Ceneri di TuttaColpaDelCielo (/viewuser.php?uid=55175)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 00. Ricordi? ***
Capitolo 2: *** 01. Sacrificio in divenire ***
Capitolo 3: *** 02. Il sole muore ***
Capitolo 4: *** 03. Parole ***
Capitolo 5: *** 04. Cristallo ***
Capitolo 6: *** 05. Principio ***
Capitolo 7: *** 06. Specchio ***
Capitolo 8: *** 07. Precipitare ***
Capitolo 9: *** 08. Silenzio ***
Capitolo 10: *** 09. Notte ***
Capitolo 11: *** 10. Flusso ***
Capitolo 12: *** 11. Colori ***
Capitolo 13: *** 12. Pensiero ***
Capitolo 14: *** 13. Scelta ***
Capitolo 15: *** 14. Tradimento ***
Capitolo 16: *** 15. Chiudi gli occhi ***
Capitolo 17: *** 16. Pioggia ***
Capitolo 18: *** 17. Quarto Evo ***
Capitolo 19: *** 18. Accusa ***
Capitolo 20: *** 19. Cecità ***
Capitolo 21: *** 20. Odio ***
Capitolo 22: *** 21. Marionetta ***
Capitolo 23: *** 22. Patto ***
Capitolo 24: *** 23. Quiete stanca ***
Capitolo 25: *** 24. Passato che torna; futuro che muore ***
Capitolo 26: *** 25. E fa male ***
Capitolo 27: *** 26. Legami ***
Capitolo 28: *** 27. Follia ***
Capitolo 29: *** 28. Non voglio ***
Capitolo 30: *** 29. Ciò che è successo ***
Capitolo 31: *** 30. Silenzi ***
Capitolo 32: *** 31. Tramonto ***
Capitolo 33: *** 32. Aenor ***
Capitolo 34: *** 33. Ishild ***
Capitolo 35: *** 34. Sangue ***
Capitolo 36: *** 35. Fiore marcio ***
Capitolo 37: *** 36. Eco ***
Capitolo 38: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** 00. Ricordi? ***
Prologo – Ricordi?
Appena
creata, con la schiena ancora sanguinante, ti ergevi tra le fiamme.
Ricordi?
Lei sorride.
Tu no.
Tu hai
paura, perché sei umana.
Lei forse
non lo è mai stata.
Era
il Fuoco della Venuta: alimentato dal nulla, dal nulla generava
l’essenza e plasmava l’involucro.
Ricordi?
Senti lo
strappo.
Lacera. Fa
male.
Chi ti ha
ferita?
Chi ti ha
sporcata?
Scuotevi
le ali rossastre, con il movimento cauto e incerto degli infanti, che
ancora soffrono per gli squarci alla schiena.
Ricordi?
Lei
scompare.
Ti
abbandona.
Tu rimani
incatenata a queste spoglie.
Il fuoco,
intanto, brucia.
Eppure
non era quell’ovvio dolore a tormentarti, non era il tuo
corpo naturalmente danneggiato. Era qualcosa di più
profondo, di incomprensibile.
Ricordi?
Brucia,
brucia!
Non
ascoltano: il rito non s’interrompe. Mai.
Le leggi
vanno rispettate.
Il tuo
corpo diventa cenere.
«È
ferita.» dissero, guardandoti, e di certo non riferendosi
agli squarci della nascita; ma come potevi essere ferita in altro modo,
se iniziavi allora ad esistere?
Ricordi?
Muori,
inghiottita dal buio.
L’attesa,
l’angoscia. Il ritorno.
Lei non
c’era.
Solitudine.
«Ho
sbagliato qualcosa?» chiedesti, tremando nel fuoco.
Ricordi?
E ardesti
ancora.
Nascesti,
iniziando alla fine.
Dimenticasti.
O no?
«No.
Non hai sbagliato nulla.» ti risposero «Non
è colpa tua.»
Ricordi?
Puoi
guardarti allo specchio e pensare?
Non credere
al Fuoco della Venuta.
Riesci a
tenere i fantasmi per mano?
Non negare
la gelida ora mortale.
Ti
condannarono ugualmente.
Ricordi.
*** Angolo autrice: Questo è solo un piccolo prologo, domani pubblicherò il primo capitolo. Ne ho già pronti alcuni, quindi posso assicurare aggiornamenti regolari. So che il contenuto di quest'inizio è poco comprensibile, ma con l'evolversi della storia si spiegherà tutto ^^ Discrepanze nell'uso dei tempi verbali sono volute. Grazie a chiunque abbia letto, pareri e critiche sono ovviamente ben accetti!
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Capitolo 2 *** 01. Sacrificio in divenire ***
Capitolo
1 – Sacrificio in divenire
Una luce calda e soffusa accarezzava le sagome distese, ammorbidiva i contorni e li rendeva incerti. Capelli sciolti sui guanciali, ali avvolte al busto, gambe piegate al petto, tutto sfumava in macchie rossastre poco definite.
Era impossibile capire da dove provenisse: le ampie finestre erano oscurate dalle tende, nessuna torcia ardeva alle pareti. Sembrava che l’aria stessa avesse assunto quel colore, senza produrre alcuna ombra. Semplicemente, la luce c’era.
Il fuoco vegliava i propri figli e ne guidava il riposo.
Lei poteva quasi sentire la sua carezza sulla pelle, simile al tocco del sole che muore, ma infinitamente più dolce, più avvolgente, più calda. Troppo, per permetterle di dormire a lungo: l’intensità della Presenza iniziava a diventare fastidiosa, anziché indurle il sonno, come una madre apprensiva e soffocante.
Lasciò scorrere lo sguardo lungo la camera, sulle otto compagne addormentate. Solo Cassiel, oltre a lei, era sveglia: ritta di fronte al letto, scuoteva le ali per riprendere sensibilità, senza accennare alcun dolore – gli squarci della nascita dovevano aver già smesso da tempo di sanguinare.
Cassiel era stata creata da poco, ma era giunta senza difficoltà alla classe di mezzo del ciclo inferiore, e già si mostrava troppo matura anche per quella. La fascia rossa che portava in vita era visibilmente più scura delle piume, tra cui iniziavano ad intravedersi rare macchie tenui, quasi bianche – l’aspetto tipico dell’ultima classe, a cui probabilmente sarebbe stata assegnata a breve, saltando quinta e sesta; ma nessuno dubitava che avrebbe ben presto abbandonato anche quella, entrando nel ciclo superiore sotto la guida del miglior mentore disponibile.
Avrebbe completato il ciclo inferiore nel tempo in cui di solito si avanzava di una classe. Mostruoso.
«Esci, se la Presenza ti infastidisce così tanto.» sussurrò, notando che si aggirava inquieta tra i letti.
Quella le puntò addosso gli occhi dal taglio obliquo, contrariata. «È vietato.»
«Ma così non riuscirai a riposare bene.»
«Non ne ho bisogno, per gli esercizi di oggi. Li trovo semplici.»
Cassiel avrebbe anche potuto piacerle, se solo non fosse stata così arrogante. Un se irrealizzabile.
Si voltò su un fianco, soffocando l’irritazione con uno sbuffo nel cuscino: lei, invece, di riposare bene ne aveva bisogno.
Il rosso delle sue ali era leggermente più chiaro della fascia ai fianchi, e gli squarci della nascita si trovavano in situazione migliore rispetto a quelli dei compagni; anche la Presenza che accompagnava la quarta classe nel sonno iniziava ad essere troppo intensa per farla dormire al meglio. La maturazione era quindi a buon punto, ma ancora non abbastanza per avanzare di fascia, come testimoniavano le difficoltà durante l’allenamento. E di certo il riposo inquieto non aiutava.
Era una situazione logorante, che si ripeteva nell’ultima fase di ogni classe, e che tutti conoscevano bene. Tranne, a quanto pareva, Cassiel e gli altri rarissimi geni come lei – che probabilmente non si potevano neppure definire cherubini, ma adulti in un involucro troppo immaturo.
La porta si schiuse, distogliendola da quei pensieri.
Entrò silenziosamente una figura alta, sottile. Alla luce della Presenza i ricci biondi si illuminarono di riflessi rossastri, e gli occhi chiari si puntarono a terra, infastiditi. La schiena, lasciata nuda per metà dall’abito, era spoglia; la giovane doveva essere quasi adulta, per saper ritirare le ali, e infatti i fianchi erano cinti dalla fascia grigia del ciclo superiore.
A differenza di quanto accadeva in quello inferiore, non esistevano distinzioni di classe e di colore: vi era un’unica tonalità, poiché unico era il passo da fare, che poteva richiedere tanto un secolo quanto un millennio. Lei, in particolare, stava impiegando più tempo degli altri.
Fu probabilmente per questo, e non perché era vietato abbandonare il proprio dormitorio, che Cassiel la accolse con un’occhiata di altera insofferenza; forse anche per invidia, per le libertà e i privilegi concessi agli allievi del ciclo superiore, a cui lei non era ancora ammessa.
La nuova arrivata intercettò il suo sguardo intollerante e sogghignò: «Non preoccuparti, Cassiel, non vi metterò nei guai. È difficile che qualcuno ti veda uscire, se dormi da sola.»
«Potrebbero vederti nei corridoi.»
«Ma in fondo a me è quasi permesso. Le Custodi al massimo mi fanno un rimprovero. A me.»
L’altra strinse le labbra e si preparò a rispondere, ma una voce infastidita interruppe la discussione: «Cassiel, torna a dormire, o cammina, o fai pensieri filosofici, quello che vuoi, ma taci. Anane, sei qui per me, non per lei. E abbassate la voce, non ci tengo a svegliare tutte.»
«Scusa, Amitiel.» ridacchiò la più matura, raggiungendo il suo letto e sedendosi a gambe incrociate.
Lei la imitò, ormai completamente sveglia. «Allora, novità?»
«Due. Quale vuoi per prima, quella bella o quella brutta?»
«Brutta.»
«Dunque, quella brutta è...» non riuscì a soffocare un sorriso entusiasta, annullando qualsiasi inquietudine dell’altra «che d’ora in avanti dovrò allenarmi ancora di più.»
«E perché sorridi?»
«Questa è la notizia bella.»
Anane si voltò e mostrò la schiena spoglia e nuda, coperta solo dai fitti ricci.
«Sai ritirare le ali. Oooooh.» mimò un’espressione sorpresa «Che novità.»
«Non dare troppo sfogo all’invidia, cara.» rise, e raccolse i capelli su una spalla «Ecco, adesso puoi.»
Amitiel trasalì, rimanendo per lunghissimi istanti a fissarle le scapole; anche Cassiel, dopo qualche passo poco casuale nella loro direzione, sussultò.
In Anane, gli squarci della nascita non avevano più ragione d’essere chiamati così. Non erano le ferite aperte e sanguinanti dei Cherubini appena creati, né quelle in via di guarigione dei meno immaturi, e neppure i graffi profondi del ciclo superiore: erano segni in rilievo, quasi rimarginati, solo leggermente lucenti per l’irritazione.
«Ridwan ha detto che presto saranno cicatrici.» annunciò, orgogliosa per le parole del maestro «E anche le ali migliorano. Tra poco potrei svilupparmi.»
«Ridwan ha deciso di averti sopportata abbastanza a lungo, deduco.» celiò l’amica.
Amitiel non avrebbe mai detto quelle parole a qualcun altro, ma era Anane; e Anane non avrebbe mai accettato quelle parole da qualcun altro, ma era Amitiel. Dovettero pensarlo entrambe nello stesso istante, perché si sorrisero, con la sincronia di chi ha passato secoli a conoscersi.
Continuarono a parlare sino a quando la Presenza non si fece più lieve, per preparare i cherubini al risveglio. Amitiel si lasciò scivolare sdraiata, percependola finalmente ad un’intensità riposante.
«Certo che è infantile. Avere ancora bisogno della Presenza per dormire, intendo.» sogghignò Anane.
Lei la colpì con un calcio. «È infantile deridere per qualcosa di naturale, invece.»
«Come farai al ciclo superiore, povera piccola? Nel nostro dormitorio la Presenza non c’è.»
Altro calcio. «Anane, sparisci.»
Quando quella fuggì verso la propria stanza, sorridevano ancora, senza sapere che non sarebbe più accaduto – non con quella serenità, almeno.
Che l’una stava per immolare tutto in nome del nulla.
Che l’altra stava per offrire la gola alla lama crudele dell’inganno.
E che altri ancora stavano per essere intrappolati in una lotta a loro estranea – pedine che l’ambizione e l’egoismo non avrebbero esitato a distruggere.
Il sacrificio si preparava, nell’ombra dell’ignoranza.
* * *
Il gruppo era schierato su due file di fronte all’insegnante: venticinque giovani – quindici della sezione maschile e dieci di quella femminile – nella divisa morbida e aderente da esercizio fisico. Il tessuto candido lasciava scoperte le scapole e le braccia, annodandosi al collo; in vita, la fascia era sostituita da una sottile striscia rossa, che non disturbava i movimenti ma identificava ugualmente gli allievi.
La tonalità indicava la classe; gli asterischi bianchi sul lato destro, il numero del gruppo.
Quarta classe, ottavo gruppo.
Come ad ogni prima lezione, attendevano tutti l’ordine di uscire.
L’uomo tuttavia rimase a fissarli in silenzio, prestando attenzione ora all’uno ora all’altro, come soppesandoli. Sembrava cercare differenze nell’uniformità mostrata dagli abiti identici; differenze che andavano oltre la semplice fisionomia. Non si soffermava sugli occhi dal taglio obliquo e sui capelli neri e lisci, comparsi da poco tra i nuovi creati; né sui ragazzi con la pelle scura, che spiccavano tra i compagni pallidi; né sull’allieva dai colori chiarissimi, quasi bianchi. Lasciava vagare lo sguardo sulle ali, sul petto, sugli occhi, senza logica apparente – impegnato in un’analisi a loro incomprensibile, poiché erano ancora troppo immaturi per percepire le essenze così profondamente.
Questo, secondo il parere dell’insegnante, era un motivo sufficiente per escluderli da qualsiasi incarico che superasse la bassa difficoltà. Secondo il parere delle Autorità, no.
«Bene.» disse infine, rompendo il silenzio, ma dalla sua espressione non sembrava andare bene per nulla «Raphael, Cassiel, Amitiel, voi rimanete qui. Gli altri, fuori. Per oggi farete esercizio con il sesto e il settimo gruppo.»
Gli allievi si affrettarono ad uscire, inquietati da quel comportamento singolare, e lui fece cenno ai tre rimasti di sedersi.
«In basso, Amitiel.» precisò, quando lei tentò di risalire la gradinata che occupava gran parte dell’aula.
Quella si sistemò con palese insofferenza accanto a Cassiel, sul livello inferiore, e osò chiedere: «Cosa succede, Nelchael?»
«Fuori i taccuini.» la ignorò «Dimensione umana. Prima che me lo facciate notare, sì, è argomento della quinta classe e no, non ho idea del perché debba spiegarvelo ora.»
Amitiel si curvò entusiasta a prendere appunti, dimentica di qualsiasi domanda, come se quell’argomento – di solito ritenuto noioso – fosse di enorme interesse.
Nelchael serrò le labbra. Non andava bene, non andava bene per niente. Si sarebbero fatti ammazzare. Doveva impedirlo, doveva evitare che venissero sacrificati per un errore di valutazione, doveva... doveva solo comunicare alle Autorità che la loro proposta – no, il loro ordine – era fuori discussione. Non esattamente come battere le ali.
* * *
«Anane.»
L’interpellata alzò il capo biondo verso l’altra, smettendo di sottolineare sul libro. «Sì?»
«Cos’è il buio?»
«...il contrario del caldo, credo.»
Amitiel aggrottò la fronte, poco convinta, e tastò attorno a sé per trovare il taccuino. Erano in camera della più matura, sedute a gambe incrociate sul letto, immerse nello studio – situazione insolita, ma avevano trovato entrambe un motivo per impegnarsi. L’una vedeva finalmente concreta la possibilità di svilupparsi, l’altra aveva un’infinità di appunti fuori programma per uno scopo ancora ignoto.
Peccato che i suddetti appunti non avessero alcuna utilità, finché se ne stavano sul pavimento, ben lontani dalla proprietaria. Lei si sporse a prenderli, con una smorfia per il dolore agli squarci, e iniziò a sfogliare rapidamente le pagine.
«Contrario del caldo... no, quello era il freddo.»
«Ah, allora della luce.»
«E com’è?»
«È... strano.»
«Strano?»
«Sì.» afferrò una penna e iniziò a ricoprire il bordo della pagina di inchiostro «È come se fosse tutto così. Gli Umani vedono nero, se ho capito bene. E non fare quella faccia, l’ho detto che è strano!»
«Ma com’è possibile che vedano nero?»
«Anche noi vediamo quasi così, eh. Non so spiegarlo, è come... come... come la Presenza, ecco. Solo che invece di essere rossa è nera.»
Amitiel provò a immaginare la Presenza in quel modo, senza successo. Come poteva l’aria non essere luminosa? Come poteva essere scura, opaca? Per lei, nata e cresciuta in un mondo senza ombre, era un concetto estraneo quasi quanto il freddo.
Spostò lo sguardo sui propri capelli: arrivavano oltre le scapole, una cortina nera che accarezzava l’attaccatura delle ali. Li lasciò ricadere di fronte al viso, ma l’aria continuava ad essere luminosa e si rifletteva sulle lunghe ciocche mosse, colpendole gli occhi.
Quella era la migliore imitazione di oscurità a cui potesse giungere.
«Quindi... si vede nero.» riassunse, appuntandolo sul taccuino.
«Non proprio.» la corresse Anane «Il nero è il buio proprio più buio. Di solito però c’è un po’ di luce. Di giorno c’è il sole... sai cos’è, vero? E di notte invece ci sono la luna e le stelle... presenti? No? Sono come il sole, ma più più piccole, e sono meno luminose. Ultimamente poi gli Umani hanno imparato a crearla, la luce. La portano in mano, ci credi?»
«E quindi?»
«Questa è una cosa ancora più strana. Adesso riderai.»
Amitiel si sporse verso di lei. «Perché?»
«Eh... non mi crederai. Però è vero, era così, quando sono stata nella dimensione umana.»
«Sì, ma che cosa?»
«Più c’è luce» si morse le labbra per non ridere «più c’è buio.»
La guardò come se avesse perso il senno. «Anane, sii seria.»
«Ma sono seria!»
Riuscì infine a spiegarle che, quando la luce colpiva qualcosa, dalla parte opposta si formava un alone scuro. In che modo fosse possibile, nessuna delle due ne aveva idea; doveva essere una di quelle stranezze della dimensione umana, come il freddo.
«E fa paura, il buio?» chiese Amitiel dopo qualche istante di silenzio.
L’altra rabbrividì. «Molta. È angosciante. Dà più fastidio di quando la Presenza è troppo forte. Però...»
«Però?»
«C’è un momento bellissimo. Sai cos’è il tramonto?»
Sfogliò gli appunti e scosse la testa.
«È quando il sole si sposta in basso. Diventa tutto rossastro, come con la Presenza, e ci sono luce e buio, sembrano fondersi. È... magnifico.»
Amitiel chiuse gli occhi, tentando di visualizzarlo. Una sfera gialla, luminosa, che crea aloni scuri sugli oggetti. La sfera che si sposta, rendendo l’aria rossa. Luce e buio... no, era un’immagine troppo complessa, perché dove c’è luce non c’è buio, e dove c’è buio non c’è luce, ed è impossibile che l’una causi l’altro, o che si mescolino.
Ma il cielo infuocato, quello poteva immaginarlo. Poteva sentire la carezza tiepida del sole sulla pelle, vedere il mondo tingersi di fiamme e di sangue; sembrava una scena già vissuta, persa tra i ricordi e tornata alla mente all’improvviso. Una risata infantile, di quelle acute dei bambini umani. Il richiamo di una madre per la cena. Una presenza a stringerle la mano. Parole in una lingua sconosciuta, ma dal significato sorprendentemente chiaro.
«Il sole muore.» sussurrò, ancora ad occhi chiusi.
* * *
«Non sono pronti.» sbottò Nelchael, passandosi una mano tra i capelli.
La donna di fronte a lui strinse le labbra, infastidita. «Nessuno lo è, la prima volta.»
«Ma tutti sono preparati. Loro no. Non hanno la minima idea di come sia la dimensione umana.»
«Sono vicini alla quinta classe, sapranno cavarsela.»
Occhiata ironica, feroce. Una mancanza di rispetto tollerata solo per l’antica amicizia che li univa: nessun’altra Autorità avrebbe accettato un simile comportamento. «Senza nemmeno un insegnante?»
«Ci sarà il ciclo superiore, con loro. Gli insegnanti hanno altri impegni.»
«Li mandate allo sbaraglio.»
«Li mandiamo ad osservare.»
«Si osserva alla fine della quinta, non della quarta.»
«Prima, ma ora non c’è più tempo. Hai sentito del patto, sì? Loro saranno in molti, noi troppo pochi.»
«Perché noi non facciamo combattere i Cherubini appena creati.»
«Non sono poi così giovani, Nelchael, presto arriveranno alla quinta classe.»
«Quinta classe contro millenni di esperienza. Chi vince?»
«Per questo devono maturare in fretta.» ribatté, irritata «Ne sono capaci, devi solo dare loro un po’ di fiducia, e una piccola spinta per farli crescere.»
«Ma non possiamo forzare troppo il processo, potrebbero non essere pronti, e allora-»
«Ci servono adesso. Per il futuro ne abbiamo a centinaia.»
Rimase per qualche istante a soppesare quelle parole, neppure troppo stupito. «Sono... sacrificabili?»
«Se per maturare più in fretta devono correre dei rischi, li correranno. Altrimenti sarebbero inutili.» rispose gelida.
Un ghigno amaro. «Sono sacrificabili.»
La donna batté con forza la mano sul tavolo e scattò in piedi, furente, abbandonando ogni parvenza di pacata cortesia; sei enormi ali da serafino si materializzarono alle sue spalle, rendendola ancor più minacciosa, e per un istante sembrò quasi che dalla sua pelle e dai suoi occhi si propagassero lingue di fuoco candido. Guardandola, Nelchael ricordò perché fosse stata designata Autorità sin da giovanissima, e tremò internamente.
«Non tollererò ancora a lungo questa tua continua mancanza di rispetto.» ringhiò «Bada a come ti comporti. E ora va’ a comunicare l’incarico ai tuoi allievi. Se tra due cicli temporali, all’inizio del secondo periodo, non si troveranno alla Via, ne risponderai tu. Te la ricordi l’Espiazione, sì?»
«...obbedisco.»
E il sacrificio mutò da un’idea instabile alla solida architettura della concretezza. Una mostruosa cattedrale costruita sul sangue.
***
Angolo autrice:
Capitolo di introduzione. Serve per chiarire un minimo l'ambientazione, che ho molto personalizzato. Dal prossimo, ma in particolare dal terzo, si inizierà con l’azione. Se qualcosa non vi è chiaro, chiedete pure, se posso risponderò ^^
Quando parlo di ferite "lucenti per l'irritazione", mi riferisco al sangue angelico. L'ho immaginato bianco, quasi luminoso, e quindi la rottura dei capillari provoca un leggero chiarore - simile a quello che capita a noi con l'arrossamento, insomma.
Gli squarci della nascita sono, nel caso non si fosse capito, ferite che permangono per tutta la giovinezza, in corrispondenza dell'attaccatura delle ali. Sempre per tutta la giovinezza le piume mantengono un colore rosso, di tonalità sempre più chiara man mano che i cherubini maturano, fino a diventare completamente bianche con l'età adulta - il cosiddetto "sviluppo". Riferito alla schiena, "spoglia" significa senza le ali.
Come avrete notato, utilizzo molti dialoghi. Saranno uno dei punti focali di questa storia: mostrano chi si vorrebbe essere, chi si deve essere e chi invece si è davvero. Spero che li apprezziate, nei dialoghi ci sono i personaggi così come li ha concepiti la mia mente ^^
Grazie a chiunque abbia letto, pareri e critiche sono come sempre ben accetti.
Aggiornerò ogni domenica. Inizialmente avevo pensato a venerdì, ma per questioni di tempo ho scelto di cambiare. Perciò, al 12 con il secondo capitolo! ^^ |
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Capitolo 3 *** 02. Il sole muore ***
Capitolo
2 – Il sole muore
Era
nella sala studio della prima classe, come spesso accadeva nel
periodo libero concesso dopo le prime due lezioni. Le piaceva
passarvi del tempo: era costantemente invasa da Cherubini
giovanissimi che ripetevano la lezione, giocavano, litigavano, si
lamentavano per il dolore alla schiena. L’aspetto era
identico a
quello di ogni biblioteca – lunghe file di tavoli, alti
scaffali,
finestre ampie quasi quanto le pareti stesse – ma
l’aria sembrava
più vivace, più animata. Una macchia di caos
purpureo tra la
candida quiete delle altre sale.
«Un
ciclo temporale» stava leggendo ad alta voce un cherubino,
accanto a
lei «è un gruppo di dieci periodi. I periodi sono
scanditi dal
Richiamo... ehm... scusami?» le toccò il braccio,
attirando la sua
attenzione con espressione incerta «Che
cos’è il Richiamo?»
«È
quella... come posso spiegarlo...» gli rispose, alzando gli
occhi
nocciola su di lui «quella sensazione di dover fare qualcosa.
Come
la Presenza che ti dice di riposare, capisci? Il Richiamo invece ti
dice di andare a lezione, o che hai un periodo libero, o cose
così.»
Lui
la ringraziò, appuntando diligentemente ogni parola sul
margine
della pagina.
«Di
nulla. State studiando i Fuochi?»
«Cosa?»
«Fuoco
del Richiamo, della Via, del Velo... o non ci siete ancora
arri-»
«Ehi,
Amitiel!» la chiamò qualcuno alle sue spalle
«Va bene essere in
ansia per l’incarico, ma ripassare tutto dai fondamentali mi
sembra
un po’ eccessivo.»
«Preferisco
evitare di fare come qualcuno» ribatté, tornando
al proprio libro
«che, secondo le voci, alla terza classe ancora non ricordava
l’elenco dei Fuochi.»
«Che
stron...» intercettò l’occhiata di
ammonimento di un Custode e si
corresse: «Che idiozia! L’ho imparato in un attimo,
l’elenco dei
Fuochi! Chi è la malalingua che mette in giro queste
voci?»
«E
chi ha mai parlato di te, Anane?» sogghignò.
«Stavo
solo mettendo le cose in chiaro, nel caso. E tu, rosso, levati, qua
ci sto io.»
Il
cherubino si affrettò a cambiare tavolo e la ragazza si
lasciò
cadere sulla sedia.
«Credo
che mezzo ciclo inferiore mi odi, ormai.»
ridacchiò, notando gli
sguardi spaventati e infastiditi dei legittimi occupanti della sala.
«Chissà
perché.»
«Ho
faticato secoli per arrivare al ciclo superiore,
lasciami
godere i miei privilegi, no?» si chinò verso di
lei per leggere sul
suo libro «Ah, l’anatomia dei Serafini. Brutto
argomento. Io non
ho ancora capito come facciano a muovere sei ali
contemporaneamente.»
«E
come hai passato la quarta classe, allora? Anzi, no, aspetta. Non
voglio sapere chi hai corrotto e come ci sei riuscita.»
«Amitiel,
muori.» sbuffò «Oh, ma
riderò, quando arriverai al ciclo
superiore, vederti impazzire sarà molto divertente.
C’è da
studiare l’anatomia umana, che è davvero
incomprensibile,
altro che quella dei Serafini. Io ci sono su da almeno metà
del
ciclo... non so come faccia certa gente a finirla in fretta.»
«Ridwan
non accetta favori sessuali in cambio della promozione?»
Balenò
nella mente di entrambe l’immagine di lui, sempre riservato e
composto, che si lasciava corrompere dalle proposte
dell’allieva;
le loro risate furono tanto squillanti che i Custodi minacciarono di
non ammettere più la loro presenza in quella sala.
«Al
prossimo ciclo, dimensione umana.» mormorò Anane
dopo un lungo
silenzio, distogliendola dallo studio «Sei
preoccupata?»
«Impaziente.
Ma Nelchael non ne sembra contento.»
«È
un tradizionalista, no? Non gli andrà giù questo
strappo alla
didattica.»
‘ Non
lo so’
avrebbe voluto
risponderle ‘Non vuole mai che chieda
degli Umani.
Perché, perché? Perché non posso
sapere? Perché ci mandano così
presto nella dimensione umana e non ci spiegano niente?’
Annuì,
invece, proprio mentre il periodo finiva e il Richiamo convocava
entrambe alle lezioni. Anane si chinò a terra per prendere
la borsa
e iniziò ad infilarvi in fretta i libri.
‘ Perché
dobbiamo andare ma non esserne contenti? Perché non posso
voler
vedere il sole che muore? Perché si arrabbia se chiedo
qualcosa?
Perché si spaventa? Perché è
così sbagliato essere curiosa?’
Una
marea di domande le turbinava nella mente, confondendola con
stranezze e dubbi ingigantiti dalla sua incertezza; ogni esitazione
le sembrava celare un segreto, ogni parola avere significati
nascosti. Non pensò che l’insegnante potesse
semplicemente temere
per l’inesperienza degli allievi.
‘ Voglio
vedere. Conoscere. Capire. Perché Nelchael non
vuole?’
Sette
periodi. Le sembrava impossibile dover aspettare ancora così
tanto,
prima di giungere nella dimensione umana. Due di lezione, uno di
svago, tre di riposo, uno di preparazione. Sette periodi. Li aveva
contati ossessivamente, nove, otto, sette; era sempre più
vicina a
quel qualcosa che Nelchael sembrava volerle negare.
‘ ...no.
Tutto a tempo debito. Non è ancora il momento, ma
verrà, se sono
cose che mi riguardano; altrimenti, non devo farmi distrarre.’
Poteva
non fidarsi di
Nelchael, ma erano le Autorità a gestire
l’insegnamento, e
dubitare del loro operato era fuori discussione: grazie a loro era
sempre andato tutto bene. Il sistema non sarebbe di certo cambiato
per l’agitazione di un cherubino, e – lo
riconosceva – era
giusto così.
‘ Solo
un po’ di pazienza. Sette periodi e potrò
sapere.’
Un
foglio piegato in
quattro, abbandonato sul tavolo, attirò la sua attenzione.
Era di un
materiale strano, ruvido, giallastro; poteva distinguere le linee
dell’inchiostro dal retro, come se il colore lo avesse
impregnato,
invece di rimanere impresso sulla superficie.
«È
umano?» mormorò,
prendendolo in mano; ma non sembrò una domanda, quanto
più
un’affermazione, guidata da una strana consapevolezza.
Anane
sussultò e lo
prese di scatto, per poi infilarlo in mezzo al suo taccuino,
controllando che nessun Custode lo avesse visto. All’occhiata
stranita dell’altra, si affrettò a spiegare in un
sussurro: «Non
avrei dovuto portarlo nella nostra dimensione. È solo che mi
piace
toccarlo, è diverso dalla nostra carta, hai sentito, no?
È solo un
foglio, non penso farebbero troppe storie, ma non-»
«Tranquilla.»
la
interruppe «Non farò di certo la spia per un pezzo
di carta.»
Le
scoccò un’occhiata
quasi offesa, che stava a significare: «Non farei la
spia per
niente.»
«Nella
dimensione
umana ti mostrerò altre cose carine.» promise,
come per farsi
perdonare «Adesso però andiamo. Tra Nelchael e
Ridwan, non so chi
odi di più i ritardi.»
«Nelchael.»
rispose
sicura l’altra «Quindi, se dopo le lezioni non
sarò viva, saprai
che si è vendicato.»
Ma
non era la sua
vendetta che avrebbe dovuto temere.
Bastano
sette periodi
per assaporare un’ultima volta la quotidianità?
Sono troppi o
troppo pochi? Solo guardandosi indietro, ormai immersi nel buio, si
potrebbe dire quanto sia durato il tramonto; ma di rado, nella notte,
si può ritrovare abbastanza senno da riflettere.
Gioisci
del sole che
muore, finché puoi, perché il futuro è
un’oscurità che promette
incubi.
* * *
«Ishild...
Ishild, non ti riconosco più.»
«Dite
tutti così, eppure sono sempre io.»
«Come
puoi volere questo? Come puoi voler abbandonare tutto?»
«Tutto?
Tutto cosa? Le ombre, il freddo, la morte?»
«Me.
Vuoi un mondo senza di me, Ishild? E il sole? Vuoi un mondo senza
sole?»
«Forse
sì, forse voglio davvero un mondo senza sole.»
Il
calore dei suoi raggi al tramonto.
Risate
acute. Il richiamo di una madre per la cena. Le loro mani unite.
«Il
sole muore. Moriremo anche noi, Ishild?»
Un
bacio.
No,
un addio.
Gli
Angeli non sognano.
Era una certezza che non aveva mai neppure avuto bisogno di essere
espressa ad alta voce: sono gli Umani a vagare tra immagini
inesistenti, durante il sonno. Non gli Angeli. Gli Angeli non
sognano. Non. Sognano.
E
allora perché,
perché, perché? Perché doveva accadere
di nuovo? Perché quelle
scene erano tornate a tormentarla, come quando... quando... quando?
No, era impossibile: non potevano essere tornate, perché non
c’erano
mai state. Doveva essere la sua fantasia a giocarle brutti scherzi,
per l’ansia dell’incarico imminente. E
l’impazienza di vedere
finalmente la dimensione umana – il freddo, il buio, tutto
ciò che
fino ad allora non le avevano permesso nemmeno di immaginare.
Rimase
a fissare il
soffitto, incurante del fastidio che le provocava la luce rossastra
della Presenza, del dolore alle ali premute sotto di lei. Una
sostanza calda le colava dalle scapole; doveva essersi agitata molto,
per maltrattare la pelle tanto da farla sanguinare. Ma gli Angeli non
si muovono, nel riposo, perché per loro è solo un
ovattato nulla.
Gli squarci della nascita si erano di nuovo approfonditi,
semplicemente, nulla di troppo anomalo; anzi, accadeva molto spesso.
Nessuna stranezza.
Ma
perché, perché,
perché?
Si
sentiva angosciata
da una sensazione indefinibile, un’irrequietezza
inspiegabile. Solo
un pensiero martellante in testa, una domanda senza senso.
Perché?
«Tutto
bene?» le
chiese Cassiel, al vederla cosciente e sconvolta.
«Sì,
sì.» rispose,
irritata dall’essersi mostrata tanto vulnerabile di fronte a
lei
«La Presenza inizia a darmi più fastidio del
solito, tutto qui.»
«Mh.»
annuì, poco
convinta.
Tornò
ad aggirarsi tra
i letti e aggiunse, dopo un po’: «Pensi che
arriverà, la tua
amica?»
«Non
credo. Riposerà
fino all’ultimo, dicono che la dimensione umana sia molto
stancante.»
«Certo
che lo è. Ci
sono molti più stimoli, e siamo di continuo in allerta,
anche se non
ce ne accorgiamo. Percepiamo di più lo scorrere del
tempo.»
Aggrottò
la fronte.
«Nelchael non ce l’ha detto, questo.»
«Ha
avuto poco tempo
per prepararci. Ho chiesto qualcosa a quelli del ciclo
superiore.»
‘ Ma a me neanche
Anane l’ha detto’ pensò.
L’altra dovette immaginarlo,
perché aggiunse con un mezzo ghigno: «Quelli bravi
del ciclo
superiore, intendo.»
Amitiel
sperò
ardentemente che dimenticassero nella dimensione umana Cassiel, i
suoi strani occhi obliqui e le sue osservazioni maligne. Magari
avrebbe potuto dare una mano al Fato e farla precipitare da qualche
parte con le ali spennate.
*
* *
Duecentotrentasei.
Circa
trenta del ciclo
superiore: fasce grigie in vita e ali ritirate o screziate di bianco.
Due
gruppi ciascuna per
quinta, sesta e settima classe: fasce e ali di varie
tonalità di
rosso, sempre molto chiare.
I
più maturi della
quarta: una trentina di fasce e ali cremisi, una piccola macchia
scura impossibile da non notare.
In
tutto,
duecentotrentasei allievi, più dodici insegnanti.
Secondo
la didattica
tradizionale, circa sessanta di loro non avrebbero dovuto partecipare
ad una lezione pratica di quel genere; secondo il buonsenso, almeno
un centinaio. Sempre secondo la didattica tradizionale, avrebbe
dovuto esserci un adulto ogni cinque di loro; e sempre secondo il
buonsenso, uno ogni tre. Secondo le Autorità, invece,
duecentotrentasei allievi per dodici insegnanti andavano più
che
bene. Davvero un ottimo rapporto, un adulto ogni venti –
ovvero
come essere certi di perdere almeno un elemento per gruppo. Ancora
meglio affidare i più giovani a Cherubini appena
più esperti: un
massacro annunciato.
L’Autorità
responsabile della missione si librava in alto, perché tutti
gli
allievi potessero vederla e udirla – ma anche
perché le sue
maestose ali da serafino la rivestissero di fermezza e
solennità. Le
muoveva rapidamente, con una padronanza rara, in modo da rimanere
sempre alla stessa altezza; nel mentre, il suo sguardo si posava
serio sulle ordinate fila sotto di lei, disposte per colore.
«Settima
e sesta
classe si divideranno, sette ogni insegnante» stava
illustrando in
quel momento «per svolgere gli abituali incarichi.»
Un
mormorio inquieto si
diffuse tra gli interessati: non era mai accaduto che venissero
inviati gruppi così numerosi. Non essendo ancora in grado di
fronteggiare adeguatamente un pericolo, era meglio essere rapidi il
più possibile, e sette Cherubini non corrispondevano di
certo ad un
assetto agile.
Gli
accompagnatori e
gli altri insegnanti presenti li richiamarono immediatamente al
dovuto ordine.
Ristabilito
il
silenzio, l’Autorità li rassicurò con
tono pacato: «Non avete
nulla da temere, poiché il rischio di incontri sgraditi
è del tutto
inesistente, avendo predisposto misure di protezione ancor
più
rigorose del solito. Inoltre vi posso garantire che, dato il vostro
numero tanto elevato, nessuno oserà avvicinarsi e potrete
operare in
assoluta tranquillità, come d’altronde
è sempre accaduto.»
Settima
e sesta classe
tornarono ad avere un’espressione fiduciosa. Il ciclo
superiore
continuava a rimanere impassibile, già conscio del proprio
compito e
abituato alle visite nella dimensione umana – permesse anche
in via
privata, quando autorizzate del proprio insegnante. Solo quinta e
quarta classe, quindi, erano ancora in ansiosa attesa: una folla di
Cherubini troppo incerti e troppo rossi per
quell’incarico,
spaesati nell’enorme piazza immacolata della Via.
Il
luogo era tanto ampio da poter ospitare agevolmente un esercito, nel
suo perimetro di fiamme, e questo non faceva che intimorirli
ulteriormente; l’avevano visto in precedenza solo una volta,
alla
propria creazione, quando il Fuoco della Via si era tramutato nel
Fuoco della Venuta. Non era un caso che la piazza fosse così
vasta e
così bianca: se ti troverai perso
nella dimensione
umana,
sembrava dire, ricorda il candore e la
grandezza del
mondo a cui appartieni, e non lasciarti corrompere.
L’Autorità,
con un
sottile accorgimento per la giovanissima età dei suoi nuovi
uditori,
riprese a parlare in tono meno severo: «Mi rivolgo ora alla
quinta e
alla quarta classe, che spero non siano intimorite dalla propria
inesperienza. Come il ciclo superiore è già a
conoscenza, voi
agirete senza la diretta sorveglianza di un insegnante; tuttavia
“agire”
è senza dubbio un’espressione
inadatta, in quanto non è previsto da parte vostra alcun
intervento
pratico. Il ciclo inferiore avrà l’unico compito
di osservare la
dimensione umana, nei luoghi più naturali e distanti dagli
Umani.
Ognuno degli allievi sarà affidato ad un compagno del ciclo
superiore, che ha già stabilito con i Custodi i tempi e le
modalità
della vostra esplorazione: non avete nulla di cui preoccuparvi,
quindi, poiché sarete sempre a debita vicinanza da un
adulto,
nell’improbabile eventualità in cui sorgano
complicazioni. Le
Autorità confidano nella responsabilità che si
attende da giovani
quasi sviluppati, quali sono gli allievi del ciclo superiore, e
nell’adeguata preparazione che gli insegnanti hanno di certo
fornito ai più giovani. Io stessa, come Autorità
e maestra, sono
convinta che siate tutti pronti per un’esperienza tanto
importante,
e che saprete trarne il maggior vantaggio possibile.»
Amitiel
distolse per un istante lo sguardo dal serafino. Cassiel, alla sua
sinistra, splendeva d’orgoglio; Raphael, dall’altro
lato,
appariva concentrato e determinato. Lei stessa, oltre
all’ansia e
all’impazienza, si sentiva onorata dalla fiducia accordatale,
e con
ogni probabilità la sua espressione era simile a quella dei
compagni.
Un
discorso ben costruito e ben proferito, se rivolto a menti inesperte,
può mostrare come straordinaria concessione anche alla
follia più
avventata.
Nelchael,
a lato della loro fila, fissava il serafino con disgusto poco velato.
«Ho
terminato. Coloro che ne sono in grado si celino; degli altri si
occuperanno gli insegnanti. Vi chiedo di rimanere in riga sino a
quando non avranno tutti ultimato, in modo da non creare disordine.
Non appena possibile, raggruppatevi e disponetevi senza confusione.
Settima e sesta seguiranno come sempre gli insegnanti. Quinta e
quarta si lasceranno guidare dai loro compagni del ciclo
superiore.»
I
maestri avanzarono rapidi lungo le file, fermandosi pochi istanti di
fronte ad ogni allievo, sempre meravigliato. Il Fuoco del Velo era un
meccanismo indispensabile per non essere scorti da occhi umani, e
anche i più immaturi lo conoscevano, ma solo teoricamente:
era la
prima occasione in cui potevano provarlo su di sé.
Amitiel
percepì all’improvviso le mani di Nelchael sulle
proprie spalle.
L’uomo tremava, con il viso irrigidito dalla collera, e per
l’ennesima volta lei si chiese perché. Iniziava a
temere che fosse
impazzito, per tenere quel comportamento sempre più
singolare.
Il
tocco svanì in fretta com’era giunto, sostituito
da una presa
ferrea sul mento, che la costrinse a guardarlo in viso con un
sussulto di sorpresa. I penetranti occhi scuri dell’adulto la
scrutarono a fondo, mentre lei tentava senza esito di liberarsi o
articolare qualche suono; Cassiel lanciò loro
un’occhiata
stranita, ma obbedì immediatamente quando Nelchael le
ordinò di
chiamare l’Autorità.
«È
ferita.» sibilò lui, non appena il serafino lo
raggiunse.
«Vediamo.
Sachiel, avvicinati, guarda anche tu.» intimò,
zittendo con un
gesto infastidito le proteste dell’altro «Lo
percepisci?»
Non
aveva più nulla della solenne e benevola Autorità
che aveva
illustrato la missione: sembrava un’insegnante rigida,
severa,
abituata ad ordinare e non a chiedere.
La
presa ferrea fu sostituita dal tocco della donna, più
delicato ma
altrettanto deciso. Sotto le sue dita Amitiel non osò
più muoversi,
neppure per scostare le ciocche chiare che dal capo
dell’altra le
scivolavano sul viso.
L’immobilità
si sciolse in un sussulto, non appena al viso maturo del serafino se
ne affiancò uno più giovane, probabilmente
l’allieva. Le parve di
riconoscere qualcuno, nei lineamenti delicati, nello sguardo azzurro
e concentrato, nella linea morbida della labbra.
Risate
acute. Il richiamo di una madre per la cena. Le loro mani unite.
Era
come guardarsi allo specchio, e udendo la sua voce sommessa –
«Sì,
lo percepisco.» – si stupì di non aver
parlato lei stessa.
Un
bacio.
Poi
la ragazza si distanziò, insieme all’insegnante, e
sentì i due
adulti discutere in un sussurro; tuttavia non li ascoltò,
concentrata a riprendere contatto con la realtà. Vedeva le
ali rosse
del compagno nella fila successiva, le sagome dei maestri che
avanzavano, le lingue di fuoco che danzavano lungo il perimetro della
Via; eppure le sembrava non essere davvero lì. Confusa,
stordita,
attonita, percepiva un dolore sordo dentro di sé, da qualche
parte,
e al contempo si sentiva immersa nel nulla.
«Amitiel.
Amitiel!» sbottò Nelchael, riportandola ad uno
stato più lucido,
per poi afferrarle di nuovo il mento e guardarla negli occhi con
urgenza «Nessuno strappo all’organizzazione,
sovvertirebbe tutto e
non c’è tempo per approntare qualcosa di diverso
solo per te. Vai
con qualcuno di cui ti fidi, e state sempre vicini ad un Custode.
Dicono che non c’è pericolo, ma sta’
attenta, chiaro? Se ti
senti intontita o assente, dillo subito e fatti riportare qui. Hai
capito?»
Annuì,
precisamente intontita e assente. Lo udì discutere ancora
con
l’Autorità, forse riguardo al suo stato, e poi
lasciò che,
tremante di collera, le stringesse le spalle. Un vago tepore la
invase, ma senza provenire da un punto preciso, senza irradiarsi: era
in ogni parte del suo corpo, semplicemente. Il Velo.
Qualche
istante dopo i Cherubini sciolsero le fila e, formati i gruppi, si
disposero ordinatamente lungo tutta la superficie della Via. Anane la
affiancò con uno sguardo strano, a metà tra la
preoccupazione e il
sollievo; passò qualcosa dalla mancina alla destra
– forse degli
appunti sull’incarico – e con la mano ora libera le
strinse il
braccio.
«La
prima volta può essere un po’
traumatica.» la avvisò a bassa
voce.
Lei,
ancora assente, non le prestò attenzione; ma si
destò
all’improvviso, come riemergendo da un lungo stato
d’incoscienza,
quando il fuoco lungo il perimetro della Via si innalzò
repentinamente. Crebbe, crebbe, crebbe sin quasi ad oscurare il
cielo, tingendo l’aria di rosso; e poi quell’onda
si abbatté
silenziosamente su di loro, inesorabile, terrificante.
‘Brucio.
Brucio. Brucio.’
‘No,
no, il nostro fuoco non brucia, il nostro fuoco non-’
‘Brucio.
Brucio. Brucio.’
Amitiel,
annichilita, sentì le dita di Anane stringere di
più, per impedirle
di muoversi, mentre il Fuoco della Via sfumava in un vortice
indistinto, portandoli con sé in un altro luogo.
* * *
Un
vuoto spiacevole, soffocante. Infinito ed eterno.
Panico.
È
normale che duri così tanto? È andato storto
qualcosa? Dov’è
Anane?
Una
fitta ovunque, e i sensi tornano all’improvviso.
I
muscoli contratti, gli occhi serrati, i pugni chiusi.
Impatto.
Qualcosa
di duro sotto le ginocchia.
Dolore.
Bocca
socchiusa in un urlo muto, bloccato in gola.
Occhi
aperti. Cos’è quell’alone scuro?
Perché è ovunque? Perché si
spo-
Sangue.
Sangue
argenteo, lucente, sotto le gambe ferite.
Sangue
rosso, cupo, nel cielo al tramonto.
‘Il
sole muore.’
Un
tonfo ovattato.
Che
cosa-
Uno
strattone doloroso ai capelli.
Sì,
il sole muore.
Muori
anche tu?
***
Angolo autrice
Ecco il secondo capitolo. Non
sono particolarmente soddisfatta della penultima parte, ma ho dovuto
per forza cercare uno stile abbastanza "spento" - per ragioni che
verranno spiegate in seguito.
Non odiatemi per averlo interrotto in questo modo xD Già
è venuto più lungo del solito, non potevo proprio
andare avanti. Il prossimo varrà la suspense u.u
Sto cercando di inserire in modo "naturale" più informazioni
possibili sull'ambientazione, spero di non averle rese in modo pesante.
Una piccola nota sull'uso delle maiuscole: Angeli, Serafini, Cherubini
e simili sono inseriti con la lettera maiuscola solo al plurale, per
indicare tutta la categoria o sottolineare l'appartenenza,
mentre uso la lettera minuscola
quando è al singolare o è utilizzato come
semplice aggettivo. I ruoli - Autorità, Custodi e simili -
invece sono sempre in maiuscolo perché, nella loro
mentalità, equivalgono ad un nome proprio.
Grazie a chi ha inserito la storia tra i preferiti e le ricordate, e
soprattutto a chi commenta! ^^ Se vi va, mi piacerebbe sapere che ne
pensate.
Al 19 con il terzo capitolo! ^^
|
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Capitolo 4 *** 03. Parole ***
Capitolo
3 – Parole
Non
li aveva sentiti. Troppo occupata a riprendersi, non aveva prestato
attenzione ad altre presenze, certa che i Custodi avrebbero compiuto
il loro dovere; e forse, così inesperta, anche prestando
attenzione
non avrebbe percepito nulla. ‘Pietosa’
continuava a
ripetersi, lacrimante – di dolore e di terrore. Una mano
gelida le
stringeva la treccia, le dita di un’altra erano posate sul
suo
collo esposto.
Se
ti sgozzano, aveva detto una volta Nelchael,
possono
prosciugare la tua essenza insieme al sangue.
Raggi
tiepidi e luminosi danzavano tra le chiome degli alberi, aloni scuri
tremolavano e divenivano sempre più densi; ma lei, obbligata
dalla
stretta ferrea ai capelli, guardava verso il sole. Un’enorme
sfera
sfocata che calava piano oltre la cresta dei monti, tingendo il cielo
di rosso e oro.
Doveva
finire così? Poco più che bambina, guardando per
la prima volta la
dimensione umana? Accompagnata nell’oblio dalla luce
sanguigna del
sole che muore, come dalla Presenza nel sonno?
Uno
strattone la costrinse a rizzarsi sulle ginocchia, ferite per la
brusca caduta. Non ebbe la forza di protestare o agitarsi: di tutto
il suo corpo tremante solo le ali ebbero un movimento inconsulto,
come se volessero farla fuggire, ma subito una ginocchiata le
raggiunse alla base, crudele, con uno scricchiolio inquietante. La
schiena inarcata, un urlo di dolore bloccato in gola, chiuse gli
occhi per non mostrare le lacrime.
«Una
volta» mormorò una voce profonda e severa,
indubbiamente maschile,
accanto al suo viso «non eri così
patetica.»
Una
volta?
Le
dita sul suo collo
scivolarono fino a posarvi tutto il palmo, e Amitiel capì
all’improvviso cosa fosse il freddo – dove lui la
toccava,
migliaia di aghi si conficcavano nella carne fino a raschiare anche
le ossa, facendola sussultare di dolore. Era così gelido da
bruciare. Avrebbe voluto sottrarsi a quel contatto,
ma non
riusciva a spostarsi, immobilizzata dalla stretta crudele
dell’uomo.
Si agitava, si lamentava, senza riuscire ad arginare le lacrime,
senza provarci nemmeno: persino la dignità non aveva
più
importanza, di fronte a quel dolore senza fine. Voleva solo che
smettesse, che la facesse tornare al tepore del Paradiso, o almeno
alla carezza consolante del sole, e non si curava di non umiliarsi e
di non implorare. Fiamme gelide le lambivano la pelle, estendendosi
dalla gola a tutto il corpo, mordendo senza pietà; qualcosa
si
agitava in lei, qualcosa che trovava quel contatto doloroso anche
più
a fondo della carne, nell’intimo, come se la sua stessa
essenza si
dimenasse per strapparsi di dosso quel fuoco atroce. Era pronta a
lacerarsi, a raschiare via la pelle, pur di far finire
quell’inferno
– ed era una sensazione uguale e opposta a qualcosa che aveva
già
provato, in un altro tempo, in un altro luogo.
E
poi finì,
all’improvviso, lasciandola esausta e singhiozzante; il gelo
tornò
a concentrarsi sulla gola, dove l’uomo la stringeva, ma senza
essere più così insopportabile.
«Immagino
che dovrò
accontentarmi.» un istante di silenzio riflessivo, poi una
risata
roca, e del fiato gelido le investì la tempia «Oh,
ma tu respiri.»
Sì,
respirava, si
accorse. Non nel modo quieto, lento, che serviva per parlare: erano
movimenti rapidi del petto, immotivati, che le davano ansia invece di
tranquillizzarla. Meglio comunque dello stordimento che minacciava di
inghiottirla, travolta da troppe emozioni.
«Alcuni
istinti
permangono, quindi. Interessante. Ma tu non sai nemmeno di cosa sto
parlando, vero? Vi mantengono in uno stato di spaventosa
ignoranza.»
Il
tepore del sole, che
fino ad allora le aveva accarezzato il volto, scomparve
all’improvviso; al di là delle sue palpebre tutto
divenne scuro,
senza alcuna traccia di luce o colore. Aprì gli occhi di
scatto, ma
li richiuse immediatamente, terrorizzata. Il cielo livido non aveva
più nulla dei colori caldi di prima, e le stelle esalavano
una luce
fredda ed esausta, che riempiva il mondo di ombre angoscianti. Il
viso dell’uomo, intravisto per un istante, le aveva strozzato
il
rapido respiro: i lineamenti marcati non avevano nulla di mostruoso,
ma lo sguardo grigio conteneva qualcosa di antico e amaro. Erano gli
occhi di chi ha vissuto troppo in poco tempo e non riesce a liberarsi
di quel peso; o di chi desidera la morte ma rimane incatenato
all’esistenza, condannato ad un’eternità
non richiesta e non
voluta. Gli occhi di un folle. Aveva scorto un bagliore simile in
Sariel, la sua insegnante della prima classe, prima che scomparisse
all’improvviso; aveva poi scoperto, ormai
all’inizio della terza,
che la donna era stata isolata perché consumata dalla pazzia.
Rabbrividì.
«Sì,
davvero uno
stato di spaventosa ignoranza. E tu non ti sei affatto impegnata per
cambiare le cose, a quanto vedo, vero? Una volta, oltre a non essere
patetica, ragionavi.»
Amitiel
continuò a
rimanere in silenzio, le palpebre serrate, il freddo a farla tremare.
Di cosa parlava? Stava delirando? Non ricordava nessuna voce simile,
nessun tocco altrettanto gelido.
«Ma
non temere. Anche
se ti hanno resa un burattino, presto tornerà tutto normale,
vedrai.» le mormorò, come a volerla rassicurare,
in quella assurda
situazione.
Era
folle, sì. Forse
l’aveva scambiata per un’altra, o forse la sua
mente era affogata
tra ricordi inesistenti, che gli facevano credere di averla
già
conosciuta. Agghiacciante.
I
movimenti del petto
si fecero ancor più rapidi.
Le
dita sul suo collo
strinsero, impedendo all’aria di raggiungere i polmoni, e lui
la
avvisò: «Se non smetti di respirare
così, ti sentirai male.»
Le
mani, prima abbandonate lungo i fianchi, scattarono ad allentare la
stretta – un gesto impulsivo, inutile, poiché non
aveva bisogno di ossigeno. Eppure sentire l’aria bloccarsi in
gola
l’aveva riempita di un terrore cieco, qualcosa le aveva
urlato che
sarebbe morta; e la sua mente continuava a strillare, e le unghie
continuavano ad affondare in quelle dita gelide, e lui continuava a
stringere. E lei continuava a vivere e a sentire
quell’irrazionale
bisogno d’aria.
Perché
non la
uccideva? Perché non affondava le dita nel suo collo esposto
e non
estingueva la sua essenza? Forse non ne era in grado, pensò,
aggrappandosi a quella speranza; forse stava solo tentando di
spaventarla, in attesa dell’arrivo di qualcuno più
potente.
Ma
sarebbero arrivati
prima i Custodi – Anane doveva già essere andata a
chiamarli,
perché non era normale non essere arrivate nello stesso
luogo, e
sicuramente la stavano già cercando e sarebbero giunti in un
attimo,
e... i pensieri vorticavano, deliranti, minacciando di farla
impazzire.
L’uomo
si avvicinò
ancora, tanto che le sue labbra gelide le sfiorarono la tempia, quasi
in un bacio distratto. Percepì su di sé
l’intensità quasi fisica
del suo sguardo, e dopo qualche istante lo udì considerare,
senza
inflessione: «Sei ferita.»
Ferita.
Era
un’osservazione incomprensibile, che aveva attirato
l’attenzione
di molti: Nelchael, l’Autorità, la sua allieva.
Uno spasmo
interiore la colse senza preavviso, al ricordo di quegli occhi
azzurri, ma svanì presto com’era giunto.
Ferita.
Una parola
ripetuta spesso, e nessuno che le avesse dato una spiegazione.
«Perché»
sussurrò,
con voce incerta «dite tutti così?»
«Perché
è così. Intendevi
chiedere cosa significa, vero?»
Annuì,
per quel poco
che le permetteva la sua stretta.
«Davvero
uno stato di
spaventosa ignoranza. Inizia a farti le domande giuste, se vuoi
sapere qualcosa.»
La
lasciò
all’improvviso, e Amitiel si accasciò a terra,
tremante. I sensi,
acuiti dal terrore e non più distratti dall’uomo
così vicino,
percepirono almeno altre tre persone: presenze oscure, soffocanti,
diverse da quelle limpide a cui era abituata. Una fuga sarebbe stata
impossibile, anche nel caso in cui l’attaccatura delle ali
non
fosse tornata a dolere, disturbata dal movimento; per la ginocchiata
si erano riaperti anche gli squarci, e sentiva il sangue scorrere
lungo la schiena, mischiandosi sul terreno a quello colato dalle
ginocchia.
Senza
energie, aveva
finalmente smesso di respirare, ma non farlo continuava a sembrarle
innaturale. Un’impressione a dir poco assurda. Anche le
lacrime si
erano fermate, lasciando solo una scia tiepida sulle guance –
ridicola consolazione, in confronto al gelo che la pervadeva. Il
freddo avrebbe dovuto essere sgradevole, non così doloroso,
ma forse
era la vicinanza di quegli esseri oscuri.
Continuava
a tenere gli
occhi serrati, temendo l’aria buia e opaca che avrebbe potuto
vedere. Non che il nero uniforme delle palpebre fosse in
realtà
molto migliore; ma così poteva illudersi che aprendole
avrebbe
visto, se non la luce rassicurante del Paradiso, almeno quella del
sole.
«Domande.»
sussurrò l’uomo, camminando lentamente intorno a
lei in cerchi
sempre più stretti, come un cacciatore con la sua preda
«Domande.
Ma immagino che tu te le ponga già, vero? Altrimenti non
saresti
ancora così umana. Il
punto, quindi, è se avrai delle risposte.»
Si
chinò di nuovo
verso il suo viso, con un movimento tanto repentino che lei per la
sorpresa aprì gli occhi. Rabbrividì, incontrando
il suo sguardo
severo, illuminato da una scintilla folle – dolore, rabbia,
esaltazione?
«Ma
ne hai mai
ricevute, Amitiel?» sibilò sulle sue labbra
«Quante volte hai
domandato? Quante volte non ti hanno neppure ascoltata? Quante volte
avresti voluto sapere e te l’hanno impedito?»
Scosse
la testa
violentemente, negando, atterrita dalla sua espressione furiosa. Non
era vero, non era vero, non l’aveva mai fatto, le avevano
detto che
era sbagliato e non l’aveva più-
No,
mai, mai, mai
l’aveva fatto, mai!
Il
viso dell’uomo si
distorse orribilmente in un ghigno feroce. Una mano tornò a
stringerle i capelli e lei chiuse di nuovo gli occhi, sibilando di
dolore.
«Sì,
invece. Quante
volte hai sognato la dimensione umana? Quante volte hai guardato una
persona e hai creduto di conoscerla già? Quante, Amitiel? E
quante
volte ti è stata negata una risposta?»
Sembrava
conoscerla. Il
suo nome, i suoi pensieri, le sue sensazioni. Come se fosse sempre
stato accanto a lei, dentro di lei. I rimproveri, le punizioni, la
rabbia di Nelchael ad ogni domanda di troppo, e quegli occhi azzurri
e i dubbi e i sogni e-
«Perché
ti ho cercata? Chi sono io? Chi sei tu?
Pensi che te lo spiegherebbero, se tu lo chiedessi?»
«Non
sono informazioni
che mi competano.» mormorò d’istinto
– parole che aveva udito
così spesso da interiorizzarle a tal punto.
Lui
rise ancora,
sprezzante, aggressivo. «Capisci quello che dici? Sei davvero
convinta che non ti riguardi, tutto questo? L’Espiazione ti
ha resa
un burattino?»
«Io
non sono-»
«Uno
stupido burattino
inerme. Un tempo non l’avresti mai permesso, un tempo avresti
preteso di sapere, invece di lasciarti manipolare da frasi vuote. Chi
sei? Pensi davvero che non ti riguardi? Non ti sei mai chiesta
niente?»
Rimase
in silenzio,
trattenendo a stento lacrime di rabbia e terrore. Perché
doveva
aggredirla così, perché non poteva semplicemente
ucciderla o
stordirla? Non poteva lasciarsi corrompere, non dopo tutto quello che
aveva passato per capire che le domande erano solo una perdita di
tempo, un’inutile perdita di tempo, un errore, un... un
maledetto
vizio che non era ancora riuscita a strapparsi via.
Lui,
vedendo la sua
espressione atterrita, sembrò calmarsi, quasi dispiaciuto.
La
stretta tra i suoi capelli si fece quasi gentile, e percepì
un bacio
gelido sulla tempia. La sua voce, sempre severa, ma appena
più
morbida di prima, le sussurrò: «Io ho risposte,
Amitiel. Quelle che
cerchi e altre ancora. Chi sei, perché sogni,
perché sei ferita. Le
domande che credevo ti ponessi, io ero pronto ad ascoltarle e a
spiegarti tutto, anche ciò che altri ti stanno nascondendo.
Ma se
davvero non hai dubbi, se davvero non
t’interessa...»
Parole.
Potevano
delle parole
fare così male? Scavavano solchi profondi dentro di lei,
riaprivano
vecchie ferite mai rimarginate del tutto, insinuavano il veleno
dell’incertezza nella sua mente.
«Chi
sono?»
«Sei
una figlia del Paradiso, un frutto del Fuoco della Venuta. Uguale
alle migliaia che ti hanno preceduta, uguale alle migliaia che ti
seguiranno.»
«Ma
io,
io chi sono?»
«Non
hai il diritto
di
porti queste domande. Il tuo compito è solo maturare nel
migliore
dei modi; non lasciarti distrarre da quesiti inutili.»
«Ma
se mi riguarda, perché non mi deve interessare?»
«Basta
così.»
Dolore.
Era
un caduto o un
demone. Non avrebbe dovuto ascoltarlo: la sua stirpe corrompeva,
spargeva odio, mentiva.
Ma.
Ma
parlava di cose che
non comprendeva – che non ricordava? – e di cose
che le erano
accadute; e se sapeva quello, forse sapeva anche tanto altro che lei
non avrebbe mai potuto conoscere, e se poteva spiegargliele non
importava che fosse pazzo.
Ma
sembrava così
sinceramente deluso dal suo rifiuto, voleva rispondere alle sue
domande, senza rimproverarla, senza punirla per i suoi dubbi.
Ma
la sua stretta si
scioglieva talvolta in un tocco più leggero, come se non
volesse
farle davvero del male; e una carezza era un gesto che prima di
allora lei non aveva mai conosciuto, la promessa di una dolcezza
ignota, un conforto negato dai cuori aridi che l’avevano
cresciuta.
«Aspetta.»
sussurrò, trattenendolo
per un polso prima che si allontanasse.
* * *
«Non
erano questi i
patti.» mormorò per l’ennesima volta,
con la voce incrinata
dall’ansia.
«Sta’
tranquilla,
cara.» fu l’altrettanto ripetuta risposta
«Non ha alcun interesse
a farle del male.»
«Oh,
andiamo! Sappiamo
entrambe com’è fatto!»
«...forse
dovrebbe
imparare a darsi dei limiti, sì, ma si tratta di lei. Non le
farà
nulla.»
«L’ultima
volta che
a me non ha fatto nulla, sono tornata in Paradiso con un braccio
letteralmente a pezzi, ti ricordo.»
«Tu
sei tu, cara. Lei
è lei.»
«E
lui è lui. È
proprio questo che mi preoccupa.»
Era
almeno la quinta
volta che quel dialogo si ripeteva, sempre uguale. Le loro voci
risuonavano limpide, in quella porzione di bosco quasi silenziosa: un
ruscello gorgogliava a pochi passi da loro e il vento sfiorava le
chiome degli alberi quasi in fiore, ma non si udivano animali
–
come se essi avessero percepito presenze estranee e si fossero
allontanati, temendole. Una falce di luna emergeva tra le nubi,
gettando una luce pallida che filtrava a fatica tra i rami –
non
che i loro occhi ne avessero bisogno, per vedere, ma la luce era
comunque una rassicurazione. Una difesa contro gli incubi che
sembravano annidarsi tra le ombre.
Anane
camminava lungo
la riva del ruscello, avanti e indietro, da tanto tempo che ormai
ripercorreva le proprie orme sull’erba umida. Con il viso
stravolto
dall’ansia, si mordeva a sangue il labbro inferiore e
torturava con
le unghie l’abito candido – forse immaginando che
al posto del
tessuto ci fosse quel bastardo che non stava ai patti.
Due
caduti le erano
vicini, le ali nere esposte in una velata intimidazione, ma richiuse
sulla schiena in segno di rispetto verso la donna con cui parlava.
Seduta su un masso nel ruscello, quella sembrava essere del tutto a
proprio agio, come se si trovasse lì per
un’amabile chiacchierata
tra amici e non per controllare la giovane: non si era nemmeno curata
di esporre le ali. Aveva la tranquillità di chi, forte della
propria
fama, non si dà nemmeno la pena di apparire minaccioso.
Il
suo viso non portava
alcun segno del tempo, poiché il corpo di tali esseri rimane
immutabile per l’eternità, fermo
nell’istante della loro
creazione, con un aspetto simile alle due decadi umane; solo le ali
si schiariscono con la crescita, ma una volta raggiunta la
maturità
– perciò con le piume del tutto bianche
– non vi è modo di
comprendere l’età precisa. Tuttavia era chiaro che
la donna avesse
millenni di esperienza: l’energia emanata dalla sua essenza
era
enorme, forse persino paragonabile a quella degli Antichi.
I
due caduti le
tributavano il rispetto dovuto al suo prestigio e alla sua potenza,
senza nemmeno osare distendere le ali per timore che quel gesto
venisse interpretato come una minaccia; il cherubino, invece, le
parlava con una confidenza inspiegabile.
«Basta.»
sbottò
Anane, fermandosi di fronte a lei «Io chiamo aiuto.»
«No.»
le rispose in
tono gentile. Non sembrava un ordine, ma una semplice osservazione.
«Sì.»
«Non
credo, cara.»
occhieggiò brevemente al foglio che la giovane stringeva in
una mano
«Non ne vale la pena.»
«Ci
sta mettendo
troppo. Se le ha fatto qualcosa, io... io...»
Sorrise,
ironica. «Tu?»
«Basta,
io chiamo
aiuto.»
«Fermi.»
ordinò,
improvvisamente fredda e autoritaria, quando i due caduti si mossero
verso Anane. Poi tornò a rivolgersi a lei in tono gentile:
«Tranquilla, non le farà nulla.»
«Conoscendolo...»
«Proprio
perché lo
conosci, cara, dovresti fidarti. Sai meglio di chiunque altro quanto
si sia dato da fare, sì? Anche con quell’altra,
per essere
sicuro di riavere lei.»
«Certo
che lo so.
Tutto questo è merito mio. Il minimo
è rispettare i patti!
Era così difficile aspettare ancora un po’?
L’avrà
traumatizzata, così. Neanche un po’ di
preparazione.»
«Cerca
di capirlo,
cara. Quando ha saputo che sarebbe discesa in anticipo-»
«Ha
perso il poco
senno che aveva.»
«D’altronde,
cosa
possiamo farci noi?» sorrise «I sentimenti spingono
a fare pazzie,
a volte.»
Anane
strinse di più
il foglio che aveva in mano, poi lo ripose in una tasca sul petto e
sibilò: «Grazie della delicatezza, la apprezzo
molto.»
«Scusami,
cara.» si
allungò a sfiorarle un braccio «Non era riferito a
te.»
La
giovane si scostò
malamente, rischiando di farla cadere in acqua. «Non ho
bisogno
della falsa compassione di una viscida puttana ipocrita.»
«E
io, invece, mi
annoio ad ascoltare i tardivi ripensamenti di una stupida ragazzina
traditrice.» rise, con il capo gettato indietro «Di
solito non mi
parli così, cara.»
«Di
solito i patti si
rispettano. La traditrice qui non sono io.»
La
donna saltò con
agilità sulla riva, di fronte all’altra, alzando
il viso per
poterla guardare negli occhi e posandole una mano bollente sulla
guancia. «No, dici? Eppure in te vedo così tanto
rimorso. Ti
sciupa.» inclinò leggermente il capo e socchiuse
gli occhi, come
ascoltando qualcosa «Ma non devi più preoccuparti,
ci sta
chiamando. Andiamo, sì?»
Precedute
da uno dei
due caduti, esposero le ali e si elevarono al di sopra degli alberi,
seguendo poi la traccia del Richiamo. Nel vedere Anane portare la
mano al petto, per controllare che il foglio non cadesse durante il
volo, sorrise mestamente e le mormorò: «Non
dovresti tenerci così
tanto, cara. Sono solo parole.»
Ma
le parole avevano
già distrutto convinzioni, legami, vite, e ne avevano creati
altrettanti. Quanto potere può esservi in una semplice
sillaba? Sì,
no, un singolo suono che può cambiare tutto.
C’è
chi è tanto
bravo con le parole da poter raggirare un intero pubblico.
Anane
si lasciò
precipitare in una radura, vicino ad una giovane inginocchiata, e
spinse via l’uomo che quella teneva per un polso.
Abbracciò il
cherubino, singhiozzando scuse, quasi in lacrime; poi gridò
al
caduto parole che la donna, ancora sospesa sopra di loro, avrebbe
preferito non udire. Come avrebbe preferito non udire le repliche
velenose dell’uomo, che fecero ammutolire Anane a
metà di
un’ingiuria.
C’è
chi è tanto
bravo con le parole da poter raggirare un intero pubblico; e poi
c’è
chi con le parole è un genio, e non basta tutta la propria
cautela
per non cadere nella sua rete.
«Non
piangere, cara.»
mormorò ad Anane, atterrando dietro di lei «Il
rimorso ti sciupa,
te l’ho già detto, sì? E poi lo trovo
terribilmente ipocrita.»
«Proprio
tu parli di
ipocrisia?» ringhiò quella, voltandosi furiosa
verso di lei.
«Cara,
perché sei
così scortese? Mi pare che la tua amica stia bene,
sì?» le
accarezzò i capelli con un sorriso triste «Ora
calmati, smetti di
offendermi in questo modo. Mi addolori, figlia mia.»
«Taci,
madre.»
Parole.
Semplici
suoni in grado
di ferire più a fondo del ferro e del fuoco.
***
Angolo
autrice:
Capitolo
importante. Fondamentale. Fateci attenzione, perché niente è
messo a caso, qui.
Grazie per aver letto, per i preferiti e le seguite e soprattutto un
ringraziamento enorme a chi commenta. Leggere l'opinione dei lettori
è il miglior modo per ritrovare l'ispirazione (:
A domenica prossima con il quarto capitolo!
|
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Capitolo 5 *** 04. Cristallo ***
Capitolo
4 – Cristallo
La
biblioteca degli
insegnanti era stranamente quasi deserta. Durante il secondo periodo,
nonostante vi fossero le lezioni, qualcuno era sempre lì: il
proprio
allievo nella dimensione umana, un gruppo occupato in altre
attività,
un incarico urgente, e così almeno una decina di maestri era
libera.
Per
quel ciclo e per
molti altri a venire, tuttavia, ogni istante utile sarebbe stato
dedicato ad incombenze straordinarie: per divenire insegnante
servivano acume e capacità, ed era giunto il momento che
tali doti
fossero sfruttate anche al di fuori delle aule.
A
differenza del
solito, quindi, solo una donna era presente – una figura
minuta,
che quasi non si notava, mentre si aggirava tra i tavoli e gli alti
scaffali. Afferrava volumi, li sfogliava, li rimetteva al loro posto;
talvolta annotava qualche parola su un taccuino, ma la sua ricerca
non sembrava dare molti risultati.
All’improvviso
la
porta si spalancò con violenza.
«Nelchael.»
salutò
la donna, riconoscendo la presenza, senza alzare gli occhi da un
libro.
«La
tua allieva?»
«Ad
esercitarsi. E tu
dovresti essere a fare lezione, sì?»
«Studio
individuale.»
«Proprio
quando
vorresti essere libero. Che casualità.»
«Un
insegnante in più,
uno in meno, non penso che ormai faccia molta differenza, non
credi?»
«Chi
non è con i
propri allievi» s’interruppe, già
irritata, per trascrivere
un’informazione «sta solo eseguendo gli
ordini.»
«E
quindi cosa-»
«Nelchael.»
sibilò,
chiudendo di scatto il volume «Ho già avuto
abbastanza pazienza. Se
hai un buon motivo per essere qui, bene, altrimenti torna ai tuoi
compiti.»
L’uomo
si sedette ad
un tavolo e ringhiò: «Naturalmente
ho un buon motivo, ma
gradirei parlare con te, non con la tua schiena.»
«Adeguati.»
Era
una scena che
sembrava quasi essere stata vissuta mille e più volte
– ma in un
altro tempo, in altre circostanze, senza quel rancore. Ammutolirono
entrambi.
Lui
fissava le proprie
mani con espressione assente, tutta la rabbia dissolta
all’improvviso, come ricordando qualcosa; lei sfogliava
nervosamente le pagine, tentando di trovare un indizio, senza
prestarvi davvero attenzione.
«Pensi
davvero che
questi libri ti saranno utili?» chiese ad un certo punto
l’uomo,
udendola riporre l’ennesimo volume.
«Prima
di consultarne
altri, devo provare con questi. Lo sai.»
Lo
sapeva, infatti: lo
ricordava con dolorosa precisione, perché più
volte la giustizia
del Paradiso aveva condannato chi, per impazienza, non si era
attenuto alla sua rigida e lenta burocrazia.
Tacquero
ancora, persi
entrambi tra pensieri e memorie, in un’implicita e fragile
tregua –
capivano sempre quando l’altro tornava con la mente al
passato, un
passato che esigeva almeno il silenzio.
Fu
la donna, questa
volta, a riscuotersi per prima. Si arrese all’evidenza
– non
sarebbe mai riuscita a trovare nulla, nel reparto di libera
consultazione – e si sedette accanto a Nelchael.
«È
per loro due, sì?»
chiese senza guardarlo.
«Hai
visto anche tu,
prima. Non era il caso di-»
«Sachiel
non ha
reagito in alcun modo.» lo interruppe «Non
c’è nulla di cui
preoccuparsi.»
«Sachiel
non è
ferita, ed è stato comunque un rischio.»
«Invece
penso che
potrebbe aiutarle molto, stare vicine.»
La
fissò allibito.
«Stai scherzando.»
«No.»
sfogliò
distrattamente il taccuino, pensierosa «Non intendo forzare
nulla,
non ne vale la pena. Ma se si avvicinassero, forse potrebbe essere
uno stimolo per entrambe, sì?»
«O
forse» ringhiò
«potresti distruggere tutti i loro progressi.»
La
tregua era finita.
«La
mia allieva è
pronta a reggerlo, e potrebbe aiutarla a maturare più in
fretta.»
lo guardò negli occhi, gelida «Anticipare lo
Sviluppo di un quasi
certo serafino, o piegarsi alla presunta fragilità di un
cherubino
poco dotato? Che scelta difficile, sì?»
«Forse
non sono ancora
pro-»
«Taci!»
si alzò di
scatto, furiosa, esponendo le ali «Credi che ami questi
metodi?
Chiamare gli insegnanti ad altri incarichi, lasciare i Cherubini
soli, spingere tutti al limite?»
‘Sì.’
pensò lui ‘Sì che
lo credo. Tu pretendi sempre il
meglio, il massimo, anche a costo di sacrificare qualcuno. Sei
un’ottima Autorità, ma una pessima persona. E io
uno stolto.’
«Tu»
continuò in un
sibilo «eseguirai gli ordini come tutti, senza discuterli, e
non ti
intrometterai nelle relazioni tra Sachiel, la mia
allieva, e
il cherubino ferito.»
«Amitiel.
Non sai
nemmeno il suo nome?»
«Non
m’importa il
suo nome. E non m’importa neppure parlare con te,
perciò vattene,
prima che mi spazientisca.»
«...obbedisco.»
La
conclusione di ogni
loro colloquio, una parola sputata con rabbia e amarezza,
perché per
quella donna – no, per quell’Autorità,
perché di femminile
ormai non aveva più nulla – sembrava quasi che i
problemi non
sussistessero per principio: se ordinava che andasse tutto bene,
sarebbe andato tutto bene, in un qualche modo impossibile che stava
agli Esecutori inventarsi. Mentre lui si preoccupava dei Cherubini
che mandavano a farsi a ammazzare, lei contava con soddisfazione i
tanti piccoli combattenti che presto avrebbero avuto.
‘Davvero
un’ottima Autorità. Davvero una pessima
persona.’
Rimase
a guardarla per
qualche istante, prima di voltarle le spalle e lasciarla alle sue
ricerche inutili; gettandole un’ultima occhiata,
poté vedere le
sue spalle esili chinarsi, esauste, e le mani abbandonate stancamente
sul tavolo. Desiderò che tornasse tutto come un tempo, che
potessero
ricostruire quel fragile cristallo di felicità che forse vi
era
stato, millenni prima – o forse era stato solo un sogno,
chissà.
Si odiò per averla lasciata crollare sotto il peso di
responsabilità
troppo grandi, e la odiò per aver rifiutato ogni aiuto. Fu
quasi sul
punto di tornare indietro, parlarle, sfogarsi. Quasi.
‘Davvero
uno stolto.’
*
* *
Anane.
Riconobbe il suo abbraccio in un istante – quel modo
inconfondibile
che aveva di intrecciare le mani attorno alla sua vita, forte, fin
quasi a farle male; e di posare il capo biondo sul suo, inspirando
l’odore dei suoi capelli, grazie alla differenza
d’altezza; e di
sospirare di contentezza, stringendosi a lei. Tanti piccoli dettagli
che rendevano Anane ciò che era. La sorridente, allegra,
serena
Anane.
Eppure
stentava a riconoscerla. Quando il polso dell’uomo le era
scivolato
via dalle dita, si era chiesta cosa fosse accaduto; poi aveva
percepito la presenza di Anane, la stretta violenta e angosciata, le
grida contro quello sconosciuto, le scuse singhiozzate, le lacrime.
Ma non poteva piangere, perché era la sorridente, allegra,
serena
Anane. Non poteva conoscere quelle persone, non poteva parlare a
quell’uomo con tanta familiarità. E, soprattutto,
non poteva avere
una madre.
Gli
Antichi, lo sapeva, inizialmente avevano avuto dei figli, e accanto
ai Cherubini creati dal Fuoco della Venuta vi erano stati anche i
frutti delle loro unioni. Si era notato subito, però, come
il legame
parentale fosse estremamente scomodo:
impediva di considerarsi tutti figli del Paradiso, fratelli e sorelle
senza alcuna distinzione. Era un ostacolo alla dovuta
uniformità,
che divideva i Cherubini a seconda della loro origine; tanto
più
che, a quanto si diceva, quelli generati da una coppia avevano una
maturazione radicalmente diversa dal normale. Le unioni degli Angeli
erano quindi state rese sterili, ed era impossibile – davvero
impossibile – che Anane avesse una madre.
Le
venne da ridere per
l’assurdità della situazione.
«Amitiel,
cosa... cosa
ti succede?» le sussurrò l’amica
«Ti hanno fatto qualcosa?»
«Penso
che sia sconvolta, cara.» intervenne la madre,
scostandola leggermente «Lascia fare a me,
sì?»
Delle
mani bollenti le
alzarono il viso con delicatezza e fu costretta a fissare una donna
dalla bellezza quasi esagerata. Tutto di lei trasmetteva incuria
–
i capelli scuri aggrovigliati, la veste sgualcita, le labbra segnate
dai denti –, ma era evidente che fosse una negligenza voluta:
sembrava un’amante appena rivestitasi, che esibiva senza
pudore
quel corpo tanto invitante.
Sei
ali le avvolgevano
languidamente il busto, membranose e prive di piume, di un rosso
troppo intenso per essere scambiato con le tonalità dei
Cherubini.
Un demone.
La
vide sorridere con
espressione indulgente – falsa, la etichettò per
istinto – e
percepì il suo tocco bollente scostarle i capelli dalla
fronte, una
tenerezza materna del tutto fuori luogo.
Ormai
le doleva il ventre per le risate, perché Anane non poteva
avere
nulla in comune con quella donna dall’aria ipocrita. Non la
Anane
che conosceva, almeno; ma in fondo quella notte era già
così
inverosimile che non si sarebbe stupita troppo, se avesse scoperto
che la sua trasparente migliore amica era in realtà viscida
come sua
madre.
«Amitiel,
sì?» il
demone le accarezzò la guancia «Su, cara, calmati.
Va tutto bene.»
«Tutto
bene? Mi prendi
in giro?» sfiatò stridula, trovando a malapena il
fiato per
parlare, tra una risata e l’altra; ma il tocco della donna
era
ammaliante, la sua voce la rilassava, la sua espressione esprimeva
una sincera preoccupazione.
Perché
agitarsi, in
fondo? Non serviva a nulla, la rendeva semplicemente ridicola:
avrebbe dovuto tranquillizzarsi, chiedere spiegazioni con
lucidità.
Senza nemmeno accorgersene, inclinò il viso verso la mano
dell’altra, quasi calma; era come se all’improvviso
tutto fosse
scivolato lontano dalla sua mente, lasciando posto solo ad
un’inattesa pace.
«Non
influenzarla.»
ingiunsero due voci all’unisono – quella severa
dell’uomo e
quella rotta di Anane.
«Ora
è calma, sì? È
questo l’importante.» rispose quella, continuando a
sfiorarle il
viso.
Fu
strappata dalla
quiete senza preavviso, non appena il demone venne brutalmente
allontanato da lei. Si guardò attorno confusa, notando a
stento che
Anane, singhiozzando isterica, aveva ripreso a stringerla con forza,
come terrorizzata dalla possibilità di perderla. Il caduto
– ne
poteva finalmente vedere le ali, nere, enormi, dalle piume affilate e
taglienti degli Arcangeli – aveva afferrato la donna per un
polso e
la fissava furioso, chinato a sibilarle qualcosa
all’orecchio.
Altri caduti li osservavano a distanza, guardandosi di tanto in tanto
intorno con nervosismo.
Dopo
l’ilarità e la
pace, venne la rabbia, violenta e improvvisa, accompagnata nella sua
mente dal fragore di migliaia di cristalli infranti – la sua
sanità
mentale che andava in pezzi, probabilmente.
Non
capiva e nessuno sembrava intenzionato a spiegarle qualcosa; avanzava
nel buio, tra pensieri sconnessi e dubbi inascoltati, confusa. Anane
singhiozzava scuse per qualcosa di incomprensibile, senza rispondere
alle sue domande, permettendosi di essere debole quando era lei
quella stanca e frastornata. Il caduto, dopo averle promesso
informazioni, la ignorava per litigare con la donna, e quella rideva,
per nulla impressionata, incurante della figlia
e di lei. Si sentiva invisibile.
Avrebbe
voluto
ringhiare con forza la propria rabbia, ma le uscì solo uno
strillo
acuto: «Nessuno vuole degnarmi di una spiegazione,
qui?»
L’amica
mormorò il
suo nome, con le lacrime che scorrevano lungo le guance. Avrebbe
voluto scostarla, ma il suo corpo tiepido era troppo piacevole, dopo
il gelo del caduto e il calore eccessivo del demone – una
briciola
di normalità in quella situazione assurda.
«Oh,
cara.» mormorò
la donna, ancora trattenuta per il polso, voltandosi nella sua
direzione «Non sai nulla, ancora? Credevo che Michael ti
avesse
spiegato tutto, prima di chiamarci.»
Amitiel
impiegò
qualche istante per capire che Michael era il nome del caduto, che
ora la fissava con espressione seria, indecifrabile.
«Manchi
di organizzazione, figlio mio.»
continuò il demone, indirizzandogli uno sguardo ironico.
L’unica
risposta che ottenne fu un ringhio irritato, perciò
tornò a
rivolgersi verso le due giovani e aggrottò la fronte,
infastidita
dal pianto della più matura. Sbuffò: «E
tua sorella
manca di dignità. Mi fate quasi vergognare di essere vostra madre.»
Sembrava
divertirsi
enormemente, senza più alcun accenno della precedente
dolcezza, nel
vedere Amitiel sussultare incredula ad ogni riferimento alla loro
tanto sottolineata parentela. Era assurdo pensare che potesse essere
davvero la madre di Anane e del caduto; che questi fossero fratelli,
poi, era un’idea a dir poco inconcepibile.
Altro
rumore di
cristalli infranti, altro brandello della sua stabilità che
crollava
miseramente.
E
stava ancora
aspettando delle spiegazioni.
«Non
ascoltarla.» le
consigliò Michael, con un’occhiata furiosa verso
la donna «Sono
tutte stronzate.»
«Non
dovresti sminuire così certi legami, figlio
mio.»
rise quella «Capisco che-»
«Eisheth,
taci.»
ringhiò lui, dandole finalmente un nome.
Amitiel
strinse i
pugni, sempre più furiosa per quella mancanza di
considerazione.
L’amica
nel frattempo le era rimasta aggrappata, sempre in lacrime. Forse si
aspettava che lei ricambiasse l’abbraccio. La
allontanò con una
spinta stizzita e scattò i piedi, per immenso sollievo delle
sue
ginocchia distrutte; strillò contro madre
e figlio
la propria rabbia, perché non potevano sconvolgere tutto
così e poi
ignorarla, senza neanche un chiarimento. Gli altri caduti presenti la
fissarono, straniti dal suo sfogo, prima che Michael li invitasse
alla discrezione con un gesto infastidito del capo.
Poiché
ancora non le
rispondeva, la giovane sbottò: «Se volevi tanto
parlare, perché
continui a perdere tempo?»
«Amitiel...»
le
sussurrò Anane, ancora a terra, notando un bagliore
pericoloso negli
occhi di Michael; lo stesso richiamo che le rivolse lui, in tono di
gelido avvertimento.
«E
tu!» continuò
rivolta all’amica, battendo un piede a terra con stizza
«Si può
sapere perché continui a frignare?»
«E
tu perché ti
comporti come un cherubino appena creato, cara?» rise
Eisheth,
precedendo il figlio.
«Non-»
«Impaziente,
indisponente, volubile. Come i cherubini appena creati, sì?
Ti
credevo più matura.»
«Siete
stati voi a-»
«Basta.»
intimò Michael, in tono vibrante di collera; persino il
viso, fino
ad allora impassibile e assente, era teso in un’espressione
furiosa. Strinse il polso di Eisheth finché, nel silenzio
che si era
creato, non si udì uno scricchiolio sinistro, sibilandole:
«Tu sai
che Anane reagisce così, quando cerchi di influenzarla. Per
una
volta potresti avere compassione di questa tua figlia tanto patetica,
madre, ed evitare una
crisi d’isteria a lei e a tutti i presenti.»
La
donna, lungi
dall’essere intimorita, si liberò con sorprendente
facilità dalla
sua presa, per poi avvicinarsi ad Anane e accarezzarle il capo. Con
l’aria di divertirsi più di un cherubino,
mormorò: «Perdonami,
cara, a volte dimentico che sei così sensibile. Volevo solo
tranquillizzarti un po’.»
Amitiel,
sfiorata dalle
ali bollenti del demone, ebbe l’impressione che invece non
avesse
dimenticato nulla: voleva solo dare spettacolo e riderne, forse per
scacciare la noia. Nauseante.
Il
tocco gelido di
Michael su un braccio la fece sussultare, distogliendola dalla
contemplazione di quell’ipocrita affetto materno –
di cui ancora
si chiedeva il significato, perché continuava a ripetersi
che una
reale parentela era impossibile.
«Vieni.»
le ingiunse.
Rivolse
un brusco cenno
del capo a due arcangeli che si erano avvicinati, ordinando di non
seguirlo, e si alzò in volo. Benché un sussurro
nella sua mente le
suggerisse di non infastidirlo ancora, Amitiel non lo raggiunse e
tornò a fissare Anane ed Eisheth, improvvisamente stremata.
Era
come se quella scena nauseante l’avesse svuotata di ogni
forza,
lasciandola esausta senza un vero motivo. Forse c’entrava
l’Influenza del demone, con quella stanchezza, e anche con la
sua
strana assenza di paura. All’improvviso si sentiva
semplicemente
vuota.
«Grazie,
Eisheth.»
ringhiò Michael, tornando a terra «Grande idea,
influenzarla quando
è ferita.»
Si
volse poi verso
Amitiel, afferrandole un braccio senza fare davvero forza; con
l’altra mano le strinse la treccia ormai mezza sciolta, quasi
in
una carezza distratta e un po’ brusca. Lei lo
lasciò fare, inerme,
continuando a guardare l’amica.
«Vieni.»
ripeté
l’uomo, le labbra che le sfioravano la tempia «Se
vi state vicine
in questo stato, vi influenzate negativamente a vicenda. E poi tu
volevi risposte, vero?»
Si
alzò in volo,
sempre tenendola per un braccio, e a lei non rimase altra scelta che
seguirlo. Sembrava aver abbandonato la collera, ma era probabilmente
una maschera per tranquillizzarla: gli occhi grigi erano ancora
furiosi, mentre cercavano il sorridente viso di Eisheth per ammonirla
silenziosamente. Avrebbe dovuto provare paura, si disse,
incrociandoli per un istante – d’altronde stava
seguendo un
caduto verso una meta sconosciuta, i Custodi non si erano ancora
accorti di ciò che stava succedendo, Anane era in preda ad
un’inspiegabile crisi. Eppure, ancora una volta, si sentiva
solo
stanca e stordita.
Poteva
quasi
visualizzare i frammenti della sua sanità mentale andata in
pezzi,
ma era troppo esausta per tentare di rimetterli insieme, di trovare
un senso a ciò che stava accadendo. Aveva solo voglia di
piangere. E
qualcosa faceva male, dentro di lei, in profondità
– una
sensazione inspiegabile e incomprensibile, eppure intensa.
Non
fece nemmeno caso
al tocco gelido di Michael che la guidava, all’aria fresca
che le
accarezzava gentilmente il viso, alle fitte che provava talvolta
all’attaccatura delle ali. Si limitò a lasciarsi
trasportare
attraverso le ombre cupe della notte, troppo vuota anche per
inquietarsi.
«Non
preoccuparti.»
le disse l’uomo ad un tratto, forse fraintendendo il suo
stato
d’animo «Andrà tutto bene, è
normale che l’Influenza di
Eisheth ti faccia questo effetto. Sei ferita.»
Lei
continuò a volare
senza rispondere, lasciando che i fruscii delle loro piume
riempissero il silenzio.
Non
era ferita: era in
frantumi.
***
Angolo
autrice:
Grazie per aver
letto, per i preferiti e le seguite e soprattutto un ringraziamento
enorme a chi commenta! ^^ Tengo a ringraziare in particolare
DearJuliet, con cui sono partita con i discorsi filosofici e che con il
suo supporto mi fa sempre tornare l'ispirazione ^^
Non so voi, ma io trovo Eisheth adorabile u.u
A domenica prossima! (:
|
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Capitolo 6 *** 05. Principio ***
Capitolo
5 – Principio
Lanciò
un sasso,
facendolo rotolare oltre le radici degli ultimi alberi, e poi
giù
lungo il ripido pendio. Forse sarebbe caduto nel ruscello come i
precedenti, o sarebbe scivolato fino a valle, o si sarebbe fermato a
metà, rimanendo a languire tra l’erba dei pascoli.
Socchiuse
gli occhi,
ascoltando. Nessun tonfo, il torrente poco lontano continuava a
gorgogliare indisturbato. Lanciò un altro ciottolo: rumore
di
spruzzi. Centro. Sorrise, soddisfatta.
«Gli
Umani sanno far
saltare i sassi sull’acqua. Incredibile, vero?»
disse Michael, in
piedi dietro di lei, una nota quasi malinconica nel tono.
«Come
fanno?» gli
chiese quieta, scagliandole un altro. Centro di nuovo.
«Ti
sembro umano?»
rise «Qualcuno ha... cercato di insegnarmelo, una volta, ma
non c’è
riuscito.»
«Conoscevi
un umano?»
Altro
lancio. Il
ciottolo atterrò oltre il ruscello e rotolò lungo
il pendio.
«Più
di uno. È
inevitabile, se vivi nella loro dimensione.»
«Sì,
immagino di sì.»
Il
caduto si sedette al
suo fianco, ai piedi di un albero, ritirando le ali per non ferirla
con le taglienti piume da arcangelo.
«Sei
ancora stordita?»
le chiese.
«Meno
di prima.»
Avrebbe
dovuto essere
terrorizzata, confusa, angosciata per Anane e per quella situazione
assurda; invece riusciva a pensare in modo lucido, pressando tutto in
un angolo della sua mente e lasciando spazio solo al ragionamento
–
sempre che essere così tranquilla potesse chiamarsi pensare
in
modo lucido. Forse era semplicemente impazzita.
«Riusciamo
a parlare,
quindi?» si accertò Michael, divenuto quasi
gentile, una volta soli
«Non manca molto all’alba, il teatrino di Eisheth
ci ha fatto
perdere fin troppo tempo.»
«Riusciamo
a parlare,
sì.»
Lui
le scostò dalla
fronte una ciocca sfuggita alla treccia nera, ormai quasi sfatta.
Sembrava stranamente abituato a quei gesti, la toccava con una
confidenza che Amitiel non riusciva a spiegarsi.
«Eisheth
non avrebbe
mai dovuto influenzarti.» ringhiò.
«Perché
la sua...
Influenza... mi fa quest’effetto?»
«Sei
ferita.»
rispose, come se fosse ovvio «Te l’ho
già detto.»
«Ferita?»
«S’intende
ferita
nell’essenza.»
Si
voltò a guardarlo,
confusa. «Perché, l’essenza si
può ferire?»
«Evidentemente.
Come
il corpo si può danneggiare, l’essenza si
può ferire.»
«Cosa
significa?»
«Niente
di grave.»
esitò, cercando le parole più comprensibili
«Si diventa solo un
po’ più sensibili a certe cose, un po’
più instabili, ma con il
tempo si guarisce.»
Aggrottò
la fronte,
assorta. «Come fa l’essenza a ferirsi?»
«Può
accadere spesso,
quando uno scontro raggiunge un piano più...
spirituale.»
«La
mia essenza è
ferita...» mormorò Amitiel, confusa.
Lui
annuì, facendo
scorrere tra le dita le ciocche scure della ragazza.
«La
mia essenza è
ferita...» ripeté, mentre uno strano disagio
strisciava dentro di
lei «Ma io non mi sono mai scontrata in questo
modo.»
Michael
scosse le
spalle e le chiese: «È la prima volta che ti
dicono di essere
ferita?»
Dolore
alla schiena, violento, improvviso, come se fosse stata appena
squarciata.
La
carezza materna delle fiamme che porta un po’ di consolazione.
Un
tormento più profondo, inspiegabile, intimo.
«È
ferita.»
Inclinò
il capo verso
la mano dell’uomo, assaporandone la carezza gelida, come
cercando
conforto. Di fronte a sé vedeva ancora quello sprazzo di
passato, e
lo stordimento stava lentamente lasciando spazio ad
un’esausta
malinconia. Sussurrò: «...no, non è la
prima volta.»
Diversa,
anomala, sin
dall’inizio. Prima ferita, poi troppo curiosa e troppo
distratta.
Strane sensazioni di familiarità, impressioni istintive che
si
rivelavano esatte, fantasie simili a ricordi. I sogni che talvolta
tormentavano il suo riposo. Tante domande, nessuna risposta.
L’Espiazione.
La
macchia imperfetta
in mezzo al candido meccanismo del Paradiso, i cui ingranaggi
funzionavano perfettamente: ognuno con il proprio preciso compito,
ognuno con l’intimo desiderio di adempiervi nel migliore dei
modi,
senza lasciarsi distrarre. Tranne lei e pochi altri – ribelli
da
correggere in tempo.
Percepì
appena la mano
di Michael scivolarle lungo il viso e guidarla verso di lui.
Appoggiare la fronte al suo collo gelido fu doloroso, ma non si
sottrasse a quel contatto: rimanere così le sembrava un
gesto
naturale, scontato. Un gesto familiare.
Si
chiese
distrattamente quando la confusione se ne sarebbe andata,
permettendole di provare almeno disagio, se non terrore, per
quell’assurda situazione. Ma quell’interrogativo
scivolò ben
presto lontano, e il suo interesse fu catturato dallo strano abito
del caduto, che fasciava il busto e le spalle per intero; sulla
schiena, il tessuto aveva due grandi lacerazioni, in corrispondenza
dell’attaccatura delle ali. Preferiva di gran lunga i propri
vestiti, che sembravano più resistenti e morbidi, oltre che
più
comodi – ora che ci pensava, non sapeva nemmeno di che
tessuto
fossero, e se gli Umani ne usassero altri. Avrebbe dovuto informarsi
meglio.
Ma
com’era finita a
pensare a questo? Sbuffò, senza riuscire a risalire il filo
delle
proprie riflessioni. Era difficile mantenersi concentrata: la sua
attenzione vorticava, labile e incostante, senza riuscire a posarsi
su nulla in particolare, come una nube di lieve vapore dissipato dal
vento.
«Michael.»
chiamò,
quando i suoi pensieri volsero di nuovo allo stato della sua essenza.
«Dimmi.»
Si
sforzò di non
distrarsi e continuò, con un’improvvisa
illuminazione: «Scontrarsi
su un piano più... spirituale... è
l’unico modo per ferire
l’essenza?»
«Sì.»
Ogni
sua congettura
crollò miseramente. Un po’ esitante, chiese
ancora: «Quindi alla
nascita non... alla nascita non è possibile che...»
