto, possiamo dimenticare tutto, devi solo permettermelo.”

La realizzazione ormai abbastanza chiara si riversò ad ondate sul corpo di Kurt insieme alle parole di Blaine, rendendogli impossibile non piangere silenziosamente nel buio. Blaine gli sorrise, anche lui visibilmente emozionato, e gli lasciò la mano per infilare la sua in una tasca interna della giacca. Kurt trattenne il fiato, sorprendendosi di non essere già svenuto a quel punto, specialmente quando Blaine tirò fuori la mano per mostrargli una piccola scatola blu.

“Sposami, Kurt.”

Sentirglielo dire fu come morire e rinascere nell’arco di un secondo. Come se tutto intorno a lui fosse improvvisamente nuovo, diverso, migliore, come aprire gli occhi per la prima volta e ritrovarsi davanti un mondo sconosciuto, terrificante e bellissimo allo stesso tempo. Milioni di possibilità, di attimi appartenenti ad un futuro che pensava di non poter mai vivere, si affollarono nella sua mente, abbattendosi su di lui come onde su una scogliera e facendolo vacillare sulle sue gambe.

Sposami. Sposami. Sposami.

Persino il modo in cui lo disse, riuscendo a caricare di così tanti significati una singola parola, gli tolse il respiro. Blaine continuava a guardarlo con aria speranzosa, la scatola aperta per rivelare un anello semplice ed elegante, con un singolo diamante incastonato sopra, ma era come se Kurt non riuscisse a focalizzare la vista su una singola cosa senza sentire la mente annebbiata, i suoni della notte praticamente inesistenti intorno a loro e il vento che soffiava invano sulla sua pelle e tra i suoi capelli, ma Kurt non poteva sentirlo perché non era più lì.

Era in un altro mondo, fluttuando con il pensiero tra immagini di loro due insieme su un altare, Blaine vestito come in quel momento che lo aspettava alla fine di una navata, o di un sentiero lungo un prato verde con la luce della luna ad accentuare i lineamenti già perfetti del suo viso, uno stupido sorriso sul volto mentre gli tendeva una mano e i suoi occhi che luccicavano in un altro modo ancora.

Tutte quelle immagini che un tempo avevano animato i suoi incubi perché insieme a Blaine c’era un’altra persona, senza volto e senza nome ma non lui, e in quei sogni Blaine era illuminato dalla luce del sole e piccole gocce di sudore gli imperlavano la fronte e i ricci neri. Ma era come se avessero perso significato, perché ora che Kurt riusciva a immaginarsi lì, dove non si era mai concesso di immaginarsi, era come se tutto avesse acquistato improvvisamente senso.

Blaine avrebbe sofferto quando lui non ci sarebbe più stato, era un dato di fatto e nessuno poteva cambiarlo. Ma Kurt si rese conto di aver passato fin troppo tempo cercando di allontanarlo, di fare ciò che era giusto per lui, senza tenere conto di ciò che lui voleva e ciò che Blaine voleva era Kurt, era sposare Kurt. Forse avrebbe potuto fare in modo che gli anni che avevano fossero abbastanza per renderlo felice una vita intera. Sperò di riuscirci, perché non aveva comunque scelta ormai.

Era così che doveva essere. Era sempre stato così.

“Sì” sussurrò, annuendo vigorosamente quando si rese conto che la parola era quasi impossibile da sentire, come se anche solo parlare fosse troppo difficile in quel momento. “Sì, sì, -“

Blaine lo interruppe alzandosi di scatto e gettandogli le braccia al collo, unendo le loro labbra in un bacio dolce ed impetuoso insieme, Kurt che si aggrappò alla sua giacca per non cadere all’indietro nella foga del momento mentre Blaine spostava lievemente il viso per lasciargli baci dappertutto, all’angolo delle labbra, sulla guancia, la mascella, il lobo dell’orecchio.

Si ritrasse e gli sorrise, lacrime fresche che si addensavano nei suoi occhi mentre qualcuna aveva già iniziato a cadere, e poi sciolse l’abbraccio per prendere l’anello dalla scatola. Kurt deglutì, alzando il braccio tra di loro per permettergli di infilarglielo al dito. All’improvviso divenne tutto più solenne, più reale, un patto suggellato da quel gesto così semplice eppure così carico di importanza.

Blaine gli mise l’anello e poi gli prese la mano per baciarlo, strofinando lievemente il naso sulle nocche e girandola per lasciare piccoli baci sul suo palmo. Se la portò di nuovo sul cuore, stringendola con forza e accarezzando leggermente l’anello con le dita.

“Non hai idea di quanto io ti ami in questo momento” disse, avvicinandosi di nuovo in modo che i loro visi potessero quasi toccarsi. Kurt gli sorrise.

“Credimi Blaine, ce l’ho eccome.”

 

 

 


 

 

 

 

 

 

Qualcuno ci era arrivato o ci aveva sperato, ma spero comunque di aver piacevolmente sorpreso qualcuno di voi :)

Visto? So anche essere una brava personcina in fondo **

 

Ringrazio tutti quelli che seguono e in particolare la mia cara compagna di angst, Noth, per questo disegno! 


Nel prossimo capitolo:

Quando gli Anderson scoprono che Blaine vuole sposare un ragazzo allergico al sole, non la prendono esattamente come avrebbe voluto.

 


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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


 

 

Una vita senza amore è come un giardino senza sole e coi fiori appassiti.

- Oscar Wilde 

 



La cosa più bella, forse quella che più di tutte rese speciale l’amore che Kurt e Blaine condivisero, fu il loro modo di amarsi senza pensare alle conseguenze. Probabilmente fu a causa di tutto il tempo passato a farlo, nelle prime settimane della loro conoscenza, ma mi piace pensare che sia stato naturale come il sole che sorge al mattino e tramonta di sera, come le stelle lontane che brillano nel cielo notturno. Mi piace pensare che si amassero troppo, per preoccuparsi del resto del mondo.

Il problema fu però che il resto del mondo si preoccupò di loro.

 


 

“Come sarebbe a dire che ti sposi?” tuonò il padre di Blaine, squarciando il silenzio di sconcerto inevitabilmente successivo alla sua improvvisa dichiarazione, mentre erano intenti a cenare. Durante il weekend, infatti, spesso Blaine tornava a casa e quel giorno decise di approfittarne per rendere ufficiale la cosa.

“Lo so che è assurdo” rispose, il tono incredibilmente pacato. Era preparato a quel tipo di reazione, era più che normale vista la sua età e soprattutto il fatto che non avesse mai parlato di Kurt in famiglia, a causa del voto di riservatezza che aveva sempre rispettato e che Kurt gli aveva permesso di infrangere per spiegare pienamente ai suoi genitori come stessero le cose. “So di non avervi mai parlato di un ragazzo, ma non potevo. Per via della sua… condizione.”

I suoi genitori si guardarono per un attimo e poi si girarono nuovamente, aspettando che continuasse.

“Il suo nome è Kurt” disse Blaine, improvvisamente nervoso. Non aveva mai raccontato ad una terza persona tutto quello che era successo, e si rese conto per la prima volta di quanto fosse difficile far capire a qualcun altro quello che provava, terrorizzato all’idea che forse non avrebbero mai capito. Era affrettato, era folle. Deglutì sonoramente prima di continuare.

“Gli ho fatto da insegnante privato sin dall’inizio dell’anno, mettendo da parte qualche soldo, perché lui non… non può uscire di casa.”

Inspirò e si passò una mano tra i capelli, dimenticandosi del gel e guardando con troppa insistenza le posate a lato del suo piatto per non incrociare gli sguardi che lo stavano fissando.

“Lui- lui non può stare sotto il sole. Ha una malattia molto rara e- e-“

Sentì una mano calda poggiarsi all’improvviso sulla sua, e alzò lo sguardo per incontrare gli occhi color cioccolato di sua sorella, ereditati dal loro padre mentre i suoi ricordavano quelli più chiari della madre, che gli aveva anche trasmesso i lineamenti vagamente asiatici. Rachel gli strinse la mano e gli sorrise, invitandolo silenziosamente a trovare la forza di continuare a parlare. Blaine strinse di rimando e tornò a guardare i suoi genitori.

“Non vivrà oltre i trent’anni.”

La realizzazione lo colpì come se fosse la prima volta, e all’improvviso si rese conto di quanto avrebbe voluto le braccia di sua sorella intorno a sé mentre piangeva, invece che la mano impersonale e vagamente rassicurante di Sebastian. Si schiarì la gola. “Ne ha già compiuti diciotto e io non posso più aspettare, è rimasto troppo poco tempo. So che tutto questo non ha senso per voi, ma vi prego, cercate di capirlo.”

I suoi genitori erano visibilmente scossi da tutte quelle informazioni, ma Blaine fece poco caso alle loro espressioni quando Rachel si alzò dalla sua sedia senza dire una parola e lo abbracciò, facendolo quasi cadere all’indietro.

“Avresti dovuto dirmelo” gli sussurrò all’orecchio, mentre Blaine le stringeva le braccia intorno e lasciava che qualche lacrima segreta cadesse dai suoi occhi. “Ti sarei stata accanto, sai che lo avrei fatto.”

“Mi dispiace” quasi singhiozzò Blaine, il viso tra i suoi capelli castani. “Kurt non voleva che nessuno sapesse, e io- io l’avevo promesso, Rachel. Lo amo così tanto, così tanto.”

Rachel si ritrasse e gli asciugò le lacrime con i pollici, prima di accarezzargli la guancia e tornare a sedersi, i loro genitori ancora in preda ad un pesante e quasi inquietante silenzio mentre osservavano la scena, intenti a metabolizzare. Blaine tirò su col naso e cercò di ricomporsi, in attesa di sentir dire loro qualcosa.

“Blaine” esordì questa volta sua madre, la voce visibilmente scossa. “Ti rendi conto della decisione che stai prendendo?”

“Sì” rispose lui con fermezza, raddrizzando la schiena. “So che sarà dura, e so che non è questo che volevate per me, ma io non ho scelta, mamma. E’ questo che voglio, e sono felice, davvero. Vi prego di accettarlo.”

Rose Anderson si voltò verso il marito, che aveva lo sguardo basso e i pugni serrati sotto il tavolo, ed inspirò profondamente prima di guardare di nuovo il figlio.

“Ma non lo sarai dopo” disse in tono sicuro, dolce eppure tagliente come un coltello nel cuore per Blaine. Lui chiuse gli occhi per un attimo, prima di rispondere.

“Gli ho promesso che lo sarò” rispose con la voce tremante, Rachel che allungò subito la mano per stringere di nuovo la sua sotto il tavolo. Per un attimo ci fu solo silenzio.

No” esordì all’improvviso suo padre, Greg, facendo voltare tutti verso di lui.

“Come?” chiese Blaine, la voce flebile. Vide suo padre inspirare, cercando di parlare con relativa calma, le parole che fuoriuscirono ben scandite e con una sorta di metodica freddezza, pur nascondendo l’affetto che l’uomo provava ma non sapeva bene come mostrare.

“Ho sempre cercato di accettarti per quello che sei, Blaine, e sai che non è stato facile per me a causa della mentalità con cui sono stato educato. Ma l’ho fatto” disse, fissandolo intensamente. “Perché sei mio figlio e io non posso cambiarti, non è mio dovere ed è giusto che sia così. Ma questo… Blaine, è una responsabilità troppo grande e tu la stai prendendo sotto gamba come se niente fosse. Ci si sposa per amore, non perché si ha poco tempo a disposizione, e tu pensi di doverlo fare ma in fondo conosci davvero questo ragazzo? Da quanto state insieme, qualche mese? Mi dispiace molto per lui, dico davvero, ma non ti permetterò di buttare all’aria la tua vita soltanto perché provi pena per la sua situazione e pensi di doverlo rendere felice finchè puoi.”

Blaine scattò in piedi come una molla, rischiando di far capovolgere la sedia dietro di lui e staccandosi dalla mano di Rachel nel farlo, la quale sgranò gli occhi nella sua direzione.

“Io non provo pena per lui!” gridò, alzando le braccia in segno di frustrazione. “Cosa ne sai tu? Cosa ne sai di quello che abbiamo passato, di quante volte ha cercato di lasciarmi perché voleva che io fossi felice, di quante volte abbiamo pianto per tutto quello che non faremo mai? Cosa ne sai tu di quanto lo amo?”

“Non osare alzare la voce con me, Blaine!” gridò suo padre di rimando, alzandosi in piedi. Rachel e sua madre si guardarono tra loro, non sapendo come comportarsi mentre i due uomini della casa continuavano il loro scontro. “Vieni qui, e di punto in bianco non solo ci dici che hai frequentato un ragazzo da mesi a nostra insaputa, ma che lo vuoi sposare! E per cosa? Per poi rimanere da solo e soffrire per il resto della tua vita? Ne vale davvero la pena, Blaine?”

“Sì! Sì che ne vale la pena! Kurt ne vale la pena! E se tu non capisci non mi importa, lo farò lo stesso!” rispose Blaine, voltandosi per lasciare la stanza. Rachel lo afferrò per un braccio e gli rivolse uno sguardo supplichevole, invitandolo a restare dov’era. Blaine la guardò per un attimo con aria incerta, ma decise di accontentarla, rimanendo in piedi accanto alla sua sedia. Si strinse il naso tra le dita ed inspirò, cercando di calmarsi.

“Blaine, tuo padre vuole solo che tu sia felice” disse a bassa voce sua madre, che intanto aveva fatto sedere Greg e gli stava accarezzando la schiena, suo padre con i gomiti sul tavolo e la testa tra le mani.

“Allora lasciatemelo fare. E’ questo che mi renderà felice” rispose Blaine. Vide suo padre inspirare prima di alzare la testa per guardarlo, uno sguardo risoluto nei suoi occhi e un accenno di dolore e frustrazione.

“Purtroppo hai preso gli occhi di tua madre, ma per il resto sei come me. Sei testardo. So già che non riuscirò a farti cambiare idea.”

Blaine si addolcì leggermente, anche se aveva ancora i pugni serrati mentre Rachel lo teneva per un braccio, pronta a trattenerlo in qualsiasi momento.

“Ma rifletti almeno sul tuo futuro, Blaine. Sul tuo sogno di andare a New York, la domanda alla NYADA… E se davvero questo ragazzo ti ama, non vorrà certo che butti tutto all’aria per lui.”

“Ma passerebbero anni, papà. Io- io non posso” rispose, le lacrime che rischiavano di nuovo di fare capolino all’idea del tempo che avrebbe sprecato.

“Mi dispiace. Ma almeno questo ce lo devi, Blaine; altri al posto nostro avrebbero reagito molto peggio di così e tu lo sai. Va al college, e se quando tornerai vorrai ancora sposare Kurt, ce lo farai conoscere e lo sposerai e io sarò lì per te. Ma non adesso.”

Blaine annuì silenziosamente, cercando di ribattere in qualche modo ma senza trovare nient'altro da poter dire, perchè era tutto lì. Tutto l'amore che provava, il tempo che gli serviva, tutto era già lì sul tavolo in bella mostra perchè tutti lo vedessero eppure non era abbastanza, non andava bene.