«La
nascita non è un
evento che ferisca l’essenza.» le rispose,
sciogliendo il nastro
bianco che tratteneva la sua treccia. Rimase in silenzio per diverso
tempo, concentrato nel districarle i capelli con gesti rilassanti,
poi aggiunse: «Dovrebbe essere accaduto qualcosa prima,
perché sia così.»
Si
godette quelle
attenzioni, che paradossalmente non la distraevano, aiutandola invece
a rimanere concentrata. Avrebbe voluto scostare il capo dalla sua
spalla e guardarlo in viso, ma temeva che così si sarebbe
interrotto, quindi rimase con gli occhi nocciola puntati sul terreno.
«Prima
della nascita?»
chiese, confusa.
«Prima
del Fuoco della
Venuta.»
Non
comprese il senso
di quella correzione: il Fuoco della Venuta segnava il principio, la
creazione. La voce profonda e seria dell’uomo,
però, sembrava
volerle suggerire significati nascosti e improbabili.
«Ma
la Venuta coincide
con la nascita.» mormorò «E prima non
c’è nulla.»
Michael
non rispose,
continuando a pettinarle i capelli con le dita, e
l’attenzione di
Amitiel scemò ben presto, tornando a vorticare tra mille
pensieri
inconsistenti.
Il
dolore alla fronte
cresceva lentamente, contro il collo gelido del caduto, e anche la
guancia – benché non a contatto diretto con la
pelle dell’altro
– iniziava ad essere molto infastidita; tuttavia non si
mosse,
assaporando quella posizione con un senso di pace e
familiarità.
«Dobbiamo
andare.» la
riscosse Michael, dopo un tempo indefinibile «È
quasi l’alba.»
«Mh.»
mormorò,
restia ad abbandonare quella quiete.
«Non
parlare a nessuno
di questa notte.» ordinò, serio, scostandosi per
guardarla negli
occhi «Saresti accusata di tradimento.»
Sbuffò:
«Non sono
stupida.»
«Quando
sarai tornata
lucida, rifletti su quello che ci siamo detti.» le raccolse
di nuovo
i capelli con il nastro bianco, in una coda morbida e disordinata
«Ne
riparleremo la prossima volta.»
Sembrava
essere certo
che si sarebbero visti di nuovo. Amitiel chiese come avrebbero potuto
organizzare tutto, ma lui la liquidò con un brusco cenno del
capo.
La
giovane si alzò,
con le gambe intorpidite, e dovette appoggiarsi ad un tronco per non
scivolare lungo il pendio. Alzò gli occhi. Il cielo stava
assumendo
un colore meno cupo, un azzurro tenue che oltre la cresta delle
montagne sfumava in tinte rosate; la luna non si vedeva più,
le
stelle scomparivano poco a poco. La dimensione umana sembrava
risvegliarsi, non più soffocata dalle ombre della notte: si
tingeva
d’oro e di rosa, come un fiore che sboccia dopo un inverno
gelido e
oscuro.
«Il
sole nasce.»
mormorò, incantata, nonostante in realtà
l’astro fosse ancora
invisibile.
«Già.»
il caduto le
sfiorò la tempia con le labbra «E prima del sole
c’era la luna.»
* * *
«Ishild.
Sei qui.»
«È
quasi il momento, vero?»
«Sì.
Si avvicina il nostro tramonto.»
«Non
è un tramonto. È un’alba.»
«Come
vuoi tu. Mi basta che ci sia il sole, e che ci siamo noi.»
«Maledizione.»
Erano
quattro cicli di
fila che faceva quel sogno – quattro cicli che si svegliava
all’improvviso, tremante e sconvolta; quattro cicli che
entrava in
aula e Nelchael la fissava come se sapesse tutto; quattro cicli che
attendeva invano Anane per parlare e sfogarsi.
Quello
era il quinto, e
stava iniziando a preoccuparsi davvero. Non riusciva a capire molto
di ciò che sognava: c’era il sole a sfiorarle la
pelle, una
presenza accanto a sé, delle parole in una lingua
sconosciuta di cui
comprendeva ugualmente il senso. Sembrava un ricordo, quasi, ma era
stata una sola volta nella dimensione umana, e
quell’occasione non
c’entrava nulla con le immagini oniriche.
Affondò
un pugno nel
cuscino, frustrata e accaldata. Era stanca, terribilmente stanca: non
riusciva a riposare per più di un periodo e mezzo a ciclo, a
causa
della Presenza troppo intensa e di quei sogni. Non poteva
più
neppure distrarsi battibeccando con Cassiel, che fin dal loro rientro
in Paradiso era stata promossa dalla quarta alla sesta classe, e
nessuna delle compagne rimaste era abbastanza matura da svegliarsi
presto quanto lei. Rimaneva a dibattersi tra pensieri neri e
opprimenti riflessioni per almeno un periodo, dibattendosi tra le
spire vischiose dell’angoscia, prima che qualcuna si destasse
–
Ramiel, di solito, talvolta anche Gadriel. Nessuna con cui avesse un
legame particolare, in ogni caso, perciò rimaneva una ben
scarsa
consolazione.
Sospirò,
rannicchiandosi tra le lenzuola a occhi chiusi, infastidita dalla
luce rossa della Presenza – persino quella sembrava accusarla
di
aver tradito, di essersi lasciata corrompere, di non meritare la
dolce attenzione con cui il Fuoco vegliava i propri figli.
Avrebbe
potuto
confidarsi con Anane, se fossero riuscite a parlare, ma tra loro era
sceso un velo di soffocante silenzio. Durante quei quattro –
ormai
quasi cinque – cicli, l’aveva vista ogni volta
socchiudere la
porta del dormitorio e rimanere a fissarla, indecisa; e ogni volta se
n’era andata senza una parola. Era arrabbiata, forse? O
disgustata?
O si sentiva in colpa? O temeva che potesse farle domande scomode?
Non riusciva a capirla, e la voleva indietro.
Voleva
indietro Anane,
il suo abbraccio e la sua risata. Voleva potersi sfogare, anche
sapendo già che sarebbe stata troppo orgogliosa e riservata
per dire
tutto – ma era già una consolazione sapere che, se
avesse voluto,
avrebbe potuto farlo. Voleva che l’amica tornasse come prima.
Ma
non voleva, invece, sapere cosa passasse per la testa
dell’altra:
troppo terrorizzata dalla possibilità che per qualche motivo
la
odiasse, o che fosse disgustata da lei, o qualsiasi altro veleno che
potesse corrodere il loro rapporto. Era terribilmente sbagliato, se
ne rendeva conto – desiderava che Anane la ascoltasse, ma non
era
pronta a fare lo stesso. Una ragazzina egoista ed egocentrica.
Soffocò
un singhiozzo
nel cuscino.
Cos’avrebbe
potuto
fare, d’altronde? L’amica sembrava saperne molto
più di lei, di
ciò che era successo, mentre lei non capiva neppure cosa
avrebbe
dovuto fare. Ignorare l’incontro con Michael? Cercare di
contattarlo? Riflettere su ciò che si erano detti? Nessuno
le aveva
spiegato come comportarsi, una volta tornata in Paradiso, né
a lei
era venuto in mente di chiederlo, ancora stordita
dall’Influenza di
Eisheth. Nessuno le aveva spiegato nemmeno cosa fosse diventata, in
realtà: una traditrice? Una corrotta? Un semplice cherubino
troppo
ingenuo, che avrebbe potuto sperare nel perdono, se avesse
confessato? Non voleva essere considerata feccia, si sentiva figlia
del Paradiso, sorella degli altri Angeli; non era diversa da prima di
quell’incontro, solo un po’ più curiosa,
un po’ più
informata. Era abbastanza per farla condannare? Ma era davvero
così
sbagliato, poi, aver parlato con un caduto? Non era giustificabile un
po’ d’interesse per ciò che lui sembrava
conoscere?
Si
diede della stupida,
continuando a soffocare il pianto nel guanciale; si maledì
mille e
più volte, perché si era fatta corrompere con un
po’ di lusinghe
e qualche notizia, tradendo così la fiducia delle
Autorità, dei
suoi fratelli, del Paradiso intero. Se avesse avvertito i Custodi di
quel che era avvenuto, sarebbe stato tutto a posto – tutti
vacillano, l’avrebbero perdonata. Perché era stata
tanto stupida
da tenerlo nascosto? E perché Anane non diceva niente,
perché
sembrava voler ignorare tutto?
Non
riusciva a
strapparsi di dosso l’impressione di essere sporca,
macchiata.
Aveva parlato con un caduto, si era lasciata convincere da lui, gli
aveva chiesto informazioni; ma nessuno le assicurava che quelle
informazioni fossero corrette, in fondo.
Sembrava
voler
insinuare che prima del Fuoco della Venuta vi fosse qualcosa, che non
fosse il principio di tutto, che la vera nascita avvenisse in un
altro momento; un pensiero assurdo, negato dall’istinto e
dalla
ragione, un concetto a cui la sua mente si ribellava, indignata da
una falsità così palese.
E
forse essere feriti
era normale, quando si era appena stati creati: la schiena
danneggiata, l’essenza anche. Aveva senso. Ma poteva non
essere
vero neanche quello che aveva detto sulla ferita, Nelchael e
l’Autorità potevano riferirsi ad altro, quando ne
parlavano –
forse alla situazione logorante che si veniva a creare durante la
maturazione, a cavallo tra una classe e l’altra, che
sfiancava
l’essenza impedendo il riposo; oppure gli squarci della
nascita che
si riaprivano, tornando a sanguinare.
C’erano
così tante
cose di cui non aveva tenuto conto, quando aveva scelto di ascoltare
quel caduto. Era solo un cherubino, nemmeno a metà della
maturazione
completa, come poteva immaginare che l’avrebbe raggirata? E
poi
l’avrebbe di certo uccisa, se non gli avesse dato attenzione,
cos’altro avrebbe potuto fare lei?
Se
solo le avessero
spiegato qualcosa, non avrebbe avuto alcun desiderio di ascoltare il
caduto, perché avrebbe già avuto le risposte di
cui sentiva il
bisogno. Se fosse stata meno ignorante, non si sarebbe lasciata
convincere da parole ingannevoli. Se non avessero punito ogni volta
la sua curiosità, non si sarebbe aggrappata alla
comprensione di uno
sconosciuto. L’avevano repressa e lei aveva cercato sfogo
altrove,
con qualcuno che aveva mostrato di ascoltarla e capirla. Era davvero
solo colpa sua, quindi, o anche di chi non aveva mai voluto prestarle
attenzione?
E
in fondo non era
successo nulla di grave, no? Non era morto nessuno, non aveva tradito
il Paradiso, aveva semplicemente parlato con un caduto. Aveva avuto
delle informazioni, forse false, forse corrette – ma in ogni
caso
non era così importante, sapere che l’essenza
poteva essere
ferita; probabilmente aveva solo anticipato qualcosa che avrebbe
studiato nelle classi successive. Le insinuazioni su
un’esistenza
prima del Fuoco della Venuta non erano altro che
vaneggiamenti. Di cosa poteva essere accusata? Di aver scoperto
qualcosa che avrebbe comunque saputo, di aver dovuto ascoltare le
farneticazioni di un folle? Se l’Influenza di quel demone
l’aveva
stordita a tal punto da non farla ribellare al caduto, lo si doveva
alla facilità con cui l’essenza ancora immatura
dei Cherubini si
lasciava manipolare, lei non aveva potuto opporre alcuna resistenza.
Probabilmente era accaduto così anche ad Anane,
probabilmente
l’amica era ancora stordita, per questo si comportava in modo
così
strano. Loro non ne avevano colpa. L’aveva piuttosto chi le
aveva
lasciate sole nella dimensione umana, senza riguardo per la loro
acerba fragilità.
Non
si sarebbe più
lasciata ingannare, non sarebbe più accaduto. Che
cos’era un
istante di debolezza, in confronto all’eternità?
Solo un granello
di polvere, un dettaglio quasi inesistente. Poteva ignorarlo,
dimenticare, rimediare, poteva farne ciò che voleva,
perché non era
nulla e nessuno sarebbe mai venuto a saperlo. Tranne Anane, ma lei
avrebbe di certo compreso; e quei caduti e quel demone, che
probabilmente non avrebbe visto mai più.
Rise,
quasi isterica,
rischiando di svegliare le compagne. Perché si era
preoccupata in
quel modo? Non era niente di grave, niente d’importante. Non
l’avrebbero mai accusata o condannata o rinnegata, o
qualsiasi cosa
avrebbe meritato un suo tradimento, perché lei non ne aveva
commesso
alcuno.
La
luce rossa della
Presenza le sembrò all’improvviso più
tiepida e piacevole, come
se il Fuoco l’avesse nuovamente riconosciuta come propria
figlia,
perdonandole quell’istante di inesperienza e debolezza.
Amitiel
sorrise, rincuorata, mentre quella carezza materna la riaccompagnava
nel sonno.
Ma
quando chiuse gli
occhi, la accolsero le tinte
fiammeggianti di un ricordo, non il dolce nulla del riposo;
l’incubo le sfiorò le
palpebre,
ghignando, come avrebbe fatto per molto tempo a venire.
Era
solo il principio –
uno dei tanti –, ma già non c’era modo
di fermarlo.
***
Angolo
autrice:
Grazie per
aver letto, per i preferiti e per le seguite. Come al solito, un
ringraziamento enorme a chi commenta, mi fate davvero contenta (:
Non ho potuto rileggere un'ultima volta il capitolo prima di
pubblicarlo, se trovate errori segnalatemeli pure ^^
Se in questo capitolo avete colto qualcosa che Amitiel invece sembra
non cogliere... be', poverina, lei è cresciuta in un certo
ambiente, con una mentalità molto chiusa, deve ancora
maturare molto. Non detestatela troppo, se vi sembra ottusa, si
rifarà u.u
Il prossimo aggiornamento probabilmente slitterà da domenica
a martedì.
|
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Capitolo 7 *** 06. Specchio ***
Capitolo
6 – Specchio
Fissava
la porta bianca da un tempo indefinibile, senza mai allontanare gli
occhi dalla cifra rossa in rilievo, dagli asterischi sotto di essa.
Quarta
classe, ottavo gruppo.
Al
di là vi era il dormitorio, la Presenza intensa e materna e
confortante, le ali ancora così rosse e gli squarci
sanguinanti.
Amitiel.
Quarta
classe.
Spaventosamente
immatura. Avrebbe dovuto insistere con Michael per aspettare ancora e
prepararla meglio, perché era troppo acerba, troppo fragile.
Ma cosa
importava a lui? Non passava periodi interi a guardarla piangere e
agitarsi nel sonno, non la spiava da una fessura della porta sino a
quando non scivolava in un riposo più quieto, non incontrava
i suoi
occhi spaesati e spietati.
Non
fissava il suo viso in lacrime chiedendosi se, un tempo, anche il
proprio fosse apparso così – se fosse uno specchio
crudele di come
il dolore e l’incertezza non mutassero mai, dilaniando tutti
in
ugual modo. Non sentiva riaprirsi vecchie cicatrici che, in fondo,
non erano né vecchie né cicatrici.
Non
si accasciava in preda all’angoscia nel proprio letto, non
temeva
per la sorte di quella che considerava più di una sorella,
non si
logorava per il senso di colpa straziante. Non passava interi cicli a
fissare il cielo con occhi vacui, invocando nomi che avrebbe dovuto
dimenticare – e in quei momenti avrebbe desiderato persino la
carezza di ipocrita comprensione di Eisheth, per scacciare la
solitudine.
Fuggì
lungo il corridoio, singhiozzando, senza il coraggio di aprire quella
porta per vedere ancora una volta gli incubi di Amitiel. Non le
importava di farsi scoprire dalle Custodi, o di svegliare qualcuno
con il rumore della sua corsa: voleva solo allontanarsi da
lì, da
quel numero rosso in rilievo che sembrava accusarla e giudicarla.
Quarta
classe.
Così
spaventosamente immatura.
* * *
«Amitiel.»
«Anane,
ciao.»
Un
incontro casuale nel
caos del secondo periodo, quando gli allievi si affrettavano a
centinaia verso le aule. Voluto, forse, ma non cercato. Avrebbero
potuto fingere di non essersi viste, continuare per la propria strada
con la scusa del ritardo, salutarsi con un cenno e correre via; ma
l’affetto tra loro era tanto – troppo, per lasciare
che lo
insultassero ancora in quel modo.
«Come
va?»
«Bene,
tu? Ridwan ti
ha detto qualcosa sul tuo Sviluppo?»
Sguardi
sfuggenti, mani
nervose che torturavano la divisa, un silenzio impacciato e
titubante.
«No,
non lo vedo da un
po’, è sempre occupato.»
«Capisco.»
pausa
incerta «Scusa, ora devo andare. Se arrivo un’altra
volta in
ritardo, Nelchael mi uccide.»
«Allora
ciao. Mi ha
fatto piacere vederti.»
«Sì,
anche... anche a
me.»
Prima
che l’altra si
allontanasse, Anane le afferrò un braccio, facendola di
nuovo
voltare verso di sé.
«Ti
va di...»
mormorò, mentre il sangue le affluiva alle guance,
rendendole
candide e luminose d’imbarazzo «Quarto periodo,
solito posto?»
«Qualcosa
di più
appartato? Per parlare più tranquille. Se vuoi,
ovvio.»
«La
settima è nella
dimensione uma-» s’interruppe
all’improvviso, timorosa di
ricordare all’altra la loro esperienza lì
«La settima non c’è,
possiamo andare nella loro biblioteca.»
«Mh...
tetto di quella
degli insegnanti?»
«Giusto,
lì non ci
sono i Custodi.»
«E
così possiamo
stare un po’ all’aperto.» aggiunse
Amitiel, come per
sottolineare che non c’era nulla da nascondere, nei loro
discorsi –
o almeno così le piaceva pensare.
«Certo.
Be’, allora
a dopo.» le lasciò il braccio e sorrise, incerta
«Se Nelchael
vuole ucciderti, digli pure che sei in ritardo per colpa mia.»
«...no,
io non ti
tradisco.»
E
quella frase fece
nascere uno sguardo d’intesa, lo specchio di ciò
che vi era stato
prima di quella notte; un riflesso forse un
po’ distorto e
incrinato, ma per quel momento bastava.
*
* *
Anane
passò il secondo
periodo a sorvolare i quartieri degli allievi, incapace di rimanere
chiusa in una stanza a studiare. Si lasciava bagnare dalla luce senza
provenienza del Paradiso, ridendo, planando sui tetti bianchi e
piatti, salutando i compagni che scorgeva a terra.
Amitiel
voleva parlare,
aveva detto che non l’avrebbe tradita, e le aveva anche
sorriso,
prima di andarsene. Andava tutto bene, ogni cosa sarebbe tornata alla
normalità. Niente più imbarazzo o incertezza o
silenzi. Tutto
meravigliosamente bene.
Percepì
il Richiamo
segnalare l’inizio del terzo periodo e si lasciò
cadere verso i
dormitori, euforica, arrivando a sfiorare un tetto con le dita. Solo
allora distese le ali e con un rapido battito tornò verso
l’alto,
trascinata dal vento. Ripeté il gioco più volte,
incurante dei
compagni che da terra le facevano ansiosi cenni di smettere, ridendo
delle loro grida spaventate. Non temeva di ferirsi: aveva avuto
secoli per provare e riprovare, fino a conoscere ogni corrente
d’aria, e altri secoli ancora per sfidarsi con Amitiel.
Ricordò
con un sorriso
malinconico quel cherubino dalle ali ancora così rosse, la
sua
insistenza per provare quel gioco pericoloso, il proprio esasperato
consenso. Quando, la prima volta, l’aveva vista battere le
ali
troppo tardi e spezzarsi un polso contro il terreno, aveva creduto
che Amitiel non avrebbe più osato riprovare; invece lei
l’aveva
stupita, ripresentandosi poco tempo dopo con le ossa risanate e ancor
più determinazione. Il vento aveva cullato la loro amicizia
nascente, germogliata tra cielo e terra con la velocità di
una
caduta libera.
Smise
di lasciarsi
precipitare e, in un malinconico moto di affetto, accarezzò
con lo
sguardo i vasti quartieri degli allievi – lo Specchio, come
venivano chiamati, anche se in realtà la loro struttura non
era del
tutto simmetrica. Era pronta a giurare di conoscerne ogni angolo, e
di non aver mai amato così profondamente un altro luogo:
poteva non
condividere le sue idee, poteva disprezzare i suoi insegnamenti,
poteva detestare molti dei suoi abitanti, ma non poteva non
considerarlo casa.
D’altronde,
lo
Specchio era stato studiato affinché i Cherubini lo amassero.
Era
sito su un immenso
altopiano sempre accarezzato da correnti d’aria, che
sostenevano i
più immaturi nei loro primi voli con estrema dolcezza, ma
che
potevano rivelarsi altrettanto violente: nelle giornate più
ventose
nessuno delle classi inferiori osava volare, il cielo diveniva un
confuso turbinio di fogli strappati dalle mani, le allieve nemmeno
tentavano di avere dei capelli ordinati, le ampie finestre degli
edifici tremavano per le folate.
Un
fiume bianco
scorreva intorno allo Specchio, facendolo sembrare un’isola
– il
Confine, che durante il rito dello Sviluppo si tingeva di rosso, per
sancire la maturità di un allievo.
Nella
pianura
sottostante, piuttosto discosta dal monte, si estendeva la
Città
degli adulti: i palazzi delle Autorità e dei Censori, i
templi, le
palestre... una marea di edifici candidi sempre in fermento,
poiché
solo ai giovani era necessario il riposo. Luoghi affascinanti e
solenni, in confronto allo Specchio – luoghi che loro
potevano solo
guardare da lontano o visitare con gli insegnanti, sognando
l’indipendenza di cui erano simbolo e promessa.
Così era in ogni
zona del Paradiso, non solo in quella Circoscrizione: i Cherubini
amavano la propria casa, ma agognavano la maturità, il
giorno in cui
sarebbero discesi tra gli adulti come loro pari.
Anane
era una di quelle
rare eccezioni che, avendo passato interminabili secoli nello
Specchio, vi si erano affezionate tanto da guardare al distacco con
malinconia, piuttosto che con impazienza. C’era anche chi,
come
Cassiel, attendeva quel momento con brama più irrequieta del
normale, sentendo di non appartenere davvero alla marea di Cherubini
immaturi: erano adolescenti dal corpo acerbo, ma dalle
capacità di
un adulto, e – secondo alcuni –
dall’eccessiva arroganza.
E
poi c’era chi,
procedendo nella maturazione, percepiva sempre di più come
quei
quartieri fossero frutto di un’analisi attenta e meditata:
giovani
che rimanevano meravigliati da come fosse tutto efficiente e
funzionale, o da come fosse studiato per rispondere sempre alle
necessità dell’instabile essenza dei Cherubini.
Futuri membri del
Genio i primi, Custodi quasi assicurati i secondi. Sempre che non
comprendessero troppo a fondo il funzionamento di
tutto,
perché quello sarebbe stato un problema; e che non si
chiedessero
perché, pur non essendo simmetrico, quel luogo venisse
nominato
Specchio – bisognava saper stare al proprio posto, senza
spingersi
oltre il punto richiesto, e senza porsi domande inutili.
Era
una delle prime
lezioni di cui s’impregnava la mente dei Cherubini, e non a
caso le
restrizioni sui luoghi vietati erano molto rigide, per i più
giovani; diminuivano con la crescita, dimostrando come gli adulti
fossero liberi e indipendenti, per spingere a maturare in fretta.
Arrivati al ciclo superiore, ad un soffio dallo Sviluppo, era ormai
permesso aggirarsi ovunque, tranne i dormitori del sesso opposto; ma
questo divieto era spesso ignorato, perché gli allievi erano
ormai
abbastanza accorti da non farsi scoprire – nel ciclo
inferiore,
d’altronde, le punizioni per chi non vi riusciva erano sempre
un
ottimo incentivo ad impararlo in fretta.
E
se un cherubino sa
celarsi ad un Custode, sarà in grado da adulto di farlo
contro i
nemici.
Tutto
perfettamente
calcolato.
Anane,
scuotendo il capo a queste riflessioni, atterrò sul tetto della biblioteca degli
insegnanti e ridacchiò. Amitiel aveva avuto davvero
un’idea
grandiosa: quello era il centro esatto dei quartieri degli allievi,
un punto da cui si poteva scorgere ogni edificio, spiare dalle enormi
finestre, vedere le pendici verdi del monte e la candida
Città
distesa ai suoi piedi. Osservare tutto da quell’altezza
– cinque
piani, contro gli abituali due – la faceva sentire
assurdamente
potente. Ma forse era solo la felicità elettrizzata di
tornare a
parlare con l’amica, dopo più di quattro cicli di
silenzio e
occhiate sfuggenti.
Si
appollaiò sul bordo
del tetto, tentando di scorgere la classe di Amitiel,
nell’edificio
accanto. Le aule che davano su quel lato dovevano essere del sesto e
del settimo gruppo, non dell’ottavo, ma aveva bisogno di
occuparsi
di qualcosa, o sarebbe presto scoppiata per l’impazienza.
«Mi
annoio.» si
lamentò con un immaginario interlocutore, allungando a
dismisura le
vocali.
«Potresti
studiare,
allora.» fu l’inattesa risposta.
* * *
«Sono
solo un Custode, e per di più un semplice angelo. Non credo
di
riuscire ad affiancare i Guardiani ai confini, rischio di essere solo
d’intralcio.»
«Discutere
è inutile, ragazzo. Ti parla un Esecutore Materiale che in
teoria
insegna alla quarta classe.»
«Un
arcangelo alla quarta classe? Non lo sapevo.»
«E
chi ha parlato di un arcangelo, ragazzo? Hanno smesso di badare a
certi dettagli.»
Aveva
ancora in mente
la voce derisoria di quell’uomo: i commenti di
un’ironia quasi
intollerabile, le risate beffarde, lo sprezzo malcelato. Ma era
riuscito ad ignorarlo, senza lasciarsi scalfire dal suo sarcasmo,
rendendo onore al proprio nome – Ridwan, come
l’arcangelo della
pace interiore – e alla propria pazienza; l’uomo
gli era
addirittura risultato quasi sopportabile, quando si era lasciato
sfuggire di essere preoccupato per gli allievi più giovani.
Saputo
il nome della
sua allieva, però, aveva iniziato a fare
insinuazioni che
gliel’avevano reso decisamente insostenibile. Era innegabile
che
Anane avesse una maturazione molto lenta, ma questo era imputabile
solo ad uno scarso talento e ad un ancor più scarso amore
per lo
studio; di certo non era un legame con gli Sconsacrati, o una
corruzione interiore, ad ancorare la sua essenza allo stadio di
cherubino. E uno sconosciuto, che nemmeno le aveva mai parlato, non
poteva osare certe insinuazioni infondate – insinuazioni che,
per
giunta, avrebbero anche potuto causarle dei guai.
Aveva
tirato un sospiro
di sollievo, quando aveva visto le fasce blu degli Esecutori
allontanarsi, tuttavia la sua inusuale irritazione non si era
placata. Gli avambracci, sostenuti dalla rabbia, avevano retto gli
assalti dei compagni senza mai cedere: anche se sarebbe rimasto
dolorante per diverso tempo, era riuscito a dimostrarsi quasi al pari
degli Arcangeli – perché un Custode era
sì qualcuno incapace di
spiccare, ma anche qualcuno in grado di adattarsi ad ogni ruolo.
Non
esiste la
mediocrità, semplicemente alcune doti sono più
difficili da notare
e da apprezzare. Quella ragazzina senza apparente valore era la sua
sfida: l’avrebbe guidata verso la sua strada, trovando il suo
talento. Serviva solo del tempo, e nessuno poteva
osare certe
insinuazioni su di lei.
Sbuffò,
turbato da
quei pensieri, e sfilò i pantaloni e la maglia ormai a
brandelli per
sciacquarsi dal sangue e indossare abiti tradizionali. Per gli
allenamenti, molti – lui compreso – utilizzavano
quelli di foggia
umana: infastidivano un po’ le ali, che dovevano aprirsi un
varco
nel tessuto, ma erano più comodi e resistenti, avvolgendo
interamente il busto e le gambe. Qualità apprezzata
soprattutto
dalle donne, che non gradivano affatto quando il chitone tradizionale
risaliva verso i fianchi, o quando il drappeggio lungo una spalla si
scioglieva e scopriva il seno.
Rivestendosi
sfiorò
per errore un gomito, particolarmente malridotto, e sibilò
di
dolore. Un Custode a fare il Guardiano tra gli Arcangeli; senza
l’inusuale rabbia che l’aveva sorretto per
quell’allenamento,
avrebbe dovuto impegnarsi davvero molto, se non voleva morire
prematuramente – e no, non voleva, o almeno non prima di aver
trionfato nella propria sfida personale e aver visto Anane
svilupparsi. Dopo le insinuazioni di quell’uomo, poi, era
diventata
una questione di principio.
Stretta
ai fianchi la
fascia azzurra dei Custodi, salutò con un cenno i compagni e
uscì a
grandi passi dalla palestra, senza recarsi dai Guaritori per quel
gomito, che sarebbe guarito autonomamente in qualche tempo.
Sorvolò
in fretta la Città, diretto verso l’alto piano, ad
ali distese –
le sue semplici ali da semplice angelo e altrettanto semplice
Custode, che però aveva saputo tener testa agli Arcangeli, e
forse
peccava di superbia, ma un po’ di orgoglio non glielo poteva
negare
nessuno.
In
pochi istanti risalì
le pendici boscose del monte, trovandosi sospeso sugli immensi
quartieri degli allievi – una vastità che non era
un inutile
sfoggio, ma semplice efficienza. Un suo vecchio compagno, entrato nel
Genio, gli aveva spiegato come quella struttura fosse meditata fin
nei dettagli: un riflesso imperfetto, la cui simmetria era
studiatamente sfregiata. Da quando aveva ascoltato la sua
descrizione, si fermava spesso a contemplare lo Specchio, ammirando
la cura con cui era stato ideato e riprodotto, identico, in ogni
Circoscrizione del Paradiso.
I
quartieri degli
allievi erano un quadrato enorme e quasi perfetto. Otto larghi viali
lastricati di bianco lo dividevano in nove colonne, incrociate
perpendicolarmente da altri quattro viali, che le tagliavano in
cinque sezioni ciascuna – zone rettangolari di uguali
dimensioni.
Le
colonne – tranne
la nona – ospitavano i dormitori maschili nella prima
sezione,
quelli femminili sul lato opposto, nella quinta; questi erano
disposti secondo la progressione delle classi, ma il ciclo superiore
faceva eccezione, trovandosi esattamente al centro, tra la quarta e
la quinta. Le candide costruzioni erano su due piani, ciascuno con
quattro camerate – una per lato – orientate verso
il grande
cortile interno. Solo gli allievi del ciclo superiore avevano una
stanza per sé, ma dall’esterno la struttura
appariva uguale alle
altre, essendo le finestre rivolte verso il cortile.
Se
la prima e la quinta
sezione erano identiche, la seconda e la quarta erano radicalmente
diverse. Adiacenti ai dormitori maschili si trovavano le zone aperte,
ampie aree erbose dedicate alle lezioni pratiche; a quelli femminili,
invece, gli edifici a due piani delle biblioteche. Questo
perché gli
allievi, più robusti, fossero spinti all’esercizio
fisico, mentre
le loro compagne allo studio teorico.
La terza sezione, quella centrale, era dedicata alle aule; ma non nella zona del ciclo superiore, poiché gli allievi erano affidati singolarmente ad un maestro. Lì, al centro esatto dello specchio, sorgeva la biblioteca degli insegnanti, più alta e imponente di qualsiasi altro edificio.
La
nona colonna, da cui
si poteva osservare l’intera Città, rovinava
radicalmente la
simmetria dello Specchio. Accoglieva nella sezione dei dormitori
maschili i magazzini, mentre nella zona femminile
l'edificio dei Guaritori.
Questo perché, essendo l’essenza delle donne
più fragile e più
spesso orientata verso la guarigione, le allieve fossero facilitate
nel farvi visita e incoraggiate ad apprendere quell’arte; gli
allievi, invece, avrebbero imparato a non ricorrere troppo di
frequente alle cure, poiché era permesso recarsi
nell’ala del
sesso opposto solo in rare occasioni.
Seconda,
terza e quarta
sezione non erano divise tra loro dai viali, ma riunite in un unico,
vastissimo lastricato bianco: la Piazza, in cui si raccoglievano
tutti gli allievi in occasioni particolari. Le gradinate volgevano le
spalle allo Specchio, guardando verso la Città;
l’oratore era così
investito di tutta la grandezza del bramato mondo degli adulti, non
solo del proprio prestigio.
Non
era un caso che il
ciclo superiore fosse spostato nella colonna centrale, lontano dalla
Piazza, né una semplice questione di spazio per la
biblioteca degli
insegnanti. Gli allievi più maturi, ormai vicini allo
Sviluppo,
potevano cadere in superbia o indolenza; trasferirli più
indietro,
strappando loro la visione della Città, ricordava loro che
dovevano
ancora impegnarsi, che ancora appartenevano ai Cherubini.
Tale
era la cura con
cui il Paradiso aveva concepito lo Specchio, rifugio dei propri figli
ancora rossi.
Ridwan
si riscosse
all’improvviso da quella contemplazione, percependo
un’essenza
volteggiare sopra di sé. Gli occorse meno di un istante per
riconoscere Anane e, con un sorriso, lasciò che si
divertisse senza
farsi notare: non poteva impedirsi un moto d’affetto per
quell’allegria tanto genuina, anche se erano proprio
comportamenti
simili – troppo esuberanti, quasi anormali – a dar
luogo alle
maldicenze.
Chiuse
gli occhi, per
udire meglio la risata cristallina dell’allieva, che
eliminava in
lui ogni traccia d’irritazione. Quando li riaprì,
la vide
appollaiata sul tetto della biblioteca degli insegnanti; se
sussultò,
però, non fu perché era pericolosamente vicina al
bordo, ma per
l’uomo appena atterrato dietro di lei.
E
Ridwan, che rendeva
onore al suo nome, che non abbandonava mai la calma, che non si
lasciava sfuggire neppure un’esclamazione, imprecò
tra i denti e
si gettò verso la sua allieva appena in tempo.
* * *
«Michael.»
«Eisheth.»
L’aria
densa e
bituminosa del Vestibolo sembrava risucchiare le loro voci,
distorcendole in un’eco grottesca: le risate divenivano
latrati, i
sussurri urla laceranti. Era un luogo immateriale, eppure nero e
soffocante; e immateriali erano anche i suoi visitatori, essenze e
anime i cui corpi scomparivano nel nulla, in attesa di poterle
ospitare nuovamente. Tutto era astratto, eppure visibile.
La
presenza del demone
era un’enorme nube di un rosso violento, sanguigno; quella
dell’arcangelo caduto, uno sbuffo di fumo grigiastro che
quasi
scompariva al suo confronto.
«Oh,
Michael.»
sospirò la donna «Chiamami madre, almeno in
privato... o almeno nel
mio dominio, dove ti è utile. Non è la prima
volta che te lo
chiedo.»
«Non
siamo negli
Inferi, Eisheth. Non vedo perché dovrei palesare il nostro
legame.»
«Non
siamo nemmeno
nella dimensione umana. Non vedo perché dovresti
rinnegarlo.»
«Se
volevi sentirti
chiamare madre, avresti dovuto convocarmi negli Inferi, non nel
Vestibolo. E ora sbrigati, Eisheth, ho altro da fare che ascoltare le
tue chiacchiere.»
«Mi
ripaghi così,
Michael, quando io ti ho usato una gentilezza?»
mormorò, ma sembrò
un urlo rabbioso, da bestia ferita «Possiamo spostarci, se
sei così
ansioso di non potermi parlare da pari, di aggrapparti alla mia
tunica come un cherubino. Vuoi vedere i Demoni inchinarsi al mio
cospetto? Vuoi sentire la loro brama di attaccarti, frenata solo dal
legame che ci unisce? Vieni, dunque!»
La
nube rossa si
infittì ad ogni parola, sin quasi a sembrare solida e
fremente,
perdendo tutta l’evanescenza che caratterizzava
l’essenza dei
serafini; era uno spettacolo magnifico e minaccioso, un’ombra
concreta che pulsava e vorticava come impazzita, rabbiosa. In un
istante circondò il fumo grigio, che scomparve poco a poco
senza
riuscire a liberarsi, come trasportato in un altro luogo.
«...no.»
fu costretto
a mormorare il caduto, prima di venire condotto negli Inferi.
«Perdonami,
Michael?»
chiese, con una risata soddisfatta a malapena trattenuta.
«No,
madre.»
L’essenza
del demone
si ritirò all’improvviso, tornando ad essere una
nebbia sottile.
«Era
così difficile
dirlo?»
«Perché
mi hai
convocato?» la ignorò «Dovrei essere a
combattere, in questo
momento, e a vigilare sul patto affinché venga
rispettato.»
«Dubito
che potresti
fare molto, figlio mio» rise «nel caso in cui
Belial ordinasse ai
suoi Demoni di ritirarsi. O di attaccarvi.»
«Samyaza
me lo ha
ordinato e ho intenzione di farlo, madre.»
«È
da tempo che non
lo incontro, ora che ci penso. Deve aver perso il suo tanto celebrato
intelletto, se ha messo te a vigilare sul patto,
sì?»
«Evidentemente
ha
fiducia nelle mie capacità.»
«Evidentemente
ha
voglia di ridere un po’.» lo corresse «O
è davvero impazzito.»
«Smetti
di deridermi.»
ringhiò «Sono giovane, ma ho più potere
di altri che sono nati
molto prima di me. Significherà pur qualcosa.»
«Sì,
che il mio nome
ha influenza anche sulle gerarchie dei Caduti.»
«Non-»
«Michael,
so che hai talento e potere: una madre non ignora mai i successi dei
propri figli. E, per la tua giovane età, questo talento e
questo
potere sono quasi sorprendenti, anche escludendo l’influenza
che il
mio nome ha sicuramente
avuto nel farti ottenere l’autorità di cui
godi.» lo stava
deridendo, con quel discorso così formale «Ma
abbandona per un
istante la superbia e guardati intorno: ci sono decine, centinaia di
persone più potenti di te. In confronto agli Antichi, figlio
mio»
espanse la propria essenza in modo quieto, non minaccioso, ma quella
del caduto sembrò ugualmente minuscola «non sei niente.
Solo il patetico riflesso di un decimo della loro – della nostra
– grandezza.»
«Mi
hai convocato nel
Vestibolo per dirmi questo?» chiese, spazientito e a disagio.
«Sta’
attento,
Michael, perché potresti scoprire nel peggiore dei modi
quanto tu
sia debole.» lo ammonì «Puoi manovrare
come burattini dei
cherubini inesperti, ma non inganni me. Spera che io non decida di
averne avuto abbastanza dei tuoi giochetti.»
«Non
credo che ti
riguardi. Non ti ho mai coinvolta, né ho intenzione di farlo
in
futuro, se è questo che ti preoccupa.»
«Hai
coinvolto mia figlia, tua sorella, nel modo più subdolo e
crudele.»
ringhiò, e l’aria densa del Vestibolo
trasformò la sua voce in un
ruggito agghiacciante «I Demoni peccano di egoismo, ma non di
indifferenza. Spera, prega
di non ferirla troppo, perché scateneresti la mia
ira.»
Il
caduto rise, tentando di mascherare il suo disagio, e disse
seccamente: «Se sei così ansiosa per la sua sorte,
madre,
perché sei tu la prima a non svelarle nulla?»
«Perché
non ho solo una figlia, ma anche un figlio. Non mi piacerebbe vederti
di nuovo in quelle
condizioni.» la sua essenza sfiorò il fumo grigio,
come in una
carezza «Ma non spingerti troppo oltre, Michael, per riavere
quella
femmina. Rischi di perdere tua sorella e tua madre.»
«Non
vedo come
potresti impedirmi di... spingermi troppo oltre, come dici
tu.»
commentò, gelido «Se anche tentassi di escludere
Anane da questa
storia, lei stessa sarebbe la prima a protestare. E il tuo potere,
per quanto grande, non potrà mai influenzare questioni
private come
questa: riguarda me, che per tua sfortuna sono adulto, e solo
marginalmente Anane. Non hai modo di intrometterti.»
«Non
ho modo?» rise
«Oh, Michael, sei davvero ingenuo.»
Lui
non comprese cosa
il demone avesse in mente, e la sua essenza grigia si
arricciò su sé
stessa, esprimendo involontariamente la propria confusione.
«Spingerti
troppo
oltre ferirebbe tua sorella e te» lo avvisò
Eisheth «e non ho
intenzione di vedervi entrambi distrutti dalla tua ingordigia.
Piuttosto, figlio mio, preferisco che sia tu l’unico a venire
colpito dai tuoi errori.»
«Cos’hai
intenzione
di fare?» ringhiò con ansia malcelata, espandendo
la propria
essenza – sempre ridicola, di fronte alla grandezza del
demone.
«Quello
che avrei già
dovuto fare: proteggervi. Non ti permetterò di ripetere i
tuoi
errori ancora una volta, Michael. Non obbligarmi a farlo.»
sospirò
«Non ho mai amato gli specchi, Michael, lo sai.»
Era
una frase
incomprensibile ad un ascoltatore esterno; per loro, invece, era
spaventosamente chiara.
Prima
che l’altro
potesse risponderle, Eisheth lo sfiorò con una carezza
leggera,
quasi addolorata, e in un istante scomparve, inghiottita dagli
Inferi.
Michael
rimase ancora a
lungo a vagare nell’aria bituminosa del Vestibolo, tremando
di
rabbia e di allarme per l’ultima frase.
Non
ho mai amato gli
specchi.
E,
come sottinteso che potevano cogliere solo loro due: non
dovresti nemmeno tu.
***
Angolo
autrice:
Con un po'
di fatica, sono riuscita ad aggiornare oggi. Se trovate errori,
segnalatemeli pure, non ho avuto tempo di rileggere un'ultima volta
dopo la correzione.
Capitolo di un paio di pagine più lungo del solito, per
compensare le lunghe spiegazioni sullo Specchio. Risulteranno quasi
sicuramente pesanti, ma dovevo inserirle, prima o poi, e non avevo modo
di spezzarle senza perdere in chiarezza. Spero che risultino
comprensibili.
Che altro dire? Non so voi, ma io adoro Ridwan xD Può
sembrare inutile la parte su di lui, o inserita solo per descrivere lo
Specchio, ma ha il suo perché. Ridwan è un
personaggio limpido, "pulito", che ha una visione del Paradiso molto
positiva. Servirà a mostrare le cose da un altro punto di
vista.
Spero che l'ultima parte vi sia piaciuta... io mi sono divertita
moltissimo a distruggere così Michael xD
Grazie per aver letto, per i preferiti e le seguite, e come sempre un
enorme ringraziamento a chi recensisce!
A domenica prossima (:
|
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Capitolo 8 *** 07. Precipitare ***
Capitolo
7 – Precipitare
Il
corpo di Anane era
più pesante di quanto si aspettasse. Prima ancora che lei si
accorgesse di essere caduta – e quella consapevolezza sarebbe
arrivata troppo tardi per permetterle di distendere le ali in tempo
–, Ridwan l’aveva afferrata e stretta contro di
sé, ad una
velocità tale che la giovane quasi non aveva percepito il
movimento;
gli avambracci esausti del Custode avevano implorato pietà,
il
gomito ferito aveva strillato tutto il proprio dolore, ma non aveva
allentato la stretta.
Mentre
l’allieva si
guardava intorno confusa, senza capire cosa fosse accaduto, Ridwan
fissava con rabbia l’uomo appena atterrato sul tetto della
biblioteca.
«Volevi
farla
precipitare, Esecutore?» chiese, con la voce vibrante di
collera mal
trattenuta.
«Non
credevo che si
sarebbe sbilanciata così. Al ciclo superiore si dovrebbe
avere una
padronanza maggiore delle proprie reazioni.»
«Ridwan?
Che cosa-»
«Vattene,
Anane.» le
ordinò, posandola sulla superficie piatta del tetto.
L’uomo
strinse le
labbra, contrariato. «Volevo parlarle, in
realtà.»
«Vattene,
Anane.»
ripeté, ma lei non si mosse.
«Ridwan,
non capisco,
cosa-»
«Anane!»
sibilò,
facendola ritrarre, spaventata.
«Se
sei così ansioso
di farla allontanare, Custode» commentò
l’uomo «potrei quasi
pensare che abbiate qualcosa da nascondere. Sono un insegnante che
vuole parlare con un allievo; non posso?»
‘ Non
sono un tuo parigrado’
sottintendeva il suo sguardo sicuro di sé ‘perché
mi
occupo solo del ciclo inferiore; ma comunque
un’autorità per gli
allievi. Non puoi ostacolarmi di fronte ad uno di loro.’
«È
legittimo.»
dovette arrendersi Ridwan «Ma è legittimo anche
che io assista,
essendo il suo maestro. Se un insegnante ha un richiamo o una
comunicazione per lei, è mio dovere informarmene.»
Non
parlò di diritti,
perché quell’uomo non sembrava prestarvi molta
attenzione; ma i
doveri erano imprescindibili e, come lui non poteva impedirgli di
parlare ad Anane, l’altro non poteva negargli di essere
presente.
Si
affiancò
all’allieva, confusa e inquieta, e le posò una
mano tra le
scapole, tra le ali, in un gesto rassicurante. Le sentì
arruffate
per la caduta, tiepide di sangue e tremanti d’ansia.
«Ovviamente
puoi
restare, Custode.» convenne l’uomo a denti stretti
«Sono qui
perché non mi convince la relazione del cherubino tuo
allievo
sull’incarico nella dimensione umana.»
Sotto
le sue dita, le
ali di Anane sussultarono.
*
* *
Sbuffò,
annoiata.
Tanta
fretta per arrivare in aula e Nelchael non c’era. «Lezione
pratica con quinto, sesto e settimo gruppo»
aveva lasciato scritto, senza nemmeno presentarsi per avvisarli
personalmente. Forse temeva che gli avrebbero riso in faccia.
Più
di cento cherubini
gestiti da un unico Custode – una donnetta esile e nervosa,
con una
voce stridula e la fermezza di un filo d’erba. E loro
avrebbero
dovuto esercitarsi nel combattimento?
Quanto
ottimismo.
«Direi
di... disporvi
a coppie e provare... provare i colpi di palmo, senza violenza, per
favore...» aveva farfugliato l’improvvisata
insegnante,
sottolineando quel senza violenza con una risatina
ansiosa.
Evidentemente
l’avevano
scambiato tutti per un «Date sfogo ai rancori
personali e tentate
di uccidervi.», perché in poco tempo i
colpi di palmo non
violenti si erano trasformati in vendette a graffi e ginocchiate. Ad
un certo punto, Raphael – il compagno di Amitiel che era
disceso
con lei nella dimensione umana – aveva per puro caso
affondato
un’unghia nell’occhio di un cherubino, con cui non
doveva essere
in rapporti idilliaci. La Custode si era finalmente resa conto che la
situazione era divenuta ingestibile.
Amitiel
si era
aspettata minacce, scoppi d’ira, punizioni. Quella invece si
era
guardata intorno smarrita, si era aggrappata ad un braccio del ferito
e lo aveva quasi implorato di farsi accompagnare dai Guaritori,
lasciandoli a trucidarsi senza sorveglianza. Una scena magnifica.
«Hai
voglia di
allenarti?» le chiese Raphael, entrando
all’improvviso nel suo
campo visivo.
Lei,
sdraiata
sull’erba, gli rispose con una smorfia: «Ho
l’aria di una che ha
voglia di faticare?»
«Pensavo
che volessi
passare di classe in fretta.»
«Per
una volta che non
c’è Nelchael e abbiamo un periodo libero,
allenarmi per passare di
classe non è il mio primo pensiero.»
sbuffò «Chiedi a Ramiel, a
lei interessa di sicuro.»
Le
guance dell’altro
divennero bianche in un secondo, palesando il suo imbarazzo. Se non
voleva avere guai, avrebbe dovuto imparare ad essere più
discreto; e
anche Ramiel, che li fissava con scarso riserbo. Amitiel si reputava
un’osservatrice, ma non era né un prodigio nel
cogliere i rapporti
interpersonali né interessata ai fatti altrui; se lei si era
accorta
del legame che univa quei due, l’avevano di certo notato
anche
altri. Era solo questione di tempo prima che qualche voce giungesse,
casualmente o no, ad un adulto. Amitiel non sapeva fino a che punto
fossero giunti – supponeva comunque che fossero solo
all’inizio,
visto il loro costante imbarazzo –, ma sperava che non
superassero
il limite.
C’erano
cose proibite
e c’erano cose da non fare.
Avere
una relazione
senza l’approvazione dei Censori – approvazione che
ai Cherubini
non si concedeva mai – era proibito; spingersi oltre
era da
non fare. Per essersi lasciati distrarre da un legame non autorizzato
vi erano punizioni severe; per essersi sporcati non
esisteva
possibilità di riparare all’errore, solo la pena
peggiore, la più
dolorosa e umiliante.
«Non
voglio
impicciarmi» mormorò al compagno, tirandosi a
sedere «ma tu e
lei-»
«Non
impicciarti,
allora.» la interruppe, con insolita asprezza per quel
cherubino di
solito così garbato.
Prima
che potesse
rispondergli – non sapeva nemmeno lei se per scusarsi o se
per
ribattere velenosa, avendo l’infausta abitudine di parlare
prima di
pensare – una sagoma alata atterrò al centro della
zona aperta,
riportando l’ordine con la sua sola presenza. Sotto lo
sguardo
vigile dell’arcangelo appena giunto, la marea di cherubini in
agitazione si trasformò in pochi istanti in due file
ordinate e
silenziose, intimorite dalla fascia nera che gli cingeva i fianchi
–
ma cosa ci faceva un Guardiano allo Specchio?
L’adulto
sembrò
soppesare la situazione, come chiedendosi se dovesse indagare
sull’inattività in cui li aveva trovati, e sul
perché molti di
loro sfoggiassero ferite degne di uno scontro; poi, decidendo che non
era compito proprio, si limitò a dire: «Amitiel,
ottavo gruppo.»
L’interessata
fece un
passo avanti, cercando di nascondere il tremore alle ali. Al cenno
dell’arcangelo, si chinò a prendere la borsa e lo
seguì in volo
in silenzio. Si era messa nei guai in qualche modo? Aveva sbagliato
qualcosa? Erano venuti a sapere di... di quello che era successo
nella dimensione umana?
Il
tremore aumentò
così tanto che perse quota, arrivando quasi a sfiorare i
tetti delle
aule, prima che l’adulto le stringesse un braccio e
arrestasse la
sua caduta. Lo ringraziò con voce incerta, dandosi
mentalmente della
stupida, perché se si mostrava così preoccupata
non faceva che
confermare tutti i sospetti; sempre che vi fossero dei sospetti,
certo, perché magari qualcuno aveva chiesto di lei per
qualche
motivo diverso dall’accusarla di qualcosa di cui nessuno
poteva essere venuto a conoscenza, a meno che Anane non avesse fatto
la spia, ma Anane non l’avrebbe mai fatto, perché
poi comunque ci
sarebbe andata di mezzo lei stessa, quindi era-
Rischiò
di perdere di
nuovo quota, e solo la stretta dell’arcangelo le
impedì di
precipitare sul tetto di una biblioteca. Non riusciva nemmeno a
capire dove stessero andando, troppo concentrata a trattenere il
tremito delle ali – impresa resa ancora più ardua
dal dolore alla
schiena, per gli squarci riaperti all’improvviso dalla
caduta.
L’adulto le lanciò un’occhiata vagamente
impensierita, poi
scosse le spalle, come decidendo che tranquillizzarla non faceva
parte dei propri compiti.
«Cambiati.»
le
ordinò, atterrando con lei nel cortile interno del suo
dormitorio
«Divisa formale.»
«...formale?»
chiese
in un sussurro strozzato. Era un’Autorità o un
Censore ad aver
richiesto la sua presenza, allora, ma un’Autorità
o un Censore non
richiedeva mai la presenza di semplici allievi, e
soprattutto
non di uno solo, e ancora al ciclo inferiore. Doveva aver sentito
male, sì, doveva aver-
«Formale.»
confermò
«Ti attendo alla Piazza.»
«Arrivo
immedia...»
si schiarì la voce acuta
«immediatamente.»
L’arcangelo
diede uno
sguardo alle sue ali, ancora tremanti, e – forse impietosito
da
tutto quel rosso, forse dicendosi che impedirle di precipitare era
proprio compito – si corresse: «Ti attendo
qui.»
Anche
se, a giudicare
da come le vacillavano le gambe, probabilmente sarebbe precipitata
perfino nel salire le scale per il secondo piano.
* * *
«Non
vedo perché un
insegnante della quarta classe dovrebbe interessarsi agli incarichi
di un allievo del ciclo superiore.» disse Ridwan a denti
stretti,
intensificando la pressione della propria mano sulle ali di Anane
–
un contatto che era sia una rassicurazione sia un ammonimento.
«La
tua allieva ha
accompagnato nella dimensione umana una dei miei. Ho notato un
comportamento strano da parte di quel cherubino e mi sono informato
sulla relazione che hanno riportato, ma non ne sono rimasto
convinto.» gli occhi scuri dell’uomo si spostarono
sulla giovane,
ben sapendo che il suo maestro non avrebbe mai ceduto, e
continuò:
«Troppe incongruenze, cherubino.»
«Nelchael.»
lo chiamò
Ridwan con collera malcelata, passando da un registro formale
– in
cui si evitava per rispetto il nome dell’interlocutore
– ad uno
più colloquiale. Essendo superiore di grado
all’uomo, anche se
solo di poco, gli era permesso; ma in una situazione del genere
avrebbe comunque dovuto evitarlo, soprattutto perché vi era
un
cherubino ad assistere.
‘ Se
tu vuoi parlare con la mia allieva senza avvisarmi, io sfrutto la mia
posizione senza rimorso.’
«Ti
ascolto, Custode.»
gli rispose, senza poter ricambiare l’affronto del nome, per
la
rigida gerarchia.
«Sono
presente in
quanto suo maestro, perciò preferisco che tu ti rivolga a
me, non a
lei.»
«Come
preferisci.»
ringhiò, furioso per come l’altro stava svilendo
la sua autorità
di fronte ad un cherubino «Troppe incongruenze. Non mi
convince ed
ho il dovere di approfondire, essendo coinvolta una mia
allieva.»
«Possiamo
discutere
con la tua allieva presente, allora, così avremo di certo un
quadro
più chiaro.»
«Preferisco
parlare
con una alla volta.»
«Parti
dalla
convinzione che abbiano mentito, Nelchael, e perciò vuoi
metterle in
difficoltà?»
«No.»
negò, ma
l’occhiata che gettò ad Anane fu abbastanza
indagatrice da
smentire le sue parole «È solo per poter ascoltare
entrambe con
uguale attenzione.»
«Come
preferisci.»
Ridwan aumentò la stretta alle ali dell’allieva,
tramutando il
tocco in un vero e proprio ammonimento, perché lei tremava
decisamente troppo «Di quali incongruenze parli?»
L’uomo
estrasse da
una tasca dell’abito alcuni fogli e iniziò ad
estrapolare frasi,
mettendo il luce errori, contraddizioni, passaggi poco chiari;
l’altro ribatteva prontamente ad ogni frase, senza mai
lasciare la
parola ad una Anane sempre più tremante –
più che stringerle le
ali, ormai, la stava sostenendo.
Sì,
il luogo in cui
erano giunte era un po’ spostato rispetto a quello pattuito,
ma
poteva accadere che, prima dell’arrivo, gli allievi
più immaturi
si agitassero e si muovessero senza volerlo.
Sì,
il cherubino della
quarta classe era apparso molto turbato al suo ritorno, ma il primo
incontro con le ombre della dimensione umana non era mai semplice,
tanto più che erano giunte poco prima della notte.
Sì,
la giovane aveva
delle lievi ferite, ma per sua stessa ammissione era atterrata male
più di una volta; e sì, quel livido alla schiena
non si poteva
spiegare in questo modo, ma una semplice lite tra cherubini bastava a
giustificare quel segno di lotta.
Continuarono
per molto
tempo, tanto che Anane quasi smise di ascoltarli, rimanendo attenta
solo quanto bastava per rispondere, nei rari casi in cui i due adulti
chiedevano il suo intervento – d’altronde era solo
un cherubino,
non sarebbe stato rispettoso discutere con un insegnante mentre
poteva farlo il suo maestro. Per una volta, ringraziò
l’esistenza
di consuetudini così formali, perché la
esentavano dal fornire
spiegazioni quando non riusciva nemmeno a ragionare: parlava
meccanicamente, ripetendo a memoria una relazione falsa quasi quanto
lo era lei stessa. Ad ogni parola precipitava sempre più a
fondo nel
baratro nero dell’inganno – e proprio nei confronti
di chi si
stava impegnando a discolparla.
‘ Mi
dispiace, Ridwan. Ci sono dentro da troppo tempo per cambiare
idea.’
Quando
tradisci troppe
volte, non riesci più a capire a chi devi la tua
fedeltà; e se
gliela stai tributando davvero, o se invece è solo una
finzione. Ma
forse, quando tradisci troppe volte, la fedeltà assume lo
stesso
valore di un cherubino di fronte a due insegnanti: il nulla.
‘ C’è
qualcuno per cui valgo, e a lei va la mia fedeltà.’
pensò, continuando a rispondere e a mentire ‘A
lei,
Ridwan, non a te. Mi dispiace. Se dirti la verità significa
tradire
Amitiel, allora ti ingannerò.’
Ma
ormai stava
precipitando da così tanto tempo – e ancora non
era giunta al
fondo del baratro – che presto avrebbe tradito anche lei.
*
* *
‘ Calma.’
Aprì
la porta della
camerata con mani tremanti e si guardò intorno, spaesata.
‘ Amitiel,
calma.’
Si
avvicinò alla
parete rivolta verso il cortile interno, occupata quasi interamente
da enormi finestre, e tirò le tende candide. Non ebbe il
coraggio di
controllare se l’arcangelo stesse guardando verso di lei.
‘ Calma,
va bene? Calma.’
Sulla
parete opposta
della lunga camerata erano allineati i letti, con il relativo piccolo
armadio a destra. Non vi era alcuna distinzione: lenzuola tese con
cura, ogni abito ripiegato nel guardaroba, nessun oggetto personale
in mostra – e, se un allievo non riusciva a riporre tutti i
propri
averi in un’anta e due cassetti, significava che aveva
decisamente
troppo.
Si
diresse verso uno
dei tanti letti uguale agli altri e si inginocchiò di fronte
all’armadio, vacillando.
‘ Non
hanno scoperto niente. Niente.’
Dopo
due vani tentativi
di stringere il pomello, la sua mano riuscì finalmente ad
aprire il
secondo cassetto. Svuotò la sacca in fretta, riversando
libri e
taccuini su quelli già impilati con poco ordine, senza
curarsi di
non rovinarli.
‘ Anane
non ha parlato. Ci va di mezzo anche lei, altrimenti. Non ha
parlato.’
Nel
primo cassetto
sistemò la borsa e le penne. Urtò per sbaglio
l’unico quaderno di
cui le importasse davvero e rimase a guardarne la copertina lisa,
come se fosse stata aperta molte volte.
‘ Il
taccuino dei ricordi. Ero ancora alla seconda classe, quando
l’abbiamo fatto...’
Lo
prese con un mezzo
sorriso, più calma. Sulla prima pagina, tra disegni
infantili,
spiccava una scritta colorata: «A e A, amiche per
sempre». E
per sempre, quando hai davanti
l’eternità, non è una frase
senza importanza, ma una promessa.
‘ No,
certo che Anane non ha parlato.’
Lo
ripose a malincuore,
sapendo che l’arcangelo la stava aspettando.
‘ Ma
allora cosa vogliono? Non possono aver scoperto della dimensione
umana. Nessuno lo sa, a parte noi. Nessuno può saperlo.
Nessuno.’
Con
le mani di nuovo
tremanti, si alzò e slacciò la striscia di
tessuto rosso ai
fianchi. Sciogliere il nodo al collo si rivelò
più difficile; dopo
tre tentativi vi riuscì, e poi fece scivolare lungo le gambe
i
pantaloni della divisa da esercizio fisico, con una foggia simile
agli abiti umani.
‘ E
poi non è successo niente. Abbiamo solo parlato.’
Completamente
nuda,
ripose la divisa nell’armadio, sulle due di riserva.
Urtò con un
gomito la pila di divise ordinarie e la fece crollare a terra; con
un’imprecazione, si chinò a raccoglierle e
ripiegarle. Ci stava
mettendo troppo, ma, piuttosto che lasciare l’armadio in
pessimo
stato con il rischio di un controllo delle Custodi, era meglio far
aspettare un Guardiano.
‘ E
far aspettare un’Autorità o un Censore,
invece?’
Rimase
con le divise
tra le mani per un istante, poi si decise e le gettò alla
rinfusa
nel guardaroba. Crollò anche la pila di abiti da riposo, ma
non vi
fece caso, afferrando in fretta l’unica veste appesa.
‘ Se
arriva un controllo proprio questa volta, uccido qualcuno.’
Le
mani non avevano
smesso di tremarle, e così le ali: gli squarci le dolevano,
tormentati da quei movimenti incontrollati, vomitando abbondante
sangue lungo la sua schiena nuda. Presentarsi con la divisa
impregnata di liquido bianco non avrebbe di certo favorito una buona
impressione – perché, oltre ad essere scomodo e
complesso da
indossare, quell’abito era anche di un tessuto diverso dalle
solite
uniformi. Si sporcava, si inzuppava, si lacerava con una
facilità
disarmante – e dire che, secondo Anane, i tessuti umani erano
ancora peggio. Sì, avrebbe di certo fatto una pessima
impressione.
Non
che in fondo una
buona impressione sarebbe servita a molto, se sapevano di
ciò che
era accaduto nella dimensione umana.
‘ Mi
taglieranno le ali?’
Si
lasciò scivolare a
terra, la schiena dolorosamente premuta contro il letto,
terrorizzata.
‘ Non
è successo niente. Niente. E poi non possono saperlo,
né io né
Anane abbiamo parlato. Magari vogliono solo dei chiarimenti sulla
relazione, ma con quella è tutto a posto, no?
Basterà attenersi a
quella versione e andrà tutto bene. Tutto bene.’
Gli
incubi e i dubbi
del riposo tornarono a tormentarla, non più mitigati dalla
luce
materna della Presenza, ma ingigantiti da quella limpida dei periodi
di attività – una luce che sembrava accusarla di
non essere
trasparente, giusta, pulita. Rischiarava la camerata in modo quasi
tagliente, mostrando spigoli e macchie, e di sicuro avrebbe mostrato
anche che lei era sporca.
‘ Potrei
confessare tutto. Potrei-
No.
Metterei nei guai Anane. E non mi perdonerebbero, avrei tradito e
mentito e continuato a nasconderlo, è una cosa troppo
grande. È più
grande di me, sono solo un cherubino, che posso fare? Continuare a
mentire?’
Strinse
le ginocchia al
petto e vi nascose il capo, tentando di trattenere i singhiozzi.
‘ Così
peggioro la situazione. Ma c’è un modo per
migliorarla? Se
confesso, non mi perdoneranno. Anche se ho solo parlato con un
caduto. Stupida, stupida, stupida! Perché gli ho dato
ascolto?
Perché mi sono fatta ingannare? Non potevo starmene buona ad
aspettare il tempo delle risposte come gli altri? Perché
devo essere
così curiosa?’
Ma
la sua mente, con un
dolore sordo e profondo e inspiegabile, si ribellava a quelle domande
e sembrava chiedere, invece: ‘Perché non
devo esserlo? Perché
non posso desiderare la conoscenza?’
Era
una lotta tra ciò
che era e ciò che le avevano insegnato ad essere; i confini
non
erano netti, e per questo si tormentava, senza riuscire a capire,
senza trovare un equilibrio. Nella dimensione umana era stata troppo
assente e stordita per percepirla, ma tra le luci abbaglianti del
Paradiso quella guerra le si mostrava in tutta la sua violenza,
rischiando di divorarla.
Stava
precipitando in
qualcosa di più grande di lei – nei dubbi di
un’intera
esistenza, nel peccato, nel tradimento. Stava precipitando e le sue
ali da cherubino, troppo incerte e doloranti, non potevano frenare la
caduta.
***
Angolo autrice
Buona domenica (o qualsiasi altro giorno in cui stiate leggendo), miei
prodi! Spero che questo capitolo vi sia piaciuto più del
precedente, che a quanto ho visto non è stato molto
apprezzato xD Il settimo è un po' più
movimentato, ma per entrare nel vivo della storia servirà
ancora un po' di tempo. Prima di passare all'azione, devo lasciare che
i personaggi maturino e si mostrino, o alla storia mancherebbero le
basi su cui svilupparsi. Il prossimo capitolo, in particolare,
conterrà una svolta interiore molto importante per Amitiel.
Se questo è la caduta, l'ottavo sarà l'impatto.
Piano piano le cose si smuovono, spero che l'attesa non sia troppo
noiosa.
Grazie per aver letto, per i preferiti e le seguite e, come sempre, un
ringraziamento particolare a chi commenta!
|
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Capitolo 9 *** 08. Silenzio ***
Capitolo
8 – Silenzio
Vi
sono molti tipi di silenzio.
Quello
imbarazzato di chi vorrebbe parlare, ma non sa cosa dire –
stille
d’incertezza che rendono la gola secca e le guance candide.
Quello
quieto di chi non sente il bisogno di riempirlo – la
serenità di
un contatto che non richiede parole, perché basta
semplicemente
essere insieme.
Quello
furibondo di chi vorrebbe esplodere, ma sa che rimanere muti
è il
miglior grido possibile – la crudeltà di una
vendetta spietata.
Quello
cupo di chi è solo, ferito nell’animo da amarezza
e abbandono –
il principio della follia, poter udire la propria voce infrangersi
contro un muro di nulla.
E
poi ve n’è uno più sottile: il silenzio
dell’attesa,
angosciante e oppressivo. Un silenzio in cui i propri pensieri
risuonano vacui, divenendo presto circolari, senza un principio o una
fine, e nemmeno un senso; un silenzio in grado di portare alla
follia, se protratto troppo a lungo. L’animo si tormenta e si
logora nel dubbio, pronto ad essere malleato o straziato; ma non si
può far altro che attendere. Attendere senza avere idea di
ciò che
accadrà. Attendere senza poter chiedere nulla. Attendere
senza
sapere quanto a lungo durerà. Attendere senza più
avere la
cognizione del tempo, fino a che i sensi scivolano in un limbo
ovattato e la mente vaga in un tormentato nulla.
Proprio
quel silenzio circondava Amitiel, coprendola di un pesante velo di
stanchezza e inquietudine. Da quanto era in quel corridoio, in piedi
di fronte ad un’imponente porta bianca? Da quanto il
Guardiano a
sinistra dell’ingresso fissava davanti a sé, senza
prestarle
attenzione? Da quanto si dibatteva nell’angoscia, alla
ricerca di
una risposta a cui non poteva giungere? Avrebbe voluto urlare, pur di
spezzare quella mancanza assoluta di suoni, perché i
pensieri
divenivano ogni istante più cupi, affondando poco a poco
nell’ossessione.
‘ Cosa
vogliono? Sanno qualcosa? Io non ho parlato. Anane... Anane no, non
mi tradirebbe mai, e poi ci andrebbe di mezzo anche lei. E non
c’era
nessun altro, non possono sapere quello che-
No,
non è successo niente. Ho solo avuto le risposte che mi
spettavano.
Se Nelchael mi avesse spiegato, se avessi potuto fare domande, se...
se solo potessi essere io,
e non solo una
dei tanti,
per essere ascoltata non avrei bisogno di... chiedere informazioni su
qualcosa che è mio
diritto sapere.’
Se
lo ripeteva
incessantemente, ormai convinta. Quel silenzio estenuante avrebbe
dovuto metterla a disagio, e ci riusciva; ma avrebbe anche dovuto far
crollare ogni sua difesa, quando in realtà esasperava le sue
giustificazioni ed esacerbava l’astio – verso chi
l’aveva
lasciata senza protezione nella dimensione umana, chi non le aveva
mai dato risposte, chi aveva punito la sua curiosità. Aveva
trovato
qualcuno che accogliesse le sue domande, e nel silenzio risuonavano
anche le sue spiegazioni, la sua voce, la sua preoccupazione: la
solitudine stava affrettando un’accettazione che altrimenti
sarebbe
durata per molto più tempo, frammentata tra tutti gli attimi
d’insonnia e incertezza. Quel disagio non la metteva in
soggezione,
ma nutriva la certezza di aver agito bene – e, se non bene,
almeno
di non avere colpe. Attaccata, invece di cedere, reagiva.
Michael
le aveva dato
risposte. Loro la lasciavano ad annegare nei dubbi
e
soffocavano la sua curiosità.
Nel
silenzio della
solitudine e dell’attesa poteva vedere la vera sé
stessa, non più
condizionata da punizioni e richiami e paure instillate a forza; nel
silenzio della solitudine e dell’attesa, quindi,
ciò che era
trionfava su ciò che le avevano insegnato ad essere.
L’ordine
di entrare
giunse quando ormai questi pensieri si erano accumulati nella sua
mente, creando uno strato di convinzioni che sarebbe stato
impossibile raschiare in poco tempo. Varcò la soglia senza
tremare,
con lo sguardo basso solo il minimo necessario a non mancare di
rispetto all’Autorità.
Non
ebbe modo di
guardarsi intorno senza sembrare indiscreta, perciò si
limitò ad
un’occhiata rapida: alte pareti ricoperte di scaffali, libri
e
documenti impilati ovunque; oggetti strani e complessi,
dall’apparenza fragile, di cui non riuscì a
comprendere
l’utilizzo; una sola finestra, troppo piccola per dare
veramente
aria alla grande stanza. Questo si presentò al suo sguardo,
prima
che dovesse porsi di fronte alla scrivania, anch’essa
ingombra di
carte.
La
donna sedutavi
ripose la penna, spostò in un angolo il foglio che aveva
letto fino
a quel momento e incrociò le mani sul piano di legno. Non la
invitò
a sedersi – d’altronde era un semplice cherubino al
cospetto di
un’Autorità – ma le rivolse un cenno
vago della mano, come a
concederle di assumere una postura più rilassata.
Amitiel
non mutò
posizione: per non sgualcirsi, la divisa formale esigeva schiena
rigida e ali immobili, ed era già stato abbastanza
difficoltoso
renderla di nuovo ordinata dopo il volo dallo Specchio al palazzo
delle Autorità. Era un unico drappo candido, che avvolgeva
spalle e
busto quasi interamente, lasciando a malapena scoperte le scapole;
quello femminile si stringeva al seno, delineandone i contorni, per
poi cadere morbidamente e cingere le gambe fino a terra. Ai fianchi
la fascia abituale era sostituita da una molto più lunga,
che si
annodava di lato e lasciava scendere un’estremità
verso il basso,
sin quasi a sfiorare il suolo. Rispetto alla divisa ordinaria non era
certo un abito comodo, e non si poteva dire che lei amasse
indossarlo.
«Amitiel,
cherubino,
quarta classe, ottavo gruppo. È corretto?» chiese
la donna,
adottando le formule di cortesia.
«Sì,
Autorità.»
«Sai
perché ti ho
convocato, cherubino?»
Lei
rimase sconcertata.
Non era una domanda da porre: la risposta era ovvia, perché non
era concesso chiedersi il motivo. Se poi si conoscesse o no,
non
aveva importanza.
L’Autorità
chiamava,
la persona desiderata rispondeva alla chiamata. Fine. Niente pensieri
superflui.
Prima
cercavano di
imprimerle quel meccanismo fin nel profondo, tanto da farlo diventare
istintivo, e poi chiedevano se sapeva perché fosse stata
convocata.
Assurdo.
«Non
mi è concesso
chiedermelo, Autorità, perciò non ho una
risposta.»
Una
risposta
affermativa sarebbe stata la conferma di meritare, per qualche
motivo, un richiamo; ma una negativa avrebbe fatto intendere che si
era già posta la domanda e vi aveva riflettuto, e questo
forse era
sarebbe stata un’ammissione anche peggiore. Non che ci
fossero
molte altre occupazioni oltre a pensare, nel silenzio in cui
l’avevano abbandonata fino a poco prima. Incoerenze snervanti.
«Ti
ho convocata
perché mi sono state riferite alcune perplessità
riguardo l’ultima
lezione nella dimensione umana, a cui hai partecipato con i tuoi
compagni. In particolare, ti ho convocata poiché mi
è stato
segnalato un tuo evidente turbamento nei cicli successivi al ritorno;
tuttavia, nella relazione che ha fornito la tua accompagnatrice del
ciclo superiore, non c’è alcun accenno ad
accadimenti particolari
che giustifichino tale stato. Dunque, cherubino, cosa rispondi a
queste osservazioni?»
Amitiel
si sentì
mancare, e l’agitazione esacerbò il suo astio
verso quella donna
così fredda, così distante, così
incomprensibile. Sibilava parole
d’accusa, insinuava menzogne, sembrava dare per certo che la
relazione fosse falsa. Era cattiva, non
poté impedirsi di
pensare il cherubino, in un moto d’infantilità.
Non poteva sapere
che era persino un trattamento cortese, quello che stava ricevendo,
rispetto alle abitudini dell’Autorità.
«Sono...
sono onorata dall’attenzione che viene dedicata ad un
semplice
cherubino come me.» ‘Ma
anche no.’ «Posso
assicurare che... non è accaduto nulla di particolare,
Autorità.
Sono solo rimasta colpita da tutto... tutto l’insieme. Le
ombre, il
freddo... è molto diverso dal Paradiso.
Nient’altro, Autorità.»
chinò brevemente il capo «Mi rincresce che il mio
turbamento abbia
creato dei dubbi sulla sincerità della mia compagna. In
futuro
cercherò di essere più lucida e di non lasciarmi
inquietare.»
La
donna la fissò in
silenzio per qualche istante, come se potesse leggerle dentro. Lei si
sentiva tremare, al pensiero che scoprisse tutto, ma tentò
di
mantenere un’espressione neutra.
‘ Credici.
Per favore, credici.’
«Comprendo,
cherubino.» disse infine l’Autorità
«Non temere, il turbamento è
una reazione comune e non del tutto negativa. Spero che ora tu
capisca meglio perché gli Umani siano così
fragili e perché ci
venga richiesto un impegno così profondo per
guidarli.»
‘ Ehm...
no?’
«Sì,
Autorità.» al
cenno dell’altra di continuare, improvvisò:
«La... la loro
dimensione è spaventosa. Dev’essere difficile
seguire il giusto,
quando si vive in un luogo così... imperfetto. Invece noi...
il
Paradiso è più...»
«Puro.»
le venne in
aiuto la donna, notando che non trovava il termine adatto.
«Più
puro.» annuì
«E quindi abbiamo il compito di guidarli, perché
sono così esposti
alla corruzione, mentre noi non... non rischiamo di sporcarci,
perché viviamo qui, e... e qui siamo più vicini a
Dio. Qui vi è la
Shekinah.»
Dio,
nell’arcana
lingua di tali esseri, non è una parola davvero esistente;
d’altronde, pronunciare quel nome sarebbe una mancanza di
rispetto
imperdonabile. Il modo in cui lo chiamano è inesprimibile in
un
idioma umano: Padre, Creatore, Altissimo, Signore, nulla può
tradurlo appieno. È un termine che indica insieme la potenza
e la
misericordia, l’amore e la grandezza; Amitiel,
pronunciandolo,
esprimeva in un’unica parola tutto ciò a cui gli
Angeli
aspiravano. Essere vicini a Dio significava essere devoti al compito
da Lui affidato ai suoi figli più puri: guidare gli Umani
verso la
rettitudine, senza lasciarsi corrompere dall’odio per i loro
errori, o dall’invidia per il libero arbitrio. Significava
essere
immersi nella Shekinah – il Suo potere,
la Sua benevolenza.
L’Autorità
parve
soddisfatta, perché le disse: «Sono lieta di aver
chiarito la
situazione, e che tu abbia saputo sfruttare la tua inquietudine per
cogliere quest’importante insegnamento: ti sei dimostrata
molto
matura. Per questo, cherubino, ti promuovo io stessa alla quinta
classe. Le tue ali denunciano che è giunto il momento e le
tue
parole lo confermano.»
Chinò
lievemente il
busto. «Ti ringrazio, Autorità.»
* * *
Il
Richiamo segnalò
l’inizio del quarto periodo, lasciando i Cherubini liberi
dalle
lezioni e lei dalla curiosità dei compagni. Sì,
l’aveva chiamata
un’Autorità; no, non aveva fatto niente di male;
sì, voleva solo
sapere come fosse andato l’incarico nella dimensione umana; sì,
l’aveva promossa alla quinta classe. Inizialmente aveva
provato un
po’ di imbarazzato compiacimento, ma, dopo aver ripetuto ogni
cosa
almeno quattro volte, era solo infastidita. Il suo umore non era
quindi dei migliori, considerando anche che, terminate le ultime
lezioni, avrebbe dovuto trasferirsi nel suo nuovo dormitorio
– e
ciò comportava saluti venati d’invidia e di
tristezza, viaggi per
trasportare libri e vestiti, tediose presentazioni a nuove compagne
con cui in buona parte non avrebbe avuto il tempo di legare.
L’incontro
con
l’Autorità, poi, le aveva lasciato addosso
un’irritazione
pulsante. Le parole che aveva pronunciato lei stessa sugli Umani le
strisciavano in mente, vi si insinuavano con riflessioni improvvise e
ponevano ogni cosa in un’altra prospettiva. Vedendo Raphael e
Ramiel che si lanciavano sguardi sfuggenti, aveva riflettuto che a
causa di quella loro infatuazione non si sarebbero concentrati
abbastanza sui loro compiti; pensando a Michael, aveva provato
un’istintiva repulsione per la corruzione che i Caduti
spargevano
tra i deboli Umani, impedendo alle loro anime l’accesso al
Paradiso. Solo dopo aveva considerato che Raphael e Ramiel dovevano
essere davvero legati per correre il rischio di quel rapporto
proibito, e che in realtà non aveva informazioni
approfondite sul
comportamento dei Caduti – non sapeva nemmeno quale
differenza vi
fosse tra questi e i Demoni.
Invece
di pronunciare
la convinzione degli Angeli che gli Umani siano esseri fragili, da
guidare con attenzione e pazienza, l’Autorità
l’aveva fatta
esprimere a lei; in questo modo, Amitiel non aveva potuto evitare di
riflettervi, secondo un percorso già segnato – non
si passano
secoli allo Specchio, a studiare e ascoltare e ripetere sempre gli
stessi concetti, senza che questi si sedimentino in certezze e
traccino sentieri da cui il pensiero non riesce a deviare.
Lei
non si accorgeva di
questo condizionamento, come d’altronde tutti i Cherubini,
che,
cresciuti a contatto con un’unica cultura, non riuscivano
neppure
ad immaginarne una diversa; ma sentiva, dentro di sé, che doveva
esistere anche qualcos’altro. Non vi erano anche Demoni e
Caduti,
oltre agli Angeli? E le infinite sfaccettature degli Umani? Avrebbe
voluto vedere tutta la loro dimensione, così variegata e
mutevole, e
non l’uniformità del Paradiso; e al contempo
sentiva un’istintiva
repulsione per quell’ambiente cupo e freddo. Tali istinti
provenivano da parti opposte della sua mente, senza che lei riuscisse
a comprendere quale fosse la linea di confine, che cosa la causasse:
esisteva e basta, divenendo ogni secondo più netta e precisa.
Sarebbe
bastato uno
sguardo più approfondito, per capirlo. Una riflessione
logica di
fronte a queste contraddizioni, una domanda quasi doverosa –
e lei
di domande era un’esperta –, un dubbio intimo: sono
io, o sono
la persona che mi hanno insegnato ad essere?
Sarebbe
bastato un
sussurro dell’animo, per condurla alle radici del suo scontro
interiore; ma l’animo, seguendo il sentiero tracciato in
precedenza, taceva.
Impiegò
più tempo del
solito per raggiungere la biblioteca degli insegnanti: quei contrasti
stancavano l’essenza, e le ali, risentendone, erano divenute
all’improvviso esauste e rigide. Quasi tremavano per lo
sforzo,
quando si lasciò cadere pesantemente sul tetto
dell’edificio.
Anane
le si avvicinò
di un passo, come per impedirle di crollare in ginocchio, ma poi
rimase con la mano protesa e lo sguardo incerto, lasciando che
ritrovasse l’equilibrio da sola.
«Cos’hai?»
mormorò
«È successo qualcosa anche a te?»
Amitiel
si sedette,
subito imitata dall’altra. Alzò il viso verso il
cielo privo di
sole del Paradiso, dove sagome rosse e candide si libravano senza
proiettare alcuna ombra sul terreno, e non rispose alla domanda,
chiedendo invece: «Anche a me?»
«Ti
spiego dopo. Prima
tu.»
«Nah.»
scosse la
testa, suo malgrado rasserenata da quel rituale scambio di battute
«Prima tu.»
«Io
sono più
grande e io decido chi deve parlare per prima.
Cioè tu.»
«Un’Autorità
mi ha
promossa alla quinta classe. Ora parla.»
«Nelchael
è un
fottuto impiccione.»
«Dimmi
qualcosa che
non so già.»
«Mh...
la quinta
classe sarà terribile. Ogni volta andrai a riposare almeno
dolorante.»
«Grazie
dell’incoraggiamento, Anane.»
Sorrisero.
Era
quasi come se quei
cinque periodi di silenzio non fossero mai trascorsi. C’era
forse
un po’ di esitazione nel tono, più impaccio del
solito, ma
sembrava un incontro normale – per quanto qualcosa potesse
essere
normale, dopo tutto quello che era accaduto nella dimensione umana, i
dubbi, le paure. Due ragazzine sedute su un tetto a chiacchierare,
con lo sguardo al cielo e le gambe oscillanti nel vuoto: una scena
che doveva essersi ripetuta infinite volte, negli infiniti Specchi
che costellavano il Paradiso, con gli infiniti Cherubini che li
avevano popolati. E al contempo era profondamente loro,
per i
sorrisi e gli sguardi lanciati in sincronia, per le parole non dette
che continuavano ad essere taciute ma smettevano di dolere,
nell’improvvisa pace di quell’istante.
Mi
dispiace,
avrebbero potuto
mormorare. Mi sei mancata.
E domande, dubbi, timori. L’ansia per le domande di Nelchael
e per
il colloquio con l’Autorità. Avrebbero potuto, ma
non lo fecero,
preferendo lasciarsi cullare da quel silenzio fatto di sorrisi e
affetto.
La
realtà tornò a
scuoterle, violenta, nel momento in cui la sagoma di Nelchael
attraversò il cielo. Anane sussultò, pronta a
giurare che l’uomo
le avesse fissate con sospetto, e allungò
d’istinto una mano,
afferrando quella di Amitiel; l’altra non si oppose a quella
stretta e neppure rispose, rimase semplicemente inerme, assente.
Il
silenzio divenne
all’improvviso un velo gelido.
«Dobbiamo
parlare sul
serio.» mormorò la più matura.
«Mh.»
annuì «Cosa
voleva Nelchael da te?»
«Non
era convinto
della relazione. Quella sull’incarico ne-»
«L’incarico
nella
dimensione umana, sì. Anche l’Autorità
voleva parlarmi di
quello.»
«E...?»
«E
niente, le ho detto
che» si guardò intorno e abbassò
ulteriormente la voce «che ero
solo turbata per le ombre. Deve averci creduto, o non mi avrebbe promossa
alla quinta classe. Con Nelchael?»
«C’era
Ridwan, ha
fatto tutto lui. Alla fine Nelchael ha dovuto andarsene, non trovava
più appigli, ma... la prossima volta dovremo organizzarci
meglio, o
creeremo altri sospetti.» la guardò, dubbiosa
«Sempre se vuoi una
prossima volta, eh. Per Michael, se non vuoi, posso... posso chiedere
a Eisheth di parlarci»
«È
davvero tua... tua madre?»
chiese d’impulso.
«Nessuno
mentirebbe su
un legame del genere. Ma non-»
«Perché
continuava a
sottolinearlo?»
«Perché...
boh,
perché è Eisheth, credo. È fatta
così, le piace provocare.» si
morse il labbro «Non è neanche cattiva, in fondo.
Ma-»
«E
Michael?»
La
più matura
rabbrividì e mormorò: «Michael non mi
piace. Per niente.»
«Perché?»
«Perché
è arrogante,
spietato, impaziente. Soprattutto impaziente. Io... quello che
è
successo... non era programmato, davvero, non sapevo che avrebbe
fatto così. Avrei voluto prepararti meglio, chiederti se
volevi
incontrarlo, ma lui era stanco di aspettare.»
Prima
che Amitiel
potesse porle un’altra domanda, dei Cherubini della terza
classe
atterrarono sul tetto, costringendole a cambiare discorso. Anane
iniziò a parlare del proprio Sviluppo con una disinvoltura
quasi
incredibile, considerata la difficoltà con cui di solito
fingeva, e
continuò fino a quando non se ne furono andati. Amitiel si
limitò
ad annuire di tanto in tanto durante il discorso, per dare
l’impressione di ascoltarla; in realtà,
rifletteva. Se la
trasparente Anane non era davvero così trasparente,
cos’altro le
aveva nascosto? Incredula, si agitava senza riuscire ad attendere,
impaziente che quei Cherubini si allontanassero.
«Da
quanto tempo hai
contatti con gli Sconsacrati?» chiese non appena rimasero
sole.
«Caduti
e Demoni,
dici?» si mordicchiò un labbro, pensierosa
«Ho iniziato verso la
fine del ciclo inferiore, se non ricordo male.»
«Da
prima che io
venissi creata, insomma.» mormorò, con
l’impressione di aver
subito un tradimento.
«Be’,
sì. Perché
fai quella faccia?»
«E
tu perché non me
ne hai mai parlato?»
Le
si avvicinò,
ignorando i suoi tentativi di scostarsi, per sussurrarle in un
orecchio: «Ehi, Amitiel, sai che ho rapporti con gli
Sconsacrati?
Sai che ho un demone come madre?»
abbassò lo sguardo «Non
potevo, capisci? Non ci avresti creduto, o ti saresti spaventata.
Avrei voluto, davvero, ma non-»
«Farmi
incontrare un
caduto senza preavviso invece è stato meglio?»
«Te
l’ho detto, non
lo sapevo, non avrei mai accettato una cosa del genere.»
mormorò,
afflitta «Volevo parlartene quando siamo discese, ma Michael
mi
ha... preceduta.»
Amitiel
si voltò
finalmente verso di lei, trafiggendola con gli occhi nocciola ardenti
di rabbia, e sibilò: «Avvisarmi un po’
prima no? Va avanti da
prima che io fossi creata e tu non mi hai mai detto niente.»
«Ma
sono rimasta.»
rialzò lo sguardo, le ciglia umide di lacrime trattenute a
fatica
«Avrei potuto cadere, lasciare tutta questa gente che mi
esclude
perché rido troppo, non soffrire
più perché qui non posso
fare domande, smettere di rischiare così tanto a rimanere in
Paradiso anche se sono una traditrice. Ma sono rimasta, per non
lasciarti sola, perché sapevo che anche tu stavi male, e...
e io non
volevo abbandonarti, ma non ero sicura di poterti dire di Eisheth e
gli altri.» le sfuggì un singhiozzo
«Scusa se ho avuto paura di
spaventarti, con il mio tradimento. Se ho avuto paura di
perderti.»
Amitiel
abbassò lo
sguardo, il senso di colpa a roderle il petto e i denti a torturare
il labbro inferiore.
«Non
mi avresti mai
persa.» bisbigliò, quasi inudibile.
***
Angolo autrice
Grazie per aver letto, per i preferiti e le seguite e,
come sempre, un ringraziamento particolare a chi commenta!
Di seguito qualche nota (: Se avete altri dubbi/trovate errori,
segnalatemeli pure ^^
Shekinah
(anche scritto Shekhinah o Shekina) è un termine ebraico
realmente esistente, che esprime un concetto piuttosto articolato
riguardo la presenza di Dio e la sua manifestazione. Ho
cercato di semplificarlo al massimo, definendolo come la vicinanza a Dio e a
tutto ciò che lo concerne, ma in realtà
è una questione molto più complessa.
L'Autorità non
è stupida, e se si lascia convincere dalle parole di Amitiel
è solo perché ha decisamente altro a cui pensare,
piuttosto che ad un cherubino poco dotato e al suo (ormai ex)
insegnante paranoico. E se la promuove così su due piedi...
diciamo che vuole togliersi di torno il suddetto insegnante paranoico
xD I motivi di questa disattenzione si vedranno meglio nel prossimo capitolo, nel frattempo non consideratela un'idiota.
Da qui inizia la vera maturazione di Amitiel, la sua presa di
coscienza. Ci vorrà un po' di tempo, ma le cose iniziano a
smuoversi sul serio, finalmente - come detto nelle note dello scorso
capitolo, se prima c'è stata la caduta, ora è
arrivato l'impatto. Deve solo... imparare a camminare sul nuovo
terreno. Ancora un po' di pazienza, non uccidetemi per la lentezza
degli sviluppi D:
Ovviamente, nel dialogo tra Anane e Amitiel, il registro molto basso è voluto (: parlano due ragazzine tra loro, non due Autorità xD
Al prossimo capitolo! (:
|
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Capitolo 10 *** 09. Notte ***
Capitolo
9 – Notte
Il
tempio si ergeva al di fuori della Città, nella foresta,
cupo come
pochi altri. Era piccolo, ma le mura blu – tanto scure da
sembrare
nere – lo facevano apparire minaccioso, le lisce colonne
sembravano
sorreggere il cielo stesso, l’assenza di vetrate lo rendeva
soffocante; all’interno vi era il buio, rischiarato solo da
un
braciere che spandeva stordenti fumi d’incenso. La sola ombra
in un
mondo di luce e colore.
Di
tutte le Circoscrizioni del Paradiso, quella era l’unica a
poter
vantare un possesso tanto unico quanto potente e pericoloso. Era
dominata dall’arcangelo Raphael, il Guaritore, ma non aveva
particolari meriti nell’ambito dell’Antico, a
differenza delle
altre sotto il suo governo; la sua fama derivava invece
dall’Autorità
a cui era affidata – un’Autorità che
aveva più volte stupito
con la sua giovane età e il suo talento, ma ancor di
più con il suo
potere.
Leliel,
serafino della notte.
Quel
tempio era stato innalzato per lei, perché potesse
rigenerarsi ed
esercitarsi al meglio; i membri del Genio erano avvezzi anche agli
edifici insoliti, da quelli per i pochi dominatori dell ghiaccio a
quelli per gli ancor più rari signori del sonno, ma quasi
mai ne
avevano eretto uno per una sola persona. Che lo stesso Raphael avesse
ordinato di sporcare il Paradiso con un’ombra, pur di
innalzare un
tempio per lei – a quell’epoca poco più
di un cherubino, non
ancora Autorità e per di più femmina –,
bastava a renderla famosa
e temuta. Soprattutto temuta.
Perché
in realtà non era stata l’unica ad utilizzarlo,
perché aveva
condiviso il dominio della notte con qualcun altro, perché
quel
qualcun altro era stato inghiottito dalle tenebre di un potere
rarissimo e pericoloso.
Perché
l’unica ombra di un Paradiso inondato di luce era
terrorizzante.
Grande, naturalmente, e stimata; ma terrorizzante. Portare su di
sé
una fama simile equivaleva ad un marchio d’infamia
– un marchio
che si era strappata di dosso a forza, dimostrando per secoli la
propria devozione, fino ad essere riconosciuta da tutti come la degna
signora della notte.
Era
diventata un’Autorità e aveva smesso di essere
Leliel.
Nelchael,
che l’aveva vista mutare da una giovane cupa ma viva
ad uno spettro avido di stima e potere, ne era rimasto disgustato;
per esprimersi in termini umani, la larva non era divenuta una
farfalla, ma una mantide mostruosa.
Erano
millenni che l’uomo non varcava la soglia di quel tempio,
perché non ne aveva motivo e perché, in fondo,
temeva ciò che vi
avrebbe trovato. Il buio, il silenzio, la solitudine – i
ricordi.
Invidiava gli Umani, che avevano almeno la consolazione di una fine
certa. Nascevano, un istante di vita, morivano. Nessun peso a gravare
su di loro per l’eternità.
Nessuna
mantide
mostruosa a tormentarli, crudele.
Perché
era crudeltà, convocarlo proprio in quel tempio e non nel
palazzo
delle Autorità; perché lei sapeva
e affondava la lama, come se ritenesse insufficienti le sue
sofferenze, in una vendetta puerile che non le si addiceva. Aveva
mantenuto solo i tratti peggiori, della giovane ch’era stata
un
tempo.
Di
quella che in
un’epoca lontana l’aveva accompagnata nel tempio
della notte,
invece, aveva cancellato ogni cosa e pretendeva che lo facesse anche
lui. Ma come poteva, se gli ordinava di tornare in un luogo pregno di
passato? L’odore stordente dell’incenso era lo
stesso, il
silenzio assordava in ugual modo, le ombre inquietavano come millenni
prima.
Lei
si ergeva al centro della sala, magnifica e terribile, immersa nel
suo elemento. Lui rimaneva immobile sulla soglia, appena oltre il
velo nero che impediva alla luce di bagnare quel tempio oscuro.
L’essenza stessa del Paradiso era stata violentata per creare
quelle anomale tenebre, per rendere l’aria opaca e nera; i
loro
occhi sovrannaturali scorgevano ugualmente ogni cosa, ma rimaneva
l’angosciante sensazione che quel buio fosse sbagliato,
innaturale.
«Mi
hai chiamato qui
come Autorità o come Leliel?» le chiese,
pronunciando un nome che
su di lei non veniva più utilizzato da secoli.
La
donna ignorò la sua
domanda e con un cenno imperioso della mancina gli ordinò di
avvicinarsi.
«Ho
udito cose
interessanti, Nelchael, sul tuo recente comportamento.»
sibilò
«Cose che spero non siano vere.»
«Ma
che credi lo
siano.»
«Conoscendoti,
non mi
stupirei se tu fossi davvero stato così stupido e
arrogante.»
«In
che modo lo sarei stato, secondo le cose
interessanti
che hai udito?»
La
mano sinistra
dell’Autorità, ancora piegata verso di lei nel
comando di
avanzare, scattò verso il basso e artigliò
l’aria. Le tenebre si
condensarono all’improvviso in sagome striscianti, simili a
serpi,
di un nero impenetrabile; gli strinsero le membra in una morsa
ferrea, costringendolo a crollare in ginocchio tra inquietanti
scricchiolii.
«Non
osare mai più» gli intimò
l’Autorità con voce vibrante di
collera «interrogare un allievo del ciclo superiore su
qualcosa che
non ti riguarda, scavalcando l’autorità del suo
maestro e la mia.»
Uno
schiocco secco e il
viso di Nelchael si contrasse, con un urlo bloccato in gola. Sotto il
tessuto della maglia, lacerato in corrispondenza di un gomito,
s’intravedeva un osso frantumato dalla spaventosa pressione
delle
ombre.
«Contrastare
i miei
ordini.»
Secondo
schiocco.
«Indagare
senza la mia
autorizzazione.»
Terzo
schiocco.
«Ma
soprattutto, non
osare mai più» quarto schiocco
e Nelchael si piegò in
avanti per il dolore, con un braccio completamente distrutto
«insultare così la mia intelligenza.»
Si
ergeva di fronte a
lui, sovrastandolo fiera e furiosa, gli occhi azzurri intorbiditi
dall’ira.
«Te
l’avrei detto.»
sfiatò l’uomo «Volevo solo-»
Il
quinto suono fu un
insieme di schiocchi rapidi e violenti, di una ferocia agghiacciante.
Un urlo sofferente gli sfuggì dalle labbra quando le sue ali
si
piegarono su sé stesse, quasi in pezzi.
«Non
mentirmi!» gridò
Leliel «Perché hai voluto essere così
stupido, Nelchael? Dovrei
condannarti all’Espiazione. Dovrei denunciarti ai Censori.
Dovrei
smettere di fidarmi del tuo giudizio, perché rimani il
solito
ragazzino arrogante di sempre!»
Le
ombre solide che lo
trattenevano si sciolsero, lasciandolo crollare a terra, e lui si
sostenne con il braccio sano per non battere il viso contro il
pavimento.
«Smettere
di...»
articolò a fatica «fidarti... del mio
giudizio?»
«So
perché
t’interessi così tanto di quel
cherubino.» disse, ignorandolo «Se
continui, ti metterai in pericolo – e non con me. Con i
Censori.
Con il Consiglio. Smettila, Nelchael, prima che sia tardi.»
«L’ho...
promesso.»
rantolò «Lo sai.»
«Non
hanno importanza
le promesse fatte ai traditori. Né ai morti.»
«Non
è-»
«Lo
è.» lo
interruppe, in tono improvvisamente esausto «Lo è,
Nelchael. Devi
accettarlo. Preoccuparti così per quel cherubino non ci
restituirà
nessuno.»
«Ma
l’ho promesso.»
strinse i denti, rabbioso, quasi dimentico del violento dolore al
braccio «Sua madre... lo sai anche tu, io... sua
madre.»
L’altra
non rispose,
limitandosi ad un’occhiata stanca. Erano argomenti proibiti,
idee
vietate, termini taciuti – erano sussurri che solo le tenebre
potevano accogliere, promettendo di custodirne il segreto. Erano un
pericolo.
Sta’
attento,
sembrava dirgli quello sguardo. Sperava solo che lo capisse.
*
* *
Udiva
il ruscello
gorgogliare sui ciottoli chiari, levigati dal suo continuo flusso,
come una sommessa risata di contentezza. La luna tingeva la cresta
dei flutti con riflessi di cristallo, ma le profondità del
fiume
rimanevano nere: le vedeva scorrere placide, poco più
avanti, dove
il rivo trasparente veniva inghiottito da una serpe d’acqua
scura.
Avrebbero
potuto
nuotarvi gli incubi peggiori senza che qualcuno li scorgesse.
Avrebbero potuto emergere all’improvviso dai flutti torbidi e
strangolare a tradimento, con il loro ghigno mostruoso. Lo facevano.
Lo
percepiva nel
tremore di un altro corpo aggrappato al proprio, nei respiri rapidi
che si sovrapponevano al mormorio del ruscello; e non poteva far
altro che stringerla e ripetere una risposta sempre uguale ad una
domanda che non cambiava mai.
«Quanto
manca all’alba?» chiedeva
sempre lei, posandogli
il capo su una spalla, nelle notti di un tempo quasi dimenticato. Di
quando guardavano insieme il cielo tingersi di rosa, la luce
disperdere gli incubi partoriti dalle loro menti insonni, i fiori
schiudersi e il fiume tornare limpido. Di quando le aveva mostrato
per la prima volta la neve, lontano dalle terre calde che li avevano
accolti sino ad allora, e lei aveva affondato le mani in quel manto
candido con espressione ammaliata. Di quando la guardava raccogliere
ciottoli dalla riva di uno stagno e scagliarli sull’acqua,
uno due
tre quattro rimbalzi; di quando scuoteva la testa per quel passatempo
troppo umano per loro due, ma provava comunque ad impararlo, per
vederla illuminarsi di gioia.
Erano
state notti anche quelle, perché il giorno la chiamava
spesso ai
suoi doveri e non restavano che le ore più buie da passare
insieme;
tuttavia il suo «Quanto manca
all’alba?»
era sempre mormorato con urgenza, non con la malinconia della
separazione. Gli incubi la spaventavano più della
solitudine, e il
terrore si traduceva in quella domanda assillante.
«Poco»
le rispondeva ogni volta, accarezzandole i capelli – anche
quando
il sole era appena scivolato oltre il profilo morbido delle colline.
Ma non mentiva, perché la notte era scagliare sassi
sull’acqua,
era guidarle le dita nella neve fresca, era sussurrare e tacere e
guardarsi e viversi, e
non durava mai più di un respiro.
Era
sfiorarla con dita
leggere, come la luna accarezzava le acque del ruscello, accendendole
il viso di emozioni proibite che si scioglievano in un respiro
spezzato. Era udire il proprio nome singhiozzato da quelle labbra
lacerate a morsi, leggere il pentimento nei suoi occhi e dissolverlo
peccando ancora.
Le
avrebbe reso caro
anche il buio, un giorno – le avrebbe fatto capire che
portava
incubi ma ammorbidiva gli spigoli, e che non c’era niente di
sbagliato, nella notte. O in loro.
«Quanto
manca
all’alba?»
«Poco.»
Quando
se n’era andata, l’eternità gli era
apparsa inconcepibile. Le
notti non erano più notti ma vuoto, nulla, oblio –
non avevano più
senso, perché non aveva più senso nemmeno il
giorno. Avrebbe voluto
avere un motivo per attendere l’alba, ma non lo trovava, per
cui
rimaneva in riva ad un ruscello a non
attenderla, solo.
Solo.
Solo.
Solo.
Se
lo ripeteva come una
litania, in quei momenti di dolore nero.
Sei
solo, Michael.
Lei non c’è.
Lei,
il suo amore per
il sole e il terrore della notte, la sua voce che tremava nel porre
una domanda assillante, i suoi capelli sparsi sulle spalle di
entrambi. Sassi che rimbalzavano sull’acqua e neve stretta
tra le
dita. Il suo rimorso per un peccato che non riusciva a rifiutare, e
quella decisione, poi. Quella scelta. Quell’errore.
«Non
tornerà più.»
si diceva a volte, divorato dalla disperazione «Non
tornerà più.»
«Quanto
manca
all’alba?»
«Poco,
ti ho detto.
Tranquilla.»
E
invece era tornata.
La
felicità,
evidentemente, sfiorava anche chi credeva di non vederla mai
più, e
al suo arrivo il resto perdeva d’importanza: una guerriglia
sfiancante, una madre possessiva e volubile, aspirazioni forse troppo
ambiziose e aspettative di certo troppo pesanti, e inganni tradimenti
morte.
Non
esisteva più
nulla, al di fuori del tocco gentile della pace – una pace
che
aveva lineamenti conosciuti, una domanda ripetuta
all’infinito e un
corpo da abbandonare contro di lui. Persino sentirla tremare,
angosciata dagli incubi delle notti di veglia, aveva un sapore dolce;
persino ripeterle che mancava poco, che l’alba sarebbe
arrivata
presto, che andava tutto bene.
Sembrava
un ricordo
divenuto presente, un tempo che aveva temuto essere perso per sempre.
Memorie strappatele a forza da loro, per farle
dimenticare
ogni cosa, ma in quel momento non importava, perché era
tornata.
Aveva
il suo corpo
stretto contro di sé, i suoi capelli sparsi sul petto e la
solita
domanda mormorata in tono sempre più angosciato. Aveva lei.
Come
era stato, come
avrebbe dovuto essere per sempre.
Il
suo nome gli
riecheggiava in mente, non più rimpianto del passato, ma
promessa
del futuro – il suo nome vero, non quello che le avevano dato
loro
quando le avevano strappato ricordi e identità per rieducarla.
Infante, di nuovo; cherubino senza storia e senza idee, da modellare
secondo il giusto pensiero. Illusi.
Lei
era tornata, ed era
lì, ed era sua.
Ishild.
* * *
Il
lungo silenzio sceso
nel tempio fu spezzato dalla voce di Leliel, debole, amara –
ferita?
«Ho
parlato con la tua
allieva. Mentre tu cercavi di raggirarmi, io davo ascolto ai tuoi
timori.»
L’uomo
si alzò in
piedi, stordito ma non troppo sofferente: il dolore al braccio stava
già sfumando in un fastidio quasi sopportabile, il tepore di
un
invisibile fuoco lambiva le carni lacerate e iniziava a guarirle.
«E...?»
mormorò.
«E
niente.» gli
rispose secca «Tempo sprecato. Ho visto solo un cherubino
spaventato
dalle ombre e da un insegnante troppo apprensivo.»
Prima
che potesse
ringraziarla – sempre che trovasse la voce e il coraggio per
riuscirvi –, Leliel continuò: «In ogni
caso, non dovrai più
curarti di lei. L’ho personalmente promossa alla quinta
classe.»
Quel
‘personalmente’,
sottolineato da uno spasmo minaccioso delle ombre, bloccò
ogni
possibile protesta.
«Almeno
andrà nella
dimensione umana con un insegnante.» sospirò
Nelchael.
Il
silenzio dell’altra
fu insolito, ma ancor più insolito fu il modo in cui strinse
le
labbra, con un’espressione quasi... colpevole?
«Lel-»
s’interruppe
prima di chiamarla per nome, per timore che quel gesto di
familiarità
venisse scambiato per un’offesa
«Autorità?»
La
donna chiuse gli
occhi e mormorò: «Non riusciamo a... la quinta
classe non è più
coperta. Forse neanche la sesta.»
«Co-»
«Gli
insegnanti
servono ad altro, Nelchael.» lo interruppe con voce acuta,
come per
giustificarsi, o per convincere anche sé stessa
«Non siamo
formalmente in guerra, non possiamo chiedere troppi aiuti alle altre
Circoscrizioni. Il Consiglio ci ha concesso di prendere misure
straordinarie, ma-»
«Ma
non ci concede più
aiuti di così, o di dichiarare guerra?»
sfiatò, incredulo «O di
richiamare anche i Veglianti a combattere?»
I
Veglianti – i
Custodi dediti alle anime – erano un numero immenso, almeno
il
doppio di tutti gli abitanti del Paradiso. Molti di loro erano pura
essenza, creati appositamente per guidare le anime a cui si legavano
di volta in volta, ma altri – coloro che erano stati comuni
Angeli,
prima di venire assegnati alla Veglia – erano in grado di
assumere
una forma materiale; e in ogni caso anche esseri incorporei, capaci
di scontrarsi solo sul piano spirituale, avrebbero potuto essere
utili. Fondamentali, anzi, vista la grave carenza di combattenti di
cui in quel momento soffriva la loro Circoscrizione.
«Non
ci sono gli
estremi per una dichiarazione di guerra, e uno scontro è da
evitare
il più possibile, Nelchael, ricordalo.» gli
rispose l’Autorità,
senza particolare convinzione «E non possiamo richiamare i
Veglianti, non possiamo abbandonare gli Umani.»
«Quindi
abbandoniamo i
Cherubini?»
«Nessuno
attaccherà i
nostri Cherubini durante le lezioni. L’ultimo patto con i
Demoni è
molto chiaro.»
«È
molto chiaro anche
l’ultimo patto tra quei sudici e i Caduti.»
ringhiò.
Leliel,
ancora ad occhi
chiusi, sospirò: «È un patto di non
aggressione, non un’alleanza
contro di noi. Il Consiglio non ci autorizzerà mai a
dichiarare
guerra con queste premesse.»
«Però
ci autorizza ad
abbandonare i Cherubini?»
«Abbiamo
subito solo
incursioni isolate lungo i confini umani.» aprì
gli occhi e si
massaggiò le tempie, come in preda ad un feroce mal di testa
«Nessuna violazione esplicita del nostro patto. Non possiamo
violarlo noi per primi.»
«Quindi
lasciamo che
ci indeboliscano così?»
«Quindi
attendiamo un
loro passo falso.» lo corresse, ma non sembrava davvero
convinta
nemmeno lei «Nel frattempo rinforziamo i confini.»
«E
abbandoniamo i
Cherubini.»
L’Autorità
portò la
mano al seno ed estrasse un foglio dalla veste. La carta aveva
ovunque pieghe e strappi, come se dita irrequiete l’avessero
più
volte aperta e richiusa, stretta, stropicciata, lisciata; ma il
contenuto rimaneva comunque leggibile, e Nelchael sussultò.
Iniziali, sigle, luoghi, annotazioni incomprensibili, ma soprattutto
cifre – tante, tantissime cifre, tutte spaventosamente alte.
«Ruolo.
Zona. Numero
dei feriti, gravità, tempi di ripresa.»
elencò Leliel a memoria,
con voce piatta «E anche altre informazioni.
L’ultima colonna sono
i morti.»
L’uomo
la scorse con
lo sguardo e sussultò di nuovo.
Erano
tanti. Troppi.
Diversi Custodi, un apprendista Stratego, due Guaritori; la cifra
più
elevata e più sconcertante, tuttavia, era quella
dell’ultima riga.
Cinque Guardiani – cinque degli loro Arcangeli più
potenti, dei
loro combattenti più feroci. Un numero così
elevato in così poco
tempo non si raggiungeva dall’ultima guerra contro i Caduti.
«Sono...
tutti
questi...» farfugliò, incredulo.
«Sono
solo gli ultimi
dati. Quasi raddoppiano, se li sommi a quelli dei periodi meno
recenti.» commentò l’Autorità
«E non sono mai stati visti
Caduti e Demoni attaccare insieme. Hanno un tempismo sospetto, ma il
Consiglio vuole prove certe, e noi... noi non ne abbiamo.»
L’uomo
rimase in
silenzio, attonito. Cinque Guardiani. Cinque. E i Guardiani, gli
Arcangeli migliori, non venivano certo uccisi con facilità:
serviva
un potere di molto superiore al loro, o una schiacciante
superiorità
numerica. Era semplicemente assurdo che il Consiglio non desse
l’autorizzazione a rispondere agli attacchi – la
clemenza degli
Angeli e la burocrazia del Paradiso erano davvero folli, talvolta.
Fin troppo spesso.
I
territori umani della
loro Circoscrizione erano sotto attacco, quelle cifre ne erano la
prova, e di certo Demoni o Caduti da soli non avrebbero mai potuto
raggiungerle. Che importava se il patto tra quelle due fazioni di
traditori era, ufficialmente, di semplice non belligeranza? E che il
patto tra Angeli e Demoni ammettesse incursioni sui reciproci
confini? Tutti quei morti erano un invito allo scontro.
Ma
il Paradiso non
dichiarava mai guerra per primo, il Paradiso cercava la pace, il
Paradiso doveva mostrare misericordia, il Paradiso doveva occuparsi
degli Umani.
Il
Paradiso, pur di non
sottrarre i Veglianti al loro compito, chiamava ogni altro a nuovi
incarichi. Gli Strateghi abbandonavano le proprie stanze, il Genio le
proprie opere, gli Esecutori le proprie mansioni non essenziali. Gli
insegnanti abbandonavano i propri allievi, e questo sottolineava la
gravità della situazione: non erano considerati una
categoria a sé,
e infatti svolgevano anche altre funzioni, ma mai negli ultimi secoli
avevano dovuto trascurare i Cherubini.
Un
maestro poteva
portare la fascia blu degli Esecutori, o quella verde dei Guaritori,
o quella avorio delle Autorità, o qualsiasi altra; la sua
essenza,
tuttavia, era sempre concentrata su un unico fine: educare,
insegnare, guidare. Il colore del tessuto ai fianchi era solo un
dettaglio che non poteva e non doveva allontanare un maestro dai suoi
allievi.
Eppure
stava accadendo.
Erano tutti impegnati a proteggere i confini, subendo passivamente
gli attacchi di quei sudici traditori, mentre i Cherubini venivano
lasciati a sé stessi e gli Umani, ignari, continuavano a
godere
della protezione dei Veglianti.
«Non
lasciare che il
risentimento contamini la tua essenza.» mormorò
Leliel, allungando
una mano a sfiorargli il viso, in un gesto quasi dimenticato
«Gli
Umani sono i figli più fragili di Dio, coloro che
più hanno bisogno
di guida e sostegno. Può sembrarci ingiusto, doverci
sacrificare per
loro in questo modo, ma questa è la volontà di
Dio, e la Sua
volontà non può essere ingiusta.»
Nelchael
rimase
immobile, fissandola negli occhi senza una parola. Come lei osservava
la sua essenza agitata, lui scrutava quella della donna, scorgendovi
dietro una forzata calma un tormento profondo. Avrebbero chiesto
perdono per quel rancore, avrebbero piegato le ginocchia e chinato il
capo, ma in quel momento vi si abbandonarono, specchiandosi in un
risentimento uguale al proprio. Nel tempio della notte e delle
tenebre, in cui l’unica luce era la fiamma agonizzante di un
braciere, la devozione vacillava. Solo un istante, solo per un
dettaglio, ma vacillava.
Vedendoli
così,
nessuno avrebbe creduto che tra i due fosse la donna a regnare sulla
notte, perché una profonda stanchezza – stridente
con l’immensità
di quel potere – trapelava da ogni dettaglio del suo corpo:
il viso
malinconico, gli occhi azzurri lucidi di lacrime amare, le ciocche
bionde sparse disordinatamente sulle spalle, le ali da serafino
afflosciate. L’uomo, dai colori più scuri e
dall’espressione più
dura, sembrava maggiormente adatto a reggere il dominio delle ombre
notturne; ma, quando portò la propria mano su quella della
donna, la
sua aria di irrequieta potenza scivolò lontano con un
sospiro
esausto e una smorfia di dolore per il braccio fratturato.
«Nella
zona costiera a
nord è morto un apprendista Stratego.» disse
Nelchael, sempre
guardandola negli occhi, e vi scorse l’essenza della donna
contrarsi in uno spasmo afflitto – la risposta alla sua
domanda
implicita.
«Era
Raphael, sì.»
mormorò, nominando un vecchio allievo. Si era sviluppato di
recente,
appena prima che lei prendesse sotto la propria tutela quella
attuale: ricordava ancora con precisione la sua espressione fiera per
essere divenuto un arcangelo, l’orgoglio con cui aveva
indossato
per la prima volta la fascia indaco degli Strateghi,
l’abbraccio
imbarazzato con cui l’aveva ringraziata di tutto. Ricordava e
basta, perché Raphael non esisteva più.
«Ma
non pensiamo ai
morti, Leliel. Ai morti veri.» sussurrò
l’uomo «È inutile.
Dobbiamo solo reagire, evitare che ce ne siano altri, ma... non
pensiamo più a loro. È sbagliato.»
«È
sbagliato che ci
siano morti.» ribatté, allontanando la
mano dal suo viso «Tra
noi, creati per essere eterni, non dovrebbero essercene. È
la guerra
a portarli.»
«Sono
quei sudici
traditori.»
«E
quindi pensi di
migliorare le cose, con una guerra?» gli diede le spalle,
incamminandosi verso l’uscita del tempio, la stanchezza e il
dolore
tramutati in rabbia «Morti, morti e ancora morti.
È a questo che
porterà. Dobbiamo evitare un massacro, cercare la
pace.»
«Evitare
un massacro
include il lasciarci decimare?»
Uscì
senza
rispondergli, lasciandolo solo in quelle tenebre soffocanti; ma
quando lei se ne andò la luce del Paradiso filtrò
dal velo
all’entrata, squarciando la notte, e Nelchael quasi avrebbe
preferito l’oscurità –
quell’oscurità in cui, dopo secoli e
forse millenni, erano riusciti a vedersi. Solo per un istante, solo
nell’ora più buia, erano riusciti a stringere tra
le dita
quell’antica familiarità, quell’affetto
che ancora avrebbe
potuto esserci, se.
Ma
la notte era finita.
*
* *
Aprire
gli occhi fu
come essere strappato alla vita. Il silenzio, senza il mormorio di un
ruscello e una domanda ripetuta mille e mille volte, gli
squarciò la
mente come uno stridio; il vuoto tra le proprie braccia, orrendo
terribile vuoto, lo colpì allo stomaco con
più violenza del
colpo di un arcangelo.
Faceva
più male
dell’Espiazione, della Caduta, della Condanna. Faceva
più male di
quanto avesse mai creduto di poter sopportare.
Era
normale, continuava
a ripetersi. Era il suo corpo che si ribellava al sonno impostogli,
la sua essenza soggiogata dal potere di Dumah. Era una reazione
logica, niente di preoccupante, era solo una-
Era
dolore rabbia
amarezza rimpianto.
Lei
non c’era. Lei
non ricordava – non ancora. Ma un giorno l’avrebbe
fatto, un
giorno sarebbe tornata, un giorno... un giorno quando?
Secoli.
Secoli di
solitudine, ad aspettarla in nome di un giuramento che lei aveva
dimenticato, consumato da un’ossessione. Notti insonni a non
attendere l’alba, perché non c’era
più alcun motivo di farlo;
ad attendere lei, in compenso. Una domanda che non poteva giungere,
un fiume nero che non ospitava incubi, neve che non veniva stretta
tra le mani, sassi che non rimbalzavano sulle acque di uno stagno.
Non più.
Lei,
lei non c’era.
Ishild.
Avrebbe
gridato e
singhiozzato e distrutto ogni cosa, se fosse stato solo; ma il
distacco che si era sempre imposto non gli permise che un debole
sospiro, in presenza di un altro – e poco importava che
quell’altro
si fosse alzato in piedi e girato di spalle, fingendo interesse per
l’orizzonte della silenziosa pianura.
La
luce della luna
morente faceva apparire bianchi i suoi capelli chiarissimi, sciolti
in ciocche lisce che arrivavano oltre le scapole. Il viso dai
lineamenti delicati, quasi femminei, era rivolto verso il cielo con
espressione assorta, gli occhi socchiusi e un sorriso malinconico ad
incurvare la linea sottile delle labbra. Tutto del suo aspetto era
diafano, scarno, come sul punto di scomparire – un sogno
fuggito in
quel mondo, o un incubo ben mascherato in attesa di strangolare una
mente troppo fragile.
«Dumah.»
lo chiamò
Michael, alzandosi in piedi a sua volta.
«Resta
sdraiato. Non
ti fa bene dormire, permetti al tuo corpo di riprendersi,
ora.» gli
consigliò. Persino la sua voce era bassa, quasi inudibile,
senza
inflessione: avrebbe potuto essere scambiata per il fruscio del vento
tra le foglie, o per il mormorio di un corso d’acqua.
«Non
ne ho bisogno.»
«La
tua essenza è
ridotta in uno stato patetico. Esponi le ali, almeno, lascia che si
distenda.»
«La
mia essenza non si
prosciugherà per essersi affaticata un
po’.»
«Sei
durato solo due
tramonti, questa volta. Inizi a rifiutare la mia Influenza.»
si
voltò leggermente verso di lui «Di questo passo,
non riuscirò a
fare nulla senza danneggiarti.»
«È
quasi il momento,
non temere, tra poco non dovrai fare più nulla.»
affermò, tentando
di convincere anche sé stesso, perché lei doveva
tornare,
era assurdo pensare ad un’eternità di solitudine e
di illusioni.
Poi aggiunse in un sussurro: «E... grazie.»
«Sto
ripagando il mio
debito.» gli rispose in tono neutro «Ma non so
quanto ti stia
facendo bene, tutto questo.»
«Quanto
mi stia
facendo bene non deve interessarti.»
«Sensibilità,
empatia... ti dicono niente?» chiese, per la prima volta con
un
accenno d’ironia nella voce «O più
semplicemente istinto di
sopravvivenza.»
«Eisheth?»
s’informò,
inquieto. Non aveva il diritto, lei, d’intromettersi in
quella
questione; non dopo che l’aveva minacciato di porvi fine a
modo
proprio, soprattutto, dimostrando di tenere più a dilettarsi
che a
lui. E ancora si fregiava del titolo di madre.
«Ha
voluto parlarmi, e
sai come sono le sue chiacchierate. È
stata piuttosto...
incisiva.»
«Tra
poco non avrai
più motivo di preoccuparti.»
‘ Tra poco lei
tornerà. Tornerà. Tornerà.
Tornerà.’
In
quel momento il
primo chiarore del sole tinse d’oro la pianura, come a
ricordargli
di aver passato un’altra notte in solitudine –
niente domande
mormorate ossessivamente, niente capelli da accarezzare, niente
incubi e rimorsi da dissipare, niente corpo tremante stretto al
proprio. Solo le illusioni di Dumah.
L’alba
giungeva, ma
lei non era lì a vederla.
‘ Tornerà.
Tornerà. Tornerà.’
***
Angolo autrice
Grazie per aver letto, per preferiti/seguite/ricordate e,
come al solito, un pensiero in particolare a chi commenta (: i capitoli sono diventati di due-tre pagine più lunghi rispetto ai primi e hanno raggiunto - credo - la media definitiva, merito dell'ispirazione che mi date voi u.u Se trovate
errori o avete consigli, non fatevi problemi a parlare, non mi offendo,
anzi, mi fa davvero piacere avere la possibilità di migliorare!
Questo capitolo è un "intermezzo" nella vicenda principale, non si
può nemmeno definire "di transito", ma non potevo non
inserirlo: bisognava spiegare la situazione di "politica
estera" (...lol) del Paradiso, prima o poi, e Amitiel non è
di certo la persona più informata su questo. Grazie al tema
del capitolo ho colto l'occasione di parlare anche di Michael,
perché dovevo
scrivere di lui, è uno dei personaggi più ispiranti. Se leggere la sua parte vi farà piacere la metà di quanto è piaciuto a me narrarlo, sarò già contentissima (:
E ho mostrato il lato più umano, meno distaccato,
dell'Autorità - che ha finalmente un nome anche per i
lettori, yeah. Spero di averla resa bene, anche se non è
facile trattarla, essendo molto volubile e lunatica... forse si
è notato xD Se non avete capito parte del suo
discorso con Nelchael, o il motivo di alcuni stati d'animo... bene, il
capitolo ha fatto il suo dovere u.u Sono personaggi secondari, ma non
ho messo lì per caso né loro né il
loro passato così nebuloso. E reclamavano un capitolo per
sé xD Nel prossimo, comunque, tornerà ampiamente
Amitiel (:
Una piccola curiosità: Leliel, nella tradizione,
è davvero colui (nel mio caso colei) che governa la
notte, mentre Dumah è considerato il signore del
silenzio e del sonno.
Ho finito lo sproloquio, grazie ancora per aver letto (:
|
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Capitolo 11 *** 10. Flusso ***
Capitolo
10 – Flusso
Il
capo reclinato contro una delle finestre alte quasi quanto le pareti
stesse, le mani strette alla divisa che avrebbe dovuto indossare,
Amitiel era tanto immobile da sembrare addormentata. Lasciò
vagare
fiaccamente lo sguardo sul dormitorio deserto: le altre erano
già
uscite, solo lei non si era ancora preparata, ma sperava che il suo
ritardo non venisse notato dagli insegnanti. Temeva di essere troppo
stanca anche per volare.
Quando
Anane le aveva detto che sarebbe sempre andata a riposare dolorante,
Amitiel aveva sperato che l’amica scherzasse: la quarta
classe si
era già rivelata molto impegnativa, con le sue interminabili
lezioni
di anatomia, e non c’era bisogno –
davvero nessun bisogno – che la quinta fosse ancor
più pesante.
Ovviamente Anane era seria.
Con
un inutile sospiro,
portò le ginocchia al petto e tornò a guardare
oltre i vetri. Al di
là del porticato che circondava il cortile – e
quindi il lato
interno delle camerate al primo piano – vide solo un paio di
ragazze affrettarsi verso l’uscita, la tunica raccolta tra le
mani
e l’espressione preoccupata. Doveva essere davvero tardi,
eppure
nessuno era venuto a chiamarla; forse le altre non si erano nemmeno
accorte della sua assenza. Non sarebbe stata la prima volta.
Per
tre cicli temporali
era rimasta sola con compagne che non conosceva, essendo stata
assegnata al terzo gruppo, con cui non aveva mai avuto contatti. Tra
la naturale diffidenza delle altre verso un’estranea e la sua
timidezza, facilmente scambiata per alterigia, in quei tre cicli
aveva a malapena scambiato qualche frase con le altre –
presentazioni, informazioni sullo studio e saluti inclusi. Non che si
fossero dette molto di più, in effetti.
Subito
dopo di lei era
stato promosso Raphael, assegnato invece al primo gruppo. Al quarto
ciclo dal loro passaggio, anche Ramiel era avanzata alla quinta
classe, dopo una maturazione rapidissima che aveva stupito tutti;
curiosamente, però, quando era stata condotta al dormitorio
del
terzo gruppo non era apparsa molto soddisfatta del risultato.
Amitiel
si era sentita sollevata per l’arrivo di una compagna
conosciuta,
tanto che l’aveva apertamente invitata ad occupare il letto
accanto
al proprio, in un insolito impeto di cordialità. Non
apprezzava
Ramiel in modo particolare, ritenendola troppo rigida e fredda: aveva
i capelli rossi tagliati corti, gli occhi verdi sempre seri e la voce
bassa che non si scioglieva mai in una risata. Ma sapeva anche essere
gentile e, con i Cherubini più immaturi, protettiva in modo
quasi
esagerato. Era una serietà da Ramiel,
insomma, un materno ‘Non metterti nei
guai’
molto diverso rispetto alla serietà da
Cassiel
– più simile ad un ‘Non
sei degno di occupare la mia
stessa dimensione’.
E
la serietà da Ramiel era preferibile al gelo di quei tre
cicli da
sola. Forse avrebbe riso un po’ meno, ma sarebbe stata con
qualcuno: non più solo ‘Buon
risveglio’
e ‘Buon riposo’ e
‘Fino a che paragrafo dobbiamo
studiare?’,
ma anche ‘Come stai?’
e ‘Hai novità?’ e
‘Sai chi ho visto prima?’.
Non più solo libri sfogliati in silenzio e un tavolo isolato
in
biblioteca, ma anche appunti scambiati ed esercizi svolti insieme.
Non più solo sé stessa, ma anche qualcuno al
proprio fianco.
Sospirò
di nuovo e,
ancora seduta a terra, iniziò a sfilarsi la morbida veste da
riposo.
Però era davvero stanca, e non sapeva se voleva davvero
andare:
avrebbe finalmente potuto parlare con Anane, che non vedeva da
diverso tempo, troppo occupata con lo studio, ma poi avrebbe dovuto
rivedere... non riusciva a ricordare il nome. Aveva i suoi occhi
grigi in mente, a scrutarla con severità, ma come si
chiamava? Si
sentiva immersa in una nebbia lattiginosa, in cui la mente vagava
senza trovare il filo dei pensieri. Un po’ come quando quel
demone
l’aveva toccata e... e poi cos’era successo?
Nebbia, confusione,
stordimento. Aveva bisogno dell’aiuto di Ramiel, per tornare
lucida
e in forze. Con un po’ di fortuna sarebbe venuta a cercarla
per
controllare che non le fosse accaduto nulla, sperò.
Erano
passati solo due
periodi da quando l’altra era stata promossa, ma la loro
quasi
forzata intimità le aveva già rivelato molto: era
bastato trovarsi
insieme, isolate dal resto del dormitorio, per lasciarsi andare a
confidenze. Aveva scoperto che l’altra detestava avere i
capelli
rossi, perché era un colore che la faceva apparire
infantile, e che
invece li avrebbe preferiti biondi; che le piaceva osservare i
combattimenti, ma non scontrarsi lei stessa; che voleva diventare una
Guaritrice e studiare nella Circoscrizione
dell’Autorità Gabriel.
Amitiel si era trattenuta a stento dal notare ad alta voce che
Raphael aveva i capelli biondi, amava combattere e voleva chiedere il
passaggio proprio a quella Circoscrizione – famosa per gli
Arcangeli che formava, oltre che per le arti di cura.
Nonostante
quell’inaspettata confidenza con Ramiel, Anane le mancava,
con la
sua risata e i suoi abbracci: non si vedevano da quasi quattro cicli
temporali, perché la quinta classe era tremendamente
impegnativa.
Ritenuti abbastanza maturi per diminuire il sonno, i Cherubini
riposavano per due periodi, non più per tre,
perciò le lezioni ne
occupavano cinque invece di quattro, e i due di svago erano dedicati
interamente allo studio – anche il quarto, fino ad allora
sacro e
immancabile momento di incontro con Anane. Quando riusciva a destarsi
in tempo sfruttava persino il primo periodo, dedicato al risveglio,
per mettersi in pari con i compagni.
In
ogni classe si affrontavano pochi temi tra loro indipendenti, in modo
che un nuovo allievo potesse inserirsi in qualsiasi momento senza
troppe difficoltà. Dalla quinta, tuttavia, diveniva tutto
più
esteso e complesso; non era raro che un cherubino appena promosso
dovesse seguire le lezioni su un argomento già iniziato e
fosse
costretto a recuperare tutte le nozioni precedenti. Lei aveva avuto
la particolare fortuna di giungere a metà
dell’enorme, enormissimo
libro sulla dimensione umana: undici capitoli da recuperare,
più le
spiegazioni ordinarie. Caldo, freddo, pioggia, grandine, sole, luna,
stagioni... era un luogo così instabile e mutevole,
c’erano così
tante cose da tenere in considerazione, così tanti dettagli
che
potevano cambiare e influenzare tutto l’ambiente.
Ricordò
solo in quel
momento di chiudere le tende. Premendo la veste sul seno,
allungò
una mano verso lo spesso tessuto bianco e lo tirò
leggermente,
coprendo una minima porzione di vetro. Le braccia doloranti non le
permisero di fare di più.
Perché
vi erano
estenuanti esercitazioni pratiche, oltre allo studio teorico. Dal
primo al quarto gruppo si svolgevano durante le lezioni ultime
lezioni prima del riposo, dal sesto all’ottavo durante quelle
successive; un cambiamento sgradito e traumatico, che aveva sconvolto
i suoi ritmi. Erano allenamenti più complessi rispetto alle
classi
passate: se in precedenza si trattava di acquisire controllo sul
corpo e di provare i movimenti fino a renderli istintivi, dalla
quinta si iniziava a combattere seriamente – unire ogni gesto
in
modo fluido, resistere al dolore, mantenere la lucidità.
L’attenzione non poteva mai calare, ma nemmeno restando
concentrata
riusciva ad evitare le ferite, come testimoniavano i suoi movimenti
cauti. Ramiel, la sua allegra insegnante, la rassicurava dicendole
che erano difficoltà normali; Ramiel, la compagna aspirante
Guaritrice, talvolta imponeva le mani sul suo corpo e le donava un
po’ di sollievo. Scorgere Cassiel che combatteva come se
fosse
stata creata per farlo, però, non aveva aiutato il suo umore
a
risollevarsi.
Sfilò
del tutto la
veste, restando nuda contro il pavimento, poi riprese tra le mani la
divisa per le esercitazioni pratiche. Corpetto e pantaloni erano
più
comodi e pratici di un chitone, e più semplici da indossare,
ma
anche strani: era imbarazzante muoversi con vestiti che mettevano in
evidenza ogni forma, difficile non sentirsi a disagio con le gambe
avvolte così strettamente dal tessuto. Infilata
l’uniforme,
allungò una mano verso il pavimento, dove giaceva la
striscia rossa
della quinta classe, più sottile e pratica della fascia
della divisa
ordinaria. La strinse ai fianchi con movimenti cauti a causa delle
membra doloranti, senza preoccuparsi di intrecciare un nodo stretto.
La
sua insegnante non
si sarebbe indignata per il disordine dei suoi abiti: Ramiel era
allegra, sorridente, spigliata. Tollerava il caos, i ritardi, le
risate, il rumore, i commenti, le lamentele, gli errori –
tutto ciò
che un altro maestro avrebbe punito senza esitazione, insomma, e
ciò
era ancor più sorprendente se ci considerava che era un
arcangelo e
una Guardiana. Aveva qualcosa di vitale che le ricordava un
po’
Sariel, la sua vecchia insegnante della prima classe, ma senza
l’ombra di follia che aveva scorto in quella donna. Era gioia
pura.
E
lei... lei si sentiva
così stanca, al suo confronto. Così morta.
* * *
«Leliel.»
«Vuoi
offendermi,
Esecutore?»
«...chiedo
perdono,
Autorità. Desidero parlare, non mancarti di
rispetto.»
«Sono
molto occupata.
Se hai altre rimostranze riguardo l’istruzione dei Cherubini,
va’
a porgerle direttamente al Consiglio, ma non sperare che sia clemente
quanto me.»
«Non
riguarda i
Cherubini.»
«Gli
Esecutori?»
«Nemmeno.
Io-»
«Allora
non è nulla
che possa interessarmi e non vedo motivo perché tu rimanga
qui. Sono
in biblioteca per lavorare con tranquillità, non per
chiacchierare.
Ithuriel ha ottenuto un posto nel Consiglio e devo giudicare quale
tra le aspiranti Autorità sia più degna di
succedergli. È
notevolmente impegnativo, sai... oh, no, perdonami. Tu non puoi
saperlo, Esecutore.»
«So
che mi sei
superiore di grado, non c’è bisogno che lo
sottolinei così.»
«Se
lo sai, perché
sei ancora qui, quando io ti ho evidentemente invitato ad
andartene?»
«Perché
voglio...
scusarmi per... quello che è successo nel tempio. E farti
sapere che
mi dispiace, che... ti sono vicino... per Raphael.»
«Non
ho bisogno della
tua pietà. E ti ripeto: perché sei ancora qui, se
ti ho invitato ad
andartene?»
«Perché
voglio
parlarti. Non puoi rinchiuderti così, non di nuovo,
non-»
«Nelchael,
questo non
ti riguarda. Devo ripetermi una terza volta?»
«E
io ti ripeto: sono
ancora qui perché voglio parlarti. Se tu mi hai solo
invitato ad
andarmene, senza ordinarmelo, significa che anche tu lo vuoi, in
fondo.»
«Ti
ordino di
andartene, Esecutore.»
* * *
Amitiel
si alzò,
appoggiandosi ai vetri per non scivolare di nuovo a terra. Il cortile
era ormai deserto, notò; il Richiamo doveva aver segnalato
l’inizio
del secondo periodo da molto.
Mosse
qualche passo
malfermo verso l’uscita, prima di barcollare e sentire le
ginocchia
piegarsi. Appena prima che cadesse, la porta si spalancò e
due
braccia esili l’afferrarono, sorreggendola. Gli occhi verdi
di
Ramiel – la compagna – la fissarono, pieni di
preoccupazione; per
istante ad Amitiel sembrò quasi di avervi scorto la sua
essenza
rossastra arricciarsi convulsamente, poi non ebbe più la
forza di
guardare con attenzione. Era esausta.
L’altra
la fece
distendere sul letto e le chiese cosa avesse: «Solo
stanchezza?
Niente dolore, confusione, percezioni alterate?»
«Solo
stanchezza e un
po’ di smarrimento.»
«Devo
chiamare
qualcuno? Ramiel dice che è normale se siamo stanche, ma a
questi
livelli...»
«Non
preoccuparti.»
la rassicurò «Ieri mi sono sforzata molto, con gli
esercizi di
Percezione. Dev’essere per quello.»
«Avvisiamo
almeno
Ramiel, forse è meglio che tu non venga, questa
volta.»
Una
stilettata d’ansia
la colpì, squarciando lo stordimento, al pensiero di
rimanere in
Paradiso e non vedere Anane e... Michael, le sovvenne, in
quell’improvvisa lucidità.
«Vengo.»
«Amitiel,
non-»
«Tranquilla,
sul
serio.» si alzò a sedere sul letto «Sono
solo stanca per gli
esercizi, non c’è da preoccuparsi, non possiamo
disturbare gli
insegnanti per un po’ di stanchezza. Se puoi, per favore,
fare
quella cosa dell’altra volta... sono sicura che
starò subito
meglio, se mi aiuti.»
La
compagna la guardò,
dubbiosa, poi annuì. Era vero: se si sentivano stanchi,
riguardava
solo gli allievi. Gli insegnanti non potevano né dovevano
essere più
indulgenti per questo, era inutile avvisarli; anche se in
quell’occasione non si trattava di una normale lezione, non
erano
state date disposizioni diverse dal solito, perciò non
osò
insistere. La sua omonima poteva essere un’insegnante
più morbida
degli altri, ma lamentarsi con lei per la stanchezza era comunque
fuori discussione – senza contare che era già
parsa abbastanza
irritata, quando l’aveva mandata a cercare Amitiel.
«Va
bene.» cedette
infine.
L’altra
la ringraziò
con un sorriso stanco, poi lasciò che le posasse le mani
sulle
spalle e chiuse gli occhi. Dopo qualche istante, un fiotto di tepore
si propagò dalle dita che la toccavano:
s’insinuò sotto la sua
pelle lungo tutto il corpo, tra muscoli ed ossa, lavando via la
stanchezza con tocco delicato. Poteva sentire quelle scie di calore
balsamico pervaderla, sin quasi a sfiorare qualcosa di più
intimo e
profondo della carne, per far fiorire in lei nuova energia e nuova
lucidità. Ramiel era ancora troppo immatura ed inesperta
perché le
sue cure giungessero direttamente all’essenza, ma aveva
talento e
lo dimostrava. Sarebbe di certo divenuta una Guaritrice
straordinaria.
«Ho
finito.» decretò
questa dopo un tempo piuttosto lungo, allontanando le mani dalle sue
spalle.
Non
sembrava stanca, ma
Amitiel le chiese comunque, dopo averla ringraziata: «Ti sei
affaticata? Non c’era bisogno che facessi così
tanto, bastava
darmi la forza per muovermi.»
«Non
preoccuparti. E
ora andiamo, il nostro gruppo ci aspetta alla Piazza per scendere,
gli altri sono già andati. Abbiamo già tardato
troppo.»
«Non
volevo rallentare
tutti.» si scusò, appoggiandosi al muro per
indossare dei sandali
intrecciati sui polpacci.
«La
settima classe
doveva partire da sola, la nostra starà ancora aspettando di
poter
accedere alla Via.» attraversò in fretta il
porticato e si diede
una spinta con le gambe ancor prima di toccare l’erba del
prato,
per alzarsi in volo «Ma preferirei che non accadesse
più, Amitiel.
Ramiel sembrava piuttosto infastidita dal tuo ritardo.»
«Mh.»
la seguì in
aria «Gli altri mi odieranno, per averla irritata proprio
oggi.»
«Noi
non odiamo,
Amitiel.» ribatté seccamente «Non siamo
Umani o Sconsacrati.»
«Era
per dire.»
«Se
dici le cose tanto
per dire, faresti meglio a tacere.»
Atterrarono
sull’enorme
superficie candida della Piazza, davanti alle gradinate, e la
attraversarono a passo svelto, verso una ventina di Cherubini
irrequieti. L’unico adulto era una donna dall’aria
contrariata,
con le grandi ali d’arcangelo frementi per
l’impazienza e i
capelli biondi raccolti in una crocchia disordinata. La sua divisa da
Guardiana, dalla foggia umana, era stropicciata come se
nell’attesa
l’avesse torturata con le mani-
Ramiel
le si avvicinò
e chinò il busto, dicendo: «Chiedo perdono per il
ritardo.»
Amitiel,
accanto a lei,
fece lo stesso. Iniziava a sentire disagio per quella situazione e
per ciò che sarebbe accaduto – le emozioni si
stavano scrollando
di dosso la nebbia lattiginosa che le aveva avvolte, affacciandosi
alla sua mente con timidezza. Avrebbe potuto davvero vedere Anane,
parlare con Michael? Ci sarebbe stata anche Eisheth e la sua risata
falsa? Avrebbe saputo porre le domande giuste? Incertezza, dubbio,
esitazione. Voleva qualcosa e al contempo lo temeva – non
credeva
si potesse essere così combattuti, e invece stava avendo la
prova
del contrario.
«Come
giustifichi
questa tua vergognosa mancanza di puntualità,
cherubino?» le sibilò
l’insegnante. Se persino Ramiel era irritata, doveva essere davvero
tardi.
«Chiedo
perdono.»
ripeté invece «Non ho giustificazioni, se non la
mia stanchezza.»
Lo
sguardo della donna
si ammorbidì appena.
«Sei
fortunata, gli
altri gruppi stanno ancora attendendo fuori dalla Via, ma che non
accada più. La stanchezza non è una
scusa.»
«Chiedo
perdono.»
disse per la terza volta, chinando di nuovo il busto. Anche se il suo
orgoglio, sotto un velo di polveroso stordimento, si ribellò
un
poco, quello era l’unico modo per sperare di evitare una
punizione
– scusarsi, scusarsi e ancora scusarsi. Pochi adulti si
lasciavano
ammansire dal pentimento, ma Ramiel era una di questi.
«Andiamo.»
ordinò
l’insegnante ad alta voce, senza più prestarle
attenzione.
I
cherubini si
librarono in aria dietro di lei con poca organizzazione, badando
più
a non scontrarsi tra loro che a mantenere una disposizione fissa. Non
si poteva dire che volassero male – non si sarebbe potuto
dire di
nessuno che avesse passato la seconda classe, d’altronde
–, ma
farlo davvero bene era tutt’altro. Non avevano nulla degli
ordinati
schieramenti dei Guardiani e degli Esecutori, o del movimento fluido
e rapido che caratterizzava i Custodi.
«Prendete
una
posizione e mantenetela.»
ordinò infatti Ramiel, ancora
irritata, oltrepassando il placido nastro candido del Confine
«Volate
come cherubini della prima classe.»
Amitiel
si sforzò di
ignorare le occhiate risentite dei compagni, e sperò che
nessuno la
urtasse e la facesse casualmente precipitare nel fiume. Non sapeva
quanto fosse profondo, ma preferiva non rischiare di schiantarsi sul
greto.
Ramiel
– l’allieva
– le si affiancò, interponendosi tra lei e un
compagno dallo
sguardo particolarmente corrucciato, Jael. La giovane aveva
un’espressione impassibile, ma il suo atteggiamento tradiva
un che
di protettivo, e Amitiel si sentì quasi lusingata: nessuno,
prima di
allora, si era preoccupato così per lei. Gli insegnanti
avevano
sempre troppi allievi per prestare attenzione ad uno in particolare,
Anane non era abbastanza matura per avere un atteggiamento materno.
Era piacevole, scoprì.
* * *
«Michael.»
«Eisheth.»
«Madre,
Michael.
Madre.»
«Ho
saputo che hai
minacciato Dumah.»
«Non
esagerare, ora.
Abbiamo solo fatto una chiacchierata.»
«Conosco
le tue
chiacchierate, Eisheth.»
«Madre.»
«Smetti
d’intrometterti in questa storia.»
«L’ho
già fatto una
volta, sì? E mi piace portare a termine le cose.»
«Ero
un cherubino. Ora
sono adulto da molto.»
«Il
tuo ‘molto’ è
relativo, caro. Per me non è che un battito di
ciglia.»
«Non
m’interessa.
Smetti d’intrometterti, non ne hai più alcun
diritto. Ci sono
delle regole.»
«Non
sei la persona
più adatta a parlare di regole, Michael,
sì?»
«Le
sto rispettando.
Fallo anche tu.»
«Le
rispetterò,
Michael, non temere – ho già messo abbastanza a
rischio la mia
posizione, per te.»
«Non
ti ho chiesto io
di farlo.»
«Ma
l’ho fatto, e
sei vivo grazie a questo.»
«Ci
sono delle
regole.»
«...come
sei monotono.
Ti ho appena risposto.»
«Smetterai
d’intrometterti, quindi?»
«Rispetterò
le tue
amate regole.»
*
* *
Gli
allievi discesero
le pendici boscose del monte e attraversarono rapidi la
Città,
faticando a mantenere il ritmo delle grandi ali da arcangelo
dell’insegnante. Amitiel percepì con sollievo gli
occhi dei
compagni spostarsi da lei ai candidi edifici sotto di loro, guardando
con invidia templi, palazzi, biblioteche, palestre e altre
costruzioni di cui non conoscevano l’utilizzo. Quasi
sfioravano i
tetti più alti, poiché non volavano ad una quota
molto elevata, per
non essere ostacolati da correnti avverse. Talvolta incrociavano
qualche adulto che si spostava in aria e non attraverso i larghi
viali, e che rivolgeva loro un cenno di saluto e di rado anche un
sorriso; tuttavia la Città pareva poco popolata, rispetto
alle altre
– rare – volte in cui vi erano discesi. Se di
solito era calma ma
brulicante, in quell’occasione era del tutto silenziosa,
pressapoco
deserta.
Avevano
incontrato al
massimo cinque adulti, quando giunsero al centro e la Via si
aprì di
fronte a loro, grande almeno tre volte la Piazza dello Specchio. Lo
sguardo ancora immaturo dei Cherubini, seguendo le fiamme che ne
delimitavano il perimetro, quasi non scorgeva il limite opposto, dove
gli edifici della Città si innalzavano nuovamente; ma
nemmeno la
vista più acuta di un adulto riusciva a distinguere molto,
in
realtà.
Centinaia
di fasce
grigie del ciclo superiore erano già disposte ordinatamente
ad un
estremo della piazza. Dietro di loro si stavano schierando quattro
gruppi della sesta classe, mentre tre della quinta attendevano il
proprio turno in uno dei viali più grandi. Più
indietro ancora vi
erano molti allievi della quarta, più del doppio della volta
precedente.
Atterrando
nello spazio
lasciato libero per loro dagli altri gruppi della quinta, Amitiel
scorse l’espressione furente di Nelchael, diretta al vuoto
– non
vi era alcuna Autorità a cui rivolgerla, la gestione era
interamente
affidata agli insegnanti.
«Chi
non c’era
l’altra volta?» chiese Ramiel «Phanuel,
Amitiel, Zephon... anche
tu, Ramiel, sì? E... Jael? No, tu c’eri
già... Ithuriel, anche tu
eri già stato promosso? No? Cinque... mh, un po’
troppi...»
Rimase
in silenzio per
un po’, la fronte aggrottata. Quando anche la quinta classe
iniziò
a riversarsi nella Via, si riscosse per guidarli attraverso un varco
nelle fiamme lungo il perimetro, poi fece loro segno di disporsi
accanto al secondo gruppo e si allontanò per parlare con gli
altri
Guardiani.
«Tornerò
prima che
venga richiesto il Fuoco del Velo.» promise «Se
c’è qualche
problema, rivolgetevi all’insegnante del secondo gruppo.
Preparatevi a prendere appunti, nel frattempo.»
Prima
ancora che
Amitiel si accorgesse di non aver portato la borsa, la compagna dai
capelli rossi gliela porse bruscamente.
«Te
l’ho presa io,
la stavi dimenticando.»
«Grazie.»
sorrise,
prima di chinare il capo per annodare i lacci della sacca bianca in
vita, appena più un basso della fascia, in modo da non
coprirla.
«Invece
di
ringraziarmi, la prossima volta ricorda che ci forniscono la borsa
per un motivo, piuttosto.»
«E
due mani per
portare anche quella di una compagna sbadata.»
ridacchiò.
Inaspettatamente,
Ramiel le concesse un mezzo sorriso.
Tornarono
in silenzio,
aspettando l’insegnante. Amitiel si era sempre ritenuta una
persona
paziente – allo Specchio, d’altronde,
l’attività principale
era attendere. Attendere di essere promosso alla
classe
successiva; attendere i periodi di riposo; attendere i dettagli di un
incarico; attendere di poter accedere a informazioni non ancora
concesse; attendere lo Sviluppo. Attendere, attendere, attendere
–
forgiava il carattere e l’obbedienza.
Ma,
nonostante
quest’abitudine all’ignoranza e
all’attesa, iniziava a sentire
l’inquietudine serpeggiare dentro di sé. Temeva di
non riuscire
più a tenerla a bada, con la mente libera dalla stanchezza o
dalla
concentrazione per il volo. Il solido – o, almeno,
così avrebbe
dovuto essere – muro di paziente indifferenza stava iniziando
a
crollare.
Gli
insegnanti avevano
annunciato una nuova visita alla dimensione umana tre cicli prima di
quello, e ancora nessuno degli allievi aveva avuto altre
informazioni: cosa sarebbe accaduto, con chi, in che modo. Non aveva
trovato il tempo di parlarne con Anane, non sapeva nemmeno se ci
fosse anche lei, tra le centinaia di fasce grigie del ciclo
superiore; e, se non ci fosse stata, come avrebbe potuto incontrare
Michael?
Aveva
domande, tante,
troppe, che le affollavano la mente sin da quando era tornata in
Paradiso, e non sapeva per quanto ancora avrebbe potuto reprimerle.
Temeva di essere scoperta, ma doveva parlargli, o
sarebbe
impazzita – si riteneva una persona paziente, sì,
ma fino ad un
certo punto.
*
* *
«Cassiel,
cherubino,
sesta classe, secondo gruppo. È corretto?»
«È
corretto,
Autorità.»
«Che
insegnanti hai
avuto sino ad ora, cherubino?»
«Tamiel
alla prima
classe, Meros alla seconda, Nelchael alla quarta, Tagas alla sesta.
Terza e quinta recuperate durante le successive.»
«Un
serafino e tre
angeli.»
«Sì,
Autorità.»
Il
raschiare di una
penna sulla carta.
«Consegna
questo alle
Custodi. Ti ho trasferita al quarto gruppo, sotto l’arcangelo
Khamiel.»
«Sì,
Autorità.»
«Perché
quell’espressione? Ti eri affezionata al secondo?»
risata «O
credi di non aver bisogno degli insegnanti migliori? È un
onore,
cherubino. Mostra riconoscenza.»
«...chiedo
perdono.»
«O
forse credevi che
ti avessi convocata per promuoverti di persona?»
«Non
credevo nulla,
Autorità.»
«Lo
credevi.»
«Non
desidero
contraddirti, Autorità, ma non credevo nulla.»
«Non
ti ritieni pronta
per essere promossa, quindi?»
«...non
è mio compito
giudicare il mio grado di maturazione.»
«Ti
chiedo di farlo.»
«Io...
ritengo che
potrei essere pronta per la settima classe.»
«Eppure
non ti sto
promuovendo. La tua essenza ne è contrariata, non credere
che non lo
veda. Superbia, cherubino?»
«No,
io... non... non
è superbia, ma consapevolezza. Ognuno serve il Paradiso
secondo le
proprie capacità, io credo... credevo di essere pronta ad
avanzare
di classe, ma... le mie capacità ancora non me lo
permettono. Non
oserei mai mettere in dubbio la decisione di
un’Autorità.»
«Dimmi,
cherubino, ti
ritieni migliore dei tuoi compagni?»
«Ognuno
ha diverse
capacità.»
«Tu
ne hai più di
altri. Ti ritieni migliore, per questo?»
«No,
Autorità. Non è
mio compito confrontarmi con gli altri, solo servire il Paradiso al
meglio. Non perdo tempo in simili paragoni.»
«Quindi,
se la tua
essenza fosse particolarmente adatta a servire il Paradiso come
Custode allo Specchio, tu ne saresti soddisfatta?»
«...se
questa fosse la
mia maggior capacità, sì, lo sarei.»
«Non
hai aspirazioni
più ambiziose?»
«La
mia unica
aspirazione è servire il Paradiso al meglio delle mie
possibilità.»
«Non
desideri divenire
un serafino? O un arcangelo?»
«M’impegno
per
svilupparmi al meglio, Autorità. Non nego che... preferirei
divenire
un arcangelo.»
«Arcangelo.
Sei
ambiziosa.»
«Desidero
solo servire
il Paradiso, Autorità. Necessitiamo di arcangeli e
perciò vorrei
diventarlo; solo per questo, non per brama di gloria o di
potere.»
«Puoi
andare,
cherubino. Il tuo gruppo ti attende alla Via. Consegna alle Custodi
il mio messaggio.»
«Sì,
Autorità.»
Il
suono di una porta
aperta e richiusa. La voce distaccata di un arcangelo, attutita, che
ordinava al cherubino di seguirlo fino alla Via.
«Non
per brama di
gloria o di potere, sì?» risata «Piccola
bugiarda.»
* * *
«Eccomi.»
annunciò
Ramiel, sorridente. Sembrava molto più sollevata di quando
si era
allontanata per discutere con gli altri Guardiani «Chi non ha
partecipato con noi all’altra visita... voi cinque,
sì, non
preoccupatevi. Non avete quasi nulla da recuperare, ripeteremo tutto
ciò che abbiamo fatto nell’altra, sarà
molto basilare.»
Una
domanda aleggiava
sugli allievi promossi di recente, senza che nessuno osasse
esprimerla. L’arcangelo dovette percepirla, perché
aggiunse,
rivolgendosi a loro con un sorriso: «Ma voi non sapete ancora
niente, giusto? Spostatevi in prima fila, preferisco avervi vicini.
Zephon, parlo anche con te, non essere così timido... qui al
centro,
bene. Avete tutti un quaderno per gli appunti? Niente penne, solo
matite, l’ultima volta c’è stato qualche
problema con
le boccette d'inchiostro... Phanuel, tu hai solo una penna? Non importa,
qualcuno avrà di certo una matita di riserva...
sì, Ramiel,
prestagliela pure. Cielo, Zephon, non indietreggiare così,
non sto
minacciando nessuno.»
Amitiel
decise di
cancellare paziente dalla lista delle proprie
qualità, mentre
prendeva con stizza malcelata matita e taccuino dalla borsa fissata
al fianco sinistro.
«Bene,
cherubini,
dicevo? Dunque... sì, che voi ancora non sapete nulla
dell’incarico.
Chi di voi ha partecipato all’ultima visita, anche se era
alla
quarta classe? Tutti tranne Ramiel? Be’, siamo in una
situazione
migliore di quanto temessi, allora. Chi c’era già,
silenzio!»
ordinò, zittendo il brusio che aveva iniziato a crearsi
«E
ascoltate anche voi, è cambiato un po’
dall’altra volta.»
Cominciò
a spiegare,
nel suo modo confusionario che Amitiel trovava a volte davvero
snervante. Riuscì a capire, con qualche
difficoltà, che non
sarebbero stati divisi in gruppi più piccoli, ma avrebbero
fatto
tutti lezione con Ramiel, nella prima parte della visita; la seconda
parte sarebbe stata spiegata quando fosse giunto il momento, e il
cherubino si dovette sforzare per non emettere un gemito frustrato.
Non avevano già aspettato abbastanza?
Prima
che riuscisse a
capire in cosa consistesse almeno la prima parte della lezione, un
sibilo acuto interruppe il discorso disorganizzato della donna: i
Guardiani chiedevano di apporre il Velo, prima di attivare il Fuoco
della Via. Ramiel, senza smettere di sorridere, avanzò lungo
le fila
dei propri allievi, rapida come pochi altri insegnanti.
Amitiel
assaporò la
sensazione del Velo che calava su di lei, con un calore più
intenso
di quanto ricordasse. Prima che le mani esili dell’arcangelo
si
allontanassero dalle sue spalle, la udì dire:
«Sembri stanca. È
per questo che sei arrivata così in ritardo?»
Annuì,
chiedendo di
nuovo perdono, confusa. Da quando un insegnante si preoccupava della
stanchezza di un allievo? Doveva aver ricevuto notizie davvero buone,
parlando con gli altri Guardiani, per essere così gentile.
Si chiese
cosa avesse saputo.
«Sarà
una visita
piuttosto lunga, temo. Potrai riposare solo tra qualche
tempo.»
Ramiel passò all’allievo accanto a lei, ma
continuò a parlarle
«Non torneremo prima di quattro periodi.»
Nell’ultima
visita ne
avevano impiegato mezzo. Aggrottò la fronte, cercando di
ricordare
quanti tramonti avesse visto nella dimensione umana: uno con Michael,
quattro con Anane. Cinque. Fece qualche calcolo a bassa voce e poi
chiese: «Quaranta tramonti?»
Ramiel,
passata alla
fila dietro, si voltò a guardarla, stupita.
«No,
al massimo una
trentina.»
Lei
contò di nuovo.
«...non capisco.»
«Oh,
Amitiel, speravo
proprio che qualcuno se ne interessasse.» batté le
mani come un
cherubino entusiasta «Fissazioni da Guardiani. Quando ti
occupi
sempre della Via e della dimensione umana, diventi un esperto.
Aspetta solo un attimo, finisco e ti spiego.»
Terminò
di apporre il
Velo sui propri allievi quando gran parte degli insegnanti era ancora
a metà. Tornò con passo quasi saltellante di
fronte ad Amitiel,
notando con delusione che nessun altro pareva interessato a
quell’argomento, e le spiegò: «Non
c’è un rapporto fisso tra
il tempo in Paradiso e nel Mediano – nella dimensione umana,
intendo. Definizione da Guardiani, non usarla, ‘dimensione
umana’
è quella ufficiale. Dicevo? Sì, che il rapporto
varia in base alla
quantità di essenze.»
«Continuo
a non
capire, scusami.»
«È
un concetto
complesso, per questo si preferisce non esporlo ai Cherubini, se non
lo richiedono loro stessi. Dunque... è come se il tempo in
Paradiso
e nel Media... nella dimensione umana scorresse in due flussi
separati, la cui velocità è regolata dalle
essenze angeliche. Se la
quantità fosse uguale per entrambi i flussi, il loro ritmo
sarebbe
lo stesso; più vi è disparità di
essenze, più il flusso che ne
ospita la maggior parte scorre più lentamente
dell’altro.»
«Come
se fosse
appesantito?»
«Si
può semplificare
così, sì. La velocità, comunque, di
solito varia di pochissimo:
perché il rapporto tra i due flussi cambi sensibilmente,
serve che
si trasferiscano molte essenze, ma accade di rado.»
Il
flusso del Paradiso
era più rapido rispetto alla sua ultima visita, quindi
dovevano
essere discesi nella dimensione umana molti Angeli,
rifletté. Fu
quasi sul punto di chiedere conferma di quel ragionamento, si
trattenne appena in tempo: era quasi certa che Ramiel non avrebbe
dovuto darle tutte quelle informazioni, ma che si fosse lasciata
trascinare dall’entusiasmo. Forse avrebbe potuto chiederlo a
Michael, se fosse riuscita ad incontrarlo – fitta
d’ansia e
d’impazienza.
«Ma
i Veglianti? Sono
molti di più delle essenze in Paradiso. E gli
Sconsacrati?» domandò
invece.
«Sei
sveglia.» si
complimentò l’insegnante, con gli occhi che
brillavano «Di solito
solo i Guardiani riflettono sui flussi del tempo. Hai mai pensato di
diventarlo?»
«Dicono
che non ho
l’essenza adatta per svilupparmi in un arcangelo.»
le rispose
neutra, occhieggiando brevemente agli altri adulti. Avevano quasi
finito di apporre il Velo agli allievi, presto i Guardiani avrebbero
attivato il Fuoco della Via e Ramiel non avrebbe più potuto
dedicarsi solo a lei. Conoscere i meccanismi dei flussi avrebbe
potuto esserle utile, ma la donna continuava a divagare.
Cercò di
assecondarla: «Ma penso che mi piacerebbe, se invece lo
diventassi,
e se fossi degna di unirmi ai Guardiani. Mi sta interessando molto,
questo discorso sul tempo, ma... non capisco, come si fa con i
Veglianti e gli Sconsacrati?»
«Buona
domanda, cara.»
annuì con un sorriso, senza irritarsi perché
aveva ripetuto due
volte lo stesso interrogativo – doveva essere molto raro
trovare
aspiranti Guardiani interessati all’aspetto teorico, che
invece
sembrava appassionare la donna «Le essenze dei Veglianti sul
Mediano
sono compensate dall'essenza del Paradiso stesso: la presenza di Dio riesce
a bilanciare la loro enormità. Gli Sconsacrati non hanno
niente a
che fare con questo. I Caduti non hanno alcuna dimensione propria, le
loro essenze non intervengono sul rapporto tra i flussi; la
quantità
di Demoni, invece, influenza la rapidità del flusso degli
Inferi.»
«Quindi
non è il
flusso della dimensione umana a cambiare velocità, ma solo
Paradiso
e Inferi?»
«Sì.
Il Mediano è
l’unico punto fisso, tra il ritmo dei flussi.»
rimase un attimo in
silenzio, poi batté un palmo sulla coscia, sgualcendo ancor
di più
la sua divisa da Guardiana, con un’aria quasi infastidita
«La
dimensione umana, cioè.»
«Perché
Mediano non
va bene?» chiese, senza riuscire a trattenersi.
Ramiel
la fissò.
‘Ecco.
Ora mi punisce. Stupida, stupida, stupida, non potevo starmene zitta?
Non devo chiedere certe cose! Ora mi punisce, ora-’
«Perché
Mediano lo
usano gli Sconsacrati.» le rispose, stupendola
«Mentre noi,
Amitiel, non riconosciamo una gerarchia tra le
dimensioni.
Paradiso e dimensione umana sono sullo stesso piano, creati entrambi
da Dio per Suo volere; gli Inferi non dovrebbero nemmeno esistere,
creati per la superbia di un semplice angelo. Gli Sconsacrati pongono
prima gli Inferi, poi la dimensione umana e infine il Paradiso. I
nostri Guardiani dicono Mediano solo perché è
più breve, ma tu non
usarlo.»
Aveva
senso. Ringraziò
l’insegnante, sentendo di essere stata favorita due volte
– nel
non essere stata punita per quella domanda inopportuna, e
nell’aver
ricevuto una risposta.
Un
secondo sibilo acuto
annunciò il Fuoco della Via. Fissò le fiamme
aumentare d’altezza,
inquietata e suo malgrado affascinata da quello spettacolo
spaventoso. Stava per discendere nella dimensione umana, stava
–
forse – per vedere Anane, parlare con Michael, porre domande
senza
il timore di aver chiesto troppo. L’impazienza
tornò a farsi
strada in lei. Forse, se avesse saputo cosa la aspettava in quella
visita e nelle altre a venire, avrebbe desiderato invece non
discendere mai nel Mediano.
Era
stata istruita sul
flusso del tempo, ma sarebbe stato quello degli eventi a travolgerla
– e dei dubbi, dei ricordi, delle emozioni, dei tradimenti.
Delle
scelte.
***
Angolo autrice
Eccoci qui anche oggi. Buona Pasqua a tutti e, come
sempre, grazie per letture, preferiti, seguite, ricordate e in special
modo per i commenti (:
Spero che non sia un capitolo deludente dopo il nono, che, a
quanto pare, ha riscosso molto successo *^* Di transito, ma serviva...
anche i dialoghi che fanno da intermezzo alla scena principale hanno la
loro utilità... dicono molto, nonostante lo stile "copione"
- necessario all'idea di immediatezza che volevo dare e a non rendere
abnorme questo capitolo, già più lungo del
solito. E' stato davvero liscissimo da scrivere, ho dovuto fermarmi
prima di raggiungere le diecimila pagine xD
A voi il giudizio (: critiche costruttive e consigli sono sempre ben
accetti, ovviamente!
Piccola nota: so che andrebbero le virgolette doppie (") per i pensieri
e le citazioni, ma word le cambia in automatico con quelle basse e
quindi per comodità uso le virgolette semplici.
A domenica prossima!
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Capitolo 12 *** 11. Colori ***
Capitolo
11 – Colori
Cinque
erano stati i cicli del sole, la prima volta che Amitiel era discesa
sul Mediano, prima che dovesse tornare al cielo vuoto del Paradiso.
Cinque
cicli che non erano stati sufficienti a saziare la fame che provava
verso quella luce calda; tanto più che l’aveva
vista appena
passato l’inverno, pallido riflesso
dell’intensità estiva con
cui l’accolse quel giorno.
Ramiel
concesse loro mezzo ciclo del sole per abituarsi alla dimensione
umana, poi si allontanò con l’allieva sua omonima,
che non vi era
mai discesa, per guidarla meglio in quel mondo così
mutevole. Gli
altri si sparsero per tutta la zona circostante, entro il perimetro
delimitato dai pochi Custodi posti a vegliare su di loro. Cercavano
angoli boschivi in cui riprendere confidenza con le ombre, scacciando
l’inquietudine del buio e dei continui rumori con la
compagnia di
qualche altro allievo; oppure rifugi isolati in cui estendere in
solitudine le proprie Percezioni, annullando i sensi e collegandosi
alla vita che pulsava in quei luoghi – Custodi, Cherubini, e
i più
dotati sfioravano talvolta gli Umani dei villaggi meno distanti, o
l’essenza più discreta degli animali.
Avevano
fretta, perché una volta richiamati alla lezione non
avrebbero più
avuto il tempo di abituarsi con gradualità ai continui
cambiamenti
di quella dimensione, ma mezzo ciclo del sole era troppo poco per
riuscirvi. Un battito di ciglia, un inutile respiro, l’attimo
di
nulla tra un pensiero e l’altro; poi si alzava lo sguardo al
cielo
e si scopriva che era già giunto il tramonto.
Il
tempo scorreva rapido e stancante, in quel mondo dove assumeva
tutt’altro significato, perché i suoi abitanti
avevano un termine
ultimo sempre troppo vicino e spaventoso. Sfuggiva dalle mani, invano
aggrappate al presente, come quando ancora alla prima classe si era
avventurata sulle rive proibite del Confine e aveva tentato di
trattenere la sabbia bianca tra le dita. Sfiorava gli occhi con i
raggi accecanti del sole, ma prima che lo sguardo vi si fosse
abituato, già sorgeva la luna con il suo lucore pallido
– gli
astri danzavano in cielo, giocando a rincorrersi e nascondersi e
riapparire, con un ritmo così rapido da togliere ai
Cherubini
inesperti il loro inutile respiro.
Poi
gli occhi scorgevano un fiore sul punto di sbocciare,
l’orecchio
percepiva i mille richiami di animali sconosciuti, le dita scoprivano
la carezza gelida di un torrente, e il tempo sembrava arrestare la
sua folle corsa: erano attimi acronici, infiniti, sospesi nella
meraviglia. Gli anni potevano sembrare istanti e gli istanti potevano
sembrare anni.
Ha
percezioni strane e incoerenti, chi è nato con la promessa
dell’eternità.
Quando
Amitiel giunse in una pianura ai limiti del territorio concesso per
l’esplorazione dei Cherubini, quindi, rimase a contemplarla
senza
accorgersi che il mezzo ciclo si stava rapidamente consumando; ma,
anche se ne avesse avuto consapevolezza, quel luogo inondato di sole
esercitava su di lei tanto fascino che forse non si sarebbe mossa
comunque. Nemmeno le ombre che vi gettavano i radi alberi riuscivano
ad inquietarla, e lasciava vagare lo sguardo senza timore, solo con
meraviglia: sulle colline che all’orizzonte increspavano il
terreno, sui piccoli villaggi che punteggiavano la pianura oltre il
limite che le era permesso raggiungere, sull’erba rada
bagnata dal
sole, sul bosco dalle chiome macchiate di giallo e di nero –
il
luogo in cui il suo gruppo era arrivato nella dimensione umana, un
ambiente brulicante di vita, in cui però la luce filtrava a
fatica.
Nonostante la pianura fosse in più punti annerita o
giallastra,
nonostante fosse quasi vuota, nonostante sapesse di morte,
era inondata di sole e questo bastava a fargliela preferire al bosco.
Era
affamata di quella luce calda, intensa, gioiosa, e non sembrava
capire che ciò che tanto ammirava poteva essere pericoloso.
Mortale,
anche – o forse lo capiva ed era proprio questo ad
affascinarla,
facendo fremere la sua natura più oscura. Violento,
così avrebbe
potuto definire il bagliore che sembrava quasi far tremolare
l’aria
in lontananza, ed era un aggettivo adatto e bello.
Atterrò
dolcemente al limite dello spazio aperto, appena più avanti
degli
ultimi alberi.
Si
tolse i sandali – inutile impaccio, per lei che come tutti
gli
allievi era abituata ad andare a piedi nudi – e si
affidò alle
percezioni, invece che alle Percezioni che avrebbe dovuto sviluppare.
Un semplice accento più marcato, che nella sua lingua
segnalava una
maiuscola, divideva in realtà due universi completamente
differenti;
lei preferiva di gran lunga il primo al secondo, i sensi alla mente.
Non era forse meglio guardare, toccare, respirare, piuttosto che
immaginare? L’essenza poteva essere acuta, estendersi
lontano,
cogliere ogni dettaglio a distanza, ma vivere
era diverso.
Soddisfatta
della
profondità delle proprie riflessioni, prese in mano i
sandali e
mosse qualche passo, sorridendo. Avrebbe presto saputo come si
sarebbe svolta la lezione, e se avrebbe avuto la possibilità
di
contattare Anane e Michael; intanto, poteva divertirsi. Persino
l’attesa assumeva toni più distesi, nella
dimensione umana, perché
il tempo scorreva troppo rapido per lasciar germogliare
l’impazienza.
Se prima di discendervi aveva provato inquietudine, la luce intensa
del sole estivo la sostituiva con la meraviglia.
Il
terreno era caldo sotto i suoi piedi nudi, e lo trovò
piacevole, pur
non potendo avvertirne davvero la temperatura. Aveva una consistenza
mai sentita prima: arido, frammentato, percorso da fratture che lo
dividevano in zolle polverose. L’erba rada, giallastra, non
assomigliava per nulla a quella rigogliosa e immortale del Paradiso:
sembrava accasciarsi sul suolo riarso, esausta, implorando energia
–
implorando acqua, avrebbe potuto pensare Amitiel, se avesse saputo
che quel liquido per lei solo decorativo
era in realtà fonte di vita. Il cielo azzurro, limpido,
scherniva
quella richiesta riversando luce bollente invece di pioggia.
Si
chiese perché non
vi fosse nessuno ad ammirare quello spettacolo, a vagare in quella
grande pianura. Le abitudini degli Umani erano argomento della sesta
classe, ma sapeva, grazie ad Anane, che spesso conducevano animali
nei prati. Non capiva perché, invece, quello fosse deserto
–
poteva darsi che i Custodi stessero provvedendo ad allontanare gli
Umani dai Cherubini, sì, ma il Velo serviva proprio per non
essere
percepiti da loro. Allora perché non c’era nessuno
in quella
pianura?
Il
concetto di carestia
le era del tutto estraneo. Non c’erano più animali
da condurre al
pascolo – sempre che quei radi fili giallastri si potessero
definire pascolo – e, al massimo, avrebbe potuto esservi
qualche
bambino a strappare l’erba agonizzante per placare la fame;
ma il
cammino dai villaggi era troppo lungo ed esposto al sole impietoso,
perché qualcuno si avventurasse fin lì.
Amitiel
non capiva e, per questo, non poteva avere compassione o orrore per
quella desolazione. Si limitava a trovarlo strano e in qualche modo
anche bello, mentre
camminava a piedi nudi sul terreno arido, bagnata dal sole violento
di piena estate.
Le
sembrò di scorgere
una sagoma minuta, al limite più lontano della pianura, dove
l’aria
tremolava per il calore e il suo sguardo ancora immaturo riusciva a
malapena ad arrivare. Non riusciva a capire se la gracilità
della
figura fosse dovuta alla distanza, o se fosse effettivamente
così
piccola, né coglieva altri dettagli sul suo aspetto.
Tentò anche di
estendere le proprie Percezioni, per comprendere se si trattasse di
un umano o di un’altra strana creatura di quella dimensione,
ma non
riuscì a sentire nulla: era ancora lontana dalla
semplicità e della
naturalezza con cui gli adulti avvertivano anche le presenze
così
distanti.
Attese,
senza osare
avvicinarsi, ma la figura minuta rimase lontana: nella pianura
deserta e silenziosa, rimaneva un’ombra quasi
indistinguibile, che
saltellava all’orizzonte lungo un tracciato circolare. Era un
po’
inquietante.
Dopo
qualche tempo quella sagoma esile si perse all’orizzonte e
Amitiel
percepì il Richiamo di Ramiel per la lezione: il mezzo ciclo
era
passato. Si alzò in volo, così rapida da
distinguere solo una
macchia verde, al posto degli alberi che scorrevano sotto di lei:
l’inspiegabile ansia data da quella figura la spinse ad
allontanarsi in fretta, rendendo all’improvviso angoscianti
il
silenzio e la solitudine della pianura. Si accorse di avere una
boccata d’aria bloccata in gola da tempo ed espirò
piano, appena
prima di lasciarsi ricadere tra gli alberi, dove il Richiamo
l’aveva
condotta.
Ramiel
– l’insegnante – si
complimentò per la puntualità, almeno
per quella volta,
e rise da sola
della propria ironia. Ramiel – la compagna – le si
avvicinò con
un’espressione incerta, lanciando di tanto in tanto occhiate
furtive agli angoli dove le ombre erano più dense. Amitiel,
nella
pianura inondata di sole, non aveva notato le tenebre, e anche in
quel momento si sentiva sicura, finché la luce filtrava tra
gli
alberi; sorrise comunque all’altro cherubino, cercando di
mostrarsi
comprensiva.
In
breve tempo, tutti i diciotto allievi del terzo gruppo si trovarono
radunati in semicerchio attorno all’insegnante. Lei li
contò
mentalmente, controllando che non mancasse nessuno, prima di dire:
«Spero che abbiate sfruttato bene questo mezzo ciclo del
sole. Tra
non molto calerà la notte e gradirei che nessuno si facesse
prendere
dal panico. Avremo...» corrugò la fronte,
pensierosa «una decina
di tramonti, per la prima parte della lezione. Osserveremo un
villaggio umano poco lontano da qui, in modo più ravvicinato
rispetto all’altra volta, quindi dovrete aggiungere diverse
informazioni ai vostri appunti. Il Velo è più
intenso, questa
volta: se vi manterrete ad una distanza sufficiente,
impedirà agli
Umani di avvertire la vostra presenza in qualsiasi modo, non solo
attraverso la vista – non accadranno spiacevoli inconvenienti
come
nell’ultima lezione, quindi. È raro che a
Cherubini così immaturi
venga concesso di osservarli così da vicino, per cui esigo»
sottolineò il termine con un fremito delle ali, ricordando
loro di
essere un arcangelo, al di là della cordialità
con cui li trattava
«la massima attenzione da parte vostra. Niente mormorii,
risatine o
simili. Se qualcuno ha altre intenzioni, sono certa che
troverà
molto istruttivo tornare allo Specchio e godersi l’Espiazione
in
attesa degli altri.»
Doveva
essere una
lezione importante e forse anche rischiosa, per rendere Ramiel
così
seria. Nonostante l’istintivo timore per la minaccia,
tuttavia,
Amitiel non poté impedirsi di provare una scarica di
eccitazione:
gli Umani erano un argomento proibito ai più immaturi, su
cui non
aveva mai potuto porre troppe domande. Le era stato insegnato a
provare compassione per la loro fragilità, e che il compito
degli
Angeli era di proteggerli e guidarli, per salvaguardare le loro anime
dall’ingordigia degli Sconsacrati. Poco altro le era stato
concesso
di sapere, poiché forse si temeva che, parlandone troppo, i
fragili
Cherubini si sarebbero lasciati corrompere dalla debolezza degli
Umani. Amitiel, un po’ per propria inclinazione, un
po’ perché
era un argomento proibito, era stata sempre curiosa nei loro
riguardi.
Attraversarono
in volo
campi di erba rada e giallastra, popolati da creature mai viste
prima: bestie a quattro zampe, ossute e sporche, che emettevano versi
raccapriccianti. Gli Umani, spiegò Ramiel, come tutti gli
esseri
mortali avevano bisogno di nutrirsi, perciò allevavano
animali per
cibarsi della loro carne e del loro latte – peccato che
nessuno di
loro sapesse cosa fosse, questo latte.
Non
solo la loro anima,
ma anche il loro corpo era più fragile: si danneggiava
facilmente e
di rado riusciva a rigenerarsi, necessitava di cibo e acqua, doveva
riposare anche da adulto, aveva sensi meno sviluppati. Li
avvisò
anche che emanavano un odore proprio, non dovuto agli oli di cui si
cospargevano.
Capirono
meglio cosa
intendesse quando si trovarono sospesi su un villaggio –
niente di
più che una manciata di capanne cadenti ammassate attorno a
un pozzo
–, respirandone il lezzo nauseante. Non assomigliava a nulla
che
avessero mai percepito prima: nemmeno chi aveva già
osservato gli
Umani, nella precedente discesa, si era spinto tanto vicino da poter
sentire l’odore e il suono del loro villaggio.
«La
particolarità
maggiore di tutti gli esseri terreni, però, è che
il loro corpo
cambia in modo molto rapido.» continuò Ramiel,
quando ebbe di nuovo
l’attenzione degli allievi. Vedendo che uno si stava
sfiorando i
capelli, dubbioso, aggiunse: «Non sto parlando solo di
questo,
Zephon. Anche se, in effetti, i loro capelli crescono molto
più
velocemente.»
Indicò
loro alcune
figure minuscole che si rincorrevano ridendo tra le stradine
sterrate, e poi un’altra rugosa, curva, che avanzava
lentamente
trasportando un secchio d’acqua. Non assomigliavano a nessuna
persona che Amitiel avesse mai visto.
«Nascono
dal ventre delle loro donne – non chiedetemi come,
l’anatomia la
lascio volentieri al ciclo superiore. Da giovani sono di dimensioni
ridotte, e di
ridotto
intelletto: i Cherubini più immaturi, al loro confronto,
sono quasi
adulti. Maturando, crescono fino a raggiungere, nel fiore della loro
vita, un aspetto simile al nostro. Poi decadono sempre più
velocemente, diventano più deboli, la loro pelle rugosa, i
loro
sensi meno acuti.»
Le
matite scorrevano
rapide sui taccuini, interrompendosi solo quando gli allievi
lanciavano sguardi curiosi e a volte un po’ disgustati verso
il
basso. Ramiel ripeteva spesso i concetti, costringendoli a
riscriverli ogni volta, e spiegava lentamente: lasciava il tempo di
osservare ciò che stava illustrando, concedeva pause, si
assicurava
sempre che tutti avessero capito.
S’interrompeva
di frequente per parlare con i Guardiani e i Custodi che, ad
intervalli regolari, si avvicinavano per controllare che fosse tutto
tranquillo. Amitiel notò che il Custode cambiava quasi
sempre, e tra
i tanti riconobbe solo Ridwan, l’insegnante di Anane; il
Guardiano
invece era sempre lo stesso, l’arcangelo che
l’aveva accompagnata
quando era stata convocata dall’Autorità.
Non
era una lezione dal ritmo particolarmente intenso, ma complessa per i
contenuti: parole come fame
o famiglia erano
estranee ai Cherubini, concetti difficili da comprendere e da
assimilare. Il sole era scivolato quattro volte dietro
l’orizzonte,
quando Ramiel terminò di spiegare le funzioni vitali degli
Umani,
per passare alla loro organizzazione.
Amitiel,
anche se
provata per aver trascorso tutto il tempo in volo sul villaggio, era
ammaliata. La voce dell’arcangelo apriva porte di mondi
misteriosi,
le sue dita pallide e affusolate indicavano scene di una dolcezza
sconosciuta.
Una
madre che stringeva
al seno un bambino – «Le donne sono disposte a
morire per i propri
figli.», ripeteva spesso Ramiel. Amitiel si sentiva scaldare
il
petto per quell’amore, e stringere lo stomaco
perché nessuno
sarebbe mai morto per lei, invece.
Ragazzini
che giocavano
con pietre e legni, concentrati – «Sanno anche
essere crudeli.»
ammoniva Ramiel ogni volta. Amitiel si chiedeva come potessero
esserlo quei visi sorridenti e ingenui, e se non fosse peggiore
l’indifferenza che i Cherubini mostravano gli uni per gli
altri.
Vecchi
che
raccoglievano attorno a sé i più giovani per
narrare antiche
leggende – «Hanno una vita breve, ma le loro
credenze si
perpetrano per generazioni, attraverso i racconti degli
anziani.»
diceva Ramiel quando accadeva. Amitiel provava invidia per i miti che
popolavano l’infanzia degli Umani, e delusione per la storia
vera e
triste e crudele che veniva insegnata ai Cherubini.
Doveva
essere strano, vivere al modo degli Umani. Avere dei genitori, dei
fratelli di sangue, dei figli, un nucleo da non abbandonare mai
–
senza essere cresciuti da estranei che quasi non ricordavano il tuo
nome, senza essere spostati da un gruppo all’altro sradicando
i
propri legami ad ogni cambio di classe, senza dover chiamare fratelli
persone che s’interessavano a te solo in quanto futuro adulto
di
possibile utilità. Avere la certezza che prima o poi sarebbe
finito
tutto, le gioie e le sofferenze, i legami, le fatiche. Avere su di
sé
aspettative umane, non il peso soffocante di un compito divino. Avere
la libertà di amare e odiare e chiedere e decidere.
Doveva
essere molto
strano, sì.
...doveva
essere bello.
Prima
che si rendesse
conto di averlo pensato, uno strillo acuto attirò
l’attenzione di
tutti gli allievi, distogliendola da quelle riflessioni.
Risuonò
un’altra volta e un’altra ancora, e ancora e
ancora, sempre più
flebile ma sempre più bestiale, disperato. Raccapricciante.
Avevano
da poco visto
la settima alba di lezione e ancora l’inquietudine per le
ombre
notturne non li aveva abbandonati del tutto, così come il
sonno
tardava a lasciare gli Umani: doveva essere per questo che tutti
continuavano indifferenti le proprie attività, senza dar
segno di
essersi accorti di nulla, mentre i Cherubini sorvolavano la manciata
di capanne con frenesia, cercando di capire da dove provenisse quello
strillo agghiacciante. L’insegnante rimase impassibile, senza
rimproverarli o rassicurarli, e con un gesto pacato della mano fece
segno di attendere al Custode e al Guardiano che si stavano
avvicinando.
«Qui.»
chiamò
Ramiel, l’allieva, con voce rotta. Subito i compagni la
raggiunsero
ai limiti del villaggio, appena prima delle ultime abitazioni, sopra
un vicolo angusto che quasi non avevano notato. Dei bambini erano in
cerchio, chini su qualcosa – forse ciò che
emetteva quegli
strilli, ormai ridotti ad un lamento sommesso, quasi coperto da
soddisfatte risa infantili.
«Sedete
pure in tre o quattro su ogni tetto: gli Umani non si accorgeranno di
nulla, il Velo vi rende silenziosi e inconcepibili.
Crederanno sia qualche animale, se sentiranno qualcosa. Su, che
aspettate?» li esortò l’insegnante,
imperscrutabile «Sedete e
godetevi lo spettacolo.»
Obbedirono,
incerti,
posandosi cautamente sui tetti dalla consistenza cedevole. Non
capivano cosa stesse accadendo: i bambini scagliavano sassi e calci
verso terra, così compatti che dall’alto non si
distingueva ciò
che stavano colpendo. Ridevano ed esultavano in una lingua
sconosciuta, roca e gutturale, che però
l’arcangelo comprendeva.
«Non
tradurrò ciò
che stanno dicendo. Posso dirvi che sono insulti, ingiurie, ma non ho
intenzione di sporcarmene le labbra.» disse, gelida.
Il
lamento, intanto,
diveniva sempre più flebile.
L’inquietudine
germogliava nei Cherubini, un vago senso d’orrore,
l’impressione
che ciò che stava accadendo fosse sbagliato –
eppure quei bambini
sembravano così allegri, così puri! Come potevano
fare qualcosa di
male?
«Bambini,
venite ad aiutarmi.»
tradusse
Ramiel, quando una donna, gridando, si affacciò
all’ingresso del
vicolo. Giunta la risposta di due dei ragazzini, tradusse ancora:
«Ancora un po’, madre.
Sì, madre, ancora un po’,
abbiamo catturato un gatto.»
ascoltò la donna «Venite, ho
detto, e state lontani da
quella bestia. E anche voi... –
ha usato dei nomi, qui – vostro
fratello vi cerca.»
Un
singhiozzo strozzato sfuggì a diverse allieve, quando i
cinque
bambini corsero nella strada principale, rivelando qualcosa
rannicchiato a terra. Un ammasso di pelo nero e carne esposta; ferite
profonde, graffi, lacerazioni. E tanto, tanto, tantissimo rosso.
Qualcuno chiuse gli occhi o stornò lo sguardo, disgustato;
altri
fissarono Ramiel, senza capire perché stesse loro mostrando
quel...
quella cosa. L’omonima allieva si strinse il capo tra le
mani,
artigliando le ciocche rosse con angoscia, e si accasciò
contro la
spalla di Amitiel, accanto a lei.
«Gatto.»
mormorò quella, stordita. Gatto. Doveva chiamarsi
così, quella
cosa.
Un animale.
Gatto. Gatto gatto gatto. Era un bell’animale – in
precedenza,
per lo meno, lo era stato. Gatto.
Un
massacro.
Quei
bambini ridevano, esultavano e uccidevano.
Gatto.
Un
maledetto massacro.
Gatto
gatto gatto.
Rosso.
Sangue. Ovunque.
Rosso. Uguale alle ali dei Cherubini alla prima classe, e non sarebbe
più riuscita, mai mai mai più riuscita, a
guardarne uno senza aver
voglia di piangere e urlare.
Gatto.
Amitiel,
senza pensare,
si gettò dal tetto verso quel corpo in agonia. Vi
atterrò di fronte
con un tonfo attutito e, inginocchiata sul terriccio impastato di
sangue, allungò una mano tremante per sfiorarlo. Quello
emise un
flebile lamento ancor prima che lo toccasse, terrorizzato, volgendosi
a fatica verso di lei – forse il Velo funzionava solo sugli
Umani.
Aveva perso un occhio, notò il cherubino, fermando la mano a
mezz’aria con un sussulto. Tutto il muso era percorso da
ferite dai
bordi slabbrati, là dove le pietre avevano colpito con
più forza.
Non osò guardare da vicino il resto del corpo: bastavano il
dolore e
il panico folle dell’animale a farle capire quanto quei
bambini,
ridendo ed esultando, si fossero accaniti su di lui.
Sanno
anche essere crudeli. Ramiel aveva ragione.
Ma
il gatto, il gatto
cosa aveva fatto? Perché quel massacro?
Gatto.
Gatto gatto
gatto.
Gatto.
Cosa
c’entrava il
gatto?
Si
accorse che le
lacrime le avevano inondato il viso solo quando alzò gli
occhi da
quell’ammasso di carne e sangue. All’entrata del
vicolo stava
immobile una figura esile, resa sfocata dal pianto, ma comunque
riconoscibile come un bambino piuttosto piccolo. Non era uno dei
cinque che avevano massacrato il gatto – gatto gatto gatto,
cosa
c’entrava il gatto? –, o si sarebbe probabilmente
scagliata
contro di lui, senza curarsi della reazione dell’insegnante.
Il
bambino non si
mosse, fissando l’animale da sotto la frangia scura, con
espressione stupita e disgustata. Non sembrava vedere Amitiel, o
accorgersi dell’ombra che proiettava, o delle macchie di
sangue –
sangue, sangue, sangue ovunque, sangue del gatto, ma cosa
c’entrava
il gatto? – sui suoi vestiti. Probabilmente non vedeva
nemmeno
quelle.
Le
sembrò quasi che il
bambino avesse alzato lo sguardo su di lei, fissandola per qualche
istante, per poi lasciarlo vagare lungo i tetti dov’erano
radunati
gli altri Cherubini. Ma probabilmente lo stava solo distogliendo dal
corpo del gatto, perché un secondo dopo diede le spalle al
vicolo e
corse via. Doveva essere rimasto disgustato anche lui per quel
massacro. Ma gli altri bambini, perché l’avevano
fatto? Perché
ridevano esultavano uccidevano?
«Perché?»
sfiatò,
dando voce all’interrogativo che silenziosamente si stavano
ponendo
tutti.
Alzò
lo sguardo verso
l’insegnante. Ramiel, affiancata dal solito Guardiano e da un
Custode che non conosceva, era in piedi su un tetto, impassibile e
silenziosa. Distante. Come se il massacro non l’avesse
toccata.
Ma
c’era rosso, così
tanto rosso – rosso come il terriccio impastato di sangue,
rosso
come le ali dei Cherubini, rosso come i capelli di Ramiel che era
atterrata accanto a lei e adesso la stava allontanando da quel corpo
in agonia.
«Perché?»
ripeté
più forte.
«I
bambini sanno
essere crudeli.» le rispose l’insegnante,
impassibile «Gli
Umani sanno essere crudeli. Tentati dagli Sconsacrati, si
allontanano da Dio, dalla sua luce, dalla sua bontà, e fanno
questo.
O di peggio, anche; e su altri Umani, non su animali.»
«Non
c’erano Demoni,
qui. Non c’erano Caduti. Non sono stati tentati,
per loro
era un gioco. E anche gli altri Umani...
perché non li hanno
fermati, quando hanno sentito gridare il gatto?
Perché?»
«Perché
è parte
della natura umana.»
«Ma-»
«Amitiel.»
la
richiamò «Parleremo anche di questo, ma ora
dobbiamo andare.»
«E
l’animale?»
chiese Ramiel, l’allieva, prima che la compagna potesse
ribattere
ancora.
«Morirà.»
le rispose
la donna, con un bagliore di amarezza nello sguardo freddo.
«Non
possiamo
salvarlo?»
«No,
Ramiel. Non
possiamo interferire con le decisioni degli Umani o le loro
conseguenze.»
«Per
favore.» mormorò
quella, chinando il capo, in lacrime «Per favore.»
«No.»
Gli
altri allievi
tacevano, sconvolti e nauseati. Era stata loro insegnata la
compassione; perché, allora, non potevano alleviare le
sofferenze di
una vittima?
Perché
gli Umani
avevano scelto di farlo soffrire.
Il
rancore serpeggiava
tra le loro coscienze pure, sporcandole.
«Ramiel.»
le sussurrò
all’orecchio il Guardiano accanto a lei, chinandosi per
essere alla
sua altezza.
«Non
dire niente.»
«Ramiel,
è solo un
gatto.»
«Devono
imparare.»
«È
solo un gatto, ed
è vivo. Ci è ancora permesso
salvarlo.»
«Ma
loro devono
imparare.»
«Guarda
le loro
essenze. Vuoi davvero farli sporcare per questo?» le
posò una mano
sulla spalla esile, senza stringere «Non soffocare la loro
compassione. Alimentala e impareranno ad averne anche per gli
Umani.»
«Non
davanti ai
Cherubini, Gabriel, lo sai.» mormorò, scostandosi
dal suo tocco.
«Non
stanno guardando
noi. Stanno guardando la morte – la stanno imparando nel modo
peggiore, Ramiel.»
«Se
li assecondo,
crederanno di potersi intromettere quando vogliono.»
«Spiega
i limiti, ma
non renderli più rigidi di quanto già non siano.
È tuo dovere
incoraggiare la loro compassione.»
«Sono
io l’insegnante,
Guardiano. È tuo dovere proteggerci, non spiegarmi come
svolgere il
mio compito.»
«È
mio dovere starti
accanto.» ribatté, posandole di nuovo una mano
sulla spalla.
«Gabriel...
i
Cherubini.» protestò, allontanandosi per la
seconda volta.
«Cherubini,
sì. Hanno
tempo per imparare i limiti. Per ora, insegna la compassione
– non
soffocarla, o rischia di tramutarsi in rancore.»
«...queste
lezioni mi
uccidono.» sospirò.
«È
tuo dovere.»
«Mi
uccidono
ugualmente.» mormorò «Mi fa male,
vederli così.»
«Potresti
evitarlo.»
«Non
posso essere
morbida, lo sai. Non in questo.»
«Ogni
volta lo stesso
discorso, hai notato?»
Il
loro volto, sino a
quel momento, era rimasto congelato
nell’impassibilità; solo un
lieve sorriso increspò le labbra di Ramiel, a quelle parole,
ma
scomparve subito.
«Ogni
volta lo stesso
discorso» ripeté il Guardiano «e ogni
volta finisce nello stesso
modo.»
«...e
io che ho
chiesto un gruppo della quinta proprio per evitare queste
lezioni.»
«Quinta
o sesta,
finirai sempre per darmi ragione.» affermò con un
ghigno malcelato.
«Ricordami
di chiedere
la seconda classe, la prossima volta. Almeno andrò sul
sicuro.»
«Oh,
Ramiel, così mi
ferisci. In tal modo non ci vedremmo mai.»
«Appunto.»
Soffocò
una risata –
era suo dovere mostrarsi serio – e si voltò verso
i Cherubini in
attesa di ordini. Incoraggio l’altra con una lieve stretta,
poi
allontanò la mano dalla sua spalla e spiccò un
balzo verso le due
giovani inginocchiate davanti all’animale. Udì
Ramiel dare il
permesso di salvare il gatto e si chinò per prenderlo tra le
mani,
ma l’allieva dai capelli rossi lo precedette: sfiorandolo con
dita
delicate, chiuse gli occhi e respirò piano, in un tentativo
di
calmarsi.
Gabriel
non si
aspettava che riuscisse davvero a fare qualcosa: era giovane,
inesperta e autodidatta, e l’animale in fin di vita. Invece,
sotto
le mani del cherubino – inaspettatamente ferme, come quelle
di un
vero Guaritore – s’intravide un bagliore bianco,
lingue sottili
che lambivano le ferite e placavano il dolore. Era solo una pallida
imitazione del vero Fuoco della Guarigione, ma stava funzionando:
lentamente gli squarci si richiusero in evidenti cicatrici, le
articolazioni piegate in angoli anormali assunsero pose più
naturali, lo sguardo perse l’annebbiamento dato dalla
sofferenza e
si fece più lucido. Quando la giovane lasciò
ricadere le mani in
grembo, stanca, Gabriel avvertì le essenze dei Cherubini
bloccare il
proprio ansioso turbinio, congelate nell’attesa. Solo le
più
mature si tesero per ampliare le Percezioni, senza ottenere nulla
–
appena in grado di intuire le anime umane, la scintilla di vita di un
animale era troppo incerta e flebile perché riuscissero a
coglierla.
La
scintilla di
quell’animale, in particolare, era quasi
sul punto di
estinguersi; ma c’era.
Se
ne accorsero anche
gli allievi, quando il gatto si alzò barcollando e corse
via,
terrorizzato. Vivo.
Le
essenze tornarono a
vorticare, in preda al sollievo e alla gioia, il rancore già
diminuito. Era un cuore pulsante di emozioni, intense come sapevano
essere solo quelle dei sensibili Cherubini. Il Guardiano colse un
sorriso sul volto di Ramiel, più adatto
dell’espressione gelida
che aveva simulato fino a quel momento, e fu quasi certo di sorridere
a propria volta. Ma era suo dovere rimanere vigile e lucido, e subito
pensò che quell’impeto di esultanza era troppo
percepibile: la
cautela prestata fino ad allora sarebbe stata inutile, con
quell’invito a venire individuati e attaccati.
Gettò
uno sguardo
inquieto a Ramiel, cui lei rispose con un movimento brusco della mano
– il polso esile ruotato di scatto verso di sé, le
dita sottili
inarcate come artigli. Il gesto di una belva che ritira
l’arto
ferito; il gesto di un Guardiano che suggerisce di andarsene. E
Ramiel, sotto i sorrisi e l’aria materna, era Guardiana e
belva.
I
colori si mordevano
l’un l’altro, ferendo i suoi occhi sconvolti. Non
era più il
silenzio di una pianura ingiallita dal sole o il fruscio di un bosco
nero di ombre. Non era più la dolcezza
dell’affetto materno o
l’immagine cupa di un’antica leggenda. Non era
più nulla ed era
tutto: un turbinio di colori violenti di cui non capiva il senso,
macchie indistinte che non riusciva a mettere a fuoco. Solo pochi
dettagli erano chiari, netti come cicatrici.
Poteva
incolpare le
lacrime che continuavano ad inondarle il viso, o l’errore era
solo
nella sua mente angosciata?
C’era
il rosso del
sangue sulle sue mani, quello lo vedeva bene, e sul terreno e sulla
divisa bianca. E rosso anche sulle sue ali, così nitido che
avrebbe
voluto strapparsele via, pur di non vedere le piume che le sfioravano
le spalle.
C’era
il nero del
pelo – quel poco ancora integro, quel poco non insanguinato
– del
gatto. E anche se Ramiel aveva dato il permesso di salvarlo, e anche
se l’altra Ramiel l’aveva guarito, e anche se poi
era diventato
più nero e meno rosso, comunque rimaneva
l’angoscia. La rabbia.
Nera, la immaginava quella rabbia, perché rosso era
già l’orrore.
C’era
l’azzurro del
cielo a cui aveva alzato gli occhi, un azzurro spietato e
indifferente, che non si tingeva di grigio e non si bagnava di
pioggia. Non per il dolore di un gatto. Non per la crudeltà
di un
bambino. Non per le lacrime di un cherubino. Dov’era
l’amore,
dov’era la compassione?
C’era
la voce
distaccata di Ramiel che ordinava di andarsene, senza un accenno di
dolcezza, senza una rassicurazione. Era brava a nascondere le
emozioni, la donna, ma Amitiel non lo sapeva: per lei, quella voce
aveva solo il colore del cristallo – un bagliore trasparente,
abbagliante, impietoso. L’avrebbe paragonata al ghiaccio, se
l’avesse conosciuto.
I
colori si mordevano
l’un l’altro, ferendo il suo animo nero di rabbia e
rosso
d’orrore.
***
Angolo autrice
Grazie per letture e preferiti/seguite/ricordate. State
diventando sempre di più *^* E, come sempre, un
ringraziamento speciale a chi commenta! Se avete
dubbi/consigli/critiche, sarò ben felice di rispondervi.
Se trovate ripetizioni di frasi/verbi a poca distanza, sono volute.
Amitiel è troppo sconvolta per non avere pensieri monotoni,
quasi circolari.