“Ne parlerò con Kurt” fu tutto ciò che riuscì a dire.

 


 

Kurt ascoltò attentamente ciò che i genitori di Blaine avevano detto, e quando il racconto finì rimase per qualche attimo a riflettere, lo sguardo basso mentre stavano seduti insieme sul letto con le schiene appoggiate ai cuscini ammassati contro la testata.

“Forse ha ragione tuo padre” disse infine, alzando lo sguardo. Blaine sembrò sorpreso dalla sua risposta.

“Ma Kurt, passeranno anni” rispose, prendendogli la mano sopra le lenzuola quando vide il suo sguardo farsi più triste.

“Lo so” rispose Kurt, stringendogliela. “Ma è giusto che tu vada a New York, che faccia ciò che avevi programmato di fare nella tua vita, Blaine. E poi pensala in questo modo: se ci sposassimo adesso, poi dovremmo comunque separarci se andrai e sarà più doloroso. Non è meglio aspettare, così da non doverci separare più?”

Blaine sembrò riflessivo per un attimo, poi alzò lo sguardo e lo fissò intensamente.

“Potresti venire con me” sussurrò. Kurt deglutì ed inspirò.

“Blaine, c’è mio padre qui” disse, la voce incerta e quasi tremante. “Non posso lasciarlo, non quando ho così poco tempo, lui-“

“Scusami” si affrettò a dire Blaine, stringendogli con più forza la mano per comunicargli che aveva capito. “Hai ragione, scusami.”

Troppo spesso dimenticava che non c’era solo lui nella vita di Kurt. Suo padre aveva perso una moglie per lo stesso motivo e nessuno più di lui aveva il diritto di stare al fianco di Kurt fin quando avrebbe potuto. Anche Burt stava rincorrendo il tempo, e Blaine non poteva toglierne a lui per guadagnarlo, sarebbe stato tempo rubato e non poteva farlo, non se lo sarebbe mai perdonato.

Burt aveva preso molto bene la notizia, era felice per suo figlio e sembrava amare Blaine quasi come se lo fosse anche lui, ma aveva malamente nascosto l’accenno di tristezza nei suoi occhi all’idea che l’avrebbe visto andare via. Non lontano, visto che Kurt poteva godere soltanto del beneficio della notte per spostarsi, ma sarebbe stato comunque un grande cambiamento. In realtà, era un argomento che non avevano ancora trattato e non era chiaro come avrebbero fatto esattamente, visto che la data della cerimonia in sé sembrava già implicare abbastanza problemi.

“Va al college, Blaine. Diventa la persona che sei destinato a diventare” gli disse Kurt, un piccolo sorriso che però nascondeva tristezza e rassegnazione. Blaine alzò una mano per spostargli un ciuffo di capelli dalla fronte e poi gli accarezzò il viso, lasciandola appoggiata alla sua guancia.

“E tu cosa farai?”

“Il college non è mai stata un’opzione per me. Finita la scuola, pensavo di rendere la mia passione un lavoro vero e proprio e magari vendere online i miei quadri, sarebbe bello. Ma prima di incontrarti non avevo altro, Blaine, non avevo niente che desiderassi davvero, niente per cui aspettare. Ora non è più così. Rimarrò qui, ad aspettare te.”

Blaine gli sorrise e si avvicinò per baciarlo, poi si ritrasse leggermente.

“Sai che tornerò, vero? Non voglio che tu abbia dei dubbi su questo. Voglio sposarti” sussurrò a pochi centimetri di distanza dal suo viso. Kurt annuì e inclinò la testa, come per volersi crogiolare nel calore del suo palmo ancora premuto contro la sua guancia.

“Lo so” disse semplicemente, prima di scivolare lungo il letto per distendersi e appoggiare la testa al petto di Blaine. Lui allungò un braccio per avvolgergli le spalle e lasciò che si accoccolasse contro di lui, per poi iniziare ad accarezzargli i capelli con aria assente. Kurt gli avvolse la vita con un braccio e chiuse gli occhi, ascoltando il battito del suo cuore e il suo respiro regolare, perdendosi nel suo effetto tranquillizzante.

Si erano scambiati una promessa prima ancora di pensare a cosa comportasse, di valutare complicazioni e priorità, ma anche adesso che tutte queste cose si erano abbattute su di loro, cercando di separarli, in qualche modo andava bene lo stesso. Blaine avrebbe volentieri buttato quei tre anni di college dalla finestra, ma sapeva anche che non poteva farlo, che soltanto dopo essersi completamente realizzato avrebbe potuto dare inizio alla loro vera vita insieme, da uomo adulto e non da adolescente irresponsabile e istintivo che aveva mollato tutto per amore.

Avrebbe mollato tutto per amore, era vero. Ma non significava che dovesse farlo per forza, indotto dalla fretta. Ne aveva ancora, sentiva ancora i secondi passare come se ticchettassero sulla sua pelle, trasaliva ancora quando si rendeva conto che era passato un pomeriggio intero mentre per lui erano sembrate solo poche ore, viveva ancora con l’ansia di rendere ogni momento degno di essere ricordato e probabilmente quello non sarebbe mai cambiato.

Ma era come se una sorta di silenziosa consapevolezza si fosse instaurata tra di loro, la convinzione radicata che in fondo, anche essendo lontani e senza un pezzo di carta a legarli, si appartenevano.

E non avrebbero mai smesso.

 


 

Una volta finita la scuola, l’estate sembrò passare letteralmente in un secondo. A causa delle notti molto brevi erano costretti a stare in casa per la maggior parte del tempo, ma trovarono il modo di non annoiarsi mai. Guardarono una quantità di film infinita, accoccolati insieme sul divano davanti ad un enorme televisore al plasma a mangiare gelato; fecero i giochi più stupidi e infantili, nascondino, caccia al tesoro, e un giorno finirono persino per rincorrersi per tutta la casa senza sosta, Flint che urlava più o meno ogni dieci minuti quando sentiva una sedia rovesciarsi miseramente al loro passaggio o un soprammobile cadere per la foga con cui cercavano di sfuggire l’uno all’altro, scoppiando a ridere quando si acchiappavano e finendo distesi a terra senza riuscire a smettere.

Insieme composero canzoni, scrissero storie d’amore discutendo animatamente sulla trama, sul destino del loro eroe, per decidere se farlo trionfare o meno; dipinsero, Kurt che a poco a poco istruì Blaine su come fare rendendolo un pittore mediamente bravo, anche se continuava a non sembrare il suo passatempo preferito; sicuramente non quanto lo era fotografare Kurt, tanto che dovette comprare un enorme album fotografico che a poco a poco si riempì. Per fortuna rimasero delle pagine vuote, pronte a contenere, un giorno, il loro futuro.

L’ultima notte prima della partenza di Blaine per New York, fecero un picnic accanto alla riva del lago e poi fecero l’amore sotto le stelle, la brezza leggera dell’estate ormai al termine che muoveva l’erba intorno a loro e increspava l’acqua del laghetto, così come il vento dell’autunno aveva soffiato tra i capelli di Kurt tanto tempo prima, quando Blaine lo aveva conosciuto, e quando gli aveva detto che lo amava.

Poteva sembrare un addio ma non lo era, entrambi lo sapevano. La sensazione amara di doversi separare per molto tempo venne momentaneamente cancellata dalla naturalezza con la quale riuscivano a perdersi l’uno nell’altro senza pensare a niente.

Non era un addio, era un arrivederci.

“E’ una fortuna che tuo padre vada a dormire presto” sussurrò Blaine, il petto aderente alla schiena di Kurt e le braccia avvolte intorno alla sua vita, mentre stavano in piedi insieme dentro l’acqua bassa e fresca dopo essersi lavati, Kurt con gli occhi chiusi mentre Blaine strofinava pigramente il naso alla base del suo collo.

“Già” rispose Kurt, le mani intente a creare piccoli cerchi concentrici sulla superficie dell’acqua mentre Blaine iniziava a baciarlo dietro l’orecchio, azzardando un morso di tanto in tanto.

Blaine” sospirò, un brivido di piacere che gli percorse la spina dorsale.

“Cosa?” chiese lui con aria innocente, spostando un braccio per tenergli un fianco mentre con l’altra mano gli accarezzava il petto, scendendo lentamente verso il basso lungo l'addome per poi risalire all’ultimo secondo, le dita ancora più morbide dopo essere state immerse nell’acqua limpida sulla quale si riflettevano le stelle del cielo.

Kurt voltò inaspettatamente il viso e gli afferrò la nuca con una mano per baciarlo, sospirando sulle sue labbra e boccheggiando quando Blaine lo prese per i fianchi e lo fece voltare del tutto, i loro corpi ancora una volta perfettamente aderenti l’uno all’altro.

“Sei bellissimo” sussurrò Blaine sulle sue labbra, i suoi occhi così scuri da confondersi con il buio della notte mentre accarezzava i fianchi di Kurt, un misto di dolcezza e lussuria. Kurt sorrise quasi imbarazzato, perché anche se Blaine glielo aveva detto almeno cento volte era come se non potesse mai abituarsi a sentirglielo dire, a sapere che parlava di lui.

“Ti amo” gli disse, cingendogli il collo con le braccia e facendo così sfregare leggermente i loro corpi, generando un sospiro strozzato da parte di entrambi che si espanse nel silenzio come quei cerchi sull’acqua che a poco a poco sparivano senza lasciare traccia.

“Ti amo anch’io. E ti sposerò un giorno” disse Blaine, perché non voleva partire senza ribadire per l’ennesima volta che niente gli avrebbe fatto cambiare idea, neanche la distanza. Kurt sorrise e lo baciò, e il resto si perse ancora una volta in baci, gemiti, mani e sospiri mentre le stelle stavano ferme a guardarli, rimpiangendo di non essere in grado di amare.

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

Ebbene sì, Anderberry siblings! Questa non ve l'aspettavate eh? :D

La cosa non era prevista quando ho iniziato la storia, mi è venuta in mente proprio quando ho iniziato a scrivere il capitolo sentendo la mancanza di qualcuno che confortasse Blaine in famiglia ;__; ovviamente all'epoca non si sapeva nemmeno che avrebbe avuto un fratello in Glee, e non mi andava di cambiare le cose in corso d'opera!

Riguardo al matrimonio, forse sarete un po' delusi dalla piega delle cose, ma dovete solo avere pazienza, ci sarà! E per chi me lo ha chiesto nelle recensioni: lo descriverò. OVVIO che lo farò. Un Klaine Wedding non si nega mai a nessuno.

Il ringraziamento speciale di oggi va a Matilde Angolini, che ha modificato questa fanart ispirandosi alla mia storia. Grazie ancora :)




Nel prossimo capitolo:

La permanenza a New York passa letteralmente in un secondo, e senza neanche accorgersene Blaine è già pronto a sposare Kurt.

 


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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


 

 

Ogni sera guardo il sole al tramonto e cerco di rapirne l'ultimo calore dopo il suo lungo viaggio, per mandarlo dal mio cuore al tuo.

- dal film “Pearl Harbor”

 

 


Stranamente, fu più facile di quanto pensassero. Usando Skype potevano “vedersi” quasi tutti i giorni, quando Blaine non era impegnato con l’università, e fece anche in modo di tornare sempre almeno una volta al mese per un weekend, per le festività e soprattutto i compleanni di Kurt, in modo da poterli festeggiare insieme.

La distanza li mise a dura prova, è vero, ma loro la superarono brillantemente, raccontandosi ogni sera le loro giornate; Kurt che mostrava a Blaine i suoi quadri prima di metterli online – si scoprì che poteva diventare un artista molto apprezzato, forse aiutato anche dall’aura di mistero – e Blaine che farfugliava eccitato su tutte le cose nuove che stava imparando, progetti teatrali e musicali che doveva consegnare, e ovviamente la bellezza di New York.

Ma nonostante tutte le cose meravigliose che Blaine vide e tutte le esperienze uniche che potè vivere nella Grande Mela, il desiderio di tornare da Kurt non lo abbandonò mai. Anche se avesse comportato il trasferimento in casa sua, con suo padre, non gli importava. Voleva una vera vita matrimoniale per loro, ma sapeva di non poter chiedere a Kurt di abbandonarlo, perché era l’unica persona al mondo che era rimasta a Burt.

Una sera, però, fu Kurt stesso a tirare fuori l’argomento con una proposta che Blaine non si sarebbe mai aspettato.

“Blaine, mi stavo chiedendo… ti piace molto il lago che c’è in giardino, non è vero?” chiese con una certa nonchalance attraverso la telecamera di Skype, il computer portatile ai piedi del letto mentre vi stava disteso sopra sullo stomaco, il mento appoggiato ai palmi delle mani.

“Sì, certo” rispose Blaine dall’altro lato, seduto alla scrivania dell’appartamento in affitto che i suoi genitori avevano trovato per lui. “Perché?”

Vide Kurt esitare per un attimo, distogliendo lo sguardo, ma alla fine parlò.

“Ti andrebbe di viverci accanto?”

“In che senso?” chiese Blaine, alzando un sopracciglio.

“Sai che non voglio lasciare mio padre da solo” disse Kurt, aspettando che Blaine annuisse prima di continuare. “Ma farti venire a vivere qui, beh… so che non sarebbe esattamente come vorresti. Così ho pensato che potremmo trovare questa via di mezzo. E’ stato mio padre a proporlo, in realtà: dice che potrebbe far costruire una specie di chalet accanto al lago, e magari recintare quella parte di giardino, sarebbe come… come se diventassimo i suoi nuovi vicini. Ti- ti piacerebbe?”

Blaine sbattè le palpebre, ripetendosi nella mente tutto ciò che aveva sentito. Immaginò una piccola casa di legno e pietra con un portico sotto il quale prendere il fresco, l’acqua del lago dentro il quale avevano fatto l’amore l’ultima volta che si increspava mossa dal vento, magari una panchina sulla riva sulla quale sedersi e una staccionata bianca con una buca delle lettere.

“Kurt, è- è perfetto” disse eccitato, sorridendo ampiamente.

“Davvero?” chiese Kurt con aria speranzosa, e Blaine pensò che in quel momento sembrasse un bambino, la testa inclinata da un lato sopra i palmi e i piedi che sforbiciavano nell’aria al di là della sua testa, un sorriso genuino sul volto che illuminava il piccolo quadrato dentro il quale poteva vederlo in quel momento. Desiderò ardentemente baciarlo.

“Sì, davvero” rispose. “Non posso credere che stiamo parlando della nostra casa. Non è assurdo?”

“Già” disse Kurt a voce bassa, un improvviso accenno di esitazione e fragilità nel suo sguardo.

“Cosa c’è?” chiese subito Blaine, avvicinandosi d’istinto allo schermo come se potesse davvero toccare il viso di Kurt facendolo. Gli mancava così tanto la sua pelle.

Kurt si spostò per mettersi a sedere sul suo letto, incrociando le gambe a mo’ di indiano e giocherellando distrattamente con il bordo del suo maglione prima di rispondere.

“Sei ancora sicuro di volerlo fare?” domandò in sussurro, quasi impossibile da sentire attraverso il microfono. Blaine ritrasse la testa, sorpreso.

“Certo. Perché me lo chiedi?”