Al prossimo aggiornamento!
|
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Capitolo 13 *** 12. Pensiero ***
Capitolo
12 – Pensiero
Il
tempo vorticava impazzito, si addentava la coda come un serpente
folle e Amitiel si diceva che forse il veleno sarebbe riuscito a
consumarla, quell’estremità maledetta, senza
lasciare nient’altro
che un ricordo dimenticato. Una cicatrice liscia.
Era
solo nei momenti più deliranti che la sua mente riusciva a
concepire
ossimori come quello, troppo adulti perché potessero
appartenerle
davvero: quando il dolore dell’Espiazione minacciava di farla
impazzire, quando l’angoscia di un incubo che non avrebbe
dovuto
esistere la schiacciava, quando lo stordimento lasciava il posto ad
una realtà troppo violenta.
E
quando il tempo vorticava impazzito. Quella coda se la sarebbe morsa
fino a strapparla via, magari, serpe sconvolta che si faceva del male
pur di dimenticare.
Pregava di poter
anche lei cancellare gli ultimi attimi dalla memoria, di lacerare i
ricordi e perdersi tra i flutti del tempo – presente e futuro
ma
passato no, perché passato era crudeltà dolore
morte. La vita era
arrivata troppo tardi e troppo sofferente per poter scacciare
l’orrore, e non importava che fosse solo un gatto, che fosse
solo
un attimo, che quasi non
fosse. Faceva male comunque.
La
luce abbagliante del sole e il rosso intenso del sangue avevano
ceduto il passo, davanti ai suoi occhi, a tinte morbide e ad
un’ombra
umida; nel mezzo, ricordava appena l’azzurro feroce del
cielo,
prima di giungere all’oscurità pietosa e riposante
del bosco.
Sempre che vi fosse davvero stato, quell’azzurro: era una
constatazione logica, che avessero volato fino a lì, ma
forse il
lampo turchino era stato solo lo sguardo gelido di Ramiel e in
realtà
si erano trovati nel bosco senza fare nulla, trasportati dai flutti
folli del tempo. In fondo non ricordava il sollievo della luce calda,
o la carezza consolatoria del vento; solo le proprie mani lorde di
sangue, e poi un lembo di terra nera.
Stava
delirando, rannicchiata tra le radici di un albero, le ginocchia
strette al petto. Tra le cosce appena dischiuse, una striscia di
suolo – umido, nonostante il sole implacabile che inondava la
pianura – accoglieva il suo sguardo, senza ferirlo con tinte
troppo
accese o luminose.
Aveva
paura di alzare gli occhi. Di vedere una lama di luce filtrare tra le
fronde ingiallite, per rischiarare con spietata nitidezza anche
quell’angolo quieto. Di scorgere i capelli rossi di Ramiel,
le ali
dei Cherubini, le macchie sulle proprie mani.
Di
trovare l’azzurro gelido degli occhi
dell’insegnante, o di
cercare quello di Anane, più comprensivo, più
affettuoso, che in
quel momento non c’era. O di desiderarne un altro ancora,
sconosciuto, lampo celeste che talvolta le faceva visita nei sogni
–
che, quando estendeva le Percezioni in Paradiso, sembrava guidarla
verso un punto preciso e poi dissolversi all’improvviso,
lasciandola persa tra mille essenze che non riusciva a distinguere,
con una malinconia amara e un senso d’incompletezza lacerante.
Ma,
ancor di più, voleva Michael. Voleva i suoi occhi grigi,
l’attenzione con cui l’ascoltava, la vaga
preoccupazione che
s’intuiva nel tono; il suo collo freddo contro cui
abbandonarsi e
le ali da arcangelo che ritirava nell’avvicinarsi a lei, per
non
ferirla con le piume affilate. Voleva ciò che rappresentava,
in
realtà – l’interesse, il conforto, la
curiosità, il fascino
conturbante del proibito –, ma l’aveva conosciuto
solo con lui e
in lui, quindi, lo identificava. Michael.
«Amitiel,
giusto?» la chiamò qualcuno.
Alzò
gli occhi: era Ridwan, inginocchiato di fronte a lei. Sapeva bene
come si chiamava, ma aveva attirato la sua attenzione con i soliti
modi discreti, anonimi – com’era lui stesso,
d’altronde, con le
ali da angelo e la fascia azzurra dei Custodi, i capelli castani e lo
sguardo gentile, la bassa statura e le mani esili, quasi da donna,
sempre pronte ad accennare una carezza. Gli sorrise debolmente, un
po’ rincuorata dalla sua delicatezza.
«Anane?»
gli chiese subito, perché Anane era Anane ed era anche la
possibilità di vedere Michael.
«Più
tardi.» le sfiorò i capelli, rassicurante
«Se non ti senti bene,
posso chiedere alla tua insegnante di allontanarmi con te per un
po’.»
«No,
no, io...» declinò istintivamente «Non
ce n’è bisogno, ma
grazie comunque.»
«Ne
sei sicura?»
«Sì,
grazie, davvero, ma-»
«Ridwan,
lasciala stare, non è tuo dovere insistere
così.» mormorò un
arcangelo alla loro destra, a voce sufficientemente bassa da non
essere udito da nessun altro. Dovevano avere comunque molta
familiarità, perché uno accettasse di essere
contraddetto in
presenza di un cherubino.
«Mi
sembra scossa, Gabriel, ed è nostro dovere»
sottolineò le ultime parole imitando la voce profonda
dell’altro
«assicurarci che i Cherubini stiano bene.»
«Ce
n’è un’altra
che sta peggio, vai da lei, di questa mi occupo io.»
«È
un’amica di
Anane.»
«E
quindi?»
Ridwan
sospirò e le
sorrise, rassicurante, poi si alzò e raggiunse il cherubino
in
lacrime indicatogli dall’arcangelo. Anche i loro compagni
– due
Custodi e un Guardiano – erano chini sugli allievi, intenti a
tranquillizzarli goffamente, o almeno a rendere le loro essenze meno
sconvolte ed evidenti. Ramiel invece rimaneva in piedi al centro
della radura, gelida, priva di tutta l’abituale
cordialità.
«Bene,
cherubino.»
sbuffò l’arcangelo rimasto lì, Gabriel
«Parla.»
Non
s’inginocchiò
accanto a lei, ma rimase a fissarla dall’alto,
l’espressione
insofferente e una spalla appoggiata al tronco contro cui era seduta.
Non proprio il modo migliore per rassicurarla.
«Il
gatto.» trovò
appena il coraggio di mormorare, in soggezione.
«Oh,
il gatto.
Naturalmente.» guardò al centro della radura,
liberandola dal peso
del suo sguardo chiaro «La tua insegnante ne
parlerà tra poco, non
è mio dovere. Devi solo aspettare.»
Aspettare.
Quanto?
Quanto avrebbe dovuto passare, con il rancore a roderle il petto e i
dubbi, il dolore, il ricordo del sangue sulle proprie mani?
«Il
gatto.» mormorò di nuovo, notando che il sangue
sulle mani non era
un ricordo – non era riuscita a pulirle bene sulla divisa,
perché
il tessuto non si sporcava facilmente. Per quanto avesse sfregato, le
era rimasta qualche traccia scarlatta sui palmi, e faceva
così
schifo.
L’arcangelo
si passò
una mano tra i capelli biondo cenere, poi piegò le ginocchia
e si
sedette sui polpacci, abbassandosi all’altezza del suo viso.
Amitiel tornò a fissare la striscia di terra che intravedeva
tra le
proprie gambe, a disagio, ma l’uomo le ordinò
seccamente di
guardarlo e a lei non restò che obbedire.
«Ascolta,
cherubino.»
«Sto
ascoltando.» gli
fece notare, poiché lui non aggiunse altro.
«No,
tu stai pensando.
E, credimi, pensare non ti servirà a niente. Non riuscirai a
venirne
a capo nel modo giusto.»
«Non
posso non
pensare.»
«Puoi.
Dimostrati più
matura di una ragazzina umana, cherubino. Noi non
ci lasciamo
ossessionare da un gatto quasi morto; noi le
superiamo, queste
cose – noi superiamo tutto. Come potremmo vivere per
l’eternità,
altrimenti?»
Improvvisamente
Amitiel
invidiò la caducità degli Umani.
«Non
posso non
pensare.» ripeté «Quel gatto stava
morendo. Lo stavano
uccidendo.»
«E
Ramiel pensa che
saresti una buona Guardiana.» mormorò tra
sé l’uomo, scuotendo
la testa «Se t’impressioni per un gatto non
morto...»
«Lo
stavano
uccidendo!»
«Porta
rispetto,
cherubino.» ringhiò, irritato dal suo tono di voce
«E non pensare:
ti distrarrebbe. Ascolta e impara, come ogni allievo.»
«Ma
il ga-»
«Non
è mio dovere
farti da balia. Vuoi distruggerti per un gatto? Bene.» si
distaccò dal tronco
«Cerca di non disturbare la lezione, almeno.»
Lei
rimase in silenzio,
lo sguardo fisso sullo scorcio di terra tra le proprie gambe.
‘ Non
pensare. Ascolta e basta. Lascia che il tempo scorra e si porti via
tutto.’
Ma
il tempo non
scorreva più, non avanzava, si avvolgeva su sé
stesso in spire
vischiose di sangue.
‘ Strappati
la coda, serpente.’
Gli
Angeli, per
sopravvivere ad un’esistenza infinita, dovevano piegarsi agli
eventi. Ignorare, dimenticare, perdonare. Accettare.
‘ Forse
io non sono fatta per l’eternità.’
Guardiani
e Custodi si
allontanarono dai Cherubini per circondarli, vigili, gli occhi chiusi
e le Percezioni estese il più possibile. Di fronte al
semicerchio
che gli allievi avevano formato per abitudine, Ramiel iniziò
a
parlare con voce fredda, acuta, blaterando parole senza sentimento.
Amitiel
alzò lo
sguardo dal terreno per puntarlo sul viso spigoloso
dell’insegnante,
ma la sua mente vagava ancora in un nulla imbrattato di sangue.
Ascolta, continuavano ad ordinarle mille voci
diverse – il
Guardiano, le Custodi che l’avevano educata, gli insegnanti
che
aveva avuto, l’abitudine. Non pensare. Ascolta.
E ancora i
pensieri le strisciavano dentro, e le domande sibilavano dubbi al suo
orecchio, e una nausea profonda si annidava dentro di lei.
E
il gatto continuava a
perseguitarla, con il suo unico occhio pieno di panico e dolore.
E
Ramiel parlava,
parlava, parlava.
La
sua voce colpiva,
gelida, violenta come uno schiaffo in pieno volto. Se il tono si era
addolcito, Amitiel non lo notò, troppo concentrata nel
capire il
senso del suo discorso, o nell’accettarlo.
Era
colpa degli
Sconsacrati, diceva. Corrompevano la già fragile natura
degli Umani,
li allontanavano dalla purezza ispirata dagli Angeli, legavano a
sé
le loro anime e impedivano loro l’accesso al Paradiso
– o alla
rinascita, se non si erano mostrate degne e necessitavano di una
seconda possibilità.
Dovevano
avere
compassione degli Umani, i figli più deboli e insicuri di
Dio, così
corruttibili in confronto al candore angelico. Dovevano guidarli
verso il giusto, combattere gli Sconsacrati avidi delle loro anime,
impedire che fossero trascinati negli Inferi.
«La
vostra essenza è
colma di compassione per quell’animale e ciò vi fa
onore.»
ripeteva continuamente Ramiel, come il ritornello di un canto
«Ma
gli animali, ricordatelo, non hanno anima né essenza. Godono
della
sola vita terrena, mentre noi dobbiamo occuparci di quella
spirituale. Compatite quei ragazzini, piuttosto, che spinti dalla
loro natura corruttibile si divertono con le sofferenze altrui; e
pregate perché il sudicio influsso degli Sconsacrati non
offuschi la
guida dei Veglianti, perché le loro anime possano
allontanarsi dai
vizi umani, perché preferiscano la purezza al peccato.
Compatite,
pregate. Perdonate.»
Perdonare.
Ma
perché perdonare?
Nei brevi attimi in cui il corpo devastato del gatto smetteva di
ripresentarsi ai suoi occhi, Amitiel riusciva a recuperare la
lucidità necessaria a chiederselo, ma non a trovare una
risposta.
Perché perdonare quei ragazzini che ridevano esultavano
uccidevano?
Perché per gli Angeli vi era l’Espiazione al
minimo errore, mentre
per gli Umani il perdono? Perché dare loro una nuova
possibilità, e
poi un’altra e un’altra ancora, infiniti cicli che
l’anima
poteva vivere, fino a che non si fossero dimostrati degni del
Paradiso?
Perché,
perché,
perché. Voleva risposte, Amitiel – chiamata come
l’angelo della
verità; come l’angelo condannato a bruciare
nell’Espiazione sino
ad estinguersi, per essersi opposto alla creazione degli Umani. Vi
era un che di profetico, a volte, nei nomi assegnati ai Cherubini.
«Amitiel.»
la
richiamò l’insegnante, notando la sua
disattenzione «Cosa ne
pensi?»
«Non
devo pensare: mi
distrarrebbe. Devo ascoltare e imparare, come ogni
cherubino.» le
rispose subito, guidata dall’abitudine, celando i propri
dubbi
dietro un tono neutro.
Ramiel
annuì,
soddisfatta, e tornò a ribadire gli stessi concetti con le
stesse
parole. Non vi era nulla di strano in quella ripetizione: ogni
classe, ogni lezione, ogni attimo di vita dei Cherubini era scandito
da cicli ripercorsi all’infinito. Dovevano divenire attori di
un’opera imparata a memoria e mai variata.
Amitiel
scosse la
testa, infastidita. Non riusciva a dare forma a quelle riflessioni,
troppo distratta dall’orrore e troppo condizionata dalla
propria
educazione, ma le sentiva, e non era piacevole
– dubbi e
timide obiezioni che la rodevano da dentro, facendosi strada in lei a
piccoli morsi di coscienza.
‘ Non
devo pensare. Certo, l’ha detto anche il Guardiano: pensando,
mi
complico le cose e basta. Mi distraggo. Mi faccio del male. Mi agito
per trovare una risposta, senza riuscirci. Non. Devo.
Pensare.’
Rifletti,
le ingiungeva un’altra voce, più vibrante,
più aggressiva. Più
viva. Aveva il timbro profondo di Michael, il suo tono rabbioso, era
come averlo di nuovo lì a strattonarle la treccia ed esporle
il
collo. Temeva di incontrarlo, le parole che avrebbe potuto
ringhiarle, le certezze che avrebbe distrutto; e al contempo lo
voleva, con un’intensità così disperata
da stringerle lo stomaco.
Ma voleva lui, o
voleva semplicemente risposte? Lui,
o le attenzioni che nessun altro le aveva mai concesso prima?
Quella
confusione, le
avrebbe detto un adulto, era il chiaro segno che non riusciva a
pensare nel modo giusto, perché finiva solo per smarrirsi
tra mille
riflessioni diverse. Amitiel, pur ripetendoselo, non riusciva a
convincersene davvero, né a smettere di farlo. Lo Specchio
avrebbe
dovuto insegnarle a mettere a tacere la mente; lo Specchio, con lei,
aveva funzionato male in molti modi.
Il
pensiero, ottenuta
la libertà, ha la terribile mania di non volervi
più rinunciare.
* * *
«Potete
alzarvi.»
I
Cherubini scattarono
in piedi, irrequieti per la lunga immobilità. Non parlarono,
perché
non era stato loro permesso, né si allontanarono; solo
alcuni
mossero qualche passo indietro, per recuperare le borse abbandonate
sull’erba.
Sul
viso di tutti,
un’espressione serena dimostrava che Ramiel aveva saputo
svolgere
il proprio compito, o che gli allievi sapevano fingere bene. Ma
nessuno avrebbe mai potuto pensare questo, perché
l’innocenza e la
trasparenza dei Cherubini non potevano essere messe in dubbio. Se ad
un allievo tremavano le ali, doveva essere per la stanchezza; se
un’altra teneva gli occhi bassi, si apprezzava il suo pudore
nel
non fissare in volto un adulto, e non vi era motivo di credere che
volesse invece nascondere il proprio sguardo.
Amitiel,
i lineamenti
congelati nell’espressione distesa che da tempo aveva
imparato ad
assumere, sperava che nessuno si preoccupasse di controllare anche le
loro essenza. Era consuetudine degli insegnanti osservarle, per
accettarsi che fossero tutti calmi e attenti, ma forse nella
dimensione umana Ramiel non avrebbe perso tempo: troppi possibili
imprevisti, troppi pericoli, troppe presenze estranee per prestare
attenzione alle essenze dei Cherubini. Avrebbe potuto gettarvi
un’occhiata per abitudine, se avesse incrociato lo sguardo di
un
allievo, ma in caso contrario non avrebbe certo distolto le
Percezioni dall’esterno per verificare che fossero davvero
calmi.
Amitiel
lo sperava,
almeno, con gli occhi bassi e i lineamenti atteggiati ad una quieta
serenità. Non aveva idea di come controllare
l’essenza e darle una
parvenza di pace – non riusciva nemmeno a percepirla, e non
sapere
se fosse quieta o vorticante, limpida o torbida, la faceva sentire
esposta. Se qualcuno avesse esteso le Percezioni verso di lei, si
sarebbe tradita senza nemmeno accorgersene.
Non
credeva di essere
l’unica a sentirsi ancora turbata, però, e questo
la confortava un
po’. Ramiel – la compagna – sembrava
distesa, tranquilla, ma in
altri aveva colto un barlume d’irrequietezza. Erano trascorsi
almeno quattro tramonti da quando si erano riuniti nella radura,
l’insegnante aveva ripetuto decine di volte le stesse parole,
molti
se n’erano convinti – molti,
non tutti. Alcuni rivedevano
ancora quel massacro, il dolore del gatto, la morte che era arrivata
a sfiorare l’animale.
Avevano
conosciuto la
caducità degli esseri viventi nel modo peggiore, e la
crudeltà
degli Umani, la loro morale alterata, proprio nel periodo della loro
maturazione in cui avevano più bisogno di esempi
irreprensibili. La
voce gelida dell’insegnante, abituata a classi più
avanzate, non
aveva offerto loro alcun conforto; Guardiani e Custodi, poco avvezzi
ai Cherubini, non erano riusciti a rassicurarli.
Erano
stati
sopravvalutati, era stato loro mostrato qualcosa da sempre destinato
ad allievi più maturi, e che loro quindi non avevano potuto
comprendere. Troppo acerbi, ancora, per compatire e perdonare. Troppo
umani.
«Ora
potete
rilassarvi, Cherubini.» concesse Ramiel, tornata vagamente
sorridente «Stiamo richiamando gli allievi del ciclo
superiore,
saranno qui a breve. Hanno già concordato con i Custodi ogni
cosa,
voi dovrete solo seguirli. Non sarete più distratti dalle
essenze
dei compagni, abbiamo risolto adottando anche per la quinta classe
un’organizzazione a coppie – più isolati
di così non posso
permettervelo, se persino un solo compagno del ciclo superiore vi
deconcentra, dovrete adeguarvi comunque.»
S’interruppe
per
ascoltare qualcosa che un Guardiano – sempre il solito con
cui
parlava ogni volta – le stava sussurrando, poi
annuì, riflessiva.
Mormorò qualcosa di simile a «Pensaci tu,
Gabriel.» e, senza una
parola agli allievi, s’inoltrò tra gli alberi con
Ridwan.
«Per
chi non lo
ricordasse, o per chi fosse stato promosso di recente»
continuò in
sua vece il Guardiano, ignorando i loro sguardi confusi
«sarà
vostro dovere esercitarvi nelle Percezioni. La dimensione umana
è
particolarmente adatta a svilupparle e acuirle, ma la presenza di
altri Angeli può risultare molto disturbante,
perciò vi isolerete
il più possibile. Sarete comunque accompagnati da un allievo
del
ciclo superiore, per la vostra sicurezza, e i Custodi si
avvicineranno periodicamente a controllare che non vi sia nulla di
irregolare; anche se è improbabile che ve ne siano, prestate
attenzione e segnalate ai Custodi qualsiasi anomalia. Rimanete nel
luogo concordato e non avvicinatevi alle zone sorvegliate dai
Guardiani. Vi richiameremo tra circa quindici tramonti, organizzate
bene il vostro tempo.»
Amitiel
si sentì
tremare. Aveva bisogno di Anane e aveva bisogno di Michael –
di
parlare, confrontarsi. Aveva bisogno di dare un senso
all’indignazione che provava al pensiero che gli Umani,
sbagliando,
ricevevano una seconda possibilità, e una terza e una
quarta,
infinite vite in cui fare del male finché non fossero stati
degni
del Paradiso. Aveva bisogno di comprendere l’odio che sentiva
serpeggiare e sibilare in fondo all’animo, lei, che era stata
educata ad amare – l’odio è per gli
Umani e gli Sconsacrati, gli
Angeli perdonano e compatiscono; e puniscono, quando questa
è la
volontà di Dio, ma solo in quel caso. Stava esulando da
ciò che le
avevano insegnato, tra sentimenti da non provare e pensieri da non
formulare.
Voleva
solo che
qualcuno le dicesse che era normale, che era giusto.
Sussultò
quando
qualcuno le toccò un braccio. Non aveva avvertito nessuno
avvicinarsi, anche se già alla quinta classe molti Cherubini
iniziavano ad avere vaghe impressioni delle presenze attorno a
sé,
senza doversi concentrare intenzionalmente sulle Percezioni: era
ancora lontana dall’abilità di un adulto. E gli
adulti – le
avevano insegnato – non avevano solo capacità
più sviluppate, ma
anche una maturità che permetteva loro di comprendere, di
giungere
alle giuste conclusioni; lei, ancora così inesperta, come
poteva
avere la presunzione di credere che il proprio pensiero fosse
corretto?
Ma
come poteva avere la
certezza che fosse sbagliato, in fondo?
Qualcuno
la toccò di
nuovo, scuotendola per un braccio.
«Amitiel?
Stai bene?»
Alzò
lo sguardo,
incontrando quello di Anane. E Anane significava anche Michael.
Annuì,
sollevata, con
un sospiro tremulo. Ebbe l’impulso di abbracciarla,
perché non si
vedevano da tempo, ma dimostrazioni d’affetto così
evidenti non
erano opportune in pubblico, perciò si limitò a
prenderle la mano e
a stringerla con un sorriso. Anane sfregò la guancia contro
i suoi
capelli e sbuffò: «Non hai usato gli oli. Non
hanno odore.»
«Non
ne ho avuto il
tempo.»
«Sì,
ho notato. Non
avevi nemmeno il tempo per la tua vecchia amica...»
singhiozzò
teatralmente, nascondendo a fatica un ghigno «Non mi
dimenticherai
per quelle della quinta classe, vero?»
«No,
ma se passo di
classe in tempo e mi ritrovo di nuovo con Cassiel, potrei eleggere
lei a mia nuova migliore amica.»
«Così
mi ferisci. La
mia vecchia mente potrebbe non reggere al colpo...»
«Ho
trovato il modo di
liberarmi di te?»
L’occhiata
severa di
un Custode le convinse a tornare in silenzio. Ascoltarono le ultime
ripetitive raccomandazioni, poi la ventina di fasce grigie del ciclo
superiore si alzò in volo, seguita dai compagni
più immaturi.
Presero direzioni diverse, a gruppi, dividendosi sempre di
più man
mano che sorvolavano il bosco. Quando infine rimasero a coppie,
Amitiel si rese conto che Anane era riuscita a farsi assegnare uno
dei luoghi più estremi dell’immenso territorio
concesso per la
lezione, lontano dai Custodi e dai Guardiani – a malapena si
scorgeva la sagoma di un adulto, in lontananza, e un’altra
coppia
di allievi diretta verso la propria zona. Il terreno non era
più
pianeggiante, ma risaliva le radici delle colline in un dolce pendio,
coperto da una fitta vegetazione che si schiudeva talvolta in qualche
radura.
Discesero
tra gli
alberi, in una delle zone più coperte, senza una parola:
Anane le
aveva fatto cenno di tacere fin da prima che rimanessero sole, gli
occhi socchiusi in un’espressione concentrata. Amitiel, un
po’
offesa per quel silenzio dopo che non si vedevano da interi cicli,
atterrò più pesantemente del necessario
sull’erba giallastra e
sbuffò, sperando che l’altra le rivolgesse
finalmente attenzione.
«Siamo
un po’
lontani.» mormorò la più matura,
pensierosa, guardandosi intorno.
«Cosa?»
«Niente,
parlavo tra
me e me.» scosse le spalle «Ora richiamo
Eisheth.»
«Devi
proprio?»
chiese con una smorfia. Quella donna non le piaceva per niente, era
falsa, affettata, e aveva sperato di non doverla rivedere – e
poi
diceva di essere madre di Anane, quando non era
assolutamente
possibile perché Anane non era abbastanza antica per essere
nata da
un’unione, e si divertiva a turbarla sottolineando quella
presunta
parentela di continuo. Anche il cherubino aveva confermato il legame,
ma non lo ricordava, o preferiva non farlo: convincersi che Eisheth
mentiva era di gran lunga più comodo.
«Non
vuoi?» Anane si
voltò di scatto verso di lei «Avevi detto di
sì, e ormai abbiamo
organizzato tutto, non è...» affondò i
denti nel labbro inferiore
e si lasciò sfuggire un sospiro tremulo «Ma se
davvero non vuoi...
posso parlare con Eisheth, ma Michael, ora che è
così tardi...
potrebbe non... gradire.»
Torturava
la divisa con
le dita, parlava con voce incerta. Era in ansia. Ma perché?
Michael
se la sarebbe presa con Anane, se lei avesse cambiato idea? Per
questo temeva un suo rifiuto?
«Tranquilla.»
la
rassicurò, senza più avvertire alcuna irritazione
«È solo che
Eisheth non...»
Fece
un gesto vago con
la mano, per non sbilanciarsi troppo. Anane non le era apparsa in
buoni rapporti con la madre – ricordava
ancora il suo pianto
isterico, le sue parole velenose – ma si affidava comunque a
lei, a
quanto sembrava, ed esprimendo ciò che pensava di Eisheth
temeva di
offenderla.
«È
una persona
particolare, sì. Molto irritante. Ma credo di esserle
affezionata,
in fondo... se non altro per tutte le volte che mi ha salvato le ali
da Michael.» si esibì in una mezza risata
divertita «Scusa, ora
devo concentrarmi.»
Anane
chiuse gli occhi,
una mano alzata a chiederle silenzio, le labbra che mormoravano
qualcosa – il nome di Eisheth, forse. Rimase così
per diverso
tempo, interrompendosi un istante solo per dirle: «Esercitati
nelle
Percezioni, intanto, o si accorgeranno che abbiamo perso molto
tempo.»
Amitiel
era certa di
essere troppo agitata per riuscirvi: stava per vedere Michael
– ed
Eisheth, sì, ma aveva relegato quel dettaglio in un angolo
della
mente –, stava per parlare, chiedere, dare un senso alle
confuse
emozioni che ancora sentiva agitarsi dentro di sé; come
poteva
concentrarsi su qualcosa di tanto noioso come le Percezioni?
Seguì
comunque il suo
consiglio, più per abitudine che per reale intenzione.
Chiuse gli
occhi a sua volta e si accoccolò tra le radici di un albero,
un po’
stanca per la lunga lezione. Doveva raccogliersi, ignorare
ciò che
aveva dentro per captare tutto ciò che era fuori, cercare di
identificare ciò che avvertiva. Non le avevano spiegato
altro,
perché la teoria era, in effetti, molto semplice; le
difficoltà non
sorgevano nella comprensione, ma nell’applicazione. Riusciva
a
fatica ad avvertire le presenze più vicine, identificarle
era ancora
pura utopia – e poi c’era qualcosa che la
distraeva, a volte,
guidandola verso di sé e abbandonandola prima che vi
giungesse,
lasciandola persa tra presenze troppo distanti, che la confondevano e
la stancavano. Non sapeva se fosse normale, né che cosa
attraesse
così tanto le sue Percezioni: non aveva osato chiedere
chiarimenti,
per timore che la sua domanda non fosse ben accetta. Probabilmente
erano solo i Fuochi, che la spingevano verso la Città senza
riuscire
a fargliela raggiungere, ancora troppo immatura per arrivare
così
lontano. Nella dimensione umana forse sarebbe andata meglio, si
disse, salvo poi rimproverarsi perché non doveva dirsi
niente –
doveva solo smettere di pensare e trovare la calma necessaria.
Si
riteneva una persona
ottimista, ma non arrivava a sperare davvero di riuscirvi.
Inaspettatamente,
invece, dopo poco si sentì scivolare verso la quiete.
Avvertì la
presenza di Anane vicino a sé, intensa, disturbante: non era
come
vederla o toccarla, semplicemente sapeva che era
lì, e le
dava fastidio al capo, come uno stridio – no, dava fastidio a
tutto
l’ambiente. L’essenza di Anane non apparteneva a
quel mondo, le
sue Percezioni lo coglievano e glielo trasmettevano. Se si fosse
trovata in mezzo agli altri Cherubini, probabilmente non avrebbe
sopportato quel malessere.
Eppure,
in qualche
modo, trovava più semplice estendere le Percezioni. La vita
pulsante
del Mediano la attirava, le facilitava il compito, riusciva quasi a
distrarla dalla stridente essenza di Anane. Avvertiva
qualcos’altro
oltre al cherubino, miriadi di presenze insignificanti e confuse tra
loro, in qualche modo più passive, meno importanti
– animali,
forse, perché le trasmettevano un istintivo disinteresse. La
sua
essenza voleva altro, si tendeva alla ricerca di vita senziente, di
anime umane; ma i villaggi erano troppo lontani, Anane troppo
disturbante, lei troppo inesperta, perciò vagava senza
trovare
qualcosa su cui concentrarsi. Solo per un attimo le sembrò
di
avvertire un’anima umana, non troppo distante, prima che
l’essenza
dell’altro cherubino la distraesse di nuovo; era stata una
sensazione stana, un sussurro delicato che le diceva che
c’era
qualcuno e che apparteneva a quella dimensione, ma era scomparsa
subito.
E
qualcosa,
all’improvviso, la attrasse verso di sé. La
strappò alla
stridente presenza di Anane, alle altre innumerevoli che non le
interessavano, a quell’unica umana che le aveva sfiorato la
mente;
uno squarcio, le sue Percezioni sradicate brutalmente e trascinate
lontano, da qualche parte che non riusciva a capire, verso qualcuno
che non riusciva a riconoscere.
Faceva
male, dentro,
più a fondo di pelle carne ossa, come se un artiglio gelido
stesse
lacerando la sua mente squassata dal dolore.
Si
ritrovò a
boccheggiare, reazione inutile quanto istintiva; avrebbe inarcato la
schiena, spalancato le labbra in un urlo muto, se avesse avuto ancora
controllo del suo corpo, ma non riusciva neppure a percepirlo
–
c’era solo quell’artiglio che la squarciava, quel qualcosa
che la attirava a sé con violenza, ed era peggio dello
stridio
dell’essenza di Anane, era peggio dell’Influenza di
Eisheth, e
non era più nemmeno una sensazione, era lei stessa che si
dibatteva
e urlava e in realtà non si muoveva, perché
esisteva solo la sua
mente, lesa squarciata distrutta.
«È
ferita.»
«Quanto
manca
all’alba?»
«Poco.»
«Non
voglio
morire.»
«Rinascerai.»
«Non
voglio
morire!»
«Ti
ricorderò? Ti
ricorderò, vero?»
«...sì.»
«È
ferita.»
«Amitiel?
Amitiel!»
mani a scuotere quel corpo che non percepiva più
«Madre, non
reagisce!»
«Non
temere, cara,
dev’essere il Mediano. Può fare
quest’effetto.»
Mani
più piccole,
tiepide, a sfiorarle le tempie.
«Cosa
succede, madre?»
«Sta
ricordando, cara.
Sta pensando.»
Ferita.
Ferita.
Ferita.
Occhi
azzurri.
Ferita.
Ferita.
Ferita.
Occhi
grigi.
Ferita.
Ferita.
Ferita.
Fiamme.
Ferita.
Ferita.
Ferita.
«Conosci
la
leggenda della fenice?»
***
Angolo autrice
Grazie per letture e
preferiti/seguite/ricordate e, come sempre un grazie enorme a chi
commenta!
Come vedete, ho personalizzato parecchio la "vita dopo la morte". Non
esiste il Purgatorio, ma una seconda - infinite -
possibilità, se l'anima non viene conquistata dagli
Sconsacrati. Gli amanti della tradizione non me ne vogliano, era una
cosa troppo da miei
Angeli per non inserirla. Verrà spiegata meglio
nei capitoli seguenti.
A domenica prossima!
|
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Capitolo 14 *** 13. Scelta ***
Capitolo
13 – Scelta
La
tiepida acqua nelle vasche era cristallina, rilucente al chiarore
senza provenienza del Paradiso. Dei larghi gradini di pietra
scendevano dal bordo candido – al livello del pavimento
– fino al
fondo, permettendo così alle visitatrici delle terme
d’immergersi
più comodamente. Su uno di essi era seduta Leliel, immersa
fino al
ventre, composta come ad una riunione ufficiale: ormai assuefatta a
tale atteggiamento, non abbandonava il proprio contegno nemmeno sola.
I capelli biondi raccolti sulla nuca con uno spillone, la schiena
spoglia – sorprendentemente priva di cicatrici – e
dritta, le
mani intrecciate sul ventre, sembrava quasi temere una visita
improvvisa, mentre in realtà quella nicchia delle terme era
riservata alle Autorità: la sua pace non sarebbe stata
disturbata,
poiché era l’unica donna in un collegio di uomini
– prima
in un collegio di uomini, pensò con un moto
d’orgoglio.
Solo
la sua allieva poteva talvolta accedervi, con il suo permesso. Era
una di quelle occasioni.
Percepì
la sua essenza avvicinarsi, calma ed imperscrutabile come le aveva
insegnato ad essere, e poco dopo il rumore dei suoi passi regolari
risuonò nel corridoio. Non vi erano porte, alle terme, ma la
vasca
di quella nicchia era sistemata in modo che dall’ingresso non
si
scorgesse nulla – riserbo concesso solo alle
Autorità e, in
un’altra sala, ai Censori. Perciò
l’allieva si fermò
rispettosamente prima dell’entrata, come avrebbe fatto con un
uscio, e disse con voce distaccata: «Eccomi,
maestra.»
Leliel
si sciolse i capelli, che ricaddero fin oltre le scapole, nascondendo
la mancanza di cicatrici alla schiena. Posato lo spillone sul
pavimento asciutto, come se lo avesse tolto prima
d’immergersi, la
inviò ad entrare. L’allieva, con la pelle chiara e
la chioma
bionda umide, era avvolta in un telo bianco: prima di accedere alle
sale con le vasche bisognava spogliarsi e sciacquarsi, per non
portare polvere all’interno, anche se non si aveva intenzione
d’immergersi.
«Hai
terminato prima del previsto.» le fece notare Leliel,
voltando
appena il capo verso di lei.
«Gli
Strateghi si sono mostrati molto disponibili nel fornirmi le
informazioni di cui necessitavo.» esitò
«Ho sbagliato nel venire a
cercarti? Desideravi rimanere sola?»
«No,
Sachiel, non temere. Il tuo zelo è lodevole.»
«Ti
ringrazio, maestra.»
«Come
ti sono sembrate le mansioni degli Strateghi?»
Un’altra
esitazione, che l’avrebbe forse fatta sorridere divertita, se
quelle continue incertezze non fossero state biasimevoli in un
cherubino dal talento di Sachiel. Conosceva la sua allieva e sapeva
già cos’avrebbe pensato nel vedere da vicino
l’attività delle
fasce indaco.
«Sono
ammirata e onorata per l’esperienza e la serietà
delle nostre
guide.»
«Ma?»
La
vide mordersi il labbro inferiore. L’avrebbe rimproverata per
quella dimostrazione d’insicurezza, se l’argomento
fosse stato
meno importante; si ripromise, comunque, di farglielo notare una
volta terminato il discorso.
«Ma...
temo che non sia adatto a me. Non ritengo di essere abbastanza
meticolosa e... pronta,
per un incarico del genere.»
«Troppe
responsabilità?»
«Sì.»
«Non
per nulla, gran parte degli Strateghi sono Arcangeli – tutti
i
condottieri sul campo, almeno. Sono i più adatti a guidare.
Mentre
la tua essenza non sembra affatto predisposta a svilupparsi in un
arcangelo, cherubino.»
Sachiel
era una promessa di serafino – una grande, gloriosa promessa
– ma
preferì non dirglielo, volendo mostrarsi per il momento
un’insegnante esigente e severa.
La
giovane chinò il capo senza ribattere, mortificata.
«Non
devi avere timore delle responsabilità, Sachiel.»
«Desideri
che dopo il mio Sviluppo io chieda un apprendistato tra gli
Strateghi, maestra? Mi stai dicendo questo? Perdonami, non
capisco.»
«Desidero
che tu non sprechi le tue potenzialità, ma non ho intenzione
d’importi un ruolo per cui non ti senti adatta. Sei davvero
sicura
di non volerlo?»
«Sì,
io... troppe decisioni, troppe responsabilità,
non...»
«Sachiel,
ti ho già chiesto più volte di parlare in modo
chiaro. Non
farfugliare così.»
«Chiedo
perdono.»
Leliel
represse a fatica un sospiro. Apprezzava l’evidente rispetto
che
Sachiel portava agli adulti – e a lei in particolare, in
quanto sua
insegnante e Autorità –, ma troppo spesso si
traduceva in
incertezza e timore. Non poteva certo farle notare che con i
Cherubini parlava in modo più disinvolto, adatto ad
un’allieva con
le sue potenzialità, perché sarebbe stato come un
invito a trattare
gli adulti con troppa confidenza; a volte, però, avrebbe
davvero
voluto. Così insicura non avrebbe percorso molta strada,
altrimenti,
per quanto fosse talentuosa.
«Porgimi
il telo, Sachiel, per favore.»
L’allieva
si affrettò a raccogliere da terra il tessuto e a
porgerglielo. Lei,
alzatasi in piedi senza pudore – erano tra donne, in fondo,
non
c’era alcuno sguardo lascivo a cui doversi celare
–, lo prese e
se lo avvolse delicatamente intorno al corpo. Quando fosse stato
asciutto, avrebbe stretto il seno nelle fasce che giacevano sul
pavimento, poiché trovava sconveniente esibire le proprie
forme, se
non aveva le ali esposte che le impedivano di avvolgersi il torace
con il tessuto.
Un
tempo, prima che prendesse quell’abitudine, alcuni avevano
insinuato che usasse il proprio corpo fin troppo attraente per
corrompere i suoi superiori e avanzare di grado.
Divenuta
Autorità, li aveva fatti punire uno ad uno per pensieri
impuri –
tanto che in molti si erano chiesti perché non avesse
cercato un
posto tra i Censori, se amava così profondamente accusare e
condannare. Anche questi avevano poi pagato la propria mancanza di
rispetto.
«Tra
gli Strateghi potresti diventare grande, Sachiel.» le
spostò dietro
l’orecchio una ciocca di capelli sfuggita alla crocchia, con
un
contatto che poteva essere sia invito all’ordine sia una
brusca
carezza «Per un serafino, è il primo passo per
divenire poi
Censore, o Autorità.»
«Sono
onorata che tu mi ritenga degna di ambire a tale ruolo,
maestra.»
«Ma
non sono queste le tue aspirazioni.» fece schioccare la
lingua sul
palato, contrariata «Perché vuoi sprecare
così il tuo talento,
Sachiel?»
«Non
credo di essere in grado di... sostenere tutte queste
responsabilità,
maestra.»
«Crescerai.
Maturerai.»
«Avrò
tempo di aspirare a ruoli importanti una volta che sarò
maturata,
maestra.» le rispose con voce conciliante. Diplomatica,
negoziatrice: sarebbe davvero diventata un ottimo serafino.
«A
volte penso davvero che dovresti avere più ambizioni,
Sachiel.»
sospirò, senza più nascondere la propria
disapprovazione.
Il
cherubino chinò il capo, mordendosi il labbro – di
nuovo. Le aveva
ripetuto più volte di non farlo.
«Non
volevo contrariarti, maestra...» esitò per
l’ennesima volta,
prima di dare voce al suo timore più pressante:
«...o deluderti.»
«So
che servirai sempre il Paradiso al meglio delle tue
possibilità, e
le tue possibilità non mi deludono, né mi
deluderanno, se
continuerai ad impegnarti.» si sedette su una delle panche
addossate
alla parete, frizionandosi la pelle con il telo «Il problema,
Sachiel, è che la tua mancanza di fiducia rischia di fartele
apparire minori di quanto siano in realtà. Se non
t’interessano
gli Strateghi, a cosa aspiri?»
«In
realtà non lo so, maestra.»
«I
Serafini hanno ampia scelta.» guardò in viso
l’allieva,
rispettosamente in piedi, composta, a qualche passo da lei
«Eppure,
in realtà, hanno le imposizioni più rigide. Non
possiamo sprecare
l’essenza di un serafino come Custode o Vegliante, o come
Geniere,
o... ma perché te lo dico? Tu non vuoi
responsabilità.»
«Non
voglio deluderti, maestra.» abbassò lo sguardo sul
pavimento umido
«E intendo assumermi le mie responsabilità
– intendo servire il
Paradiso al mio meglio. Temo solo di non essere pronta a guidare
altre persone.»
Troppo
insicura, troppo fragile. Come un effimero fiore della dimensione
umana. Quanto sarebbe durata, dopo lo Sviluppo, senza più la
sua
protezione? Temeva di scoprirlo. Poteva solo sperare che il suo
timore reverenziale verso gli adulti si attenuasse, una volta che
Sachiel lo fosse divenuta a sua volta, o davvero sarebbe rimasta
schiacciata dalle ambizioni altrui.
«Diverrai
un serafino, Sachiel.» le disse con sicurezza, reprimendo a
fatica
un sorriso nel vedere la luce orgogliosa che all’improvviso
le
aveva ravvivato lo sguardo «Non perdo il mio tempo ad
istruire un
allievo perché si sviluppi in un angelo, né
perché lui sprechi le
sue potenzialità. Quindi, nonostante questa tua biasimevole
insicurezza, diverrai un serafino. Questo è fuori
discussione.»
«Sono
onorata dalle tue parole, maestra.»
«Ma
la strada di un serafino è segnata, che tu lo voglia o meno.
L’apprendistato tra gli Strateghi e, ottenuta la fascia,
l’insegnamento, per condividere il proprio sapere. Se hai la
fortuna d’essere promettente, con l’esperienza puoi
ottenere un
posto tra i collaboratori delle Autorità o dei Censori
– e infine
nel loro collegio.»
«Hai...
maestra, hai sempre detto che viene concessa a tutti la
possibilità
di scegliere.»
«Non
se c’è la possibilità che un serafino
compia la scelta
sbagliata.»
«...dovrò
divenire una Stratega?»
«I
Serafini sono troppo pochi per permetterci di sprecarli: molti, molti
meno degli Angeli, e persino meno degli Arcangeli. Ma gli Arcangeli,
se non altro, sono per natura portati al comando e alla lotta; noi
dobbiamo adattarci ad un ruolo che non sempre ci sembra quello
adatto, invece. Essere un serafino è difficile, Sachiel,
perché la
nostra potenza è faticosa da gestire, ma soprattutto
perché ci
vengono richieste decisioni gravose. Sacrifici.»
«...dovrò
divenire una Stratega?» ripeté, con evidente
sforzo nel mantenere
la voce ferma e neutra.
Leliel
si alzò con un inutile sospiro. Fissò
l’allieva, temendo ancora
una volta per il suo futuro; poi, in una dimostrazione
d’affetto
che concedeva assai raramente, le sfiorò la guancia con la
punta
delle candide dita.
«Parlerò
con i responsabili degli Esecutori Spirituali. So che cercano un
apprendista.»
«Ti
ringrazio, maestra.» mormorò l’allieva,
gli occhi lievemente
socchiusi per assaporare meglio il suo tocco, senza riuscire a
mascherare la propria felicità con la dovuta apparenza
distaccata.
Per una volta, però, forse avrebbe potuto rinunciare a
rimproverarla.
«Ma
ultimamente hanno ben poche occupazioni. Si sta spostando tutto sul
piano fisico.» allontanò la mano e
tornò a sedersi, poggiando la
schiena spoglia contro la parete «Perciò, Sachiel,
potrai –
dovrai – avere anche un’altra mansione.»
«Sì,
maestra?»
«Preparati
in fretta, va’ nella dimensione umana.»
accompagnò le parole con
un cenno imperioso della mano, incurante della confusione
dell’allieva per quell’ordine improvviso
«La sesta classe sta
facendo lezione. Dovrebbe essere quasi il momento di dividere gli
allievi, ognuno con un compagno del ciclo superiore. Cerca Cassiel,
una femmina, lineamenti da orientale umana. Secondo gruppo, sotto la
guida dell’angelo Tagas... a meno che non l’abbiano
già spostata
al quarto, dell’arcangelo Khamiel. Pensi di
ricordarlo?»
«Cassiel,
femmina, secondo gruppo, di Tagas, o quarto, di Khamiel. Nel caso di
omonimie, quella con i lineamenti degli Umani
d’Oriente.» ripeté
Sachiel, nonostante lo smarrimento.
«Ottimo.
Di’ al suo insegnante che ti ho ordinato io stessa di
prenderla in
custodia, nel caso sia già accompagnata da un altro
allievo.»
«Posso
chiedere cosa devo fare, maestra?»
«Osservarla.
E comunicarmi, una volta tornata, se secondo te è pronta per
la
settima classe, o eventualmente anche per il ciclo superiore. Non
badare troppo all’incarico che assegnerà
l’insegnante al gruppo,
ti concedo la libertà di metterla alla prova come preferisci
–
sempre nei limiti della vostra sicurezza e della discrezione,
naturalmente. Non deve rendersi conto che è un
esame.»
«Come
desideri, maestra.» esitò, per
l’ennesima volta «Ma... la
seconda mansione di cui mi parlavi? Perdonami, non voglio insistere,
ma temo di non aver capito ciò che intendevi.»
Leliel
si preparò mentalmente a leggere la gioia sul viso di
Sachiel, e non
venne delusa, quando le disse: «Prima di accettarti come
apprendista
insegnante, preferisco metterti alla prova.»
«Ti...
ti ringrazio, maestra.»
«Va’,
ora.»
La
osservò allontanarsi con forzata calma, la schiena spoglia
rigida,
le braccia lungo i fianchi.
...aveva
dimenticato di rimproverarla.
Non
che servisse a molto criticare le sue continue dimostrazioni
d’insicurezza: lo faceva da quando l’aveva scelta
come sua
allieva – un tempo esiguo, rispetto alla durata media del
ciclo
superiore – e ancora non era riuscita ad estirpare quei gesti
istintivi, come toccarsi i capelli o mordersi il labbro.
Nessuno
dei Cherubini che aveva istruito si era mai mostrato così
incerto; e
dire che con i compagni Sachiel era invece così sicura,
così
orgogliosa. Ci rifletteva di continuo, eppure non era ancora riuscita
a trovare un rimedio e l’allieva era ormai ad un passo
dall’età
adulta. Poteva non autorizzarla a svilupparsi, ma per quanto ancora?
Il Consiglio le chiedeva sempre più spesso quando il
cherubino
sarebbe stato pronto. Se avesse ritardato troppo, in attesa che
Sachiel maturasse, le avrebbero ordinato di concederle il permesso
–
un allievo non poteva tentare lo Sviluppo, senza
l’approvazione del
proprio maestro, ma all’insegnante si poteva imporre di
acconsentire.
E
i sussurri! Sachiel forse non li udiva, così ingenua, ma lei
sì –
lei vi era cresciuta in mezzo e poteva immaginare le parole delle
serpi ancor prima che le sibilassero. Un cherubino così
promettente,
perché rallentare la sua gloriosa maturazione? Forse temeva
che i
Censori, nell’esaminare la sua allieva, vi trovassero qualche
vizio? Forse non la riteneva abbastanza dotata da superare la prova?
Forse sapeva che non sarebbe stata in grado di gestire la potenza di
un serafino? Non sarebbe stata certo la prima volta. Come dimenticare
quel traditore, unitosi ai Demoni appena dopo lo Sviluppo? E quello
più recente, l’arcangelo apprendista Stratego, che
non era stato
nemmeno in grado di sopravvivere alla prima incursione nemica?
Ma
d’altronde cosa ci si poteva aspettare da una donna come lei,
senza cicatrici alla schiena? Da una donna così arida da non
permettere nemmeno all’allieva di chiamarla per nome? Da una
donna
con sangue corrotto nelle vene, sangue sbagliato, sangue marcio? Il
frutto non cade mai lontano dall’albero, dicevano gli Umani,
e la
loro saggezza popolare non aveva forse un fondamento di
verità?
Nessuno
ricordava i tanti altri Arcangeli e Serafini che aveva offerto al
Paradiso, Guardiani, Strateghi, persino collaboratori di
Autorità e
di Censori. Nessuno pensava a come la loro Circoscrizione fosse
divenuta più famosa e celebre, da quando vi era lei alla
guida.
Permettere
a Sachiel di non seguire la strada tradizionale, divenendo Esecutrice
anziché Stratega, era un rischio; ma sarebbe stato un
rischio anche
imporle un ruolo che non sentiva adatto a sé, o ritardare il
suo
Sviluppo sperando che maturasse più sicurezza.
...in
qualunque modo fosse andata, sarebbe stata un’altra macchia
sulla
sua reputazione.
E
non poteva permetterlo, non ora che stava per essere esaminata per
ottenere un incarico più influente. Se avesse affrontato
degnamente
la rovinosa situazione nella dimensione umana, avrebbe di certo
ottenuto un ruolo come collaboratrice del Consiglio; e, quando uno
dei suoi membri avesse rinunciato alla carica, avrebbe potuto
prendere il suo posto. Il più giovane serafino entrato a far
parte a
tutti gli effetti dell’assemblea più influente di
tutte le
Circoscrizioni; la prima donna che avesse conquistato quel ruolo
seguendo il lungo percorso stabilito dalla burocrazia, senza che le
fosse assegnato per la sua appartenenza agli Antichi.
Poteva
solo sperare che l’allieva compisse le scelte giuste e non
disonorasse la sua già compromessa fama di ottima insegnante
– o
che la nuova che aveva individuato, Cassiel, si sviluppasse tanto in
fretta e tanto gloriosamente da oscurare anche il fallimento
di Sachiel.
Non
aveva per nulla bisogno di un’altra
macchia sulla propria
reputazione.
*
* *
Bruciava.
Dentro. Tante
piccole unghie bollenti affondate in lei, nel suo corpo, nella sua
testa. E un artiglio gelido a lacerarla. Uno stridio la stava
assordando, ma non poteva essere ancora l’essenza di Anane,
perché
ormai le Percezioni erano abbandonate nel nulla e c’era solo
quel
dolore assurdo e incomprensibile. Qualcosa che la stava trascinando
verso di sé a costo di strapparla in due – e lo
stava facendo, la
stava strappando.
Faceva...
male.
«Madre...
madre, cosa
facciamo?»
«Aspettiamo,
cara.
Prima o poi smetterà.»
«Ma...»
un
singhiozzo, poi una mano le accarezzò il viso
«Amitiel...»
«Cara,
non piangere.
Sai che m’infastidisce.» un sospiro «Oh,
Sephon, eccoti. Temevo
di doverti richiamare fino al tramonto.»
A
fatica aprì le
palpebre. Era in piedi, notò: Anane la sosteneva tra
sé e un tronco
d’albero, come una marionetta inerme. Il viso del cherubino,
ad un
soffio dal suo, era alterato e in lacrime per la preoccupazione. Ai
margini del suo campo visivo, un uomo piuttosto esile sembrava
parlare da solo – con Eisheth, a quanto aveva capito, ma non
riusciva a vedere la donna.
«Madre,
ha aperto gli
occhi.» esclamò Anane, ricevendo una risposta
disinteressata, di
cui Amitiel non capì la provenienza. Dov’era il
demone?
«I
Custodi passeranno
ogni cinque tramonti.» disse riflessiva Eisheth, o qualcuno
che
aveva la sua voce «Ci serve che manchino un controllo, cinque
non
basteranno, con lei in queste condizioni. Pensi di riuscire a celarci
per dieci tramonti, Sephon?»
«Dipende
dal numero.»
«Di
me non devi
preoccuparti... solo di Michael. Pensi di farcela? Sì?
Anane,
richiamalo allora, o farà una scenata da ragazzina isterica,
se
scoprirà che la sua cara Amitiel
è stata male e noi non lo
abbiamo chiamato subito.»
«Perdonami,
Eisheth,
ma in questa forma la tua Influenza è molto...
ridotta.» l’uomo
si schiarì la voce, incerto «Sei sicura di poterla
esercitare bene
sui Custodi?»
«...forse
hai ragione.
Chiama... Liwet, ha un’essenza piuttosto esile, riuscirai a
celare
anche lei, sì?»
L’uomo
dispiegò le
rosse ali da demone e si alzò in volo, sgusciando tra le
chiome
degli alberi.
Un
altro strappo a
lacerare la pace che Amitiel aveva quasi trovato. Le sfuggì
un
gemito.
«Tranquilla,
cara,
passerà tra poco.» la rassicurò la voce
di Eisheth con una
risatina.
Lei
si guardo intorno,
ma ancora non la vide. Stanca, si liberò dalla stretta di
Anane e si
lasciò scivolare lungo il tronco, ad occhi chiusi, fino a
trovarsi
rannicchiata tra le radici nodose.
«Su,
su, tesoro.»
ridacchiò la voce di Eisheth, vicinissima.
Non
capì se fosse
diretta a lei o ad Anane, ancora piangente, ma il suo fiato –
letteralmente – sul collo la fece rabbrividire come se le
avesse
sussurrato una minaccia. Sollevò le palpebre di scatto.
...un
bambino?
Un’altra
fitta le
fece chiudere gli occhi.
*
* *
«Oh,
finalmente.
Iniziavo a temere che la tua essenza non si stancasse più di
agitarsi.» ridacchiò Eisheth «Ma cosa
pensavi di fare, sciocchina,
con quelle Percezioni così estese? Non sei un po’
troppo immatura
per cercare qualcuno in questo modo?»
Sospirò,
esausta.
Aveva smesso di soffrire, non udiva più quello stridio
assordante,
né provava più quegli strappi a... a qualcosa,
dentro di sé, che
ancora non era riuscita a identificare. Però si sentiva
stanca, e...
irritata? Non riusciva a definire bene il vago fastidio che
serpeggiava in lei, ma c’era e questo bastava. Non aveva
bisogno di
un motivo preciso per sentirsi nervosa.
«Cara,
posso capire
che tu tenga gli occhi chiusi, è una reazione naturale, ma
non mi
nascondi comunque l’essenza, è inutile.
Perciò, da brava, metti a
tacere l’istinto e apri gli occhi. Parlare con qualcuno che
non mi
guarda è francamente molto irritante.»
...quella
voce. Così
ipocrita, così leziosa, così falsamente materna.
Spalancò le
palpebre, infastidita, ma ammutolì ancor prima di trovare
qualcosa
da sbottare.
Non
era stato uno
scherzo della sua mente confusa, prima: quello che aveva davanti era
effettivamente un bambino. Il bambino che, nel vicolo, sembrava
fissare lei e gli altri Angeli, non il gatto sofferente. Il bambino,
forse, che nella pianura saltellava lontano, all’orizzonte,
lungo
una circonferenza che aveva lei come centro.
«Possessione.»
le
spiegò quel fanciullo dalla voce di donna, con un largo
sorriso «Un
giochetto molto carino, sì? E molto discreto, se fatto bene.
Quei
Custodi non si sono nemmeno accorti di me.»
«Anane?»
mormorò,
senza trovarla accanto a sé. Preferì ignorare
l’inquietante
giochetto di Eisheth.
«L’ho
mandata da
Sephon a concordare gli ultimi dettagli. Stava diventando davvero
fastidiosa, la sua immotivata preoccupazione.»
«...Michael?»
«Arriverà.
Se non
fosse stato trattenuto, sarebbe stato qui prima di me, conoscendo la
sua impazienza.» commentò, con
l’ennesima risatina irritante «Oh,
penso sia arrivata Liwet ad influenzare i Custodi. Si stanno
allontanando. Nonostante lo scherzetto della tua essenza, pare che
stia andando tutto bene, sì?»
«Cos’è
successo?»
‘ Cos’era
quel dolore assurdo?’ avrebbe
voluto chiedere, ma preferì mantenersi neutra.
«È
successo che i
giovani si sopravvalutano sempre.» avvicinò il
viso tondo da
bambino per schioccarle un bacio sulla fronte «Hai esteso
troppo le
Percezioni, sciocchina. Troppo sforzo per un’essenza troppo
immatura. Ma ora è passato, sì?»
Senza
attendere
risposta, si voltò e saltellò tra gli alberi,
canticchiando
qualcosa. Era così irritante. La trattava con una confidenza
offensiva, con una falsità nauseante, con... con un
comportamento da
Eisheth, non trovava altra definizione.
Ringhiò,
infastidita,
provocando una risata del demone.
«Anane
è prossima
allo Sviluppo, te l’ha detto?» le chiese quello,
tornando vicino a
lei.
No,
si rese conto
Amitiel. Non gliel’aveva detto. Non avevano avuto molte
possibilità
di parlare, di recente, però... però Eisheth lo
sapeva e lei no.
Lei, che si considerava come una sorella – sì,
erano tutti
fratelli, però loro due lo erano un po’
di più. Lei, che
era sua amica. Perché Anane non le aveva detto una cosa
così
importante? Perché doveva saperlo quella donna
insopportabile,
mentre lei ne era all’oscuro?
Si
sentiva messa da
parte. Offesa.
«Mi
è mancata tanto,
sai?» mormorò Eisheth, annuendo con espressione
esageratamente
triste «Ma finalmente mia figlia potrà cadere.
Sperando che non sia
ingrata quanto suo fratello... un caduto.» sbuffò
«Un caduto.
Dopo tutto quello che ho fatto per lui, poteva almeno diventare un
demone, sì? Ma sono sicura che Anane sarà
più riconoscente.
Prossima allo Sviluppo! Quasi non ci credo. Mi sembra un attimo fa
che aveva ancora gli squarci sanguinanti... Come passa in fretta il
tempo, per le madri che vedono crescere i figli,
sì?»
Non
poteva essere sua
madre. Non davvero. Non esistevano nemmeno più, le madri.
C’era
solo il Fuoco della Venuta. Perché quella donna
intollerabile
cercava di turbarla in quel modo? Possibile che si divertisse nel
confonderla?
...era
un demone.
Naturale che si divertisse.
«Diventerà
di certo
un angelo... povera cara, la sua mancanza di talento è
davvero
desolante. Ma tra i Demoni non avrà problemi.»
«Come
puoi essere
sicura della sua Caduta?» le chiese, mossa dal bisogno di
sfidare
quelle convinzioni, quella confidenza, quella possessività
di
Eisheth nei confronti di Anane «Ha aspettato fino ad ora,
perché
non potrebbe rimanere in Paradiso?»
«Oh,
sciocchina, sei
davvero divertente.» il bambino saltellò attorno
all’albero
contro cui era seduta, ridendo «Per lo Sviluppo, non
è ovvio?»
Amitiel
soffocò a
malapena un ringhio. Non capiva – le mancava qualcosa per
comprendere, lo sapeva lei e lo sapeva anche Eisheth, ma non si
degnava di spiegarle nulla. E come si permetteva di trattare Anane
come un oggetto, come poteva essere così sicura che fosse sua,
mentre era libera di decidere se cadere o no, se diventare un demone
o un caduto, se... se restare con lei in Paradiso o abbandonarla. Ma
non avrebbe mai scelto di abbandonarla, quindi Eisheth si sbagliava.
Doveva sbagliarsi.
Il
bambino si fermò di
fronte a lei con espressione delusa, smettendo di ridere e
abbandonando le mani lungo i fianchi. Mormorò:
«...oh. Non è
ovvio.»
«No.»
ringhiò
«Evidentemente no.»
«Non
insegnano più il
rispetto, in Paradiso? Sei fortunata, cara, che non voglia sopportare
gli strepiti di Michael. Altrimenti in questo momento ti starei
strappando la sanità mentale... e non solo quella.»
Il
tono con cui lo
disse, senza una reale inflessione minacciosa, ma anzi quasi
divertito, complice, la fece rabbrividire. In
special modo
quando, a metà della frase, studiò le proprie
unghie rosicchiate
con sguardo critico.
«Non
è ovvio.»
mormorò, allarmata e all’improvviso più
rispettosa «Potresti
spiegarmelo?»
«Così
va meglio.»
annuì soddisfatta e tornò a saltellare tra gli
alberi, alzando la
voce per farsi sentire anche a distanza «Per lo Sviluppo,
sì? Un
cherubino non può cadere.»
«...davvero?»
«Be’,
in realtà
può, ma non è una vera e propria Caduta.
L’essenza dei Cherubini
è troppo immatura per mutare in quella di uno
sconsacrato.»
«Un
cherubino caduto
rimane un angelo?»
«No.»
rise il demone.
Amitiel
aspettò che
aggiungesse qualcosa, ma ottenne solo un’altra risatina.
Eisheth si
stava divertendo a confonderla volutamente, si rese conto con rabbia.
Ma aveva bisogno di comprendere, perciò trattenne le
emozioni e
ammise: «Non capisco.»
«L’essenza
di un
cherubino non è né angelo né
sconsacrato.» le spiegò finalmente
«È immatura, indefinita, ambigua. Persino il suo
colore muta spesso
– di solito è rossa, come le ali, ma... oh,
sapessi che spettacoli
ho visto, a volte.» mosse le mani in ampi gesti, entusiasta
«Bianche. Nere. Grigie. E anche violacee, bluastre, ocra...
spesso,
prima dello Sviluppo, assume il colore della fascia che poi si
indosserà. O meglio» schioccò la lingua
sul palato con espressione
saccente «il colore della fascia è lo stesso
dell’essenza, non il
contrario. Sono state scelte in base a questo, le varie
tonalità, lo
sapevi?»
«...lo
Sviluppo di
Anane.» mormorò, esausta. Trattenere
l’irritazione le costava
davvero molta dell’esigua energia rimastale.
«Oh,
sì, cara, hai
ragione. Be’, subito dopo lo Sviluppo cadrà,
è ovvio. E diventerà
di certo un demone... anche se la transizione è un
po’ più
dolorosa, è di certo un ruolo migliore per lei... come
caduto
davvero non sarebbe per nulla adatta, sì?»
«Ha
aspettato fino ad
ora. Magari vorrà rimanere in Paradiso.»
«Non
dire sciocchezze,
cara. Se ha aspettato fino ad ora, è per lo Sviluppo, non
per
altro.»
Non
per te.
«Ma
che importa se
l’essenza di un cherubino non può marcire?
Avrebbe potuto
cadere comunque, se avesse voluto, ma non l’ha
fatto.»
«Solo
perché è una
codarda.» ridacchiò «Lo Sviluppo, senza
il Fuoco, è molto più
doloroso. Teme di soffrire, per questo.»
Non
per te.
«...lo
Sviluppo è
doloroso?»
Non
sapeva nulla dello
Sviluppo: ai Cherubini troppo immaturi non veniva permesso di
assistervi, per non turbarvi, dicevano gli adulti.
Questo
avrebbe dovuto farle venire qualche dubbio, effettivamente.
«Mettiamola
così,
ignorantella.» sospirò Eisheth, in tono esasperato
«Se dovessi
perdere le piume ancora rosse, distruggere organi inutili,
svilupparne altri, riformare tutto il sangue perso, irrobustire le
ossa... non saresti la persona più serena e tranquilla mai
esistita,
sì?»
Rabbrividì.
Era
questo, lo Sviluppo? La distruzione di un corpo perché
potesse
rinnovarsi?
«Questo
con il Fuoco,
naturalmente – rende il tutto meno traumatico, meno doloroso.
E...
oh, forse questo non dovrei dirtelo, potrei turbarti.»
«Che
cosa?» chiese,
incapace di trattenersi.
Eisheth
sorrise di
nascosto, un ghigno che mal si addiceva al corpo infantile che stava
manovrando.
«Senza
il Fuoco, è anche più violento –
l’essenza si sente esposta, in
pericolo, e reagisce con più rapidità. Le piume
cadono, quasi
strappate. Gli organi non si consumano, ma vengono rigurgitati uno ad
uno... anche quelli che, in condizioni normali, non
comunicano con la gola. Delle lacerazioni spaventose. Gli organi da
adulto ricrescono così in fretta che spezzano le ossa
attorno a sé,
a volte... hanno funzioni diverse da quelli dei Cherubini, e anche
dimensioni, posizioni. Un vero massacro.» sgranò
gli occhi chiari
del bambino «Vogliamo parlare delle ossa? Devono ispessirsi,
irrobustirsi... specialmente nel caso di Arcangeli e Serafini, per le
ali, sì? Lacerano la pelle, le membrane, tutto
ciò che si oppone
alla loro crescita. Spesso gli stessi organi che prima le avevano
spezzate.»
Amitiel
serrò gli
occhi, atterrita. Non aveva idea che fosse così spaventoso.
«Oh,
non preoccuparti,
cara. Senza Fuoco dello Sviluppo, spesso l’essenza... bara,
possiamo dire così.» annuì compita
«Si sviluppa in arcangelo,
perché è il corpo che meglio può
sopportare tutto questo dolore.
Peccato che non tutti possano gestire la potenza degli Arcangeli...
spesso chi non è adatto finisce ammazzato al primo scontro,
o
consumato dalla propria stessa essenza. Hai mai visto una persona
morire consumata? No? Oh, è davvero uno spettacolo
te-»
«Eisheth.»
Amitiel
sussultò. Non
aveva minimamente avvertito Michael avvicinarsi, o atterrare a
qualche passo di distanza da loro due: la sua voce la colse
impreparata, facendole alzare lo sguardo di scatto verso di lui, che
però fissava Eisheth, furioso.
«Le
spiegavo,
Michael.» si giustificò quella con un ghigno
«Me lo ha chiesto
lei.»
«E
tu perché le fai certe domande?»
ringhiò al cherubino «Non l’hai
capito che si diverte, a-» si bloccò e
sgranò gli occhi «Cosa
cazzo hai fatto
all’essenza?»
«Su,
Michael, non
aggredirla, non è certo colpa sua.»
ridacchiò Eisheth.
Li
udì discutere –
il demone divertito, il caduto furioso – ma non li
ascoltò,
esausta.
Voleva
solo andare via. Parlare con Anane, magari, e chiederle se quello che
diceva sua madre era
vero, se sul serio era rimasta in Paradiso solo per lo Sviluppo e non
perché c’era lei. O forse solo dormire, ma dormire
del sonno degli
Angeli, senza sogni, non di quello popolato di incubi che talvolta
doveva subire.
Lontano
da quella donna
crudele che si divertiva a spaventarla e nausearla e ferirla, lontano
da Michael che le ringhiava contro e la fissava con occhi furiosi
–
e tutte le domande che aveva, tutti i dubbi, tutti i pensieri
sparivano in confronto all’enorme stanchezza che la stava
invadendo.
Era...
ferita. E
sfinita. E offesa. E delusa. Era troppe cose insieme, che non
facevano altro che confonderla ancora di più.
Voleva
avere scelta –
e avrebbe scelto senza dubbio di fuggire, in quel momento. O di non
aver mai incontrato nessuno degli Sconsacrati... magari nemmeno
Anane.
Non
si accorse che
Eisheth se n’era andata, saltellando tra gli alberi,
finché le
mani di Michael non la costrinsero ad alzarsi, rudi. Si
ritrovò a
fissare i suoi occhi grigi, ardenti di rabbia.
«Cos’hai
fatto
all’essenza?» le ringhiò ad un soffio
dalle sue labbra,
affondando le unghie nelle sue spalle.
Le
ali reagirono con un
violento fremito che lacerò la pelle irritata attorno
all’attaccatura, così che gli squarci stillarono
gocce di sangue
bianco che le imbrattò la divisa. Soffocò un
gemito.
Era
stanca. Perché non
lo capiva? Perché non la lasciava in pace?
Voleva
avere scelta –
fuggire, dimenticare, riposare.
Gli
occhi grigi che la fissavano furiosi, però, le dicevano che
non
l’aveva: lei era stata
scelta e, per questo, si trovava incatenata a quell’uomo di
cui in
realtà non conosceva nulla. Per cosa stava tradendo il
Paradiso,
lei? Per cosa l’aveva tradito? Per qualche informazione, per
qualche risposta, per qualche attenzione? Per ritrovarsi poi con le
sue unghie affondate nella carne, gli squarci doloranti, la testa
pesante e una domanda ringhiata come una minaccia?
Voleva
fuggire
dimenticare risposare.
Ma
non aveva scelta,
perché era stata scelta.
***
Angolo autrice
Come sempre, grazie a chi ha inserito la storia in una
delle tre liste e in special modo a chi commenta! Consigli, critiche e
commenti sono sempre ben accetti (:
Spero che questa versione di Leliel non vi dispiaccia u.u Ha anche un
cuore, quella donna - sepolto molto in fondo. Se qualcuno si stesse
interrogando sull'effettiva utilità della scena, posso solo
dire che alcuni personaggi vanno introdotti lentamente, mostrandoli a
piccoli sprazzi. Ognuno ha il suo ruolo e il suo modo di adempirvi.
Una nota sul "Cosa cazzo hai fatto all'essenza?" di Michael.
Può sembrare un modo di parlare troppo attuale e per questo
ho avuto qualche dubbio sull'inserirlo, ma ogni lingua ha le sue
imprecazioni, anche la loro. Mentre un angelo non avrebbe di certo
usato un termine simile, qui sta parlando un caduto, per giunta
piuttosto alterato; sul fatto che Amitiel capisca la parola, quando
invece non avrebbe mai dovuto nemmeno sentirla... be', è
amica di Anane. Questo spiega tutto.
Grazie ancora e a domenica prossima! (:
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Capitolo 15 *** 14. Tradimento ***
Capitolo
14 – Tradimento
Piangeva.
No,
lacrimava: minuscole gocce dolcissime le scorrevano sulle guance,
tiepide, ma era una reazione puramente fisica, istintiva, per la
rabbia e la stanchezza e il dolore alla schiena sanguinante. Non
aveva intenzione di mostrarsi più debole di quanto
già non
apparisse – la dignità e l’orgoglio non
le mancavano, o almeno
così le piaceva pensare.
«Smettila.
Sono già abbastanza irritato.» le
ringhiò Michael, affondando di
più le unghie nella carne delle sue spalle. Le sue taglienti
piume
da arcangelo vibrarono quando irrigidì le ali, chiuse
attorno a
loro, così vicine da rischiare di ferirla.
Lei,
in risposta, voltò il capo per non dover fissare quegli
occhi grigi,
furiosi, ma continuò a sentirli addosso, come una violenta
stilettata di disagio e malessere.
Il
caduto la lasciò andare all’improvviso, quasi con
una spinta,
facendola sbilanciare, ma la strattonò per un braccio prima
che
cadesse. Le voltò le spalle e mosse qualche passo rigido,
calcando i
piedi nudi sul terreno come se volesse frantumarlo; poi
sospirò,
rilassò le spalle e ritirò le ali, lentamente.
Amitiel poté vedere
con disgustosa chiarezza le ossa e le piume nere ritrarsi nella
schiena, scomparendo poco a poco: al loro posto non rimasero che due
larghe lacerazioni nel tessuto scuro della maglia e due cicatrici
bianche sulle scapole del caduto.
C’era
un motivo se, di solito, il processo era estremamente più
rapido:
vederlo era davvero nauseante.
Sperò
di non doverlo mai fare. Tutti le assicuravano che era indolore, ma
rimaneva disgustoso e innaturale – piuttosto che essere
obbligata
ad impararlo, non sarebbe mai passata al ciclo superiore. Pura
illusione, lo sapeva, ma preferiva illudersi che pensare a quello...
quello schifo.
Michael
si voltò e le si avvicinò di nuovo, in apparenza
più calmo. Lei
cercò di indietreggiare, ma il tronco d’albero a
cui prima si era
appoggiata la fermò dopo un passo, dolorosamente premuto
contro le
sue ali rosse.
«Sei
danneggiata?» mormorò il caduto, allungando una
mano per sfiorarle
una spalla. Là dove le sue dita erano affondate con
violenza, il
tessuto – più resistente rispetto alle stoffe
umane – non si era
lacerato, ma era ancora sgualcito; lo lisciò con un gesto
lento,
lieve, rassicurante.
«Gli
squarci.» gli rispose senza guardarlo «E mi fanno
male le spalle.»
Non
si scusò. Con un sospiro, le chiese: «Ora mi
spieghi cos’hai
fatto all’essenza, o vuoi aspettare nove tramonti? Abbiamo
poco
tempo, non sprecarlo.»
Nove?
Si guardò intorno. Era vero: un tramonto era già
passato, la notte
era scesa ad ammantare il mondo di ombre che i suoi occhi inumani
percepivano appena. Nell’agonia non si era resa conto del
tempo che
passava; dopo, era stata troppo confusa per accorgersi della falce di
luna che s’intravedeva tra le chiome degli alberi, o
dell’alone
scuro che ricopriva tutto.
La
mano che le accarezzava una spalla si fece più pesante.
Michael la
scosse leggermente, con delicatezza; sembrava quasi una persona
diversa dall’arcangelo furioso di poco prima.
«...non
te l’ha detto Eisheth? Ho esteso troppo le
Percezioni.» mormorò,
a disagio per quell’errore così grossolano.
L’insegnante non si
era nemmeno raccomandata di evitarlo, perché era ovvio che
non
dovessero farlo. E lei, naturalmente, lo aveva fatto.
«Stronzate.
Sforzarsi non riduce l’essenza in questo stato.»
«Ma
ho solo esteso le Percezioni, nient’altro. Mi sono
concentrata e...
e ha fatto male.»
Se
non era stato quello, cos’altro poteva averle provocato quel
dolore? Succedeva quasi ogni volta che estendeva le Percezioni, come
se la sua essenza si spingesse sempre troppo in là; la
dimensione
umana l’aveva amplificata, ma era sempre la stessa sensazione
di
strappo, di lacerazione. Doveva saperne la causa,
perché
altrimenti non avrebbe potuto evitarla – e non voleva
ripetere
l’esperienza, davvero. Se in Paradiso era sopportabile,
un’unica
volta nella dimensione umana le era bastata. Con una seconda temeva
di impazzire.
La
mano gelida di Michael risalì lungo il suo collo nudo, nella
versione più delicata della stretta con cui le aveva
bloccato il
respiro, all’inizio dell’incontro precedente.
Amitiel non riuscì
a reprimere un fremito allarmato delle ali, tormentando ancor di
più
gli squarci alla schiena; inclinò il capo per sottrarre la
gola al
suo tocco, senza guardarlo in viso, ancora stanca e irritata.
Michael
riteneva una stronzata la sua risposta? Che ne
trovasse una
lui. Doveva sapere come evitare quel dolore assurdo, doveva.
«Sei
offesa?» le chiese in tono neutro – non una
preoccupazione, ma una
semplice perplessità.
«Mi
hai fatto male.» sibilò, muovendo un passo di
lato, perché il
tronco d’albero non le impedisse più di
indietreggiare. La mano
del caduto, tornata a stringerle una spalla, non le permise di
allontanarsi di più.
«E
tu hai l’essenza più lacerata che abbia mai
visto.»
Le
agguantò il mento, costringendola con poca delicatezza a
fissarlo in
viso. Lei avrebbe chiuso gli occhi pur di non incontrare i suoi, ma
le parve un gesto troppo infantile, perciò sostenne il suo
sguardo
grigio con quella che sperava fosse un’espressione
dignitosamente
risentita.
«E
quindi?»
«Mi
irrita essere venuto a saperlo così
tardi.»
«Non
è dipeso da me.»
«Oh,
giusto, tu stavi... estendo troppo le Percezioni, vero?»
commentò,
la voce grondante ironia.
«Se
non è stato quello, allora cosa?»
ringhiò «Succede solo se
estendo le Percezioni.»
«...non
ho mai visto niente di simile. Ma ti assicuro che sforzarsi troppo
non produce effetti così... devastanti. Dovrai trovare il
modo di
spiegare questi danni al tuo insegna-»
«Mia.»
lo corresse d’istinto, aggiungendo poi, alla sua occhiata
perplessa: «Alla mia insegnante. È una donna.
Ramiel.»
Lo
sguardo di Michael si fece distante, come se non la stesse guardando
davvero. Le sue labbra scandirono quel nome senza darvi voce, come un
pensiero o un ricordo ritenuto ormai lontano, di cui non riteneva
possibile il ritorno: aveva bisogno di renderlo concreto in qualche
modo, per credervi.
«E
comunque» mormorò Amitiel con voce acuta,
incurante di sembrare
polemica o infantile, pur di spezzare quel silenzio «se
nessuno ti
ha avvisato, o se stavo male, non è colpa mia.»
Gli
occhi del caduto tornarono penetranti, severi, e quasi si
pentì di
averlo riscosso.
«Tu
non hai migliorato la situazione.» ringhiò,
spingendola di nuovo
contro il tronco – non violentemente, ma abbastanza forte da
farla
sussultare per il dolore alla schiena.
«Io
non ho fatto niente.»
«Tu
hai fatto domande a Eisheth.» sibilò ad un soffio
dal suo volto,
con voce vibrante, furiosa «Non capisci. È capace
di farti
impazzire, quella donna. Di farti star male. Le sue parole sono
veleno.»
«Perché
dovrebbe?»
«Perché
è un demone, non una tenera fanciulla che si diletta in
opere di
carità.»
«Lo
diventerà anche Anane?» chiese
d’impulso, atterrita dall’idea
che la sua migliore amica si trasformasse in una persona simile.
«Non
sono nella mente di Anane.» le fece notare con
un’occhiata ironica
«Né ho il dono
dell’onniscienza.»
«Ma
quindi quello che ha detto Eisheth potrebbe anche non essere vero,
giusto?»
«Immagino
che, se sapessi cosa ti ha detto, potrei darti una risposta.»
sospirò, esasperato. Poi, notando l’urgenza e la
stanchezza nei
suoi occhi nocciola, aggiunse in tono più pacato:
«Spiegami. E
siediti, prima di collassare.»
Amitiel
si lasciò scivolare a terra, senza poggiare la schiena
contro
l’albero. Sentiva la disgustosa consistenza del sangue
scivolarle
tra le scapole, colando sul corpetto che le cingeva la schiena poco
più sotto. Il dolore, almeno, iniziava ad attenuarsi.
Michael
rimase in piedi, a guardarla dall’alto, con rare occhiate
distanti
che si perdevano nel nulla. Ascoltò il suo racconto in
silenzio,
senza interromperla nemmeno con un sospiro o una risata; se il viso
lasciò trapelare qualche emozione, lei non poté
vederla, troppo
intenta a fissare il terreno.
«È
vero.» mormorò infine il caduto, lo sguardo di
nuovo distante
«Tutto.»
«Quindi
Anane...»
«Anane
è rimasta in Paradiso nonostante fosse un rischio. Un
rischio
enorme. Per quanto possa essere codarda, immagino che la paura dello
Sviluppo non sarebbe bastata, da sola.» soppesò
per qualche istante
le parole successive «Ma se vorrà cadere subito
dopo lo Sviluppo o
no, non posso saperlo. Non è nemmeno una cosa che dipenda
totalmente
da lei.»
«...no?»
«Ignoranza
spaventosa.» commentò «Ma cosa
v’insegnano? A intrecciare
ghirlande?»
«Devo
ridere?» sbuffò, infastidita.
«L’essenza
dei Cherubini è neutra. Eisheth te l’ha spiegato,
vero? Ecco. Un
cherubino potrebbe tradire il Paradiso, ma la sua essenza non ne
verrebbe influenzata troppo. Non sarebbe evidente come per un adulto,
anzi, a volte è quasi impossibile da notare – come
nel caso di
Anane. In realtà non si tradisce, perché non si
appartiene agli
Angeli più di quanto si appartenga agli
Sconsacrati.»
«Quindi
un... un cherubino potrebbe tradire e non venire scoperto?»
La
ignorò. «I Cherubini, proprio per questo, possono
sopportare il
contatto con gli Sconsacrati meglio degli adulti: la vostra essenza
non entra istintivamente in conflitto con la nostra.»
«Potrebbero
esserci dei traditori, allo Specchio? Potrebbero continuare a vivere
normalmente fino al loro Sviluppo?»
«Sfortunatamente,
i Cherubini non sono tenuti troppo in considerazione, vero? Siete
così tanti che uno in più, uno in meno... che
sarà mai?» rise,
amaro «I Censori non hanno il tempo di controllarvi. Lo fanno
solo
una volta, prima di concedere lo Sviluppo, ma... se sei un nessuno
– e Anane lo è – potresti essere infido
e traditore quanto una
serpe, e loro non sarebbero abbastanza attenti da accorgersene.
Diverso se la tua essenza è più promettente, se
sembra volersi
sviluppare in arcangelo o serafino, ma-»
«Quindi
potrebbero
esserci dei traditori ancora non scoperti?»
«Ma»
ringhiò, irritato «questo non è il caso
di Anane, perciò non
preoccuparti. Al massimo si preoccupano gli insegnanti
dell’integrità
degli allievi, ma non sono presi troppo sul serio nemmeno loro, vero?
A meno che non siano particolarmente potenti. Ma questo, come sempre,
non rientra nel caso di Anane.»
«E
quindi-»
«Ti
ho risposto, Amitiel.» le gettò
un’occhiata gelida «Lieto che tu
faccia domande, ma impara a recepire la risposta, o è
inutile. Se
hai la fortuna che qualcuno ti spieghi, almeno ascolta.»
Non
trovò nulla da ribattergli. Quella ricerca di conferme era
puerile,
lo sapeva – e insensata. L’importante era che Anane
fosse rimasta
al sicuro fino ad allora.
Lei,
ancora, si riteneva fedele al Paradiso – ancora
s’illudeva di non
aver tradito.
«...quindi?»
mormorò Amitiel, quando il caduto non accennò a
continuare.
«Quindi
Anane non sarà in pericolo fino allo Sviluppo.»
«E
poi?»
Parve
infastidito. «Non sono Naamah. Non ho il dono della
divinazione.»
«Ma...
in generale... cosa potrebbe accadere?»
«Vi
hanno spiegato almeno la Caduta, vero?»
«È
la scelta dei traditori, o... una punizione per colpe troppo gravi
per la semplice Espiazione, ma non abbastanza per la Scomparsa. O per
il Ritorno.»
Ad
una fugace occhiata, le sembrò che Michael si fosse
irrigidito.
«Scelta
non è il termine giusto. Non sempre siamo noi a
decidere.» la
corresse «È la nostra essenza, spesso –
quando ha già iniziato a
marcire, non può sopportare il Paradiso.
Cerca di sfuggire al
dolore e l’unico modo che trova è
cadere.»
«Anane
allora potrebbe cade-»
«Mi
ascolti, quando parlo?» ringhiò «Sì,
l’ho appena detto.»
«Volevo
solo... essere sicura.»
Voleva
che le dicesse che no, Anane non sarebbe stata obbligata a cadere.
Che avrebbe potuto rimanere con lei, lontana da quella donna crudele
che si definiva sua madre, dai pericoli della dimensione umana,
dall’orrore degli Inferi.
Ma
Michael non sembrava disposto ad accontentarla – a mentirle.
Scese
il silenzio, un silenzio di cui le loro percezioni alterate non
avrebbero saputo quantificare la durata; un istante o un secolo, mentre la mente scivolava verso la calma. Così, quando il
primo
raggio di sole giunse a sfiorarle la mano, Amitiel non seppe se
esserne stupita o se invece avrebbe dovuto aspettarselo.
«L’alba.»
mormorò.
«L’alba.»
convenne Michael con voce bassa, malinconica. Stanca.
Il
cherubino alzò il capo verso l’alto per guardare
il cielo: non era
più terso e limpido come nelle giornate precedenti, ma
nell’azzurro
s’intravedevano le macchie biancastre di diverse nubi, tra le
chiome degli alberi. Secondo ciò che aveva studiato, la
temperatura
avrebbe dovuto essere più fresca, poiché il sole
era un po’
coperto. Non riuscì comunque a percepire alcuna variazione
degna di
nota.
Si
alzò in piedi e mosse qualche passo, gli occhi ancora
puntati verso
l’alto, alla ricerca di uno stralcio di cielo più
ampio degli
altri.
Sentì
Michael avvicinarsi e si tese, a disagio, ma lui si limitò a
rimanerle alle spalle, il petto a contatto con le sue ali rosse e il
capo reclinato verso il suo. Il caduto inspirò piano e
mormorò,
contrariato: «Non hai usato gli oli, sui capelli. Non hanno
odore.»
Amitiel
represse una risata, perché erano le stesse parole di Anane,
ma
dubitava che lui avrebbe apprezzato saperlo. Non sembravano essere in
ottimi rapporti.
L’uomo
si scostò appena per scioglierle la treccia e affondarle le
dita tra
i capelli, districando le ciocche con movimenti lenti, come a sancire
una tregua dopo i ringhi irritati dell’uno e le domande
insistenti
dell’altra. Lo lasciò fare, suo malgrado rilassata
da quel gesto
che iniziava a diventare familiare.
«Ti
piace la dimensione umana?» le chiese Michael dopo un
po’,
richiamando la sua attenzione.
«Non
lo so. È un po’ stancante, ma mi piace il cielo di
qui. Il sole,
il tramonto, l’alba.» si morse il labbro inferiore,
con un fremito
per ciò che stava per dire, aperta ribellione a
ciò che le avevano
insegnato «Non sono sicura di amare i suoi abitanti,
però.»
Il
respiro gelido di Michael la fece rabbrividire, quando si
chinò a
sfiorarle la tempia con le labbra.
«Spiegami.
Puoi dire quello che pensi, con me. Non temere.»
«Io...
non lo so, quello che penso. Non capisco. So che non dovrei
disprezzarli, che non è colpa loro questa debolezza verso il
male,
ma-»
«Amitiel.»
la richiamò con un sospiro infastidito, cingendole il ventre
con le
braccia, in un contatto lieve e rassicurante «Parli con un
caduto,
immagino che tu te ne renda conto, vero? Non c’è
bisogno che ti
giustifichi, se non sei d’accordo con le balle
che ti hanno
insegnato. Non ti minaccerò dell’Espiazione per
aver osato
esprimere un tuo parere.»
Era
troppo, per lei. Troppo orrore, al ricordo del gatto massacrato dai
bambini; troppo sollievo e al contempo impacciata insicurezza, nel
sentirsi dire che poteva esprimersi liberamente; troppo turbamento
strano, sconosciuto, simile ad un brivido caldo che saliva dal ventre
alla schiena, per quel contatto così intimo e piacevole.
Le
sfuggì un singhiozzo.
«Hanno...
massacrato un gatto. Dei bambini. Lo stavano uccidendo.»
mormorò
«Mi sono sporcata del suo sangue. Avrei voluto che fosse il
loro.»
«Tu
stai bene? Sei caduta, ti sei ferita? Gli squarci?»
Non
seppe se sentirsi infastidita per quella mancanza di considerazione
verso il suo turbamento, o se piuttosto dovesse essere lusingata
dall’attenzione che le dedicava. Optò per un
neutro: «Niente.
Solo quando... quando ho esteso le Percezioni, sono stata male. E
poi...» voltò il viso per gettargli
un’occhiata che sperò fosse
eloquente «tu.»
«È
passata un’intera notte. La schiena dovrebbe già
aver smesso di
dolere.»
«Non
è questo il punto.» replicò, ma lui non
sembrò comunque colpito
dalla sua espressione offesa.
«Già.
Stavamo parlando degli Umani.» strusciò una
guancia contro i suoi
capelli e rafforzò la stretta attorno al suo ventre
«Posso
spiegarti il mio pensiero – il pensiero dei Caduti. Ma sei tu
a
dover scegliere in cosa credere, non io per te; posso solo sperare
che, almeno, non ti lasci condizionare da ciò che
t’impongono gli
Angeli.»
«Sono
diversi, i pensieri di Demoni e Caduti?»
«No,
siamo divisi perché ci piace giocare ad ammazzarci a vicenda
e
indebolirci per fare un favore al Paradiso.»
«...era
un modo per chiederti di spiegarli.»
«Ironia.
Immagino che tu abbia già sentito questa parola,
vero?»
«Se
non vuoi spiegarmelo, basta dir-»
«Non
volevo spiegarlo a qualcuno teso come se stesse parlando con un
Censore.»
Amitiel
aveva l’impressione che si divertisse a metterla in
difficoltà,
non che si fosse preoccupato di metterla a suo agio, ma le
sfuggì
comunque un mezzo sorriso sorpreso, che si affrettò a celare
chinando il capo. Sarebbe stata un’espressione più
evidente,
forse, se le ali non avessero iniziato a provare un violento fastidio
per il contatto con la pelle gelida dell’uomo.
S’intensificava ad
ogni istante, a stento attenuato dal tessuto – stille di gelo
che
colavano tra le piume, imbrattando l’essenza come il sangue
aveva
imbrattato la divisa. Un cherubino poteva non essere ancora legato
nel profondo al Paradiso, ma il suo plasma era candido come quello
degli Angeli, e il contatto con un caduto rimaneva proibito e
innaturale.
«Le
ali.» mormorò, soffocando un sibilo di dolore
«La schiena.»
«Si
sono di nuovo riaperti gli squarci?»
«No,
è... sei tu.»
Lui
la lasciò e si allontanò di pochi passi, per
appoggiarsi ad un
tronco. «Così?»
«Meglio.»
Michael
annuì, riflessivo, poi si distaccò
dall’albero il tempo di
esporre le ali. «E così?»
Amitiel
non seppe cosa rispondere. Percepiva di nuovo una sensazione di gelo,
ma sottile, quasi carezzevole. Il suo corpo rabbrividiva, ma era
qualcosa di più intimo, di più profondo. Non
riusciva a capire se
fosse fastidiosa o persino piacevole.
«Hai
freddo?» le chiese, venendole in aiuto.
«Un
po’. Ma è... strano.»
«Bene.»
«Bene?»
Le
sembrò che avesse sibilato ‘Ignoranza
spaventosa’ tra i
denti, prima di fissarla e spiegare, accademico: «Ho disteso
l’essenza. Sfiora la tua.»
«Ed
è un bene?»
Le
era stato insegnato a tenere la propria essenza sotto controllo,
isolata dalle altre; non si muovevano certo sul piano fisico, un
eventuale contatto sarebbe stato puramente spirituale, ma proprio per
questo considerato troppo intimo. Persino i Cherubini della prima
classe erano in grado di controllarsi abbastanza da non sfiorare
troppo spesso le essenze altrui.
«È
un bene che ti abitui ai Caduti. Più rimani a contatto con
la nostra
essenza, prima accadrà.» chiuse gli occhi e
rivolse il viso verso
l’alto «E prima accadrà, prima perderai
questa irritante
sensibilità verso il nostro corpo.»
Non
trovando una risposta, si limitò a guardarlo in silenzio,
non
ricambiata. Non sentirsi addosso due lame grigie e gelide era
più
rilassante di quanto pensasse; si accorse di non aver mai osato
fissarlo con attenzione, per timore di incontrarne lo sguardo. Le
avevano insegnato a prestare attenzione all’aspetto fisico
solo per
raccogliere informazioni, così che aveva imparato ad
associare un
corpo fin troppo magro, come quello di Anane, ad un’essenza
fievole; uno imponente ad un’essenza quasi eccessiva; una
donna
florida ad un’essenza dalla natura pacifica e materna; e
così via.
Il colore della pelle o i lineamenti del volto non indicavano nulla e
non erano, perciò, nemmeno da prendere in considerazione
–
osservarli sarebbe stato un inutile spreco di tempo e di
concentrazione.
Ma
aveva voglia di guardarlo. Senza motivo, senza utilità. Solo
guardarlo.
Corte ciocche scure, le palpebre
a celare gli occhi grigi, i lineamenti marcati, le braccia incrociate
al petto. La pelle sfiorata dal sole, di un colore pallido, malsano,
diverso dal candore degli Angeli – il suo sangue era nero,
non
bianco come il loro, e pensò che la differenza di incarnato
fosse
dovuta a questo; in ogni caso, non era qualcosa di troppo evidente o
rilevante. Non lo guardava per analizzarlo, ma per fissare nella
mente l’immagine di Michael quasi rilassato, sfiorato dai
raggi del
sole, con gli occhi chiusi che non la trafiggevano. Voleva
ricordarlo, perché lui era importante – la
faceva sentire
importante e, per questo, diveniva a sua volta speciale. Un
sentimento egoista, ma Amitiel non se ne rendeva conto, né
sarebbe
stata in grado di dargli altro, e a Michael sembrava bastare.
Rimase
a fissarlo a lungo, smarrendo la percezione del tempo, come le
capitava spesso nella dimensione umana. I pochi pensieri che aveva si
perdevano oziosamente nel punto in cui il collo pallido
dell’uomo
scompariva sotto gli abiti scuri, o sulle labbra tese in quello che
sembrava un sorriso appena accennato. Il gelo interiore diventava
lentamente sempre meno acuto, sfumando in un fastidio sopportabile,
mentre la sua essenza si distendeva piano a contatto con quella di
Michael.
Era
una questione di tranquillità, di autocontrollo: se avesse
imparato
a mantenerla rilassata, quasi inerme, avrebbe smesso di essere
fastidioso. Un meccanismo simile a quello con cui ferivano le ali
degli Arcangeli – un’essenza aggressiva che si
avventava su
quelle avversarie, concretizzata nelle piume taglienti. Elementi
senza natura senziente non rimanevano neppure graffiati,
poiché
mancava la possibilità di uno scontro tra essenze: e infatti
l’albero contro cui Michael era appoggiato non risentiva
delle sue
ali, la sua corteccia non veniva segnata dalle piume che invece
avevano rischiato di ferire lei. Era affascinante osservare il sole
che affondava in quel mare nero senza rischiararlo davvero,
riflettendosi appena sui bordi taglienti, come se la luce sfiorasse
la sua essenza ma non riuscisse a pervaderla.
Tanto
evidente da non poter nemmeno essere definito un simbolo, forse.
Un’allegoria priva di sottigliezza.
«Non
immaginavo che le mie ali fossero così
interessanti.» la gelò la
sua voce.
Alzando
gli occhi, stupita, incontrò quelli di Michael, di nuovo
fissi su di
lei. Non seppe come reagire, se dovesse sentirsi in imbarazzo per
essere stata sorpresa a osservarlo, o se potesse far finta di nulla;
un angelo l’avrebbe rimproverata per la scarsa discrezione,
ma il
caduto sembrava avere opinioni piuttosto personali
su tali
argomenti. Perciò rimase immobile, l’espressione
forzatamente
distaccata, lo sguardo fuori fuoco, la schiena dritta e le mani
incrociate sul ventre con i gomiti aderenti al busto – la
rigida
postura che le avevano insegnato ad assumere in ogni situazione,
tanto che era diventata istintiva. Le sembrava quasi di sentire la
voce morbida di Sariel che le mormorava «I gomiti
più stretti,
Amitiel.» in tono materno.
Notando
che non raccoglieva la provocazione, Michael continuò:
«Dopo queste
innumerevoli digressioni, ricordi di cosa stavamo parlando?»
C’era
una macchia di terra e sangue secco sulla sua divisa, una striscia
rossastra su una mano, un’immagine che le balenò
in mente con
violenza. Naturalmente ricordava.
«Il
gatto.» mormorò.
«Ci
sono miriadi di questioni morali e ideologiche implicate, pensare
solo al gatto mi sembra un po’ riduttivo...»
squadrò il suo
misero tentativo di espressione impassibile e sospirò,
rassegnato
«...ma immagino che noi faremo esattamente in questo
modo.»
«Il
gatto. Cos’aveva fatto il gatto?»
«Agli
Umani non serve un motivo per essere crudeli.»
«Ma...
ma li tentate voi. Volete le loro anime e
perciò le
sporcate.» mormorò, con voce poco convinta.
«È
questo che vi dicono?» rise, gelido «Immagino che
non dovrei
stupirmi, non vi spiegano nemmeno la differenza tra Demoni e
Caduti.»
«Ma
è vera, la... la Tentazione. Non puoi negarlo.»
«Non
Tentazione, tentazione.» la corresse, eliminando
l’accento più
marcato che nella loro lingua indicava una maiuscola «Il
Paradiso,
nella sua umiltà, pensa bene di usare queste forme di
rispetto solo
per ciò che riguarda gli Angeli.»
«Va
bene, tentazione. Esiste.»
«Esclusiva
dei Demoni. Loro sì, tentano, ma non
accade troppo spesso.
Buona parte di ciò che fanno gli Umani è una loro
scelta. Il vostro
tanto benevolo Dio» sputò quel nome sacro come un
insulto «concede
il libero arbitrio a creature che si crogiolano nel loro marciume,
mentre lo vieta agli Angeli, che ne sarebbero di certo più
degni.»
La
spaventava udire quelle frasi, pregne di odio e di rancore, contrarie
a tutto ciò che le avevano insegnato. Ma la spaventava ancor
di più
sentire che qualcosa, dentro di lei, assentiva.
«Allora
i Demoni sono malvagi, se tentano.» mormorò,
cercando una conferma,
perché la impauriva l’ipotesi che tutto
ciò che aveva imparato
non fosse che un’illusione. Aveva impressioni, sensazioni,
pensieri
che a volte contrastavano gli ideali del Paradiso; ma da questo a
sentirsi dire chiaramente che non era vero nulla, la differenza era
enorme e spaventosa. Se gli Sconsacrati non erano più
malvagi,
allora lo erano gli Angeli, eppure lei non si sentiva così
– non
voleva sentirsi così.
«Sono
superbi. Egoisti. Annoiati.» Michael scosse le spalle, neutro
«Vuoi
chiamarli malvagi per il modo in cui scacciano la noia? Chiamali
malvagi, allora. Non fanno nient’altro che procurarsi anime;
non
troppo dissimile dal compito degli Angeli, in fondo. Anzi, il
Paradiso è ancora più marcio.»
«Perché?»
«Perché
i Demoni non possono trascinare un’anima negli Inferi, se
è pura.
Gli Angeli, invece, le strappano alla morte per dare infinite
possibilità. Infinite possibilità di ferire,
uccidere, distruggere.
Infinite possibilità di essere crudeli. Infinite
possibilità di
sfuggire alle conseguenze delle proprie azioni, fino a quando non ci
si dimostrerà degni del Paradiso.» lo sguardo
s’intorbidì d’ira,
fissandola con più intensità «E gli
Angeli, invece? Agli Angeli è
mai concessa una seconda possibilità?»
Amitiel
non rispose, perché se avesse parlato avrebbe dovuto dargli
ragione,
ma dargli ragione significava tradire. Lei non sarebbe mai stata
feccia, lei non avrebbe mai tradito,
perché doveva troppo al
Paradiso per essere tanto ingrata – lei non avrebbe mai avuto
il
coraggio di abbandonare tutto per qualcosa che le avevano sempre
descritto come mostruoso. Tradire; e poi? Mischiarsi al marciume dei
Demoni? Soffrire il gelo dei Caduti?
I
suoi pensieri si ritraevano, atterriti, e a lei non restava che
tacere. Avrebbe avuto tempo per pensare al futuro.
«I
Caduti vogliono tornare alla situazione iniziale. Le anime meritevoli
in Paradiso, le corrotte negli Inferi. Niente possibilità
ulteriori.
Alcuni vorrebbero negare anche il perdono – anche questo
senza
maiuscola, come la tentazione, perché non è degno
di appartenere
alla grandezza degli Angeli.» latrò
un’aspra risata «Un umano si
pente e viene perdonato di tutti i suoi errori. Comodo, vero? Mentre
per gli Angeli questo non è nemmeno contemplato. Espiazione,
Caduta,
Scomparsa, Ritorno – mille tipi di condanna, ma mai il
perdono.»
Amitiel
abbassò gli occhi sulle proprie mani pallide, strette
all’altezza
del ventre, tentanto di impedire loro di tremare. Stavano sgualcendo
la divisa. L’avrebbero rimproverata per questo, forse. E se
avesse
ribattuto con sgarbo l’avrebbero punita.
Ogni
azione ha delle conseguenze, le
ripetevano fino alla nausea, prima del lacerante dolore
dell’Espiazione.
E
per gli Umani, per gli Umani no?
«Sei
turbata.» osservò Michael «Dai tuoi
pensieri?»
«Dicono
che non devo pensare. Che spreco energia e
serenità.» mormorò,
fissando le proprie unghie che affondavano nei palmi e nel tessuto
candido. Un istante dopo si sentì sollevare il viso da una
morsa
gelida, che la costrinse a sostenere lo sguardo gelido e furioso di
Michael. Si era mosso ad una velocità tale che quasi non
l’aveva
percepito – ridicolmente lenta e fragile, lei, in confronto
all’efficienza di un corpo adulto
– e anche il dolore per
la stretta giunse con un attimo di ritardo, come se faticasse a
rendersi conto del suo tocco brusco, quasi violento.
«Stronzate.»
ringhiò con voce vibrante di collera «Se tengono
per sé l’onere
di pensare, non è certo per magnanimità. Poveri
Cherubini, evitiamo
loro il turbamento dei pensieri, rendiamoli bambole inermi. E poi,
una volta cresciuti? Poveri Angeli, rischierebbero di farsi strane
idee, meglio soffocare sul nascere ogni tentativo di pensare.
L’Espiazione esiste apposta, in fondo, vero? E le altre
condanne...
sì, davvero magnanimi, ad evitarvi con tanto zelo queste
preoccupazioni. Meglio che obbediate senza pensare. Meglio che vi
riduciate a marionette.»
«Mi
fai male.» sussurrò, sentendo le unghie irregolari
del caduto
affondarle nella pelle tenera del collo.
«Te
ne stanno facendo di più loro.» sibilò
«Ti stanno rendendo
inerme, vuota, incapace di pensare. E le poche volte che pensi, hai
paura – ti si legge in viso. Se ti ordinassero di uccidere un
amico, tu lo faresti? Se ti ordinassero di uccidere Anane?»
«Non
sarei comunque abbastanza potente.» gli rispose, angosciata. Sì
sarebbe stato un tradimento nei confronti di Anane; no,
un
tradimento nei confronti del Paradiso. La maggior parte dei Cherubini
– degli Angeli in generale – avrebbe scelto la
prima opzione
senza esitare.
«E
se potessi farlo? Distruggeresti con le tue stesse mani ogni legame,
ogni ricordo, ogni barlume di felicità della tua vita, per
un
ordine? O penseresti che in fondo non è giusto e ti
ribelleresti?»
il suo fiato gelido le sfiorò le labbra, i suoi occhi la
trafissero
con un’intensità dolorosa, tormentata
«Gli ordini sono ordini; ma
sei tu a doverli eseguire. Tu a dover uccidere,
massacrare,
torturare. Tu a ritrovarti il sangue di amici e compagni sulle mani.
Tu che prima o poi finirai per farti ammazzare e diventare cenere. Tu
che ci cammini in mezzo, a quella cenere, e cerchi di afferrare
l’ultimo barlume di essenza, solo per capire a chi
apparteneva –
e no, preghi, non a quella persona che non riesci a trovare. Sei tu
che soffri, per gli ordini che devi eseguire. Non hai il diritto di
pensare, di giudicare?»
«Io...»
«Buona
parte dei Caduti è stata condannata per questo motivo.
Egoismo, lo
chiama il Paradiso; io lo chiamo non essere vuote marionette. E Dio,
in tutto questo, si gode le lodi e le preghiere senza degnarsi di
agire di persona. Ha lasciato voi a sacrificare
ogni cosa per
il bene degli Umani, di cui avrebbe dovuto curarsi Lui.»
«Mi
fai male.» sussurrò di nuovo. Un rivolo di sangue
bianco le scese
lungo il collo, dove Michael aveva stretto con più veemenza;
probabilmente gli bagnò le dita, in un contatto che per il
suo corpo
da sconsacrato doveva essere doloroso, eppure lui non diede segno di
soffrirne, né allentò la presa. La furia nei suoi
occhi si placò
quasi impercettibilmente, invece, quando una scia di lacrime le
rigò
il viso – un pianto silenzioso e discreto, non segno di
dolore,
quanto piuttosto della confusione e del turbamento che le scuotevano
l’animo. Michael diceva il vero, glielo urlava qualcosa,
dentro di
lei, lo sentiva; ma faceva paura, così paura, pensare di
tradire, e
il ricordo dell’Espiazione era così vivido e
così doloroso, e
qualcos’altro le strillava di non lasciarsi corrompere da un
caduto.
«Pensa
al gatto, Amitiel. Quei bambini non si pentiranno mai di averlo quasi
ucciso; e chissà quanti altri orrori compiranno, nella loro
vita.
Più di quanti noi possiamo concepire di compiere in tutta
l’eternità. E avranno comunque un’altra
possibilità, e infinite
altre ancora, per perpetrare ancora tutto questo. Pensa a quanto
altro faranno. Orrori. Sofferenze. Crudeltà. E non per
tentazione
dei Demoni; per loro scelta – quella proibita agli Angeli,
che
saprebbero di certo sfruttarla meglio. Non meriterebbero gli
Inferi?»
le lasciò il collo per accarezzarle i capelli e si
chinò fino a
sfiorarle la fronte con le labbra «Se gli Inferi non
ingoiassero le
loro anime, loro tornerebbero. Rifarebbero tutto, e anche di peggio.
Diventano più marci ogni secolo che passa. Pensa a tutte le
atrocità. E gli Angeli lo permettono, sperando che prima o
poi
conducano un’esistenza abbastanza pura da meritare il
Paradiso. Nel
frattempo... il gatto, Amitiel, è la cosa minore. Vi sono
orrori
molto peggiori.»
Aveva
ragione. Non lo pensò in termini così espliciti,
ma fu questo il
senso del confuso turbinio di timore, approvazione e disgusto che le
si agitò nell’animo: Michael aveva ragione.
...stava
tradendo?
Prima
che potesse darsi una risposta – se mai avesse trovato il
coraggio
di darsela –, il caduto la spinse contro un albero,
strappandole un
urlo per l’improvviso dolore agli squarci. Percepì
la propria
essenza venire circondata e compressa da quella gelida
dell’altro,
la avvertì distintamente dibattersi nel vano tentativo di
liberarsi.
Michael la stava... aggredendo?
«Taci.»
le ordinò, con un tono gelido che non nascondeva
l’urgenza «Arriva
qualcuno.»
***
Angolo autrice
Grazie a chi ha letto e inserito la storia in una delle
tre liste! State diventando sempre di più e mi fa davvero
piacere (: E, come sempre, un ringraziamento speciale a chi recensisce.
Critiche costruttive, consigli e commenti sono sempre ben accetti (:
Che dire, amo dal profondo questo capitolo, finalmente si inizia a
ragionare u.u Un unico appunto: Naamah secondo la tradizione
è uno dei demoni della prostituzione sacra e una delle
compagne di Samael, ed è considerata colei che ha iniziato
l'umanità alle arti della preveggenza. Il suo potere
sarà forse spiegato più avanti, per ora
prendetela molto alla larga come una "veggente", unica e conosciuta da
tutti; questo spiega la frase di Michael "Non sono Naamah".
A domenica prossima!
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Capitolo 16 *** 15. Chiudi gli occhi ***
Capitolo
15 – Chiudi gli occhi
Il
mondo, all’improvviso, si era ridotto. Era stato risucchiato
dall’ansia, violenta come un colpo allo stomaco,
là dove negli
adulti era gestita l’essenza più aggressiva
– se non fosse stata un cherubino l’avrebbe sentita
ribollire,
calda, quasi liquida, prima che divenisse incorporea e premesse
disperatamente contro quella di Michael per liberarsi dal gelo e dal
panico. E l’organo cavo e immobile nel petto, che in un corpo
maturo dava origine all’essenza e faceva con
quell’energia
circolare il sangue, si sarebbe dilatato fin quasi a scoppiare, pur
di darle la forza di liberarsi. E il ventre si sarebbe contratto in
uno spasmo caldo e freddo, là dove l’essenza
infetta si
raccoglieva, quasi tangibile, per essere depurata e assimilata,
perché nulla di quell’energia andasse sprecato.
Ma
era un cherubino, dall’anatomia sconosciuta e assai meno
efficiente. La poca essenza tangibile, mischiata al sangue, scorreva
lenta nelle vene per darle la forza di muoversi; non ribolliva, non
reagiva, non cercava una soluzione. L’essenza vera, quella
spirituale, si dibatteva sempre più debolmente, priva
dell’energia
necessaria – e si disperdeva, si assottigliava, si consumava.
Il
mondo, quindi, non era ridotto alla sensazione di un’essenza
in
lotta, ma a quella di un’essenza sfinita, perché
il suo corpo
acerbo non le concedeva altro. La mente, invece, era sveglia e
lucida, di quella lucidità data dal panico, e percepiva con
angosciante chiarezza ogni cosa.
L’essenza
che si agitava e si spegneva lentamente. Il corpo che si indeboliva,
sostenuto solo da Michael e dal tronco d’albero. Gli squarci
che,
riaperti in modo orrendo, vomitavano sangue e essenza –
l’essenza
destinata alle ali, quella più pura, quella più
preziosa. I capelli
impigliati nella corteccia. I denti candidi affondati nel labbro
inferiore per non urlare, perché Michael le aveva ordinato
di tacere
e lei aveva l’istinto e il buonsenso di non opporsi.
Il
fiato gelido del caduto sulla fronte, le sue unghie affondate nelle
spalle. Le proprie braccia alzate d’impulso in difesa, di
fronte al
petto, che sfioravano quello di lui con un brivido. I muscoli nervosi
sotto le proprie dita, guizzanti nei brevi attimi in cui il caduto si
tendeva, come aspettandosi un attacco da una direzione ignota.
Ma
fu lui ad attaccare. Un istante la stava premendo contro il tronco,
quello successivo era scomparso tra gli alberi, silenzioso e letale,
e quello successivo ancora era riapparso poco lontano, inginocchiato
a terra, le ali nere esposte all’improvviso con furia e
minaccia. I
suoi occhi non apparivano più grigi, ma neri, neri neri, due
pozze
enormi che sembravano voler inghiottire il mondo intero – era
l’essenza che si faceva liquida e visibile per la rabbia.
Sotto
di lui un angelo si dibatteva e sibilava, misero tentativo di urlo,
soffocato dal suo stesso sangue e dalla mano di Michael, affondata
nella sua gola. La fascia azzurra dei Custodi gli cingeva i fianchi,
lacerata, e per un attimo Amitiel temette che fosse Ridwan; poi si
accorse dei capelli troppo scuri per essere quelli
dell’insegnante,
ma la sua angoscia si acquietò appena.
Un
angelo subiva un attacco di fronte a lei. Doveva reagire? E come, se
riusciva a malapena a sostenersi, puntellata contro il tronco? E
come, se nemmeno sapeva in favore di chi dovesse intervenire?
Michael
ringhiava domande, intanto, a cui il Custode rispondeva con risate
strozzate e sibili inudibili. Da quanto era lì? Cosa aveva
visto?
Aveva avvertito qualcuno? Domande, ringhi, gemiti di dolore. Il
terreno si copriva di sangue bianco, denso, che la luce del tramonto
tingeva di riflessi rossastri. La carne sempre più dilaniata
dell’angelo offriva la vista di muscoli e vene e ossa.
...era
anche peggio del gatto, quello.
«Michael.»
mormorò, rauca.
Lui
la ignorò, continuando a fissare la vittima, furioso.
«Michael.»
Una
domanda. Silenzio. Il rumore orribile della carne che si apriva, un
urlo soffocato dal sangue che scorreva in gola.
«Michael!»
«Ci
ha visti, Amitiel.» le ringhiò, voltandosi verso
di lei con
espressione così feroce da procurarle un brivido
«Ha visto troppo.
Devo capire meglio la situazione.»
«Devi
fare per forza così?» mormorò, mentre
tutto il suo essere gridava
pietà e disgusto per ciò a cui stava assistendo
«Non c’è un
altro modo? Non c’è... qualcun altro?»
«Li
sto chiamando, ma ci vuole tempo, e non c’è altro
modo.» ghignò,
ferino «E, anche se ci fosse, dubito che rinuncerei a
quest’occasione, considerando chi ho tra le mani.»
Le
fece paura. Una paura così istintiva e intima da farla
premere
contro il tronco, incurante del dolore, pur di rimanere in piedi e
ritrarsi il più possibile da lui. Era crudele. Era come quei
bambini
umani.
Michael
dovette accorgersene, perché smise di sorridere in quel modo
animalesco e le fece segno di aspettare. Si voltò di nuovo
verso
l’angelo, incurante dei suoi tentativi di liberarsi: quello
si
dibatteva, lo colpiva, gli sputava addosso il suo sangue corrosivo,
eppure l’arcangelo non sembrava nemmeno accorgersene.
Mascherava il
dolore dietro una furia calma, calcolatrice, e per questo ancor
più
terrorizzante.
«Torno
subito.» ringhiò all’angelo
«Tu non ti muovi, vero? Fammi questo
favore, così dopo potremo continuare la nostra amabile
chiacchierata
tra amici, Shoftiel.»
Con
un colpo di palmo su un’ala, violento, lo
schiacciò a terra. Un
altro colpo, l’orrendo rumore di qualcosa che si frantuma, un
urlo
così acuto da non essere soffocato nemmeno dal sangue che
invadeva
la gola dell’angelo. L’altra ala. Pausa per
spostarsi più
indietro. Un ginocchio. L’altro.
E
urla, e sangue, e urla e sangue, e ancora urla e ancora sangue.
Straziante. Nauseante. Spaventoso.
E
Michael continuava, rapido, metodico. Gli spezzava le ossa per
impedirgli di fuggire, versava il suo sangue e la sua essenza per
impedirgli di richiamare qualcuno.
Si
ripulì le mani sul lembo meno lordo della divisa del
Custode, poi si
alzò e ripassò i palmi sui pantaloni, per
eliminare le ultime
tracce vischiose. Una soddisfazione feroce gli animava lo sguardo,
ancora nero per l’essenza che si agitava in lui. Non
un’impressione
di rimorso. Non un accenno di turbamento. Solo un lampo amaro,
brevissimo, nel vedere l’espressione terrorizzata di Amitiel;
un
suono di gola, a metà tra un ringhio e una risata, quando
lei mosse
precipitosamente un passo indietro, perdendo l’appoggio del
tronco.
La afferrò senza delicatezza appena prima che cadesse e la
premette
di nuovo contro l’albero, con più forza del
necessario.
«Mi
fai male.» mormorò Amitiel, con voce incrinata,
una tiepida scia di
lacrime lungo il viso «Lasciami.»
Lui
strinse di più. «Sai chi è?»
«Lasciami.»
«Sai
chi è?» ripeté con un ringhio.
«Cosa
importa?»
«Importa.»
«Non-»
«Shoftiel.
Troverai il suo nome in almeno metà dei processi
più recenti.» le
strattonò i capelli per costringerla a guardarlo negli occhi
«Un
semplice angelo che, non potendo diventare Censore, ha sfogato la sua
frustrazione accusando decine e decine di compagni al minimo errore.
E non serve che ti dica quanto è clemente la giustizia del
Paradiso,
vero?»
Non
le importava. Aveva di fronte agli occhi l’immagine del suo
corpo
dilaniato, gli schizzi di sangue bianco sul terreno, i suoi disperati
tentativi di liberarsi; udiva ancora i suoi rantoli di sofferenza.
Era così sbagliato, così crudele torturarlo in
quel modo. Era
peggio del gatto, infinitamente peggio, e faceva male e schifo e
paura, le tremavano le ginocchia e le affioravano singhiozzi convulsi
alle labbra. Non le importava chi fosse, quello che Michael gli aveva
fatto era comunque terribile. Terribile e agghiacciante.
«Avrebbe
potuto accusare anche Anane, sai. E potrebbe accusare te, ora che ci
ha visti, se non risolviamo la cosa. Vuoi farti condannare
perché
provi pietà di una serpe?»
«Risolvere
la cosa...» mormorò, benché il
riferimento a sé stessa e ad Anane
l’avesse resa molto meno comprensiva verso l’angelo
«include
torturarlo?»
«Per
sapere se ha avvisato qualcuno, sì. Mi servono
informazioni.»
«E
devi raccogliere proprio... proprio così?»
«Ti
accuserebbe di lascivia con un caduto.» le
ringhiò, affondando con
violenza le unghie nelle sue braccia «Anche se non
c’è stato
nulla, lui lo farebbe. Sai qual è la condanna,
vero?»
Il
terrore la stordì, perché lo sapeva e il solo
pensiero era orrore
puro, che non le permise nemmeno di rispondere. C’era solo
una
preghiera, un ‘no’ sussurrato,
singhiozzato, urlato dentro
di lei, dalla parte della sua mente più disperatamente
aggrappata
alla vita.
«Il
Ritorno. E non ho la minima intenzione di
permettertelo.» si
chinò si di lei, fino a sibilare ad un soffio dalle sue
labbra: «Mi
hai già fatto aspettare abbastanza.»
«...mi
fa male. Mi fa male vederlo così, io non... non ce la
faccio.»
«Chiudi
gli occhi, allora.»
La
lasciò e lei, non più sostenuta dalla sua
stretta, scivolò a
terra. Non aveva nemmeno la forza di parlare: si limitava a fissarlo,
implorante, no, no, non farlo, non tornare lì,
rimani, non
tornare lì. Ti prego, non farlo, mi fa male, mi fai male.
No, no, ti
prego.
«Chiudi
gli occhi.» le ripeté, gli occhi grigi fissi su di
lei, che
sembravano l’acciaio di un’arma affilata, tagliente
– un’arma
fragile e sottile da guerriero stanco, però.
Stanco
di lei, perché lei era ignoranza, debolezza,
emotività. Lacrime.
Urla. Paure. E ancora cercava un modo di farla restare in Paradiso,
di non esporla troppo presto alla guerra che andava germogliando
nella dimensione umana.
Lasciò
crollare il capo, sconfitta, premendo la fronte contro le ginocchia.
I capelli sciolti e scompigliati le ricaddero ai lati del viso come
onde nere, oscurandole la vista; il nastro bianco che li aveva
trattenuti nella treccia abituale doveva giacere a qualche passo di
distanza, dove Michael l’aveva abbandonato.
Inspirò tremante
l’aria fresca della notte, pregna di odore di erba e di terra
arida
e di sangue, intenso, disgustoso, vagamente dolciastro. Smise di
nuovo di respirare, ma le era rimasto nelle narici e nella testa e
non riusciva a farlo andare via; e, tra le ciocche di capelli, si
apriva come uno squarcio candido la vista delle macchie sul terreno.
L’angelo,
poco lontano, rantolava.
«Chiudi
gli occhi.»
Dopo
quell’ordine, ripetuto in tono quasi stanco, tra i capelli
intravide anche l’ombra densa di Michael che si spostava
lentamente, intrecciandosi con quelle degli alberi. La sua sagoma che
si chinava su qualcosa che, grazie Dio grazie, non
riusciva a
vedere. Udì ringhi, urla, domande, rantoli; e gli schizzi
sul
terreno aumentavano sempre di più, sempre di più,
ferendola come
lame bianche e crudeli.
Chiuse
gli occhi.
* * *
Sachiel
ricordava Khamiel con mesta precisione. Era un Guardiano alto,
robusto, dall’aspetto poco rassicurante; la sua espressione
poteva
variare da una rarissima neutralità, nei momenti di buon
umore, ad
una assai più frequente minaccia, e non si distendeva mai in
un
sorriso che non fosse un ghigno sarcastico e preoccupante. Molto
preoccupante.
Non
il genere di persona che qualcuno avrebbe reputato adatta
all’insegnamento, in sintesi, come sottolineavano le occhiate
compassionevoli riservate dagli adulti ai suoi allievi; e, nonostante
il dovuto rispetto che gli portava, Sachiel non poteva biasimare
troppo quegli sguardi. Non che avesse l’autorità
di farlo, ben
inteso, ma se anche avesse potuto se ne sarebbe astenuta.
L’atteggiamento
della sua maestra poteva dirsi spontaneo e confidenziale, in
confronto a quello di Khamiel, e ciò era sufficiente per
provare
compassione nei riguardi dei – pochi – Cherubini
che erano sotto
la tutela dell’arcangelo. Non più di una
quindicina, valutò con
un’occhiata, poiché a lui venivano affidati solo i
più
promettenti, per spremere da loro qualsiasi goccia di energia e
talento.
In
bilico sui rami più robusti per non sporcarsi di erba e
terriccio,
seguivano la lezione con concentrazione angosciosamente palese,
perché Khamiel non pensasse che fossero disattenti; solo i
più
arditi o i più stanchi osavano gettare brevi occhiate verso
di lei,
unico cherubino tra i Custodi e i Guardiani che li sorvegliavano. Dal
saluto dell’insegnante l’avevano identificata come
una precedente
allieva e, per questo, i loro sguardi si erano accesi per un attimo
di interesse e speranza – se era sopravvissuta lei, potevano
farcela anche loro; e sì, sapevano che in molti avevano
superato più
o meno indenni la sesta classe sotto Khamiel, ma vederlo
era
un’altra cosa. Curiosamente non avevano bisogno di prove,
invece,
per tremare al racconto di Cherubini crollati sotto
l’estenuante
peso della severità dell’arcangelo. A quel
‘crollati’ non si
dava mai un significato preciso, perciò non sapevano se
s’intendesse
stancati fino a logorare anche l’essenza o... forse pensare a
degli
allievi morti era un po’ eccessivo, ma chi poteva dirlo?
Sachiel
un morto – il morto, più
precisamente, che nei racconti poi
si era moltiplicato fino a diventare due e cinque e dieci –
lo
aveva visto, alla fine della sesta classe. Non intenzionale, certo:
Khamiel era severo, non stupido, e non avrebbe mai spinto un
cherubino oltre i suoi limiti. Il problema sussisteva, però,
nel
fatto che era l’arcangelo a valutare i limiti del cherubino
– un
arcangelo molto esigente e, soprattutto, adulto da troppo tempo per
ricordare come fosse fragile il corpo degli infanti. Quella che
doveva essere un’esercitazione per i migliori tra i
migliori,
gli allievi più promettenti di quelli già
affidati al maestro più
capace, si era trasformata in un massacro: un attacco improvviso dei
Caduti, pochi adulti sul luogo, i portali per tornare in Paradiso
troppo lontani. Lei era stata inclusa nell’esercitazione
perché
stava per essere promossa, non per un reale talento che giustificasse
la sua presenza lì: gli altri quattro Cherubini, seppur
più
immaturi, erano di gran lunga più capaci. Ironicamente,
l’unica a
tornare in Paradiso quasi indenne era stata proprio lei, ma non prima
di aver visto un compagno tramutarsi in cenere, morto, sotto i propri
occhi inorriditi. Questo, insieme a tre feriti gravi, aveva reso
chiaro a Khamiel quanto avesse sopravvalutato i suoi allievi; le
conseguenze, poi, gli avevano lasciato una cicatrice alla schiena e
l’intenzione di non ripetere mai più
l’errore.
Ma,
nonostante la sua essenza non si fosse estinta per volere
dell’arcangelo, il morto restava morto. Non si poteva
biasimare
l’inquietudine dei Cherubini sotto la sua guida.
Non
si poteva biasimare nemmeno l’apprensione con cui Khamiel
vigilava
sui suoi allievi nella dimensione umana, però, nonostante
fosse
ritenuta eccessiva da molti – da chi non aveva mai visto la
cicatrice che gli deturpava il corpo dalla scapola destra al fianco
sinistro, o quella ancor più spaventosa che gli sfigurava
l’essenza;
perché solo segnando questa per sempre si potevano sfregiare
le loro
carni immortali, e ciò era un avvenimento tanto raro quanto
raccapricciante.
Sachiel,
che vedeva le essenze con una precisione quasi pari a quella con cui
poteva osservare il mondo materiale, provava di fronte a
quell’apprensione una comprensione rispettosa e pietosa
insieme,
badando però a mostrare solo il rispetto; e non si stupiva
che
Khamiel fosse rimasto così irritato dal trovare senza
preavviso
un’allieva sconosciuta nel suo gruppo, un istante prima di
discendere nella dimensione umana. Se avesse potuto permettersi una
simile mancanza di rispetto nei confronti di
un’Autorità, Sachiel
avrebbe pensato che la sua maestra non aveva scelto il momento
migliore per spostare il cherubino in quel gruppo.
Sperava
solo di non dover comunicare di persona a Khamiel che, presa in
consegna la sua nuova allieva, avrebbe ignorato le sue disposizioni
per metterla alla prova in altri modi a cui, onestamente, non aveva
ancora pensato. Un Custode o un Guardiano avrebbe potuto riferirgli
la notizia senza correre il rischio di subire uno dei suoi temuti
scoppi d’ira.
A
quanto sembrava dall’espressione minacciosa
dell’arcangelo, la
prima vittima non sarebbe stata comunque lei, ma un allievo che non
stava concentrando ogni sua più intima energia nel prendere
appunti
con la dovuta alacrità. Il fatto che stesse sfregando la
punta della
matita sulla carta ruvida per affilarla non importava: la mente di
Khamiel, evidentemente, registrava solo che il cherubino non stava
scrivendo. Quello dovette percepire il suo sguardo, perché
si
affrettò a riporre la carta ruvida nella borsa per tornare
ai suoi
appunti con zelo encomiabile. La voce dell’insegnante divenne
all’improvviso vibrante, irritata: non aveva ancora raggiunto
il
limite, ma mancava poco, e – benché questo fosse
un ulteriore
incentivo per gli allievi a mantenere una condotta irreprensibile
–
Sachiel dubitava che sarebbero sfuggiti alle ire di Khamiel.
«Credo
che la lezione durerà ancora per un po’. Non
è mai un bene
affrettare le spiegazioni sugli Umani e sulla morale.» le
disse una
Custode, accovacciata su un ramo poco lontano, in tono vagamente
materno «La zona è ben presidiata; puoi
allontanarti senza pericolo
e tornare tra un paio di tramonti, se ti annoi.»
Ringraziò
e declinò l’offerta con la dovuta cortesia,
affermando che non si
stava affatto annoiando, poiché quegli argomenti la
interessavano
sempre; il che avrebbe anche potuto essere vero, se non avesse dovuto
seguire quelle lezioni decine e decine di volte, al punto che avrebbe
potuto ripeterle a memoria senza difficoltà. Ma la sua
maestra le
aveva ordinato di recarsi lì e una Custode non aveva
l’autorità
di dispensarla da quel compito: assentarsi, seppur per breve tempo,
le sarebbe parso un tradimento della promessa fatta
all’insegnante,
e se Sachiel temeva qualcosa con tutta sé stessa era di
perdere la
sua fiducia così faticosamente guadagnata. La gratitudine
che doveva
a Leliel era troppa per permetterle una disobbedienza – per
concepire una disobbedienza. Sarebbe rimasta
lì ad annoiarsi
finché fosse stato necessario.
Non
lo fu per molto ancora. Nonostante le previsioni della Custode,
un’alba un po’ nuvolosa giunse a rischiarare il
cielo – quel
cielo che le piaceva tanto guardare, di giorno, quando assumeva il
colore dei suoi occhi – e Khamiel smise di spiegare,
ritenendo di
aver ripetuto abbastanza gli stessi due o tre concetti sulla
debolezza degli Umani, sulla compassione degli Angeli e sulla
mostruosità degli Sconsacrati. Non concesse ai Cherubini di
rilassarsi, ordinando loro di prepararsi all’arrivo degli
allievi
del ciclo superiore, per la seconda parte della lezione; alle parole
‘Percezioni’ e ‘anime’, Sachiel
poté giurare di aver visto
almeno metà del gruppo curvare le spalle, già
esausto, e provò per
loro un misto di compassione e divertimento.
Essere
al ciclo superiore era decisamente piacevole, convenne tra
sé e sé.
Lo
fu un po’ meno quando dovette avvicinarsi, balzando da un
ramo
all’altro, all’imponente figura di Khamiel, e ancor
meno nel
comunicargli il proprio compito. Ogni traccia di piacevolezza
scomparve del tutto quando, sotto il suo sguardo adirato,
rifiutò la
scorta di un Custode: la sua maestra si era raccomandata la massima
discrezione, non voleva offenderlo o respingere la sua generosa
offerta, ma non poteva davvero disobbedire agli ordini
dell’Autorità.
Benché
non fosse particolarmente minuta, in confronto alla mole
dell’arcangelo si sentiva insignificante e vulnerabile;
così
vulnerabile che, non appena lui glielo permise, si precipitò
dall’allieva affidatale e fu sul punto di afferrarla per un
braccio
e trascinarla malamente, pur di allontanarsi il prima possibile.
L’ira di Khamiel le aveva lasciato ricordi
tutt’altro che
piacevoli e anche allora, ormai quasi adulta, preferiva evitare di
ripetere l’esperienza.
Il
cherubino non sembrò comprendere quell’urgenza,
perché la seguì
in volo con irritazione malcelata, e non prima di aver salutato
Khamiel e gli altri Guardiani con frasi quasi ossequiose. Se cercava
l’approvazione dell’insegnante, aveva davvero
sbagliato metodo:
l’arcangelo detestava gli adulatori con fervida
intensità, ma
ancor di più detestava chi non portava rispetto ai Custodi,
che tra
le proprie file includevano anche la sua compagna – forse
proprio
la donna che le aveva dato il permesso di andarsene,
rifletté
Sachiel distrattamente, scorgendo i due parlare con
familiarità. Non
che le interessassero particolari di questo tipo; non sapeva nemmeno
come fosse venuta a conoscenza della relazione tra Khamiel e una
Custode, in effetti.
Forse
avrebbe dovuto metterne al corrente l’altro cherubino,
perché non
incorresse nella temibile ira dell’insegnante,
pensò. Poi si
accorse dell’aria di superiorità e fastidio con
cui quella la
fissava e si disse che, in fondo, imparare
l’umiltà a proprie
spese avrebbe potuto giovarle.
Ancora
non sapeva se Cassiel avesse capacità degne di un allievo
del ciclo
superiore, ma di certo ne aveva l’alterigia.
*
* *
Aveva
chiuso gli occhi e premuto le mani sulle orecchie pur di non sentire
e non vedere, ma sapeva che erano lì, a pochi passi da lei,
rantoli
e ringhi e urla e carne dilaniata, così vicini che le
sembrava di
avvertire il tepore del sangue, il suo odore dolciastro. Si era
rannicchiata con un fianco contro l’albero, dando le spalle a
quell’orrore e artigliandosi i capelli con le dita; nel farlo
le
unghie le erano strisciate sul collo, proprio nel punto in cui le
dita di Michael avevano stretto fino a incidere la pelle, e un rivolo
bianco aveva ripreso a scorrere sul suo corpo, gola clavicola seno,
ma poi lei l’aveva asciugato con un gesto rabbioso prima che
raggiungesse il ventre, perché il sangue le faceva schifo e
non
voleva avercelo addosso.
Ce
n’era già abbastanza sul terreno.
E
poi la stanchezza l’aveva vinta, tentandola con il suo
pacifico
nulla: si era lasciata scivolare nel sonno, i muscoli sempre
più
rilassati, la mente immersa nell’oblio.
Rinvenne
dopo un tempo che non seppe quantificare, quando due mani piccole e
tiepide le accarezzarono gentilmente il viso. Aprì gli
occhi, priva
della difficoltà che accompagnava – secondo
ciò che aveva
accennato la sua insegnante – il risveglio degli Umani, per
vedere
alla luce del giorno un sorridente – ghignante
– viso di
bambino ad un soffio dal suo; dopo qualche istante comprese che era
il corpo posseduto da Eisheth. Non si era nemmeno accorta del suo
arrivo.
«Oh,
mia cara, finalmente.» ridacchiò il demone
«Temevo che non ti
svegliassi più.»
«Anane?»
«L’ho
lasciata con Sephon. Non voglio che si avvicini a certa feccia.»
indicò alle sue spalle con espressione disgustata
«Ti porto i suoi
saluti, se ti consola.»
Feccia.
Un collaboratore dei Censori, che si assicurava che tutto andasse
secondo la morale. Chi veniva condannato lo era, non certo chi
accusava; e, se fino a poco tempo prima lei non si era sentita tale,
dopo aver chiuso gli occhi e ignorato quell’orrore non poteva
più
dirsi certa di non essere feccia. Anzi.
Lasciò
ricadere la testa sulle ginocchia, trattenendo a malapena un
singhiozzo. Non aveva nemmeno il coraggio di voltarsi, di cercare
Michael e vederlo sporco di sangue, sangue dolce, sangue angelico,
sangue di chi l’aveva cresciuta, sangue come il suo. Non le
importava nemmeno sapere cosa avesse scoperto, voleva solo chiudere
gli occhi e dimenticare. Ignorare tutto, come aveva fatto sino a quel
momento, rendendosi complice.
Quel
pensiero le provocò un altro singhiozzo.
«Su,
su, cara, non fare così. Sei davvero irritante.»
Eisheth
si portò alle sue spalle e le sfiorò la base
delle ali in un gesto
materno; poi, preso un laccio da una tasca, le raccolse i capelli in
una coda morbida. Sarebbe persino parsa rassicurante, se non avesse
continuato a ridacchiare tra sé e sé.
«Shoftiel
non ha comunicato a nessuno i suoi sospetti su Anane... molto da lui.
Avrebbe dovuto dividere la gloria con qualcuno, altrimenti. La sua
ambizione gioca a vostro favore, sì? Non
c’è nulla di cui
preoccuparsi.»
Il
demone sembrava sapere perfettamente che non stava singhiozzando per
la preoccupazione. Subito aggiunse, infatti, con un ghigno
più ampio
degli altri: «Ora dobbiamo solo trovare il modo di
eliminarlo. Hai
mai visto un’essenza estinguersi, cara? Sono certa che ti
piacerà,
è spetta-»
«Eisheth.»
Il
ringhio di Michael fu un balsamo, dopo le continue risatine acute del
demone. Amitiel lo accolse rialzando di scatto la testa per guardare
sopra di sé, ma se ne pentì con un brivido: il
volto del caduto era
contratto per la rabbia, gli occhi ancora neri, il corpo lambito da
sottili fiamme scure per l’essenza che si concretizzava,
nutrita
dalla rabbia. E sangue, sangue sulle sue mani, sangue sul suo corpo,
sangue ovunque, ma lui ignorava il dolore e nemmeno tamponava quel
liquido bianco che, per gli Sconsacrati, doveva essere bruciante
quanto l’Espiazione. E sangue nero, anche, sulle unghie
irregolari
e scheggiate.
«Oh,
tesoro, hai finito di strapazzare la povera Liwet?» gli
chiese
Eisheth, leziosa, ignorando la sua occhiata furiosa «Povera
cara,
non poteva sapere che Shoftiel avesse deciso di fare una visitina
qui, sì? La sua Influenza è stata discreta, sui
Custodi di cui era
a conoscenza. Non buona quanto la mia, certo,» fece
schioccare la
lingua sul palato, pensierosa «ma comunque degna di nota,
considerando che si è sviluppata da poco. Così
giovane... era
appena due classi avanti a Sa-»
«Eisheth.»
«Sì,
sì, taccio, come vuoi.» annuì con
espressione beffardamente
contrita, salvo poi riprendere dopo pochi istanti: «Oh, non
indovinerai mai chi ho visto venendo qui!»
Michael
non diede segno di interessarsene.
«Non
ci provi nemmeno? Dai, fa’ contenta tua madre, almeno un
nome!»
«Eisheth.»
«Tesoro,
è scontato che io mi sia vista venendo qui.»
fissò i grandi occhi
infantili su Amitiel «E tu, mia cara, non vuoi provare a
indovinare?»
«Basta!»
Le
fiamme nere che lambivano il corpo del caduto si estesero e Amitiel
si ritrasse di scatto, spaventata, per non esserne sfiorata. Erano
terribilmente simili all’Espiazione e, benché con
ogni probabilità
non fossero tanto dolorose, preferiva non rischiare.
«Proprio
nessuno vuole indovinare? E va bene...» la falsa espressione
di
delusione fu sostituita da un ghigno eccitato «Tuo padre, ci
crederesti? Pensavamo tutti che avesse smesso di insegnare, dopo
quell’incidente, sì? E persino il padre di
Anane!» batté le
mani, entusiasta «E sua-»
«Madre.»
Eisheth
sembrò soddisfatta.
«Vuoi
che vada da Liwet, caro? Ha sempre idee brillanti, potrebbe
risparmiarmi il tedio di pensare al modo di sistemare questa
situazione, sì? Non vorrei mai che la tua cara
Amitiel si
trovasse in pericolo. E mia
figlia, non dimentichiamoci di lei.»
Scoccatagli
un’occhiata che Amitiel non seppe interpretare, Eisheth
tornò
indietro saltellando, senza attendere risposta. Il cherubino
voltò
istintivamente il capo per seguirla con lo sguardo; tentando di
ignorare – ignorare? No, no, non poteva davvero
ignorarlo, era
terribile, faceva schifo – il corpo straziato a
terra,
abbandonato come una bambola divenuta inutile, incontrò la
figura di
colei che doveva essere Liwet. La prima parola che le
associò fu
‘morbida’, perché la bassa statura la
faceva apparire più
robusta di quanto già la rendesse una lieve pinguedine, data
probabilmente da un’essenza fin troppo florida; ma non se ne
ricavava un’impressione sgradevole e, anzi, Amitiel avrebbe
potuto
trovarla rassicurante, se uno squarcio non le avesse lacerato il viso
dallo zigomo alle labbra.
Sangue
nero colava copiosamente, imbrattandole il collo e i capelli castani,
eppure non sembrava esserne colpita: si limitava a rimanere immobile,
attendendo che Eisheth la raggiungesse con la sua andatura
saltellante, senza dar segno d’inquietudine o di dolore.
Addirittura le sorrise, accorgendosi del suo sguardo, riuscendo a
sembrare benevola anche con quella ferita a deturparle i tratti
morbidi del viso.
«Posso
avere l’onore della tua attenzione?» la riscosse
Michael,
irritato.
Alzando
il viso verso l’alto per guardarlo, notò che le
sottili fiamme
nere erano del tutto scomparse – blanda rassicurazione che
non
diminuì l’orrore per il sangue che gli imbrattava
il corpo. Quando
lui allungò una mano, Amitiel si ritrasse di scatto,
tremando,
perché se aveva fatto quello chissà di
cos’altro poteva essersi
macchiato, e senza il minimo rimorso, senza la minima esitazione, e
chissà cosa avrebbe potuto fare a lei, e ad Anane, e...
...e
l’aveva fatto per lei, perché altrimenti sarebbe
stata accusata e
condannata. Per lei. Una sottile lusinga si
aprì uno
spiraglio tra l’orrore, abbastanza a non farla più
ritrarre
quando, lo sguardo furioso ma le mani ripulite sugli abiti, Michael
la afferrò per un polso e la strattonò per farla
alzare in piedi.
Le
fece male. La sua pelle inviò un fremito di dolore, tanto
intenso da
lasciarla per un attimo annichilita, perché sulle dita del
caduto
erano rimaste tracce nere e gelide, di quel gelo che sembra mordere e
bruciare anche le ossa. Come il loro primo contatto,
ricordò; no,
quello era stato peggio, con la mano di Michael a serrarle la gola e
le fiamme a divorarla dentro, ma anche questo era doloroso, tanto,
troppo, e un singhiozzo le sfuggì senza che neppure provasse
a
reprimerlo.
«Non
osare piangere.» ringhiò il
caduto «Sei già abbastanza
patetica.»
Le
lasciò il polso, ma solo per passarle il braccio attorno ai
fianchi
e stringersela contro. Amitiel sibilò di dolore e ribrezzo,
le
braccia nude a contatto con il tessuto intriso di sangue, la fronte
premuta contro il collo gelido del caduto. Gli spinse le mani contro
il torace, inutilmente, mentre i singhiozzi divenivano più
frequenti.
«Non
piangere.» le ripeté, in un tono quasi stanco, che
più che un
ordine sembrava una richiesta.
«Lasciami.»
In
risposta, la strinse di più. Alla lieve lusinga si aggiunse
un
languore strano, che dilagava nel ventre in onde lente e tiepide;
paradossalmente – o forse coerentemente con il gelo del
caduto –
rabbrividì. Le piaceva quel contatto,
nei brevi istanti in
cui l’orrore cedeva il passo ad altre sensazioni. I muscoli
compatti del torace sotto le proprie dita, il respiro freddo che le
lambiva un orecchio, le ali di cui avvertiva la presenza ad un soffio
dalla pelle, il braccio che le cingeva i fianchi quasi con violenza.
Gli
occhi grigi che la fissavano, furiosi e annebbiati da qualcosa che,
forse, era ciò che stava pervadendo anche lei.
Michael
era crudele. Spietato. Glorioso, si ritrovò a pensare. Glorioso.
E quello che aveva fatto l’aveva fatto per lei. Per
lei.
Quanti altri, nella sua breve vita, le avevano prestato
un’attenzione
simile? Quanti l’avevano stretta e si erano chinati a
sfiorarle
l’orecchio con le labbra e l’avevano guardata? Non
vista, non
scorta, non esaminata con freddezza, ma guardata,
con uno
sguardo così intenso da farla rabbrividire.
Lo
voleva. Era un
bisogno di cui
non comprendeva il senso, o le implicazioni, ma c’era. Il
desiderio
di toccarlo e lasciarsi toccare, pelle e muscoli e la mano che le
stringeva il fianco e occhi e respiro e... e quel languore intanto
minacciava di divorarla, sarebbe morta nel calore che dilagava nel
ventre e nel brivido che le scuoteva la schiena e le ali.
E
all’improvviso non importava più del sangue e del
tradimento e
della sua complicità in quell’orrore, e neanche di
Eisheth a pochi
passi da loro e di Anane e del Paradiso e di tutto il resto, lo
voleva ed era una sensazione così nuova e così
intensa da
inghiottire ogni altra cosa e non permetterle nemmeno un pensiero
coerente. Importava solo il torace contro cui era premuta – a
cui si aggrappava
–, la mano
sul suo fianco e l’altra che era risalita a stringerle i
capelli,
il respiro gelido che le sfiorava il viso, lo sguardo grigio che la
trafiggeva. Importava solo lui.
«Chiudi
gli occhi.» le ordinò, roco.
Obbedì.
***
Angolo autrice
Sì, so che sarete tutti in preda allo shock.
Questo capitolo contiene una spaventosa rivelazione.
Gli Angeli non usano i
temperini.
*tossicchia* Bene, dopo aver concesso la dovuta attenzione alla carta
ruvida con cui il povero allievo di Khamiel stava temperando la matita,
torniamo alle cose serie. Grazie come sempre a chi ha inserito la
storia in una delle tre liste e un ringraziamento particolare a chi
commenta (:
Questo capitolo potrebbe partecipare alle fiere del "Scene con personaggi secondari
che sembrano inutili ma inutili non sono" e del "Interrompiamo sul
più bello". E ora lascio voi, Amitiel
"Finalmente il corpo si
dà una svegliata" e il
povero Michael "Trattieniti
o le fai una lezione di anatomia in pubblico" in attesa
del prossimo, non avendo particolari appunti su questo.
A domenica! (:
|
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Capitolo 17 *** 16. Pioggia ***
Capitolo
16 – Pioggia
«No.»
Quel
no,
sibilato in tono esausto
e tutt’altro che fermo, ebbe il potere di farla tornare
lucida.
Quasi l’avesse proferito lei, si allontanò di
scatto, sgusciando
via dalla sua presa – non che Michael avesse tentato di
impedirglielo, anzi, abbandonò lui stesso le braccia lungo i
fianchi.
Si
sentiva ancora
annegare nel languore, ma qualcosa di ancora più intenso la
faceva
tremare, urlandole che era sbagliato, era disgustoso, era osceno.
Aveva l’impressione di essere sporca dove lui
l’aveva toccata, e
la cosa più nauseante era che continuava a piacerle. Si
strinse le
braccia attorno al corpo, come per proteggersi – o per
impedirsi di
tornare a toccarlo e sentirsi di nuovo stringere e assaporare il suo
respiro gelido.
«No.»
ripeté Michael, fissando un punto sopra il suo capo
«Non... Sei
alla quinta classe. Quinta classe.
È da insani.»
Amitiel
abbassò lo sguardo, offesa e ferita. L’aveva
rifiutata. Le aveva
impedito di compiere un’oscenità, sì,
ma l’aveva
rifiutata.
Era...
un senso di
contrarietà strano, che non aveva mai provato.
Voleva
che tornasse a
stringerla. Aveva fatto male, la sua pelle gelida, ma era stato bello
– bello in quel modo strano e nuovo che nonostante sembrava
naturale, familiare. Istintivo. Umano.
«Devo
parlare con
Liwet. Resta qui.» le ordinò, ancora senza
guardarla.
«Credo»
trillò
Eisheth con una risata acuta, facendola sobbalzare: non si era
accorta che si fosse di nuovo avvicinata, con quel corpo tanto minuto
«che sia meglio farla ascoltare, caro. Non
c’è tempo per
spiegarle tutto più tardi.»
«C’è.»
«Liwet
è stanca,
povera cara: influenzare due Custodi contemporaneamente,
così a
lungo, immatura com’è... e anche Sephon
sarà esausto. Non
perdiamo tempo, rischiamo che si deconcentrino.»
abbracciò di
scatto Amitiel, premendo la guancia contro il suo ventre «E
non
priviamo Amitiel della tua presenza per questi ultimi istanti,
sì?»
Prima
ancora che il
cherubino tentasse di allontanare quel corpo infantile da
sé,
Michael l’aveva strattonato lontano da lei e con un brusco
cenno
del capo aveva ordinato a Liwet di raggiungerli. La donna
scavalcò
il corpo a terra con una noncuranza che stonava con la sua aria
gentile e si avvicinò a passi piccoli e rapidi; dava
l’impressione
di fluttuare, più che di camminare, e il suo viso grondante
sangue
dallo squarcio sembrava una maschera congelata in
un’espressione
materna. Amitiel non
riusciva a capire se quella donna le piacesse o meno.
«Avete
bisogno di me?»
chiese con voce sommessa una volta che li ebbe raggiunti, fermandosi
per rispetto un paio di passi più indietro di Eisheth.
«Ripeti
anche a loro
il tuo suggerimento, cara.» la invitò Eisheth, in
tono di comando
quasi gentile.
«Si
potrebbe» lasciò
vagare lo sguardo su tutti loro, Amitiel compresa, che si
stupì di
una simile considerazione verso un cherubino «simulare un
attacco.
Isolato, improvviso, non pianificato. In alcun modo legato alle
nostre strategie. Mirato solo al Custode, per vendetta –
magari da
parte di un folle, privo di controllo, perché non venga
considerata
una voluta violazione dei patti da parte di tutti noi. Casuale il
luogo, casuale la presenza dei Cherubini.»
«Ho
giusto qualcuno di
cui volevo liberarmi da un po’.» Eisheth
batté le mani,
entusiasta «Posso convincerlo a venire qui e fargli perdere
il
controllo.»
«Non
avevo dubbi sulla
capacità della tua Influenza.» le rispose Liwet,
con un tono che
non sembrava adulatorio, ma solo velato di una sincera ammirazione
«E
tua figlia mi sembra abbastanza matura da fingere in modo
convincente.»
«Non
Amitiel.»
intervenne Michael «E c’è il rischio che
venga... vengano ferite
anche loro.»
«L’accusatore
più
attivo dai tempi delle grandi Cadute e due Cherubini di cui quasi
s’ignora l’esistenza. Tu attaccheresti i Cherubini,
sì?»
«Rimane
il problema.
Amitiel non sa mentire.»
«Prima
imparerà, più
possibilità avrà di sopravvivere in Paradiso.
Sono certa che Anane
saprà essere un’ottima maestra.»
«Anane
è un’allieva
del ciclo superiore.» intervenne Liwet in tono pacifico
«Vorranno
parlare con lei, non con una della quinta classe.»
«È
un rischio.»
ringhiò l’uomo.
Continuava
a non
guardarla, notò Amitiel, e a rimanere distante; parlava come
se lei
non ci fosse, un contrasto stridente e offensivo con la
considerazione che Liwet continuava a riservarle, attraverso brevi
occhiate rassicuranti.
«Hai
altre soluzioni,
caro?»
Michael
non rispose.
«Perfetto.
Liwet, devo
abbandonare questo corpo, riportalo dove l’ho preso. Spiega
tu a
mia figlia e a Sephon – lui saprà gestire tutto.
Mia cara» si
volse verso Amitiel, ghignando «se vuoi farti spiegare
qualcos’altro
sullo Sviluppo, io sono sempre disponibile.»
«Evita,
Eisheth.»
«Sempre
felice che tu
riconosca il nostro legame, figlio mio, ma non farti distrarre troppo
dall’affetto verso di me. Sta’ attento, tesoro, mi
raccomando.»
E,
schioccatogli un
bacio sul palmo di una mano, lasciò quel corpo. Amitiel
poté
giurare di aver scorto una sottile traccia rossastra svanire dagli
occhi del bambino, come un filo di fumo, prima che questi si
accasciasse privo di sensi; il cherubino sussultò, vedendolo
inerte,
ma Liwet lo afferrò prima che crollasse a terra e, strettolo
al
petto senza fatica, le mormorò:
«Rinverrà tra poco, non temere.
Per lui sarà solo come aver dormito molto a lungo.»
Espose
le ali nere da
angelo caduto e si alzò in volo senza un’altra
parola. Amitiel la
salutò con un cenno della mano appena abbozzato, come per
ringraziarla dell’attenzione che le aveva concesso
– anche se a
ben vedere nessuno, nemmeno Liwet, le aveva chiesto se si sentisse in
grado di sostenere quella recita. D’altronde, era un
cherubino: che
importanza potevano avere le sue parole?
Gli
Sconsacrati non
erano poi molto diversi dagli Angeli.
Michael
rimase per un
istante in silenzio, senza guardarla, poi si avvicinò al
corpo che
ancora giaceva a terra, immobile – doveva aver perso tanto
sangue
da non riuscire più a controllare i movimenti. Lei distolse
gli
occhi. Era possibile essere più colpita dal comportamento
scostante
del caduto che dall’orrore di cui si era resa complice?
...sì,
evidentemente
lo era, almeno in quel momento. Voleva che tornasse a guardarla, a
prestarle attenzione, a toccarla – no, a toccarla no,
perché era
un’oscenità, quello che provava.
Come
se tessere legami
con gli Sconsacrati non fosse anch’esso una colpa.
«Michael?»
lo chiamò,
esitante, senza osare avvicinarsi.
«Taci.»
«...perché?»
Non
era un ‘perché
devo tacere?’, ma un ‘perché
fai così?’ e, anche
se forse Amitiel non se ne rendeva nemmeno pienamente conto, lui
invece lo colse. Le sue enormi ali da arcangelo ebbero un fremito.
«Sei
alla quinta
classe. Non posso sporcarti. Lo
vedrebbero.»
«Avevi
detto che...
l’essenza dei Cherubini...»
«Non
in quel senso.»
«Non
capisco.»
ammise, frustrata. Voleva che tornasse a stringerla; perché
non
poteva? Perché si allontanava? Perché cercava di
ignorarla il più
possibile?
«Ti
cambierebbe. Ti
farebbe... maturare, in modo troppo rapido e troppo evidente.»
«Davvero?»
«No,
sto lontano
perché lo trovo divertente.»
Era
un’ammissione –
strappata come un ringhio sarcastico, ma pur sempre
un’ammissione.
Le fece piacere. Persa tra il compiacimento che le riscaldò
le
guance e il languore tiepido che ancora le accarezzava il ventre,
aveva quasi dimenticato l’orrore per quel corpo dilaniato e
abbandonato a terra.
* * *
«E
così» stava
dicendo Cassiel, seduta con le gambe nel vuoto sul robusto ramo di un
albero che, con la sua chioma, le proteggeva parzialmente dalla
pioggia «tu sei l’allieva
dell’Autorità più influente
dell’intero collegio?»
«Non
la più
influente.» la corresse Sachiel, accanto a lei, sovrastando a
malapena lo scroscio dell’acqua «Quella che
riferisce
all’arcangelo Raphael e al Consiglio. È un ruolo
onorevole, ma non
concede poteri maggiori rispetto alle altre
Autorità.»
«Sì,
naturalmente. Mi
sono espressa male.»
Il
tono di voce,
l’espressione, la luce che brillava nei loro sguardi, tutto
contraddiceva il senso delle loro parole. Leliel era riconosciuta da
tutti come l’Autorità più influente
della loro Circoscrizione, e
questo garantiva ai suoi allievi una posizione altrettanto
considerevole nelle implicite gerarchie dei Cherubini; persino i
Custodi, se non tutti gli adulti, avevano un atteggiamento
più
rispettoso nei loro confronti, poiché era preferibile non
attirarsi
i rancori di chi un giorno sarebbe di certo stato influente.
Questo
nonostante i
Cherubini del ciclo superiore fossero tutti alla pari,
indipendentemente dal loro insegnante, e che non fosse permesso
né
privilegiare qualcuno né portare rancore. Ma
d’altronde non era
nemmeno regolare che ad un’Autorità fosse
riconosciuto maggior
potere rispetto alle altre.
Si
parlava per
sottintesi.
Quando
Cassiel aveva
terminato di analizzare ogni presenza, con delle Percezioni
sorprendentemente sviluppate – sorpresa di cui
l’altra non aveva
voluto mostrare alcun segno –, Sachiel non si era
perciò stupita
che sfruttasse quella pausa per informarsi
sull’identità del suo
insegnante. La domanda, pronunciata in tono casuale e disinteressato,
nascondeva in realtà la valutazione di quanto rispetto le
fosse
dovuto; e, benché il solo fatto di essere al ciclo superiore
le
garantisse una posizione superiore a quella dell’altra,
Sachiel
aveva accontentato quella curiosità calcolatrice con non
poca
soddisfazione.
Avrebbero
dovuto
rimproverarla per quella superbia che mostrava spesso con gli altri
allievi, ma in realtà nessuno poteva biasimarla davvero
– in primo
luogo la sua maestra. Quando con la voce le suggeriva di essere
più
umile con i suoi pari, con gli occhi sembrava invece ordinarle di
mostrare un po’ di quell’orgoglio anche con gli
adulti; il
problema era che, in quanto adulti, Sachiel li rispettava troppo per
non essere modesta.
Non
che non rispettasse
gli altri Cherubini – sarebbe stata un’arroganza
inaccettabile –
ma aveva guadagnato la propria posizione con impegno e intendeva
sfruttarne i vantaggi; e la sua maestra, dietro
un’esortazione a
concentrarsi solo sullo studio e non su simili distrazioni, sarebbe
stata senza dubbio compiaciuta da questi pensieri.
Chi
sembrava non
rispettare gli altri Cherubini – e ne aveva di certo meno
motivo di
Sachiel – era Cassiel: con gli occhi neri animati da una
scintilla
calcolatrice e ambiziosa, dava l’impressione di valutare gli
altri
a seconda della loro utilità e di ritenersi superiore ad
ogni altro
in virtù della propria genialità. Era quella
genialità a
permetterle un comportamento simile, lasciando un senso
d’invidia
strisciante, una rispettosa ammirazione, una vaga confusione.
Cos’altro si poteva esigere da chi, ad un soffio dalla
propria
creazione, era quasi alla fine del ciclo? Quanto altro impegno era
lecito pretendere? Si poteva biasimare la sua superbia per qualcosa
che le era riconosciuto da tutti?
Forse
il problema,
rifletté Sachiel, era proprio che non le si chiedeva nulla
più di
ciò che già dava. La obbligavano a saltare
classi, a recuperare
interi libri in appena qualche ciclo temporale, ma non sembrava
risentirne: non appariva stanca, provata, o anche incerta su
ciò che
aveva dovuto apprendere tanto in fretta. Gli insegnanti esigevano
solo che non rimanesse indietro rispetto al gruppo e questo non
doveva essere troppo pesante, data la sua genialità; non si
doveva
sforzare più di qualsiasi altro allievo, in proporzione alle
sue
capacità.
Il
che, Sachiel lo
sapeva, era un errore. Avrebbe dovuto andare a riposare esausta,
dolorante, molto più degli altri Cherubini; avrebbe dovuto
impegnarsi sino allo sfinimento, per completare il periodo da
cherubino nel minor tempo possibile, e non in quello che si riteneva
fosse adatto al suo talento. Non dava più di ciò
che le veniva
chiesto, mentre avrebbe dovuto sempre offrire tutto ciò che
era in
suo potere. Lo Specchio sapeva insegnare bene questo tipo di
sacrificio, ma lei, che esulava dalla didattica classica, avrebbe
dovuto impararlo in altro modo – ancora da cherubino,
possibilmente, in modo da non rischiare la vita per non essersi
impegnata abbastanza in uno scontro.
Sachiel
si sistemò
meglio sul ramo, la schiena ritta e le gambe solo leggermente
oscillanti nel vuoto. Si voltò per osservare
l’altra, che nel
frattempo era tornata a concentrarsi sulle proprie Percezioni, sotto
suo ordine; spostando dietro un orecchio una ciocca sfuggita alla
treccia, notò che Cassiel invece portava i capelli
più corti,
raccolti da un nastro. Non era usuale: benché non vi fosse
una netta
distinzione, le allieve preferivano superare almeno le scapole o
tagliarli tanto corti da non doverli legare, mentre alle spalle era
una misura tipicamente maschile. In questo, e nel suo celare il seno
e i fianchi da donna lasciando gli abiti larghi il più
possibile,
sembrava quasi voler rinnegare il proprio sesso – la propria
inferiorità nei confronti di chi, a parità di
rango, le sarebbe
sempre stato superiore in quanto uomo.
Non
era stata educata
ad accettare la subordinazione, evidentemente. Abituata a sentirsi
superiore, a non impegnarsi a fondo, a compiacersi sterilmente del
proprio talento; Leliel non ne sarebbe stata soddisfatta,
rifletté.
Forse non l’avrebbe ritenuta abbastanza matura per il ciclo
superiore.
«Sachiel.»
la
riscosse l’altra, con voce stranamente incerta. Aveva le
palpebre
socchiuse, come se non sapesse decidere se aprirle o serrarle di
nuovo, e i denti affondati nel labbro inferiore. Le ali tremavano
lievemente, le mani artigliavano spasmodicamente la corteccia del
ramo, l’essenza – Sachiel la scorgeva con poco
sforzo – si
tendeva con inquietudine.
«Sì?»
«C’è...
qualcosa.
Qualcosa di strano.»
«Cosa?»
«Non
lo so, non riesco
a concentrarmi. Mi... respinge.» si umettò le
labbra «Ma c’è,
lo sento. È disturbante.»
Ansia.
Angoscia.
Inquietudine.
...sollievo.
«Sto
cercando, ma non
avverto nulla.»
«Cerca
meglio.»
«Porta
rispetto,
fascia rossa.» sibilò, perdendo momentaneamente la
concentrazione.
Cassiel
chinò il capo
senza scusarsi.
«Continuo
a non
avvertire nu-» ad occhi sgranati, dovette aggrapparsi ad un
ramo
sopra di sé per non cadere «Dai Guardiani,
subito.»
«Cosa-»
«Subito!»
*
* *
Capitolo
tre, paragrafo nove: pioggia (maiuscolo, sottolineato).
Precipitazione dalle nubi (sottolineato; vedi capitolo due, paragrafo
quattro) di gocce d’acqua (sottolineato) più o
meno grandi e
fitte. Spesso accompagnata da bassa temperatura (vedi capitolo uno,
paragrafo due), minore luminosità (vedi capitolo uno,
paragrafo
uno), vento (vedi capitolo tre, paragrafo otto). Se di particolare
intensità, accompagnata da tuoni (vedi capitolo quattro,
paragrafo
sei) e fulmini (vedi capitolo quattro, paragrafo sette), prende il
nome di temporale (maiuscolo, sottolineato).
Indispensabile
per la crescita della vegetazione (sottolineato; vedi capitolo sette,
paragrafi dieci e undici) e per la stabilità dei corsi
d’acqua
(sottolineato; vedi capitolo sette, paragrafo sei).
Aveva
riletto quel paragrafo così spesso, per tentare di capirlo,
da
impararlo a memoria, e continuava a ripeterselo – note e
sottolineature e maiuscole incluse – per assicurarsi che
quella che
si riversava su di lei fosse effettivamente pioggia. Aveva dovuto
assicurarglielo Michael, appena prima che Anane arrivasse e lui si
congedasse con una lieve carezza ai capelli, altrimenti non
l’avrebbe
mai compreso: ‘precipitazione’
non rendeva bene l’idea di quella moltitudine di gocce
sottili
rigettate dal grigiore delle nubi, non definiva la sensazione dei
rivoli che scorrevano lungo il corpo, non descriveva quel
tamburellare rilassante, non tratteggiava l’immagine
dell’acqua
che rimaneva impigliata tra i capelli come piccole lacrime, non
evocava quel profumo intenso, strano, piacevole –
l’odore tipico
di un bosco sotto la pioggia, terra e muschio e umidità, che
in
Paradiso non aveva mai potuto percepire.
La
pioggia la lavava
dal sangue che era rimasto sul tessuto della sua divisa –
difficile
da sporcare e semplice da pulire, con suo enorme sollievo. La
accarezzava con dita fredde, delicate, come la mano di Michael tra i
capelli prima che si congedasse. La cullava con il suono ritmico e
ipnotico, melodioso quanto la voce di Anane che tentava di
rassicurarla. La investiva con il suo profumo, la avvolgeva in un
abbraccio leggero, la immergeva in un mondo ovattato. La meravigliava
sussurrando storie d’acqua che sgorgava dalle sorgenti,
scivolava
lungo i ciottoli del greto come un nastro d’argento e
giungeva alle
onde spumose dell’oceano, e poi risaliva sino al cielo e si
riversava di nuovo verso il basso per nutrire il terreno arido;
storie di pietre levigate dalla corrente, di sentieri scavati dal suo
corso lungo le pendici dei monti, di villaggi sorti lungo il suo
corso; storie di creature che si erano chinate sui suoi flutti per
dissetarsi, di radici affondate nel terreno umido per assorbirne
vita.
Se
si concentrava su di
essa e sulla sterile ripetizione di ciò che aveva studiato,
poteva
rimanere distaccata. Assorta nel suo ripasso, le mani tese in avanti
per raccogliere la pioggia, gli occhi fissi sulla scena senza quasi
vederla davvero, riusciva a cancellare tutto il resto.
«Amitiel?
Amitiel, non
piangere, per favore, non piangere. Andrà tutto
bene.»
Capitolo
tre, paragrafo nove: pioggia (maiuscolo, sottolineato).
Via
la sagoma del
demone che si avventava sul corpo a terra e feriva, lacerava,
dilaniava.
«Adesso
finisce, non
preoccuparti, tra poco chiamo i Custodi.»
Precipitazione
dalle nubi (sottolineato; vedi capitolo due, paragrafo quattro) di
gocce d’acqua (sottolineato) più o meno grandi e
fitte.
Via
l’odore dolciastro e nauseante del sangue.
«Girati,
non guardare,
non guardare!»
Spesso
accompagnata da bassa temperatura (vedi capitolo uno, paragrafo due),
Via
la nebbia bianca
che si diffondeva, sottile, dagli occhi quasi vitrei del Custode.
«Amitiel,
non devi
vederlo, girati!»
minore
luminosità (vedi capitolo uno, paragrafo uno),
Via
la nube rossastra
che soffocava lentamente quella foschia, come ingoiandola.
«Va
tutto bene, va
tutto bene, non guardare.»
vento
(vedi capitolo tre, paragrafo otto).
Via
Anane che la
abbracciava ma non faceva niente, niente, assolutamente niente per
fermare quello scempio.
«...ci
sta mettendo
troppo tempo.»
Se
di particolare intensità, accompagnata da tuoni (vedi
capitolo
quattro, paragrafo sei) e fulmini (vedi capitolo quattro, paragrafo
sette),
Via
la voce fredda e
calcolatrice che neanche sembrava appartenerle.
«Di
questo passo,
qualcuno potrebbe accorgersi di... no, tranquilla, va tutto bene, va
tutto bene, non piangere.»
prende
il nome di temporale (maiuscolo, sottolineato).
Via
i suoi occhi
azzurri socchiusi per concentrarsi e controllare i movimenti dei
Custodi.
«Amitiel,
ti ricordi
cosa devi dire ai Custodi, sì?»
Indispensabile
per la crescita della vegetazione (sottolineato; vedi capitolo sette,
paragrafi dieci e undici)
Via
l’urgenza della
sua voce, le mani che le scuotevano le spalle.
«...arriva
qualcuno.»
e
per la stabilità dei corsi d’acqua (sottolineato;
vedi capitolo
sette, paragrafo sei).
Via
Ramiel, la
Guardiana, che compariva all’improvviso tra gli alberi e si
avventava sul demone.
«No.
No, no, no,
no...»
Capitolo
tre, paragrafo nove: pioggia (maiuscolo, sottolineato).
Via
il corpo dilaniato
del Custode a terra, i suoi occhi annebbiati dal dolore.
I
suoi occhi vivi.
***
Angolo autrice
Grazie a chi legge, inserisce la storia in una delle tre
liste e soprattutto commenta!
|
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Capitolo 18 *** 17. Quarto Evo ***
Capitolo
17 – Quarto Evo
Il
lungo corridoio che
collegava i palazzi di Autorità e Censori era silenzioso,
deserto.
Nessun suono di passi risuonava sotto il candido soffitto a volta;
nessuna figura s’intravedeva, dall’esterno, oltre
vetri su
entrambi i lati – da una parte la piazza che separava i due
palazzi, dall’altra edifici più bassi che dal lato
opposto
costeggiavano la Via. Le uniche presenze erano i due Esecutori alle
estremità, immobili appena oltre il punto in cui il
corridoio
terminava di snodarsi in un palazzo per superarne le mura e
collegarsi all’altro: controllavano il movimento e si
rendevano
disponibili ad Autorità e Censori per trasmettere messaggi
–
entrambi compiti riservati ai Guardiani, di solito, ma la
scarsità
di fasce nere aveva ormai reso necessario affidarsi a quelle blu.
L’Esecutore
che
sorvegliava il passaggio dal palazzo dei Censori si spostò
con
deferenza non appena, svoltata un’ansa del corridoio
all’interno,
comparve una donna: le ali candide da serafino raccolte sulla
schiena, la fascia color avorio delle Autorità a cingerle i
fianchi.
Coperta la distanza che li separava, lei gli concesse un cenno del
capo in saluto e si diresse silenziosamente verso l’altro
palazzo,
ma dopo pochi passi arrestò l’andatura lieve e
regolare per
voltarsi, come richiamata da qualcuno; infatti un istante
più tardi
l’Esecutore si spostò di nuovo per permettere il
passaggio ad un
altro serafino, con la fascia bianca dei Censori. Gli occhi verdi
erano puntati sulla donna, non infastiditi dalle ciocche rosse,
tagliate corte in modo da non sfiorarli nemmeno – ma,
nonostante
quel colore che ricordava vagamente i Cherubini, nessuno avrebbe
potuto definirlo infantile, con quello sguardo freddo e
l’espressione
distaccata.
«Autorità.»
la
salutò per primo, senza un accenno di calore.
«Censore.»
rispose
nello stesso modo «Ho un impegno. Devo il tuo Richiamo ad un
motivo
improrogabile, o possiamo rimandare?»
«Sarò
breve,
Autorità, non temere. Se mi concedi di accompagnarti sino ai
vostri
uffici, non ti richiederò altro tempo. Stavo proprio
recandomi lì.»
«Come
desideri,
dunque.»
S’incamminò
di nuovo
nel lungo corridoio, verso il palazzo delle Autorità. Il
Censore la
affiancò dal lato che lasciava intravedere il Fuoco della
Via, sulla
destra, come a ribadire la superiorità del proprio sesso e
della
propria carica; tuttavia rimase un passo indietro, poiché
era lui a
doverle chiedere qualcosa e ad essere in suo potere, e non il
contrario.
Una
situazione che non
favoriva nessuno dei due; piuttosto abituale. Sin da cherubini il
loro rapporto era stato teso, ma da quando avevano ottenuto ruoli
così prestigiosi si era logorato più di quanto in
principio
ritenessero possibile. Non avevano semplicemente sostituito Censore
e Autorità ai loro nomi; al di
là dei Daniel e Leliel
taciuti, qualcosa di più profondo e velenoso
aveva scavato un
solco di rancori e invidie, nel terreno ammorbidito da
un’infanzia
trascorsa a detestarsi – circostanza comune, per i Cherubini
cresciuti durante il convulso Secondo Evo, ma che di rado aveva una
raggiunto simile intensità. Nessuno dei due era ancora
riuscito a
prevalere in quella lotta silenziosa, che languiva in uno stato di
parità sin dal momento in cui era iniziata.
Lotta
che stava per
raggiungere anche un altro ambito, a quanto Leliel poteva capire
dalle vuote formule con cui l’uomo stava esponendo la propria
richiesta.
La
tutela di un allievo
del ciclo superiore. Non una novità, per lui:
benché l’attività
di insegnante di Daniel non fosse assidua quanto la sua, non era
nuovo ad un simile compito; più volte aveva osservato le
lezioni
dell’arcangelo Hadar nella settima classe, non di rado anche
quelle
di Khamiel nella sesta, alla ricerca di un cherubino particolarmente
promettente tra quelli già considerati migliori. Da quando
era
divenuto Censore, non aveva mai ottenuto risultati inferiori
all’eccellenza, con i suoi allievi – gli errori del
periodo
precedente erano ormai dimenticati da tutti, e quei due Custodi non
diminuivano la gloria dei molti Guardiani e Strateghi che aveva
formato in seguito. Diversamente da lei, che aveva avuto tra i propri
allievi un traditore e un debole morto al primo scontro, Daniel non
aveva mai avuto altra colpa che l’inesperienza.
Questo
era il
contenuto, celato dietro formule rispettose e sorrisi cortesi:
l’esaltazione del proprio operato, lo svilimento del suo. Se
stava
chiedendo la tutela di un allievo a lei e non ad un’altra
Autorità
solo per soddisfare la propria vanità, però,
sarebbe rimasto
deluso, poiché lei non aveva alcuna intenzione di mostrarsi
colpita.
Giunti al termine del lungo corridoio, Daniel doveva ancora
comunicarle il nome dell’allievo – il Censore non
aveva il dono
della sintesi e, anzi, sembrava compiacersi delle vuote formule con
cui diluiva il discorso – e Leliel non aveva ancora dato il
minimo
segno d’irritazione per le continue allusioni ai suoi
fallimenti.
«Devo
chiederti di
sintetizzare, Censore: siamo quasi giunti.» gli disse, quando
furono
abbastanza lontani dall’Esecutore per non essere uditi
«Il nome
dell’allievo?»
Fu
con malcelata
soddisfazione e con ancor meno discreta sfida che Daniel
identificò,
finalmente, l’allievo – o meglio
l’allieva – che avrebbe
avuto l’onore della sua guida; e fu con poco stupore che
Leliel lo
accolse, benché avesse sperato di essersi ingannata nelle
proprie
previsioni.
E
invece.
Cassiel.
Il
cherubino per cui
lei aveva già – informalmente – sporto
richiesta alle altre
Autorità, e che avrebbe assicurato gloria a sé e
al suo insegnante.
Nessun altro aveva osato avanzare rivendicazioni su Cassiel, sapendo
delle sue intenzioni e ritenendola una valida guida; e se qualcuno
non ne era sicuro, aveva accortamente scelto di non esprimere i
propri dubbi. Non riteneva ancora il cherubino una sua proprietà,
ma aveva sperato che il Censore non volesse scatenare una lotta,
sottovalutandole l’astio e l’ambizione.
Spettava
alle Autorità
decidere a chi andassero affidati gli allievi del ciclo superiore, ai
Censori approvare la loro scelta; i membri più influenti
della
fascia dell’insegnante dovevano valutare se
l’ulteriore compito
non gli richiedesse troppo tempo o troppa attenzione;
l’atteggiamento
di tutti gli adulti verso il cherubino avrebbe poi gettato su allievo
e maestro l’ombra della mediocrità, o li avrebbe
al contrario
consacrati entrambi alla gloria.
Non
era mai accaduto
prima che tutti dovessero schierarsi a favore dell’uno o
dell’altro, perché entrambi erano sempre stati
abbastanza accorti
da capire che una lotta troppo palese avrebbe devastato la loro
Circoscrizione senza portare a nulla. Perché rompere quel
tacito
accordo? Erano già in una situazione fin troppo incerta,
senza
aggiungere conflitti intestini. Avrebbero rischiato di soccombere e,
in un clima simile, sarebbe ricominciato tutto ciò che aveva
reso il
Secondo Evo così convulso e incontrollato.
Angoscia.
Sospetti.
Livore. Tradimenti reali e presunti.
Qualcuno
ne sarebbe
uscito...
La
sua espressione, a
quel pensiero, mutò per la prima volta in un lieve
turbamento –
violento allarme ben mascherato.
Qualcuno
ne sarebbe uscito completamente annientato.
Il
possesso di un
cherubino – perché di possesso si trattava, con
quell’avanzare
rivendicazioni e diritti sulla sua essenza immatura – era
appena
divenuto il nuovo ambito di scontro tra Autorità e Censore.
Forse
l’ultimo.
* * *
Il
vento sibilava tra
le cime più alte, scuotendo le foglie di un verde smorto,
accarezzando le cortecce ruvide. Un intenso aroma di erba bagnata lo
colpiva, quando respirava per percepire gli odori, e acuti richiami
di animali gli ferivano l’udito abituato al silenzio.
Il
Paradiso gli
sembrava sempre più perfetto ogni volta che discendeva nella
dimensione umana – occasioni che erano andate diradandosi nel
corso
della sua esistenza, arrivando persino a non accadere per tutto il
tempo in cui il suo gruppo di allievi si era completamente rinnovato
quattro volte. Aveva chiesto e ottenuto di rimanere
nella
dimensione angelica.
Troppi
ricordi, troppi
rimpianti. Memorie ancora troppo vive di persone che, in
realtà,
morte non erano.
Aveva
sperato di non
dovervi discendere almeno sino a quando anche le ultime testimonianze
tangibili sarebbero scomparse dallo Specchio, inghiottite dalla marea
febbrile della vita adulta – ali bianche e
identità perse sotto il
colore di una fascia, niente più volti familiari, niente
più
essenze immature che portavano un’impronta dolorosamente
conosciuta. Niente più promesse da mantenere.
E
invece era tornato in
quel luogo mutevole e pregno di ricordi, imperfetto di
un’imperfezione che poteva quasi amare.
L’inchiostro con cui
tratteggiare la perfezione si era esaurito in Paradiso, con i suoi
colori sempre accesi e vitali, le superfici lisce, suoni rari e odori
inesistenti; la dimensione umana sembrava essere stata abbozzata da
una penna dal tratto troppo chiaro e irregolare, che nel disegnare
una figura avrebbe probabilmente reso i capelli con il semplice
candore della carta, gli occhi trasparenti, la pelle diafana. Un
nitore abbagliante che in pochi sarebbero stati in grado di
apprezzare, come in pochi apprezzavano le imperfezioni della
dimensione umana.
Era
cambiata, nei
secoli in cui lui era stato assente: la notte sussurrava maligna di
carestie e guerre e morte, la luna mormorava confortante di vita e
pace e sviluppo. O forse – probabile – era solo la
sua
immaginazione, perché, se qualcuno avrebbe potuto trarre
bisbigli
dagli astri e dall’oscurità non era di certo lui.
...chissà
cosa
sussurrava in realtà la notte, alla figura che gli dava la
schiena.
Stava immobile, inginocchiata su un masso nel torrente, le mani
posate morbidamente sulle cosce, il capo chinato a guardare il
proprio riflesso nell’acqua; le ali da serafino esposte e
dilatate,
così com’era dilatata l’essenza, per
dare finalmente sfogo al
proprio potere. Le ombre notturne guizzavano, ai lati del campo
visivo dell’uomo, e non c’entravano le nubi che
spesso oscuravano
la luna.
Si
stupiva che gli
avesse permesso di giungere fino a lei, ma forse lei si stupiva ancor
di più che fosse disceso per cercarla.
Rimase
in piedi sulla
riva, cogliendo in un’ombra più densa delle altre
l’avvertimento
a non avvicinarsi ancora.
«Perché?»
gli chiese
lei, semplicemente «Perché, Nelchael?»
Ed
era una domanda
bisbigliata in tono così esausto, così rassegnato
che dovette
impedirsi di raggiungerla; ma soprattutto era una domanda,
e
tra gli Angeli nessuno avrebbe mai osato formularne una ad alta voce,
senza la certezza di essere al riparo da un tradimento.
Chiedere
perché
equivaleva ad offrire la propria reputazione, la propria sicurezza,
la propria stessa esistenza. Sarebbe bastato un accenno
dell’accaduto
ai Censori, per strapparle ogni goccia di quel rispetto così
faticosamente guadagnato.
Leliel
si stava
fidando.
«Daniel?»
indovinò
lui, con voce quasi gentile.
Il
serafino alzò il
viso per guardare il cielo. La luna.
Troppi
ricordi anche per lei.
«Daniel.
Sta chiedendo
di schierarsi.»
«Ora?
Si sta
preparando una guerra e lui inasprisce i
conflitti?»
«Il
Paradiso – la
nostra Circoscrizione – è terrorizzato.
È il passato che torna,
sì? Le lotte, l’angoscia... siamo al limite.
Quando lo
supereremo...» rise, aspra «Quando lo supereremo
sai cosa accadrà,
sì?»
«...lo
so. C’ero.»
E,
come lui, molti
altri – o almeno quelli che non erano andati persi nelle
Condanne,
nelle grandi Cadute, nelle circostanze convulse in cui il Paradiso si
era purificato e ricostruito. C’era Leliel, c’era
Daniel, c’era
una donna crudele e corrotta che aveva avuto più amore e
coraggio di
molti puri. C’era una figura
d’inchiostro sbiadito,
imperfetta e mutevole come la dimensione umana, che osservava il
mondo con occhi trasparenti; figura candida che era maturata e
cresciuta, rendendo infine il proprio sguardo viola e le proprie ali
uguali alle altre. C’erano anche altre figure incolori,
sempre che
di loro si potesse dire questo, perché in realtà non
erano,
solo corpi acerbi come gusci vuoti in attesa di essere colmati
–
attesa vana. Attesa eterna.
Era
un Paradiso
immaturo, che muoveva passi incerti dopo che la prima grande Caduta
l’aveva sconvolto, segnando la fine del Primo Evo; erano
Angeli che
si guardavano attorno, scossi e angosciati, temendo altri traditori.
La serenità se n’era andata per sempre, o almeno
così sembrava, e
persino i Cherubini se n’erano resi conto – ma come
non rendersi
conto di un cambiamento così grande? Schiene lisce, ali
candide,
corpi acerbi pronti a mutare; e cicatrici e sangue e piume rosse, e
la fissità di corpi già maturi. Diffidenza,
insulti sibilati a
mezza voce, occhi di vetro e figli di
nessuno, due
schieramenti opposti che logoravano lo Specchio – lo,
perché
a quel tempo erano in pochi e ancora non vi erano Circoscrizioni,
né
schemi ripetuti mille volte e in mille luoghi –, alleanze
basate
sul sangue e sulle origini. Cherubini che non avrebbero dovuto
esistere, che avrebbero dovuto avere sguardi trasparenti e corpi
inerti; Cherubini che sperimentavano per primi il cambiamento, nati
dal Fuoco e non dall’essenza materna. Il Primo Evo che ancora
languiva durante la loro infanzia, instillando sospetti e rancori,
gettando le basi per ciò che sarebbe accaduto.
E
ancora altre
Condanne, altre Cadute, la diffidenza tornata a logorare il Paradiso.
Il Secondo Evo che si chiudeva insieme ai cancelli dell’Eden.
Infanti
che portavano
il marchio indelebile di una schiena liscia e che
in quel
momento crollavano sotto il peso di sangue traditore, se non erano
stati generati da Angeli ancora tali e non Sconsacrati; e
c’era chi
proponeva di isolarli, di allontanarli, per la grave colpa di essere
nati. Serviva qualcuno contro cui scagliarsi, per sentirsi poi al
sicuro da altri tradimenti, e quei Cherubini erano la preda migliore
– ultimi resti di un passato che si era rinnegato e
cancellato,
provocavano timori e angosce pur non avendo macchie, e Nelchael si
era trovato più volte a ringraziare di avere quegli squarci
sulla
schiena. Una grettezza di cui anche a posteriori non riusciva a
vergognarsi, perché era terrificante il
pensiero di essere
uno di loro, di subire le accuse e gli insulti – occhi
di vetro,
come se fossero nati dopo, bambole inerti la cui
esistenza non
era contemplata.
I
pochi che erano
riusciti a non crollare – ed erano stati pochi, veramente
pochi –
avevano dovuto dimostrare la propria devozione al Paradiso
più di
quanto fosse lecito pretendere; di quei pochi, quasi tutti erano poi
divenuti cenere, essendosi fatalmente trovati in luoghi sbagliati a
momenti sbagliati. Perché nessuno avesse tentato di
avvisarli del
pericolo, però, non era una domanda che qualcuno avesse mai
voluto
porsi.
I
sopravvissuti non
erano che qualche decina, ormai, e di rado in posizioni influenti.
L’eccezione era inginocchiata su un masso nel torrente, di
fronte a
lui, e nessuno avrebbe potuto accusarla di non essersi purificata
dall’onta di un sangue maledetto due volte – e poi
una terza, per
colpa di morti che morti non erano.
Era
feroce, rancorosa e
inflessibile, ma anche devota al Paradiso più di molti altri.
Di
certo più di chi
non aveva dovuto conquistare rispetto e fiducia con una
difficoltà
così esagerata, di chi aveva cercato una posizione influente
solo
per appagare la propria brama di potere.
Di
certo più di
Daniel.
«È
passato molto
tempo, e tu sei un’Autorità in procinto di entrare
nel Consiglio.
Non devi temere nulla.»
«Sai
anche tu di
mentire, Nelchael.»
No,
Nelchael non
mentiva: sperava, e
pregava che quella speranza non fosse inutile come l’ultima
volta
che aveva desiderato salvare qualcuno.
Probabilmente
s’illudeva. L’atmosfera in tutto il Paradiso
– in generale –
e nella loro Circoscrizione – in particolare –
stava tornando
come durante la loro infanzia: tensioni, angosce, sospetti. Lutti.
Accuse maligne, congetture febbrili, menti sconvolte. Il Terzo Evo
stava di nuovo rimanendo invischiato nel grumo di inquietudine e odio
che aveva intrappolato le epoche precedenti, e di cui loro ancora
portavano i segni, Cherubini del Secondo; e che ancora rinnovavano,
con quelle lotte tra fratelli,
offrendo il petto e la gola agli Sconsacrati.
Leliel
era il terrore
di molti, e quella paura poteva ritorcersi contro di lei. Anche
Daniel lo era, certo, ma per un motivo diverso: l’una era
un’ombra
del passato, sangue di traditori a scorrerle nelle vene e dominio
sulla notte a renderla potente; l’altro un emblema del nuovo
Evo,
nato dal Fuoco e temuto per la fascia bianca di Censore.
Se
si fossero scontrati
apertamente, avrebbero dovuto schierarsi i due collegi principali, e
poi tutte le altre fasce; e il Consiglio, con i membri di tutte le
Circoscrizioni. Diffidenze, alleanze, processi. Una terza grande
Caduta, forse; il Quarto Evo.
Chi
sarebbe stato
sacrificato, questa volta, per la pretesa di purificare il Paradiso?
«Se
mi spiegassi,
potrei capire meglio.»
«Ricordi
Cassiel, sì?»
«Il...
mio, quello
appena diventato Stratego? Ha chiesto il suo appoggio?»
«No,
l’ultima di
Haniel. Il genio.» un guizzo minaccioso delle ombre attorno a
lei
«L’ho chiesta come allieva. Ora l’ha
fatto anche lui.»
«No.»
ringhiò
dopo un istante «Non potete sacrificare un cherubino per una
vostra
contesa. Non puoi.»
«Ho
scelta?»
No,
non l’aveva.
E
pensare ad una Leliel
impotente era spaventoso. Inconcepibile. Lei, che non si era lasciata
trascinare nel fango nemmeno dalla propria nascita, dal tradimento
dei propri creatori, dall’onta del proprio sangue; e dal
proprio
potere così inconsueto e temuto, dal fallimento di un
allievo, dalle
dicerie maligne. Lei, che dell’autorità aveva il
nome e l’emblema.
Sembrava
che ogni
certezza fosse sul punto di essere sovvertita, e che quel sul
punto seguisse la concezione degli Angeli, a cui i secoli
potevano sembrare attimi, non riusciva a rincuorarlo. Per lui non
cambiava nulla sapere se si dovessero attendere giorni o millenni:
era sufficiente la sensazione che qualcosa dovesse accadere, per
instillargli un’inquietudine sempre più violenta e
opprimente.
Anzi, forse non riuscire a quantificarne la durata rendeva
l’attesa
ancor più tormentata, nonostante vi fosse abituato da
millenni – i
cicli temporali scandivano solo la vita dei Cherubini, secondo i
ritmi del riposo, mentre gli adulti quasi non percepivano il Fuoco
del Richiamo. Il tempo si misurava in avvenimenti, in Richiami
privati verso le proprie mansioni, in attese interminabili, in ali di
infanti che viravano gradualmente al bianco; le ere trascorrevano
senza gettare stanchezza sui loro corpi o turbamento sulle loro
menti. Creati per sostenere il peso dell’eternità,
non vi era
nulla da cui non potessero riprendersi in fretta, tornando uguali a
prima: i lutti, le ferite, le torture, le delusioni, tutto poteva
riversarsi su di loro e lasciarli intatti, immutati.
Un
vantaggio, per
esseri immortali che non potevano permettersi il lusso di marcire nel
proprio dolore come gli Umani.
Una
promessa di rovina
ad ogni rinnovamento – perché così le
chiamavano, quelle
rivoluzioni. Rinnovamento. Tutto
più puro, più
limpido, più giusto. Tutto ripulito dalla decadenza, dalle
essenze
corrotte. Tutto come in un tempo precedente, sempre migliore
dell’attuale, sempre perfetto. Rinnovamento.
Il passato che
tornava, com’era legittimo che fosse, a proteggere le essenze
degli
Angeli da pericolosi mutamenti a cui non avrebbero potuto resistere.
Il cerchio che si chiudeva, iniziando alla fine. Rinnovamento.
Di nuovo come prima, per il loro bene, per la purezza del Paradiso.
Nessuna degenerazione folle e viziosa di ciò che era in
origine.
Rinnovamento. Per il loro bene.
E
gli Evi nascevano e
morivano, in questo continuo ritorno al passato, e con loro chi non
riusciva ad adattarsi. Cambiamento nascosto dalle parole, evoluzione
celata dietro rassicurazioni vuote. Rinnovo di un passato che nessuno
più ricordava, perché chi esisteva già
allora ormai era perso,
distrutto, devastato. Schiere intere ritiratesi nella zona neutra del
Consiglio, pur di non dover più sopportare oltre.
Cherubini
del Secondo
Evo che erano i soli adulti del Terzo, superstiti di una rivoluzione
a cui avevano potuto adattarsi con la malleabilità
dell’infanzia.
Essenze rese fragili e folli ugualmente – da guide troppo
scosse e
turbate dalle grandi Cadute, dalla solitudine,
dall’indifferenza,
da lotte germogliate tra loro come steli velenosi nutriti dal sangue.
Ma folli abbastanza, anomali abbastanza da assistere al crollo di un
Evo senza rimanerne sconvolti?
Ne
dubitava.
Di
certo non vi sarebbe
riuscito chi sarebbe caduto sin dall’inizio, sotto il peso di
accuse maligne e tradimenti non propri; e forse nemmeno chi avrebbe
vinto quella prima lotta – perché ricostruire
tutto era incombenza
dei più immaturi, non di chi apparteneva ancora ad un Evo
precedente. Sarebbero crollati tutti, vittime di uno scontro tra
mondi opposti, di un passato che, rinnovato, non
smetteva di
tormentarli.
Guardò
Leliel, le sue
ali candide e tese per l’ira, per la disperazione; poi
abbassò lo
sguardo sulle proprie mani, strette istintivamente a pugno sul
tessuto candido della divisa da Esecutore.
«Capisci,
Nelchael?»
«...capisco.»
Il
Quarto Evo sarebbe
nato con la loro morte.
***
Angolo autrice
Grazie a chi legge, inserisce la storia in una delle tre
liste, recensisce. Se ne avete voglia, mi fa sempre molto piacere
ricevere commenti e consigli (:
...ma possibilmente non sommergetemi d'insulti per non avervi detto
nulla su Amitiel xD Nel prossimo capitolo torna, nel frattempo godetevi
Leliel e i viaggi mentali di Nelchael. Ho cercato di rendere il tutto
il più chiaro possibile - risultando magari un po' prolissa
nelle spiegazioni - e, anche se alcune cose devono rimanere per forza
vaghe o incomprensibili, spero che non sia troppo pesante. Si tratta di
un punto cardine della storia, sappiatelo u.u Non volendo fare spoiler,
per ora vi dico solo che ogni
cosa di questo capitolo è fondamentale.
A domenica prossima (:
|
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Capitolo 19 *** 18. Accusa ***
Capitolo
18 – Accusa
Anane
poteva dire molte cose di sua madre; alcune inquietanti, altre
spiacevoli, quasi nessuna gradevole, che sommate davano davvero
un’infinità di informazioni, caratteristiche e
aneddoti.
Eisheth
era un demone, innanzitutto, e persino più potente di quanto
il suo
comportamento rendesse lecito supporre. Non erano molti gli Antichi
che vagavano per la dimensione umana, immischiandosi nella vita dei
figli ed evitando ad intervalli regolari che si facessero ammazzare
per una lite, imprudenza, sfacciataggine o qualsiasi altro problema
riuscissero a crearsi con le proprie stesse mani. In
quest’instancabile opera di soccorso, per giunta, trovava
anche il
tempo di convincere l’uno a non rendersi figlio unico e
l’altra a
non perdersi tra sogni, incubi, false promesse e messaggi giunti a
lei come brevi scarabocchi su carta umana e riletti poi sino a
consumarsi gli occhi.
In
secondo luogo, a chi avesse dovuto fare la conoscenza di sua madre
–
poiché che qualcuno potesse volerlo le
risultava in tutta
sincerità piuttosto improbabile – avrebbe dovuto
comunicare che
Eisheth era, appunto, una madre. Non madre creatrice, ma proprio
madre madre: con affetto, preoccupazioni e rancori degni del peggior
rapporto di dipendenza. Non puoi legarti a qualcuno senza
impazzire, diceva spesso il demone, sono cose per
gli Umani,
non per noi; e
sembrava, a dirla
tutta, piuttosto fiera della propria follia.
Avrebbe
potuto aggiungere molto altro, ovviamente: come, ad esempio, la sua
tremenda abitudine di esercitare la propria Influenza su qualsiasi
essere senziente, la figlia compresa – benché lei
fosse già
legata all’Influenza
di qualcun altro e, quindi, quella altrui le provocasse crisi emotive
anche quando tentava di rallegrarla. Non era neppure certa che tale
inconveniente dispiacesse del tutto ad Eisheth, e questo bastava a
chiarire la particolarità con cui il demone esprimeva il
proprio
affetto materno.
Oppure
il suo
divertimento nello strappare le unghie delle persone. Ecco, questo
andava sottolineato, perché poteva capitare che il demone
rimirasse
affascinato le mani dell’interlocutore; in tal caso, la
tattica
migliore era affondarle nelle tasche e pregare con tutte le proprie
forze di non irritarlo. O anche fuggire il più lontano
possibile, ma
questa con Eisheth era una buona strategia a priori.
Oppure
il profondo livore che provava per il modo di pensare della figlia.
Non per le sue idee, ma proprio per come le esprimeva; e,
benché di
solito lei parlasse in maniera molto più concisa e lineare
di come
formulava in realtà le proprie riflessioni, Eisheth era in
grado di
strapparle le parole così come le pensava: non poteva
parlare con
sua madre senza lasciar fluire le frasi in modo un po’
confusionario, inelegante e grossolano, in cui il soggetto spesso si
perdeva tra le prime cinque parole e il verbo arrivava nelle ultime
tre, dopo una sequenza interminabile di avverbi e congiunzioni
–
come se la sua mente divagasse e ricordasse poi di dover ancora
concludere una frase di cui, in realtà, quasi non ricordava
l’inizio. Se fosse dipeso da Anane, si sarebbe espressa
volentieri
nel modo più conciso che le era abituale, ma era Eisheth a
chiederle
di non porre filtri tra pensieri e parole, e se Eisheth chiedeva
qualcosa era consigliabile accontentarla; salvo poi lamentarsi
dell’ineleganza nella mente di sua figlia, che rifletteva
come se
stesse conversando con un amico particolarmente amante delle frasi
contorte. Questa doveva essere in realtà
un’avversione verso
qualcun altro che, avendo avuto la sua stessa insegnante alla prima
classe, ne aveva assorbito almeno in parte il modo di esprimersi; un
modo così caratteristico e riconoscibile che si potevano
identificare gli allievi di Kasbeel con una certa sicurezza –
almeno quelli della prima classe, a contatto solo con lei, o quelli
che ne erano rimasti maggiormente influenzati. Anche Ridwan aveva
studiato sotto la sua giuda e, nelle sue parole, spesso Anane poteva
individuare le tracce lasciate da Kasbeel; e, anche se il cherubino
aveva superato la prima classe in un tempo quasi accettabile,
languiva al ciclo superiore da un periodo ben più lungo
della norma,
perciò non ci si poteva stupire che il suo modo di
esprimersi fosse
nella sua mente così influenzato dai due insegnanti.
Altra
caratteristica
che Eisheth trovava francamente esasperante era la sua
capacità di
perdersi con tutta tranquillità in simili riflessioni
mentre, ad
esempio, con la massima naturalezza strattonava Amitiel in modo che
la coprisse e poi si chinava su quell’infida serpe di
Shoftiel per
estinguere la sua essenza. Era già tanto debole e fragile
che
sarebbe bastata la minima pressione offensiva, come quella di un
cherubino terrorizzato, per eliminare definitivamente il rischio di
un’accusa nei confronti suoi o di Amitiel. Non sapeva invece
se
quella calma surreale – che dopo un iniziale panico si era
impossessata di lei e non sembrava intenzionata ad abbandonarla
–
fosse una dote di famiglia, un effetto della compagnia di Eisheth, un
dono naturale o una conseguenza dell’abitudine;
più probabilmente
l’ultima opzione, perché aveva ormai compreso che
per sopravvivere
doveva mantenersi lucida e fredda.
Le
lacrime e l’orrore
sarebbero giunti più tardi, in solitudine, quando il
pericolo fosse
stato scongiurato. Per il momento, era spaventosamente calma.
Calma
quando, il volto
atteggiato ad una credibile smorfia terrorizzata, si chinò
sul
Custode, come se volesse controllare il suo stato, mentre in
realtà
si stava avventando con la propria essenza sulla sua.
Calma
quando percepì
la vita scomparire lentamente da lui, inghiottita dal velo di nebbia
cangiante del cherubino.
Calma
quando gli occhi
dell’angelo divennero opachi, vuoti, privi della scintilla
che li
aveva resi tanto maligni e tanto odiati.
Calma
quando il corpo si tramutò lentamente in cenere, impastata
dalla
pioggia, che urlava «Assassina!»
senza essere – per il momento – ascoltata.
Calma
quando, emulando
lacrime incontrollate, si accasciò a terra per affondare le
mani in
quella polvere grigiastra, come se non potesse credere che la propria
essenza si fosse avventata, in preda al panico, su quella del
Custode.
Invece
si agitò un po’ – si agitò molto
– quando Amitiel le crollò accanto in ginocchio,
piangendo
davvero, lei; perché
l’amica singhiozzava, ed era una reazione troppo umana
per essere mostrata in pubblico.
Dopo
un istante notò che non aveva i capelli raccolti dal solito
nastro
bianco, ma da uno scuro, di tessuto umano. Abituata da secoli a
tradire in silenzio il Paradiso, non poté non cogliere quel
dettaglio che avrebbe potuto farle scoprire in meno di un istante,
perché non avrebbero certo potuto spiegare che fine avesse
fatto
il primo nastro, e come si fossero procurate
quell’altro. Nel
migliore dei casi, avrebbero ricevuto una punizione per aver rubato
e portato in Paradiso quell’oggetto indegno; nel peggiore
– e,
quando si trattava di mantenere quella fragile finzione orchestrata
per secoli, le cose si volgevano sempre
nel peggiore dei casi – sarebbero state scoperte. Si
affrettò a
strapparle il nastro dai capelli con un gesto brusco, pregno
d’urgenza, e a gettarlo tra il folto degli alberi, lontano da
loro.