“Pensavo che forse… dopo aver vissuto per un po’ a New York e, non so, aver conosciuto persone e visto cose, tu- tu potessi cambiare idea” disse Kurt, lo sguardo basso sulle sue gambe incrociate. Blaine rimpianse con tutto se stesso di non potergli alzare il mento con due dita e costringerlo a guardarlo negli occhi. Non potendolo fare, cercò di infondere tutta la sicurezza possibile nelle sue parole.

“Kurt, quando sono partito ti ho detto che sarei tornato, che non dovevi avere dubbi su questo. Perché non mi credi?”

Kurt alzò finalmente lo sguardo e si morse il labbro.

“Perché lì è tutto così diverso, così bello, e si possono incontrare tante persone e-“

Kurt.

Kurt interruppe il suo monologo e rimase a fissarlo, come immobilizzato dal suo tono autoritario. Blaine chiuse gli occhi ed inspirò, passandosi una mano tra i capelli con una leggera aria di frustrazione.

“Alza la mano” gli disse, e Kurt lo fece con un’espressione curiosa sul viso.

“Lo vedi quello? Quell’anello che hai al dito? Significa che ho fatto una promessa. Niente e soprattutto nessuno potrà farmela rimangiare. Cos’altro devo fare per farti capire che ti amo, Kurt? Dimmelo, dimmi cosa vuoi che faccia e lo farò. Dimmi di buttarmi da un aereo senza paracadute e lo farò. Dimmi di scalare una montagna a mani nude e lo farò. Dimmi, dio, dimmi di mettermi davanti a te e prendere un proiettile al tuo posto e lo farò.”

Kurt lo fissò a bocca aperta, sbattendo con forza le palpebre e cercando di trovare qualcosa da dire, rendendosi conto di quanto la sua continua fragilità potesse essere frustrante, tutte le loro emozioni e reazioni amplificate dalla lontananza e dalla consapevolezza di non potersi toccare, abbracciare, baciare. In quei casi, quando sfioravano liti o incomprensioni, la distanza si faceva davvero sentire mettendo a dura prova i loro nervi. Ma veniva sempre il momento in cui si rendevano conto che non ne valeva la pena, e tutto si placava così com’era nato.

“Non- non devi fare niente, Blaine” disse a bassa voce, dopo essersi schiarito la gola. “Lo sai che voglio soltanto il tuo bene, e che tu sia onesto con me. Hai ragione, scusami. Ti amo, lo sai vero?”

Blaine abbozzò una risata nervosa, ma poi chiuse gli occhi e annuì, un piccolo sorriso consapevole sul volto.

“E anch’io prenderei un proiettile per te.”

Entrambi scoppiarono a ridere.

 


 

Apri la tua casella di posta ;)

Blaine fissò l’sms di Kurt sullo schermo del suo cellulare, alzò le spalle e si diresse alla scrivania per aprire il computer e fare come aveva chiesto. C’era infatti una e-mail da parte sua, ma non c’era scritto nulla: conteneva invece un allegato multimediale. Sempre più incuriosito, vi cliccò sopra con il mouse e una finestra si espanse dal link evidenziato. Era un video.

Kurt era in primo piano, probabilmente in piedi nella sua stanza con una telecamera tra le mani a mezz’aria rivolta verso di lui, provocando qualche lieve movimento traballante dell’obiettivo.

“Ok, è partito?” chiese a se stesso, generando un sorriso istintivo da parte di Blaine, che appoggiò un gomito sulla scrivania per reggersi la testa con interesse. “Sì, direi che è partito.”

Blaine scoppiò a ridere, osservando Kurt che si girava e camminava, probabilmente per raggiungere il corridoio.

“Tranquillo, il video non è tutto su di me che cammino per la casa” disse con un ghigno divertito, e Blaine sospirò sognante rendendosi conto che la cosa gli sarebbe andata più che bene.

“Pensavo di fartela vedere direttamente di persona, ma non ho resistito” aggiunse poi Kurt, e l’improvviso cambio di luce intorno a lui fece capire a Blaine che aveva appena oltrepassato la soglia della porta, subito avvolto dal buio della sera. Kurt continuò a camminare nel buio, l’obiettivo sempre fisso su di sé per evitare che Blaine vedesse prima del necessario. Il vento sferzò all’improvviso tra i suoi capelli e Kurt fece un’espressione stizzita, come se volesse prendersela davvero con lui, prima di risistemarsi i ciuffi scomposti con una mano. Blaine rise ancora, scuotendo il capo.

“Ok, ci siamo” esordì alla fine Kurt, prima di emettere un sospiro quasi ansioso. Guardò un’ultima volta nell’obiettivo, sorrise, e poi girò la telecamera.

Stava inquadrando il lago, ma al posto dell’ampio spazio erboso che un tempo si trovava al di là della sua riva c’era una piccola casa. Ancora incompleta, solo le mura e la struttura interna del tetto, ma si poteva già capire che la stessero costruendo con gusto e che si sarebbe abbinata perfettamente all’ambiente naturale che aveva intorno.

Era come se fosse lì da sempre, ad aspettarli, e Blaine si ritrovò con gli occhi lucidi senza neanche accorgersene rendendosi conto che lì avrebbero vissuto insieme, lì era dove avrebbero reso ogni giorno speciale e degno di essere ricordato. Lì era dove sarebbero stati due mariti.

Lì era dove avrebbe visto Kurt svegliarsi ogni mattina con i capelli arruffati e la guancia arrossata per averla appoggiata al cuscino, dove avrebbero cenato sotto il portico godendosi le stelle e il vento notturno, per poi fare il bagno nel laghetto e stendersi sull’erba verde, al di là della collina.

La prima volta in cui aveva visto quel posto, non era niente. Era solo un tratto del giardino di una ricca e misteriosa famiglia, in una grande tenuta lontana da tutto e da tutti. Adesso era il suo futuro.

“E’ ancora da finire, ma me ne sto occupando io quindi non devi preoccuparti!” esclamò Kurt, prima di girare ancora una volta la telecamera e inquadrarsi. Non poteva esserne del tutto sicuro, ma Blaine pensò che anche lui si fosse quasi commosso. Aveva gli occhi che brillavano.

“E’ bellissima, vero?” disse, lo sguardo rivolto verso la casa. Blaine sussurrò un “sì” tra sé e sé, annuendo.

“Finalmente sono stato io a farti una sorpresa! Spero ti sia piaciuta” continuò Kurt, un piccolo sorriso sulle labbra rosee in contrasto con la sua pelle chiara. Poi si fece più serio, lo sguardo intenso, e Blaine non potè fare a meno di ricambiarlo come se Kurt lo stesse guardando in quel preciso istante.

“Non vedo l’ora di rivederti, Blaine. Ti amo tanto” disse, prima di voltare la telecamera per un attimo e poi spegnerla. Blaine sbattè le palpebre, fissando per qualche attimo più del dovuto lo schermo, e poi chiuse la casella di posta elettronica. Prese il cellulare dalla scrivania e si apprestò a scrivere un sms.

E’ bellissima, e tu sei perfetto. Ti amo.

Potè soltanto immaginare il sorriso che Kurt avrebbe fatto leggendolo.

 


 

Blaine si laureò in anticipo rispetto al resto degli studenti del suo corso, preso dalla fretta di finire il college il più presto possibile per poter tornare a Lima e sposare finalmente Kurt. Chiunque al posto suo avrebbe volentieri dato via un braccio piuttosto che tornare in quella piccola città dimenticata da Dio, specie dopo aver assaporato la bellezza e la modernità di New York, la società variegata e l’assenza quasi totale di discriminazioni sessuali, anche se non poteva esserne certo visto che non aveva avuto l’occasione di camminare per i marciapiedi trafficati mano nella mano con il ragazzo che amava.

Ma New York era solo una città. Strade, piazze e luci artificiali scintillanti nella notte, altissimi grattacieli che sembravano scomparire tra le nuvole, un intero mondo di possibilità ad attenderlo a braccia aperte, possibilità che Blaine non riusciva neanche a vedere davanti a sé mentre ne percorreva le strade perché tutto ciò che vedeva era Kurt.

Non sapeva ancora come avrebbe fatto a conciliare le sue ispirazioni artistiche, convalidate ora da una laurea più che rispettabile, con l’impossibilità di Kurt di spostarsi da Lima se non per un breve lasso di tempo, ma mise da parte quella preoccupazione perché c’era una casa già pronta ad accoglierli, e c’era un ragazzo che lo aspettava ad un’ora d’aereo di distanza per diventare suo marito. E c’erano ancora nove anni di fronte a lui.

Blaine aveva smesso di fare il conto. Non sapeva bene nemmeno lui come avesse fatto, ma in qualche modo la vita sempre piena di impegni e il matrimonio costantemente nei suoi pensieri erano riusciti a cancellare numeri e calcoli, almeno fino a quando si laureò. In quel momento, non potè fare a meno di fermarsi a pensare e si rese conto di tutto il tempo che era passato, tempo che non avrebbe riavuto. Ma aveva giurato a se stesso, prima di partire, di imporsi di non vivere stando a fissare le lancette dell’orologio, perché purtroppo, alla fine, quella battaglia l’avrebbe persa lui.

Quel giorno di fine estate, il giorno in cui avrebbe rivisto Kurt e la loro vita sarebbe cominciata, i suoi genitori andarono a prenderlo all’aeroporto di Columbus. Blaine abbracciò calorosamente entrambi, sistemò le sue valige nel bagagliaio e poi entrò in macchina, osservando distrattamente il paesaggio esterno mentre suo padre percorreva l’autostrada a rapida velocità.

“Allora…” esordì l’uomo dopo un lungo silenzio, reso meno strano dalla musica della radio che si espandeva nell’abitacolo in sottofondo, a volume basso. “So di avertelo chiesto altre volte in questi anni, ma visto che ormai hai finito il college sento di doverlo chiedere ancora. Sei sicuro di volerlo fare, Blaine?”

Blaine distolse lo sguardo dal finestrino, drizzando leggermente la schiena e guardando il riflesso di suo padre nello specchietto centrale dell’auto con occhi calmi e risoluti allo stesso tempo.

“Sì” rispose semplicemente, cercando di ignorare il modo palese in cui il corpo di suo padre si irrigidì, la presa leggermente più salda sul volante.

“Non hai conosciuto nessuno a New York?” insistette, il tono quasi speranzoso. “Voglio dire, qualcuno che sia, ecco, norm-“

“Non ti azzardare a usare quella parola” disse Blaine a denti stretti, spostandosi al centro della macchina per aggrapparsi al sedile del guidatore ed essere più vicino a suo padre mentre parlava. Sua madre si girò verso di lui, guardandolo con aria preoccupata, ma prima che potesse cercare di calmare gli animi Greg replicò in tono quasi lapidario: “E’ stata una scelta di parole infelice ma sai cosa intendo, Blaine. Intendo qualcuno che non ti lascerà da solo a quella che spero sia meno di metà della tua vita.”

Blaine sentì gli occhi bruciare all’improvviso, incapace di distinguere tra il dolore e la rabbia che provava nel sentire quelle parole pronunciate con una sorta di tono definitivo, come se fosse tutto o bianco o nero, come se fosse facile scegliere e lui stesse semplicemente facendo la scelta sbagliata, rimproverato come un bambino.

“Perché sei così meschino?” sussurrò, inspirando con forza e alzando lo sguardo per sbattere le palpebre e ricacciare indietro le lacrime. Suo padre si accorse del cambio di voce e rallentò leggermente per poter guardare nello specchietto, assumendo un’espressione quasi ferita e rimanendo in silenzio, la bocca stretta in un profondo solco sul suo viso.

“Tuo padre non è meschino, Blaine” intervenne sua madre, voltandosi del tutto per alzargli il mento con due dita e guardandolo con i suoi occhi color miele. “Forse sbaglia ad esprimersi, ma ti vuole bene. Noi ti vogliamo bene. Ne abbiamo parlato e ti saremo accanto come promesso; vogliamo solo essere sicuri che tu non lo faccia perché pensi di dovere, visto che tu e Kurt state ancora insieme. Sono certa che lui resterebbe con te anche se cambiassi idea al riguardo. Non è necessario che tu lo faccia.”

“Voglio sposarlo, mamma” rispose Blaine con disarmante semplicità, sostenendo il suo sguardo. “Non c’è niente, niente, che io abbia mai desiderato più di questo. Voglio appartenergli in tutti i modi possibili. Voglio essere suo marito.”

Sua madre lo guardò con gli occhi lievemente lucidi e sorrise con dolcezza, spostando la mano per accarezzargli la guancia. Poi si ritrasse e tornò alla sua posizione iniziale sul sedile, guardando il marito in attesa che dicesse qualcosa.

“Lo ami così tanto, Blaine? Lo ami a tal punto da non riuscire a lasciarlo andare?” domandò Greg, la voce improvvisamente tranquilla, quasi riflessiva, come se avesse accidentalmente esternato un silenzioso pensiero.

“Sì” rispose Blaine senza esitazione. Sentì suo padre inspirare e poi rilassare i muscoli sul sedile.

“Va bene” disse.

 


 

Dopo aver pranzato a casa con i suoi genitori in un silenzio quasi inquietante, come se la sua decisione aleggiasse nella stanza e pesasse sulle loro spalle, Blaine annunciò che sarebbe andato da Kurt e che avrebbe dormito da lui.

Quando arrivò finalmente a casa Hummel, non si preoccupò nemmeno di chiudere lo sportello della sua macchina e si precipitò verso la porta d’ingresso, lasciata aperta da Flint apposta per lui, e percorse correndo il corridoio finchè non raggiunse la camera di Kurt. La sua porta era già aperta, così Blaine potè entrare direttamente nella stanza senza fermarsi, o almeno fino a quando non lo vide.

Non era passato molto dall’ultima volta in cui lo aveva visto di persona, era vero; ma era come se all’improvviso guardarlo fosse diverso. Perché Blaine non sarebbe ripartito, sarebbe rimasto, e c’era una sorta di bellezza in quel pensiero, nella consapevolezza di ciò che significava, che faceva apparire Kurt ancora più luminoso di quanto non fosse ai suoi occhi. Come una stella.

Anche Kurt, che fino a poco prima stava camminando avanti e indietro per la stanza in attesa del suo arrivo, si era fermato e lo stava guardando, perché beh, il sole era appena tornato nella sua vita e a differenza di quello vero, che non avrebbe mai potuto vedere, lui splendeva di giorno e di notte e solo per lui. E così avrebbe fatto fino a quando avrebbe potuto.

Non potè fare a meno di sorridere e si lanciò verso di lui, abbracciandolo con forza. Blaine lo accolse tra le sue braccia e gli cinse la vita, spostando il capo per sussurrargli all’orecchio: “Sono tornato, amore mio.”

Kurt si staccò leggermente, continuando a tenere le braccia incrociate dietro il suo collo, e gli sorrise di nuovo, come se non potesse farne a meno. A volte ripensava a quanto fosse ironico che prima di incontrarlo non fosse neanche in grado di farlo, mentre ora gli veniva istintivo, naturale come era giusto che fosse, ogni volta che lo vedeva o semplicemente ogni volta che pensava a lui.