Non
aveva bisogno di
chiedere ad Amitiel chi glielo avesse dato: ricordava di averlo visto
spuntare da una tasca del bambino posseduto da Eisheth.
Delle
tante cose che
Anane poteva dire di sua madre, figurava sicuramente
l’abitudine di
essere doppia e infida.
Stava
cercando di
affrettare la sua Caduta.
...stava
cercando di
far accusare Amitiel.
*
* *
Sachiel
si lasciò
crollare a terra, in ginocchio, le mani che artigliavano i capelli
alle tempie e gli occhi serrati. Un lamento sfuggiva, flebile, dalle
labbra socchiuse.
La
sua essenza, come
impazzita, si tendeva e si contraeva, senza alcuna logica, investita
da troppi stimoli; le ali, in preda allo stesso smarrimento,
fremevano come se una brezza agitasse le piume, o come se il peso
della pioggia fosse eccessivo.
Troppi
Richiami che
avvertiva pur non essendo diretti a lei, troppe essenze che si
tendevano in una ricerca angosciosa, troppo panico che scorreva in un
brivido gelido lungo la schiena. I Guardiani sapevano essere
efficienti e rapidi – così rapidi da stordirla,
per la prontezza
con cui avevano reagito le loro essenze. Un qualsiasi cherubino
avrebbe potuto semplicemente annullare le Percezioni, ma lei era
troppo vicina allo Sviluppo per non godere già della
sensibilità
degli adulti, che avvertivano ogni cosa anche senza il proprio
volere.
Ma,
se in Paradiso
questo era un vantaggio, nella dimensione umana riusciva solo a
stordirla dolorosamente – ancora poco abituata allo stridore
delle
essenze angeliche in quei luoghi. E alla sgradevole abitudine dei
Guardiani di sovrapporre le proprie voci, riuscendo a comprendersi
anche se stavano gridando tre o quattro arcangeli
insieme.
In
compenso lei non
aveva capito molto, tra «Ramiel è
già lì? Da lei, muovetevi!»,
«Gabriel, aspetta gli altri, non da solo.»,
«Avvisate
gli insegnanti.» e altri ordini berciati con brusca
efficienza
da un punto all’altro – spesso così
distanti che si era chiesta
come riuscissero ad udirsi, prima ancora che ad
intendere ciò
che l’altro stava dicendo.
Se
avesse potuto
concentrarsi su qualcosa di diverso dal dolore al capo, avrebbe
probabilmente valutato che Cassiel, in piedi accanto a lei, sembrava
più contrariata che spaesata. Nessuno più si
curava di loro: finché
rimanevano tra i Guardiani non avevano nulla da temere, e
complimentarsi per la sottigliezza delle loro Percezioni non era
certo una priorità.
Ma
non poteva, tutta la
sua attenzione era focalizzata su quel dolore, lacerante, immenso.
Quasi non avvertiva la pioggia scorrerle addosso, le ali vibrare, i
movimenti attorno a lei: male, solo male. Stridii assordanti e fitte
al capo che le strappavano un gemito ogni volta.
Sussultò
quando una
mano esile le afferrò un braccio e la costrinse con una
certa
delicatezza ad alzarsi, senza riuscire a capire se fosse Cassiel o
un’adulta – in quel caos assordante non distingueva
nemmeno le
presenze. Un’essenza tiepida e conosciuta avvolse la sua,
impedendole di avvertire altro, e il suo stridore così
vicino era
più sopportabile di decine e decine più distanti.
Le fitte al capo
si acquietarono, divenendo pulsazioni sostenibili; tornò
all’improvviso consapevole dell’acqua che
impregnava i capelli e
scorreva sugli abiti inumidendoli appena, delle ali frementi, del
corpo tiepido contro cui si appoggiava.
Sollevò
le palpebre
con espressione rassicurata, quasi distesa, per rivolgere alla donna
un sorriso.
Leliel
la ignorò,
continuando a pronunciare ordini in tono imperioso; tuttavia non
smise per un istante di sorreggerla, le ali quasi avvolte attorno a
loro per isolare meglio l’essenza dell’allieva. Il
sorriso di
Sachiel si spense in fretta, divisa tra lo stupore di trovarla nella
dimensione umana e il disagio di essersi mostrata così
debole.
Le
chiese, con un filo
di voce, se fosse stata deludente.
«Non
hai agito male.»
le concesse l’insegnante, dopo aver ordinato ad un Custode di
sorvegliare il secondo cherubino.
«Ti
ringra-»
«Sei
stata tu a
percepire quell’anomalia?»
«...l’ho
identificata.»
«Ma
è stata la tua
compagna a percepirla per prima.»
Non
rispose, perché
non era domanda; un rimprovero, semmai, che la spinse ad abbassare
gli occhi e a scostarsi lievemente da Leliel.
«Sta’
ferma. Ci sono
ancora troppe essenze per te.»
«Io...
mi dispiace
esserti di disturbo, maestra.»
«Se
avessi trascorso
più tempo nella dimensione umana come ti avevo consigliato,
ora non
mi disturberesti.»
Il
cherubino si morse
il labbro inferiore, avvilito da quell’accusa ingiusta.
«Ho
provato ad
abituarmici, maestra, ma-»
«Le
labbra, Sachiel.
Come ti dico ogni volta.»
I
denti smisero di
torturare la carne.
«...non
me n’ero
accorta.»
«Hai
intenzione di non
accorgertene nemmeno durante il colloquio con il Censore, o posso
sperare che tu acquisisca un po’ di autocontrollo prima dello
Sviluppo?»
Disturbata
dall’essenza
dell’insegnante e mortificata da quel rimprovero, non ebbe
nemmeno
la forza di formulare una risposta.
«Avrai
tempo per
migliorare, non temere. Molto tempo.»
Voleva
ritardare il suo
Sviluppo? Per... per le Percezioni troppo sensibili e un labbro
mordicchiato? Era assurdo, assolutamente assurdo, non era certo un
motivo sufficiente – non dopo averlo già rinviato
a lungo, al
punto che tutti si erano chiesti se non vi fosse qualche vizio che
non doveva giungere sotto gli occhi dei Censori, o qualche debolezza
di troppo per ciò che si diceva del suo talento. Iniziavano
a
considerarla problematica, iniziavano a macchiarla
con dubbi e
insinuazioni – perché, per quanto la sua maestra
potesse
considerarla ingenua, lei vedeva. Udiva. Soffriva.
E
ancora Leliel voleva ritardare il momento in cui avrebbe potuto, se
non proprio sottrarsi ai sussurri, almeno fissare i maligni negli
occhi, senza dover abbassare lo sguardo – piume rosse.
Maledette
piume rosse. Quante? Poche. Pochissime. Tanto da farla spesso
scambiare per un’adulta; ma abbastanza per renderla inferiore
a
chi, invece, non aveva che candore – candore e un talento che
non
si poteva neppure pensare
di paragonare al suo.
E
nonostante tutto
rimaneva inferiore.
Non
che ritenesse ingiusto quel rapporto gerarchico, naturalmente, ma
iniziava ad esserne stanca.
Forse era ciò che provava anche Cassiel, nel trovarsi
così diversa,
così geniale rispetto agli altri Cherubini, e comunque
costretta a
confondersi tra loro, nient’altro che scarso talento e
instabilità
e squarci sanguinanti; inadeguata
all’ambiente a cui doveva appartenere. Tuttavia
abbandonò presto
questo pensiero compassionevole, non sentendosi particolarmente
empatica o comprensiva in quella situazione – soprattutto nei
confronti di chi, a quanto sembrava, le aveva strappato il favore
dell’insegnante per il grande
merito di aver percepito qualcosa appena prima che se ne accorgesse
lei stessa. Cassiel, con il suo genio, si attirava già
abbastanza
ammirazione da gratificare a sufficienza il suo ego smisurato, che
bisogno c’era di rubare
anche ciò che sarebbe spettato a lei?
Non
le importava di ciò che potevano pensare gli altri
– non più di
quanto fosse ragionevole, almeno, e poteva permettersi di ignorare
ciò che aveva udito, finché non si procurava
astio o sospetti
particolari. Era Leliel
a ferirla, con la delusione e i rimproveri e le pressioni per
indirizzarla verso gli Strateghi.
La
sua aspirazione segreta – molto
segreta, perché l’insegnante non
l’avrebbe di certo apprezzata o
ritenuta degna di lei, nonostante si ostinasse a non concederle lo
Sviluppo come se non fosse mai abbastanza brava, abbastanza zelante,
abbastanza giusta –
era di perdersi tra le fasce viola degli Esecutori Spirituali,
conquistando una posizione non tanto in basso da poter essere
attaccata senza timore e non tanto in alto da farla oggetto di
invidie. Mire modeste, per un cherubino che dimostrava il suo
talento, ma si sarebbe volentieri accontentata di poter guardare con
superiorità i semplici Angeli; non aveva alcun interesse
nell’inimicarsi Serafini e Arcangeli mostrandosi superba.
Ma
ancora poteva far
valere il proprio talento solo sugli altri Cherubini –
soddisfazione pressoché nulla –, perché
aveva il vizio di
mordersi il labbro inferiore e Percezioni troppo acute per la sua
essenza infantile.
Motivi
validi per
ritardare ancora il suo Sviluppo e dare adito ad altri bisbigli
malevoli.
Motivi
davvero molto
validi.
«Sachiel.»
la
richiamò seccamente il serafino, affondando le dita nel suo
braccio
«Trattieni l’essenza. Almeno di fronte agli
interessati, sii più
discreta con il rancore.»
«Io...»
«Risparmiami
le tue
scuse patetiche, cherubino. Non ho tempo da perdere.»
«Come
desideri.»
Leliel
tornò
lentamente a distendere le ali dietro la schiena. La sua essenza,
dopo un’ultima pressione – come ad ammonirla a
controllarsi –,
abbandonò quella dell’allieva; il cherubino
vacillò, stordito di
nuovo dalla sofferenza, rimanendo in piedi solo grazie al suo
sostegno.
Sul
punto di lasciarsi
cadere in ginocchio, Sachiel faticò a trattenere le lacrime.
Uno
stridio continuo le assaliva la mente, facendo svanire ogni pensiero
nel dolore, spingendo l’essenza a contorcersi e contrarsi nel
tentativo di attenuare le Percezioni. Tutto ciò che riusciva
ad
elaborare lucidamente era l’espressione gelida
dell’insegnante e
quelle parole, risparmiami le tue scuse patetiche,
in un tono
che non era né ostile né deluso: semplicemente
prendeva atto della
situazione con distacco, come se non fosse importante. Come se non le
interessasse.
Una
fitta più intensa
delle altre la fece quasi crollare in ginocchio.
«Sachiel,
sai
controllare le Percezioni. Devi solo calmarti.»
«Non...
mi dispiace,
non ci rie-»
«Come
si acquieta
l’essenza?»
«...come?»
«Come
si acquieta
l’essenza, cherubino. Rispondi.»
«Autocontrollo.»
rispose, confusa.
«E?»
«E
lucidità.»
«E?»
«E...
e...» si morse
il labbro inferiore, senza riuscire a concentrarsi «E...
pressione
non aggressiva di altre essenze... e...»
«Niente
interventi
esterni. Come puoi tu acquietare
l’essenza?»
«Mantenendomi
lucida
e... controllata, e... e...»
Il
cherubino portò una
mano al capo dolorante.
«Le
ali,
Sachiel. Ritira le ali.»
Perché
non c’aveva
pensato prima? Umiliazione. Disagio. Si stava mostrando troppo
debole.
Socchiuse
gli occhi,
tentando di concentrarsi sull’essenza, per spingerla a
comprimersi.
Avvertì le ossa ritirarsi, assorbite dalla schiena, le piume
frusciare prima di venire inghiottite; un lieve dolore agli squarci,
una pressione spiacevole alle scapole, dall’interno, come se
le ali
volessero tornare ad esporsi e a distendersi.
Le
Percezioni,
attenuate dalla quiete dell’essenza, distinguevano in modo
vago,
poco disturbante: uno stridio sommesso per Leliel così
vicina, le
presenze confuse dei Custodi, quelle più intense dei
Guardiani, la
flebile essenza di un cherubino. O più di uno? A tratti le
sembrava
di percepirne almeno due, ma non riusciva a capire se fosse la
realtà
o solo un’impressione dovuta alla particolare
intensità della
presenza di Cassiel.
«Va
meglio, sì?» le
chiese l’insegnante, dopo averle concesso qualche istante per
quella silenziosa analisi.
«Sì,
maestra.
Grazie.»
«Avresti
dovuto
pensare subito alle ali.»
«Non...
riuscivo a
concentrarmi.»
«Risparmiami
le tue
scuse. La prossima volta, piuttosto, ricordatene.»
«Lo
farò.»
«Lo
spero. Non si è
mai visto uno Stratego perdere il controllo per non aver saputo
gestire le Percezioni.»
Una
sensazione
sgradevole al petto, come una stretta gelida. Ansia.
«Uno...
Stratego,
maestra?»
«Va’
da Cassiel.»
la ignorò «Quel Custode avrà altri
allievi a cui badare, tra
poco.»
«Vado
subito,
maestra.»
Anche
una volta che si
fu allontanata, non riuscì a scacciare quella stretta
angosciante al
petto. Non si è mai visto uno Stratego...
ma lei doveva
diventare un’Esecutrice. Sfuggire alle trame delle cariche
più
potenti e vivere la propria eternità da rispettato membro di
una
fascia poco considerata in quegli intrighi. Leliel aveva promesso
– perché, se non proprio la voce, almeno lo
sguardo assicurava che
sarebbe stato così – di procurarle una fascia
viola e un incarico
di insegnante, non poteva all’improvviso tornare a parlare di
Strateghi e potere. Doveva aver immaginato lei significati velati in
una frase che invece era trasparente, cristallina.
Se
si fosse voltata
avrebbe visto che l’azzurro limpido degli occhi di Leliel
sembrava,
in quel momento, il grigio opaco del cielo che continuava a vomitare
pioggia.
* * *
«Non
volevo, non
volevo, davvero, io non-»
«Dopo,
cherubino,
dopo. Riesci ad alzarti? Aspetta, ecco... così...
appoggiati. E tu?»
«Della
fascia rossa mi
occupo io.»
«Simiel,
lascia stare
i cherubini e va’ a chiamare una... due fasce
viola.»
«Non
possiamo
lasciarle so-»
«Dopo
che tu
ti sei precipitata qui da sola, Ramiel, sei l’ultima persona
che...
Simiel, che ci fai ancora lì?»
«Gabriel,
Ramiel,
tornate a concentrarvi. Simiel, vai.»
«Cherubino,
sta’
ferma. E tu... Amitiel, alzati.»
«Amitiel?
Amitiel,
stai bene?»
«Ferma,
ho
detto. Amitiel, lascia stare quella cenere e alzati. E non
singhiozzare, non sei umana.»
Voci.
Voci che non
riusciva a riconoscere mentre si sovrapponevano, ringhiavano,
sibilavano ordini, lasciavano trasparire un’angoscia
pressante. Non
c’era tempo. Servivano Esecutori Spirituali. Ma per cosa? Per
cosa?
Il demone era ancora vivo? E se era vivo... se era vivo lei –
e
Anane, sì, certo, anche Anane, come poteva pensare solo a
sé
stessa? – sarebbe stata scoperta? E quella cenere, quella
cenere
che stringeva tra le dita, era davvero il corpo di quel Custode?
Aveva
visto la sua essenza estinguersi. Estinguersi sotto quella di Anane.
Assassina.
Traditrice.
Anane, la limpida allegra meravigliosa Anane. Assassina assassina
assassina. Anane. Assassina.
E
lei... lei,
nonostante vi fosse la pioggia a sciacquarla, era sporca di sangue.
Sangue bianco, sangue alleato. Non aveva fatto nulla per impedire
quell’orrore, troppo concentrata su sé stessa,
sulle attenzioni di
Michael. Impotente – no, indifferente. Aveva chiuso gli occhi
e
basta. Era un’assassina? Una traditrice?
Singhiozzava,
senza
accorgersene – lei, un cherubino. Un angelo. Un essere che
non
avrebbe dovuto avere quel riflesso.
Anomalo.
«Basta.»
Unghie
nelle braccia.
Uno strattone. Il corpo trascinato verso l’alto.
Il
viso di Anane ad
un’estremità del campo visivo – assassina
assassina assassina
–, ali bianche a sfiorare le sue, braccia maschili a
sostenerla.
Oltre la spalla dell’Esecutore, scorse Ramiel china su
qualcosa.
Un uomo al suo fianco. Altri Guardiani attorno a loro, le ali
dilatate spasmodicamente insieme all’essenza, alle Percezioni.
Ancora
Anane che
mormorava il suo nome, in lacrime. Ancora un richiamo
dell’Esecutore
a non singhiozzare – di chi era quella voce? Di chi? Era
familiare,
era... era... Nelchael. Un sussulto.
Ancora
gli occhi
tornarono su Ramiel. Era ferita, sporca di sangue bianco ma anche
rosso, soprattutto rosso, una tonalità più cupa e
carica di quella
del gatto. Il gatto, chissà come stava.
...aveva
voluto salvare
un gatto e non aveva fatto nulla per aiutare un Custode. Un angelo.
Un fratello.
Assassina.
Assassina.
Fruscii
di ali. Una
fascia nera, due fasce viola. Altre nere dietro di loro. Voci.
«Simiel,
finalmente.
Venite qui.»
«Dobbiamo
allontanare
i Cherubini.»
«Non
è il momento,
Ramiel.»
«Possiamo
rinunciare
ad un Guardiano. Simiel, vuoi...?»
«Solo
io?»
«Sì,
forse sarebbe
meglio... tre?»
«Due.»
«Gabriel...»
«Due
basteranno, ha
ragione. Ci sarà anche l’Esecutore con
noi.»
Passi.
Voci nuove.
E
lei singhiozzava,
sostenuta da Nelchael. E lei si odiava e si dava della traditrice e
si chiedeva come Anane, la limpida allegra meravigliosa Anane, avesse
potuto fare una cosa del genere. E lei tremava, temendo
un’accusa –
codarda fino in fondo.
E
non capiva quel che
dicevano, non riusciva a concentrarsi, percepiva solo la pioggia che
scorreva sul suo viso insieme alle lacrime e i singhiozzi che le
squassavano il petto, e quell’urlo dentro di lei, assassina,
assassina.
«Riesci
a volare,
fascia grigia?»
«Credo...
credo di
sì.»
«E
tu?»
«Lei
non riesce.»
«La
por-»
«Me
ne occupo io.»
«Esecutore...»
«Ha
ragione, Simiel,
meglio che abbia lui le braccia occupate.»
«...va
bene. Andiamo.»
La
pressione delle ali
bianche sulle sue aumentò, spingendole a raccogliersi sulla
schiena.
Un braccio attorno ai fianchi e uno sotto le ginocchia, si
trovò
sollevata da terra, premuta contro il busto dell’Esecutore.
Il
viso spaesato
all’altezza di quello serio e ostile di Nelchael.
Assassina
assassina assassina.
Era
sicura che avrebbe
aperto la bocca per gridarlo, per accusarla – sapeva, sapeva,
era
ovvio, lui sapeva. Si vedeva dagli occhi, non si fidava di loro due,
aveva capito tutto, sì, aveva capito tutto.
Un
ringhio aggressivo.
Minaccioso.
«Avrai
molto di cui
rendere conto.»
Sì,
lui sapeva.
***
Angolo autrice
Grazie a chi legge, inserisce la storia in una delle tre
liste e come sempre un ringraziamento speciale a chi commenta (:
La parte iniziale ha uno stile probabilmente confuso, lo so. Benvenuti nella testa di Anane.
Come al solito, potrebbe sembrare inutile ma non lo è; e si
avvicina il momento in cui si capirà il senso di tutti
questi approfondimenti. Ormai la metà della storia
è stata raggiunta, tempo un paio di capitoli l'attenzione
tornerà a focalizzarsi su pochissimi personaggi
fondamentali, e quelli secondari potranno agire senza destare un enorme
WTF? in tutti voi.
A domenica prossima!
|
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Capitolo 20 *** 19. Cecità ***
Capitolo
19 – Cecità
«Sei
riuscita a controllare le Percezioni?»
Tono
basso, rassicurante. Solo il silenzio – no, il mormorio
dell’acqua,
smossa dalle ali tremanti – a rispondere a quella domanda.
«La
presenza di un altro allievo era un po’ disturbante, ma pensa
se
fossimo stati in gruppo.»
Nessuna
replica. Un tonfo attutito.
«Lascio
tutto qui sulla panca.»
Passi.
Esitazione. Altri passi nel senso contrario.
«Prima
di andare ti tampono il sangue, va bene?»
Ancora
silenzio. Fruscio. Passi.
«Cerco
di fare piano, ma se gli squarci ti dolgono dillo.»
Gocciolio
– capelli strizzati tra le mani e spostati oltre le spalle,
sul
seno.
«Sono lunghi. Vuoi che li tagliamo?»
Pausa.
«Va bene, li preferisci così.»
Fruscio.
«Sicura,
però? Corti sono più comodi.»
Se
nella stanza vi fosse stata solo Ramiel, probabilmente non sarebbe
cambiato nulla.
Amitiel,
all’ordine di immergersi – perché anche
rilassarsi era un ordine
–, si era seduta sui gradini che portavano alla vasca,
bagnandosi
appena le gambe e l’estremità delle ali tremanti.
Con la schiena
curva per poggiare gli avambracci sulle cosce, fissava il vuoto in
silenzio, come se non capisse nemmeno ciò che Ramiel le
stava
dicendo.
Anche
la Custode posta a vigilare su di loro taceva, senza allontanare quel
cherubino a cui era stato ordinato solo di portare alle compagne
degli abiti – i teli non potevano stringersi al busto senza
infastidire le ali – e che si stava trattenendo oltre il
tempo
consentito.
Tacevano
tutte, in realtà: Amitiel, la Custode, Sachiel, Cassiel. Un
silenzio
rotto solo dal mormorio dell’acqua e dalla voce rasserenante
di
Ramiel, che parlava solo perché lei non c’era
stata, non aveva
visto, non aveva udito; altrimenti non avrebbe trovato la forza per
quel tentativo di conforto, troppo impegnata a mantenersi lucida.
Forse sarebbe stata come Cassiel, gli occhi chiusi e il capo immerso
sott’acqua, nel tentativo di cancellare tutto; forse come
Sachiel,
con la schiena spoglia appoggiata al bordo e le braccia strette al
seno, le labbra morse a sangue, lo sguardo fisso sulla nuova
arrivata. Non come Amitiel, completamente estraniata, ma chi poteva
biasimarla? Per lei era stato peggio – ogni cosa. E per la
sua
compagna, anche, ma quella non aveva ancora finito. Non era ancora
lì
con loro.
Alle
terme degli adulti, non allo Specchio, per essere vicine.
Raggiungibili. Era un pensiero angosciante, rifletté
Sachiel, mentre
guardava Ramiel ripiegare il panno con cui aveva tamponato gli
squarci della compagna. In ogni momento avrebbero potuto mandare a
chiamarle e ricominciare tutto, ancora, di nuovo.
Rabbrividì
e abbassò il viso, per non vedere e non invidiare
quel cherubino di cui, almeno, qualcuno si preoccupava.
...invidiare.
Cosa
c’era da invidiare?
Quella
compagna che le aveva ripulito la schiena dal sangue? Quella compagna
che le stava cospargendo i capelli con gli oli?
Un
insegnante diverso da Kasbeel alla prima classe?
Non
parli come lei, quindi non sei spontanea, immediata. Se davvero
dicessi la verità lo saresti, diresti le cose come ti
vengono in
mente, e si sa che agli allievi di Kasbeel vengono in mente come
parla lei. Il principio lascia i segni, su di noi –
più che sugli
Umani. Più che su ogni altro essere.
Assurdo.
Incomprensibile.
Aveva
passato tutto il ciclo superiore a perdere quello stile così
confusionario nel parlare, e ora... ora non andava bene. Ora
significava mentire.
E,
se nonostante questo continuava a non invidiare Amitiel, era facile
immaginare quanto non invidiasse nemmeno
quell’altra, Anane
– lei sì, l’aveva avuta Kasbeel alla
prima classe. Si pretendeva
che anche lei mentisse perché non parlava come
quell’insegnante.
...e
non le aveva ancora raggiunte, lì, in quella sala, in
quell’edificio
vicino ai Censori in modo angosciante.
Vicino,
non da loro.
Era
già un miglioramento.
«Ferma.»
Passi
rapidi, lievi.
«Ma...»
Singulto
sorpreso.
«Non
puoi. E ora va’, sei qui da troppo.»
Fruscio.
«...vado.»
Passi
lenti, pesanti.
Rialzò
lo sguardo. Anche Cassiel, poco lontana da lei, sollevò il
capo
dall’acqua e fissò la Custode – non
aveva bisogno di socchiudere
gli occhi, perché l’acqua non dava loro fastidio,
a differenza
degli Umani.
Ma
non era il momento di ripassare gli appunti di – fremito di
rancore
– Leliel.
Non
riusciva a capire cosa fosse successo: il cherubino si era
allontanato con espressione sorpresa e furiosa,
l’angelo stava tornando al proprio posto contro la parete con
un
forzato distacco.
Amitiel
fissava ancora il vuoto, ma aveva il busto lievemente voltato, un
braccio disteso per poggiare il polso sul pavimento asciutto, come se
fosse stata mossa da qualcuno e avesse poi dimenticato di tornare
come in origine. Forse non si era nemmeno accorta di aver cambiato
posizione.
C’era
un alone candido, su quel polso – il Fuoco della Guarigione
che
ardeva nei Cherubini era flebile, quasi insignificante. Per
riprendersi in tempi accettabili, il loro corpo non poteva rinunciare
all’intervento dei Guaritori; e il dolore non scemava in
breve
tempo come negli adulti, ma persisteva più a lungo e
più
intensamente.
Che
la compagna volesse bendarle il polso? Che, versata in
quell’arte,
volesse guarirlo?
Qualsiasi
cosa avesse tentato, non era permesso. Non per loro, possibili
traditrici.
...continuava
a sfuggirle il senso di tutto quello.
Assurdità
su assurdità che stavano scalfendo la sua fiducia nel
Paradiso –
una fiducia totale, cieca.
Cieca
davvero, perché non era possibile che non si fosse mai
accorta di
quella ferocia, di quella violenza, o che le avesse giustificate.
Viverle, però, era tutt’altra cosa e... e non era
possibile che
anche quello fosse il
Paradiso.
Cieca.
Cieca.
Ma
aveva visto, ormai; e prima
e dopo – perché
entrava sempre una alla volta, sola, fragile, spaventata –
aveva
udito, udito tanto da star male.
Amitiel,
ancora, non accennava a voler sollevare il polso dal pavimento.
Totale disinteresse, totale alienazione. Spenta. Vuota.
Rabbrividì
e, meschinamente, ringraziò di aver ricevuto un trattamento di
favore.
Per
altre era stato peggio, mille volte peggio.
* * *
Calore.
Un
calore intenso, ustionante. Totalizzante. Tutto il suo essere
concentrato su quella fiamma che ardeva dentro e fuori, avvolgendolo
in una spirale di dolore febbrile.
Era
troppo e ne voleva ancora.
Cos’altro
aspettarsi da chi non assaporava quel calore da secoli?
Un
cherubino che non cede al sonno da interi cicli non si
accontenterà
di un istante di riposo.
Un
umano che non si disseta da giorni non sarà appagato da una
goccia
d’acqua.
Ma
aveva giurato. Secoli che erano sembrati millenni,
ere intere:
un’attesa più lunga di quanto credesse
inizialmente. Era stata una
promessa avventata, strappata dalla rabbia e dalla disperazione, e
quel calore era così invitante, così seducente.
Nessuno l’avrebbe
mai saputo.
...o
forse gli sarebbe rimasta addosso l’impronta di quel
tradimento, la
pelle bruciata, il corpo tiepido. Forse i suoi occhi non avrebbero
più potuto posarsi su quel corpo
– atteso per secoli,
desiderato ancor più a lungo – senza ricordarne un
altro,
bollente, estraneo.
Un
corpo che in quel momento era su di lui, le mani a percorrergli il
torace lacerando il tessuto con le unghie, la pelle ambrata celata
appena dalle vesti. Un corpo seducente. Caldo. Demoniaco.
Il
viso della donna era impassibile, le palpebre rilassate calate sugli
occhi, le labbra distese in un vago sorriso senza significato. O lo
stava schernendo?
Sì,
stava schernendo quella promessa. Quella debolezza. Quella rinuncia.
Stava schernendo – perché Eisheth di certo
gliel’aveva
raccontato, ghignando – quel rifiuto per il timore di
rovinare
tutto, di perderla ancora senza averla mai ritrovata davvero.
No.
Sei troppo immatura. Non posso.
Chi
si sarebbe fatto tanti scrupoli?
Doveva
apparire ridicolo agli occhi dei Demoni, probabilmente anche a quelli
dei Caduti: un uomo che rinuncia ad essere tale per tener fede ad un
giuramento, un uomo che attende per secoli una femmina priva di
particolari attrattive. Non si era mai udito di nulla di simile
–
se mai era accaduto, gli interessati avevano avuto cura di mantenerlo
riservato.
Interessati
che non avevano una madre vagamente sadica e disturbata come
Eisheth; una madre che, per fare un esempio del tutto casuale,
diffondeva dettagli sulla vita privata dei figli per il solo gusto di
provocarli, o suggeriva a conoscenti fidate di fargli visita.
O
gliela faceva lei stessa con gli identici intenti.
E
stava diventando sempre più difficile rifiutarle, quelle
visite.
Premuto
sul terreno dal lieve peso della donna, assaporava le sue dita
roventi che gli scorrevano sul torace gelido, saggiandone i muscoli,
ignorando il ringhio di minaccia – solo minaccia?
– che lo
faceva vibrare. Scie roventi che gli causavano fremiti, i muscoli
tesi come durante uno scontro, le unghie che artigliavano i fianchi
del demone senza avere la forza di allontanarlo.
Avrebbe
piuttosto voluto rovesciare le posizioni, gravare sul bacino della
donna, stracciarle le vesti e stringere quella carne invitante.
Il
fuoco cresceva. Cresceva. Cresceva. Ardeva con
l’intensità di un
desiderio represso troppo a lungo per un ridicolo
giuramento;
nessuno dei due aveva idea di cosa sarebbe successo in futuro, quando
lei gliel’aveva strappato – erano stati ottimisti.
E
invece non c’era, non c’era il suo corpo tiepido,
non c’era la
sua voce, non c’era più nulla da troppo tempo.
Troppo
condizionata, troppo influenzata lei. Troppo impaziente lui.
Più
nulla.
Solo
quel giuramento e quella donna che gravava sul suo bacino, che
percorreva il suo torace con dita roventi e sorrideva ad occhi
chiusi, come se gli stesse concedendo un grande privilegio –
abituata ad amanti più influenti, più antichi,
più degni della sua
compagnia. Temuta quasi quanto Eisheth, splendida come lei, potente
persino di più.
Desiderabile.
Desiderata.
Da
Naamah puoi ottenere tre cose: il piacere, il futuro e la morte.
E
quel giuramento, quel giuramento che non smetteva di tormentarlo
mentre il demone affondava le unghie nelle sue spalle; pelle
d’arcangelo che non ne rimaneva segnata, che neppure
avvertiva il
dolore, ma fremeva comunque sotto quel tocco.
Voglia.
Lascivia. Desiderio.
Soffocare
nel suo corpo rovente ogni ricordo, ogni rimpianto, ogni promessa
avventata, ogni nome che affiorava alle labbra. Non
è lei. Non è
lei. Stringerla e rubarle quel calore, estinguere il gelo che
avvolgeva i Caduti, sfogare la brama ignorata troppo a lungo. Trovare
il piacere e affogarvi lucidità e pensieri.
Ishild.
Le
labbra della donna sul collo. L’eccitazione come una scossa
lungo
la schiena, le unghie affondate nei suoi fianchi fino a lacerare il
tessuto e incidere la pelle, sangue di demone che colava sulle dita
come fuoco liquido. Un ringhio, le mani a risalire la schiena liscia
– ali da serafino ritirate, cicatrici inesistenti
–, a stracciare
la veste, a stringerla contro di sé.
Ishild.
Quel
nome sussurrato con rabbia, con rimpianto. Con il dolore devastante
che lo accompagnava da secoli, perché non c’era
più nulla, più
nulla, non il suo corpo, non la sua voce, non le notti trascorse ad
attendere l’alba.
La
risata del demone gli giunse alle orecchie, bassa, gentile, del tutto
diversa da quella acuta di Eisheth. Il viso di nuovo sollevato, come
a volerlo guardare dall’alto, ma gli occhi ancora chiusi
– eppure
si sentiva più scrutato che se l’avesse fissato
con le palpebre
sollevate.
«Dunque
tua madre non mentiva.» mormorò, sorridendo
leggermente «Davvero
vuoi mantenere quel giuramento.»
La
rabbia prese il sopravvento. La scostò da sé con
un movimento
furioso, gettandola sul terreno; su di lei, le mani spostate ai lati
del suo viso, resistendo all’impulso di stringerle la gola
–
poteva prevalere fisicamente con il proprio corpo
d’arcangelo, ma
lei gli era immensamente superiore. Poteva vantare
un’Influenza più
potente persino di quella di Eisheth: avrebbe potuto renderlo folle
in pochi istanti. Distruggere ogni pensiero razionale, ogni briciola
di lucidità. Annientare la sua mente con il dolore o farla
divorare
dall’ira.
Non
era sua madre, non poteva sfidarla sapendo di rimanere vivo –
devastato, sì, ma vivo –, ed era anzi una dei
pochi che avrebbero
potuto ucciderlo senza temere la vendetta di Eisheth.
E
la sentiva, sotto di sé. Carne calda, immobile, senza
neppure un
fremito di inquietudine; carne che lo invitava. Lo seduceva.
Non
è lei. Non è lei.
«Molto
poetico, ma poco concreto. Non voglio condividerti con
un’altra.»
mormorò Naamah, sfiorandogli il viso con le dita, come a
voler
ricreare nella propria mente i suoi lineamenti. Non aveva ancora
aperto gli occhi, eppure sembrava sapere esattamente come muoversi.
L’arcangelo
s’irrigidì, i muscoli tesi che trattenevano a
fatica l’impulso
di ferirla, spezzare quel corpo fragile di donna, o... o...
Non
è lei.
Un
ringhio basso, gutturale, animalesco – perché
Naamah non poteva
dissacrare così ogni cosa, non ne aveva il diritto, non ne
aveva
interesse.
«Come
lo sa-»
«Dovresti
stare più attento agli alleati cui ti affidi, arcangelo. La
fiducia va tenuta ben riposta, perché non si sciupi.»
Un
sorriso a tenderle le labbra. Le mani sollevate a sfiorargli il volto
in una carezza materna.
Scostò
il capo con un gesto brusco.
«Non
mi affido a nessuno.»
«In
tal caso, la mia Influenza arriva persino a frugare nella tua memoria
senza che tu te ne accorga. Non ne avevo idea neppure io, ti
assicuro.»
Non
sembrava ironica: stava semplicemente attestando.
Incolore,
neutra. Indifferente.
La
voce un bisbiglio che avrebbe potuto confondersi con il vento, con il
fruscio delle foglie, con il mormorio di un torrente. Come se non
appartenesse a quella dimensione, a quel tempo.
Naamah
non era diafana, non era scarna, ma rimaneva sfuggente.
Come...
«Dumah.»
«Precisamente.»
premé con le mani sul suo torace, per spingerlo a sollevarsi
«Ma
nessuna rivalsa su di lui, se non ti dispiace. Sarebbe tedioso dover
spiegare a tua madre il motivo della tua morte.»
Non
osò tenerla ancora imprigionata a terra e si
rialzò in piedi,
sovrastandola – illusione di supremazia su quel corpo
seducente
disteso a terra, pelle ambrata e graffi intravisti sotto il tessuto.
Illusione di supremazia su un’essenza che avrebbe potuto
annientarlo in pochi istanti.
«Hai
visto la mia reazione?»
«Percepisco
le tue intenzioni.» si rialzò con un movimento
calmo, indolente «Ma
evita, tua madre ti consiglierebbe la stessa cosa – lei sa
quanto
io trovi fastidiosi gli amanti feriti. Non mi piace il
sangue,
Michael.»
Amante?
Ma Dumah era...
Persino
il disgusto, però, fu sopraffatto dall’ira.
Voglia
di attaccarla. Farla a pezzi. Affondare le unghie taglienti nella
pelle, ferendo, lacerando. Mostrare le sue ossa, spezzarle,
frantumarle. Sarebbe bastato sollevare una mano, afferrarle il gomito
e stringere – una pressione minima per il corpo da guerriero
dell’arcangelo, ma in grado di devastare il fragile involucro
del
serafino.
Dilaniarle
la gola, soffocare la sua voce con il suo stesso sangue. Impedirle di
tormentarlo con quel tono neutro – eppure poteva percepire lo
scherno, dietro quell’apparente impassibilità.
Poteva sentirsi
attaccato dal suo sorriso, schernito dalla sua indifferenza.
Stava
sporcando ricordi. Frasi antiche, promesse, sussurri –
nemmeno
sapeva che Dumah li avesse raccolti, quando la sua mente era esposta
e la sua essenza più fragile, sotto la sua Influenza. Parole
custodite gelosamente e strappate, ormai; rovinate. Distrutte da
quella voce impassibile.
Brama
di violenza.
«Non
imporrò la mia compagnia a chi non sa
apprezzarla.» un gesto della
mano sottile «Puoi andare.»
Come
se l’avesse raggiunta Michael e non il contrario. Come se si
fosse
recato da lei.
Rabbia.
Un ringhio in gola, le mani serrate a pugno. Le ali esposte
all’improvviso, tanto bruscamente da provocargli una
fastidiosa
fitta alle scapole – ali nere, ali enormi, ali taglienti, da
arcangelo caduto. Quasi una minaccia.
Il
desiderio estinto da quella voce impassibile, da quelle frasi
pronunciate senza emozione, senza delicatezza, senza nulla di
ciò
che gliele aveva rese care quando era stata un’altra a
mormorarle.
No,
non un’altra. Lei. Ishild.
«Fa’
sapere a tua madre che ora ritengo ripagata ogni cosa.» mosse
di
nuovo la mano, come ad invitarlo ancora ad andarsene «Ma che
non si
avvicini più a Dumah, se non vuole che io mi avvicini a
te.»
«...non
ti ha mandata lei?»
«Che
mi abbia chiesto di incontrarti, caduto, non significa che io
l’abbia
fatto per accontentarla.» fremito delle palpebre chiuse
«E la
prossima volta potrei non avere intenzioni così pacifiche.
Un
patetico giuramento tra due cherubini non
è di mio
interesse.»
Una
spinta con le gambe, un battito rabbioso delle ali.
Allontanarsi
da lei prima di perdere il controllo. Prima che sporcasse del tutto
quel giuramento.
«Non
voglio condividerti con un’altra.»
«Non
credere di essere stata la prima.»
«Importa
l’ultima. Quella che scegli.»
La
donna sollevò le palpebre con un movimento improvviso, ma
non
brusco, quasi pacato. Sollevò il viso per guardarlo
allontanarsi –
o almeno così sembrava.
Gli
occhi, orbite bianche, si perdevano in un punto imprecisato del cielo
notturno.
«Mi
chiedo chi sia più cieco tra noi due, Michael.»
* * *
Il
polso faceva male.
Faceva
male tutto il braccio, in realtà, torto in modo un
po’ strano per
poggiare il dorso della mano sul pavimento senza piegare il busto.
Però
il polso di più.
E
anche la gola.
E
gli squarci.
Aveva
voglia di chiudere gli occhi e strofinarseli, perché le
ciocche
lasciavano gocciolare acqua sul viso, ma sapeva di non averne
bisogno: era una cosa da Umani, quella. Come sbattere le palpebre. O
passarsi le mani tra i capelli, a districare nodi inesistenti. O
singhiozzare. O respirare.
Non
lo avrebbe più fatto. Davvero, aveva capito, non lo avrebbe
più
fatto; perché non erano contenti? Perché dicevano
che non andava
bene? A lei nessuno aveva mai spiegato che gli Umani avevano la
chioma aggrovigliata, o che i loro occhi dovevano chiudersi spesso,
come poteva sapere di imitarli? No, no, certo che non avevano
sbagliato a non spiegarglielo! Solo che lei non poteva
saperlo,
lei non voleva contrariarli, altrimenti non si sarebbe comportata
così.
...a
volte gliel’avevano detto, di non farlo, solo che se
l’era
dimenticato. Le veniva naturale, istintivo, non era colpa sua,
davvero. Lei non voleva, però non riusciva a evitarlo.
Nelchael
l’aveva sempre rimproverata per questo, perché
allora diceva di
non essersene mai accorto? Perché diceva che nessuno le
aveva mai
vietato quei gesti? Ai Censori non si doveva mentire. No, no, non si
doveva; però lui lo stava facendo e lei... lei avrebbe
dovuto dirlo,
che non era vero? E poi cos’altro avrebbe dovuto smentire? Il
racconto di Anane? Le proprie stesse parole?
Voleva
quasi aprire bocca, però l’Autorità
l’aveva fermata con uno
sguardo gelido. Sì, aveva ragione, non poteva interrompere
un
insegnante mentre parlava. Solo che poi l’argomento era
cambiato e
lei si era... dimenticata di smentire Nelchael
– e non aveva
capito cosa ci facesse lui al posto di Ramiel, lì. Forse la
Guardiana era occupata e avevano chiamato il suo insegnante
precedente, dato che era passata alla quinta classe da pochissimo?
Per questo Nelchael era così arrabbiato? Non voleva perdere
tempo
per un cherubino che non era più neanche suo allievo?
Ma
allora potevano aspettare Ramiel, sì, potevano smettere e
farla
tornare dopo...
No.
Era già tutto finito. Era già tutto passato.
Solo
che era un po’ difficile mettere a fuoco la parete di fronte
a lei.
L’acqua creava riflessi strani senza produrre ombre, solo
chiarore
ancora più intenso, e un po’ la confondeva.
Sembrava quasi di
essere ancora seduta in quella stanza bianca –
così bianca che
aveva dovuto socchiudere gli occhi, entrando, anche se a loro la luce
non dava fastidio. Altro comportamento da evitare, se ne sarebbe
ricordata.
Forse
non era normale neanche sentirsi così male, lì.
Così piccola, così
insignificante, così sporca in mezzo a
tutto quel bianco.
Bianco. Bianco. Tutto bianco. Anche il sangue che bagnava gli
squarci, il collo, la divisa, e com’era possibile che si
fosse
danneggiata così? Ma non era tutto suo quel sangue, era
del... del
Custode, e no, non sapeva come avesse fatto a sporcarsi così
tanto,
non se lo ricordava, e neanche come si fosse ferita il collo. O come
avesse perso il nastro per capelli. Davvero, davvero, non se lo
ricordava, perché dovevano arrabbiarsi? Non potevano
lasciarla
andare, per favore?
No.
Finito. Tutto bene.
Non
c’erano più le loro voci, i loro volti, le loro
insinuazioni. Non
urlavano, no; e neppure accusavano. Erano delicati – la
devastavano
con un sorriso gentile sulle labbra. Distruggevano ogni cosa. Ogni
cosa.
Ed
era quasi arrivata a credere che davvero Anane l’avesse
tradita,
che non le importasse nulla di lei, che fosse un legame sbagliato.
Ed
era quasi arrivata a credere di essere un errore continuo, con quei
suoi comportamenti troppo umani e la sua poca devozione, la sua poca
sincerità – ma quando aveva dimostrato poca
devozione, poca
sincerità? Cosa volevano dire?
Ed
era quasi arrivata a credere di voler dire loro
tutto, tutto.
Che Nelchael non aveva detto la verità, che Ramiel aveva un
rapporto
speciale con Raphael, che Anane era una traditrice. Che lei... lei
non aveva fatto niente di male, davvero. Non avrebbe potuto
impedire niente di quello che era successo, era solo un cherubino.
...il
polso. Male. Perché Nelchael aveva stretto così
tanto?
Ed
era stanca, stanca come le sembrava di non essere mai stata: il corpo
faticava a muoversi, l’essenza si stendeva in un velo esausto
e
labile, il sangue scorreva rapido cercando di dare energia –
ma
anche il sangue era essenza, essenza fisica, liquida, fragile e
fondamentale e poca, terribilmente poca.
Non
le avevano lasciate riposare; e lì, lontano dallo Specchio,
nemmeno
avvertivano il Richiamo che scandiva i periodi. Quanto avevano
atteso? Quanto erano rimaste nella vasca? Quanto era durato quello?
Non lo sapeva. Poteva misurarlo unicamente dalla stanchezza e sapeva
solo che era troppo, troppo.
Dormire.
Chiudere gli occhi. Riposare. Glielo avrebbe permesso, la Custode?
Non le serviva nemmeno la Presenza, voleva solo potersi immergere nel
nulla.
Ma
forse, nel sonno, avrebbe rivisto tutto. Rivissuto tutto. Ancora e
ancora e ancora, come non era normale per gli
Angeli –
oblio. Solo oblio, niente sogni, niente incubi. Niente pensieri.
Niente ricordi.
Niente
ossa esposte, organi devastati – un grumo di carne e sangue e
orrore, bianco che si sommava al bianco dandole la nausea e non
importava che fosse una sensazione umana, c’era,
c’era e la
faceva star male.
Niente
arti scomposti, abrasioni, muscoli dilaniati – rosso, rosso
ovunque, che dava fastidio alla testa e al petto e alle ali, come se
la sola presenza di quel fluido fosse in grado d’intossicarla.
Niente
insinuazioni bisbigli accuse sorrisi.
Dormire.
Solo dormire.
...male
al polso.
Una
stretta tiepida, delicata, lo spostò dal pavimento al suo
grembo.
Di
fronte a lei – nemmeno l’aveva messa a fuoco sino a
quell’istante
– l’allieva dell’Autorità, il
viso ad un soffio dal suo, con
un’espressione preoccupata, ansiosa. Le sembrava di scorgerlo
oltre
un velo di nebbia, sfumava di continuo contro il bianco della parete
alle spalle; eppure non ricordava di avere gli occhi danneggiati, non
le facevano male, non percepiva alterazioni. Solo, non riusciva a
vedere quasi nulla.
Quasi
come essere cieca.
Solo
un dettaglio, nitido, in quella nebbia.
Occhi
azzurri.
«Vedi? O sei accecata da tutto questo bianco?»
***
Angolo autrice
Come al solito,
grazie a chi legge, inserisce tra preferiti/seguite/ricordate e un
ringraziamento speciale a chi commenta! (:
E dopo la terribile scoperta che... sì, Eisheth fa avance
sessuali al figlio *coff*... vi do il permesso di insultare la mia
fantasia malata xD
Non sono sicura di poter aggiornare, domenica prossima, causa possibili
impegni per tutta la settimana. Eventualmente, aggiornerò la
domenica successiva (:
|
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Capitolo 21 *** 20. Odio ***
Capitolo
20 – Odio
Socchiuse
le palpebre, tentando di scorgere il viso della compagna in quel mare
bianco che inghiottiva ogni cosa. Capelli biondi raccolti malamente
con uno spillone – le ciocche più disordinate
divorate dal
candore. Pelle chiara che sfumava in quella luce abbagliante. Il viso
ovale indistinto contro il bianco della parete alle spalle,
l’espressione incomprensibile, le labbra una semplice linea.
E
gli occhi. Gli occhi. Quegli occhi azzurri che rimanevano
l’unico
punto fermo nella nebbia accecante che le circondava; tanto vicini da
poter notare le screziature grigie dell’iride, il lieve
fremito
delle palpebre, la curva delle ciglia.
...familiari?
Scosse
debolmente la testa, come a scacciare un pensiero molesto.
Ma
dove li aveva già visti? Dove?
«Gli
Umani, vivendo per l’eternità, impazzirebbero.
Troppo dolore,
troppa stanchezza. Troppi ricordi.»
«E...
noi?»
«Noi
ti sembriamo meno folli di loro?»
Voci.
Voci. Voci.
Parole dal suono che non sarebbe riuscita a ripetere, ma di cui
comprendeva il senso. Parole sibilate dalla sua stessa voce nella sua
mente, senza che assumessero un tono particolare, una sfumatura che
facesse distinguere chi le aveva pronunciate.
Forse
stava solo
impazzendo e parlava tra sé.
D’altronde,
lei
mentiva agli altri; perché la sua mente non avrebbe dovuto
mentire a
lei?
Follia.
Gli Sconsacrati
erano folli, nella loro mostruosa esistenza di peccato: si
sottraevano al giusto, alla luce, al tepore, alla purezza,
precipitando sempre di più nel loro baratro di orrore. Come
avrebbero potuto non impazzire? Il freddo, il bruciore, la
rapidità
dei tempi umani, l’intima consapevolezza di non essere altro
che
abomini, errori, aborti dei giusti e dei puri.
Terribile,
ripetevano sempre, gli occhi sgranati per il raccapriccio e un indice
sollevato, ammonitore, verso i Cherubini; le sembrava quasi di
rivederli di fronte a sé, in quella nebbia che aveva ormai
divorato
anche gli occhi della compagna, immergendola in un nulla bianco in
cui i suoi pensieri vorticavano senza tregua, angosciati e
angoscianti. Terribile. Divorati dalla follia.
Ripetevano
chi? Tutti.
I Custodi, gli insegnanti, i Guaritori, chiunque avesse a che fare
con gli allievi. Non era mai un momento sbagliato per insegnare la
morale, la purezza, se l’occasione si presentava; e con
l’imperfezione dell’infanzia – errori su
errori ripetuti sino a
che l’Espiazione non riusciva a sopprimerli – si
presentava
spesso. Ancora così inadeguati, così incompleti.
Più esposti alle
mancanze.
Lei...
lei aveva già
sbagliato abbastanza da diventare pazza?
Un
sussulto. Acqua
tiepida versata sugli occhi.
La
vista tornò più
nitida, solo un po’ infastidita da tutta quella luce, da
tutto quel
candore; il viso dell’altra ad un soffio dal suo, le mani
ancora
sospese sulla sua fronte.
...l’allieva
dell’Autorità, quella che aveva osservato la ferita
poco
prima che lei discendesse per la prima volta nella dimensione umana.
Ecco dove l’aveva già vista.
«Vedi
un po’
meglio?» le chiese quella a bassa voce.
Nessuna
risposta.
«Amitiel,
sì?» un
sorriso rassicurante «Io sono Sachiel, lei Cassiel. Ma forse
vi
conoscete già.»
Ancora
nessuna
risposta.
Cosa
voleva da lei? Non
aveva sentito quello che le avevano detto? Distrazione, le
parole.
Concentrarsi sui propri compiti. Distrazione, i legami.
Eppure
era fuori, non poteva non aver sentito mentre... mentre...
«Hanno
ordinato di
immergerci.» le mani a stringerle lievemente i gomiti
«Vieni?»
Anane,
chissà Anane
come stava. Non era ancora arrivata.
No.
Distrazione.
«Quest’acqua
risana
l’essenza. È riposante.»
Riposante.
La tentava,
quella parola – il corpo esausto che non rispondeva
più ai suoi
comandi, la vista che già iniziava a tornare sfocata,
l’essenza
che si abbandonava all’apatia. Riposare sarebbe stato
così bello.
Si trovò sul punto di chiedere Davvero?,
ma si fermò in
tempo: nessuna domanda. Mai.
«Lasciala
stare. Se
non vuole, non vuole e basta.»
Un’altra
voce, più
alta, più aspra. Cassiel era irritata? Con lei? O con
Sachiel? Voltò
il capo, spaesata, cercando la compagna del ciclo inferiore. Era
lontana, isolata; le ali chiare distese a far vibrare
l’acqua,
l’espressione dura a far vibrare lo sguardo –
sembrava quasi
accusarla, come se fosse colpa sua, e forse un po’ lo era ma
loro
non dovevano saperlo. Gliel’aveva detto Michael, prima di
andarsene, e gliel’aveva ripetuto anche Anane: negare sempre.
Stare
in silenzio, se non sapeva cosa dire, ma non ammettere mai. Avrebbe
solo peggiorato le cose e lei non voleva che le cose peggiorassero,
vero?
Pensa
all’Espiazione. Pensa a tutto quel dolore. Non ammettere mai,
mai,
mai. Senza prove, le loro saranno solo parole.
Ma
non credeva che le
parole potessero essere così dolorose, così
devastanti.
Poco
male: lei non
doveva credere niente. Inutile distrazione.
«Vieni?»
Di
nuovo la voce
morbida di Sachiel, venata appena dall’irritazione. Parlava
con una
sorta di cautela, come se temesse di turbarla; anche le sue mani
furono delicate, quando si alzò in piedi di fronte a lei e
la fece
sollevare a sua volta, stringendole i gomiti senza violenza.
Amitiel
balbettò
qualche passo incerto, sostenuta a fatica dall’altra per non
crollare in ginocchio. Le gambe tremanti la ressero solo per poco:
nonostante la presa di Sachiel si lasciò ricadere,
immergendosi fino
alle spalle, seduta su uno dei gradini più bassi. Le ali
urtarono
contro quelli superiori e rimasero inerti quando lei tentò
di
distenderle, per trovare una posizione meno dolorosa; l’acqua
si
tinse del sangue bianco perso dagli squarci – il sangue
più puro,
più prezioso, versato prima di arrivare alle ali. Ma era un
dolore
distante, come se la sua mente non lo recepisse davvero, come se non
la riguardasse.
Era
stanca.
Stanchissima.
Peggio
di come le
capitava a volte, all’improvviso, insieme a quel senso di
stordimento ed estraneità che – se fosse riuscita
a ragionare –
avrebbe da tempo associato all’essenza ferita;
peccato che
non fosse in grado di riflettere così lucidamente. Era
stanca, aveva
male, si sentiva disorientata: pensare era
inconcepibile,
onorava già abbastanza il proprio autocontrollo
trattenendosi dal
piangere, urlare e chiedere che cosa dovesse fare per stare un
po’
meglio – e non poteva porre domande, no, però non
chiedeva tanto,
solo di stare un po’ meglio, solo di essere lasciata in pace,
perché lei non aveva fatto niente di male. Davvero. Avevano
fatto
tutto gli altri, era colpa loro, lei... lei non avrebbe potuto
impedirlo comunque; e non era giusto che venisse condannata solo
perché era debole, inetta. Se mentiva ai Censori era solo
perché
sapeva che non avrebbero capito, adulti da troppo tempo per ricordare
quanto i Cherubini fossero fragili. Non aveva nessuna colpa, quindi
non potevano farla stare un po’ meglio? Lasciarla dormire,
assicurarle che non l’avrebbero più chiamata
per... per...
Acqua
sul viso, a
diradare la nebbia bianca che – nemmeno se n’era
accorta –
tornava lentamente a inghiottire tutto.
Gli
occhi della
compagna ad un soffio dai propri, scorti attraverso quel candore
accecante.
La
vista un po’ più
nitida.
«L’essenza
sta già
migliorando.» la informò Sachiel, sistemandole
dietro un orecchio
una ciocca nera che le infastidiva gli occhi. Lei non ci aveva
minimamente pensato, a scostarla – non ci aveva prestato
attenzione
e basta.
«Mentire
è peccato,
fascia grigia.» sibilò Cassiel, con una risata
grondante ironia e
livore.
«Che
imperdonabile
errore ho commesso per perdere il privilegio della tua benevolenza,
fascia rossa?»
«Tu
nulla.» le
rispose, con un tono che sembrava sottintendere l’esatto
contrario
«Ma se lei avesse avvertito subito i
Guardiani, io non sarei
stata coinvolta.»
«Non
cre-»
«Cherubini.»
le
richiamò la Custode «Una simile
ostilità non vi fa onore.»
Ostilità.
Amitiel
si rigirò
quella parola in bocca, come ad assaporarla, articolandola a bassa
voce.
Ostilità.
Un
termine diverso,
nell’idioma degli Angeli: duro, gutturale, aspro.
L’aria sibilò
tra i denti, nella gola vibrò un suono roco, le labbra si
schiusero
per una vocale dal timbro cupo e pesante. La lingua contro gli
incisivi, a chiudere la parola con uno schiocco secco.
Era
un sentimento
proibito, assolutamente proibito, si disse: avrebbe sporcato
l’essenza delle due compagne. Ma era davvero
ostilità?
Dal
tono, dall'espressione, le sembrava più...
rancore. Astio. Livore.
Odio.
Odio?
Ancora peggio.
Non andava per niente bene, no, proprio per niente. I Censori non ne
sarebbero stati contenti.
...forse
non sarebbero
stati contenti nemmeno che si fossero recate lì. Quando
Nelchael
aveva ordinato di andare ad immergersi in quelle
acque
riposanti, i Custodi erano rimasti visibilmente interdetti; ma, tra
un «Mi assumo io la
responsabilità.» e un «Ho
il
consenso dell’Autorità.», era
riuscito a convincerli che non
vi fosse nulla di sbagliato nel permettere alle allieve di
rilassarsi. Eppure sembrava ancora arrabbiato e lei non riusciva a
capire bene perché, e temeva che i Censori fossero contrari,
e non
voleva dare un altro motivo per... per tornare lì a parlare
–
detto così sembrava quasi accettabile, meno spaventoso.
Non
voleva, no, no, non
voleva.
Rannicchiarsi
di nuovo
su sé stessa e farsi piccola, piccola, piccola, lasciatemi
scomparire per favore. Trattenere a fatica
l’impulso di
piangere e urlare e implorare pietà. Ascoltarli ancora,
ancora, con
il dolore che si scioglieva liquido in gola e le loro parole che
colavano bruciavano devastavano.
Sei
fedele al Paradiso? Sì, sì, sì
sì sì sì, davvero, sì,
sì.
Sì
a tutto, avrebbe
voluto dire, pur di farli smettere; perché non potevano
distorcere
così ogni cosa, Anane, i sorrisi, i singhiozzi, le domande,
le
amicizie. Tutto diventava sbagliato sulla loro bocca, anche le
innocenti avventure lungo le rive proibite del Confine, anche la
preferenza per la biblioteca della prima classe, anche svagarsi con
le correnti d’aria. E... e... e stava quasi per... per
tradire. Per
tradirsi. Per raccontare ogni cosa.
Le
mani di Michael tra
i capelli, sui fianchi, sulla schiena. Anane che mentiva e ingannava.
Ramiel e Raphael che osavano cedere ad un sentimento non contemplato
per due Cherubini. Il ghigno di Eisheth, la sua risata acuta.
Nelchael che non diceva il vero.
Avrebbe
voluto dire di
sì a tutto, pur di farli tacere, perché iniziava
a sembrarle
davvero tutto sbagliato. Proibito. Sporco.
Ma
non l’aveva fatto,
perché poi sarebbe arrivata l’Espiazione
– brivido – e a
quella... a quella – altro brivido – avrebbe detto
di sì a
tutto, davvero, avrebbe ammesso anche il falso pur di farla smettere.
E poi sarebbe stato solo peggio, perché il Paradiso non
brillava per
clemenza verso i suoi figli.
Erano
solo parole, solo
parole, poteva ignorarle e dirsi che non erano vere e dimenticarle,
rinchiuderle in un angolo della memoria e non tornarci più.
Sostituirle con le dita di Michael che le pettinavano i capelli, con
la sua voce, il suo respiro, le sue braccia a stringerla. O con la
risata squillante e allegra e contagiosa di Anane, o con Ramiel che
le tamponava il sangue dagli squarci, o... o anche con Nelchael che
sembrava arrabbiato ma poi la faceva allontanare perché si
riposasse, perché non sentisse.
Con
Cassiel erano stati
quasi delicati, con Sachiel un po’ meno, con lei per nulla;
ma con
Anane... con Anane erano peggio, molto peggio, e davvero sarebbe
impazzita se avesse dovuto stare lì dietro una porta a
sentire le
urla, le implorazioni, i dinieghi angosciati.
Era
stata l’unica,
tra le tre già uscite, a trovarsi dolorante –
capelli strattonati
e dita affondate nella mascella per costringerla ad alzare il viso, e
ali premute contro il corpo di Nelchael mentre cercava di indietreggiare, e quella stretta violenta al polso, e... e niente di
grave, niente di insopportabile.
Anane...
Anane...
voleva sperare, davvero, che le grida fossero solo di angoscia.
Pregava che fosse così, e ringraziava che
le proprie non
fossero state di dolore. Perché non potevano fare nulla,
nulla,
senza le prove, ma... ma quel Censore dagli occhi verdi gelidi che
non avevano niente, proprio niente a che fare con quelli di Ramiel,
quel Censore non sembrava troppo propenso a seguire così
tanto le
regole, perché era già convinto che loro
– lei, Anane, Sachiel,
forse anche Cassiel – c’entrassero qualcosa con la
morte di quel
Custode.
E
poi, in realtà,
qualcosa contro Anane in effetti ce l’avevano.
La
sua essenza si era
avventata su quella dell’angelo.
Soppressa.
Schiacciata.
Estinta.
Per
colpa – per
volere, ma questo lo sapevano solo loro due – di Anane.
Però...
però... però
Anane non era un’assassina. Non poteva esserlo. Non la
limpida
allegra meravigliosa Anane.
Quindi
non era colpa di
Anane e basta.
L’Autorità
stava in
silenzio e vigilava, con i suoi occhi azzurri gelidi ma non tanto
quanto quelli del Censore, e Amitiel sperava pregava implorava che
quella briciola di calore potesse far provare un po’ di
pietà alla
donna. Un po’ di compassione. Non c’era anche la
sua allieva, in
fondo, tra quei cherubini?
Quindi
Anane stava
bene. Per forza. Tardava solo perché... perché...
perché perché
perché... perché forse non l’avevano
avvisata che loro erano lì
a riposare, forse Ridwan l’aveva riportata subito allo
Specchio.
Sì,
doveva essere
così.
Vero?
Percepì
a fatica le
braccia di Sachiel cingerle le spalle, delicatamente, poco
più di
una carezza; labbra sulla fronte, un’essenza tiepida a
circondare
la propria, un sussurro morbido.
«Non
piangere.»
Ma
Sachiel doveva
sbagliarsi, non c’era alcun motivo per piangere,
perché lei stava
bene e Anane stava bene e nessuna delle due era una traditrice o
un’assassina o rischiava l’Espiazione o peggio.
Non
avvertiva le
lacrime scorrere lungo le guance, dopotutto. No, non le avvertiva.
No.
...no.
«Non
piangere.»
E
– nonostante non
stesse piangendo, nonostante non ci fosse nulla di cui preoccuparsi,
nonostante andasse tutto benissimo – si aggrappò a
lei.
* * *
Si
udiva solo un
respiro, nella stanza: lento, regolare, profondo.
Un’espirazione
più rumorosa quando il capo si abbassava stancamente;
un’inspirazione bloccata in gola per l’angoscia
quando lo sguardo
si volgeva verso la finestra, che non lasciava entrare luce
nell’ambiente perché la luce era ovunque, tra quei
muri come
fuori, in basso nel cortile dove si muovevano fasce grige e ali quasi
bianche. Le fasce azzurre delle Custodi che sorvegliavano il ciclo
superiore, anche, ma ancora mancava quella di Ridwan.
Chissà
cos’avevano
ancora da dirgli, i Censori.
Chissà
se andava
davvero tutto bene come le aveva detto, e come poi le aveva ripetuto
anche Nelchael – incontro tanto inaspettato e improbabile che
dubitava fosse stato casuale.
Sospirò
e abbassò lo
sguardo sulla propria mano, il palmo abbandonato sul lenzuolo bianco,
le dita a stringerne altre più pallide. Non avrebbe dovuto
respirare, lo sapeva, e una parte di lei rabbrividiva ogni volta che
l’aria raggiungeva i polmoni; un’altra,
però, non poteva
rinunciare alla fragranza che le accarezzava le narici.
Era
un buon profumo,
sapeva di fresco e pioggia – tutti gli oli con cui i
Cherubini si
cospargevano il corpo e i capelli ricordavano la dimensione umana, in
realtà, come se dovessero abituarsi sin da subito agli
odori,
assenti in Paradiso. Gli adulti invece non li usavano e, quindi, quel
profumo sapeva anche di ali rosse e divertimenti infantili; quante
volte lo aveva sentito appoggiando la guancia sul capo di Anane,
entrambe sull’erba sdraiate sul ventre, stanche per aver
sfidato
troppo a lungo le correnti d’aria. Quante volte Anane aveva
sentito
quello che preferiva usare lei e che, però, non era riuscita
ad
associare a nulla; era intenso, inebriante, un po’ dolciastro
e
ancora senza nome.
Sapeva
di ricordi
sereni, quel profumo che permeava l’aria, e in quel momento
ne
aveva davvero bisogno. Aveva rovesciato la boccetta sulle lenzuola
candide, sui vestiti candidi, sulle pareti candide. Sulla pelle
candida e sulle ali candide di Anane. Sui capelli, anche, che
però
erano biondi; sulle poche piume ancora rosse e sulle proprie mani non
così chiare.
Le
sembrava quasi che
Anane fosse sveglia e la stesse abbracciando, mentre in
realtà
era... era lì, effettivamente, ma non nel modo che avrebbe
voluto.
Chissà quando avrebbe smesso di dormire – quando
l’essenza fosse
tornata intatta, probabilmente, anche se secondo Ridwan c’era
il
rischio che rimanesse segnata. Ancora poco e avrebbe finito per
impazzire come quella di quel demone; e non poteva che ringraziare
quella follia, quel dolore indotto da Eisheth che l’aveva
portato a
vaneggiare, senza essere di alcuna utilità ai Censori per
stabilire
cosa fosse accaduto realmente.
In
caso contrario,
Anane non sarebbe stata lì a riposare e lei a vegliare il
suo sonno.
Ma
erano salve.
Sospirò,
fissando
quelle dita pallidissime; risalì con lo sguardo lungo
l’avambraccio,
percorso da venature bianche, come se i capillari fossero esplosi e
avessero riversato il plasma candido lungo vie invisibili scavate
sottopelle. Una macchia chiarissima che si espandeva sul gomito;
piccoli squarci sul braccio, più profondi nella spalla e nel
collo,
tanto che il guanciale era impregnato di sangue.
Spostò
lo sguardo sul
suo viso, sfiorato dai ricci sciolti sul petto. Sembrava quieta: le
labbra schiuse, come per far filtrare un respiro inesistente, le
palpebre abbassate, i lineamenti abbandonati ad
un’espressione
serena. Nel sonno, almeno, non avvertiva il dolore.
Le
ali erano distese
sotto di lei, rilassate e intatte, all’apparenza.
All’interno –
e Amitiel ringraziava di non poterlo vedere – le ossa erano
solcate
dai segni dell’Espiazione, quasi sul punto di spezzarsi in
una
miriade di piccole schegge; il dolore liquido e bruciante era giunto
sin lì a corrodere quel corpo esausto, devastato.
Una
brutalità che non
aveva mai visto riservare ai Cherubini.
D’altronde,
non aveva
mai visto nemmeno un cherubino uccidere. Involontariamente, certo
–
o almeno così dovevano credere tutti –, ma pur
sempre uccidere. Un
Custode. Un fratello.
Un
malessere profondo
le artigliò le tempie, implorandola di non ricordare quella
scena.
Muscoli lacerati, ossa esposte, sangue bianco, occhi vivi; e anche
gli occhi vacui e folli del demone, il suo sangue rosso, e...
No.
Non ricordare.
Tornò
a guardare le
dita strette tra le proprie.
Erano
salve, sì? Salve
entrambe. Ridwan aveva detto che andava tutto bene, quando aveva
riportato Anane allo Specchio; che forse le sarebbe rimasta
l’essenza
segnata, ma che la clemenza del Paradiso aveva perdonato il suo
errore.
Clemenza.
Non
riusciva a trovare
nessuna clemenza in tutto quello. Nell’Espiazione portata al
limite, a ferire anche le ali, così fragili che
l’essenza dei
Cherubini rischiava di impazzire o di estinguersi. Nel corpo esausto
e devastato che aveva ceduto al sonno tra le braccia di Ridwan,
ancora prima di giungere allo Specchio. Nel tempo lunghissimo che
Anane aveva passato con il Censore, a piangere e urlare – e
poteva
immaginarlo anche se lei era rimasta con le altre ad immergersi
nell’acqua tiepida, poteva ricordare l’orrore di
quelle grida
prima che Nelchael le facesse allontanare.
Se
fosse stata umana...
se fosse stata umana, Anane sarebbe stata perdonata. Avrebbe avuto
un’altra possibilità, infinite
altre possibilità, non
quell’orrore.
Si
strofinò
rabbiosamente gli occhi, arginando le lacrime che minacciavano di
cadere. Aveva la nausea. Sì, era una sensazione umana, era
sbagliato
provarla, ma... aveva la nausea. E il terrore la
invadeva,
nell’accorgersene – il Censore che sibilava e
Nelchael che le
stringeva il polso e... e tutto il resto, non sarebbe tornato solo
per un po’ di nausea, vero? Non l’avrebbero punita
per questo,
vero? Perché lei... lei non lo faceva volontariamente,
succedeva e
basta, non era colpa sua, no. E...
E
la rabbia. L’odio.
Perché
non era giusto,
quel corpo devastato che accarezzava con lo sguardo – no, no,
con
questo non intendeva pensare che il Censore avesse sbagliato, solo
che...
Solo
che nulla.
Non
era giusto e basta.
Il
dolore
dell’Espiazione che bruciava e corrodeva da dentro, scavando
solchi
nelle ossa e nella carne, fino a rendere tutta la pelle un intreccio
di linee candide di sangue.
Il
dolore delle parole
del Censore che entravano nella testa e non se ne andavano
più, e
questo legame vi distrae dai vostri compiti, no, no,
non le
distraeva, non c’era bisogno di dividerle, eppure
la tua amica
ha detto che sarebbe meglio farlo sai?, no, no, non
poteva
essere vero e... no, non stava dicendo che stessero mentendo,
però...
però... però cosa? Silenzio.
Lacrime. Singhiozzi.
Singhiozzi? Non lo faceva apposta, davvero, le
veniva naturale
ma... ma non l’avrebbe più fatto, però
per favore voleva solo
andarsene e... e tornare da Anane – stretta al polso tanto
forte da
farla urlare, perché Nelchael faceva così?
Perché? Cosa c’era di
sbagliato? Allora no, non voleva tornare da Anane, voleva solo...
voleva solo... lei era fedele al Paradiso, sì, non
c’era bisogno
di trattenerla ancora lì con loro, voleva solo andarsene
perché non
c’era motivo di farla stare lì, e... e... e
davvero l’avrebbero
lasciata andare via se avesse detto tutto? Davvero
l’avrebbero
lasciata riposare? Perché era stanca, sì,
stanchissima, voleva
riposare, ma... ma... ma non c’era nulla da dire, davvero, sicura?
Sì sì sicura, davvero, per favore, per favore
voleva andarsene,
voleva...
No.
Basta.
Era
finito.
Però
doveva smettere
di pensare quelle cose così sbagliate,
altrimenti avrebbero
potuto ricominciare e lei non voleva, davvero. Non avrebbe dovuto
avere la nausea o essere arrabbiata per quello che era successo ad
Anane.
Era
giusto, quel
corpo devastato e sanguinante, perché Anane aveva davvero
ucciso
quel Custode ed era davvero una-
No.
Non lo era.
Figlia
di un demone.
Assassina. Traditrice.
No.
No no no no.
Eppure
sarebbe stato
logico, no...?
No.
Spostò
lo sguardo sul
viso di Anane, la limpida allegra meravigliosa Anane, serena solo
perché nel sonno non poteva avvertire il dolore. Un dolore
che non
osava nemmeno immaginare, un dolore che aveva rischiato di rendere la
sua essenza folle o inesistente, morta.
Odio.
«È
già successo?»
«Che
volessero parlarti? Che ti facessero questo?
Che tu odiassi? Sì.»
«Non
ricordo.»
«Noi
ricordiamo tutto. Ogni istante, ogni parola, ogni pensiero.»
«...io
non ricordo.»
***
Angolo autrice
Ed eccomi questa
domenica, dopo la pausa della settimana scorsa!
Grazie come sempre a chi legge, inserisce in una delle tre liste e
soprattutto a chi commenta (:
|
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Capitolo 22 *** 21. Marionetta ***
Capitolo
21 – Marionetta
«Non
farti illusioni. Io ti
odio.»
«Perché?»
«Sai
già perché.»
Occhi
aperti –
spalancati.
...mal
di testa.
Due
mani di fronte al
viso – le sue? Non le sentiva.
Le
ginocchia
rannicchiate al petto e la schiena incurvata – dolore agli
squarci.
O almeno presumeva di provarne.
Ramiel,
nel letto
accanto al suo, aveva i lineamenti distesi dall’oblio del
sonno,
immersa nella luce soffusa della Presenza. La massima ombra che si
potesse sperare di ottenere.
Ma
ad Amitiel dava
dolore persino quel chiarore rossastro, morbido,
materno.
Doveva
essere la
Presenza, ma non poteva uscire per trovare sollievo – se
fosse
stata scoperta le Custodi non avrebbero apprezzato, e lei non voleva
contrariare nessuno, davvero. Non voleva dare di nuovo adito a dubbi
e tornare dai Censori.
«Perché
sei una marionetta. Un fantoccio.»
Voci.
Ancora. Voci
senza timbro, impossibili da riconoscere, da distinguere
l’una
dall’altra; voci in una lingua che comprendeva ma che non
avrebbe
saputo ripetere. Come idee che, prive di forma, nella sua mente
assumevano comunque un senso.
Pazza.
Pazza.
Mal
di testa.
Non
quanto nella
dimensione umana: non era nulla di lacerante, nulla di insostenibile.
Era solo... molto fastidioso. Mille pensieri che si contendevano la
sua attenzione, una pressione dolorosa che gravava da dentro.
Che pensieri? Su cosa?
Forse
su Anane. Su
Anane che ancora non poteva volare – le ali non riuscivano a
rimanere distese, l’essenza fuori controllo, la sofferenza a
distorcerle i lineamenti. Su Anane che piangeva e si fissava la pelle
dove ancora le venature bianche spiccavano, quasi lucenti. Su Anane
con cui non riusciva mai a parlare, perché c’era
sempre Ridwan e
se non c’era lui arrivava Nelchael e non si
fidavano di loro,
non volevano lasciarle sole. Su Anane che-
Basta.
Troppo rancore,
troppa nausea – e la nausea non era qualcosa da provare, e
nemmeno
il rancore, quei pensieri non le facevano bene.
O
su Michael. Su
Michael che l’aveva stretta e l’aveva fatta fremere
con quelle
dita gelide e... e aveva massacrato quel Custode, sì,
però l’aveva
fatto per lei, no? Perché altrimenti
sarebbe stato un
pericolo, l’avrebbe accusata di cose in cui lei non
c’entrava
niente e magari poi le sarebbe successa la stessa cosa di Anane
–
Anane che non volava. Anane che a distanza di interi cicli non poteva
essere sfiorata perché altrimenti rischiava sempre di
ritrarsi.
Anane
che non si era
meritata nulla, perché doveva essere colpa di Eisheth,
doveva averla
convinta lei a... fare quelle cose, no? Anane era come lei, era solo
un po’ curiosa, un po’ allegra, un po’
soffocata da tutti quei
divieti, ma non era cattiva. Non era una
traditrice. Doveva
essere colpa di Eisheth, sì.
Eisheth
che ghignava e
le spiegava l’orrore dello Sviluppo, di un involucro
distrutto per
farlo rinascere più resistente, più rapido,
più adulto. Eisheth
che rideva in quel corpo di bambino. Eisheth che faceva piangere
Anane.
«Perché
hai paura di loro
al
punto che ti reprimi.»
Un
gemito.
Troppi
ricordi, troppe
idee le si affollavano in testa e aumentavano il dolore ad ogni
istante, e lei su cosa doveva concentrarsi? Cosa poteva farle meno
male? Cosa poteva essere più giusto?
Perché
c’erano
pensieri giusti e pensieri sbagliati, ormai l’aveva capito.
Quelli
giusti le procuravano un attimo di pace; quelli sbagliati, un sibilo
che minacciava dolore – non era corretto, non era puro,
avrebbe
contrariato qualcuno e lei non voleva tornare dai Censori, vero?
A
dire la verità, i
pensieri giusti erano solo il ricordo delle parole che le avevano
detto le Custodi, le Autorità, gli insegnanti; o il
silenzio, anche,
che acquietava un po’ la nausea – nausea che non
doveva provare,
perché era una sensazione umana. Tutto il resto era
sbagliato e
quindi lei non doveva pensarlo, solo che poi continuava a tormentarle
la mente e a procurarle quel mal di testa e quelle voci.
Ma
cosa poteva fare,
lei? A zittire la propria mente il dolore si faceva insostenibile. Ad
ogni riflessione arrivava il terrore che qualcuno avrebbe scoperto
quelle idee sbagliate.
Lo
sapeva anche lei che
era sbagliato provare rancore verso i Censori, o concentrarsi troppo
su Anane e poco sull’apprendimento, o porsi così
tante domande; e
provava a correggersi, davvero, ma durava poco. Non poteva
cambiare atteggiamento, come se una parte di lei non venisse nemmeno
scalfita dai rimproveri, dall’Espiazione, dalla paura
– era
divisa. Scissa.
«Perché
non scegli. Perché credi di poter appartenere sia a loro
che a me.»
Voleva
la compagnia di
un caduto, ascoltarlo e parlargli e toccarlo e lasciarsi stringere,
voleva fargli domande e ottenere risposte che in Paradiso non le
avrebbero mai dato; ma non stava tradendo, stava solo anticipando
delle conoscenze.
La
nauseava il ricordo
del corpo del Custode, delle sue urla, dei suoi gemiti; ma non era
colpa sua, lei non avrebbe comunque potuto impedirlo in alcun modo.
Sapeva
di aver mentito,
che avevano mentito anche Nelchael e Anane, e che avrebbe dovuto
denunciare quelle falsità; ma non ne vedeva il motivo,
perché tanto
era andato tutto bene – perché, anche se Anane era
stata punita,
le conseguenze in fondo erano state quasi giuste, e
invece non
lo sarebbero state se avessero detto la verità, sarebbe
stato tutto
frainteso e fatto sembrare un tradimento ciò che non lo era
per
niente.
La
atterriva la
possibilità di tornare dai Censori, con i loro sorrisi
gentili
mentre distruggevano ogni cosa e lo sguardo gelido
dell’Autorità e
Nelchael che le stringeva il polso; ma, passato il primo momento, non
riusciva a correggersi per evitare il rischio.
Aveva
un vago ricordo
del terrore che la invadeva ad ogni pensiero, quando era immersa
nell’acqua, appena dopo essere stata fatta allontanare da
Nelchael
insieme alle altre; appena dopo aver parlato con il Censore. Ormai,
però, con la luce della Presenza a infastidirla e la nausea
e il mal
di testa per i troppi pensieri repressi, si sentiva più
propensa a
cedere alle riflessioni che al timore; salvo poi interrompersi a
metà
e tornare a cercare il silenzio mentale,
perché stava davvero
esagerando e qualcuno avrebbe potuto capire – non sapeva
come, in
che modo, ma non si poteva mai essere sicuri – tutte le cose
sbagliate che le passavano per la testa.
«Perché
sei così
debole da cedere sempre a tutto e non voler mai ammettere niente.
Perché se avessi un po’ di forza, non ti
lasceresti manovrare
così.»
L’Espiazione
ti ha
resa un burattino. Uno stupido burattino inerme.
Non gliel’aveva detto anche Michael, la prima volta che le
aveva
parlato? Non l’aveva accusata di lasciarsi manovrare, senza
porsi
domande, senza pensare? Non le aveva domandato se non fosse accecata?
No, forse quelle erano le voci.
Ma
non era giusto così?
Non era giusto fidarsi del Paradiso e obbedire, collaborare per il
bene di tutti?
Gli
ordini sono
ordini; ma sei tu
a
doverli eseguire. Tu a dover uccidere, massacrare, torturare. Tu a
ritrovarti il sangue di amici e compagni sulle mani.
Nauseante.
Orrendo. Le
era sembrato persino che Michael stesse male, nel
dire –
ricordare – quelle cose, e... e lei continuava ad obbedire.
Mossa
come una
marionetta. Incapace di opporsi, se non con qualche reazione troppo
umana che non riusciva a reprimere –
singhiozzi, respiri,
nausee, pensieri. Debole, trasportata dagli eventi.
Piegata
dall’Espiazione. Piegata dai propri istinti. Senza scegliere
tra
l’una e gli altri, continuamente a metà, farsi
domande e poi
pentirsene e avere il terrore che qualcuno lo scoprisse; e tornare
comunque a porsele, a pensare, a ricordare.
In
balia del Paradiso e
degli Sconsacrati. Gli Angeli le impedivano di esprimersi, di
riflettere, di chiedere, di esistere come Amitiel e
non come
allieva, quinta classe, terzo gruppo; ma anche gli
Sconsacrati
– anche Michael, anche Eisheth – non la ascoltavano
davvero.
Poteva porre domande e ricevere risposte – magari un
po’
criptiche, magari un po’ irritate, magari un po’...
agghiaccianti
come quelle del demone, ma pur sempre risposte –, ma loro
l’avevano costretta ad assistere a quel massacro, loro
avevano spinto Anane ad uccidere il Custode, loro
le avevano
obbligate a mentire ai Censori per non essere fraintese, per non
essere ritenute traditrici.
Chiuse
gli occhi,
cercando inutilmente di sottrarsi alla luce della Presenza, che le
rischiarava la vista anche a palpebre serrate.
Mal
di testa. Male
male male.
La
assaliva l’angoscia,
al pensiero che avessero ragione quelle voci – che lei fosse
inerte, debole, una marionetta. Non avevano parole reali, non avevano
tono, non avevano inflessione, eppure le sembrava di avvertirvi
disprezzo. Ma il disprezzo era per i traditori, non
per chi
obbediva, perché chi obbediva non era una marionetta, chi
obbediva
stava semplicemente eseguendo il proprio dovere per il bene comune.
Erano da disprezzare quelle voci, non lei. Era da disprezzare anche a
Michael, quando le ringhiava addosso quelle risate derisorie o la
trafiggeva con lo sguardo ad ogni dimostrazione di ignoranza o
debolezza; perché lei era solo un cherubino come ogni altro,
che
imparava ciò che doveva imparare e non chiedeva
ciò che non doveva
chiedere – davvero? –, mentre
lui era un traditore e un
rinnegato.
Non
voleva il disprezzo
di nessuno, Amitiel: né del Paradiso, che l’aveva
amata e
cresciuta e a cui doveva gratitudine, né di Michael, che le
aveva
dato risposte e l’aveva protetta dai sospetti.
Ma
il Paradiso
l’avrebbe disprezzata, se avesse saputo di quei pensieri, di
quel
desiderio di scegliere, di quell’incertezza
nell’obbedire.
Ma
Michael l’avrebbe
disprezzata, se avesse saputo che non riusciva nemmeno a riflettere
senza tremare per il terrore delle conseguenze.
Non
abbastanza devota
per l’uno, non abbastanza traditrice per
l’altro.
Portò
le mani agli
occhi chiusi, tentando inutilmente di arginare la luce che le feriva
la vista. Era troppo presto perché anche la Presenza della
quinta
classe divenisse troppo intensa, eppure la disturbava, acuendo il mal
di testa dato dai troppi pensieri confusi.
Forse
poteva uscire un
attimo...?
No.
Le Custodi
l’avrebbero vista, l’avrebbero punita. Forse
avrebbero
addirittura scorto sul suo viso i segni di quella lotta interiore.
Chi
sei o chi ti
hanno insegnato ad essere? Cosa scegli?
Amitiel
si sarebbe
alzata e sarebbe andata a cercare Anane, per parlare, per assicurarsi
che stesse bene, per... perché era Anane e basta.
Allieva,
quinta
classe, terzo gruppo
avrebbe
sopportato il mal di testa, zittito ogni pensiero e tentato di
riposare ancora un po’, per riuscire a seguire al meglio le
lezioni
del ciclo successivo.
Guardò
ancora Ramiel, rilassata nel sonno. Avrebbe dovuto fare come lei,
sì:
rimanere girata su un fianco per non schiacciare le ali –
perché
stava puntando le mani sul materasso, allora? – e
abbandonarsi alla
confortante Presenza – perché le dava fastidio?
Perché non
riusciva a riposare? Perché stava
sollevando il busto?
Si
trovò seduta sul
bordo del letto, il viso voltato a guardare le tende che davano
quiete e riservatezza ai dormitori – le uniche stanze in cui
le
finestre fossero coperte – e che, in quella luce, sembravano
tingersi di rosso. Fuori, anche se non lo intravedeva, sapeva che era
tutto luminoso come sempre; ma vuoto, addormentato,
perché
nel decimo periodo anche il ciclo superiore riposava. Il solo momento
in cui lo Specchio non fervesse di attività.
Anane
sarebbe stata
sicuramente sveglia, però, perché da tempo non
aveva bisogno che di
pochi istanti di sonno – un’infanzia protratta
troppo a lungo a
cui il corpo iniziava a ribellarsi, abbandonando a forza quelle
necessità infantili.
Avrebbero
potuto
parlare, confrontarsi, spiegarsi. Avrebbe potuto assicurarsi che
l’amica stesse bene, che i segni dell’Espiazione
continuassero a
scomparire dalla sua pelle e dalle sue ali. Avrebbe potuto chiederle
se fosse normale non riuscire a reagire, a scegliere.
...le
Custodi.
Le Custodi l’avrebbero scoperta e punita.
L’Espiazione.
Anane
che a distanza di cicli interi non riusciva a volare, a guarire, a
sopportare il contatto. I Censori, l’Autorità,
Nelchael che le
stringeva un polso. Sorrisi gentili e lacrime.
No.
No no no per
favore no.
Tornò
a rannicchiarsi
su un fianco.
Aveva
ragione Michael.
Aveva ragione quella voce.
Un
burattino, una
marionetta inerte.
Patetica.
«...perché
sei
esattamente com’ero io. Com’era lei.»
* * *
Nei
suoi ricordi,
Leliel aveva un buon odore. Lei aveva sempre adorato gli oli e, sin
da quando era un corpo minuscolo e candido di cherubino e
un’adulta
doveva aiutarla nell’usarli – la presa delle sue
dita sottili
ancora troppo incerta attorno all’ampolla –, aveva
dimostrato la
determinazione che l’avrebbe resa poi temuta e rispettata.
Avevano
capito solo dopo quanto fosse ironico che proprio lei, senza
cicatrici, amasse quelle fragranze pensate per i figli del
Fuoco;
ma, sotto il peso di secoli di veleno, non avevano davvero trovato la
forza di ridere per quell’inaspettata scoperta.
Che
Leliel fosse
speciale, in fondo, si era capito nel momento stesso in cui aveva
aperto gli occhi: l’azzurro gelido delle sue iridi
l’aveva quasi
fatta sembrare una degli incolori, come anche il
biondo
chiarissimo dei capelli, e tutti si erano detti che la sua essenza
non sarebbe durata a lungo prima di consumarsi da sé.
Avevano
dovuto
ricredersi; così come avevano dovuto ricredersi su
un’altra, che
all’esterno incolore lo era davvero, ma che dentro aveva
un’essenza
cangiante e mai stanca.
Era
di quest’ultima
che Nelchael ricordava l’odore, in realtà: si era
avvicinato più
a Sariel, svagata e sorridente, che non alla sorella –
sorella
davvero, sorella d’essenza e di sangue –
così ombrosa. La
fragranza che usavano era la stessa, quasi volessero unirsi ancor di
più per proteggersi meglio a vicenda; e forse speravano di
riuscirci
davvero, ma la storia, poi, non aveva dato loro ragione. Era un
profumo intenso, inebriante, tiepido; dolciastro al
punto da
stordire, come le notti estive nella dimensione umana, con
quell’infinità di minuscole presenze vive che
confondevano le loro
Percezioni immature. Era avvolgente, impregnava la pelle e i capelli
e gli abiti e non se ne andava più – e lui lo
sapeva bene, ne
aveva avuto spesso la prova. Ma Nelchael sapeva anche che era una
dolcezza ingannevole, perché era dolce anche il sangue degli
Angeli,
erano dolci anche le lacrime; perché anche la zagara
sembrava dolce,
all’inizio, ma poi dava frutti aspri e amari.
Era
stata Sariel a
sussurrare quell’ultima frase, ricordò. Sariel che
conosceva il
profumo delle notti nella dimensione umana, che da cherubino
l’aveva
portato su di sé come un vanto; Sariel che in quel tempio
così buio
e angosciante spargeva fiori umani, invece dell’incenso.
Un
profumo che da quel
luogo era scomparso con lei.
Nei
suoi ricordi,
Leliel aveva un buon odore; e lui se lo risentiva addosso, per aver
di nuovo stretto il corpo di un cherubino. Faceva meno male di quanto
avesse temuto – forse era il tempo. L’abitudine.
Nei
suoi ricordi,
quell’odore l’aveva salutato per l’ultima
volta nel tempio, con
le ombre che ne distruggevano i resti – i petali, le gocce.
L’aria
stessa. Tutto inghiottito, scomparso, cancellato
dall’oscurità;
un’oscurità che era totale, nero, nero ovunque,
un’unica marea
che sembrava ribollire e vorticare e scagliarsi su ogni cosa. Le
colonne ancora ne portavano le tracce: crepe a monito degli errori
commessi, nascoste dal buio ma presenti; e lui e Leliel lo sapevano,
sapevano dove allungare le dita per incontrare una breccia, sapevano
della furia che aveva devastato quel luogo.
Era
come tornare
indietro, profumo intenso e dolciastro, ombre minacciose a farlo
tremare – ombre così dense da essere impenetrabili
persino per i
suoi occhi inumani. Furia tramutata in un’oscurità
aggressiva,
rabbiosa, pronta a devastare ogni cosa.
«Non
ti vedo.» la
avvisò, cauto, senza guardarsi attorno – non
riusciva nemmeno a
scorgere l’ingresso, distante pochi passi; sarebbe stato
inutile
qualsiasi tentativo di vederla.
Era
buio, un buio
innaturale, che oscurava la vista e le Percezioni; un buio
angosciante, che vi era stato solo poche volte – per
cancellare.
Per dimenticare. L’ultima, a farne le spese erano stati una
sorella
e quel profumo.
Avrebbe
attaccato anche lui perché lo portava addosso?
Rabbrividì,
per nulla
certo della risposta.
«Perché
dovresti?»
gli rispose Leliel, gelida, da un punto distante.
«Mi
hai richiamato tu.
Credevo-»
«No.
Tu non
credi, Esecutore. Tu non pensi. Tu non ti aspetti nulla.»
Gli
parve quasi –
impossibile, era tutto uniforme, impossibile
– di scorgere
un guizzo minaccioso, in quell’oscurità assoluta.
«...come
desideri.»
«Hai
ancora addosso
l’odore di quel cherubino.» osservò, con
palese disgusto.
Si
era fatta più
vicina, con passi silenziosi, impercettibili; ma comunque non
abbastanza per percepire quel profumo dai suoi abiti. Era come se
avesse allungato tentacoli d’ombra su di lui, estendendo i
propri
sensi.
«Ho
preferito
controllarla da vicino.»
Il
guizzo, questa
volta, fu ancor più evidente.
«Tu
non controlli,
Esecutore. Nessuno te lo ha ordinato.»
«Devo
smettere?»
«Quanto
ancora vuoi
sopravvivere?»
E
fu vicina,
all’improvviso: il viso ancora immerso nel buio, ma le parole
sibilate ad un soffio da lui, una mano sottile ad artigliargli un
gomito. C’era una nota di urgenza, nella sua voce –
una nota
rabbiosa, terrorizzata.
«Dipende
tutto da
questo, Nelchael. Puoi decidere di vivere – ignorare tutto,
non
schierarti, dimenticare le promesse e i morti. Oppure» le
dita del
serafino strattonarono con violenza, obbligandolo ad avvicinarsi di
più «puoi rischiare, prendere posizione. Puoi
stare attaccato ad un
cherubino sospetto – e non credere di potermi ingannare: tu
non la
accuserai mai. Se anche scoprissi qualcosa, tu continueresti a
controllarla per proteggerla.»
«Non-»
«Puoi
venire qui senza
nemmeno cambiarti d’abito, ancora con il suo disgustoso odore
addosso. Sembra davvero che tu non voglia sopravvivere, Nelchael,
sì?
Attirarti il sospetto di Daniel – come se già non
avesse
abbastanza dubbi su di te. Attirarti il mio astio. Credi davvero di
poter fare ciò che preferisci?»
«Il
tuo astio per un
profumo?»
Si
udì uno schiocco
secco, violento; un urlo trattenuto a malapena.
Le
dita di Leliel si
bagnarono di sangue, dove le ombre avevano stretto tanto da lacerare
la pelle e spezzare il gomito.
«Ti
avevo già
ordinato di starle lontano. Davvero non t’interessa
sopravvivere.»
In
risposta, solo un
rantolo.
«Hai
pensato,
Nelchael, che continuando ad intrometterti potresti causare sospetti
non solo a tuo danno?»
Una
lingua di fiamma
candida rifulse nel buio, circondando le dita di Leliel, prima di
affondare nella carne già ferita e scavare fino
all’osso spezzato.
Un urlo.
«Hai
pensato che quel
cherubino ha dei legami? Che potrebbero sospettare anche di
loro?»
Un
fruscio improvviso,
prolungato – ali da serafino esposte per dare sfogo
all’ira.
«Anane.
Hai pensato a
chi appartiene?»
Della
roccia si
sgretolò, da qualche parte, come se le ombre vi si fossero
avventate. Erano materiali particolari, non certo fragili come quelli
umani, non certo così cedevoli e delicati: creati per
sostenere la
furia dell’oscurità, della notte, più
resistenti persino dei loro
corpi inumani.
Se
fosse stato lui, al
posto della colonna?
Solo
un grumo di ossa
spezzate e carne dilaniata, se fosse rimasto qualcosa.
«Hai
pensato a Ramiel?
A Gabriel?»
E
urla, ancora. Fiamme
bianche a lambire il torace, carezze che scavavano solchi profondi
nella carne. Le ombre trattenute per non devastarlo del tutto.
«Hai
pensato a chi
altri appartiene a loro? Sachiel. Sachiel.»
Si
allontanò da lui a
passi rumorosi, quasi volesse spezzare il pavimento calcandovi i
piedi nudi. Le ali urtarono il busto di Nelchael quando si
voltò,
facendolo sibilare.
«Se
vuoi attirarti il
mio astio e i sospetti di Daniel, fa’ pure; ma almeno
assicurati di
non mettere in pericolo altri più utili di te. Si
è detto disposto
ad acconsentire allo Sviluppo di Sachiel e di Anane, ha rinunciato a
Cassiel per lasciare che sia affidata a me, ha concesso a Ramiel e
Gabriel un altro Fuoco. Sono già abbastanza concentrata sul
capire
che cosa voglia ottenere, non ho il tempo di preoccuparmi anche dei
danni causati da te.»
«Forse...
ti favorisce
così per... evitare lotte intestine.»
«Stai
scherzando,
spero.»
Il
rumore di passi si
arrestò di colpo con un ultimo suono secco. Un fruscio di
vesti e
piume voltate all’improvviso.
Un
ringhio di quella
voce femminile solitamente così gelida, così
controllata.
«Non
posso più
rifiutare lo Sviluppo a Sachiel, non posso rifiutare Cassiel. Non
sono pronte, ma darebbe luogo a dubbi sulla loro integrità.
E quel
cherubino, Anane? Perché concederle lo Sviluppo subito dopo
un
assassinio? Vuole ottenere un errore, un altro sospetto ancor
più
evidente, non sta certo stipulando una tregua.»
«E...
Amitiel?»
«Sa
della ferita – è
un caso troppo particolare perché non ne tenga conto.
Vorrà...
usarla. Sachiel, Anane... tu. Lei. Troppi legami.
Stalle
lontano, non peggiorare la situazione.»
«Usarla?»
«Capisco
tu sia
estraneo alle strategie dei migliori, Nelchael, ma non ti credevo
così stolto. Userà lei come userà
Sachiel, Cassiel, tutti.» una
risata vibrante, aggressiva; un’altra colona si
sgretolò sotto la
furia delle ombre «Finché non sarà
chiaro come vuole agire, siamo
nelle sue mani. Marionette.»
* * *
Era
strano vedere così
tante porte bianche lungo il corridoio: decine di piccole stanze che
accoglievano il riposo delle allieve del ciclo superiore, invece
delle camerate di quello inferiore. Pareti sottili ma dense,
che ostacolavano l’estendersi delle essenze e impedivano che
si
disturbassero a vicenda – una sensibilità che le
coglieva solo nel
sonno, simile a quella delle Percezioni nella dimensione umana.
Diveniva difficile anche per le Custodi avvertire le presenze dei
Cherubini; e questo rendeva Amitiel leggermente meno ansiosa. Era
stato più pericoloso uscire dal dormitorio della propria
classe e
raggiungere quello accanto, del ciclo superiore: tra quelle mura
dense, ormai, aveva meno da temere.
Certo,
non sapeva bene
come raggiungere il piano superiore, dato che di fronte alle scale
una Custode fissava il vuoto, ma confidava che l’adulta si
sarebbe
spostata, dopo un po’: sembrava annoiata e, forse, avrebbe
percorso
il corridoio per raggiungere una compagna e scacciare il tedio.
Bisognava solo sperare che non scegliesse il corridoio in cui Amitiel
si stava premendo contro una porta, sbirciando di tanto in tanto per
controllare che l’adulta fosse sempre al suo posto; e che,
nell’avanzare nella direzione opposta, non si voltasse
– con
l’assoluta certezza di vederla proprio mentre tentava di
raggiungere le scale.
Era
sicura di non aver
mai avuto un’idea così stupida
– nemmeno quando si era
avventurata lungo le rive del Confine, proibite, o quando aveva
voluto restare con Anane oltre il quarto periodo ed era arrivata con
terribile ritardo alla lezione.
Ne
era sicura già da
quando, pur di mettere a tacere quelle voci angoscianti – sei
un
burattino. Una marionetta. Patetica. Quando smetterai di lasciarti
trasportare dagli eventi? –, si era alzata e aveva
pregato la
propria essenza di non attirare l’attenzione delle Custodi.