Blaine aveva riportato la luce nella sua vita, in ogni modo umanamente possibile. Non si era arreso quando chiunque altro lo avrebbe fatto, non aveva gettato la spugna davanti al comportamento restio, chiuso e schivo di Kurt, davanti ai suoi mancati sorrisi, ai suoi sguardi di ghiaccio, ai suoi tentativi disperati di allontanarlo, e infine neanche davanti alla scoperta dell’inevitabile futuro.

Non lo aveva mai guardato come una specie di curioso esemplare di essere umano, come un fragile involucro di pelle troppo chiara e troppo fragile, come il giocattolo difettoso che Kurt aveva sempre creduto di essere. Kurt non era difettoso, aveva semplicemente dimenticato come funzionare.

Lo aveva dimenticato perché era più facile, non funzionare affatto. Rimanere fermo su uno scaffale impolverato, così che nessuno potesse rischiare di prenderlo tra le mani, giocarci e romperlo irreparabilmente. Nessuno si sarebbe preso la briga di scommettere su di lui.

Nessuno tranne Blaine.

“Grazie” gli disse in un sospiro di felicità, sorridendo ancora di più quando vide le sopracciglia di Blaine alzarsi leggermente per la confusione.

“Per cosa?” chiese infatti. Kurt si prese un momento per riordinare quel turbine di pensieri che lo aveva travolto nel rivederlo.

“Per non aver mai mollato, Blaine. Per essere rimasto quando chiunque altro se ne sarebbe andato. Io- io ti renderò felice, lo giuro, lo giuro. Farò in modo che tu non dubiti neanche per un attimo del mio amore per te.”

Blaine gli sorrise e si protese per baciarlo, attirandolo ancora di più a sé per i fianchi mentre Kurt intrecciava le dita ai suoi ricci. Piccole risate e sorrisi si mischiarono ai baci, e quando si separarono rimasero fronte contro fronte, gli sguardi incatenati l’uno all’altro. Blaine fece scontrare lievemente i loro nasi, prima di ritrarsi per guardarlo con risolutezza mista ad affetto.

“Allora, sei pronto a diventare mio marito?”

 

 

 

 


 

 

 

 

Nel prossimo capitolo:

Il matrimonio di Kurt e Blaine, parte 1.


 


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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


 

 

 

Cosmico amore incontrato tra le stelle, ravviva l’incanto di quella fanciullezza, linfa d’un raggio di sole.

- Nicola Costantino

 


La sera dopo, Kurt conobbe finalmente i genitori di Blaine, invitandoli a casa sua per cena insieme ovviamente a Rachel, della quale Blaine gli aveva parlato raramente nonostante il grande affetto che nutriva nei suoi confronti. Anche lei stava frequentando la NYADA, ma a differenza del fratello sarebbe tornata al più presto nella Grande Mela per finire gli studi, cercando allo stesso tempo di farsi un nome con piccole parti secondarie nei musical di Broadway. Non era ancora riuscita ad ottenere più di quello, ma era molto determinata a sfondare, cosa che fu abbastanza chiara più o meno dopo venti minuti di cena.

“…e allora io gli ho detto ‘Con chi credi di parlare? Io ho vinto una gara di canto quando avevo nove mesi, per la miseria!’”

“Nove mesi?” chiese Kurt con aria divertita, la mano di Blaine che gli accarezzava languidamente il ginocchio sotto il tavolo mentre se ne stavano in silenzio ad ascoltare il lungo monologo di Rachel su un regista emergente che voleva limitarsi a farla ballare sullo sfondo del suo spettacolo.

“Avevo un grande senso musicale” rispose lei con un cenno di assenso del capo, prima di voltarsi verso i suoi genitori. “Mia madre e mio padre mi facevano ascoltare Barbra Streisand mentre ero nella pancia, giusto mamma?”

Rose e Greg si scambiarono un’occhiata divertita, poi la donna rispose con affetto: “Esatto, tesoro.”

“E come mai a me non avete fatto ascoltare nessuno?” sbottò Blaine in tono fintamente offeso, mentre le dita di Kurt scivolavano lentamente tra le sue. La sua maschera di finta stizza si addolcì all’istante, trasformandosi in un timido sorriso nella sua direzione.

“A te avranno fatto ascoltare Elton John” rispose Rachel prima che i suoi genitori potessero dire qualcosa, facendo scoppiare tutti a ridere compreso Burt, che non era abituato a ricevere ospiti a cena e inizialmente era stato leggermente freddo e scostante. Kurt gli lanciava occhiate di tanto in tanto, per assicurarsi che fosse a suo agio nonostante fosse di natura una persona piuttosto silenziosa. Sembrava ben felice di godersi la conversazione, invece di entrarvi attivamente. In fondo, non era lui a stare al centro della scena e del giudizio degli Anderson.

“Ha davvero una casa bellissima, signor Hummel” disse Rose, includendolo direttamente nel discorso come se avesse capito che qualcuno avrebbe dovuto farlo al posto suo. Lui trasalì lievemente, ma le sorrise con gentilezza e sembrò rilassarsi nel risponderle.

“Grazie. Ma prego, chiamatemi Burt. In fondo, presto saremo consuoceri.”

Nonostante fosse ben chiaro a tutti il motivo di quella cena, fu come se parlarne così apertamente ad alta voce lo avesse reso istantaneamente più reale, più drastico. Il padre di Blaine si tese come una corda di violino sulla sedia, e Kurt e Blaine strinsero d’istinto la presa l’uno sulla mano dell’altro, percependo il cambiamento di tono mentre un inquietante silenzio si impossessava lentamente della stanza.

Burt, gli occhi leggermente sgranati nel domandarsi cosa avesse detto di male esattamente, stava per aggiungere qualcosa quando Rachel prese il controllo della situazione: “A proposito: Kurt, Blaine, dove avete intenzione di sposarvi?”

Ignorando la mascella serrata di suo padre e lo sguardo di sua madre, affettuoso e comprensivo ma leggermente triste, Blaine rispose: “New York è ad un’ora di aereo da Columbus, quindi pensavamo di partire da qui nel tardo pomeriggio per riuscire a tornare prima dell’alba.”

Rachel gli rivolse un piccolo sorriso e gli scoccò un’occhiata d’intesa; era l’unica della sua famiglia a non aver mai mostrato il minimo disappunto per la sua decisione, e dopo aver conosciuto Kurt, anche se per poco, sembrava ancora più convinta. Era palese che si amavano, e da buona amante di Broadway e delle commedie a lieto fine, credeva fermamente che quella fosse l’unica cosa che contasse nella vita.

Conosceva suo fratello, ed era la prima volta in assoluto che vedeva quello sguardo nei suoi occhi. Pura incredulità, quasi meraviglia, ogni volta che si voltava per guardare Kurt con la coda dell’occhio. Era come se stesse assistendo ad un miracolo ogni volta che lui apriva bocca per parlare, e lo stesso valeva al contrario, era chiaro anche non conoscendo bene Kurt. E sapeva che anche i suoi genitori lo avevano notato.

“Sembra fantastico, non è vero?” disse in tono esageratamente entusiasta, voltandosi verso di loro con un’espressione di lieve aspettativa.

“Signori Anderson” esordì improvvisamente Kurt, salvandoli dall’imbarazzo e attirando la loro attenzione. Blaine sussurrò il suo nome in tono leggermente preoccupato, stringendogli la mano, ma lui lo ignorò. “So benissimo cosa state pensando. E credetemi, lo capisco. Pensate che questo non sia un bene per Blaine, e l’ho pensato anch’io tante, troppe volte. Volevo che fosse felice e per permettergli di esserlo non ho fatto altro che farlo soffrire ancora di più, oltre che far soffrire me stesso. Noi-“

Si interruppe per guardare Blaine e rivolgergli un sorriso, prendendogli la mano per spostarla sopra il tavolo insieme alla sua e accarezzarne il dorso con il pollice, il gesto delicato ed affettuoso che colse l’attenzione di tutti in quel temporaneo silenzio. Si voltò di nuovo verso Greg e Rose.

“Noi non possiamo stare l’uno senza l’altro. Ci abbiamo provato e ha fatto troppo male, non avete idea. E so che un giorno” - si interruppe ancora, inspirando per un attimo – “so che un giorno non potrò più esserci. Ma il tempo che abbiamo sarà abbastanza, io- io me lo farò bastare. So che non è questo che vorreste, nessuno lo vorrebbe, ma io posso promettervi che amerò Blaine tutti i giorni, sempre, perchè non posso smettere, non saprei neanche come farlo. Non è forse questo che conta più di tutto?”

Kurt” sussurrò Blaine con aria incredula, gli occhi lucidi mentre Kurt si ricomponeva dopo la sua dichiarazione e si voltava per incontrare il suo sguardo, le persone intorno al tavolo che scomparvero all’istante. Kurt sbattè le palpebre e gli sorrise con dolcezza, lasciandogli la mano per alzare la sua e accarezzargli la guancia.

“Sempre” ripetè, catturando con il pollice una piccola lacrima che stava per lasciare le ciglia di Blaine e avvicinandosi per lasciare un rapido bacio sulle sue labbra.

Quando entrambi si voltarono, ricordandosi che c’erano altre persone a guardarli, trovarono Rachel con una mano sul cuore quasi sull’orlo della commozione, Burt che sorrideva verso di loro con espressione orgogliosa, e i genitori di Blaine pietrificati sulle sedie, le bocche dischiuse come se cercassero qualcosa da dire. Anche Rose Anderson sembrava sul punto di piangere, mentre il marito, la scorza protettiva più spessa della moglie, stava palesemente tentando di mostrare autocontrollo, il corpo teso e rigido ma qualcosa di diverso negli occhi, rispetto a poco prima. Qualcosa di caldo e affettuoso, diretto verso suo figlio e il ragazzo che aveva in mano il suo cuore.

“Ve lo chiedo ufficialmente, anche se è stato Blaine a chiederlo a me” disse Kurt, approfittando del silenzio per concludere il suo discorso. “Posso avere l’onore di sposare vostro figlio?”

I genitori di Blaine sbatterono le palpebre e si guardarono; Rose sorrise a suo marito e fece un impercettibile cenno di assenso, rivolgendogli un’occhiata di incoraggiamento. Greg inspirò e chiuse gli occhi, poi li riaprì e parlò.

“Sì, Kurt. Hai la nostra benedizione.”

“Grazie” rispose Kurt sorridendo.

 


 

Essendo pratico di New York, fu Blaine ad occuparsi di fare le telefonate che servivano per organizzare il matrimonio, lasciando Kurt ignaro di molte cose. Nel giro di qualche settimana fu tutto pronto, e Kurt, Blaine, Burt, Flint, i signori Anderson e Rachel si ritrovarono tutti all’aeroporto una volta che il sole fu calato nel cielo, pronti a prendere il volo delle otto.

Kurt si rese conto che quella era la prima volta in assoluto che lasciava la sua casa. Sarebbe potuto uscire di sera tutte le volte che voleva, in realtà, ma prima di Blaine non aveva nessuno con cui farlo e anche dopo averlo incontrato continuava a non volersi fare vedere in giro, per non destare l’ovvia curiosità delle persone nel domandarsi da dove fosse magicamente sbucato. La sua casa gli aveva sempre offerto tutto ciò di cui aveva bisogno, la musica, l’arte, persino la natura e la quiete notturna del cielo stellato. E una volta avuto anche Blaine, non c’era nient’altro da cercare lì fuori, in quel mondo troppo vasto e spaventoso abitato da persone che non avrebbero mai capito cosa volesse dire essere Kurt Hummel.

Ma per quell’occasione speciale, fu felice di farlo. Quel dato di fatto le dava un’importanza ancora maggiore, rendendo tutto ancor più solenne e significativo. Per la prima volta non provò paura nell’abbandonare il suo piccolo mondo, perché quando ci sarebbe tornato lo avrebbe fatto per condividerlo con un’altra persona.

Il volo fu breve e tranquillo, Kurt e Blaine accoccolati accanto ad uno dei finestrini a guardare silenziosamente il cielo scuro che ora li circondava, oltre che sovrastarli. Nuvole bianche oscuravano di tanto in tanto la visuale quando l’aereo vi passava attraverso, e sotto di loro potevano scorgere le luci lontane delle città che stavano sorvolando.

“Vedere l’alba da quassù dev’essere bellissimo” disse Kurt in tono riflessivo, la testa appoggiata alla spalla di Blaine mentre lui gli circondava le spalle con un braccio e gli accarezzava pigramente i capelli. Blaine si mise un po’ più dritto per inclinare la testa e guardarlo.

“Non sai quanto mi dispiace che tu non possa vederla” gli rispose, baciandogli teneramente la testa prima di appoggiarvi sopra la guancia. Kurt rimase in silenzio per qualche attimo.

“Descrivimela” disse poi, accoccolandosi di più contro di lui e facendo scontrare le loro ginocchia.

“Come?”

“Descrivimi l’alba” insistette Kurt, sfiorandogli l’incavo del collo con la fronte come per voler assorbire un po’ del suo calore. Chiuse gli occhi e sospirò, aspettando di risentire la voce di Blaine mentre lui rifletteva su come accontentare una richiesta così particolare.

“Il cielo si fa più chiaro e si riempie di mille colori” esordì in un sussurro, come se gli stesse confidando un grande segreto. Guardò distrattamente fuori dall’oblò, immaginando di vederla all’orizzonte in quel momento. “A poco a poco il sole spunta dalla linea dell’orizzonte e sale verso l’alto e le stelle diventano sempre più difficili da vedere, finchè non scompaiono. E’… difficile da definire. C’è rosso, giallo, rosa, arancione più che altro. Ma è sempre diversa. E’ questo il bello.”

Kurt rimase silenzioso per qualche attimo, come se stesse cercando di immaginarla nella sua mente, e dopo un po’ Blaine pensò di aver sentito l’accenno di un sorriso contro la pelle del suo collo, dove le labbra di Kurt vi erano poggiate sopra.

“Credo di aver capito com’è” sussurrò Kurt, prima di baciarlo dolcemente sotto il mento e ritrarsi per guardarlo. Blaine sbattè le palpebre incuriosito, capendo che Kurt stava per aggiungere qualcos’altro, qualcosa di importante, a giudicare dal modo in cui lo stava fissando. Era proprio come un tempo, in un certo senso; come se stesse cercando di decifrare qualcosa di lui che gli sfuggiva, con la differenza che Blaine aveva smesso di sentirsi vulnerabile e scoperto quando lo faceva. Ormai lasciava semplicemente che Kurt avesse quello che voleva, che lo studiasse e lo analizzasse, donandosi completamente al suo sguardo indagatore.

Vide un altro sorriso espandersi sul suo volto, come se dopo quel breve e rapido studio fosse arrivato alla conclusione che si aspettava all’inizio, soddisfatto del risultato.

“E’ come i tuoi occhi” disse Kurt, e Blaine pensò di aver appena avuto un leggero giramento di testa causato dal modo in cui lo stava praticamente adorando con lo sguardo.

“I miei occhi?” chiese, sgranandoli leggermente e permettendogli così inconsapevolmente di guardarli meglio.