L’essenza doveva essere stata d’accordo con lei,
sul fatto che
era meglio non assaggiare l’Espiazione; un po’ meno
sulla sua
decisione, perché aveva continuato a sentire le ali
irrigidirsi e
fremere, per l’incertezza e il terrore. L’essenza
mutava di
continuo, da spirito che assicurava la sopravvivenza a sangue che era
energia pura per il corpo e viceversa e ancora e ancora, come se
volesse prepararsi a contrastare un attacco improvviso; e faceva
male, la stancava, la intontiva, essenza ferita che non
riusciva a
rimarginarsi, e così le comunicava che era
un’idea stupida,
un’idea molto stupida, ma anche che... che, data quella
autolesionistica testardaggine a non tornare indietro, avrebbe fatto
il possibile per risultare discreta e non attirare
l’attenzione
delle Custodi.
Era
la prima decisione
da tantissimo tempo – da sempre
– che prendeva lei, lei
davvero, senza lasciarsi frenare dal timore o dalle regole, o farsi
influenzare dall’opinione di Anane, o... forse in
realtà l’avevano
spinta quelle voci – pazza, stava diventando pazza
– e le
vecchie parole di Michael, però aveva deciso lei
di alzarsi e
andare a cercare l’amica. Non riuscivano a vedersi quasi mai,
e
Ridwan rimaneva sempre con loro per assicurarsi che l’allieva
non
si sentisse male all’improvviso a causa
dell’essenza ferita – o
almeno così diceva, anche se in effetti era capitato un paio
di
volte; e, se non c’era Ridwan, compariva Nelchael
all’improvviso,
e lui... lui sapeva, sì? Lui sapeva, lui sapeva.
Doveva
parlare con
Anane, prima di impazzire. Di Michael, di Eisheth, del suo Sviluppo,
della Caduta... del Custode morto. Delle voci e dei sogni. Di come
avrebbero dovuto comportarsi dopo essere state quasi scoperte
–
quasi fraintese.
Doveva
solo aspettare
che la Custode se ne andasse, salire in fretta le scale, sperare di
non incontrare nessun altro ed entrare nella camera di Anane senza
essere scoperta. E poi tornare al proprio dormitorio entro il primo
periodo del nuovo ciclo, ovviamente. Semplicissimo.
Quando
aveva deciso di
dimostrare a sé stessa e alle voci di
non essere una patetica
bambola inerte, non aveva valutato proprio tutte le
difficoltà.
La
porta contro cui era
premuta si schiuse, ma prima che perdesse l’equilibrio una
mano la
agguantò per un braccio e la trascinò dentro
senza delicatezza. Le
ali, leggermente dispiegate per mantenere stabilità,
opposero
resistenza contro gli infissi; ma una seconda mano le strinse
l’altro
braccio, strattonando bruscamente e costringendole a richiudersi per
il dolore.
Il
suono secco della
porta richiusa non bastò a coprire il sibilo minaccioso che
le
giunse all’orecchio.
«Vuoi
di nuovo
causare problemi a tutte?»
***
Angolo autrice
Grazie per aver letto, per preferiti, seguite e ricordate
e in particolar modo per i commenti (:
Come sempre, le parti introspettive non potevano essere troppo lineari,
ma spero non risultino comunque troppo confuse. Se non si capisce
qualcosa di ciò che pensa Nelchael riguardo al passato,
be'... non posso spoilerare tutti i precedenti, quindi devo per forza
di cose specificare poco.
Nei prossimi capitoli inizierà a fare capolino questa
tematica, quindi sottolineo che tra gli avvertimenti della storia
c'è anche femslash.
Non sarà nulla di spinto o troppo esplicito, il rating
arancione non è per questo, ma se comunque vi infastidisce,
io ho avvisato (:
A domenica prossima!
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Capitolo 23 *** 22. Patto ***
Capitolo
22 – Patto
«Dunque,
fascia rossa?»
Amitiel
aveva pensato che Sachiel fosse piacevole; ricordava la sua stretta
lieve, le sue rassicurazioni, la sua pietà
– che, per
quanto potesse ferire l’orgoglio, era giunta in un momento in
cui
lei voleva solo comprensione e compassione. Non si era risentita
quando l’altra, in seguito, non aveva ricambiato i suoi
saluti:
poteva accadere di non scorgere dei compagni nei viali affollati
dello Specchio, non aveva motivo di pensare che la ignorasse di
proposito. Sachiel era conosciuta, oltre che per il suo talento,
anche per la sua fredda serietà; ma, dopo averla rassicurata
con
tanta dolcezza,
non si
sarebbe certo dimostrata altera come Cassiel – che invece
fingeva
di non notare i saluti dei compagni più immaturi.
Con
il suo sguardo
corrucciato addosso, però, non se ne sentì
più così sicura.
«Ho
un nome, fascia
grigia.»
L’espressione
di
Sachiel s’indurì ancor di più, ma le
mani – abbandonate lungo i
fianchi – ebbero solo un lieve fremito, unico segno
dell’impulso
di serrarsi a pugno. Le aveva lasciato le braccia non appena la porta
si era chiusa alle sue spalle, con un movimento repentino e quasi
sprezzante che le aveva ricordato terribilmente
Cassiel, come
se toccarla le facesse ribrezzo.
«Non
ti devo
spiegazioni.» sibilò ancora Amitiel, difendendosi
dalla furia
malcelata dell’altra.
«Alle
Custodi pensi di
doverne, invece?»
L’avrebbero
scoperta.
Il
terrore, accantonato
per un istante in favore dell’orgoglio, tornò ad
assalirla con
violenza. Le ali fremettero, rese più rigide
dall’ansia,
strisciando dolorosamente contro la porta.
Per
gli allievi del
ciclo superiore le conseguenze potevano essere un semplice
rimprovero, ma per la quinta classe? Ancora nel pieno delle
limitazioni, della severità del ciclo inferiore.
L’Espiazione.
Il Fuoco.
Dovette
assumere
un’espressione particolarmente angosciata, nel realizzare
quella
certezza, perché Sachiel le fece
bruscamente segno di sedersi
sul letto – sembrava diventare più gentile, quando
aveva la
possibilità di compatire qualcuno.
Lei
rimase immobile.
«Siediti.»
le ordinò
Sachiel a voce, allora «Non correrò ad avvisare le
Custodi
nell’istante in cui ti toglierai dalla porta, fascia rossa,
non
temere.»
«...no?»
L’altra
chiuse gli
occhi per qualche istante, riflessiva.
Amitiel
si morse le
labbra con forza, tentando di controllare il tremito convulso delle
ali. Forse... forse non avrebbe chiamato le Custodi, forse
l’avrebbe
lasciata andare. Niente Espiazione. Poter parlare con Anane. Forse
sarebbe andata bene.
...perché
le aveva
ordinato di sedersi, allora?
Le
sembrava poco
probabile che proprio l’allieva di
un’Autorità – dell’Autorità
– tacesse della sua trasgressione; e proprio quell’allieva,
la cui clemenza si diceva fosse allo stesso livello
dell’umiltà,
con gli altri Cherubini: il nulla. Eppure Sachiel sembrava essere
davvero incerta, combattuta. Aveva le ali ritirate, ma le spalle
erano rigide, troppo tese all’indietro, segno che faticava a
non
esporle; e, in un cherubino così maturo, poteva significare
solo che
le sue riflessioni le stavano facendo perdere il controllo sul corpo
e sull’essenza.
Un
conflitto interiore
che Amitiel avrebbe voluto poter seguire, per capire a che decisione
stesse giungendo l’altra, invece di fremere
nell’attesa. Nel
terrore dell’Espiazione.
«No.»
decretò infine
Sachiel, riaprendo gli occhi e fissandola con freddezza «Per
ora,
no. Non ho intenzione di causare problemi a tutti i
dormitori.»
«...problemi?»
«Giusto,
fascia
rossa.» le labbra stirate in una smorfia sprezzante
«Tu non hai
idea del controllo che esercitano, dopo aver trovato qualcuno del
ciclo inferiore nei corridoi.»
«Ho
un nome.» ripeté,
senza sapere cos’altro ribattere.
«Siediti
e spiega,
fascia rossa, prima che cambi idea e decida di
chiamare le
Custodi.»
«Ripetimi
ancora
perché, fascia rossa.» le
ordinò Sachiel, in piedi di
fronte al letto, dopo che le ebbe raccontato per la terza volta di
come avesse raggiunto i dormitori del ciclo superiore.
Era
una situazione
opprimente, le ricordava quando a sovrastarla era stato il Censore,
invece di un cherubino; ma il fatto che Sachiel non avesse ancora
chiamato le Custodi – nonostante avesse sibilato
più volte
quell’intenzione – la rassicurava un po’,
perché non poteva
permettersi di essere scoperta, e... e l’Espiazione no, no.
Poteva anche sopportare il gelo e il disprezzo dell’altro
cherubino, perché non erano nulla in
confronto a quel dolore
lacerante – e lo ricordava, nonostante non lo soffrisse da un
po’.
Lo ricordava con terribile precisione.
«Per
parlare con
Anane.» mormorò stancamente.
«Aspettare
qualche
periodo era troppo per il tuo tenero animo, fascia rossa?»
Parlare
noi due e basta, intendevo. Non ci lasciano mai sole.
Parlare
come mia decisione. Senza farmi influenzare da regole o divieti o...
o altre cose del genere.
Ingoiò
a fatica la
risposta, che iniziava a pretendere di essere espressa, alla quarta
replica sempre identica di quel dialogo. Forse Sachiel
l’avrebbe
trattata con meno sufficienza, se le avesse dato una spiegazione
valida.
O
forse avrebbe chiamato davvero le Custodi.
«Ho
un nome.» ripeté
ancora.
«Non
m’importa
del tuo nome, fascia rossa. Non m’importa del tuo assurdo
bisogno
di parlare con la tua amica proprio ora.
Non-»
«Sembri
Cassiel.»
sbottò infine, esasperata; dall’espressione
dell’altra, capì
che non aveva apprezzato.
«Meglio
che sembrare
te, patetica fascia rossa.»
«Non
sono patetica.»
«Fai
rischiare
controlli feroci a tutto il dormitorio –
e anche al tuo. Fai
rischiare l’Espiazione alle Custodi che non si sono accorte
di te.
Fai rischiare l’Espiazione a me per non
averle chiamate
subito. Fai rischiare l’Espiazione alla tua amica.
Tu stessa
la rischi.» si chinò su di lei con sguardo
furioso, sprezzante
«Perché il tuo tenero animo non sa resistere
qualche periodo senza
parlare con quell’altro cherubino patetico quanto
te.»
«Non-»
«Voi
due» si rizzò per fissarla
dall’alto «avete fatto rischiare
l’Espiazione e peggio a chi non aveva
alcuna responsabilità,
perché siete state – povere
– troppo smarrite per
chiamare subito Custodi e Guardiani. È tanto difficile non
causare
problemi a chiunque vi stia suo malgrado attorno? È tanto
difficile
aspettare dopo le lezioni per pettinarvi i capelli a vicenda e
ridacchiare come cherubini della prima classe, invece di girovagare
fuori dal dormitorio?»
La
compassione di
Sachiel, forse, non giungeva fino a farle perdonare rischi che la
tangevano personalmente.
Amitiel
si alzò in
piedi di scatto, sfregando inavvertitamente le ali contro la parete
accanto al letto; si permise solo una breve smorfia per il dolore
agli squarci, prima di fissare Sachiel dalla sua stessa altezza,
furiosa e colpevole – da quel punto di
vista, sembrava
effettivamente poco sensato. Ma che ne sapeva Sachiel dei suoi dubbi,
del suo desiderio di scegliere, della
necessità pressante di
confrontarsi con qualcuno che potesse capirla?
«Non
ti capita mai di
dover cercare qualcuno con cui parlare?»
le sibilò, con gli
occhi umidi di lacrime di rabbia «Di doverti
sfogare per non
impazzire? Non hai nessuno per cui rischieresti
così?»
«No.
Noi non ne
abbiamo bisogno, noi non rischiamo così per un’amica.»
sputò quella parola quasi con disprezzo «Non ho
nessuno perché a
noi, fascia rossa, non serve nessuno.»
Aveva
ragione. Era
folle aver bisogno a tal punto di qualcuno, per
esseri che non
avrebbero dovuto avere legami; era folle doversi
sfogare, per
esseri che non avrebbero dovuto avere pensieri. Ma un’anomalia
simile avrebbe potuto giustificare disgusto, disprezzo, derisione;
non rabbia – ed era rabbia quella che lesse negli occhi di
Sachiel,
nell’essenza tanto agitata da essere avvertita persino dalle
sue
Percezioni immature. Rabbia.
Incertezza?
Invidia?
Rabbia.
Per
quel legame così
stretto tra lei e Anane? Per quella necessità di parlare con
l’amica? Una necessità che non avrebbe dovuto
avvertire. Che
nessuno avrebbe dovuto avvertire, perché
erano Angeli e come
tali privi di legami, privi di elementi di distrazione.
Nessuno avrebbe rischiato così, uscendo
dal proprio
dormitorio, per incontrare un’amica
– nemmeno se le
conseguenze fossero state meno severe di quelle riservate al ciclo
inferiore.
...c’era
qualcosa di
terribilmente contraddittorio, in tutto quello – e Sachiel
sembrava
accorgersene e volerlo negare, con quella rabbia cieca e velenosa.
«E
allora perché»
mormorò, cauta, fissandola negli occhi «sono
così tanti, gli
allievi che rischiano? Che escono dal proprio
dormitorio per
raggiungere un compagno?»
L’altra
ammutolì.
Non era una domanda da porsi, non esistevano domande da porsi,
ed era come... negare la loro natura. Tutti gli insegnamenti, i
principi, la morale. Prima il Paradiso, gli Umani, le leggi; poi i
legami personali, comunque inutili, distrazioni da concedersi con
moderazione. Era così per tutti gli Angeli, impresso nelle
loro
menti e nelle loro essenze: andava contro la loro stessa natura,
infrangere un divieto – uno dei tanti, tantissimi divieti
– per
una futile amicizia. Era folle.
Anormale.
Ma
sembrava tacitamente
la normalità, tra i Cherubini, uscire
dalle camere durante il
periodo di riposo. Arrivare talvolta un po’ in ritardo alla
lezione
per essersi fermati troppo tempo a conversare. Sussurrare dicerie e
insinuazioni troppo maligne per la purezza degli Angeli. Era
anormale, eppure anche la normalità
di molti; ed era
la normalità non denunciarli,
finché un adulto non chiedeva
espressamente di riferire le violazioni dei compagni – il che
non
accadeva troppo spesso, come se non avesse importanza, come se fosse
permesso tutto, purché si facesse con discrezione.
Era
violare le regole
di fronte ad un adulto, ciò che si temeva; e persino Cassiel
non
aveva mai riferito alle Custodi le continue visite di Anane nel loro
dormitorio.
Era
mostrarsi anormali
di fronte ad un adulto, il rischio. Anche se poi
l’anormalità era
solo la normalità di molti, moltissimi
– e non era
possibile che gli adulti non lo sapessero, perché erano
stati
Cherubini anche loro, eppure... eppure continuavano ad insegnare che
tutto ciò era anormale, e a fingere che
non accadesse.
Sì,
c’era qualcosa
di terribilmente contraddittorio.
Possibile
che non se ne
fosse mai accorta prima?
«Gli
Umani, in Paradiso, diventerebbero ciechi. Troppa luce. Troppo
candore.»
Sachiel,
ancora,
taceva. Aveva abbassato gli occhi e sembrava fissarle le mani,
strette in grembo; l’essenza di nuovo calma, tanto che
Amitiel non
riusciva più a percepirne il movimento, e
l’espressione cheta,
riflessiva.
Avrebbe
potuto
denunciarla ai Censori, per una frase come l’ultima che aveva
azzardato. Avrebbe potuto farle riassaporare la ferocia di quei
sorrisi gentili e delle insinuazioni sottili, maligne –
maligne? Ma
gli Angeli non potevano avere pensieri maligni.
Amitiel
trattenne a
fatica un tremito. Non avrebbe dovuto mormorare quella domanda,
perché i Cherubini non denunciavano i compagni, no, ma solo
per ciò
che facevano tutti; un dubbio simile sarebbe stato riferito anche
dall’allieva più gentile, una famosa per la sua
severità non
avrebbe esitato un istante a farlo. Si era fatta ingannare da un
disprezzo che pareva rabbia macchiata d’incertezza e invidia;
aveva voluto vedere per forza una scintilla di comprensione, di
condivisione per quella scoperta che... che
l’anormalità sembrava
essere invece la consuetudine, almeno tra i Cherubini. Ecco, Sachiel
nemmeno la guardava in faccia, troppo disgustata: le fissava le mani
e probabilmente stava pensando a come comunicare ad un adulto di quei
pensieri assurdi, innaturali... sensati.
Sensati.
Non
poteva davvero
essersi immaginata tutto, vero? Quella volontà di negare
qualcosa
che sembrava già sapere. Quell’invidia per un
legame così
stretto, così esclusivo. E... e non aveva chiamato subito le
Custodi, mentre avrebbe dovuto farlo – era sembrata
addirittura
essere contraria alle conseguenze che ci sarebbero
state per
le altre, se lei fosse stata scoperta nei corridoi del ciclo
superiore; e qualcosa di simile poteva anche essere pensato, o
lasciato sottintendere in un bisbiglio tra allievi, ma esprimerlo ad
alta voce? Non ho intenzione di causare problemi a tutti i
dormitori. Fai rischiare controlli feroci. Fai rischiare
l’Espiazione. Pericoloso. Eccessivo. Un tono
urgente e velenoso
che sembrava voler dire che... che le conseguenze non sarebbero state
giuste, pur essendo disposte dagli insegnanti, dalle
Autorità, dai
Censori. Non poteva averlo immaginato, non poteva aver frainteso
tutto, vero?
Si
ancorava a minuzie,
se ne rendeva conto lei stessa. Dettagli che erano frutto della sua
fantasia – o forse del suo disperato bisogno di trovare un
po’ di
comprensione. Di credere che Sachiel non l’avrebbe denunciata
ai
Censori, con i loro sorrisi gentili e... e l’Espiazione. Il
dolore
liquido e lacerante dell’Espiazione.
No.
No.
«Hai
fatto curare il
polso?» le chiese Sachiel all’improvviso, rompendo
il lungo
silenzio, rialzando lo sguardo sul suo volto.
...le
aveva osservato
il polso? Aveva controllato se l’alone bianco causato dalla
stretta
di Nelchael fosse scomparso?
«Sì.»
mormorò in
risposta, ancora troppo incerta e confusa per sentirsi sollevata.
Nessuno le assicurava che Sachiel non si sarebbe precipitata da un
momento all’altro da una Custode, in fondo.
Ma...
ma... ma quello sguardo?
Lo
sguardo della più
matura era confuso almeno quanto il suo. Smarrito, disorientato,
incerto.
«Ti
hanno trattenuta
dentro per molto.» continuò Sachiel a bassa voce,
con una sorta di
cautela.
«...sì.»
«Li
ho sentiti, quando
alzavano la voce. E ho sentito te che urlavi. E... e anche con me
sono stati... duri.»
Sachiel
si chinò
lievemente su di lei, posando le mani sulle cosce, come a voler
sussurrare al suo orecchio per timore di essere udita da qualcun
altro.
«...sì.»
«Eppure...
eppure non
c’erano prove che fossi coinvolta. Che fossimo
coinvolte.
Non sembrava esserci motivo per quella...»
«...ferocia.»
terminò
per lei in un sussurro, notando che l’altra non sembrava
trovare la
parola – o il coraggio di pronunciarla.
Era
uno scambio equo:
una domanda azzardata per un’affermazione altrettanto
rischiosa. Un
dubbio sull’operato dei Censori e una velata insinuazione di
incoerenza, di ipocrisia, di menzogna.
Non
aveva immaginato
nulla, non aveva frainteso nulla. La severità criticata, la
rabbia
venata d’invidia e incertezza, le contraddizioni negate ma
segretamente riconosciute. L’orrore per la ferocia dei
Censori –
e forse era stato proprio quello a colpirla di più, a far
risvegliare riflessioni proibite.
Chissà
cos’aveva
visto Sachiel in lei, invece; la smania di scegliere, troppi pensieri
e troppe incertezze, o cos’altro? Qualcosa che
l’aveva spinta a
tentare un primo passo, ad allentare il controllo sulle proprie
parole e lasciarsi sfuggire troppo – un troppo
che invece si
era rivelato solo un abbastanza.
Abbastanza
per spingere
anche lei ad esprimersi. Abbastanza per originare quello scambio
equo che sembrava quasi una rassicurazione, una garanzia: non
ti tradirò. La penso come te. Neanche tu mi tradirai, vero?
Si
erano riconosciute,
in qualche modo, con una semplicità che non era per nulla
normale.
Per nulla naturale.
O
forse, invece, era la cosa più naturale che potesse accadere.
«Ferocia.»
le fece
eco Sachiel in un sussurro, dopo un silenzio che sembrò
durare
interi cicli «...hanno esagerato.»
«Sì.»
Era
un patto.
* * *
«L’allieva
dell’Autorità? Sei impazzita?»
Anane
si voltò
all’improvviso verso di lei, smettendo di camminare lungo il
bordo
del tetto della biblioteca. Amitiel, sdraiata sul ventre,
sollevò il
busto per ricambiare lo sguardo, sostenendosi con gli avambracci
poggiati sulla superficie piatta.
«Sì.»
sibilò ancora
la più matura «Sì, sei
impazzita.»
«Anane...»
«Anane
cosa?
L’allieva dell’Autorità. Devi essere
impazzita. Pensi davvero
che ci si possa fidare di lei?»
«Ha
detto delle cose
che-»
«Dire
è
diverso dal credere. Se mi fossi fidata di chiunque
dicesse
qualcosa di ambiguo, non sarei più in Paradiso da
molto.»
«Non
ha detto qualcosa
di ambiguo.» ringhiò in
risposta «Giudicare esagerate le
azioni dei Censori ti sembra ambiguo? Giudicare
esagerate le
conseguenze, le regole, le-»
«Regole
che
infrangiamo.» ribatté l’altra,
lasciandosi scivolare in ginocchio
di fronte a lei, con l’essenza che si estendeva per
controllare che
nessuno si stesse avvicinando «Non è
così strano che qualcuno le
ritenga esagerate. Questo non significa che sia meno fedele al
Paradiso, o che sia meno pronto a giudicare chi compie i suoi stessi
errori.»
«Ipocrisia.
L’ho capito, Anane.»
L’aveva
capito in
quell’occasione, parlando con Sachiel; e aveva gettato ancora
qualche accenno, colto e approvato dall’altra, quando
riuscivano a
rimanere sole – il che accadeva molto più spesso
di quanto fosse
possibile con Anane.
«Se
l’hai capi-»
«L’ho
capito, ma
Sachiel non è ipocrita. Io ci ho parlato, tu...»
«Potrei
averci parlato
anch’io, da prima che tu fossi creata.»
«Sì,
me l’ha
detto.» replicò, fredda «Se
può confortarti, ho smentito
qualsiasi sospetto su di te.»
«...aspetta.
Quando è
iniziata questa follia?»
«Qualche
ciclo fa.
Quando ancora non riuscivi a volare.»
«E
dopo solo qualche
ciclo tu ritieni di poterti fidare di lei? Magari le hai già
raccontato tutto, sì?»
«Non
le ho raccontato
niente.» ringhiò Amitiel,
rizzandosi in ginocchio «Ti ho
detto che ho smentito qualsiasi sospetto su di te.»
«E
di te, invece, cosa
le hai detto? Quanto hai già voluto
comprometterti?»
«Chi
si è compromessa
di più è stata lei. I Censori
che hanno esagerato, la sua
insegnante che l’ha tradita, le regole
troppo severe. E
sembra quasi... quasi odiare gli Umani.»
Contro
ogni sua
previsione, Anane rise, acuta, sprezzante. Terribilmente simile ad
Eisheth.
«Tutti
odiano
gli Umani, Amitiel.» le sussurrò, a voce tanto
bassa che dovette
quasi indovinare le parole dal movimento delle labbra
«Doverli
proteggere, perdonare, compatire. Non poter invidiare la loro
libertà, la clemenza a loro sempre
concessa. Ma non troverai
mai un angelo che lo ammetta apertamente, se non un futuro traditore;
lei l’ha ammesso, Amitiel?»
«...no.
Ma... ma si
capiva. Parlava dell’Espiazione, di come a volte si
potrebbero
perdonare gli Angeli, del Paradiso che...»
«Che?»
La
più immatura
distolse lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore.
«...che
dovrebbe
essere meno ipocrita e severo, e farsi onore con la
sincerità e la
clemenza.»
«È
fedele al
Paradiso, Amitiel, è evidente.»
«Non
a questo
Paradiso. Non al Paradiso che è falso, che non perdona
nulla.»
«Oh,
quindi abbiamo
un’illuminata che vorrebbe trasformarlo?
Non è la prima. E
non sarà nemmeno la prima a cambiare idea pur di evitare
l’Espiazione, la Caduta. Non sarà nemmeno la prima
a tradire chi
aveva approvato le sue idee.»
«Non-»
«Lascia
perdere,
Amitiel. Interrompi le vostre amabili chiacchierate
e non
fidarti più di lei, di... di nessuno. Se vuoi resistere in
Paradiso
almeno fino allo Sviluppo, abituati a restare sola con le tue idee, o
qualcuno ti tradirà.»
«È
perché è
l’allieva dell’Autorità? È
perché non andate d’accordo?»
«Anche
perché
è l’allieva
dell’Autorità.»
«Quindi
credi che sia
di certo fedele al Paradiso perché la sua insegnante
è
un’Autorità?»
«Non
è questo,
Amitiel.» mormorò, con lo sguardo
all’improvviso meno furente «È
il rischio che la sua insegnante si accorga di qualcosa. È
il
rischio che cambi idea. È il rischio che in qualche modo si
tradisca
e ti tradisca. Non parlarne più con
nessuno, Amitiel –
soprattutto non con lei.»
«Eppure
tu stessa hai
voluto parlarle, mi ha detto.» ribatté, suo
malgrado acquietata
dalla calma dell’altra.
«Molto
tempo fa.»
«E
che hai fatto...
osservazioni strane. Quasi compromettenti.»
«Cercavo
qualcuno con
cui condividere certe idee, sì. Ho imparato a tenerle per
me. Stalle
lontana, Amitiel, per favore. Se... se
proprio...»
«Se
proprio...?»
Anane
si passò una
mano tra i capelli, rovinando la treccia in cui erano raccolti. Senza
curarsene, continuò a fissare l’altra negli occhi,
con uno sguardo
che – Amitiel se ne accorse persino turbata
dall’irritazione –
esprimeva solo preoccupazione, angoscia.
«Tra
poco... è
probabile che cada, lo sai. Se proprio non riesci a trattenerti, puoi
parlarne con... con Ramiel, sì? Male che vada, se minaccia
di
tradirti, tu puoi sempre... minacciarla a tua volta. Con Raphael si
sta compromettendo molto di più che dicendoti qualche parola
– è
più probabile che taccia lei, piuttosto che
Sachiel.» le fece cenno
di zittirsi, per bloccare le proteste che già stavano
affiorando
«Non inganniamoci, Amitiel. Nessuna di noi due è
particolarmente
coraggiosa. Nessuna di noi due rischierebbe l’Espiazione o peggio,
se potesse evitarlo.»
Avrebbe
minacciato
Ramiel di denunciarla? Per evitare di nuovo i Censori.
L’Espiazione.
Peggio.
...sì,
se fosse
servito.
«C’è
una cosa che
non capisco.» mormorò, vinta, dopo qualche istante
di silenzio.
«A
me puoi
chiedere, lo sai.»
«Ramiel
non sembra
tipo da... queste cose, e nemmeno Raphael. Per niente. Come fanno
a... non lo so, a... mantenere questa apparenza così perfetta.
A fingere così.»
«Non
è finzione.» la
corresse Anane, passandosi di nuovo una mano tra i capelli,
riflessiva «È... separare le due cose. Scindersi.
Come essere due
persone – come se a infrangere le leggi fosse un altro, come
se non
mentissi nel negare ogni cosa, come se a dover subire le conseguenze
non dovessi essere tu.»
«È
così che sei...
sei rimasta qui per tutto questo tempo? È così
che ti succede?»
«Succede
anche te,
credo.»
Forse
succede anche a Sachiel.
Si
morse il labbro
inferiore per non dirlo; ma ancora non capiva perché Anane
non desse
peso al suo giudizio. Se lei si fidava di Sachiel, perché
non
avrebbe dovuto fidarsi anche l’amica? La riteneva incapace di
giudicare?
Sì,
le sembrava in
effetti che succedesse anche a lei ciò che raccontava Anane
–
sentirsi estranea a quell’Amitiel che nel Mediano quasi
tradiva il Paradiso, quasi si comprometteva con un
caduto.
Sentirsi un’altra, ancora fedele agli Angeli, nonostante
tutto –
nonostante parlasse con Anane di una possibile Caduta, di non farsi
scoprire, del rischio di essere denunciate.
Ma
perché anche
Sachiel non avrebbe dovuto provare la stessa cosa? La Sachiel che si
comportava come Cassiel, che ignorava i saluti dei compagni
più
immaturi – e ancora continuava a farlo anche con lei
–, che
guardava con superiorità e parlava con sprezzo; e la Sachiel
che si
stendeva accanto a lei sull’erba sempre rigogliosa e priva di
odore
del Paradiso, che sussurrava riflessioni proibite, che talvolta la
aiutava persino ad esercitarsi e a studiare. Perché Sachiel
non
avrebbe dovuto sentirsi divisa così? Perché Anane
doveva dare per
certo che invece la stesse quasi... ingannando? Che
fosse
pronta a denunciarla da un momento all’altro, che non
credesse
davvero in ciò che diceva.
Non
riuscì più a
tacere e sussurrò quel dubbio, con una sicurezza che lei per
prima
non si sarebbe mai aspettata. Tenne lo sguardo fisso sul viso
dell’amica, senza abbassarlo nemmeno quando si
fece
di nuovo furiosa, l'espressione contratta dall’ira.
«Allora
non mi
ascolti.» sibilò Anane «Vuoi proprio
litigare per un’estranea?»
«Dovrei
fare quello
che mi ordini, quindi? Sono stanca di doverti dare
sempre
ragione.»
«E
non vuoi darmela
proprio su questo? Amitiel, per favore...»
«Sì,
proprio
su questo.»
Nonostante
la fermezza
dello sguardo, si accorse di avere le lacrime agli occhi. Le mani,
strette in grembo, non riuscivano ad arrestare il tremore che le
aveva assalite; le piume rosse fremevano, come scosse da una brezza
leggera. Le dolevano gli squarci.
Era
uno di quei momenti
in cui le sembrava che nulla andasse bene, perché stava
litigando
con Anane e non era mai successo, non così, non seriamente;
e non
era mai successo perché lei aveva sempre approvato tutto
ciò che
faceva Anane, secondo Sachiel, e all’inizio le aveva risposto
che
non era vero e che lei non poteva saperne niente, però...
però era
vero. E per una volta, solo per una volta, aveva scelto,
aveva
voluto prendere una decisione senza lasciarsi influenzare
dall’amica;
ma Anane non la capiva. Muoveva obiezioni senza senso,
perché
Sachiel si era già compromessa troppo per poterla tradire,
se
proprio volevano ragionare così – ma la cosa
più importante era
che di Sachiel non sospettava, lei, e Anane avrebbe dovuto fidarsi
del suo giudizio. Avrebbe dovuto capirla.
E
invece non la capiva;
come, d’altronde, lei stessa non capiva Anane. La limpida
Anane che
sembrava torbida e calcolatrice, in momenti come quello –
come
quando, la prima volta, l’aveva abbandonata in balia di
Michael
senza nemmeno avvertirla. Come quando aveva mentito ai Censori. Come
quando aveva... aveva ucciso il Custode.
Era
quella, la parte di
Anane che si separava dal resto?
Quasi
non la
riconosceva. Non con quelle labbra strette e lo sguardo furioso,
esasperato; non con quelle ali quasi del tutto candide così
rigide e
dilatate, nell’identico modo di un adulto che voleva
intimidire un
cherubino.
Si
sentì
all’improvviso un’estranea – ma non lo
era stata per tutto quel
tempo? Non aveva saputo degli Sconsacrati, di Eisheth, di Michael.
Non aveva saputo che Anane mentiva e tradiva. Non aveva saputo di
quella parte così nascosta. Quanto altro non sapeva, ancora?
Tradita.
Di
nuovo, come la prima volta che avevano parlato dopo essere discese
nella dimensione umana, si sentiva tradita. Perché non le
aveva
detto nulla per tutto quel tempo, e... forse Anane aveva paura di
spaventarla, di perderla, e le aveva anche detto di essere rimasta
lì
solo per non lasciarla sola, ma... ma le aveva nascosto una parte di
sé così fondamentale.
Tradita.
Non
si era fidata di
lei. E non si fidava nemmeno in quel momento, non si fidava del suo
giudizio su Sachiel, non si fidava di ciò che le diceva.
Tradita.
Anane
aveva violato la
loro amicizia più di quanto l’allieva
dell’Autorità avrebbe mai
potuto tradire il loro tacito patto.
«Perché
per te è
così importante parlare con Sachiel?» le chiese
l’altra, dopo
qualche istante di silenzio.
«Perché
è una mia
scelta.» mormorò, trattenendo a fatica le lacrime
«Per una volta,
ho scelto io.»
Inaspettatamente,
l’altra rise – una risata acuta e quasi isterica
che, come la
precedente, le ricordò terribilmente Eisheth.
«Scegliere?
Pensi
davvero di avere scelta? Siamo Cherubini, Amitiel. Finché
non
perderemo anche l’ultima piuma rossa, non potremo scegliere
nulla.»
Per
un attimo, ebbe
l’impulso di darle ragione. Quando si era ritrovata addosso
lo
sguardo gelido e furioso di Michael e le sue dita affondate nelle
spalle e gli squarci sanguinanti, aveva capito: non aveva scelta,
perché altri avevano deciso per lei.
Ma...
ma Sachiel era
stata una sua scelta. Uscire dal dormitorio per andare da Anane, e
ritrovarsi poi a parlare con quell’estranea che sembrava una
versione un po’ più gentile di Cassiel; e
incontrarsi nei momenti
liberi in un angolo isolato e bisbigliare, scambiandosi opinioni
sempre meno caute su ciò che accadeva in Paradiso. E nessuno
lo
ordinava, nessuno lo imponeva, qualcuno tentava persino di
scoraggiarlo – come Anane, come Nelchael. Era una sua scelta,
una
loro scelta, e quindi... quindi sì, poteva scegliere.
Voleva
scegliere.
Non
si aggrappava a Sachiel, ma a ciò che rappresentava
– a
quell’unico sprazzo di libertà che sembrava averla
intossicata,
resa dipendente. Non importava che in realtà trovasse la
compagna
poco piacevole, non importava che passassero gran parte del tempo in
silenzio; per orgoglio, non avrebbe mai tradito l’unica
scelta che
era riuscita a strappare alla passività cui erano condannati
i Cherubini.
«Amitiel...»
sussurrò Anane.
Rialzò
lo sguardo sulla più matura, senza ricordare quando lo
avesse
abbassato sulle proprie mani; alle sue spalle, la sagoma di Ridwan si
stava avvicinando in volo. Erano rimasti solo pochi istanti per
parlare, e avrebbe voluto dirle molto. Chiederle perché le
avesse
nascosto la seconda Anane,
pretendere che le spiegasse perché non doveva fidarsi di
Sachiel,
parlare della sua Caduta e di ciò che sarebbe accaduto dopo.
Mancava
il tempo.
Anane
le posò le mani ai lati del volto, richiamando di nuovo la
sua
attenzione. Le dita sottili e tiepide le sfioravano le guance con
delicatezza, ma lo sguardo era tagliente, gelido – non umido
di
lacrime come il suo. Il suono delle ali di Ridwan, sempre
più
vicino, quasi coprì il sussurro seguente.
«Amitiel,
stalle lontana. Fidati di me, fammi solo questo favore. Stalle
lontana.»
Il
Custode si posò sul tetto della biblioteca con un lieve
fruscio,
poco più indietro dell’allieva.
Il
Richiamo arse all’improvviso, ricordando ai Cherubini i
propri
doveri.
«Devo
andare, Anane.»
Era
riuscita a scegliere, e non sarebbe stata Anane – la limpida
Anane
che però mentiva e tradiva e uccideva,
e ordinava senza spiegare, e le nascondeva una parte fondamentale di
sé – a strapparle quell’unica conquista.
***
Angolo autrice
Per problemi tecnici (ovvero l'html che mi vuole tanto,
tanto male) ho aggiornato oltre mezzanotte. Devo avvisare di un altro
possibile ritardo, più considerevole: l'ispirazione latita
per vari motivi e il capitolo della prossima settimana non è
ancora pronto, quindi potrei saltare l'aggiornamento di domenica
prossima, ma spero di riuscire comunque ad aggiornare.
Dopo questo avviso, come sempre ringrazio chi segue la storia e in
particolar modo chi la recensisce (:
E finalmente Amitiel si è svegliata sul serio. Se
l'è presa con comodo, ha fatto le sue lentissime riflessioni
ripetitive e circolari, ma ce l'ha fatta u.u A questo proposito, i suoi ragionamenti potrebbero risultare un po' pesanti e ripetitivi, ma... non è un genio. Ha bisogno di sbattere la testa più volte, prima di arrivare a capire qualcosa. Dai prossimi capitoli sarà più leggera, comunque (:
A (spero) domenica prossima! (:
|
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Capitolo 24 *** 23. Quiete stanca ***
Capitolo
23 – Quiete stanca
Le
Percezioni si estendevano a fatica, scontrandosi contro la resistenza
dell’essenza compressa, quasi dovessero avanzare in acque
limacciose. Non riusciva ad analizzare il poco che avvertiva: le
informazioni si confondevano e l’attenzione sfumava,
facendole
perdere l’appiglio sulle presenze a cui si aggrappava con
fatica.
Stilettate crudeli affondavano nelle scapole, dove sentiva la divisa
umida di sangue; un dolore feroce pulsava alle tempie, e se si
trovava ancora eretta e salda sulle gambe doveva ringraziare solo il
proprio orgoglio.
«Raggiungi
la Via.» le ordinò Leliel, indifferente al suo
malessere.
La
Via. Un punto troppo distante perché potesse raggiungerlo,
da quel
luogo isolato nella foresta, poco lontano dal tempio
dell’insegnante
– l’Autorità non amava farla esercitare
allo Specchio, troppo
frequentato e pieno di distrazioni.
Era
certa, Sachiel, che non sarebbe riuscita a raggiungere la Via senza
distendere le ali; ali che Leliel le aveva imposto di ritirare, con
un ordine che si poteva definire solo crudele.
Trattenerle,
pur
estendendo a tal punto le Percezioni e l’essenza?
Doloroso.
Sfibrante. Impossibile.
Si
spinse più avanti
lungo i viali, lentamente, ignorando le presenze che avvertiva
– e
che, probabilmente, la avvertivano. Il suo passaggio lasciava una
traccia spessa, greve, congiunta a lei troppo profondamente;
scivolava sulle essenze altrui con difficoltà, rendendosi
evidente,
senza l’abituale discrezione.
«Subito,
cherubino.»
Le
Percezioni, tese
allo spasimo, vinsero le resistenze dell’essenza con un
guizzo
improvviso.
Un
suono
raccapricciante, come di carne lacerata con violenza; il sangue
candido colò più copioso lungo le scapole, mentre
un lamento
sommesso e prolungato le sfuggiva dalle labbra.
Aveva
raggiunto alla
Via. C’era riuscita.
Lo
stordimento
inghiottì persino l’orgoglio per quel risultato.
«Tre...
quattro
Arcangeli. Guardiani.» iniziò ad elencare con voce
flebile,
affidandosi all’intuito più che ad una reale
comprensione.
Avvertiva
le essenze in
modo vago, indistinto, confondendo numero e identità; che
riuscisse
anche ad analizzarle tanto a fondo da distinguerne il ruolo era
utopia. Ma era ciò che Leliel chiedeva, e ciò che
Leliel chiedeva
andava portato a termine, fosse anche una pretesa esagerata.
«Che
ci siano
Guardiani alla Via, cherubino, mi pare quantomeno ovvio.»
ribatté
l’insegnante, appena prima che tentasse di indovinare
il
numero di Custodi «Il Fuoco, piuttosto.»
«Il
Fuoco...?»
Leliel
non si ripeté,
perché Leliel non ne aveva bisogno, mai –
perché nessuno avrebbe
osato esitare, ad un suo ordine. La conferma fu una domanda aspra:
«Sai analizzarlo, sì, o ho sprecato il mio tempo
ad insegnarti il
nulla?»
Era
crudele. Sachiel
non pensava di godere del suo affetto – gli ultimi
avvenimenti
gliene avevano dato prova in maniera incontestabile –, ma non
credeva nemmeno di meritare quella ferocia, quel gelo.
Lacrime
di frustrazione
le inumidirono gli occhi serrati, senza scorrere oltre le palpebre.
Non
si era mostrata
negligente o irrispettosa, eppure stava perdendo il favore di cui
aveva sempre goduto; forse perché Leliel si era accorta di
star
perdendo il suo, e non poteva tollerare che lei, proprio lei che era
stata istruita e guidata con tanta attenzione, smettesse di adorarla.
Ma
era stata Leliel per
prima a divenire meno benevola, a disprezzare ogni suo risultato, a
rimproverare ogni minima mancanza. A paragonarla sempre ad un
cherubino geniale, che lei non avrebbe mai potuto eguagliare. A
ridurre il – già esiguo – tempo che le
dedicava per concentrarsi
su Cassiel, nonostante l’altra fosse ancora al ciclo
inferiore.
Poteva
stupirsi,
Leliel, se poi trovava l’allieva risentita?
«Il
Fuoco.» mormorò
ancora.
Forse
il serafino la
stava sopravvalutando.
O
forse era solo
crudele, ad ordinarle qualcosa di impossibile.
Avvertiva
poco, vedeva
ancora meno. Coglieva a fatica le presenze candide e sfocate dei
Guardiani, le loro essenze mescolarsi indistinte, immerse nella luce
– la luce pura e brillante della dimensione immateriale in
cui si
muovevano, a cui appartenevano. Attorno a loro, il Fuoco: chiarore
che si sommava al chiarore, lingue di fiamma di cui riconosceva
vagamente i contorni.
Cercò
di tendersi di
più, per distinguere le vampe dalle essenze, dal Paradiso,
da tutto
quel candore confuso; ma si trovò a mordersi il labbro
inferiore,
furiosamente, mentre fitte violente alle scapole e al capo
minacciavano di farla gridare.
«Non
sai dirmi nulla?»
La
voce di Leliel,
ancora. Crudele.
No.
No, non con le ali ritirate, non con quelle pulsazioni feroci alle
tempie, non con quello stordimento. Cosa avrebbe potuto dirle, poi?
Il colore che aveva assunto, tra il bianco e il rosso e le infinite
altre tonalità che designavano lo scopo delle fiamme? Se
avrebbe
dovuto essere sfruttato a breve? I luoghi a cui avrebbe condotto?
Erano informazioni possibili da raccogliere, ma solo da qualcuno di
esperto e abile, non da un cherubino stanco.
Ma
forse un cherubino – uno, uno solo – ci sarebbe
riuscito. Forse
Cassiel si sarebbe dimostrata abbastanza brillante, abbastanza
geniale, rubandole
ancora l’attenzione e il favore di Leliel; e a lei, che si
impegnava fino allo stremo, restava solo l’accusa di inettitudine,
senza neppure l’ombra di quei sorrisi di approvazione tanto
rari e
tanto bramati.
Rimase
in silenzio, a
palpebre calate e pugni serrati.
«Nulla?
Non farmi
sprecare tempo, allora. Ritira le Percezioni.»
Quei
commenti.
Quei
commenti continui,
infastiditi, feroci.
Leliel
non aveva mai
parlato molto: la sua opinione si esprimeva attraverso uno sguardo,
un’inflessione della voce, un gesto. Normalmente le avrebbe
solo
ordinato di ritirare le Percezioni, con un tono più brusco
del
solito; non avrebbe esternato la propria contrarietà con
quelle
parole.
Con
un guizzo opposto
al precedente si ritrasse rapidamente dalla Via, e un lamento
strozzato le salì alle labbra a quel moto brusco.
«Lentamente,
Sachiel.»
le ordinò l’insegnante, con voce appena
più morbida.
Lentamente.
Eppure era
stata proprio lei a parlare di tempo sprecato; perché doveva
portarla al limite e poi mostrare quell’accenno di gentilezza?
Ma
Leliel poteva agire
come più le sembrava opportuno: il comportamento di
un’insegnante,
di un serafino, di un’Autorità non era qualcosa
che un cherubino
avesse il diritto di giudicare. C’era sicuramente un senso,
un
motivo per quell’asprezza, e lei poteva – doveva,
voleva – solo
fidarsi.
Come
aveva sempre
fatto, in fondo: c’era sempre riuscita, anche se... anche se
non le
era mai stato chiesto quello – non le era mai stato chiesto
di
subire un comportamento così freddo e crudele. Di subire il
continuo
confronto con un cherubino geniale, che le rubava
l’attenzione e il
favore dell’insegnante mentre lei li meritava cento, mille
volte di
più. Di subire lo sguardo distaccato di Leliel mentre il
Censore
sorrideva e la straziava da dentro.
Non
aveva meritato
nulla di simile.
O
lo meritava? Si stava
dimostrando così ingrata, con
quell’astio verso Leliel –
verso chi l’aveva guidata, istruita, cresciuta. Verso chi le
diceva
di far piano, nel ritirare le Percezioni, per non acuire il
malessere. Non avrebbe dovuto, forse, essere così ostile
verso
l’insegnante.
Non
avrebbe dovuto, ma il dovere negli ultimi tempi era stato
spaventosamente
trascurato; non nelle azioni, nell’apprendimento a cui si
dedicava
con impegno quasi disperato, nella brama di un’approvazione
che non
giungeva mai, ma nei pensieri. Nelle emozioni. Nelle parole
sussurrate ad un’altra, celate tra il fruscio di piume rosse
e
ciocche nere smosse dal vento.
Rilassò
l’essenza,
nel ritirarla, per lenire il malessere. Le scapole dolevano ancora,
come se una lama lacerasse i muscoli e frantumasse le ossa, ma le
pulsazioni alle tempie si stavano lentamente placando.
L’essenza,
non più costretta verso una meta troppo lontana, si distese
morbidamente: un velo incorporeo, attirato dallo Specchio, arricciato
attorno alle presenze infantili che incontrava. Non cercava nessuno,
ma c’era qualcosa di seducente, nel turbinio di quelle
essenze
incontrollate – il rosso intenso dei Cherubini appena creati,
le
sfumature sempre più pallide della maturazione, il ciclo
superiore
tinto di cenere. Le avvertiva, le vedeva con chiarezza, come se
rilassarsi avesse acuito le Percezioni: il caos delle zone aperte, il
flusso nei viali e nell’aria, l’ordinata quiete
delle
biblioteche.
La
sua attenzione
rimase sospesa su una di esse, senza motivo – ammaliata da
qualcosa
che aveva già incontrato e conosciuto. Una nube grigia,
deturpata da
macchie scarlatte, che fremeva, trattenendo a malapena la propria
agitazione. Un’altra presenza, accanto ad essa: un rosso
tenue, ma
dal turbinio violento. Un rosso macchiato di pece, schegge nere a
contaminarne l’infantile purezza.
Ferite.
Lacerazioni.
«Sachiel.»
la
richiamò l’insegnante.
La
sua essenza –
grigia, limpida, intatta – le sfiorò ancora,
indugiandovi,
arricciandosi lieve attorno a quelle volute cineree e rossastre.
Rapita, affascinata. Sedotta.
«Sachiel.»
ripeté
Leliel – Leliel che non si ripeteva mai.
Le
ali del serafino la
avvolsero con un fruscio, scorrendo tiepide sulla pelle lasciata
scoperta dagli abiti.
All’improvviso
si
trovò persa, priva di appigli, inghiottita dai limiti di
quella
foresta – tronchi lisci, foglie mai avvizzite e
un’essenza adulta
e potente a trattenerla. L’istinto di dibattersi contro
quella
costrizione, di aggrapparsi di nuovo al turbinio di essenze dello
Specchio, e il malessere a suggerirle invece di non combatterla. Dopo
qualche istante, le fitte alle scapole – sangue colante dagli
squarci quasi rimarginati, dolore bollente e feroce che straziava la
carne – la convinsero a lasciarsi guidare.
Avvertiva
solo
l’essenza di Leliel avvolgerla, annebbiando le Percezioni,
spingendola a ritirarsi; e la propria addensarsi e assottigliarsi,
instabile, esausta, una nube immateriale che circondava il corpo in
volute sempre più strette.
Immateriale
eppure
visibile, ai suoi occhi inumani e sensibili.
La
pressione di Leliel
svanì, le ali da serafino si allontanarono e lei
sollevò le
palpebre, incerta. Si aspettava una domanda sul suo comportamento
anomalo, ma gli occhi chiarissimi dell’insegnante non erano
fissi
su di lei: guardavano alle sue spalle, riflessivi, persi nel vuoto.
Dopo qualche istante, la fronte aggrottata si distese e lo sguardo
del serafino si posò su di lei.
Le
avrebbe chiesto perché avesse indugiato tanto su quelle
presenze,
perché si fosse distratta così, perché
non avesse ritirato
l’essenza senza essere costretta. Sachiel ne era certa, era ovvio
che
glielo avrebbe chiesto, e... e non sapeva cosa rispondere. Forse era
solo stanca e aveva trovato rassicuranti quelle essenze conosciute, o
aveva cercato qualcosa su cui concentrarsi per distrarsi dal dolore.
Non le era mai accaduto, ma poteva avere senso, sì?
Le
labbra di Leliel si
schiusero.
Con
un fremito
trattenuto a stento, Sachiel si preparò a giustificarsi
– lucida
anche nell’incertezza, nel timore che l’insegnante
avesse
compreso... qualcosa, qualcosa che non si spiegava neppure lei.
«Puoi
esporre le ali.»
Le
servì qualche
istante per comprendere le parole del serafino, tanto che Leliel
dovette ripeterlo – Leliel che non si ripeteva mai, e che
invece
l’aveva già fatto due volte in pochi istanti.
Sachiel
sorrise,
incerta. Il sollievo le fece perdere il controllo: il dolore esplose,
quando le ossa dilaniarono la carne con troppa veemenza, ma un
istante più tardi non ne era rimasta che un’ombra.
Le ali si
distesero, rapide, urtando la corteccia liscia degli alberi.
«Non
perdere mai il
controllo dell’essenza.» sibilò Leliel,
tornata gelida
all’improvviso «Ritirarla lentamente è
diverso dal lasciarla
languire.»
Sachiel
raccolse
abbastanza lucidità da chiederle perdono e assicurarle che
non
sarebbe più accaduto. Non tentò di giustificarsi:
la stanchezza e
il malessere non erano mai stati scusanti, per Leliel, nemmeno quando
le concedeva un sorriso per un esercizio riuscito. Ma, invece di
stirare le labbra in quel segno di approvazione, l’insegnante
le
ordinò di ripetere tutto – per dimostrare di saper
ritirare le
Percezioni in modo adeguato. Per imparare a non distrarsi.
Le
parole del serafino
furono quasi sovrastate da un lamento acuto, mentre le ali si
ritraevano di nuovo e il dolore tornava, intenso, stordente.
Stilettate che la ridestavano dal torpore della stanchezza,
affondando crudeli nelle scapole e diradandosi in tutta la schiena e
verso il collo, il capo, le tempie – o forse erano le
pulsazioni
violente alle tempie a scendere giù verso il collo, le
scapole, la
schiena, fino a farle tremare anche le gambe.
«Più
rapidamente di
prima, cherubino. Tra poco devo occuparmi di Cassiel.»
Sachiel
si conficcò le
unghie nei palmi tanto a fondo da farli sanguinare.
*
* *
Raccolse
le ginocchia
al petto, vi appoggiò il mento e fissò lo sguardo
sull’acqua
sotto di sé – acqua vera,
trasparente, non come il nastro
candido del Confine che scorreva attorno allo Specchio.
Lasciò
scivolare il braccio sinistro verso il basso, oltre il bordo del
masso chiaro su cui era rannicchiata, immergendo le dita nel
torrente.
Tiepido.
Come tutto,
lì.
Con
l’altra mano
strinse uno dei ciottoli che aveva raccolto sulla riva e lo
gettò in
acqua. Quello affondò con un tonfo, disturbando per un
istante il
quieto gorgoglio della corrente.
Amitiel
non capiva come
gli Umani potessero farli rimbalzare. Forse Michael
aveva
mentito, quando glielo aveva raccontato.
Ne
scagliò un altro e
decise di ignorare quella riflessione. Non era il momento di pensare
a Michael – Michael che le scostava i capelli dalla fronte e
le
rispondeva e le spiegava. Michael che poi la stringeva fino a ferirla
e ringhiava e la intrappolava in qualcosa di troppo spaventoso
– e
l’aveva ascoltata? L’aveva lasciata parlare,
chiedere? Cosa le
era rimasto, delle informazioni promesse? Qualche parola, qualche
chiarimento a cui sarebbe potuta giungere da sola; e le membra
doloranti, un Custode divenuto cenere tra le sue dita, il corpo
straziato di un demone davanti ai suoi occhi terrorizzati. Il sorriso
del Censore, il terrore di essere scoperta. La sensazione opprimente
di essere intrappolata, come un fantoccio senza possibilità
di
scelta.
Il
terzo ciottolo
giunse più lontano, scagliato con foga maggiore.
E
lei aveva inclinato
il capo, cercando le sue dita gelide. E lei aveva avvertito la
frenesia di incontrarlo di nuovo, per essere ascoltata e compresa. E
lei aveva tremato per la sua stretta e l’aveva bramata,
ancora,
ancora.
E
lei era scomparsa
per quegli occhi grigi, era tornata un cherubino invisibile e muto
–
sì, avrebbe portato il peso di quell’assassinio,
di quegli occhi
che si spegnevano lentamente, di quella cenere, di quelle accuse,
di... di... di tutto. Tutto quello che altri avevano deciso per lei.
Ci
era abituata, era
sempre stato così; ma per un istante si era illusa che con
Michael
fosse diverso. Che la ascoltasse, che – addirittura
– prendesse
in considerazione la sua opinione. Invece aveva ragione Anane: erano
Cherubini, senza parola e senza scelta.
La
quarta pietra,
scagliata con furia, urtò un altro masso con uno schiocco
secco,
prima di rimbalzare e affondare.
O
forse anche Anane si
sbagliava, forse una scelta c’era anche per loro, e... ed era
così
cieca invidiosa gelosa da non accettarlo.
Non
parlare con Sachiel. Stalle lontana. Parla con Ramiel, lei si
è già
esposta, puoi minacciarla. Non Sachiel. Pazza. Pazza. Non fidarti.
Non
fidarsi di qualcuno
che l’aveva confortata, con cui poteva parlare, che non
portava
alla mente ricordi spaventosi. E perché fidarsi di Anane,
allora? Di
qualcuno che l’aveva lasciata in balia di Michael senza
avvertirla,
che non l’aveva mai informata dei suoi rapporti con gli
Sconsacrati, che aveva ucciso davanti a lei.
La
destra non trovò
più ciottoli da scagliare. La mancina, ancora immersa
nell’acqua
tiepida, sfregò furiosamente contro il masso ruvido.
Non
era mai in grado di
tenere fede alle proprie intenzioni, quando decideva di non pensare a
qualcosa.
«Amitiel?»
Sollevò
il mento dalle
ginocchia e voltò il capo a destra, verso la voce. Tra gli
alberi,
la figura sottile di Sachiel si scorgeva a malapena: il lampo biondo
della treccia, qualche sprazzo rosso nel candore delle ali, un lembo
di tessuto che ondeggiava seguendo i suoi passi.
Sorrise.
Era
lì, la sua scelta
– ed era giusta, qualsiasi fosse
l’opinione di Anane.
«Sachiel.»
la salutò
a sua volta. La voce, suo malgrado, suonò ancora vibrante di
furia.
Sachiel
raggiunse la
riva e si fermò ad un passo dall’acqua. Il suo
sguardo non la
abbandonava, corrucciato; le sue ali tremavano leggermente, come se
le avesse irrigidite.
«Non
dovresti essere
qui.» disse, fredda.
Il
sorriso di Amitiel
si spense. La mancina tornò a raschiare contro la roccia.
«Ho
il permesso di
Ramiel. Volevo esercitare le Percezioni.»
Lo
sguardo dell’altra
divenne più quieto, ma le ali continuarono a vibrare.
«...lontano
dallo
Specchio?» chiese, a metà tra
un’incertezza e un dubbio poco
convinto.
«Dice
che è meglio
così.» scosse bruscamente le spalle
«Imparare a estenderle senza
distrazioni, invece di avvertire da subito tutte quelle
presenze.»
Gliel’aveva
suggerito
l’insegnante stessa, e lei non si era lasciata sfuggire
l’occasione
di rimanere da sola, senza lo sguardo di compagni e Custodi a
seguirla. Si era esercitata davvero, prima di perdere interesse e
sedersi a fissare l’acqua, annoiata e stanca; ma era comunque
riuscita a concentrarsi meglio e più a lungo, senza venire
stordita
da troppe presenze – o attratta con violenza da qualcosa e
poi
trovarsi all’improvviso persa, confusa, senza più
idea di cosa
cercare.
Non
doveva
preoccuparsi, le aveva assicurato Ramiel, scrutandola negli occhi:
era un problema risolvibile con la pratica, tipico delle essenze
troppo sensibili e inesperte. Le aveva consigliato di esercitarsi da
sola e acconsentito a farla allontanare.
Non
c’era motivo di
dubitare che avesse il permesso di essere lì. Se Ramiel non
avesse
chiamato una Custode per accompagnarla, non l’avrebbero mai
lasciata uscire dallo Specchio; l’angelo avrebbe dovuto
essere
ancora lì con lei, ma il numero di fasce azzurre sembrava
diminuire
sempre di più, e occuparne una per un singolo cherubino era
apparso
inutile. Avrebbe potuto capirlo anche Sachiel, invece di essere
così
scettica, invece di divenire così gelida al dubbio che fosse
lì
senza permesso, invece di... no, lei non stava dubitando,
ma
aveva bisogno di qualcosa a cui aggrapparsi e non c’era
più il
Paradiso, non c’era più Michael, forse non
c’era più neppure
Anane, c’era solo la sua scelta
– e la sua scelta doveva
dimostrarsi giusta, doveva, perché se
anche Sachiel la
tradiva lei non... non...
Un
rivolo di sangue
colò lungo la mano. Amitiel continuò a sfregarla
violentemente
contro la roccia, ignorando il dolore all’escoriazione sempre
più
profonda.
«Ti
ho disturbata?»
chiese l’altra, con voce più morbida, senza dar
segno di averlo
notato.
«Stavo
facendo una
pausa.»
Tacquero.
Amitiel
volse lo
sguardo verso il torrente, dove una traccia bianca si spandeva,
colando dalla sua mano. Sachiel si lasciò scivolare seduta
con un
fruscio; un ciottolo, urtato nel movimento, rotolò
nell’acqua con
un tonfo.
«Vi
ho percepite,
prima.» disse la più matura «Tu e
Anane.»
Le
ali rosse si
irrigidirono, le labbra si strinsero, la mano sfregò con
più vigore
contro la roccia; gli occhi, però, rimasero fissi
sull’acqua.
«Avete
discusso.»
continuò Sachiel.
«Non
ti riguarda.»
«Ne
dubito,
dall’occhiata che mi ha lanciato mentre venivo qui.»
Amitiel
smise di
graffiarsi la mancina contro la roccia e la strinse a pugno,
torturando con le unghie la pelle già escoriata.
Cosa
avrebbe potuto
dirle? Sì, abbiamo discusso. Nulla di particolare,
semplicemente
non dovrei fidarmi di te che hai l’unica colpa di essere
allieva
dell’Autorità, e invece dovrei fidarmi di lei che
mi ha mentito e
gettata tra le mani degli Sconsacrati.
Non
le sembrò la
risposta migliore.
«È
solo gelosa,
Sachiel. Ignorala.»
Non
voleva
coinvolgerla. Turbarla. Disgustarla.
Doveva
dimostrare che
la sua scelta fosse giusta, e... e ne era certa, che se
Sachiel
avesse saputo degli Sconsacrati, l’avrebbe tradita.
Ma era
normale, comprensibile – lei stessa non era affatto sicura di
voler
avere ancora rapporti con loro, dopo tutto quell’orrore. Si
poteva
fidare di Sachiel, certo, ma ancora entro ragionevoli limiti.
«È...
eccessiva.»
sbuffò Sachiel, ma il tono quieto smentiva le parole
esasperate
«State insieme di continuo.»
«Non
tanto, ora. Deve
prepararsi per lo Sviluppo.»
«Dovrebbe
pensare a
quello, allora, invece di essere opprimente.»
«Sei
tagliente.»
osservò Amitiel, incerta se assentire o sentirsi offesa per
Anane;
e, notando che l’altra non rispondeva, continuò:
«Perché?»
«Stanchezza.
Mi sono
esercitata da poco con Leliel.»
Tornarono
a guardarsi
in viso, l’una curiosa, l’altra imperturbabile. Le
unghie smisero
di tormentare il palmo insanguinato e le ali di entrambe si
rilassarono – Leliel era un argomento che le acquietava,
perché
era uno dei pochi punti del loro tacito accordo, che le trovava
sempre in armonia.
«È
successo qualcosa
con lei?»
«Non
è...» chiuse
gli occhi e rovesciò il capo all’indietro
«Sono... forse sono io
che esagero.»
«O
forse è lei.»
Sachiel
riaprì gli
occhi e li fissò su di lei. Sembravano lucidi.
Amitiel
la ascoltò
raccontare: frasi brevi, secche, forzatamente distaccate – la
voce
vibrante d’ira e umiliazione, e dolore. Osservò le
ali frementi,
la fronte corrugata, le spalle tese. Non curartene,
avrebbe
dovuto risponderle, ma beveva quella rabbia come un umano assetato
–
la sentiva fluire e ne gioiva, meschina, perché la rabbia
contro
Leliel andava bene. Anche quando provocava dolore, e labbra morse per
soffocare le parole in eccesso, e lineamenti contratti in una
maschera di freddezza già in pezzi. La rabbia contro Leliel
era
buona.
La
voce di Sachiel
s’incrinò e Amitiel avvertì
l’affetto sgorgare, improvviso:
dovuto a quella scelta giusta che si riconfermava
tale, eppure
sincero, genuino. Calore, gioia, un sorriso sul punto di affiorare
alle labbra. E compassione, anche, perché in quel momento
era
abbastanza bendisposta da provarne.
Si
alzò, scattando
rapida verso la riva, con le ali distese a frenare la caduta. Fu
un’azione puramente istintuale, inginocchiarsi accanto a
Sachiel e
stringerla: un braccio attorno alla vita, l’altra mano sulla
nuca,
un calore nel petto che la spingeva a dimostrarle quanto le fosse
grata.
Grata
per dimostrarsi
sempre giusta. Grata per averla stretta a sua
volta, tempo
prima; grata per non averla ingannata o tradita.
«Hai
ragione.»
mormorò, e la sua voce suonava così limpida e
sicura che nessuno ne
avrebbe dubitato «Ma lei non merita tutta
questa attenzione.»
Sachiel
ammutolì e
rimase immobile, rigida; ma dopo qualche istante le cinse la vita a
sua volta, con un braccio esile e tremante che sembrava pronto a
sollevarsi. I loro corpi aderivano, le ali si sfioravano con fruscii
morbidi, ed era... piacevole. Tiepido, delicato – piacevole.
Una
quiete stanca e
affaticata le pervadeva, lentamente; e la gioia incontenibile
dell’una trovava freno, e la rabbia umiliata
dell’altra si
placava. Forse sì, forse si erano salutate con freddezza;
forse
c’era un palmo escoriato contro la roccia, parole furiose
trattenute in gola, il principio di un litigio senza motivo; forse
serpeggiava ancora la stanchezza, il timore, la frustrazione di
sentirsi inadeguata e la segreta angoscia che una scelta si rivelasse
errata. Ma il tepore di un corpo contro il proprio era rassicurante,
come lo era chiudere gli occhi e annegare i pensieri in una stretta
goffa. Trovare posto tra le braccia di qualcuno, un posto sereno, un
posto senza pesi troppo gravosi o preoccupazioni opprimenti; un posto
che era, forse, il migliore che le avesse accolte da tempo.
E
vi rimasero a lungo,
in silenzio, immerse in quella quiete meravigliosa e un po’
stanca.
***
Angolo autrice
In ritardo. Più di un mese dall'ultimo
aggiornamento. Sto avendo diversi impegni e problemi che purtroppo non
mi lasciano né il tempo né la disposizione
d'animo adatta a scrivere; non posso promettere che gli aggiornamenti
resteranno regolari come prima. Dovrei riuscire ad aggiornare ogni
due-tre settimane circa, ma è sicuro solo che
continuerò a scrivere, il ritmo è incerto - anche
perché ora ho iniziato anche un'altra storia. Il capitolo
successivo, in ogni caso, è già in lavorazione.
Grazie a chi legge, segue e/o commenta (:
|
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Capitolo 25 *** 24. Passato che torna; futuro che muore ***
Capitolo
24 – Passato che torna; futuro che muore
C’era
qualcosa, nell’aria, che ferveva come se ci fosse un tempo
limite,
un termine prossimo – o forse era in lei e la spingeva a
guardarsi
attorno, a ricordare ogni dettaglio di quel luogo che presto avrebbe
abbandonato, a imprimere tutto nella sua memoria sempre troppo
imperfetta.
Vedeva
le fronde lontane agitarsi sotto il vento, le correnti d’aria
che
conosceva bene sostenere il volo ancora incerto dei Cherubini; ma
avevano sempre avuto quella rapidità, quella violenza?
Su
un tetto, un allievo sfogliava gli appunti con tale foga che le
pagine rischiavano di strapparsi. Più in basso, i viali
erano un
continuo flusso in direzioni opposte, le sacche annodate ai polsi che
si urtavano tra loro e le ali agitate, arruffate, frementi. Mancava
la settima classe – la settima classe mancava sempre, come se
avesse continuamente qualche impegno lontano dallo Specchio, ma non
era stato così, quando lei aveva indossato quella fascia. Il
colore
pallido della sesta c’era, però, e –
minuscola fitta al petto –
la quinta con il suo rosso tenue, la quarta dalle tinte ancora accese. E terza e seconda e prima, gocce di sangue umano che si perdevano
in quella marea più chiara, come se fossero pochi,
pochissimi, come
se il ciclo inferiore fosse composto solo da Cherubini quasi maturi e
da quell’unico sprazzo più intenso della quarta
– e questo,
nemmeno questo era normale. C’erano anche ali che, da
lontano,
apparivano bianche: una moltitudine che ai fianchi portava il colore
del lutto, fasce grigie più numerose di quanto fossero mai
state,
mentre le ali davvero candide – insegnanti, Custodi,
Guaritori –
diventavano sempre più rare, sempre più scarse.
In
un viale, un cherubino spintonò un altro, che
sbatté la schiena
contro la parete esterna dei dormitori; quello restituì il
colpo,
facendolo crollare a terra, ma nessun adulto intervenne –
ricordava, invece, di quando le Custodi le ordinavano di non ridere
per non turbare la quiete, e un litigio sarebbe stato impensabile. Si
sporse di più sul bordo del tetto, per vedere meglio la
scena, e
finalmente un Custode li fermò, furioso; lei lo conosceva,
perché
erano stati nello stesso gruppo, da qualche parte in
quell’infinità
di tempo trascorsa dalla sua creazione. Era stato uno di quelli che
avevano sussurrato alle sue spalle – uno di quelli che
avevano
disprezzato la sua allegria, la sua memoria difettosa, la sua
lentezza; uno di quelli che avevano sorriso, soddisfatti, ogni volta
che aveva mostrato le venature bianche lasciate
dall’Espiazione;
uno di quelli che avevano sperato che la macchia della sua esistenza
imperfetta svanisse, che il monito della fascia grigio cenere si
avverasse.
Anane
si accorse che la sua memoria difettosa poteva rinunciare al ricordo
del Paradiso.
*
* *
Sull’acqua
si riflette la luce del tramonto. Il sole che muore sembra riversare
il suo sangue nel torrente, tinge i flutti di colori caldi; lei ci
immerge le mani e scopre che invece sono freddi, gelidi, nonostante
le promesse di quei raggi.
Non
si guarda nel torrente: volta il capo verso le pietre
dell’argine,
verso la terra umida che le sta sporcando le gambe. Sente ogni
granello, ogni sasso, graffiare la pelle morbida e tenera. Un
frammento di metallo riflette il bagliore del sole, appoggiato poco
lontano; abbandonato su una roccia, uno specchio le rimanda uno
scorcio di cielo rossastro. Si sporge e vi vede un lampo di capelli
scuri, e la mano rosea che sale ad allontanarli dal viso.
È
sola.
Fa
stranamente male, pensarlo.
*
* *
«Hai
pensato a quello che ti ho detto?»
«Non
cambio idea.»
«Ti
tradirà, Amitiel.»
«Io
mi fido, di lei.»
«Michael-»
«Michael
non c’entra nulla con questo.»
«Michael
mi ha...
tempo fa, mi ha detto-»
«Per
colpa sua ho dovuto assistere a... a quello che hai fatto, e ho
rischiato molto più di quanto potrò mai rischiare
per colpa di
Sachiel. Perché dovrebbe interessarmi quello che ti ha
detto? Perché
dovrei fidarmi della
sua opinione?»
«Lasciami
parlare,
de-»
«No.
Hanno sempre parlato tutti, e nessuno mi ha mai spiegato niente,
nessuno mi ha mai chiesto niente, non posso parlare io, per una
volta? Devo sempre ascoltare e annuire e non pensare?»
Qualsiasi
cosa avesse
voluto dirle – e doveva essere importante e difficile, a
giudicare
dal tono tremante –, Anane perse il coraggio.
«Va
bene. Parla.»
«Non
con te.»
«...non
ti fidi più
di me?»
La
voce di Anane vibrava: sembrava sul punto di piangere, o urlare, come
se conoscesse già la risposta – e forse era
così, perché Anane
conosceva lei. Amitiel non conosceva Anane, invece, non davvero, e
scoprirlo aveva fatto male, malissimo, perché aveva passato
un’esistenza intera con un’estranea che chiamava
amica; e Amitiel
– Amitiel che ancora era solo un cherubino, Amitiel che
ancora
apparteneva al Paradiso, Amitiel che ancora non aveva un grumo nero
di rancore e rabbia a marcire nel petto – era già
vendicativa e
implacabile.
Ricordava
la fiducia tradita. Ricordava le unghie di Michael sulla gola e Anane
che non l’aveva avvertita, e la risata di Eisheth e Anane che
la
chiamava madre,
e il Custode
che la guardava disperato e Anane che estingueva la sua essenza, e
Anane che la accusava di essere impazzita, e Anane che le diceva che
non avevano scelta, e Anane che non credeva nel suo giudizio.
Amitiel
era già
vendicativa e implacabile, e la sua memoria – anche se era
ancora
quella difettosa dei Cherubini, non quella perfetta degli adulti
–
sapeva essere molto, molto lunga.
* * *
«Non
usi mai il mio nome.»
«Non
mi sembra ti sia mai importato.»
«Ma
non lo usi.»
«Ho
altro a cui pensare. Non vedere problemi che non esistono.»
«Ma-»
«Ishild.»
Una
mano gelida stretta al polso. Unghie – taglienti, aguzze,
divenute
all’improvviso come artigli – affondate con
violenza nella carne.
Fissa
quelle dita di un pallore grigiastro, malato; i rivoli scarlatti che
colano dalla pelle ferita.
Dolore.
«Ishild.
Ishild. Ishild. Sei soddisfatta?»
«Eisheth...»
«Eisheth?»
«A
volte mi parla del prima.»
«Non
ascoltarla.»
«Mi
fa venire... dubbi.»
«È
quello che vuole. Ignorala.»
«Non
ci riesco.»
La
lascia. La pelle ha un alone roseo, dove le ha stretto il polso.
Le
dà le spalle.
«Dove
vai?»
Le
piume – nere, taglienti, spaventose – vibrano.
La
voce anche – ringhio trattenuto.
«Da
Dumah.»
*
* *
Eisheth
rizzò la
schiena, scorrendo con le dita sull’erba, come artigli che
lasciavano tracce di morte e marciume; sangue colava a terra dal
fianco, dove lui l’aveva colpita per respingerla, divorando
gli
steli anneriti.
Il
caduto avvertiva la
stessa corrosione avanzare lungo le dita, consumando le unghie e i
polpastrelli fino a lasciare solo carne annerita. Il dolore risaliva
fino al palmo, stringeva il polso in una morsa rovente e dilaniava
l’avambraccio, ma era quasi come non sentirlo,
perché affondare
gli artigli in carne dannata era ormai divenuto abitudine.
«Michael,
Michael...
bastava dire di no.» mormorò Eisheth, con una voce
simile a un
latrato isterico e divertito. Rovesciò il capo verso
l’alto per
guardarlo, con un ghigno minaccioso e uno sguardo famelico. Lui si
impedì a fatica di muovere un passo indietro.
«Anane...
è quasi il
momento, finalmente.» gorgogliò il demone
«E poi, Michael? Poi
come farai?»
«Anane
non mi serve
più.»
«È
andato tutto
troppo lento, sì?»
«Non
importa. Anane sa come deve orientarla,
prima di cadere.»
«Anane
potrebbe aver cambiato idea.» sporse il busto verso di lui,
ancora,
con un ghigno «In fondo, tu
non le servi più.»
«Abbiamo
un accordo.»
«Un
accordo con una
codarda che ha la mia protezione. Michael, Michael...»
gorgogliò
ancora, scuotendo la testa.
Le
ali nere
dell’arcangelo si irrigidirono.
«Se
anche Anane
fallisse, le parlerò io. C’è
tempo.»
«Da
quanto attendi,
Michael? Quanto ancora dovrai pazientare, mentre quella femmina si
risveglia?»
«C’è
tempo.»
«Povera
bambina.
Davvero una sorte triste.»
«Cherubino,
non
bambina.» ringhiò «Non è
un’umana.»
I
polpastrelli
sembrarono venire divorati dal dolore, quando risuonò il
latrato
della risata di Eisheth.
* * *
«Non
sei diversa da loro, cara.»
«Non
è vero.»
«No?
Eppure temi le loro leggi, fingi di seguirle, ti rinneghi. Sei
come loro.»
«Non
è vero!»
Una
risata acuta, graffiante.
«Sempre
così codarda, sempre così debole.»
«Non-»
«E
lui disprezza i codardi, sì? Lui disprezza i
deboli.»
«Taci,
taci!»
«Lui
disprezza loro.»
«Io
non sono come loro.»
Una
risata, ancora.
Mani
bollenti a stringerle le braccia, occhi scuri sgranati con una luce
feroce, labbra stirate in un ghigno ferino.
Fiato
rovente a un soffio dalle labbra.
«E
sai chi altri disprezza, cara? Gli
Umani.»
*
* *
«Avete
autorizzato il
suo Sviluppo.»
«Evidentemente.»
«Ma
non è pronta. La
consumerà.»
«Forse.»
Il
pugno di Nelchael si
abbatté contro la colonna al suo fianco. Leliel rimase
immobile, ma
l’oscurità nel tempio si fece più
fitta, annebbiandogli la vista
con un velo scuro. Scorgeva i suoi occhi, di fronte a lui, che lo
fissavano gelidi – era difficile capire quanto Leliel fosse
irritata, perché con lui lo era sempre, dietro la sua
maschera
impassibile.
«O
forse rimarrà in
vita, Esecutore, com’è rimasta in vita per tutto
questo tempo.»
«Dopo
di lei, chi? Chi
si svilupperà senza essere pronto? Chi sacrificherete per la
fretta?»
«Per
la fretta?»
Leliel rise, con un suono che somigliava a uno scricchiolio
d’ossa
«Ha avuto sin troppo tempo.»
«Se
non morirà,
cadrà.»
«Non
dare per certo un
tradimento di cui non c’è prova,
Esecutore.»
«Ha
ucciso un
Custode.»
«Non
intenzionalmente;
comprensibile, in quella situazione.»
«Non
ci credi nemmeno
tu.» sibilò Nelchael. Il velo scuro davanti ai
suoi occhi
s’infittì.
«Ciò
che credo non
deve interessarti, Esecutore. Giudicarla e punirla spettava ai
Censori, e così è stato. Non
c’è altro da dire.»
«Daniel
non può
ritenerla davvero sincera.»
«Daniel
ha sospetti su
tutti.»
«E
tu non mi hai
permesso di allontanare Amitiel da quella traditrice,
né
dalla tua allieva. Avremmo-»
S’interruppe
con un
suono strozzato. Uno scricchiolio inquietante e le sue ali si
ripiegarono sulla schiena, come se qualcosa – ombre,
oscurità,
dita mostruose di tenebra – stesse premendo su di loro,
lentamente;
ma la rabbia era troppa perché potesse annegare nel dolore,
e quando
la morsa si attenuò – quando Leliel
parlò ancora, sempre gelida,
sempre impassibile – era aumentata a dismisura, strappandogli
il
poco controllo che gli rimaneva.
«Avremmo
solo
dimostrato che nemmeno noi ci fidiamo di loro.»
«Vuoi
lasciare che si
compromettano, allora?»
«Non
voglio confermare
i suoi sospetti. Non voglio risolvere un problema e chiedermi quale
sarà il prossimo. O credi che smetterebbe di cercare
accuse?»
«Si
può trovare una
soluzione.»
«Non
ho il tempo di
preoccuparmi di qualche cherubino.»
«Sono-»
«Sachiel
tra poco si
svilupperà e non mi riguarderà più.
Amitiel non mi ha mai
riguardata. Ho troppi pensieri, troppi problemi per occuparmi anche a
loro.»
Il
pugno di Nelchael si
abbatté di nuovo contro la colonna, ignorando le tenebre che
si
strinsero ancora su di lui, gli scricchiolii, il dolore, le ossa che
minacciavano di cedere sotto quella pressione spaventosa.
«Quindi
è per
questo.» sibilò «Non tenti nemmeno di
impedirlo per non rimanere
coinvolta.»
«Non
posso assumermi
anche il peso dei loro errori. Credevo che
ricongiungersi le
avrebbe aiutate a maturare, non a tradire, mentre forse avrei dovuto
allontanarle; ma il tradimento dipende da loro, non da me.»
Leliel
aveva la voce
incerta. Sembrava stanca – e sembrava riferirsi ad altro. A
qualcosa che non avrebbe dovuto essere ricordato, che li ossessionava
e che sarebbe dovuto morire da tempo. Ma c’era rabbia, anche:
c’erano occhi invasi da nebbia bianca, ali rigide e frementi,
candide lingue di fiamma che le accarezzavano la pelle, ombre che
guizzavano attorno a lei.
Nelchael,
però, già
da tempo non era più tanto lucido da accorgersene.
«Perdonami.»
ghignò
«Avevo quasi dimenticato che abbandonare gli altri
è sempre stata
la soluzione a tutto, per te.»
L’oscurità
si
strinse ancora su di lui, le fiamme lo raggiunsero; poi fu solo
dolore.
* * *
«Parlami
di lei.»
«No.»
«Perché?»
«Non
sono cose che devi sapere.»
«Non
devo sapere nulla del prima,
secondo te.»
«No.
Non devi.»
«Ma
era mia
sorella.»
«E
la rivedrai, quando sarà il momento. Vi
riconoscerete.»
«Come?»
«Siete
legate. Ti aiuterà a ricordare, e potrai tornare da me. Con
lei.»
«Ti...
ti ho chiesto di non farmi separare di nuovo da lei. Di aiutarmi a
farla cadere con me.»
«Sì.»
«E
tu hai accettato.»
«Sì.»
«È
importante, quindi. Anche se ancora non ricordo niente, è
importante.»
«Sì.»
«E
allora perché non vuoi parlarmene?»
«...ci
sono cose, del prima,
che potrebbero non piacerti.»
*
* *
«È
stato fissato per
il prossimo ciclo.»
Ridwan
si sforzava di
essere impassibile, ma la sua voce vibrava di una nota euforica; gli
occhi – e Anane doveva abbassare lo sguardo per vederli,
tanto era
alta – brillavano di qualcosa simile al sollievo.
Le
sembrò di ricordare
che Amitiel avesse detto qualcosa, una volta,
sull’ansietà di
Ridwan di liberarsi di lei, e forse aveva avuto ragione. Non doveva
essere semplice, occuparsi di un’allieva imperfetta,
difettosa,
anomala. Non doveva essere semplice nemmeno fingere che lei fosse
normale, come invece Ridwan aveva sempre fatto;
soprattutto
quando aveva di fronte a sé la sua essenza screziata di
rosso, e la
fascia grigia che ormai non la spaventava più.
Grigio
cenere. Il
colore del lutto.
Un
cherubino,
l’aveva avvisata
Ridwan infinito tempo prima, non può
rimanere troppo a
lungo a languire: la sua essenza è troppo fragile per
sostenere il
peso dei secoli, e sopravvive solo continuando a maturare. Il ciclo
inferiore è un continuo mutamento, ma al ciclo superiore
c’è solo
un ultimo passo da compiere; se non ti sviluppi in tempo, muori.
Lei
l’aveva superato
da molto, quel limite di tempo, eppure la sua essenza non si era
consumata; e questa era stata solo una delle tante anomalie
accumulate in un’intera esistenza. Solo una delle tante cause
di
sussurri e malignità.
Oh,
lo sapeva, cosa
sibilavano alle sue spalle. Lo sapeva di cosa la accusavano, quasi
spettasse a loro giudicarla; quasi fosse un frutto marcio, guasto, da
distruggere a parole e sguardi.
Quella
memoria troppo
imprecisa anche per un cherubino, quel corpo che aveva smesso troppo
presto di maturare, quell’incapacità, quella
risata troppo pronta
e troppo squillante. E – dettaglio riservato ai pochi tanto
maturi
da scrutare a fondo la sua essenza – quegli squarci rossi,
del
rosso marcio dei demoni, che non guarivano mai.
Erano
stati l’inizio
di tutto, quegli squarci. L’essenza ferita, e lei sapeva
perché, e
tutti credevano di sapere, e presto avrebbe avuto un
senso.
Presto avrebbe abbandonato la fascia grigia e le piume rosse, e
poi... poi niente più sussurri alle spalle, niente
più timori.
Niente più Michael, niente più Amitiel che non
voleva ascoltarla,
niente più tradimenti troppo pesanti per le sue spalle esili.
Avvertiva
una voragine
nel petto, al pensiero di perdere l’amica; ma sapeva che
sarebbe
dovuto accadere, e avrebbero sempre potuto riunirsi, una volta che
Michael avesse ottenuto ciò che voleva.
Lei,
al suo obiettivo,
era tanto vicina da tremare.
* * *
«Ti
manca mai, quello che hai lasciato?»
«No.»
«Nulla?»
«No.»
«Ma...
ci sei cresciuto, in Paradiso.»
«E
cosa dovrebbe mancarmi del Paradiso? L’Espiazione?
L’ipocrisia?
Il disprezzo?»
«...sei
freddo. Pensavo che...»
«Il
calore?»
«Sì.»
«Fa
parte della Condanna. Lo sapevo, quando ho tradito.»
«E
non ti manca?»
«Preferisco
il freddo a lasciarmi manovrare.»
«E
di chi conoscevi? Non hai nostalgia di nessuno?»
«Nostalgia
di ipocriti e codardi?»
«Non
c’era nessuno a cui fossi legato?»
«Se
anche ci fosse stato, avevo un buon motivo per lasciarlo.»
«Quindi
c’era.»
Un
sospiro.
«Cosa
stai cercando di dirmi? Che temi la nostalgia?»
«Chi
era?»
«Ishild...»
«Chi
era?»
«La
mia insegnante.»
«Come
si chiama?»
«Ramiel.»
*
* *
Un
vento freddo,
gelido, scuoteva la neve dai rami e la disperdeva nell’aria
in
polvere finissima; gliela gettava in viso, senza che gli occhi
dovessero socchiudersi sotto quella carezza violenta, e sembrava
quasi voler lenire il bruciante dolore alle dita. Ma i polpastrelli
continuavano ad ardere, mentre il resto del corpo rabbrividiva di un
gelo che non era né neve né vento.
A
volte, qualcuno affermava di aver quasi dimenticato come fosse vivere
prima; di ricordare
solo le imposizioni e l’ipocrisia, l’Espiazione, i
pensieri
annegati nella cieca obbedienza. Era falso, lo sapevano, ma era
meglio ingannarsi che ricordare la luce, il calore. La sicurezza di
un luogo in cui rifugiarsi.
Il
prima andava
dimenticato, perché nel prima
erano annidate fobie che li avrebbero distrutti:
l’oscurità, il
gelo, la solitudine, il continuo pericolo. Nel prima
erano annidati rimpianti che non potevano concedersi.
Lui,
quel prima, non aveva
mai imparato a relegarlo tra le false dimenticanze. L’aveva
smembrato in frammenti custoditi nelle profondità della
memoria,
sino a rendere impossibile raccoglierli tutti e fingere di
cancellarli, perché sarebbe sempre mancata una scheggia: uno
sguardo
rimasto incastrato tra le lezioni della prima classe, o una carezza
persa tra lo stupore di conoscere per la prima volta la pioggia. E il
prima della Caduta
diveniva inconsistente e irrilevante, perché c’era
solo lei:
prima di incontrarla. Prima dell’ossessione. Prima di notti
di
incubi insonni, prima di capelli che scorrevano tra le dita, prima
della neve e dell’acqua. Prima che se ne andasse. Prima di un
nome
ripetuto all’infinito, come una preghiera, come una delle
litanie
che no, non più.
Miriadi di schegge di un prima
pronto a tornare ora.
E non sarebbe stata Eisheth, o Anane, ad impedirlo; non la codardia,
o una gelosia feroce.
Presto,
si disse. Presto.
* * *
«Non
li tradirai. Resterai con loro.»
«Non...»
«Puoi
negarlo?»
«È
il momento.»
«Sì.»
«Vai,
allora.»
«Devo...
devo ancora
parlarti, Amitiel.»
«Ridwan
ti attende.»
«Cambia
idea, Amitiel.
Non fidarti.»
«E
il Richiamo mi
esorta al riposo. Dobbiamo andare entrambe.»
«Quando
ti desterai,
io sarò già sviluppata. Sarò
già...»
Non
diede segno di aver
colto quell’allusione – di volerla lasciare in un
modo diverso,
meno gelido e astioso. Le voltò le spalle e volò
via,
semplicemente: il respiro rapido che fluiva nel petto e un singhiozzo
incastrato in gola.
«Li
temi. Li temi al punto che non oserai.»
«Non...
non è vero.»
«Dimostralo.»
*
* *
Il
Fuoco si ritirò
dalle sue membra, sciogliendosi rosso e denso nel Confine.
L’urlo
di dolore indugiò per qualche istante sulle labbra, prima di
morire
in un silenzio esausto.
Distese
le ali sottili,
da angelo. Candide.
Distese
l’essenza
matura e già corrotta.
E
cadde.
|
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Capitolo 26 *** 25. E fa male ***
Capitolo
25 – E fa male
Nelchael
le affondò le nocche nel fianco, con violenza. Lingue di
fiamma
candide divorarono la carne già segnata, infittendo la trama
di
rivoli bianchi che colavano a terra, quasi l’insegnante
volesse
prosciugare la sua essenza insieme al sangue.
Amitiel
urlò, e Nelchael affondò ancora.
E
ancora.
E
ancora.
E
poi furono le dita a ferirla, arcuate, con le unghie divenute artigli
perlacei che scavavano solchi profondi nella carne molle del ventre.
E
ancora.
E
ancora.
Gli
afferrò il polso per fermarlo –
l’essenza immatura che non
riusciva a concretizzarsi in fiamme, le unghie solo morbide curve che
non potevano nulla. Nelchael le diede un istante di tregua, come a
premiarla, prima di strattonarla in avanti e premerla contro di
sé
con l’altro braccio; liberò il polso dalla sua
stretta ridicola e
le strinse l’attaccatura delle ali, implacabile, senza che la
sua
presa feroce le permettesse di reagire.
Faceva
male. Male, male, male.
Gli
squarci – alle gambe, al fianco, al ventre, alla schiena, al
collo,
ovunque – rigettavano sangue, e insieme al
sangue se ne
andava la lucidità, l’energia, il controllo del
corpo. Si sentiva,
ma non riusciva a muoversi.
E
faceva male, male,
male.
Sachiel
osservava immobile, lontano da loro, con l’espressione
indecifrabile di chi è abituato a non mostrare nulla
– non di chi
non vuole, ma di chi
non può. Amitiel
riusciva a scorgerla a fatica, oltre la spalla
dell’insegnante, con
gli occhi annebbiati dal dolore e dalle lacrime; dopo un istante non
la vide più, la schiena inarcata e un urlo breve e acuto
sulle
labbra, soffocato dal sangue che le invadeva la gola, e la mano di
Nelchael che stringeva le piume strappate con violenza.
E
faceva male, male,
male.
E
le ali vomitavano il
sangue più puro e prezioso. Più vitale.
L’avrebbe
uccisa. Se avesse continuato a infierirvi, l’avrebbe
uccisa
– lei, cherubino
fragile e immaturo, ancora infante, ancora effimero. Sarebbe bastato
così poco: strapparle le ali. Squarciarle la gola. Anche il
ventre,
forse?
No,
sarebbe bastato
ferirla ancora alla schiena, al collo; proprio come Nelchael aveva
spiegato una volta, con lei seduta a metà della gradinata, a
nascondersi in mezzo agli altri perché non si notasse lo
sguardo
distratto.
E
faceva male, male,
male.
E
l’essenza si
affannava a tramutarsi in sangue, diventando sempre più
rada, sempre
più sottile. Avrebbe continuato fino a scomparire, a
divenire solo
sangue, solo sangue perso versato sprecato, e avrebbe lasciato un
corpo inerme pronto a incenerirsi.
Nelchael
la lasciò
lentamente, quasi ad accompagnare la sua caduta verso il suolo.
Lo
guardò torreggiare
su di lei, sporco del suo sangue, con gli abiti squarciati in
più
punti ma nessuna ferita, nessun alone – era un adulto, lui.
La sua
pelle non impallidiva sotto i colpi, le sue guance non ardevano per
l’imbarazzo, il sangue non mutava il suo flusso. Aveva la
fascia
blu degli Esecutori, lui.
Anche
se era un angelo; anche se avrebbe dovuto essere un semplice Custode,
nemmeno degno di divenire un Vegliante, aveva la fascia blu degli
Esecutori. Degli Arcangeli – dei mediocri, sì, ma
sempre
Arcangeli.
Non
sarebbero stati i
colpi di un cherubino della quinta classe a ferirlo.
Amitiel
avrebbe voluto
spostarsi: alzarsi, o rannicchiarsi su un fianco per non gravare
sulle ali dilaniate, o proteggersi il ventre con le braccia. Sarebbe
bastato anche voltare il capo, per non dover guardare
quell’espressione gelida e le mani sporche di sangue non
loro; o
chiudere gli occhi, ecco, solo chiudere gli occhi.
Ma
non riusciva... non
riusciva più a muoversi.
E
Nelchael torreggiava
su di lei, gelido.
E
Sachiel osservava,
immobile.
E
faceva male, male,
male.
* * *
Non
rimandava bagliori,
la pietra, come un mare blu che inghiottiva la luce fino a sembrare
nero: occhio scuro e opaco che osservava tutto, rialzato di tre
gradini sopra una radura in cui non spirava mai vento – morta
anche
l’aria, morti anche gli alberi immobili. Morta la luce, nella
dominatrice di quei luoghi oscuri in un Paradiso candido.
Vi
era entrata anche lei, una volta, certa di non rimanerne turbata
–
era al ciclo superiore, aveva già visto le ombre. Aveva
calcato i
tre gradini appena un passo dietro Leliel, fiera, pronta a
dimostrarle la propria maturità; e ne era uscita correndo e
piangendo, perché un buio simile non l’aveva
conosciuto mai,
neppure nelle notti senza luna, neppure nell’incontrare i
Caduti –
e quello, oh, quello era stato terribile, un nero agghiacciante che
inghiottiva tutto e faceva tremare di una cosa sconosciuta chiamata
gelo, ma il potere di Leliel era peggio.
Dove
la luce è più
intensa, l’ombra è più profonda.
Ogni
volta il serafino
attendeva un istante, prima di varcare il velo nero e immobile che
celava al Paradiso quell’orrore. Vi si fermava di fronte,
ritta,
quasi a invitarla ad affiancarla; ma lei non poteva, cherubino troppo
fragile e terrorizzato, e Leliel entrava sola.
E
faceva male, sapere
di non essere adeguata. Di non essere abbastanza.
Male,
male, male.
Distolse
gli occhi
dall’ingresso, senza riuscire a guardarlo più a
lungo – troppo
minaccioso e troppo vicino, per lei che era appena discosta dal primo
gradino. Percepiva l’essenza di Leliel estendersi, filtrare
attraverso quel velo nero – unico, sottile punto in cui la
costrizione del tempio fosse meno salda – e cercare la sua,
sfiorarla come a chiamarla a sé, con una fermezza delicata
che non
lasciava scelta.
Ma
no. No, no, non
poteva essere. Era giunta fin lì a quel richiamo e Leliel
avrebbe
varcato il velo per incontrarla, come accadeva sempre: non poteva
chiederle di entrare, sapeva come aveva reagito quando aveva tentato,
sapeva del terrore e delle lacrime e di quanto la facesse star male.
No.
Ti prego, no.
Il
Richiamo si
rafforzò, diventando imperioso.
No.
No no no no ti prego no.
Lo
sguardo si posò di
nuovo sul velo nero, immobile in quell’aria morta.
L’unica,
sottile barriera tra il Paradiso così candido e rassicurante
e le
fauci di un’oscurità pronta a divorarla.
No.
No no no no NO!
Sì.
Raccolse
la tunica con
le mani, perché non strisciasse sulla pietra, e
posò il piede nudo
sul primo gradino.
*
* *
Eisheth
s’intrecciava
i capelli come un ragno avrebbe tessuto la seta tra le zampe sottili:
aveva dita lente, metodiche, che si muovevano con la precisione che
avrebbero dedicato a un impegno vitale. Il viso, non più
incorniciato da una scarmigliata cascata nera, aveva un candore
alabastrino; gli occhi erano due laghi di tenebra, pronti a
inghiottire nelle proprie profondità chi li avesse guardati
troppo a
lungo.
Sapeva
essere oscura,
Eisheth, anche sotto il sole violento della stagione calda.
«Anane
scoprirà
tutto, non appena terminerà di mutare.»
sogghignò, senza
interrompere il movimento calmo delle dita, con il viso rivolto verso
l’alto per guardare il figlio.
Michael
non mutò
espressione.
«Soffrirà
molto,
caro.» rise «Saprà che l’hai
ingannata.»
«Sei
allegra, per
parlare del dolore di tua figlia.»
Il
demone si alzò dal
terreno. La stoffa lacera che l’avvolgeva mormorò
un fruscio
seducente e le mani corsero a lisciarla sui fianchi, abbandonando sul
petto la treccia incompleta. Zampe di ragno che poi risalirono a
sfiorargli il viso, bollenti, le unghie aguzze incrostate di sangue e
sudiciume.
Michael
la guardò un
istante di troppo. I laghi di tenebra lo inghiottirono in un vortice
fangoso di follia e divertimento, e di una dolcezza strana, marcia,
che prometteva solo altra sofferenza. Un brivido gli
attraversò le
ali.
Non
poteva sapere,
allora, che per lungo tempo – secoli, millenni, ere intere
–
sarebbe stato inghiottito uno sguardo altrettanto corrotto,
altrettanto putrido. L’inquietudine feroce che gli sarebbe
strisciata addosso, sotto occhi vacui, con un respiro caldo a
lambirgli l’orecchio in un bisbiglio di morte. Ti
guarderò
contorcerti nell’agonia, amore. La dolcezza con
cui quello
sguardo corrotto avrebbe ripagato un debito di vita e di odio, la
voce appena un soffio divenuto gelido, e il brivido che gli sarebbe
corso lungo la schiena sarebbe stato per l’una e per
l’altra. Oh,
Savsa, vorrei ucciderti con queste mie mani. Ancora
non
poteva saperlo, e perciò non colse alcuna eco del futuro, in
quel
brivido.
Se
anche un semplice
sentore lo avesse raggiunto, avrebbe di certo prestato più
attenzione alla lungimiranza di una madre tanto antica.
«E
se già ne fosse a
conoscenza?» gli mormorò Eisheth a un soffio dalle
labbra
«Dell’inganno. Del tradimento. Di tutto.»
Michael
si scostò da
lei, brusco, e il demone rise ancora.
«Potrebbe
aver
ripagato un inganno con un inganno.»
Non
rispose, ma le
voltò le spalle con una furia più eloquente delle
parole.
Sei
allegra, madre, per parlare del dolore di tuo figlio.
* * *
Il
velo scivolò alle
sue spalle senza alcun suono, divorando qualsiasi scintilla di luce.
Non
vedeva. Non udiva –
perché non c’era nulla che potesse udire, non un
respiro, non un
fruscio. L’essenza dell’insegnante si perdeva
nell’oscurità
troppo fitta. La pietra non aveva temperatura, sotto i suoi piedi
nudi, e quasi faticava a percepirne la consistenza liscia e compatta.
Si
guardò intorno, ma
ancora non riuscì a scorgere nulla, in quel mare nero e
angosciante
che prometteva solo morte.
Era
come essere immersa
nel nulla.
Aveva
il velo a un
passo dietro di sé, Leliel vicina, tutto il Paradiso
distante lo
spessore di una parete; eppure le sembrava, eppure era certa
che avrebbe potuto vagare in quelle tenebre per
l’eternità, senza
riuscire a fuggire. L’avrebbero intrappolata in una morsa
nera e
implacabile, l’avrebbero incatenata alle colonne scure,
l’avrebbero
condannata al nulla e... e chissà cosa avrebbe potuto
nascondersi in
quegli anfratti oscuri, cosa avrebbe potuto strisciare fino a lei,
mostri orrendi e serpi e tentazioni luride, per sporcarla morderla
ucciderla e fare a pezzi il suo corpo e imprigionare la sua essenza
lì per sempre, sempre, persa in un buio che non lasciava
scampo, a
gettarsi contro le pareti senza poterne uscire, e... erano
lì, lì
lì lì! Li sentiva strisciare attorno a lei,
camminarle addosso, la
stavano già toccando, l’avrebbero presa e... e...