“Sì” rispose Kurt, appoggiando la tempia al sedile con aria quasi sognante e continuando a guardarlo. “Non sai quante volte ho provato ad imitarne il colore, ma non ci sono mai riuscito. Pur sapendo quali tinte usare, pur avendole mischiate in tutte le combinazioni… è impossibile, non si può spiegare. Come l’alba.”

Blaine non seppe che altro fare se non colmare la breve distanza tra loro e baciarlo, coprendogli la guancia non appoggiata al sedile con il suo palmo e accarezzandogli le labbra con la lingua, prima di incontrare quella di Kurt e avvolgerla languidamente in un bacio quasi pigro, rallentato, flemmatico. Finchè Kurt non fece una sorta di sospiro strozzato e lo intensificò ancora, afferrandogli il colletto del maglione per tirarlo verso di sé e staccandosi dalle sue labbra per baciargli il collo. Quando iniziò a succhiare un punto ben preciso, Blaine dovette utilizzare tutta la forza di volontà che aveva per mettergli le mani sulle spalle e costringerlo a ritrarsi, il respiro affannoso e le pupille dilatate.

“Kurt, i miei genitori sono qui dietro” disse a bassa voce, tastandosi il collo e sperando che Kurt non avesse lasciato un segno troppo visibile. Kurt arrossì lievemente, assumendo la tinta di uno dei tanti colori dell’alba, e soffocò una risatina portandosi la mano sulla bocca.

“Ops” disse, ricevendo una leggera spallata da parte di Blaine e una finta occhiataccia di rimprovero. Quando entrambi ripresero a respirare normalmente, si rimise nella posizione iniziale appoggiato alla spalla di Blaine e sospirò.

“Ci pensi che tra poche ore saremo sposati?” disse, il tono improvvisamente serio.

“Già” rispose Blaine, guardando ancora una volta fuori dal vetro mentre le luci di New York si facevano sempre più vicine. “Sei in ansia? Non è che fuggi all’ultimo minuto come in ‘Se scappi ti sposo’, vero?”

Kurt accennò una risata e alzò il viso per dargli un bacio sulla guancia.

“Sono tranquillissimo in realtà. Non credi sia preoccupante? Di solito le persone sono nervose, lanciano oggetti, hanno le mani sudate o cose del genere.”

“Anche io sono tranquillo. Forse non abbiamo ancora metabolizzato” rispose Blaine con aria pensierosa, increspando le labbra e alzando lo sguardo. Kurt sorrise a quella vista.

“O forse non c’è niente per cui essere ansiosi. Perché è la cosa giusta” disse a mo’ di sentenza definitiva. Blaine si voltò a guardarlo e annuì con convinzione.

“Sì, direi di sì.”

 


 

“Come sarebbe a dire cambiarci in aeroporto?

Blaine si sforzò di non scoppiare a ridere di fronte all’espressione quasi tradita sul volto di Kurt, in piedi davanti alle porte dei bagni con il suo piccolo trolley ai piedi e le mani sui fianchi, come se Blaine gli avesse appena detto di doverli interamente ridipingere o qualcosa del genere.

“Non c’è una stanza sul retro dentro il municipio? Uno stanzino? Un ripostiglio per le scope?”

“E chi ha parlato di municipio?” rispose quindi con nonchalance, rivolgendogli un ghigno malizioso e oltrepassandolo con sguardo fiero mentre trascinava il suo trolley con sé al di là della porta del bagno. Kurt si voltò verso suo padre, anche lui ancora in abiti casual, sperando che lo illuminasse, ma a quanto pareva o non sapeva nulla come lui o lo sapeva ma non voleva dirglielo. Burt alzò le spalle e seguì Blaine, così Kurt si limitò a roteare gli occhi e fare altrettanto.

Per fortuna non era una donna, altrimenti infilarsi un vestito da sposa dentro quei cubicoli sarebbe stato davvero problematico. Kurt indossò il suo impeccabile smoking e poi uscì nella zona comune del bagno portandosi dietro la lacca per capelli, alzandoli verso l’alto con maestria. In quel momento, dal bagno accanto al suo sbucò Blaine con uno smoking quasi uguale, nero ma di una stoffa leggermente più lucida della sua che in qualche modo riusciva a far sembrare i suoi capelli ancora più scuri.

Kurt non potè fare a meno di alzare lo sguardo per vedere il suo riflesso nello specchio e rimase quasi pietrificato, colpito da quanto il total black gli donasse specialmente con quel filo di barba che gli aveva espressamente chiesto di lasciare, uno dei tanti piccoli dettagli che denotavano quanto il tempo fosse passato, quanto i suoi lineamenti si fossero fatti più mascolini e adulti ma lasciando in qualche modo la sua naturale ingenuità da ragazzino, con quegli occhi nocciola da cerbiatto sempre pronti a sbattere le palpebre con curiosità.

Anche su Kurt quei tre anni avevano avuto il loro effetto, rendendolo più alto di qualche centimetro e con i lineamenti più definiti, ma l’assenza di barba e la sua figura snella lo facevano comunque sembrare più piccolo di quanto non fosse.

“Sei bellissimo” disse, guardando Blaine sorridergli attraverso il vetro dello specchio. Lo vide camminare nella sua direzione e avvolgergli la vita con le braccia da dietro, per poi baciargli la guancia.

“Anche tu” gli disse all’orecchio, prima di guardare anche lui verso lo specchio per osservare che aspetto avessero insieme. Sorrisero.

Quando uscirono insieme dal bagno, aspettarono che Burt e le donne si cambiassero, mentre il padre di Blaine e Flint erano già appositamente vestiti dalla partenza. Rachel e sua madre ci misero ovviamente più di loro, ma trattandosi comunque di una cerimonia intima non indossavano vestiti esageratamente lunghi o complicati e i capelli erano acconciati semplicemente con morbidi boccoli all’altezza delle punte e qualche forcina per tenere alzate delle ciocche, scoprendo i loro visi.

All’uscita dell’aeroporto chiamarono due taxi, ma fu Blaine ad avvicinarsi ad entrambi i guidatori e comunicare loro l’esatta destinazione prima che Kurt potesse sentirla.

Quando entrarono finalmente nella vera e propria area metropolitana di New York, Kurt era così curioso di sapere dove si sarebbero sposati da fare pochissima attenzione alla città che scorreva al di là del finestrino, impegnato a ondeggiare il ginocchio quasi febbrilmente.

“Non è normale che io non sappia dove sarà il mio matrimonio!” sbottò all’improvviso, incrociandosi le braccia al petto e scoccando a Blaine un’occhiata stizzita. Blaine, che era seduto accanto a Burt, alzò le spalle come se non fosse un suo problema e gli diede un pizzicotto sulla guancia, ricevendo in risposta un’altra occhiataccia.

“Siamo arrivati” disse il tassista, fermando la macchina davanti ad uno spazio verde che sembrava estendersi praticamente all’infinito. Anche se non ci era mai stato, Kurt non potè fare a meno di riconoscerlo dai tanti film d’amore in cui lo aveva visto.

“Central Park?” chiese incredulo, scendendo dall’auto e rimanendo in piedi sul marciapiede con un’espressione quasi inebetita, un ampio cancello di ferro spalancato davanti a lui e una specie di bodyguard in smoking che lo osservava con un sopracciglio alzato dall’ingresso.

“Una parte di Central Park” lo corresse Blaine, spuntando al suo fianco per cingergli la vita con un braccio. “Visto che tuo padre ci ha praticamente regalato una casa, i miei non hanno voluto essere da meno. Ne hanno affittato una parte tramite un’agenzia di matrimoni superesclusiva.”

Kurt si voltò verso di lui con gli occhi sgranati, le labbra che formavano una piccola ‘O’ per la sorpresa.

“Oh mio dio, Blaine, non ci posso credere!” disse mentre lui lo conduceva lentamente al di là del cancello, facendo un cenno verso il bodyguard che alzò un pollice nella sua direzione. La zona era riservata, ed era parte del pacchetto avere qualcuno che si occupasse di fare passare solo le persone autorizzate.

Con Burt, Flint e la famiglia di Blaine al seguito (insieme ad altri incaricati di occuparsi temporaneamente delle valige), Kurt e Blaine percorsero un ampio viale di ciottoli scarsamente illuminato da piccoli lampioncini finchè non raggiunsero uno spiazzo erboso e pianeggiante sul quale era stato allestito tutto. Non era molto, in realtà: soltanto poche sedie bianche disposte in due file in modo da lasciare dello spazio al centro, e una specie di arco bianco con dei rampicanti intrecciati tra le sue rifiniture dietro un leggio dove il funzionario avrebbe celebrato la breve cerimonia.

Le luci deboli del parco accentuavano il colore chiaro delle sedie e dell’arco, facendolo risaltare rispetto al buio così come facevano con la pelle di Kurt. Le stelle erano a malapena visibili, a causa delle luci troppo intense e affollate della città, ma la luna c’era. La stessa che lo aveva illuminato quando Blaine lo aveva visto per la prima volta, domandandosi se la sua bellezza fosse un’illusione per poi scoprire che non lo era.

C’erano anche degli invitati già seduti; Kurt non li riconobbe finchè non raggiunsero la fila di sedie e poi lo spiazzo centrale, voltandosi per scorgere i loro volti. Erano tre ragazzi: uno incredibilmente alto e massiccio, con i capelli neri e lisci e l’aria da bonaccione; un altro con i capelli castani e lievemente ricci e gli occhi verdi, e l’altro ancora… l’altro ancora era Sebastian.

“Sono stato io ad invitarlo” disse Blaine per precisare quando vide il suo sguardo improvvisamente gelido nella direzione dell’ex-Warbler. Kurt si voltò per guardarlo con incredulità, ma prima di poter replicare fu Sebastian ad alzarsi dalla sedia e sussurrare qualcosa al ragazzo dai capelli castani, prendendolo per mano e portandoselo dietro fino a raggiungerli. Kurt alzò un sopracciglio vedendo le loro mani unite.

“Ho saputo del matrimonio dagli altri ex-Warblers che devono ancora arrivare, così ho chiamato Blaine per fargli i miei auguri. Non credo che contasse di invitarmi, inizialmente” esordì, guardando per un attimo Blaine e poi riportando gli occhi su Kurt. “Gli ho detto che mi sarebbe piaciuto poterli fare anche a te. So bene che non potrà mai correre buon sangue tra noi, ma… volevo dirti che sono felice per voi, Kurt. Davvero.”

Kurt riflettè per un attimo sulla possibilità di cacciarlo in malo modo, ma avrebbe soltanto scaldato gli animi e compromesso l’atmosfera della serata, e per cosa? Sembrava come se tutto fosse successo a distanza di una vita, e Sebastian aveva uno sguardo diverso negli occhi, sembrava sincero. Kurt non potè fare a meno di guardare il ragazzo che aveva al suo fianco, domandandosi se fosse stato lui a cambiarlo a tal punto.

“Oh, lui è Harry, il mio ragazzo” disse Sebastian intuendo il suo pensiero, ed Harry fece un timido sorriso e allungò la mano libera in direzione di Kurt.

“E’ un piacere, Kurt. Spero non vi dia fastidio che Seb mi abbia portato con lui, voleva che ci incontrassimo” disse il ragazzo, la voce delicata e quasi musicale, e Kurt non potè fare a meno di pensare che Sebastian in un modo o nell’altro continuasse ad essere attratto da ragazzi più fragili e insicuri di lui, o almeno così sembrava.

“Piacere mio. E no, non è un problema” gli rispose, stringendogli la mano. Poi si voltò verso Sebastian, abbozzando il sorriso migliore che potè. “Grazie per gli auguri, Sebastian.”

“Kurt! Kurt, lui è il mio ragazzo, Finn!” squittì all’improvviso Rachel, trascinandosi dietro l’altro ragazzo sconosciuto che doveva quasi piegarsi per poterle tenere la mano. Sebastian ed Harry ne approfittarono per tornare silenziosamente ai loro posti, ma Kurt potè scorgere lo sguardo di tenerezza che si scambiarono una volta seduti prima di riportare l’attenzione sulla nuova conversazione.

“Piacere, Kurt” disse sorridendo, stringendo la mano di Finn.

“Finn” rispose il ragazzo, un sorriso imbarazzato sul volto come se si stesse domandando cosa ci facesse lì esattamente.

“Stavo giusto dicendo a Finn che ho consigliato io quell’arco a Blaine. Bello, vero?” disse Rachel, prendendo Finn sotto braccio e appoggiandosi alla sua spalla con un enorme sorriso.

“E’ fantastico” le rispose Kurt con gratitudine. Quando si voltò, percependo solo in quel momento l’assenza di Blaine al suo fianco, lo ritrovò a pochi passi di distanza accanto al leggio, dietro il quale era spuntato un funzionario senza che lui se ne fosse neanche accorto. Blaine gli tese la mano e Kurt lo raggiunse, mentre tutti i presenti – i Warblers intanto avevano fatto il loro arrivo – si misero a sedere tranne Finn, che avrebbe fatto da testimone a Blaine, e Rachel, che lo sarebbe stata per Kurt e che quindi si mise dietro di lui, le braccia incrociate dietro la schiena.

“Sei pronto?” chiese Blaine in un sussurro, intrecciando le loro dita e conducendolo davanti al leggio mentre a poco a poco calava il silenzio, i suoni della città ovattati dalla distanza mentre quelli della notte, delle foglie scosse dal vento e della vita tra gli alberi, li sovrastavano.

“Sì” rispose Kurt, trattenendo il fiato.

Dio, Blaine brillava come il sole.

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

Nel prossimo capitolo:

Il matrimonio di Kurt e Blaine, Parte 2.

 

 


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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


 

La canzone che troverete in questo capitolo è "A Thousand Years" di Christina Perri.

Soooo, here is the Klaine Wedding!

 


 

 

 

 

Se non puoi essere una via maestra, sii un sentiero.
Se non puoi essere il sole, sii una stella.
Sii sempre il meglio di ciò che sei.

- Martin Luther King

 


Il Blaine che Kurt aveva sempre sognato in quella particolare occasione gli sembrò una copia sbiadita, una pallida imitazione, in confronto a com’era in quel momento, davanti a lui, pronto a donargli la sua vita su un piatto d’argento. Era così bello che faceva fisicamente male, un male struggente e dolce insieme all’idea che era suo; che aveva deciso, tra tante persone al mondo, di amare proprio lui.

“Siamo riuniti qui oggi per celebrare l’unione tra Kurt Hummel e Blaine Anderson” esordì l'uomo in piedi davanti a loro, riportandolo improvvisamente alla realtà e facendogli distogliere lo sguardo da Blaine per un istante.

“Se c’è qualcuno che si oppone, parli ora o taccia per sempre.”

Gli ospiti ovviamente rimasero in silenzio, e l'uomo si schiarì la gola per continuare. Kurt era al corrente del fatto che la cerimonia in sé sarebbe durata poco: entrambi avevano concordato sul fatto che non c’era bisogno di fare le cose in grande, anche perché avevano poco tempo a disposizione per poi tornare a Lima.

Ma nonostante questo, nonostante sapesse che il funzionario stava già per porre le due fatidiche domande, pensò che non avrebbe potuto essere più perfetto di così. Semplice e naturale come il modo in cui si amavano, senza il bisogno di sbandierarlo ai quattro venti. Guardò Blaine e lesse nei suoi occhi quanto tutto fosse giusto, e il senso di completezza che si impossessò di lui lo sconvolse dall’interno, mentre lentamente realizzava cosa stava per accadere.

“Avete preparato delle promesse da scambiarvi?” chiese l'uomo, guardando prima uno e poi l’altro. Kurt scosse il capo, ma si fermò non appena vide Blaine fare l’esatto contrario, e sgranò gli occhi nella sua direzione domandandosi se lui avesse dato per scontato che il gesto sarebbe stato ricambiato, travolto da un’improvvisa ondata di vergogna. Ma Blaine gli stava rivolgendo un sorriso malizioso, l’angolo della bocca verso l’alto, e Kurt capì che sapeva benissimo che non aveva preparato nulla e che non voleva che lo facesse.

Blaine si ricompose, trasformando quel piccolo ghigno in un dolce sorriso, e sostenne il suo sguardo prima di schiarirsi la voce e parlare.

“Oggi è il giorno in cui la mia vita comincia” esordì con voce incredibilmente decisa, il miele dei suoi occhi scintillante nella notte. “Per tutta la vita sono sempre stato solo io, un ragazzino che parla troppo. Oggi divento un uomo, oggi divento un marito. Da oggi dovrò rendere conto ad un'altra persona oltre che a me. Da oggi divento responsabile di te e del nostro futuro e di tutte le possibilità che il nostro matrimonio ha da offrire. Insieme, qualunque cosa accada, io sarò pronto. Per qualsiasi cosa, per tutto. Per affrontare la vita, per affrontare l'amore, per affrontare le possibilità e le responsabilità. Oggi, Kurt Hummel, comincia la nostra vita insieme, e ad essere sincero non vedo l'ora.”

In quel momento, forse per la prima volta nella sua vita, Kurt si sentì come tutti gli altri. La sua malattia sembrò un ricordo lontano, una specie di incubo dal quale entrambi si erano svegliati, e il fatto che Blaine non vi avesse neanche accennato lo rese ancora più lampante. Non aveva più a che fare con quello, con il fatto che avesse troppo poco tempo a disposizione per prendere le cose con calma come potevano fare le altre persone. Non aveva più a che fare con la fretta di Blaine, con la sua disperata corsa contro il tempo.

Forse, in circostanze normali, avrebbero aspettato molto di più per farlo. Ma paradossalmente, Kurt si rese conto che fu proprio la loro situazione a rendere chiaro ai loro occhi cosa era veramente importante, insegnando loro che la vita, in generale, era troppo breve per non essere folli e imprudenti, per non fare ciò che desideravano, per non cogliere le opportunità e fare in modo di poter stringere per sempre tra le braccia la persona a cui tenevano.

Avrebbero pagato a caro prezzo quella lezione, ma Kurt non riuscì neanche a pensarci mentre Blaine lo guardava in quel modo, e i suoi occhi e il suo sorriso erano tutto ciò che contava, tutto ciò che gli bastava conoscere per sapere che era lì che doveva essere, che tutto finalmente stava tornando al suo posto.

Ricacciando indietro le lacrime, mimò a Blaine un “Ti amo” con le labbra prima che il funzionario riprendesse a parlare.

“Blaine Anderson, vuoi tu prendere Kurt Hummel come tuo legittimo sposo?”

 


“Pensi che potrai mai perdonarmi?” chiese Kurt, disteso sul letto a pancia in giù con la testa appoggiata al gomito, le braccia incrociate sotto il mento.

“Per cosa?” rispose Blaine confuso, sdraiato accanto a lui ma di schiena, il petto nudo che si alzava e abbassava per il respiro ormai tornato alla normalità.

“Per averti lasciato solo. Pensi che potrai perdonarmi quando non ci sarò?”

Blaine si voltò quasi del tutto per guardarlo, mettendosi su un fianco e sostenendosi la testa con la mano, il gomito incavato nel cuscino sotto di lui.

“Non c’è niente da perdonare” disse a bassa voce, e Kurt alzò il mento dal suo gomito e lo fissò, gli occhi così chiari da sembrare vetro come succedeva sempre quando sbatteva a lungo le palpebre nel tentativo di capire qualcosa che gli sfuggiva, come un bambino piccolo e spaventato che poneva una domanda in modo innocente, fremendo in attesa della risposta.

“E se poi mi odiassi?”

“Non potrei mai odiarti, Kurt” disse Blaine, quasi commosso dall’ingenuità che vide dipinta sui suoi lineamenti. Kurt sembrò rilassarsi, inclinando la testa per appoggiare la guancia sul suo braccio e osservare con aria assente la linea di quello di Blaine. Il silenzio riempì la stanza per un attimo, prima di essere squarciato da un sussurro quasi tremante.

“E se mi dimenticassi?”

“Questo è impossibile” disse Blaine, sorridendo tra sé e sé e strisciando sul letto per essere ancora più vicino a Kurt, in modo da potersi abbassare e baciargli una guancia. Kurt chiuse gli occhi a quel contatto, ma quando li riaprì sembrava ancora incerto e spaventato.

“Non dimenticarmi” sussurrò con voce spezzata, il tono stesso che sembrava una disperata supplica. “Anche quando andrai avanti e avrai una famiglia e sarai felice… non dimenticarmi, Blaine. Almeno un pezzo, un pezzetto del tuo cuore, anche il più piccolo e insignificante, conservalo per me.”

Blaine trattenne il fiato, colto di sorpresa da quell’improvviso fiume di parole, ma senza esitazione lo prese per un braccio e lo trascinò silenziosamente su di lui, cingendogli i fianchi.

“Lo giuro.”

Quando Kurt sorrise, Blaine si innamorò di lui. Di nuovo.

 


“Sì, lo voglio” rispose Blaine senza esitare, sorridendo nonostante fosse sul punto di piangere per l’ennesima volta nella sua vita. Ma erano lacrime di gioia, e le accolse senza provare a trattenerle a differenza di come aveva dovuto fare in tante altre occasioni. Guardò Kurt e si accorse che anche lui si era finalmente arreso, una piccola lacrima lucente che gli percorse la guancia per poi disperdersi lungo la linea della sua mascella. Aveva occhi di vetro, ancora una volta, e Blaine non potè fare a meno di pensare a come fossero stati quando lo aveva conosciuto: così oscuri e misteriosi, animati da mille segreti che a poco a poco gli si erano rivelati come tesori nascosti nel profondo di un abisso.

Gemme e pietre preziose che Kurt gli aveva silenziosamente regalato, fino ad arrivare a quelle più belle e scintillanti, il suo amore e il suo sorriso. Gioielli che in qualche modo appartenevano a Blaine, perché soltanto lui era riuscito a trovare la combinazione, la chiave per aprire quel forziere accuratamente sigillato che era il suo cuore. Si ritrovò a domandarsi come avesse fatto, perché non lo sapeva, non c’era una ricetta per amare e farsi amare.

Il funzionario fece una pausa, come se volesse rispettare la solennità del momento e dello sguardo che si scambiarono, un silenzioso incontro di immagini, momenti e parole che conoscevano soltanto loro. Tutte le volte in cui non erano stati sinceri e quelle in cui lo erano stati, tutto l’inchiostro sulle pagine e la tempera sulle tele, tutte le note e le parole disperse nell’aria e nel vento, era tutto lì ed era così tanto.

Era come se si fossero fermati ad un certo punto di un viaggio e si fossero voltati per la prima volta per guardarsi indietro, rendendosi conto solo in quel momento di tutta la strada che avevano fatto, di tutti gli ostacoli, le deviazioni, le fermate. E poi tornarono a guardare avanti, verso ciò che ancora non sapevano, verso il futuro.

Verso un orizzonte da cui il sole non sarebbe mai sorto, soltanto perché ce n’era già uno, e quello non sarebbe mai tramontato.

“Kurt Hummel, vuoi tu prendere Blaine Anderson come tuo legittimo sposo?”

 


“E questa sarà la cucina” disse Kurt, entrando in una stanza della loro casa ancora in costruzione che conteneva soltanto un lungo e spoglio bancone, per poi voltarsi e aspettare che anche Blaine varcasse la soglia. Lo vide esitare per un attimo, le sopracciglia corrugate e le labbra serrate, come se stesse pensando intensamente a qualcosa.

“Blaine?”

“Mmm, ma che buon odorino, Kurt! Che cosa hai preparato? Sto morendo di fame!” esordì finalmente Blaine, oltrepassando lo stipite della porta per dirigersi verso il bancone e appoggiarvisi sopra con i gomiti, arricciando il naso nel finto tentativo di capire cosa bollisse in pentola. Kurt roteò gli occhi e si incrociò le braccia al petto, appoggiandosi alla parete con la schiena come per godersi uno strano e curioso spettacolo.

“Non me lo vuoi dire? Volevi fare una sorpresa al tuo affascinante maritino?” incalzò Blaine, rivolgendogli un sorrisetto.

“E chi ha mai detto che sei affascinante?” rispose Kurt, trattenendo una risata quando Blaine ritrasse lievemente la testa e spalancò la bocca con aria offesa e ferita.

“Pensi davvero questo di me?!” chiese, portandosi una mano al petto. Kurt scosse il capo con aria rassegnata e si spostò dalla parete per raggiungerlo, facendo il giro del bancone per abbracciarlo da dietro e appoggiare il mento all’incavo della sua spalla.

“Certamente” disse annuendo, sfoggiando un sorriso compiaciuto. “Non sei per niente affascinante.”

Blaine si voltò, ancora stretto nel suo abbraccio, appoggiandosi così al bancone con la schiena. Aveva uno sguardo curioso, interrogativo e vagamente infantile, come se il suo cervello stesse smaniando per capire se diceva sul serio o se era soltanto uno scherzo.

“Affascinante non rende l’idea. Tu sei perfetto.”

Quando Blaine sorrise, Kurt si innamorò di lui. Di nuovo.

 


“Sì, lo voglio” disse Kurt, tenendo gli occhi fissi su Blaine e sorridendogli, sperando che sapesse, che capisse quanto lo amava in quel momento. A volte si chiedeva se ci fosse un modo reale per esprimerlo con le parole o con i gesti, perché sembrava troppo grande. Qualcosa di inconsistente eppure terribilmente definito allo stesso tempo, una forza superiore che lo animava anche nel sonno, quando sognava Blaine felice e sorridente e sotto le stelle, dove lui poteva stargli accanto.

Sperò che capisse quanto gli fosse grato, quante cose gli doveva e quante cose sarebbe stato disposto a fare per lui. Sperò che quel voto, per quanto potesse sembrare semplice e comune, bastasse a fargli capire che ogni fibra del suo essere, ogni suo pensiero, ogni attimo, era per lui.

Per un secondo, uno soltanto, rimpianse di averne così pochi da regalare. Rimpianse di non avere una vita intera per dimostrarglielo, rimpianse tutti quegli anni che non avrebbero mai vissuto.

Ma fu soltanto uno, scivolò via come l’acqua, quando Blaine gli sorrise di nuovo. Perché era un sorriso consapevole, come se gli volesse far sapere che capiva, che andava bene così, che non doveva tormentarsi oltre. Così Kurt non lo fece.

Si rese conto con aria quasi distante che Rachel si era posizionata tra loro e che gli stava porgendo l’anello da mettere al dito di Blaine, dopo aver fatto lo stesso con il fratello. La ragazza gli sorrise teneramente, e Kurt ringraziò anche per quello, perché forse, chissà, aveva anche trovato un'amica. Poi lei tornò al suo posto e Kurt e Blaine rimasero a fissarsi.

Si scambiarono gli anelli come se fossero in una specie di trance, come se qualcuno con in mano una telecamera li stesse riprendendo al rallentatore.

“Con il potere conferitomi dallo Stato di New York, vi dichiaro marito e marito. Potete bac-“

Prima ancora che l'uomo potesse concludere, Blaine cinse la vita di Kurt con un braccio e lo tirò a sé per unire le loro labbra, generando applausi e qualche fischio – sicuramente da uno degli ex-Warbler, pensò Kurt distrattamente – e lasciandolo boccheggiante un secondo dopo.

“Ti amo” sussurrò a pochi centimetri di distanza dal suo viso, e Kurt gli sorrise prima di voltarsi per guardare gli invitati. C’erano sorrisi, qualche lacrima – la madre di Blaine aveva in mano un fazzoletto bianco – e non potè fare a meno di scorgere Sebastian che lo stava guardando con intensità, un piccolo sorriso sul volto. Kurt ricambiò e annuì per un attimo nella sua direzione, prima che il contatto visivo fosse interrotto da Harry che sussurrava qualcosa all’orecchio di Sebastian per poi baciarlo dolcemente sulla guancia.

A quel punto, iniziò la parte di cui Kurt era ancora una volta totalmente ignaro: il ricevimento. Pensava che sarebbero tornati subito in aeroporto, invece vide spuntare dal nulla degli addetti al catering che spingevano verso di loro lunghi carrelli bianchi con sopra aperitivi e bevande di tutti i tipi, prima di disporli a qualche metro di distanza dall’arco, uno accanto all’altro.

Durante il piccolo rinfresco, Blaine tenne Kurt per mano e gli fece conoscere i suoi ex compagni di scuola, presentandoglieli ad uno ad uno anche se Kurt probabilmente ricordò solo la metà dei loro nomi. Finn e Rachel stavano confabulando tra di loro a pochi passi di distanza dai genitori di Blaine, Rachel in particolare che si guardava intorno con aria furtiva e rimproverava Finn di tanto in tanto dicendogli di abbassare la voce.

“Che stanno complottando quei due?” disse Kurt a Blaine, facendo un cenno nella loro direzione con un sopracciglio alzato. Lo sguardo innocente che Blaine gli rivolse non l’avrebbe data a bere a nessuno.

“Non ne ho idea” rispose alzando le spalle, e Kurt dovette trattenersi dal replicare, optando per fingere di credergli visto che tanto non avrebbe ottenuto una risposta.

Molto presto, comunque, questa gli si presentò da sola. Rachel attirò l’attenzione di Blaine alzando la mano nella sua direzione e poi gli fece un occhiolino, prima di scomparire per un attimo al di là della fila di sedie e tirar fuori un piccolo stereo rosa da sotto, insieme a due microfoni abbinati. Kurt la squadrò mentre tornava verso lo spiazzo dedicato al ricevimento e guardò ancora una volta Blaine, che distolse appositamente lo sguardo, tradito da un sorriso più che consapevole.

Quando Rachel poggiò lo stereo sul prato a pochi passi da lei e diede a Finn l’altro microfono, anche gli invitati se ne accorsero e smisero momentaneamente di mangiare per voltarsi e guardare la scena.

“Posso avere l’onore di questo ballo?” disse Blaine, prendendo una tartina dalla mano di Kurt per posarla su un fazzoletto e conducendolo verso lo spazio più o meno circolare che avevano davanti.

“Sei incredibile” sussurrò Kurt scuotendo il capo, stringendogli la mano e seguendolo fino a posizionarsi davanti a lui. Scorse per un attimo suo padre con un bicchiere di aperitivo alla frutta in mano, un grande sorriso diretto verso di lui.

Rachel si sistemò brevemente le pieghe della gonna, si abbassò per premere un tasto dello stereo, e la musica iniziò.

 

Heart beats fast, colors and promises

How to be brave, how can I love when I'm afraid to fall?

 

Kurt si concentrò sul significato delle parole mentre lentamente faceva aderire il corpo a quello di Blaine, stringendogli le braccia al collo e facendo sfiorare le loro tempie, gli occhi che si chiusero quasi in automatico mentre iniziavano a girare insieme lentamente.

 

But watching you stand alone

 All of my doubt suddenly goes away somehow 

One step closer

Finn si unì a Rachel nel ritornello, la sua voce sovrastata da quella più acuta della ragazza in modo da creare una specie di intenso sottofondo con il suo tono più profondo.

 

I have died everyday waiting for you

Darlin' don't be afraid

I have loved you for a thousand years

I’ll love you for a thousand more” intonò inaspettatamente Blaine, sfiorandogli l’orecchio con le labbra e facendogli alzare la testa. Kurt lo guardò negli occhi e lo baciò mentre continuavano a girare.

 

Time stands still, beauty I know he is

I will be brave, I will not let anything take away

What's standing in front of me

Every breath, every hour has come to this

One step closer

“Sei felice?” gli chiese Blaine, aumentando leggermente la presa intorno ai suoi fianchi e sfiorandogli il naso con il suo. Kurt non potè fare a meno di sorridere a quel gesto.

“Sì” disse, giocando distrattamente con i ricci alla base del collo di Blaine. Lui chiuse gli occhi e appoggiò la fronte alla sua, il suo respiro regolare che danzava sulle labbra di Kurt mentre Finn iniziava a cantare con Rachel ancora una volta.

 

I have died everyday waiting for you

Darlin' don't be afraid

I have loved you for a thousand years

I'll love you for a thousand more


And all along I believed I would find you

Time has brought your heart to me

I have loved you for a thousand years

I'll love you for a thousand more

La musica sfumò verso la sua fine, finchè non furono obbligati a fermarsi dal silenzio solenne che piombò intorno a loro. Avevano tutti gli occhi addosso, ma era come se fossero completamente soli in quel momento.

“Restiamo così” disse Blaine, aprendo gli occhi per guardarlo senza accennare minimamente a lasciarlo andare.

“Così? Qui in piedi sull’erba di Central Park?” chiese Kurt vagamente divertito, prima che l’espressione di Blaine si facesse leggermente più seria e il suo sguardo vacillasse, la presa ancora più salda intorno a lui come se avesse improvvisamente paura di qualcosa.

“Ehi, no, no” lo ammonì con dolcezza Kurt quando Blaine ruotò la testa per non far vedere che stava piangendo, districando le braccia da dietro il suo collo per prendere il suo viso tra le mani e costringerlo a guardarlo.

“Cosa c’è?” gli sussurrò, e la sua voce gli sembrò incredibilmente alta a causa dell’assenza di suoni intorno a loro, al di là di clacson e automobili lontane per le strade che circondavano il parco. Sentì le dita di Blaine quasi conficcate nei suoi fianchi, e prima di potersene rendere pienamente conto e preoccuparsi ancora, Blaine gli rispose.

“Vorrei non doverti dire mai addio.”

Kurt abbassò lo sguardo con aria leggermente sconfitta, facendo scontrare le loro fronti. Odiava il modo in cui la tristezza poteva fare capolino nelle loro vite così, senza avvisare. Chissà quale pensiero era passato nella mente di Blaine per farglielo ricordare, ma non importava, perché ora Blaine era lì, tra le sue braccia, ed era triste. E non stava sorridendo.

Anche Blaine si odiò in quel momento per non essere abbastanza forte com’era stato fino a quel punto, e non aveva neanche idea di come quel pensiero avesse fatto a formarsi nella sua mente e poi lasciare le sue labbra, ma si sentì così debole e vulnerabile che non potè far altro che stringere Kurt ancora, inspirare con forza e dire a se stesso di tornare nel presente, di sorridere per suo marito, suo marito, che meritava il mondo intero e lui non poteva rovinare il loro giorno, non così. Aveva giurato a se stesso che non avrebbe rovinato nessuno dei loro giorni, non poteva arrendersi. Non lo avrebbe fatto.

E’ solo che Kurt era così vicino, così caldo tra le sue braccia, così bello, che Blaine non potè fare a meno di immaginare di vederlo svanire in quel preciso istante, come una nuvola di fumo, lasciandolo solo. Come avrebbe fatto?

E quasi come se Kurt gli stesse leggendo nel pensiero, seguendo il suo ragionamento fino a trovare una falla e porvi rimedio, alzò improvvisamente il viso, lo guardò negli occhi, e gli disse come fare.

“Non dovrai farlo” gli disse, stringendogli il viso tra le mani. Sorrise. “Ti basterà guardare il cielo di notte e mi vedrai.”

Blaine rilasciò una risata mista ad un singhiozzo, senza capire neanche lui cosa fosse realmente, ma si sentì un po’ più leggero. Sorrise.

In fondo, quel giorno iniziava la sua vita.

 

 

 

 

 


 

 

 

Se il discorso di Blaine vi è suonato vagamente familiare, è perchè non l'ho scritto io. E' la promessa del matrimonio di Alex e Izzie (Grey's Anatomy), che potete vedere qui se ne avete voglia. Ve lo consiglio, perchè è una delle scene più belle che esistano nell'intero mondo.

Ebbene si, il prossimo è l'epilogo, dio, mi viene troppo da piangere.

Ma è ufficiale: ho scritto una raccolta di 7 missing moments sulla vita matrimoniale di Kurt e Blaine, compresi tra questo capitolo e il prossimo, che non ho voluto aggiungere alla long perchè la trovo 'completa' così e perchè penso che stiano bene separati. Spero che mi seguirete anche lì :)

Spero che il matrimonio abbia soddisfatto le aspettative!


Niente anticipazioni per l'epilogo, altrimenti scoprireste troppe cose! Cosa posso dirvi? Che si piange - ahah, scontato - e che secondo me rimarrete, uhm, sconvolti? Diciamo sorpresi. Si, molto. Non vedo l'ora di sapere cosa ne penserete!

Aggiornerò o sabato o domenica (devo decidere :/), baci a tutti e grazie grazie GRAZIE, come sempre, a chi legge e recensisce. Vi amo.

 

 


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Capitolo 19
*** Epilogo ***


 

Come sempre, quando finisco una storia è come se mi staccassi un pezzetto di cuore per lasciarlo qui, e questo epilogo non fa eccezione. Spero così tanto che vi piaccia, non avete idea.

Ci rivediamo a fine capitolo, buona lettura e beh... fazzoletti pronti!

Questo è l'epilogo di Let Me Be Your Sun.

 


 

 

 

Il vero amore non lascia tracce
Se tu e io siamo una cosa sola
Si perde nei nostri abbracci
Come stelle contro il sole.

- Leonard Cohen

 


Blaine si svegliò lentamente, rigirandosi tra le lenzuola, finchè non si accorse del fatto che la sua sveglia segnava le undici. Era domenica, quindi poteva concedersi di non chiudersi nel suo studio per lavorare alla colonna sonora che gli era stata commissionata; ma c’era una cosa importante che voleva far vedere a Kurt da molto, moltissimo tempo, e aveva deciso che quello sarebbe stato il giorno giusto.

Si stiracchiò leggermente e si voltò, sorridendo teneramente alla vista di capelli castani arruffati e appiattiti in più punti in contrasto con il bianco del cuscino. Kurt era voltato dall’altro lato e dormiva a pancia in giù come sempre, la sua schiena che si alzava e si abbassava con regolarità.

“Kurt” sussurrò Blaine, allungando una mano per scuoterlo leggermente per la spalla. “Kurt, svegliati.”

“Mmm?” mormorò Kurt, allontanandosi di qualche centimetro e seppellendo ancora di più la testa nel cuscino. Blaine si trattenne dal ridere e lo scosse ancora.

“Svegliati, voglio farti vedere una cosa importante.”

Kurt sembrò colpito dal suo tono solenne e lentamente si voltò, ruotando su se stesso e sbattendo le palpebre per scacciare via il sonno. Alzò una mano per strofinarsi gli occhi e poi guardò Blaine, un piccolo sorriso che crebbe naturalmente sul suo volto.

“Va bene” disse con voce assonnata, e Blaine si avvicinò per baciarlo teneramente sulla fronte prima di scendere dal letto e andare in bagno per lavarsi e vestirsi.

“Ora puoi andare tu, io preparo la colazione” disse quando uscì qualche minuto dopo, e Kurt, seduto sul letto con la schiena contro il cuscino, annuì nella sua direzione prima di ruotare le gambe verso il bordo e scendere dal letto.

Quando raggiunse Blaine nella loro piccola ma accogliente cucina, l’aspetto vagamente rustico in abbinamento allo stile della casa, lui aveva già apparecchiato la tavola e preparato latte caldo per Kurt e un cappuccino per lui. C’erano anche vari tipi di marmellata, fette biscottate e pancakes.

“Adoro i pancakes” mormorò Kurt quasi eccitato mentre si sedeva al tavolo, afferrando una forchetta per prenderne almeno tre in una volta dal vassoio centrale e spostarli sul piatto vuoto che aveva davanti. Blaine lo osservò con la coda dell’occhio mentre sistemava la caffettiera al suo posto dietro il bancone, per poi raggiungerlo e unirsi a lui per la colazione.

“Allora, sei curioso?” gli chiese quando stavano ormai per finire, alzandosi per riordinare tutto.

“Moltissimo” rispose Kurt, asciugandosi la bocca con un fazzoletto e poggiandolo poi sul tavolo. Rivolse a Blaine un grande sorriso e lui lo ricambiò con calore, gli sguardi incatenati per un attimo. Una volta sistemato tutto, si presero per mano e si diressero verso la porta d’ingresso.

Era una calda giornata estiva, con il sole che splendeva alto nel cielo azzurro totalmente privo di nuvole, e si potevano persino sentire gli uccelli cantare tra le fronde degli alberi. L’acqua del laghetto quasi brillava sotto tutta quella luce, sembrando praticamente immobile a causa del vento troppo debole e l’aria afosa, seppur abbastanza sopportabile.

Blaine condusse Kurt al di là della porta e insieme scesero giù per i gradini di legno che dal portico conducevano direttamente sul prato del giardino, a pochi passi dallo specchio d’acqua chiara. Kurt si schermò il viso con un braccio in attesa che le sue pupille si abituassero alla luce, continuando a camminare al fianco di Blaine che silenziosamente gli fece fare il giro della casa fino ad arrivare sul retro, per poi incamminarsi in linea retta verso una zona alberata più appartata, al limite estremo del muretto che delimitava la loro proprietà.

C’era una serie di alberi che creavano una specie di semicerchio, una sorta di radura artificiale, intima e tranquilla. Quando finalmente si trovarono davanti ad essa, si fermarono e rimasero per qualche secondo in silenzio. Kurt sentì la mano di Blaine farsi più forte e sicura sulla sua, e quando si voltò per guardarlo si accorse che stava fissando un punto preciso davanti a sé, le labbra serrate. Seguì silenziosamente il suo sguardo e rimase a riflettere, cercando di capire. Alla fine, fu costretto a chiedergli spiegazioni, troppo incuriosito da ciò che aveva davanti.

“Papà, perché c’è scritto il mio nome su quella pietra?”

Blaine accennò un sorriso e abbassò lo sguardo su di lui, prima di inginocchiarsi in modo da poter essere alla sua stessa altezza. Gli prese entrambe le mani e lo fissò con intensità, in un modo in cui non lo aveva mai guardato.

“Perché quello è il nome dell’altro tuo papà” gli disse, e Kurt inclinò la testa con curiosità e arricciò le labbra.

“Ho un altro papà?” chiese, la voce leggermente acuta per l’incredulità di fronte ad una notizia del genere. Non credeva che si potessero avere due papà: conosceva dei bambini che ne avevano uno soltanto, come lui, ma nessuno che ne avesse due.

“Sì” disse Blaine, sorridendo di fronte alla sua ingenua meraviglia. “Ho aspettato che tu fossi abbastanza grande per dirtelo, altrimenti non avresti capito.”

“Oh… e dov’è?” chiese allora Kurt, guardandosi intorno come se l’uomo misterioso avesse potuto sbucare da dietro un albero da un momento all’altro. L’espressione di Blaine si rattristò leggermente, ma nel giro di un secondo si ricompose e gli lasciò una mano per accarezzargli una guancia.

“Lui è una persona molto speciale. Lo si può vedere soltanto di notte” disse, strofinandogli lo zigomo con il pollice. Kurt sembrò pensieroso per un attimo.

“Come l’uomo nero?” disse, il tono quasi ansioso e preoccupato. Blaine sorrise e scosse il capo.

“No, non come l’uomo nero. Come una stella.”

Kurt si ritrasse e assunse un’espressione stupita, ripetendosi nella mente quello che aveva appena sentito.

“Vuol dire che brilla come loro?” chiese in tono speranzoso, l’incredulità palese nella luce dei suoi occhi chiari. Somigliavano tanto a quelli di Kurt come colore, ma neanche lontanamente come intensità. Forse avevano semplicemente poche esperienze alle spalle, poche emozioni e storie da raccontare. Ma un giorno avrebbero fatto innamorare qualcuno. Blaine lo sapeva.

“Sì, esatto” gli disse annuendo, lasciando il suo viso per prendergli di nuovo la mano. Alzò gli occhi verso il cielo e poi li chiuse, il calore del sole che quasi pizzicava sulla pelle in modo vagamente piacevole. Quando li riaprì, sospirò e tornò a guardare Kurt, che sembrava come in attesa di sentire dell’altro mentre lo osservava rapito. Blaine sbattè le palpebre e guardò per un attimo in direzione della radura, prima di riportare di nuovo gli occhi su suo figlio.

“Stanotte te lo farò conoscere. Lui è una stella, Kurt.”

 


 

Quella notte, mio padre mi portò davvero a conoscere Kurt. Mi condusse di nuovo in giardino, ma questa volta davanti casa, e mi disse di stendermi accanto a lui proprio al di sotto della collina, tra il pendio e il lago, per poi alzare gli occhi e guardare il cielo.

Io mi meravigliai di fronte alla miriade di astri che c’erano, accentuati dalla quasi totale assenza di luci in giardino e dal fatto che la casa fosse molto isolata, ma mi domandai come avrei fatto a riconoscerlo tra tante. Sembravano tutte uguali, erano come puntini di luce disegnati sopra un grande foglio nero per me, e per un attimo mi sentii perso.

Ma poi un bagliore particolare catturò la mia attenzione, e smisi di vagare con lo sguardo per concentrarmi su una stella ben precisa. Mio padre si accorse della mia espressione concentrata e alzò per un attimo il viso verso il cielo, prima di sorridere e tornare a guardare me.

“Lo vedi?” chiese in un sussurro, e io annuii silenziosamente, incapace di distogliere lo sguardo.

“E’ proprio bello” dissi quasi rapito, sorridendo ampiamente. Con l’ingenuità tipica di un bambino, ero felice di essere l’unico al mondo a poter avere un papà che splendeva nel cielo, e anche se non lo potevo toccare né vedere da vicino, in quel momento, inspiegabilmente, la cosa non mi fece soffrire.

“Sì, lo è” sussurrò mio padre, la voce lievemente incrinata dall’emozione.

Ci vollero un paio di anni per rendermi conto che l’assenza di Kurt, oltre ad implicare il fatto che fosse una stella, significasse anche che un tempo era stato di certo umano e che era scomparso prima che io nascessi. Ero troppo piccolo, all’epoca, per capire il vero significato di una pietra con un nome e delle date incise sopra. Quando lo capii, fu a causa di un film che stavamo vedendo insieme alla televisione in cui ad un certo punto la protagonista andava a lasciare dei fiori su una tomba al cimitero, prima di inginocchiarsi su di essa e piangere.

Mio padre si irrigidì sul divano accanto a me e si affrettò a prendere il telecomando per cambiare canale, ma prima che potesse riuscirci io gli chiesi: “Quindi papà è morto?”

Lui esitò per un attimo, chiudendo gli occhi ed inspirando, e alla fine si voltò verso di me e mi fissò intensamente.

“Sì” disse, prendendomi la mano.

“Allora mi hai detto una bugia, non è una stella!” esclamai, cercando di ritrarmi, ma lui la tenne stretta e me lo impedì.

“No, non era una bugia. Non ti ricordi? Lo hai anche visto” mi disse con disarmante ovvietà, e ancora oggi mi provoca una fitta al cuore pensare che non lo disse soltanto per convincermi, che non era una scusa inventata per rendere le cose più facili, perché lui ci credeva davvero e so che ci crede tutt’ora. So per certo che di notte, quando il suo compagno Richard dorme profondamente nel loro letto, sgattaiola fuori e alza gli occhi verso il cielo come faceva sempre negli anni in cui abitammo nella piccola casa che mio nonno Burt aveva fatto costruire per loro.

Ora ci vivo soltanto io, perché non avrebbe mai potuto condividerla con un’altra persona. Conosco bene Richard, ovviamente: è una brava persona, dolce e gentile, lo ama molto. Credo che anche lui lo ami.

Me lo domando, a volte; mi domando se possa davvero farlo, se creda di farlo, o se sappia che non è così ma allo stesso tempo sappia anche che questo è il massimo che potrà mai dare ad un altro uomo. Ma so che è felice, glielo leggo negli occhi quando vado a trovarlo a New York. So che ha mantenuto la sua promessa, nonostante tutto.

Ma mentirei se dicessi che è andato davvero avanti, perché ama ancora Kurt. Me ne accorgo quando ne parla, anche se lui crede che non si noti; mi accorgo di come i suoi occhi si illuminano e allo stesso tempo sembrano improvvisamente offuscati, persi in un tempo che io ho potuto conoscere soltanto dal diario che mi ha fatto leggere quando sono diventato abbastanza grande da capire.

Mi ha anche insegnato a dipingere e a suonare il piano come lui, mi ha fatto vedere i quadri rimasti che non ha mai avuto il coraggio di vendere e la quantità infinita di spartiti musicali che Kurt ha lasciato sparsa disordinatamente sulla sua scrivania, e che né mio padre né mio nonno hanno mai riordinato. E’ tutto ancora lì, dopo tutti questi anni. Il suo rifugio, il suo piccolo santuario, sembra intatto. Certe volte ci vado, mi chiudo la porta alle spalle e immagino Kurt dipingere sulla tela, e mio padre che lo guarda dalla soglia proprio dove mi trovo io.

Lui dice sempre di avermi scelto perché gli ricordavo Kurt. Mi adottò pochi mesi dopo la sua morte, scegliendomi tra tanti bambini lasciati all’ospedale da madri troppo giovani e inesperte per prendersi cura di loro, con l’intento di sentirsi meno solo, di colmare il vuoto del suo cuore, e di trovare un altro essere umano a cui poter donare tutto l’amore che aveva ancora in corpo per evitare che andasse sprecato, perché Kurt non avrebbe mai voluto che succedesse.

Dice di essersi fermato di fronte al vetro, avervi appoggiato sopra le mani, ed essere rimasto a fissarmi. Dice che i miei occhi hanno brillato, e chissà, forse è stata soltanto un’illusione ottica provocata dalla luce artificiale e biancastra della stanza in cui mi trovavo, è impossibile da dire. Ma anche dopo tanto tempo, mi dice ancora che glielo ricordo in tante cose, anche se non gli somiglio molto.

Avrei voluto tanto conoscerlo. Certe volte mi siedo sul letto, apro il comodino e tiro fuori il loro diario per rileggere qualche pagina, chiudo gli occhi e vi passo sopra le dita immaginando Kurt a scriverci sopra. C’è ancora il segno di qualche lacrima sbiadita, sulle pagine scritte in quel breve periodo in cui si lasciarono.

Credo sia per questo che mio padre mi abbia regalato il diario, perché spera che possa colmare il vuoto provocato dalla sua assenza. O forse lo ha fatto semplicemente per impedire a se stesso di rileggerlo all’infinito. So che ha tenuto l’album di fotografie, al quale nel corso degli anni lui e Kurt aggiunsero quelle del matrimonio e poi tante altre ancora; in fondo, il suo compagno sa che è stato sposato e non è così strano che lo abbia tenuto, mentre forse lo farebbe soffrire leggere parole così piene d’amore, e mio padre non vuole che lui soffra.

Devo dire che le mie pagine preferite sono quelle successive al matrimonio, quando a poco a poco entrarono in una sorta di calma e tranquilla routine ma continuarono ad amarsi come fosse il primo giorno, come due ragazzini incoscienti. Anche a distanza di anni, Kurt scriveva ancora che il sorriso di Blaine era più luminoso del sole e Blaine scriveva ancora che gli occhi di Kurt erano profondi come l’oceano. Nonostante vivessero insieme, alternavano i giorni in modo da poter scrivere a turno le loro sensazioni, creando piccole lettere che non avrebbero mai dovuto spedire e che si accumularono a poco a poco.

So cosa state pensando adesso. Vi state chiedendo cosa c’è scritto sull’ultima pagina. Vi state chiedendo che cosa ha scritto Kurt sapendo che mancava poco, e cosa ha risposto Blaine, e come si sono detti addio. Ma il bello è che non lo hanno fatto, non si sono detti mai addio.

L’ultima pagina l’ha scritta mio padre la mattina del trentesimo compleanno di Kurt. Nei pochi mesi successivi, nessuno dei due scrisse.

 


Ti sto guardando dormire, come al solito te la prendi comoda. Potrei anche convocare una banda musicale per svegliarti a suon di tamburi, ma tu ti limiteresti a voltarti dall’altro lato e grugnire nel sonno. A proposito, mi hai appena dato un calcio. Inizio a pensare che tu mi legga davvero nel pensiero, persino mentre dormi.

Sei bello come allora, lo sai? Come quella notte sulla riva del lago, come quella in cui ti ho baciato per la prima volta, come quella in cui ti ho sposato. Sei perfetto.

E se fossi sveglio adesso, mi daresti una gomitata e mi diresti di smetterla di ripeterlo, e io alzerei le spalle e direi di non poterne fare a meno, perché lo sei.

Chissà se mi stai sognando adesso. Spero di si, perché stai sorridendo ad occhi chiusi. Magari dopo mi racconterai cosa stai sognando e scoprirò che non ha niente a che vedere con me. Quindi se leggi questa pagina prima che io te lo chieda, puoi sempre mentire e dire che c’ero io nei tuoi pensieri, d’accordo? Anche se me ne renderò conto farò finta di non saperlo!

Oh, quasi dimenticavo… buon compleanno, amore mio.

 


Ancora adesso mi chiedo cosa stesse sognando Kurt quella mattina, ma non lo chiederò mai a mio padre, non lo saprò mai. Mi piace pensare che stesse sognando lui, comunque.

Avrei voluto conoscerlo, davvero. Ma quando mi capita di leggere il diario, o di guardare il cielo di notte, penso ingenuamente che forse, in qualche modo, è come se lo avessi fatto.

Mi ha insegnato tante cose, anche se lui non lo sa. Mi ha insegnato ad apprezzare quello che ho, a sfruttare il tempo, e soprattutto, mi ha insegnato che l’amore sconfigge tutto. Perché non può essere altrimenti, se mio padre prende un aereo almeno una volta al mese per tornare qui e venirlo a trovare e ogni volta, ogni volta, gli dice che lo ama e che non lo ha mai dimenticato proprio come ha promesso tanto tempo fa, quando Kurt gli ha chiesto di tenere da parte per lui almeno un pezzo del suo cuore.

Francamente, credo che tutto il suo cuore sia di Kurt. Non so se si possano amare due persone contemporaneamente; forse ci sono semplicemente tipi diversi di amore. Forse quello che prova per Kurt è diverso da quello che prova per Richard, senza che le cose entrino in competizione.

Ma penso che al di là di tutto, la cosa più importante è che sia riuscito a sfruttare ogni attimo proprio come voleva, altrimenti non potrebbe vivere come vive adesso, senza rimpianti. Perché fino a quando ha potuto ha fatto esattamente quello che voleva: ha reso Kurt felice. E credo sia questo pensiero a permettergli di dormire serenamente la notte, sapere con certezza di aver fatto tutto quello che poteva.

Certe volte li invidio, paradossalmente. Potrà sembrare egoista da parte mia, ma sinceramente non posso fare a meno di domandarmi a quante persone nel mondo, nella storia, sia concesso di vivere un amore così. Forse c’è un numero ben preciso di volte, di possibilità gettate a caso sulla Terra da qualcuno come fossero granelli di sabbia, in attesa che qualche fortunato li colga. Mi domando anche quante persone ci passino sopra senza rendersene conto, calpestandoli con noncuranza.

Quante persone non colgano un’occhiata, o non facciano il primo passo, pensando che tanto ci sarà un’altra occasione, ci sarà un’altra volta, ci sarà qualcun altro, ignare del fatto che quell’occhiata ricambiata, o quella telefonata, quell’incontro, avrebbero potuto cambiare la loro vita proprio come quel biglietto attaccato alla bacheca della Dalton cambiò la vita di Blaine.

Ma il brutto, e forse allo stesso tempo il bello della cosa, è proprio questo: le persone sono ignare, inconsapevoli. E’ difficile che riconoscano il vero amore quando ce l’hanno davanti, a volte neanche lo vedono, ci guardano attraverso in cerca di chissà cos’altro come se fosse una lastra di vetro. Ma se invece fossero in grado di capirlo, chissà, magari si perderebbe il gusto di cercarlo.

Se mio padre avesse capito subito di essere destinato ad incontrare Kurt, avrebbe sicuramente perso molto meno tempo a farsi problemi, a scervellarsi per capire, a cercare le risposte nei posti sbagliati. Ma lui mi dice sempre che, se potesse tornare indietro, rifarebbe tutto esattamente allo stesso modo, perché quella che mi ha raccontato, quella che vi ho raccontato, è la loro storia e cambiarla sarebbe un gran peccato. Renderla più semplice, più facile, forse la renderebbe meno triste, sì, ma non sarebbe più la loro. Non sarebbero Kurt e Blaine, e non sarebbe il loro modo di amarsi.

E’ questo il bello delle storie, in fondo. Che piacciano o no, chi le ascolta, chi le legge, non le può cambiare; può soltanto rimanere in attesa di conoscere il finale, di sapere se l’eroe riuscirà a salvare la donzella in pericolo, se l’amore alla fine trionferà su tutto o se invece il cattivo di turno avrà la meglio sui protagonisti.

In questo caso in particolare, credo sia difficile da dire. Forse sta ad ognuno di voi stabilire se Kurt e Blaine abbiano vinto, se la morte li abbia davvero divisi.

Ma visto che sono stato io a raccontarla, vi dirò lo stesso cosa penso. Penso che ci siano tanti modi di morire, e il peggiore fra tutti è morire da soli, essere dimenticati. Ma Kurt non verrà mai dimenticato, né da mio padre, né da suo padre, né da me.

Quindi penso che alla fine dei conti lui abbia vinto. Che loro abbiano vinto. Perché amandosi hanno riempito le loro vite, amandosi hanno imparato a sorridere, hanno imparato a vivere. Ve l’avevo detto che l’amore non è mai banale. Ha così tante forme, così tanti volti, è sempre diverso come l’alba che Blaine descrisse a Kurt prima di diventare suo marito e come il colore che Kurt non riuscì mai a dipingere.

Mi piace pensare che questo sia stato il suo unico rimpianto, alla fine della sua vita. Non essere riuscito a ricreare il miele dei suoi occhi. Ma forse è stato meglio così; forse, se ci fosse riuscito, gli avrebbe subito dato meno valore perché un colore così bello non poteva essere fatto per essere dipinto, così come non si può scolpire, suonare, dipingere o fotografare l’amore. Lo si può fare con le sue forme, con i modi in cui si manifesta, ma l’attimo dopo cambia, sfugge. L’unico modo in cui lo si può imprimere su qualcosa, è nella memoria.

Ed è per questo che ho raccontato questa storia, perché così in qualche modo rimarrà almeno il suo ricordo, e voi saprete che c’è stato un tempo, c’è stato un posto, in cui due persone si sono innamorate un giorno e non hanno mai più smesso.

Un tempo e un posto in cui c’era il buio una volta, e all’improvviso non fu più così.

Perché in quel tempo, e in quel posto, Blaine brillò per Kurt come il sole dell’estate.

 

 

FINE.

 

 

 


 

 

 


Ok. Bene. Spero siate ancora qui perchè devo dirvi tante cose importanti!

Prima di tutto: si, fino a questo momento sono stata la voce del figlio di Blaine e voi non lo sapevate nemmeno! Furba eh? Naturalmente non ho idea di come funzioni l'adozione per i single in Ohio, forse non è neanche possibile, ma sorvoleremo su questo piccolo dettaglio.

Immagino che molti di voi avrebbero voluto altre scene con i 'veri' Kurt e Blaine, piuttosto che questo enorme stacco temporale, ed è per questo che ho deciso di scrivere i Missing Moments! Questo è il link del primo capitolo della raccolta: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1024723&i=1

Se volete seguirmi per non perdervi l'aggiornamento, questa è la mia pagina autore su Facebook e questo è il mio account su twitter.


I miei ringraziamenti speciali di oggi vanno a due persone:

- Tom Rìddle, che ha creato questa locandina per la storia;

- Elisa Porcu, che ha creato questo fanvideo con le citazioni della storia.

Veramente, grazie grazie grazie e ancora GRAZIE. Siete fantastici e sono senza parole.


E ovviamente grazie a TUTTI: chi ha letto, chi ha recensito, chi in più occasioni ha sentito il desiderio di venirmi a cercare per staccarmi la testa dal collo e poi non lo ha fatto, chi mi ha detto "mi emozioni" e "mi trasmetti qualcosa" perchè sono cose che davvero, non hanno prezzo per me.


E visto che Kurt II ve l'ha chiesto, e Kurt II sono io, ve lo domando di nuovo:

Alla fine dei conti, Kurt e Blaine hanno vinto?

 

 

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