«Mi
è sufficiente,
Autorità.»
Il
buio si diradò
all’improvviso: non era più una coltre nera che
ottundeva i sensi,
ma un velo che rendeva ogni cosa grigia, piatta, poco dissimile da
una notte umana.
Leliel
era appena un
paio di passi più avanti, impassibile, le grandi ali distese
e gli
occhi assottigliato in lame chiarissime e calcolatrici. Accanto a
lei, l’uomo che aveva parlato: le ali da serafino altrettanto
distese, il viso conosciuto del responsabile degli Strateghi.
«Molto
ligia.»
concesse questi, senza sorridere «Degna tua allieva,
Autorità.»
Sachiel
capì tutto,
all’improvviso, e fece male. Male e paura.
Perché
aveva dato
prova di essere degna.
Perché
aveva attirato
l’attenzione degli Strateghi.
Capì
e non riuscì a
capire.
Perché
mi fai questo, maestra. Perché m’imponi un futuro
che non voglio.
Perché mi sacrifichi sull’altare della tua gloria,
come se non mi
fosse stata promessa una scelta, come se fossi nulla più che
un
mezzo. Perché. Perché. Perché.
Le
lame chiarissime
dello sguardo di Leliel, però, non diedero risposte.
Nessun
angelo, in
fondo, avrebbe mai dovuto chiedersi perché.
* * *
Si
tastò la gola,
lentamente, cercando tracce dello squarcio che l’aveva
attraversata. Vi avvertiva un lieve formicolio, dove la pelle era
appena più tesa e sottile; niente, in confronto al dolore
che
l’aveva attraversata in precedenza.
«Ferma.»
la ammonì il Guaritore, premendo con più forza
sul ventre nudo, nel
ventre nudo. Ramiel, accanto all’angelo, osservava con
espressione
concentrata e, con le mani avvolte da un velo di fiamme candide,
imitava nell’aria i suoi movimenti – già
non aveva più
necessità di scrivere, per ricordare qualcosa, e poteva
dedicarsi
all’esercizio.
Era
rimasta accanto a
lei per molto, a osservare gli effetti del Fuoco sul suo corpo
ferito, ma non avevano parlato: quelle fiamme annebbiavano i sensi e
la mente, per donare sollievo e riposo – e, si vociferava,
per
impedire che qualche arcangelo troppo zelante tornasse a combattere
senza essersi adeguatamente rigenerato. Solo alla fine era giunto un
Guaritore, a controllare che l’essenza fluisse in modo
corretto.
Non era doloroso, ma nemmeno piacevole: si trattava pur sempre di
un’essenza estranea che invadeva il corpo – rapida,
perché non
si poteva perdere troppo tempo su un inutile cherubino – e lo
forzava a riprendere sensibilità.
Era
un lieve bruciore,
poco più di un formicolio, che si estendeva intorno al tocco
del
Guaritore; avrebbe voluto scacciare la sua mano, ma poteva solo
muoversi un po’, per alleviare quel desiderio.
...non
poteva fare
neppure quello, in realtà.
Il
palmo dell’angelo
scivolò dal ventre verso una coscia, accarezzando la pelle
nuda con
quel tocco bruciante.
«Ferma.»
ripeté, nel
vedere che ancora agitava le mani, prima di tornare a fissare lo
squarcio rimarginato.
Resistette
per qualche
istante, prima di tornare a tastarsi la gola nel tentativo di
distrarsi.
«Ramiel.»
sibilò il
Guaritore, premendo con più decisione.
Lei
si sporse a
trattenerle le braccia lungo i fianchi, con fermezza.
Doveva
essere
particolarmente dotata, se un adulto ricordava – si dava la
pena di
ricordare, ricercandolo nella memoria – il suo nome; e, in
effetti,
lo era.
«Non
ce n’è
bisogno.» mormorò Amitiel, assalita da un
desiderio ancor più
intenso di muoversi.
«Zitta.»
Ricordava
di aver
incontrato Guaritori più accondiscendenti.
Voltò
il capo di lato
e socchiuse gli occhi. Nonostante il Fuoco, si sentiva stanca.
Scorse
il candore degli
abiti che le avevano procurato, ripiegati accanto a lei; e il candore
del pavimento su cui era distesa, e il candore delle pareti, e il
candore dei Fuochi.
Candido.
Tutto
candido.
Ne
sei accecata?
Faceva
male. Male,
male, male.
Nella
testa. Nel petto.
Nel ventre. Ovunque.
Oh,
sì. Ne sei accecata.
Quelle
voci. Quelle
voci estranee che la visitavano nel sonno, quegli stralci di scene
che le apparivano davanti agli occhi, e... e perché.
Perché
dovevano tormentarla. Perché non poteva più
dimenticarli non appena
sveglia. Perché non riusciva a capire.
Perché
continuava a
chiedersi quando fossero accadute, quelle cose che non ricordava.
Dove. Con chi.
Frammenti
che
raccoglieva e non avevano senso, mai, come se le mancasse sempre
qualcosa – e cosa, cosa le mancava?
E
faceva male, male,
male.
Strattonò
i polsi,
tentando di muoversi, ma Ramiel vinse senza fatica la resistenza del
suo corpo immerso nel torpore.
Era
riuscita a non
pensarci, finché c’era stata Anane;
perché c’era sempre stato
qualcos’altro su cui concentrarsi, un dubbio, una
riflessione, un
litigio.
Ma
Anane se n’era
andata – il Paradiso squarciato per un istante e lei che
cadeva,
cadeva, cadeva lontano da un Dio troppo distante, da un Paradiso
troppo freddo e crudele. Cadeva verso una madre che
l’avrebbe
abbracciata e ghignato della sua sofferenza. Cadeva dove lei non
avrebbe potuto raggiungerla, dopo un ultimo saluto tanto gelido da
riempirle gli occhi di lacrime al ricordo.
Le
mancava. Tanto.
E
faceva male, male,
male.
E
c’era Sachiel
sempre più avvelenata dall’invidia, dalla rabbia,
da una brama di
elogi mai soddisfatta. C’era Sachiel che non poteva accettare
che
Leliel la ritenesse seconda a un’altra.
C’era
Cassiel che
sibilava commenti su quanto fosse prevedibile la Caduta di Anane.
C’era
Ramiel che era
divenuta più distante, più fredda, troppo
concentrata sul suo
futuro da Guaritrice – e guardinga, come se temessi sospetti,
accuse, domande su un legame troppo profondo.
E
faceva male, male,
male.
C’erano
Custodi
Guardiani Cherubini tutti che si guardavano attorno
con una
diffidenza nera e opprimente, perché avrebbe potuto esservi
un altro
traditore, tra loro; e perché temevano di essere additati
come tali.
C’erano
Custodi
Guardiani Cherubini tutti che guardavano Ridwan con
una
diffidenza nera e opprimente, perché era stato il maestro
della
traditrice, e chissà cosa le aveva
insegnato, e chissà come
lei lo aveva contaminato.
C’erano
Custodi
Guardiani Cherubini tutti che la
guardavano con una
diffidenza nera e opprimente, perché lei era stata il
cherubino più
vicino ad Anane, l’unica amica, l’unica confidente
– o almeno
così pensavano, anche se in realtà non lo era
stata, una
confidente, o avrebbe saputo tutto molto prima. E forse neppure
amica, o l’avrebbe salutata – per
l’ultima volta? – in un
modo diverso dal gelo e dalla rabbia.
E
faceva male, male,
male.
C’era
Nelchael che
accoglieva il suo desiderio di combattere – ma no, non era
desiderio. Non era nemmeno necessità, o scelta: era un
obbligo
insopprimibile che ribolliva nel sangue e nell’essenza,
spingendola
a lottare, a ferire, a sentire il dolore che colava bollente lungo il
corpo e inghiottiva ogni cosa. Affogare ogni pensiero e ricordo e
voce nel sangue, e andava bene anche il proprio, perché lo
strazio
distraeva, la frenesia del combattimento svuotava di ogni emozione.
Ma
c’erano pensieri e
ricordi e voci che tornavano, non appena la lotta terminava, o il
Fuoco smetteva di annebbiarle la mente.
E
faceva male, male,
male.
Agitò
ancora le mani,
senza riuscire a liberarsi dalla stretta ferrea di Ramiel.
Voleva
muoversi. Voleva
parlare.
Voleva
combattere
ancora.
Voleva
solo non pensare.
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Capitolo 27 *** 26. Legami ***
Capitolo
26 – Legami
«Scegli.
Scegli da che parte stare.»
«Come
posso, se non conosco né voi né loro?»
«Non
dire idiozie.»
«Non
conosco neppure me stessa, lo sai.»
Scegli.
Scegli da che
parte stare.
E
ricorda, bambina:
ricorda ogni cosa.
L’Espiazione.
Il
dolore. La ferocia delle imposizioni, dell’ipocrisia, del
silenzio.
Un
demone che ride e fa
male. Un caduto che fa male e fa male e fa male, e non dà
risposte,
e mette in pericolo, e fa male e fa male e fa male. Chi ti ha
strappato un’amica e confidente e sorella, facendola marcire
in
qualcosa che non hai mai capito.
Ricorda,
bambina.
Pensa. Scegli.
E
chissà chi ti ha
ingannata di più, alla fine.
«Parlami
del prima.
Parlami di
lei.»
«Taci,
Ishild.»
«Se
non ricordo ora, come potrò ricordare in futuro? Quando
cambierà
persino il mio nome?»
Silenzio.
Un ghigno disegnato su labbra pallide.
«...perché
sorridi?»
«Cambiare
nome non è mai stato un problema.»
* * *
La
sorprendeva sempre più spesso a fissare il vuoto.
Dopo
il risveglio, dopo uno scontro con Nelchael, dopo una lezione; o
anche mentre restavano in silenzio, cercando senza neppure
accorgersene il tepore del corpo dell’altra.
Aveva
uno sguardo inquietante, immerso in pensieri che lei non poteva
conoscere, e quando ne riemergeva sembrava sempre un po’
più cupo,
un po’ più smarrito. Era come se ci fossero dei
fili, tra le loro
dita, fili sottili che le legavano con un’intesa insensata e
spontanea – guardarsi, cercarsi, sussurrare –, ma
in quei momenti
si sfaldavano, sfuggendo insieme ad Amitiel verso qualcosa di fosco e
doloroso.
Torna.
Torna da me.
Avrebbe
voluto urlarlo
e scuoterla, aiutarla a ritrovare la via; perché se si fosse
smarrita, smarrita per sempre, avrebbe portato con sé anche
una
parte di lei – di Sachiel. Di un cherubino diffidente e
invidioso e
devoto che in qualche modo si era incastrato con un altro dubbioso e
imperfetto e ribelle, e i fili si erano avvolti attorno a loro,
allacciandole in una stretta che a volte faceva quasi male.
Che
lasciava segni
nella carne, quando la seta sottile vi affondava troppo.
Che
avvelenava con il
terrore di trovarsi di nuovo sola, a tremare di gelo nel tepore del
Paradiso, sotto i candidi sguardi di accusa e giudizio.
Costrizione
invisibile
a cui non sapeva più rinunciare.
Ma
i fili si sfaldavano
tra le dita, con gli occhi di Amitiel fissi nel vuoto, e nel suo
sguardo il terrore pressante di perderla.
Torna.
Torna da me.
Di
nuovo sola contro la
ferocia di Leliel, contro l’ipocrisia che soffocava e feriva,
contro la superiorità schiacciante di Cassiel.
Niente
più sguardi,
niente più carezze o sussurri.
Quando
Amitiel tornava
– quando il suo sguardo si faceva lucido e presente, e sempre
un
po’ più cupo di prima – la stringeva,
come se la seta le stesse
davvero avvinghiando in un unico corpo: inspirava la fragranza dei
suoi capelli, godeva della morbidezza del suo corpo, ne accarezzava
le piume ancora rosse. La completezza la assaliva, sciogliendole
dentro qualcosa che somigliava alle lacrime, e lei sussurrava
ordinava pregava «Non andartene
più.», ma Amitiel non
rispondeva mai.
Un
silenzio che aveva
il sapore amaro delle scuse.
Le
sembrò che Amitiel
muovesse le labbra.
Tornò
a prestare
attenzione al suo profilo, vigile, per cogliere qualsiasi segno di
risveglio; ma gli occhi dell’altra
rimasero fissi nel vuoto,
opachi come quelli di un corpo senza essenza, i capelli neri sciolti
lungo il viso e le mani in grembo, immobili, strette in un groviglio
di dita.
Le
labbra chiare ebbero
un altro fremito.
«Amitiel...»
tentò
di richiamarla, senza ottenere nulla.
E
si mossero ancora, e
ancora; Sachiel si sporse verso di lei, per cogliere quei sussurri
appena percettibili, quasi inesistenti, mentre Amitiel tornava a
muoversi, lentamente, ma con gli occhi sempre fissi nel vuoto. Non si
stava risvegliando, no: era solo un incubo
diverso, che
scivolava attraverso il corpo scosso da fremiti, attraverso le labbra
schiuse.
Le
ali quasi candide di
Sachiel ebbero un tremito.
Erano...
sembravano...
Parole
sconosciute. Il
tono acuto incrinato dalla disperazione, dal pianto imminente.
Domande? Implorazioni?
I-shild.
Ae-nor.
Cantilena
ripetitiva –
sempre gli stessi suoni.
Nomi.
E
scuoteva la testa, e
si artigliava i capelli, e sgranava gli occhi come se vedesse
qualcosa. Insensibile ai suoi richiami, alle mani che si avvicinavano
senza osare sfiorarla, perché era spaventosa, terrificante,
con il
viso distorto e il sangue che le colava dalle labbra morse troppo a
fondo quasi volesse trattenere quelle parole incomprensibili.
Una
ferita,
nell’essenza, divenuta un abisso pronto a inghiottire tutto
– i
fili che le legavano. La lucidità nel suo sguardo. La... la
sottile,
sottilissima barriera che separava un cherubino ribelle
da un
cherubino folle.
E
continuava a
gorgogliare quei suoni sconosciuti, nonostante il sangue che le
invadeva la bocca, con gli occhi sgranati e le dita tra i capelli.
Terrificante.
Se
qualcuno l’avesse
vista, le avesse viste... se... ma doveva chiamare
aiuto, un
adulto che sapesse cosa fare, che le spiegasse il perché di
quella
cantilena che, lo sapeva, le sarebbe risuonata nella mente ancora per
molto troppo tempo come un pensiero ossessivo.
Ishild.
Aenor. I...shild.
La
voce di Amitiel
trasfigurata in qualcosa di sconosciuto e inquietante.
Chiamare...
chiamare
qualcuno. Ma cosa avrebbe pensato, un adulto? Cosa sarebbe accaduto?
Leliel sarebbe venuta a saperlo e non c’era bisogno che
diventasse
ancora più fredda e distante, e forse qualcuno si sarebbe
insospettito, un sospetto, un altro sospetto su di sé, tutti
gli
sguardi a ferirla, non... non era pronta, no, a sostenere il peso
della diffidenza del Paradiso. E Amitiel, Amitiel ne sarebbe rimasta
semplicemente schiacciata, perché su Amitiel la diffidenza
gravava
già, quindi... quindi no, non poteva chiamare nessuno, non
poteva
cercare aiuto, non poteva fare nulla – forse era la prima
volta che
si trovava così, sperduta, senza idee, senza nessuno che le
dicesse
cosa fare, e non le piacque.
Seppe
solo stringerla a
sé, come faceva quando tornava, e
l’altra ebbe un sussulto.
La cantilena si attenuò, diventando solo un mormorio
indistinto, e
infine smise; Amitiel ricambiò la sua stretta. Forte.
Disperata.
Avrebbe
voluto sapere
cosa le stesse succedendo, e poterlo fermare, e farla stare un
po’
meglio. Solo... solo un po’. Solo per togliere dalla sua voce
quella nota vibrante e angosciata, per sciogliere la tensione nel suo
corpo, cancellare le lacrime che le scorrevano lungo le guance.
E
non sapeva perché.
Non sapeva cosa fare.
Si
sentiva tanto
impotente da aver voglia di urlare.
«Scusami.»
mormorò
la più immatura, con la fronte contro l’incavo del
suo collo.
Glielo sporcò del sangue che colava dalle labbra ferite, ma
nessuna
delle due sembrò prestarvi attenzione, anche se tracciava
una scia
umida e tiepida.
«Cosa
è successo,
Amitiel?»
«È
solo... è
difficile.»
«Cos’è
successo?»
Acuta.
Spaventata. Le
braccia strette attorno alla sua vita, tremanti, spasmodiche, non
andare via, oh ti prego non andare via, spiegami
cos’è successo e
non farlo più accadere.
«Non
riesco a
sostenere... tutto questo. Tutto questo... questo...» scosse
la
testa, ancora appoggiata contro di lei «Non ti senti mai
confusa,
Sachiel? Su quello che vuoi fare?»
Confusa.
Confusa...?
Non
capì a cosa si
stesse riferendo. Che cosa dovessero fare, che cosa dovessero
scegliere.
Si
rimaneva lì. Si
obbediva. Ci si sfogava un po’ con l’altra, poi,
affogando in un
abbraccio tutto il disgusto per l’ipocrisia per un Paradiso
marcio,
tutta la rabbia per un’insegnante troppo severa, tutta
l’invidia
per un cherubino geniale.
Che
altro avrebbero
dovuto fare?
Le
ali scosse da un
tremito, ancora.
«Che
cosa stavi
dicendo, Amitiel? Cosa dicevi prima?»
«...nulla.
Sono
solo... cose che mi vengono in mente.»
Con
un brivido inquieto
– quello sguardo vacuo e sgranato e folle, quella cantilena
insensata, i fili sempre più sottili e dolorosi –
preferì non
indagare oltre. Si limitò a stringerla di più,
mossa dall’istinto
di proteggerla da qualcosa che neppure conosceva, solo
perché...
perché era Amitiel, anche se era inquietante e si smarriva,
e
incastrarsi insieme come un unico corpo sembrava farle stare un
po’
meglio entrambe.
Più
distese. Più
complete.
C’era
il terrore di
perderla, c’era quel brivido che scuoteva le ali,
c’erano i fili
stretti tanto da ferire; era... ossessivo, doloroso. Eppure le faceva
stare bene.
Le
fece scorrere una
mano sul capo, cautamente, come a rassicurarla; affondò le
dita nei
capelli e li pettinò piano, sciogliendo nodi inesistenti.
L’altra,
senza motivo
apparente, si irrigidì.
E
i polpastrelli
incontrarono una larga ciocca più corta delle altre, sulla
nuca: le
punte irregolari, come se un artiglio le avesse tranciate malamente,
lasciando appena la lunghezza di un’unghia.
Si
irrigidì anche lei.
«Amitiel...»
sussurrò.
«Lo
so.» un altro
singhiozzo, le mani aggrappate al suo collo «Lo so.»
Quei
capelli non
crescevano più.
E
chissà quanto doveva
essere devastata ed esausta la sua essenza, se nemmeno con il Fuoco
della Guarigione riusciva a riportarli alla lunghezza originaria.
*
* *
«Sei
forse cieca?»
«Sorella...»
«Non
vedi che è folle? Che-»
«Vedo
che tu hai paura, sorella.»
«È
un folle come sua madre!»
«Lui
non è folle. Tu, sorella, sei folle di terrore.»
«Non-»
«Verso
di lui. Ma verso di loro,
soprattutto.»
«...»
«Tu
non vuoi tutto questo, vero? Tu sei diversa da loro. Dagli altri. Da
me.»
«...io
sono solo umana.»
«Eppure
acconsenti.»
«Non
ho altra scelta.»
«C’è
sempre una scelta, sorella. Io ho compiuto la mia.»
Io...
io sono solo umana.
E
tu, bambina? Tu cosa
sei? Tu a chi appartieni?
Un
cherubino. Una
marionetta.
Di
chi, bambina? Chi
stringe i tuoi fili tra le dita?
I
Cherubini non
appartengono a nessuno. Essenze ancora immature, essenze
ancora
incerte – Angeli, Arcangeli, Serafini? Puri, Caduti, Demoni?
Nessuno può esserne certo.
I
Cherubini non appartengono a nessuno.
Oh,
bambina, non
illuderti. Dovrai compiere la tua scelta.
I
Cherubini non appartengono a nessuno.
Presto,
bambina.
Presto.
«...Liwet.»
«Necessiti
di qualcosa?»
«Ti
senti mai fuori posto?»
«Fuori
posto?»
«Nel
luogo sbagliato. Tra le persone sbagliate. Come... come se non
dovessi essere qui.»
«Sarei
morta da tempo, se non fossi qui.»
«Ma
sei felice
tra gli
Sconsacrati, Liwet?»
«Considerato
che servo loro viva,
penso di potermi ritenere soddisfatta.»
Nessuna
ironia, nessuna acredine. Una semplice constatazione.
«Perché
hai scelto i Caduti, Liwet?»
«Non
ho potuto scegliere.»
«...nemmeno
io potrò farlo.»
«No,
nemmeno tu.»
«Vorrei
solo... un’alternativa.»
«Quelle
come noi non ce l’hanno. Ma quelle come noi... quelle come
noi, se
anche ce l’avessero, sceglierebbero questa.»
«Come
puoi esserne certa, Liwet?»
«Perché
non apparteniamo al Paradiso. Perché ci sono altri legami,
più
violenti e più crudeli, che ci strattonano
giù.»
«Lontano
dal calore.»
«Ma
verso la luce, Ishild. Verso qualcosa che non sia cieca e buia
obbedienza.»
* * *
Lilith
rideva, i
capelli – rossi – che le sferzavano il volto,
sospinti da un
vento innaturale. Macchie – rosse – impregnavano la
veste –
rossa – e la facevano aderire alle ferite – rosse
– che
squarciavano la carne invitante. Doveva essersi esaltata
particolarmente, nel combattimento, perché nonostante ci
fosse tutto
quel rosso sembrava quasi di non vederlo, coperto dal bianco e dal
nero – ma nessuno desiderava davvero
indagare su come si
fosse macchiata di nero, e se tutto il rosso che la copriva fosse
davvero suo.
Di
solito erano in due,
a ridere coperte di ferite e di plasma: l’una dalle tinte
sanguigne, l’altra dai colori scuri come le ombre evocate da
un
serafino famoso persino tra i Demoni. Entrambe magnifiche, entrambe
folli.
Ma
rideva solo Lilith,
in quel momento... notte, forse? O dì? Quanto tempo, quanti
giorni,
quanti anni erano trascorsi? Non si sarebbe potuto
dire, con
il cielo oscurato da nuvole rosse e un vento sferzante e bollente
che disperdeva la cenere. La causa di quelle raffiche innaturali,
invece, non sembrava troppo propensa a mostrarsi divertita.
Né
l’arcangelo che
le stava di fronte sembrava troppo propenso a trovare la situazione
divertente.
«Due
Demoni maggiori.»
sibilò Eisheth, sovrastando il figlio con la propria
essenza,
nonostante dovesse alzare il mento per guardarlo in viso «Due
compagne di Samael.»
«Erano
molti.»
«Tanti
che avrebbero
potuto sterminarvi, sì.»
Non
c’era ironia,
nella voce del demone: solo una presa d’atto.
Solo
un rimprovero
feroce.
«Non
potevamo saperlo.
Si stavano celando.»
«E
perché non hai
reagito, dopo averlo scoperto?»
Michael
non osò
allargare le braccia, per mostrarle i numerosi squarci sul busto che
vomitavano sangue nero – sarebbe stato come invitarla a
colpire, e
no, invitare Eisheth a colpire non sarebbe stata una buona idea.
«Ho
reagito.»
si limitò a ribattere.
«Avresti
potuto
reagire meglio.»
«Non...»
Tacquero,
fissandosi,
con il sottinteso che scorreva tra loro come il vento feroce e
bollente che ancora non si placava.
C’erano
argomenti che non
andavano neppure sfiorati, perché erano come lame, tanto sottili e
taglienti da
fendere le dita al minimo tocco; c’erano ricordi, memorie,
attimi
che non avrebbero mai dovuto affiorare alle labbra. Non erano
provocazioni sterili, o ringhi e minacce e litigi che quasi non
intossicavano, e neppure debiti troppo pesanti: erano peggio,
infinitamente peggio, e non andavano mai, mai, mai rievocati.
Erano
veleno. Erano la
lama che avrebbe reciso quel legame sottile e fragile che li univa.
E,
nonostante tutto,
nessuno dei due voleva davvero che accadesse.
Perciò
andava bene
dimenticare un nome antico, un cherubino spaesato raccolto in mezzo
alla devastazione, le fiamme che divoravano tutto e il significato di
quel nome nuovo e pesante. Gli altri no, potevano, dovevano
ricordare la rovina che aveva saputo portare, la cenere, le vampe,
quel potere che quasi eguagliava quello del primo
Michael –
della vera
bestia
di fuoco, che annientava ogni cosa con uno sguardo e un gesto della
mano. Gli altri non dovevano dimenticare perché,
così giovane, si
trovasse già ad obbedire solo a Samyaza, nelle gerarchie
complesse e
immutabili dei Caduti. Ma neppure gli altri, pur ricordando,
avrebbero mai dovuto parlarne in sua presenza.
Il
motivo non lo sapeva
nessuno, o almeno così si mentivano l’un
l’altro; e non si
chiedeva, mai.
Si
ricordava, si
temeva, ma non si nominava.
E
per Eisheth era un
divieto ancor più ferreo. Non importava che senza
l’intervento di
due Demoni maggiori e un numero incalcolabile di minori, lui sarebbe
morto; non importava che, pur di non richiamare il
potere da
cui aveva preso il nome, fosse stato sul punto di sacrificare
sé
stesso e i compagni – e chissà se
l’avrebbe usato, alla fine, o
se si sarebbe lasciato morire.
Non
importava nulla.
Eisheth non doveva nominare, non doveva alludere, non doveva pensare.
Era
uno dei pochi,
taciti accordi su cui si basava il fragile equilibrio del loro
rapporto – della sua mente.
«Oh,
Savsa, non
ti chiami Michael per nulla.»
A
Lilith dovette
sembrare molto divertente, incrinarlo.
*
* *
«Siamo
legate. Non lo avverti anche tu?»
«Siamo
sorelle. Ci lega il sangue.»
«Solo
il sangue?»
«Il
sangue e il destino.»
«Solo
questo, sorella?»
«Taci.»
«Oh,
sorella, lo avverti anche tu.»
Una
copertina lisa,
sotto le dita – ma è solo il retro, non liso
quanto il fronte.
Perché parti dal fondo, bambina?
Carta
sottile; eppure
il taccuino è sorprendentemente spesso, perché
questa carta sottile
è attraversata da fili candidi, e questi fili vi legano
pagine
strappate e coperte di scritte, foglie dalla forma appena irregolare,
tessuto macchiato dal sangue del primo combattimento. Capelli no,
anche se c’hai provato, una volta, e al posto della ciocca ti
è
rimasta in mano cenere; e nemmeno quella piuma che – ricordi?
–
ti è stata strappata durante il primo combattimento, quello
di cui
conservi il sangue con orgoglio, e per la prima volta era una piuma
dal colore vagamente più chiaro, più maturo.
Il
taccuino dei ricordi.
Era la
seconda classe, forse? O ancora la prima? Con Anane che scuoteva la
testa, ma intanto rideva e ti aiutava a cucire lì quei ricordi che temevi di perdere.
Da
dove ti veniva quel
terrore di dimenticare, bambina?
Pagine
e pagine di fiori, semplici fiori che dopo tutto questo tempo
–
tempo? E da quando agli Angeli interessa il tempo? – sono
ancora
prosperi, rigogliosi. Ma no, non sono semplici
fiori:
guarda, uno ha un colore che sembra quasi un giallo molto pallido,
invece del solito candore senza macchia, e... manca un petalo, a
quello? E quell’altro non ha forse una forma un po’
troppo
irregolare, rispetto agli altri?
Collezionavi
rarità. Collezionavi errori.
Lo
ricordi, lo schiaffo
della tua insegnante, quando ha visto quella raccolta? Avrebbe dovuto
spaventarti, trovare una corolla diversa dalle altre, non attirarti
in quel modo, perché era un’incrinatura, una
macchia nella
perfezione del Paradiso. Oh, sì, lo ricordi lo schiaffo. Il
nome
dell’insegnante invece l’hai dimenticato, con la
tua memoria
imperfetta di cherubino, ma sai che non era Sariel, perché
Sariel
era morbida e speciale e forse avrebbe anche sorriso; quindi doveva
essere già alla seconda classe, non alla prima, ti sovviene
ora.
Altre
pagine sfogliate
nel senso sbagliato, e un altro pezzo di tessuto – rosso, del
rosso
della seconda classe, di quelle fasce ancora così infantili.
La tua
prima promozione.
E...
e l’ultima
pagina, alla fine – che in realtà è la
prima. Linee colorate –
il massimo disegno che ti concedano, quando sei un cherubino che deve
studiare e maturare; e, tra quegli schizzi, una scritta.
No.
Una menzogna.
A
e A, amiche per sempre.
Che
promessa sciocca,
sì, bambina? Puerile e falsa.
Non
ti è valsa un
altro schiaffo solo perché l’amicizia è
concessa; ma lo
sguardo limpido e puro di quell’insegnante innominata era
incerto
tra la compassione e il disgusto, e tu l’hai capito, che
quella
scritta non andava bene. Forse, bambina, avresti dovuto seguire il
tacito consiglio di quegli occhi: lascia perdere. Lascia
perdere,
ora che puoi.
Oh,
sì, avresti
davvero dovuto. Ora non puoi più.
Ora
non sai nemmeno se
mai la rivedrai, l’unico angelo che avresti chiamato sorella
sentendo che era vero.
E
i fili vengono
strappati dalla carta, uno a uno. Con rabbia.
E
i ricordi cadono a
terra, uno a uno. Con dolore.
Brava,
bambina:
cancella il passato. Fa’ spazio al futuro, a nuovi occhi, a
nuovi
abbracci.
Scegli,
bambina, scegli chi sarà al tuo fianco per
l’eternità.
«Sorella.
Oh, sorella.»
«Mi
stai facendo paura.»
«Non
dire sciocchezze. Come puoi avere paura di te stessa?»
«Ma-»
«Non
senti come fa male, sorella? Essere così legate, eppure
così
lontane. Senza potersi riunire mai.»
«...lo
sento.»
«Siamo
una in due.»
*
* *
«Amitiel.»
Lei
non rispose nulla,
limitandosi a poggiarle la fronte su una spalla, non appena le si fu
seduta accanto. Sachiel le affondò una mano tra i capelli
sciolti,
accarezzandole la nuca, lieve, là dove c’era
quella ciocca
spaventosa che aveva smesso di crescere. Come a confortarla.
Ma
ad Amitiel ricordò
un altro tocco, e allora si irrigidì, perché era
stato un tocco
morbido e crudele troppo diverso da quello candido di Sachiel
–
anche se a volte la facevano tremare nello stesso modo, di un brivido
profondo, sconosciuto. Erano state carezze confortanti donate da dita
artigliate, macchiate di sangue; dita che l’avevano stretta e
strattonata e ferita. Dita che per la prima volta le avevano fatto
assaporare la dolcezza e – questa no, non per la prima volta,
perché ne aveva già assaporata fin troppa
– la violenza, e... e
le ricordavano qualcosa, qualcosa d’altro.
Qualcosa
di vago,
sepolto nel profondo, indistinto come le voci che al risveglio
sbiadivano piano.
Ma
non aveva forza, o
voglia, di farsi altre domande e confondersi ancora di più.
«Ti
stai perdendo di
nuovo, Amitiel.»
«Me
ne rendo conto.»
«Hai
trovato le tue
risposte?»
Chi.
Dove. Perché.
E
il futuro e il
passato.
Continuava
a perdersi
nei pensieri, in deliri cosparsi di bisbigli e ricordi, e ancora non
capiva – ancora non... non riusciva a valutare. A scegliere.
A
rispondere a una
domanda che neppure aveva il coraggio di porsi.
«Oh,
Sachiel. Sono
così confusa.»
«Non
perderti. Non
perderti più.»
«Non
posso evitare
qualcosa che è dentro di me,
Sachiel.»
«Dentro.»
ripeté, e
fu un sibilo ferito e rabbioso.
Si
scostò da lei e la
fissò con occhi azzurri che, per un attimo orrendo, nella
furia le
parvero grigi; ma no, no, erano azzurri, di un azzurro meraviglioso e
confortante persino quando era intorbidito dall’ira. Sachiel
le
prese il viso tra le mani, stringendolo, lasciando piccoli segni
nella pelle chiara della mascella, obbligandola a non distogliere lo
sguardo; e, per un altro attimo orrendo, quel dolore gliene
ricordò
un altro, più gelido e feroce.
«Dentro.»
ripeté l’altra, ancora.
«Dentro.»
«Ma
cos’hai dentro,
Amitiel?»
Le
unghie scesero lungo
la gola – altro terribile orrendo attimo.
«Carne.
Sangue.»
Le
solcarono le spalle,
scesero a stringere le braccia nude; e nonostante fossero sempre
uguali, nonostante i muscoli non potessero divenire più perfetti
di come si presentavano alla Venuta, la pratica le aveva rese
più
pronte. Non più robuste o potenti, solo più pronte:
in un
istante l’essenza si tramutava in sangue per fornire energia,
in un
istante si tendevano, pronte a subire un colpo o liberarsi da una
stretta violenta.
Si
trattenne.
«Muscoli.»
Le
mani di Sachiel,
pallide, sottili, si serrarono ancor più ferocemente attorno
alla
sua carne.
«Eppure
non c’è
nulla che non vada in loro, sì? Nei tuoi muscoli. Nella tua
carne,
nel tuo sangue.»
E
dalle braccia
scivolarono verso la schiena, come ad abbracciarla, fino a sfiorare
le scapole – le piume alla base, gli squarci umidi di sangue
candido.
«Essenza.»
un
ringhio gutturale, spaventoso «Ferita.
È questo che ti porta
via, Amitiel? È questo che ti fa perdere?»
«...non
lo so.»
Solo
una delle tante
domande a cui non trovava risposta.
E
la più importante,
la più importante rimaneva taciuta.
«Senti,
Amitiel?» le
dita ripercorsero il loro cammino a ritroso, lievi, morbide,
sfiorando le linee bianche che avevano causato «I fili si
stringono.
Fanno male.»
«Perdonami.»
«Non
perderti più,
Amitiel. Non andartene più.»
Aveva
gli occhi torbidi
di furia e di lacrime, e quelle lacrime li rendevano senza dubbio
azzurri, senza dubbio bellissimi. Sarebbe stato meraviglioso poterli
consolare, darle una certezza, ma... ma neppure lei sapeva cosa
stesse accadendo, cosa la strattonasse in un vuoto costellato di
voci, cosa la stesse facendo impazzire.
«Non
sono abbastanza
per trattenerti qui?» sibilò Sachiel, socchiudendo
quegli occhi
tornati familiari e non orrendamente grigi, come se volesse celarne
il bagliore umido.
«Non...»
Scusami,
oh, scusami, scusami, scusami.
«Non
sono abbastanza.
Te ne andrai.»
Era
una certezza, che
si sarebbe persa ancora, ma Sachiel era abbastanza, con quegli occhi
azzurri e il corpo tiepido e la rabbia, l’invidia, la
fragilità.
Era abbastanza, sì, e sarebbe sempre tornata da lei, sempre,
sempre,
anche se...
«Ma
lo sai quanto
farebbe male tornare sola, Amitiel? Lo sai?»
...anche
se il Paradiso
era crudele e di un candore accecante e soffocava i suoi pensieri, le
sue domande, i suoi desideri. Anche se collezionare rarità
era
collezionare errori e lei non se ne sentiva spaventata ma attratta.
Gli
occhi azzurri di
Sachiel erano abbastanza per ripagarlo, sì...?
«Siamo legate.»
sussurrò, tornando a posarle il capo su una spalla
«Siamo legate,
lo sai.»
L’altra
la abbracciò
rapidamente, con violenza, quasi volesse spezzarla. Spezzare quel
cherubino che... chissà cos’era. Cos’era
stato, cosa sarebbe
divenuto.
Chi.
Dove. Perché.
E
il futuro e il
passato.
Chissà
quali fili
l’avrebbero strattonata con più violenza.
Oh,
Sachiel. Sono così confusa.
***
Angolo autrice
Grazie per aver letto, per i preferiti, le ricordate e le
seguite, e come sempre un ringraziamento particolare a chi commenta!
Ho fatto attendere molto per questo capitolo, ma il prossimo
è già pronto - dovevano essere un unico, in
realtà, ma raggiungeva una lunghezza spropositata. Sono in
periodo di esami, quindi difficilmente troverò tempo di
aggiornare la settimana prossima, ma non farò attendere un
mese!
Ricordate la raccolta di ricordi? Compare in - mi pare - il settimo
capitolo, o comunque in uno prima del decimo. Se qualcuno si fosse
chiesto perché Amitiel avesse creato qualcosa di tanto
inutile - e folle, per gli Angeli - qui potrebbe esserci un accenno
alla risposta (:
E... siamo finalmente arrivati alla parte più succosa
=ç=
|
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Capitolo 28 *** 27. Follia ***
Capitolo
27 – Follia
«Perché
non vorresti cadere? Cosa otterresti in Paradiso, oltre a Espiazione
e silenzio?»
Già,
bambina. Cosa otterresti?
Non
essere sciocca. Non dimenticare il dolore, il disgusto, le domande
represse. Non dimenticare com’è, essere
imprigionata in una morsa
di silenzio e vuoto pronta a frantumarti. Non dimenticare gli
sguardi, i sussurri, la falsa purezza.
Vuoi
forse restare qui a morire dentro, istante dopo istante?
Restare
qui con la nausea e le lacrime e risposte mute a quesiti mai posti.
Restare qui con i Censori che fanno impazzire e Leliel che diventa
sempre più crudele, e Ridwan che ha lo sguardo spento, e
Ramiel
avvelenata dai sospetti e dal terrore, e... e
Nelchael che ha l’espressione cupa e le mani crudeli e aiuta
a
distrarsi, Sachiel con l’essenza nera di rabbia e braccia che
stringono per strappare al delirio, quindi forse non è
davvero tutto
così... così...
No!
Non dimenticare, bambina. Non dimenticare com’è
spezzarsi le ali,
nel tentativo di risalire dal baratro di silenzio e obbedienza.
Amitiel
voltò il capo
di lato, lentamente, posando la guancia sul cuscino.
Le
dolevano le ali,
compresse dal corpo disteso supino, e doleva anche
qualcos’altro –
ma cosa? Pulsava piano dentro di lei, tra il petto e gli squarci, ed
era come... come un vuoto. Come se qualcosa le stesse mangiando la
carne e le ossa, silenziosamente, e l’aria spirasse nel suo
corpo
cavo.
No,
non nel corpo. Era
più... intimo. Più profondo.
Una
sensazione, quel
vuoto, che risveglio dopo risveglio stava diventando familiare.
E
non solo dopo il
risveglio, ormai.
...aveva
gli occhi
aperti? Non riuscì a capirlo. Vedere solo bianco, in
Paradiso, non
era garanzia di non vedere la semplice realtà.
Sbatté
le palpebre –
come se le fosse necessario – e il bianco assunse contorni:
la
parete, un letto, una sagoma dagli abiti candidi. Poi vennero i
colori, e distinse Ramiel che la fissava a sua volta: due pietre
verdi e una cascata rossa, di una tonalità calda e infantile.
Ma
Ramiel non aveva i
capelli lunghi.
...l’aria
era
trasparente, senza Presenza, si accorse; eppure lei si era appena
destata.
«Ti
è stato concesso
di riposare più a lungo» la informò la
compagna, con voce neutra
«poiché Nelchael ha ammesso di averti stancata
troppo.»
«Capisco.»
si udì
rispondere, altrettanto neutra.
Così...
vuota. Stanca.
Stordita.
Una
sensazione che
sembrava divenire più intensa a ogni risveglio.
«Ovviamente
dovrai
recuperare le lezioni che non hai seguito.»
Annuì,
sfregando la
guancia contro il cuscino.
«E
tu...?» mormorò,
ancora stordita da quel riposo stancante, dagli
innumerevoli
riposi stancanti che si succedevano, accompagnati
da voci che
al risveglio scolorivano lentamente fino a lasciare solo un ricordo
confuso. Se fosse stata lucida, forse avrebbe stretto le labbra per
impedire alla domanda di affiorare.
Pensieri
repressi, dubbi inghiottiti. E cosa succederà, quando
esploderanno?
«È
stato concesso di
riposare anche a me, poiché il Fuoco non ha avuto il tempo
di agire
completamente.»
«Il...
Fuoco?»
Si
spiegavano i capelli
lunghi, quindi: il Fuoco doveva aver sanato anche
quella
ferita, riportandoli alla lunghezza che avevano
avuto alla
Venuta, quando il sangue scorreva copioso dagli squarci e tutto il
resto era intatto, perfetto, tra lingue rosse che le danzavano
attorno. Probabilmente non aveva ancora trovato il tempo di
tagliarli.
Non
si spiegava, però,
perché Ramiel ne avesse bisogno: le esercitazioni dei
Cherubini non
erano tanto feroci da causare lesioni che non si rimarginassero nel
tempo di qualche lezione – non alla quinta classe, ad ogni
modo.
Più avanti, be’, più avanti non poteva
esserne certa, ma fino a
quel momento nessuna lezione ordinaria aveva causato troppi danni, e
Ramiel non amava combattere, non cercava nessuno con cui scambiare
colpi e ringhi – no, Ramiel no, non aveva bisogno di affogare
il
vuoto e l’ossessione nel proprio sangue.
...e
il ciclo
precedente si era coricata come tutte le altre.
La
compagna, in
risposta, scostò la veste dalle gambe. Su una coscia
spiccava una
lacerazione di un colore innaturale; non si vedeva la carne chiara,
non si vedeva il sangue candido, solo... rosso. Rosso, rosso, rosso,
rosso di un colore che non erano ali infantili, non erano gocce di
sangue umano, non erano nemmeno le tracce atroci che dal corpo
martoriato di un gatto le si erano impresse nella memoria; ma era una
vista altrettanto terribile, che le faceva ribollire d’orrore
qualcosa, dentro, quel poco che di lei era rimasto candido e angelico
e spaventato dalla corruzione. Se fosse stata istruita sui Demoni,
avrebbe riconosciuto il sangue – veleno – che
scorreva in loro.
Nell’ignoranza,
il
suo ventre si limitò a contrarsi per il disgusto.
«Come...?»
«Dai
Guaritori.»
replicò, secca, come se non potesse dire altro – e
probabilmente
non poteva, in effetti.
Non
capì. Non riuscì
neppure a formulare un’ipotesi: perché era
impensabile che un
cherubino si coricasse e, il periodo successivo, stesse seduto sul
letto con quel segno violento sul corpo. Era impensabile che un
cherubino venisse richiamato durante il riposo, a svolgere compiti
che sarebbero dovuti competere solo ai Guaritori più esperti.
Impensabile.
Impossibile.
Poi,
d’un tratto,
Ramiel ricoprì le gambe con la veste e si guardò
attorno: nessuno
nella stanza, nessuno oltre le vetrate. La sua essenza si tese,
espandendosi a cercare altre presenze, dove gli occhi non potevano
giungere ma l’udito poteva ancora captare – dove
parole sbagliate
avrebbero potuto essere colte e riferite. Chiuse gli occhi e
rovesciò
la testa all’indietro, come a voler ingoiare più
aria, ma il suo
torace era già sollevato per un’inspirazione.
Sembrava
solo voler
prendere tempo.
«Amitiel...»
sfiatò
infine, svuotando il petto e incurvando le spalle «Come sono
i
Censori?»
Lei
si sollevò dal
cuscino. Si era aspettata di sentirsi stanca, appesantita da quel
vuoto interiore, ma si mosse facilmente: era come essersi appena
ripresa grazie al Fuoco, con il corpo che rispondeva ai comandi pur
sembrando ancora vagamente intorpidito.
Doveva
essere rimasta
una macchia bianca, dove si erano poggiate le scapole sanguinanti, ma
non abbassò lo sguardo a controllare. Lo tenne su Ramiel,
invece, su
quelle iridi verdi, su quella lunga cascata rossa che emergeva dal
candore e ancora non trovava una spiegazione.
Com’erano
i Censori.
No,
no, non ricordare,
urlava
qualcosa dentro di lei.
Oh,
sì, bambina, ricorda,
bisbigliava qualcos’altro.
Com’erano
i Censori.
Voleva
davvero saperlo,
Ramiel? E lei, lei voleva davvero raccontarlo?
«Perché?»
le uscii
in un mormorio.
L’altra
si irrigidì.
Già.
Perché.
Fu
bello, poterlo
chiedere.
E
fu dolce, pensare che
in fondo stava seguendo il consiglio di Anane – che stava
parlando
con Ramiel. Quasi potesse scusarsi, così. Quasi potesse
colmare il
vuoto, per un istante, invece di occultarlo sotto la
brutalità di un
combattimento o sotto un delirio incomprensibile.
«Cosa
ti fanno?»
chiese ancora Ramiel, tremante, senza rispondere.
Quella
domanda,
inaspettatamente, le procurò un sorriso – no, un
ghigno. Un ghigno
amaro e feroce.
«È
come se ti
entrassero dentro. Nella testa, tra i pensieri. Come se la loro
essenza soggiogasse la tua, e... e non ragioni più. Le
loro...
parole, le loro parole distorcono ogni cosa. Ogni cosa.»
Le
loro menzogne, era
stata sul punto di dire.
È
meglio che veniate divise. Per il vostro bene.
Ed
erano state divise,
alla fine, ma aveva fatto solo male.
Lo
aveva fatto e lo
faceva ancora: tanto, tanto male. Per diciassette interi cicli.
Solo
in quel momento si
accorse di averli contati.
«È
vero che... che
portano alla follia?»
Il
ghigno si sciolse in
una risata bassa, di gola, e poi tornò ad aleggiare come un
sorriso
vago. Il viso s’inclinò leggermente, come a
scrutarla con più
attenzione, e Ramiel... Ramiel, per un istante, sembrò
rabbrividire.
«Chi
è folle,
Ramiel?»
Silenzio.
«Chi
è folle,
Ramiel?»
Silenzio.
«Chi
è folle,
Ramiel?»
Silenzio.
Mani
che passarono
febbrilmente tra i capelli rossi, lunghi – e i suoi, i suoi,
i suoi
non crescevano più. La ciocca
più corta delle altre bruciava
la nuca, là dove si adagiavano le punte irregolari, segno
del vuoto
immondo dentro di lei.
Un
sospiro tremulo,
alla fine, prima della risposta.
«Gli
Sconsacrati.»
No.
Oh, no, non è questa la risposta.
«Chi
è folle,
Ramiel?»
«I
Caduti. I Demoni.»
E
tremare entrambe
dentro, sapendo che erano altre, le parole da bisbigliare.
Forse,
bambina, la tua scelta la stai compiendo ora.
«Chi
è folle,
Ramiel?»
Chi
si chiede. Chi si
domanda.
Chi
non obbedisce.
Chi
precipita in legami
troppo profondi, troppo intensi.
Chi
ama e chi non vuole
fingere quell’amore falso e sbiadito che chiamano compassione.
I
Censori non rendono folli. I Censori puniscono
i folli.
«Chi
è folle,
Ramiel?»
Chi
sente voci, chi non
riesce a riposare, chi ha ricordi e sussurri che ormai si mischiano
anche durante la veglia. Chi non riesce più a distinguere
tra ciò
che è e ciò che... che, chissà, forse
è stato un tempo.
È
solo una parola, la risposta. Solo una parola. Ma cosa trattiene dal
pronunciarla? Paura, forse? Negazione? Eppure è tutto qui,
sotto gli
occhi. Sulle labbra.
Parla,
bambina.
«I
Censori, Ramiel,
non possono renderci più folli di quanto già non
siamo.»
Nessuna
risposta.
E
tremare entrambe
dentro, ancora, sapendo che era vero.
«Siamo
noi i folli,
Ramiel.»
Lo
vedi che lo sai, bambina?
Lo
vedi che lo sai, folle?
*
* *
Era
stato un attimo. Solo un istante in cui il vuoto era divenuto
chiarezza; in cui la sua mente, galleggiando nel nulla, era stata
libera.
Niente catene, niente
terrori, niente echi di insegnamenti che erano come litanie ripetute
troppo a lungo. Solo chiarezza – e luce, quella vera.
Aveva
pensato.
E
aveva compreso.
Libera.
O
forse, chissà, stava
solo affondando tra catene diverse.
Era
folle.
Era
folle perché
sognava, perché si affezionava, perché i legami
corrodevano la
candida essenza degli Angeli; perché il ricordo degli occhi
del
Custode appannati dal dolore continuava a tormentarla, e
così un
gatto seviziato da innocenti Umani, e
così le voci, e così
ricordi non suoi.
Era
folle e andava
bene.
Il
nodo della fascia si
stava allentando. Un lembo della maglia iniziava a sfuggirvi: lo
sentiva adagiarsi contro la pelle del fianco, nell’aria ferma
–
sempre che si potesse chiamare maglia qualcosa che
le lasciava
scoperte le spalle e le scapole, coprendo solo il seno e la parte
inferiore del busto. C’erano altri, lì attorno,
che portavano
maglie vere, di fattura simile a quella umana;
altri che già
potevano ritirare le ali e indossare abiti diversi, certamente
più
comodi e pratici di qualcosa che cadeva a terra non appena un laccio
si spezzava.
...la
lucidità
svaniva, lentamente, inghiottita da pensieri inutili e superflui.
Si
morse il labbro
inferiore.
Erano
tutti immobili,
lì: due schiere opposte, con le ali ripiegate sulla schiena,
le
spalle dritte, il viso impassibile. Immobili i Cherubini, immobili
gli insegnanti – o almeno presumeva che fossero insegnanti,
anche
se erano tanti, anche se non li aveva mai visti, anche se avevano
quasi tutti fasce nere. Qualcuna verde, altre viola. Guardiani,
Guaritori, Esecutori spirituali. Possibile che non avesse mai
incontrato che una manciata di tutti quegli insegnanti? Forse
venivano da altre Circoscrizioni.
Erano
di fronte, erano
ai lati; dietro no, perché non c’era bisogno di
far sentire i
Cherubini circondati. Perché, per quanto l’aria
fosse immobile e
il silenzio carico di incertezza, nessuno sarebbe scappato.
Nessuno.
Erano
tutti sani, lì,
erano tutti puri, candidi, nessuno si chiedeva, si domandava, nessuno
intesseva legami, nessuno forzava i tempi. Nessuno si sarebbe mosso,
nessuno avrebbe rifiutato quell’attesa sfibrante, nessuno
avrebbe
detto no. Voglio sapere. Adesso. Voglio sapere. Adesso.
Ditemi che
succede.
No,
nessuno, perché
erano tutti sani, lì.
Perché
tutti avrebbero
atteso.
In
silenzio.
Immobili.
Il
nodo della fascia si
stava allentando.
Piegò
leggermente i
gomiti, ruotò di poco le spalle e abbassò il capo
– ma non
abbastanza da non poter gettare occhiate fugaci attorno a sé.
C’erano
tre file di
Cherubini dietro di lei, altre due davanti, una larga striscia di
terreno vuoto; oltre il terreno vuoto, fasce nere. Tante. Schierate.
E dietro, dietro le fasce nere... dietro le fasce nere c’era
qualcosa, ma non riusciva ad afferrarne la presenza, come se le
sfuggisse, come se vi fosse un velo – il
Velo – a
confonderne i contorni – riflesso distorto e increspato.
Sciolse
del tutto il
nodo, con dita lente e meticolose, con movimenti discreti in mezzo
all’immobilità.
C’era
Raphael,
accanto a lei, con la fascia del suo stesso colore ma le ali
già un
po’ più chiare.
E
più oltre, dove si
raggruppavano i più maturi, Cassiel – da quando
era alla settima
classe?
Un
cherubino con cui
aveva studiato durante il primo periodo dopo la Venuta, un altro che
si era trovata accanto sul Mediano – no, dimensione umana,
perché
Mediano lo usavano solo gli Sconsacrati, le aveva detto Ramiel. Sul
Mediano, si ripeté, perché era più
conciso e più comodo e perché
le faceva scorrere un brivido di colpevole piacere lungo la schiena,
scacciando almeno un po’ il vuoto.
C’era
un’allieva
con cui Anane aveva litigato furiosamente, una volta.
Un’altra con
cui lei aveva condiviso terza e quarta classe, con capelli che
sembravano bianchi e occhi di un grigio che pareva liquido.
C’erano
Cherubini con
cui aveva parlato, altri solo intravisti lungo i viali dello
Specchio, altri mai visti; ma le sembrava di conoscere tutti,
perché
erano tutti uguali, tutti con le spalle dritte, tutti con lo sguardo
limpido e nessun vuoto dentro.
Tutti
in silenzio.
Tutti
immobili.
Tutti
sani.
Annodò
nuovamente la
fascia, assicurandosi che trattenesse il tessuto della maglia.
Non
si era mai accorta
di quanto fossero tutti... pallidi. Con le labbra chiare, la pelle
chiara, le unghie chiare. A volte avevano capelli bruni, occhi dalle
sfumature buie; ma il corpo, il corpo era chiaro, chiarissimo, e non
solo il cherubino bianco e grigio, ma persino quelli che aveva sempre
reputato scuri. Ce n’era uno, davanti a
lei, che appena
creata doveva aver visto per una manciata di lezioni, e
un’altra
che una volta le aveva riportato un taccuino dimenticato
sull’erba,
e un’altra ancora che era la più scura di tutti,
con la pelle di
una sfumatura più calda degli altri, più...
più ambrata, le
sovvenne, ricordando le pietre che aveva visto nel Mediano –
Mediano, Mediano, Mediano, brividi di piacere colpevole che
scorrevano lungo la schiena. Quei cherubini potevano essere reputati
scuri, tra tutti gli altri chiarissimi e limpidi, ma
non
avevano nulla del nero che tingeva la pelle di alcuni Umani.
Erano
tutti pallidi, ma
non del pallore un po’ grigiastro che aveva Michael, non di
quello
alabastrino di Eisheth – anche se Eisheth, a volte, sembrava
un po’
più rosea. Quando il suo sangue rosso scorreva con
più vigore,
forse.
Ecco,
dovevano essere
pallidi per il sangue bianco, loro, anche quelli con una sfumatura
più calda. Ma perché non l’aveva mai
notato?
Oh,
bambina, sono gli Umani a guardare con gli occhi. Gli Angeli guardano
con l’essenza; insegnare a distinguere con lo sguardo farebbe
nascere troppa attenzione per l’apparenza.
Non
l’hai mai notato, bambina, perché non ti
è mai stato insegnato.
Eppure
lo notava, in
quel momento.
E
ricordava.
Una
mano rosea. Segni
rossi sul braccio.
Due
palpebre chiuse,
linee azzurre che s’intravedevano sotto la pelle diafana,
un... un
respiro, un respiro rapido e pesante e necessario.
Mani
che scorrevano tra
i capelli e incontravano ostacoli ruvidi, spiacevoli.
Labbra
pallide di un
pallore quasi livido, labbra come petali schiusi e scarlatti.
Immagini
che si
affacciavano rapide alla mente, alla memoria: un istante solo e poi
di nuovo inghiottite dal nulla.
Ricordava.
Dove.
Quando.
Ricordava
e non sapeva.
La
lucidità tornò a
farsi strada, lentamente, sgretolando piano muri di imposizioni e
convinzioni.
Si
raddrizzò
nuovamente, le mani incrociate sul ventre, i gomiti stretti.
In
silenzio, come
tutti.
Immobile,
come tutti.
Sana,
come tutti.
Sana.
...eppure
voleva
guardarsi attorno. Eppure trovava quell’attesa irritante
– da
quanto si protraeva? Le sembrava fosse passata un’intera
esistenza,
da quando li avevano fatti disporre in quello spiazzo immenso, con
gli adulti silenziosi ad attenderli per schierarsi attorno a loro, ma
solo su tre lati, perché farli sentire osservati andava
bene, ma
circondati no. Perché dovevano decidere da soli, di non
fuggire da
quell’attesa piena di incertezza.
Non
aiutava, no, essere
lontani da ciò che avevano sempre conosciuto: dagli alberi
sulle
pendici di un monte, dai viali lastricati di bianco, dagli edifici
imponenti. Lontani dallo Specchio – tanto lontani che non
avvertiva
più le essenze immature che si muovevano tra i viali, tra le
correnti d’aria.
Non
avvertiva più
Sachiel, né Ramiel, né... no, Anane non
avrebbe potuto
avvertirla comunque.
E
chissà cosa ci
facevano, lì, Cherubini di classi diverse – mai
sotto la quinta,
però, e mai del ciclo superiore. Cherubini dalle fasce di
vari
colori, Cherubini dalle ali che perdevano lentamente la tinta
sanguigna – ma il sangue era bianco, non rosso. Vi aveva
associato
un aggettivo strano, un aggettivo sbagliato.
E
chissà cosa ci
facevano, lì, Guardiani e Guaritori, Esecutori spirituali
e... e
c’era qualcos’altro. C’era
qualcos’altro, percepiva il Velo
che lo celava, ma non riusciva a capire.
Forse
era l’unica
tanto folle da domandarsi cosa fosse occultato e perché,
perché,
perché. Avrebbe voluto urlarlo, quel
perché, ora che si
sentiva di nuovo lucida e in grado di pensare.
Ma
rimase in silenzio.
Immobile.
Attese,
perché non
aveva altra scelta, ma pensò.
Si
chiese.
Odiò
chi la faceva
annegare nell’incertezza.
E
cosa, dove, perché.
Che
ci faccio qui. Devo
saperlo. Voglio saperlo.
E
chi, dove,
perché.
Non
devi saperlo, bambina. Non ti è concesso.
Non
devo.
Voglio.
Devi
tacere, bambina. Con le labbra e con la mente.
Devo.
Non
voglio.
Oh,
bambina, sei così folle.
E
sai chi è folle, bambina?
|
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Capitolo 29 *** 28. Non voglio ***
Capitolo
28 – Non voglio
Devo.
Non
voglio.
Un
grande onore, aveva detto l’Autorità
– Leliel, Leliel
maestra gelida e crudele, Leliel signora della notte e del buio.
Leliel con un’allieva accanto che sembrava non esistere,
offuscata
dalla grandezza dell’insegnante.
Siatene
degni, li aveva ammoniti poi, con gli occhi come lame
d’acqua
gelida, con le ali da serafino gloriose che ricordavano chi fosse, e
quanto potente, e quanto fosse raro che concedesse la propria
presenza ai Cherubini. Un grande onore, un grande impegno.
Un’attitudine particolare che li aveva condotti sin
lì, e che
avrebbe dovuto guidarli ancora, al ciclo superiore e allo Sviluppo e
sempre; a cui avrebbero dovuto appellarsi in quel momento,
perché un
grande onore era duro, era difficile, ma loro avrebbero saputo
portare a termine quel compito.
No,
c’erano dubbi che lo avrebbero portato a termine:
perché
l’Autorità stava dedicando il suo tempo a loro, e
quindi dovevano
essere dotati, dovevano essere importanti
– e, oh, cosa poteva operare la sensazione nuova e inebriante
di
valere qualcosa, in
infanti sempre anonimi in una marea di altri uguali?
Perché
il Paradiso non
li avrebbe mai abbandonati, affidando loro un compito che non fosse
adatto alle capacità di un cherubino.
Perché
erano ordini – e gli
ordini, semplicemente, si portavano a termine.
Un
grande onore. Siatene degni, Cherubini.
Siete
speciali,
sembrava sussurrare
alle loro menti affamate di approvazione.
Siete
speciali. Siete migliori.
Dimostratemelo.
Devo.
Non
voglio.
Per
un istante aveva
ceduto anche Amitiel all’incanto di quelle parole: la lusinga
di
essere riconosciuta, finalmente, di ricevere un elogio, di godere di
attenzione. L’aveva inebriata ed era stato dolce quanto una
carezza; ma... ma lei l’aveva già provata, quella
sensazione, e
non le avevano lasciato buoni ricordi né le carezze
né le parole.
Un altro l’aveva già avvinta, incantata, sedotta:
si era già
lasciata modellare sotto occhi che erano come lame gelide, ma grigie,
acciaio e non acqua, e ancora esplodevano rabbia e disgusto al
ricordo di ciò che era accaduto. Di quanto le avevano fatto
male
quelle dita gelide e artigliate che le avevano solcato la pelle; di
quanto le aveva fatto male guardare un Custode morire e Anane
uccidere e i Censori che le erano entrati nella testa, nella mente.
C’era
qualcun altro che la faceva sentire indispensabile, ora, ma in un
modo che non era buio e non era spaventoso, e la differenza tra
Sachiel e Michael, tra Sachiel e Leliel, l’aveva fatta
tremare:
perché in quel momento non le si chiedeva semplicemente di esserci,
di non sparire, ma... ma qualcosa che si prometteva terribile e duro
e agghiacciante.
Devo.
Non
voglio.
Leliel
si era ritirata
in disparte ad osservarli, portando con sé lo spettro di
un’allieva
impassibile e lasciando un brivido d’inquietudine lungo la
schiena
– ad Amitiel, almeno. Curiosa, fremente ma inquieta, con il
ricordo
atroce di ciò che era successo, di ciò che aveva
visto, di ciò che
la strappava alla realtà per affogarla in memorie di sangue.
La
luce impaziente negli occhi degli altri, invece, le era sembrato solo
esaltata, mentre si
protendevano verso i Guardiani, attendendo che spiegassero e
ordinassero. Volevano che il Velo fosse dissolto, che la prova fosse
rivelata; volevano dimostrarsi degni.
Forse
loro non si
curavano di quanto quel compito ignoto avrebbe potuto essere
difficile, doloroso, nauseante.
Forse
loro non
imploravano di avere scelta.
Devo.
Non
voglio.
Ma
non era stata l’unica ad urlare, quando il Velo si era
dissolto,
permettendo di percepire ciò che ancora i Guardiani celavano
alla
vista: erano state tante le voci a levarsi, acute, terrorizzate
–
infanti che imploravano protezione contro quelle cose
terrificanti e sconosciute.
Eppure
nessuno aveva
tentato di allontanarsi, anche se c’era il cielo a invitare
alla
fuga, anche se gli adulti non li avevano circondati.
Siete
speciali. Dimostratevi degni di meritare altra attenzione, altre
lusinghe, altre carezze.
Il
sottinteso aleggiava
tra loro, silenzioso e inesorabile; e loro non erano che infanti a
cui per la prima volta veniva concesso di avere valore, infanti che
agognavano ancora quella sensazione inebriante, seducente.
Avevano
urlato e pianto
e implorato di portare via quelle cose, ma erano
rimasti tutti
lì, obbedienti.
Siete
in Paradiso,
avevano ricordato i
Guardiani, gli insegnanti. Non avete di che
temere, qui.
Era
stato ordinato di
calmarsi e si erano calmati, lentamente: erano tornati a fissare
davanti a sé e a tentare di trattenere le lacrime, i
tremiti, il
panico.
Erano
arrivati gli
ordini, poi, e altre urla e altro terrore.
Eppure
avevano
obbedito, tutti, perché erano ordini e perché
loro erano importanti
e migliori e speciali e dovevano dimostrarlo.
Tutti.
Tutti?
Devo.
Non
voglio.
Aveva
creduto di
conoscere i Demoni, Amitiel, perché dopo aver incontrato
Eisheth
cosa poteva esserci di peggio? E c’era stato anche
quell’altro
demone, quello che si era gettato sul Custode, quello che aveva gli
occhi folli e il sangue rosso che colava dalla carne squarciata, e...
e quindi lei conosceva i Demoni, al contrario di tutti i suoi
compagni, non era così?
Aveva
creduto, prima di
urlare così tanto da trovarsi con la gola dolorante e i
polmoni
vuoti.
Aveva
incontrato
Eisheth, sì, ma Eisheth doveva essere un demone minore,
perché non aveva avuto tutto quel potere tremendo e corrotto
che si
raccoglieva attorno a sé; e i ricordi confusi che conservava
del
secondo demone, fantoccio sacrificato da Eisheth senza esitazione,
non erano nulla di simile – ma forse non erano davvero
ricordi,
solo resti, briciole, frammenti di qualcosa che la sua mente si era
rifiutata di assimilare per intero.
Erano
sbagliati.
Contrari all’ordine delle cose, disturbanti, corrotti
– ma
Eisheth non era stata così, e neppure Michael o Liwet o gli
altri
Sconsacrati, perché altrimenti non si sarebbe mai fidata di
loro,
non avrebbe mai permesso che la sfiorassero e mai, mai, mai avrebbe
lasciato che quelle essenze tossiche le si avvicinassero.
Se
la sentiva dentro, la consapevolezza che fossero un errore, se la
sentiva nelle ossa, nella testa: presenze che premevano rabbiose alle
tempie – uno stridio ancor più violento di quello
degli Angeli
nella dimensione umana – e calore, calore che la raggiungeva
anche
se le loro essenze erano trattenute da quelle dei Guardiani, calore
che le strisciava addosso e le bruciava la pelle, le divorava gli
squarci alla schiena. Faceva... faceva male, ma era
un dolore
che veniva da dentro, dall’intimo, perché forse
lei era corrotta,
sì, ma non così tanto.
Lei
era ancora limpida, pura:
aveva l’essenza mutevole dei Cherubini e labbra che avevano
appena
appreso a mentire. Non era opprimente, spaventosa, sbagliata
come i Demoni che avvertiva. L’orrore
la colmava e la faceva piangere e urlare ma singhiozzare no,
perché
singhiozzare era umano, era sbagliato, e lei aveva appena scoperto
che le cose sbagliate facevano paura.
Aveva
ascoltato gli
ordini, poi, e sapeva che obbedire agli ordini era una cosa giusta;
ma aveva scoperto – ricordato –
che anche le cose giuste
potevano fare paura, a volte.
Devo.
Non
voglio.
* * *
Ci
sono due parole, due parole che riecheggiano continuamente nella sua
mente.
Contro
un destino che non ha scelto, contro un’eternità
che l’attende
colma di tenebre.
Contro
chi le dice che è per il suo bene, che capirà,
che ricorderà, che
deve fidarsi, che... che... troppe parole.
Contro
chi le ordina di non pensare, e contro chi le ordina di farlo mai poi
sceglie al posto suo.
Ci
sono due parole, due parole che riecheggiano continuamente nella sua
mente, e che dalla sua mente non escono mai.
*
* *
«Hai
tentato di
discendere nella dimensione umana.»
Le
parole di Leliel la
raggiunsero anche oltre le grida e i pianti. C’era qualcuno
– una
voce maschile, roca – che supplicava no,
o qualcosa del
genere, e altre che si levavano in esclamazioni di dolore; ma Sachiel
non si voltò, continuando a dare le spalle ai Cherubini per
guardare
in viso l’insegnante.
O
per non guardare
loro, più probabilmente, come invece faceva Leliel; per non
dover
scorgere anche Amitiel e magari vederla piangere, urlare, ritrarsi
spaventata. Quanto poteva essere terrorizzante un demone, per
Cherubini ancora troppo immaturi? Presenze corrotte e bollenti che li
sfioravano, li lambivano, prostrate dal Paradiso ma ancora brucianti;
lo stridio di essenze nel luogo sbagliato e sangue corrosivo e
l’aspetto mostruoso di quando perdevano il controllo e... e
c’era
Amitiel, lì in mezzo. Amitiel.
Nessuna
voce bestiale,
raschiante, ma grida acute di Cherubini, strazianti e straziate.
Si
era sistemata in
modo da non guardare; non c’era modo di non sentire, anche?
«Non
sapevo fosse
stato proibito. Ho desistito non appena informata dai
Guardiani.»
«Desideravi
esercitarti con le Percezioni, sì?»
«Esatto.
Come mi
avevi...» un grido più violento degli altri la
fece interrompere
«suggerito.»
Ordinato,
fu sul punto
di dire, perché i consigli di Leliel stavano diventando
sempre più
simili a gelide imposizioni – o forse erano sempre stati
così e
lei non l’aveva mai realizzato, non aveva mai avuto desiderio
di
avere più tempo a disposizione, non si era mai sentita
ferita da
quella freddezza. Non che l’avesse reputata freddezza, prima
di
scoprire quanto fosse piacevole ricevere una carezza e un abbraccio,
invece di uno sguardo senza emozione.
Stavano
cambiando molte
cose.
«Le
tue Percezioni
sono ancora problematiche?»
«...a
volte.»
«Darò
ordine che un
arcangelo ti accompagni, affinché ti sia permesso di
discendere.»
«Ti
ringrazio.»
Un
arcangelo.
Il
passaggio verso la
dimensione umana era sempre stato libero, per il ciclo superiore
–
libero e solitario e... e sicuro, ma quello sembrava non esserlo
più.
Non era normale che gli Arcangeli impedissero ai
Cherubini di
discendere; che dovessero accompagnarli e vigilare su di loro, mentre
nella dimensione umana vi erano sempre stati Guardiani sufficienti
perché gli allievi potessero considerarsi protetti. Stavano
diminuendo i Guardiani, forse? O stavano aumentando i pericoli da cui
difendersi?
Un
altro grido, più
intenso, più acuto. Lungo. Lacerante. La voce di... di
Cassiel.
Quanto
sapeva far male,
il sangue di demone. Quanto poteva far urlare e piangere anche il
più
orgoglioso degli Angeli.
Non
era normale
che quel sangue venisse a contatto con dei Cherubini. Non erano
normali i Demoni lì nella dimensione sbagliata, non era
normale il
ciclo inferiore che sembrava all’improvviso impazzito. La
settima
classe che scompariva dal Paradiso sempre più spesso, la
quinta –
e la quarta, la quarta! – che
già discendeva nella
dimensione umana, quelle inferiori che sembravano assottigliare
sempre di più i propri numeri, insegnanti troppo occupati
per badare
ai propri allievi, esercitazioni folli.
Sì,
stavano cambiando
davvero molte cose.
«Sfrutta
questa
opportunità, cherubino. Non ti rimangono molte occasioni di
migliorare.»
Sachiel
si morse il
labbro inferiore, ma Leliel continuò a fissare i Cherubini
– e
Amitiel, Amitiel tra quelle urla e quei pianti, Amitiel in
quell’inferno –, senza
rimproverarla per quel gesto. Senza
mostrarsi interessata a ciò che le aveva appena detto, ai
dubbi che
poteva causarle, a lei. Cassiel, tra gli infanti
che
conoscevano per la prima volta il sangue di demone, doveva essere
più
rilevante dell’allieva che le era affidata personalmente.
«Ho...
ho raggiunto il
mio limite, maestra?»
«No.»
E
Leliel spostò lo
sguardo su di lei, finalmente: chiarissimo e fermo e illuminato da un
bagliore che forse era incoraggiamento, forse ammonimento, forse
–
solo forse, meraviglioso forse – orgoglio.
«Ma
hai quasi
raggiunto lo Sviluppo, Sachiel. Dovrai essere pronta.»
«Lo
sarò, maestra.»
«Vi
confido.»
Il
serafino tornò a
rivolgere la propria attenzione agli altri Cherubini, ma lei non
udiva più le urla, non percepiva più il calore
crescente di sangue
corrotto ed essenza dispersa: c’era un turbino tiepido e
luminoso
nel suo ventre, una gioia che le esplodeva dentro senza limiti. Era
giunto il momento, quindi, e c’era stato un bagliore nello
sguardo
di Leliel, un confido che sarai pronta, un... un
riconoscimento che era capace, era brava, era degna. Avrebbe cessato
di essere inferiore in quanto cherubino, cessato di doversi curare
febbrilmente dei sussurri, delle aspettative, di un ruolo troppo
pesante; perché in fondo la gloria poteva lasciarla
interamente a
Cassiel, se poteva ricevere comunque quel segno di – solo
forse,
altro meraviglioso forse – affetto, se
poteva godere
comunque dell’approvazione di Leliel che la scaldava dentro.
Ritirarsi tra gli Esecutori come Leliel le aveva promesso tempo prima
– prima di metterla alla prova, prima di farla entrare nel
proprio
tempio, prima di... di farla inquietare e urlare in silenzio
–
perché forse, forse, terzo meraviglioso forse, Leliel
sarebbe stata
abbastanza fiera da prendere in considerazione il suo parere. Tutti
gli Angeli potevano scegliere quale fascia indossare, in fondo,
avrebbe dovuto solo... solo imporsi un
po’, anche se imporsi
su Leliel sembrava un’impresa impossibile, ma Leliel era
orgogliosa
e forse forse meraviglioso forse le voleva anche un po’ bene,
e
quindi... quindi poteva farcela. Ritirarsi tra gli Esecutori, non
sentirsi schiacciata da responsabilità troppo pesanti, non
doversi
curare di troppi sguardi su di sé. Trovare tempo per
sé e per
Amitiel e magari anche per parlare ancora, a volte, con
quell’insegnante che le aveva concesso un bagliore nel
proprio
sguardo. Dimenticare che Leliel, per un po’,
l’aveva spinta verso
qualcosa di troppo grande e complesso e pericoloso – e che
aveva
preferito Cassiel, e che era stata gelida, e... e tutto il resto.
Sentirsi
bene,
semplicemente; sentirsi serena e luminosa come in quel momento.
«Sarò
pronta,
maestra.» confermò ancora, sorridendo –
e le urla alle sue spalle
non erano che un brusio trascurabile.
«Lo
spero davvero,
Sachiel. Già un mio allievo si è dimostrato
incapace di
sopravvivere, tra gli Strateghi; sarebbe spiacevole che
l’errore si
ripetesse una seconda volta.»
Smise
di sorridere.
* * *
E
le urla, alla fine, quelle due parole. Le urla alla persona
sbagliata, e la persona sbagliata non è quella che
può ferirla, che
può punirla, che può rendere tutto più
difficile; non è quella da
cui dipende tutto e che comunque non potrebbe impedire nulla, anche
se lo volesse. Ma non lo vuole, lei lo sa: ha gli occhi troppo pazzi,
quella donna, troppo illuminati di una luce sbagliata, per capire
quanto possa essere difficile vivere per prepararsi morire. Morire
per prepararsi a vivere.
Quella
donna non capisce, non ricorda, ma non è lei la persona
sbagliata.
Forse non è neppure quella da cui dipende tutto, in effetti,
perché
ci sono gerarchie complesse di cui intuisce appena le linee, e ci
sono altri, altri ancora, e... e nessuno di loro è la
persona
sbagliata a cui urlare le due parole proibite.
Gli
occhi azzurri di sua sorella hanno la stessa luce sbagliata della
donna da cui forse dipende tutto, ma c’è
un’ombra sul fondo,
un’ombra che somiglia al grigio ferroso di un altro sguardo;
non
l’esitazione, l’incertezza che sarebbe umano
provare.
Ha
sperato, ha pregato, ma quell’ombra non se
n’è andata, e nemmeno
la luce; quando la condanna esce dalle labbra morbide e rosee di sua
sorella, infine, capisce che ormai l’altra è una
di loro.
«Codarda.»
È
la persona che può ucciderla dentro, quella sbagliata.
È
guardarsi allo specchio e scoprirsi mostruosa.
*
* *
Devo.
Non
voglio.
Avevano
essenze
represse dagli Esecutori, arti immobilizzati, corpi che non potevano
reagire. Dita che a volte sembravano allungarsi in artigli per un
istante, nell’agonia; schiene inarcate, pelle tesa sopra ali
che
premevano per formarsi. Bocche spalancate come baratri di zanne e di
rosso, urla che non varcavano le labbra livide – silenzio
innaturale e assordante, perché le loro parole non potessero
giungere ai Cherubini. Avevano sangue che colava dalle membra
squarciate, dai segni di un combattimento feroce: flutti rossi
vomitati dalla carne, vivi, violenti. Il Velo aleggiava ancora su di
loro, offuscandoli all’udito, ma un aroma aspro si spandeva
nell’aria – prepotente, rabbioso, scivolava denso
sulla lingua
anche senza respirare.
Avevano
occhi lucidi,
presenti, animati da una furia bestiale. Occhi d’incubo.
Devo.
Non
voglio.
Avevano
carne bollente,
sotto le sue dita. Pelle coriacea su cui si spezzava le unghie,
sangue che le apriva squarci sulle dita sottili, sui palmi morbidi.
Si sentiva piangere e urlare e sentiva anche gli altri, vedeva anche
gli altri, ritrarsi e poi tornare perché erano ordini, e
seguire gli
ordini era giusto, era il loro dovere, era ciò che avrebbero
dovuto
volere. O forse non avrebbero dovuto volere niente,
ma
semplicemente eseguire? Non riusciva a ricordarlo. C’era solo
quel
dolore bruciante, atroce, che risaliva dalle dita ferite e la
scuoteva in tutto il corpo, fiamme che la divoravano da dentro,
sangue corrotto che la infettava – e ora avrebbe potuto
capire come
Ramiel si fosse procurata quella lacerazione agghiacciante, ma il
dolore inghiottiva anche i pensieri.
Continuate,
li incoraggiavano gli adulti. Obbedite.
Davano istruzioni, correggevano, ordinavano. Non spiegavano
perché,
ma assicuravano che sarebbe servito, che avrebbero capito, che... che
sarebbero stati premiati, se fossero stati forti. Obbedienti.
Marionette.
Non
c’era onore, in
quel massacro. Solo orrore. Solo una luce affamata e sbagliata negli
occhi dei Cherubini – e continuavano, loro. Gridavano e
piangevano
e supplicavano, ma obbedivano.
Obbediva
anche lei,
perché erano gli ordini e non seguire gli ordini faceva
paura, anche
se sentiva il malessere montarle dentro e la testa scoppiare di
parole represse.
Obbedite,
ripetevano ancora coloro che avrebbero dovuto proteggerli, a cui
avevano sempre guardato come una difesa. Obbedite.
Siate
degni di questo onore. Obbedite. È il vostro dovere.
Chissà
se c’era
Sachiel, ancora, ad osservare senza fare nulla; l’aveva
sempre
fatto, quando lei si scontrava con Nelchael, ma era... era diverso.
Più terribile e feroce e brutale. Perché non
veniva da lei, invece
di starsene lontana, immobile, con quell’espressione
distaccata che
assumeva sempre – lasciandola sola come aveva fatto Anane e
come in
fondo avevano fatto tutti, senza mai ascoltarla davvero, senza mai
concederle attenzione e carezze, senza mai proporle una scelta.
L’una
a urlare e piangere, l’altra accanto ad un serafino gelido
che la
avvelenava d’insicurezza; divise dal Paradiso, divise dai
propri
doveri assurdi e crudeli.
Chissà
se c’era
anche Nelchael, tra quelle voci salmodianti – Nelchael che le
aveva
insegnato come evitare un colpo senza sbilanciarsi. Come affondare il
colpo sino ad avvertire le ossa, sotto, che opponevano una resistenza
troppo solida per il suo corpo infantile. Come infliggere un dolore
più crudele, come ignorare i lamenti del proprio corpo, come
affogare i pensieri nel sangue.
Ma
infierire su un
demone, aveva capito subito, non aveva nulla della violenza
inebriante della lotta contro Nelchael: non la pacificava, non
zittiva le voci, ma le aumentava a dismisura fino a minacciarle di
farle scoppiare il capo.
E
Anane, Anane era
diventata un orrore simile. Cosa avrebbe fatto, se l’avesse
incontrata? Se avessero dovuto scontrarsi, in un punto
dell’eternità
che si dispiegava davanti a loro?
Devo.
Non
voglio.
Obbedite,
continuavano le voci – non all’unisono, ma sussurri
all’orecchio,
nell’affiancarsi ad un cherubino dopo l’altro.
Sottili, discrete,
eppure udibili nonostante i pianti e le urla. Servite
il
Paradiso. Dimostratevi degni. Impegnatevi, offritevi. Rispondete al
dovere.
Salmodia
dal suono familiare, litania ripetuta da sempre, dal primo istante,
dal primo movimento incerto delle ali; richiamava qualcosa dentro,
imponeva devozione, prometteva il conforto dell’abitudine.
Obbedite, obbedite, obbedite. È il
vostro dovere.
Ma altro la strattonava in direzione opposta, altro si ribellava,
altro le urlava la mostruosità di tutto quello.
Chi
sei.
Chi
ti hanno insegnato
ad essere.
Cosa
vuoi davvero,
sotto gli strati di imposizioni e paure che ti si sono sedimentate
dentro, parola dopo parola, punizione dopo punizione.
Altro
le faceva male
dentro, più a fondo del fuoco che la divorava,
più intensamente del
sangue che la infettava. Strappata dentro, lacerata, lasciata
impazzire al suono di mille voci e ricordi diversi che si
sovrapponevano nella sua mente già folle. Sussurri e occhi e
parole
e orrori, orrori che le erano rimasti dentro pronti a riemergere, e
c’era dolore dipinto sulle sue palpebre – sprazzi
rossi e neri e
candidi di un candore accecante. Inondata, sommersa da qualcosa che
la affogava senza lasciarsi cogliere, mentre sangue terribile la
scuoteva di dolore in tutto il corpo e anche più a fondo,
dentro,
tentando di strapparle le parole proibite dalle labbra.
Obbedite,
obbedite, obbedite. È il vostro dovere.
Devo.
Non
voglio.
E
si fermò, infine,
interrompendo quell’esercitazione crudele.
Non
fu l’abbraccio
confortante di Sachiel o il calore promesso dal Paradiso, ad
accoglierla, ma terra – terra corrosa dal sangue, terra
dall’aroma
aspro, terra bagnata di sangue che le consumò la carne
infantile.
Terra che impattò contro il suo corpo inerte, senza un
gemito dalle
labbra morse a fondo, senza più lacrime a invaderle gli
occhi.
Lo
sguardo senza luce e
senza ombra, vacuo, vuoto. Spento.
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Capitolo 30 *** 29. Ciò che è successo ***
Note
iniziali:
chiedo scusa per il
ritardo. Sto avendo problemi
con il pc e davvero troppi impegni nella vita quotidiana.
Più volte ho promesso a me stessa e ai lettori di finire
questa storia e
ho intenzione di mantenere la parola; ho solo bisogno di tempo. Grazie
a chi ancora mi segue e con il suo supporto mi
dà la forza di scrivere.
Ricordate
dov’eravamo rimasti?
Vari
Cherubini riuniti lontani dallo Specchio, di fronte ad una schiera di
Arcangeli – e dietro gli Arcangeli, qualcosa.
Devo.
Non voglio.
Amitiel che lotta contro l’orrore e il dovere.
Leliel
annuncia a Sachiel l’imminente Sviluppo. Stupore.
Aspettativa. Ansia. I Cherubini che, sotto ai loro occhi, obbediscono a
ordini atroci.
Demoni,
quel qualcosa
dietro gli Arcangeli: Demoni indeboliti e mostruosi, Demoni da
combattere, Demoni di cui versare il sangue – e grida e
piangere e
non potersi sottrarre a quell’esercitazione crudele. Devo.
Non voglio. Parole
proibite, ritornello che scandisce urla e ricordi. Follia che avanza.
Stanchezza. Orrore. Tutto diventa troppo.
E
si fermò, infine, interrompendo
quell’esercitazione crudele.
Non
fu l’abbraccio confortante di Sachiel o il calore promesso
dal
Paradiso, ad accoglierla, ma terra – terra corrosa dal
sangue,
terra dall’aroma aspro, terra bagnata di sangue che le
consumò la
carne infantile. Terra che impattò contro il suo corpo
inerte, senza
un gemito dalle labbra morse a fondo, senza più lacrime a
invaderle
gli occhi.
Lo
sguardo senza luce e senza ombra, vacuo, vuoto. Spento.
Capitolo
29 – Ciò che è successo
Raggi tiepidi sulla pelle, del tepore rosso del tramonto.
Ciocche
bionde tinte di bagliori sanguigni e un profilo nero contro la luce,
ciglia sottili socchiuse, labbra rosee distese in un sorriso.
Il
corpo dell’altra contro il proprio la scalda più
del sole.
Panico.
Terrore.
Calore,
un calore che
la opprimeva, un calore che era ovunque, attorno e su di lei e
dentro, a squarciarla e dilaniarla con artigli
invisibili.
È
l’ultima notte.
L’ultima
in cui potranno restare insieme, abbracciate, respirando il profumo
dell’altra.
L’ultima
in cui assaporeranno il tepore del sonno e la sete che asciuga la
gola e la fame che stringe lo stomaco.
L’ultima
in cui lei
avvertirà
il sangue rimescolarsi nella brama di chi non potrà mai
avere.
Sarà
proibito anche desiderare, dopo.
Non
c’erano più
Cherubini con la carne corrosa e Demoni con i segni di un
combattimento feroce e urla, strepiti, pianti, sangue vomitato dalle
ferite, adulti che ordinavano e incoraggiavano, il cielo che invitava
alla fuga.
C’era...
rosso. E
bianco.
E
dolore, dolore,
dolore.
Saranno
proibite così tante cose, dopo, che non
riesce a contarle.
Il
sole, le ombre, il tramonto.
Il
sangue che scalda da dentro.
I
dubbi, le domande, le incertezze.
Teme
quasi di provare nostalgia, per un istante; ma, si costringe a dirsi,
non si può provare nostalgia per ciò che non si
ricorda.
Nebbia,
foschia,
turbini di rosso e di bianco che si scontravano e respingevano e
devastavano a vicenda, squarciandosi, sciogliendosi, e lei non
riusciva a capire niente, niente, avvertiva solo quel calore
bruciante tutto attorno, oppressione atroce che non le dava tregua
–
o forse sì, forse c’erano istanti in cui un guizzo
candido
giungeva a sfiorarla e mitigava l’agonia, ma erano troppo
troppo
brevi e a lei non restava che urlare senza voce e agitarsi senza
corpo, cercando un sollievo che non arrivava mai. Rosso, bianco,
dolore. Sollievo. Bianco, rosso, dolore. Le esplodevano colori sulle
palpebre incorporee e non capiva, non capiva nulla, c’era
solo quel
dolore assurdo che era simile a... a... a qualcosa.
A
tante cose.
Ricordi.
«Il
sole muore, sorella.»
«Moriremo
anche noi, finalmente.»
*
* *
Cedimento.
Essenza
fuori
controllo. Ferita.
Non
c’è da
stupirsene, dopo ciò che ha passato con Da- sssh.
Troppi
stimoli.
Brava,
Sachiel, te ne
sei accorta in tempo. Ottimo lavoro.
Plasmata
una seconda
volta.
Non
la stancare troppo,
Ramiel.
Riposo,
cautela.
Nelchael,
non farla
combattere. Volare sì, ecco, falla volare – con
prudenza.
Prendere
familiarità
con il nuovo involucro.
Sei
tornata lucida,
Amitiel? Sì, sì, lo so, è fastidioso.
Migliorerà con un po’ di
pazienza, non preoccuparti, cara.
Le
sentiva ancora nella
testa, quelle voci. Riviveva ancora quella scena. La Guaritrice che
spiegava e rassicurava, la sua insegnante che le accarezzava i
capelli, lo sguardo serio di Nelchael, Sachiel un po’
discosta con
le labbra morse a sangue e gli occhi sgranati. I loro sussurri. I
loro sospiri.
E...
e altre, altre
voci, ma non voleva perdersi – non in
quel momento. Non
ancora. Aveva bisogno di lucidità per capire, per
riflettere, perché
la Guaritrice aveva spiegato e rassicurato ma non aveva risposto.
Perché.
Troppi
stimoli, troppa
tensione, l’essenza che era quasi esplosa
fuori dal corpo
pur di sfuggire a tutto quello – ma solo per trovarsi in una
situazione peggiore, nuda, esposta, senza un involucro a trattenerla
e a proteggerla almeno un po’. Sachiel che l’aveva
avvolta e
difesa fino a quando gli adulti non erano riusciti a isolarla, a
stringerla tra dita incorporee per far agire i Guaritori.
Un
nuovo corpo,
identico al precedente – ancora poco familiare, ancora poco
connesso all’essenza, sì, ma ancora
non era per sempre,
doveva solo portare un po’ di pazienza. Era sempre lei,
sempre la
stessa, anche se quell’involucro non aveva assaggiato ferite
e
carezze, l’Espiazione, le dita gelide di un caduto, il sangue
ustionante di un demone. La stessa essenza in un corpo diverso.
Ma
quello, ancora, non
spiegava perché.
Dolore
alle tempie,
stridii che la aggredivano non appena tentava di estendere le
Percezioni; ali tremanti, squarci che vomitavano sangue senza tregua,
membra lente e intorpidite. Problemi comuni, diceva la Guaritrice,
non preoccuparti, cara: l’essenza non si
lega subito
all’involucro, ma con un po’ di pazienza
tornerà tutto normale.
È per quello che è accaduto, diceva senza
spiegare.
Perché.
Perché
era accaduto.
Perché era dovuto accadere.
Perché
la sua essenza
si era trovata oppressa da tutta quella tensione, perché
c’era
stato tutto quell’orrore, i Demoni e il sangue e
l’ordine di
aggredire quei corpi che non potevano difendersi – per
prendere
confidenza, per abituarsi da subito al dolore, dicevano, ma ancora,
ancora non rispondevano.
Perché
perché perché.
Erano
Cherubini,
Cherubini del ciclo inferiore, Cherubini con ali rosse e squarci
sanguinanti, Cherubini che avrebbero dovuto conoscere solo la luce e
il tepore del Paradiso; e non era normale, ciò che avevano
dovuto
fare – l’aveva letto nello sguardo scosso di
Sachiel, nel
turbamento che Nelchael e Ramiel avevano nascosto a fatica, nella
dolcezza eccessiva della Guaritrice. Non era normale.
Perché
Cherubini tanto
immaturi dovessero già abituarsi ai Demoni, però,
nessuno l’aveva
spiegato.
Perché.
Perché perché
perché.
E
nessuno che
rispondesse a quella domanda silenziosa.
Perché
perché perché.
E
un fremito, la
sensazione di aver perso qualcosa, di non averlo colto in tempo. Le
voci che la spingevano a perdersi e lei che diceva no, no,
voglio
restare lucida. Non riuscire a capire. Dopo ciò
che aveva
passato con... con. Ciò che aveva passato.
Cos’aveva passato?
Cos’altro? Non era sufficiente
l’orrore di
quell’esercitazione?
Ciò
che aveva passato
con... con... con Da.
«Cosa
mi faranno, se lo scopriranno?»
«Oh,
bambina, non vuoi davvero saperlo.»
«A...
Amitiel.»
Da?
Da.
Con
Da.
Ma
cos’era a
toccarla, in quel momento? Cos’era a scuoterla, tentando di
richiamare la sua attenzione? Non vedevano forse che lei era occupata
a trovare le sue risposte?
«Hai
gli occhi troppo pensierosi, bambina. Sta’ attenta, se non
vuoi che
te li strappino.»
«Non
riuscivo a
trovarti. È... è più difficile ora,
sai? Sei sfuggente.»
Da.
Da. Da.
Aveva
mal di testa –
forse doveva smettere di pensarci? Chiudere gli occhi e riposare,
come le aveva detto la Guaritrice, perché si sentiva esausta
e
provata per ciò che era successo. Successo con Da
– no, con i
Demoni. Era normale che avesse tentato di fuggire a quel dolore, non
c’era nulla di che preoccuparsi, tutto regolare, cara, non
preoccuparti, riposa, svuota la mente, vedrai che andrà
tutto bene,
è normale ciò che è successo, a volte
accade, non... non...
Non
era accaduto a
nessun altro. Per quanto orrore avessero provato gli altri, a loro
non era accaduto.
Ma
perché c’era
quella luce accecante, ora, a ferire il nulla in cui si era
rifugiata? Perché volevano distrarla a tutti i costi dalle
sue
riflessioni?
La
sensazione vaga di
capelli estranei a sfiorarle il viso – ma il profumo era
identico a
quello degli oli che usava lei. Eppure non conosceva nessun altro che
scegliesse sempre quelle fragranze, e perché uno sconosciuto
avrebbe
dovuto venire a disturbarla? Non vedevano che era impegnata?
«Al
Fuoco avevi ancora il suo odore addosso, bambina. Davvero una
puttana.»
«Non
so di cosa-»
«Ti
è piaciuto sentire il suo sapore sulla lingua,
bambina?»
«Amitiel,
non... non
perderti, non adesso, non...»
Agli
altri non era
successo, no, di trovarsi con l’essenza dilaniata e un corpo
dissolto in cenere.
Ma
per lei era normale,
dopo ciò che era accaduto con Da, giusto?
Le
erano accadute così
tante cose, così tante cose che non avrebbero dovuto
accaderle, così
tante cose che gli altri non potevano neppure concepire...
così
tante cose.
E
ricordava, con la sua
memoria imperfetta di cherubino, senza riuscire a capire quale
delle tante cose avesse spinto la sua essenza a distaccarsi
dal
corpo. Così tante cose. Così tante cose.
C’erano
le voci, e le
voci non erano forse un motivo sufficiente ad impazzire? E i Demoni.
Eisheth – risate acute, ghigni crudeli, dita bollenti ad
accarezzarla. Le mani gelide di Michael che la ferivano. Gli occhi
gelidi di Michael. La voce gelida di Michael. Anane, Anane respinta,
Anane odiata, Anane che forse non avrebbe rivisto mai più e
l’ultimo
ricordo sarebbe stato quella rabbia. Il gatto, sì, anche
tutto il
rosso malato che aveva coperto quel gatto, anche quello era un motivo
sufficiente ad impazzire. Gli occhi terrorizzati del Custode e la
cenere portata via dal vento. L’impotenza che la schiacciava,
nel
non poter fermare l’orrore, nel non poter gridare quel no.
Il
profumo si fece più
intenso.
«Oh,
bambina, cos’è quest’espressione? Vuoi
forse dirmi che non ti è
piaciuto?»
«Non
so di-»
«Sempre
così ipocriti, voi Umani. Il vostro senso di colpa
è semplicemente
disgustoso.»
«Amitiel,
non...
perché piangi? Cosa succede?»
Il
dolore. Il disgusto.
Le menzogne.
I
Censori.
Quello
che era successo
con Da.
I
Censori che le erano
entrati nella testa, nella mente. Quelle parole che l’avevano
fatta
sentire così sbagliata e impotente e sporca e... quelle
parole che
si rifiutava di ricordare, perché facevano male, male, male,
più
male di Nelchael che le stringeva il polso, più male del
sangue dei
Demoni, più male delle dita di Michael, male, male, male
– quelle
parole che erano finite all’improvviso e... e non ricordava.
Il
male era rimasto, ma c’era silenzio e bianco e male, male,
male, e
poi la stretta di Nelchael l’aveva abbandonata e non aveva
sentito
più niente, solo bianco e male, bianco e male, bianco e
male, e... e
poi la stretta di Nelchael era tornata ad ancorarla alla
realtà e...
e quello che era successo con Da.
Da.
Da. Da.
I
Censori che avevano
sussurrato direttamente alla sua mente – ma era stato solo
uno, non
tanti, solo un Censore, un Censore e le sue parole nella testa, ma
no, no, non ricordare, fa troppo male, non ricordare.
Lei così
piccola e insignificante e debole e quelle parole nella testa.
Quello
che era successo
con Da.
Quelle
parole nella
testa, quelle parole nella testa che non erano le voci, non erano
quei pensieri sibilanti che la chiamavano bambina,
erano...
erano... erano dolore puro sciolto dentro di lei a corroderla, male,
male, male, stupido insignificante cherubino che non poteva nemmeno
difendersi da qualche parola. Dopo era giunto il desiderio di
prendere una decisione, la determinazione velenosa nel rifiutare
Anane, la sua scelta giusta che aveva occhi azzurri
e dita
gentili; ma quel male, quel male le era rimasto dentro e... e le
sembrava quasi che le avesse dato la forza per
tutto quello,
la volontà di riscattarsi e non essere più
così piccola stolta
insignificante e male, male, male, errori su errori e...
Tepore,
tutt’attorno
a lei, e quel profumo sempre più stordente.
«Le
mie... le mie scelte non sono affar tuo.»
«Pensi
davvero di aver scelto qualcosa, bambina? Tu, nulla più di
carne e
istinti?»
«Amitiel,
non... resta
qui, non... non... oh, maledizione, perché piangi?»
Ciò
che era successo
con Da.
Da.
Da. Da.
Male,
male, male, quel
dolore folle che si rifiutava di ricordare.
I
Censori.
Ciò
che era successo
con Da.
Da.
Da. Da.
Daniel.
«Lo
ricordi, bambina, il suo sapore sulla lingua? Ricordi il suo
odore?»
«...aveva
le labbra rosse.»
E
c’era Sachiel,
all’improvviso, in quella luce accecante che aveva squarciato
il
nulla. Il suo viso che si stagliava contro i colori vividi degli
alberi, la sua voce che sovrastava il mormorio del ruscello. Capelli
biondi che le sfioravano il viso, braccia magre a premerla contro un
corpo tiepido, occhi azzurri liquidi di panico. Labbra chiarissime
schiuse in un richiamo. Profumo intenso e dolce, lo stesso che amava
lei – ma Sachiel non aveva mai usato gli oli, prima di quel
momento.
E
all’improvviso
c’erano singhiozzi che le squassavano il petto, mentre
l’altra
ammutoliva – singhiozzi sbagliati, singhiozzi troppo umani,
eppure
Sachiel non se ne andava, non criticava, non la guardava disgustata,
solo... solo la stringeva e sembrava sollevata e felice e grata che
fosse tornata lucida. Era lì, rimaneva lì, per
lei, a stringerla
mentre si sentiva così persa e impotente, così
oppressa dal dolore
che le era rimasto dentro – i Censori, quello che era
successo con
Daniel, quello che era successo con Daniel, cos’era successo?
Faceva ancora male. Non poteva smettere di pensare
all’impotenza
sotto gli occhi di Michael, l’odio, la voglia di fare una
scelta,
Anane che l’aveva abbandonata, un taccuino riempito di
memorie e di
errori, la rabbia, le risposte mai giunte, le domande inghiottite, il
silenzio, le voci, i ricordi, male, male, male, voleva solo... solo
dimenticare tutto quello, per un attimo, ma quel male non glielo
permetteva, era lì nella sua testa, nella sua mente, a
confonderla e
stordirla e...
E
Sachiel, Sachiel era
lì con lei, e lei non era più sola rannicchiata a
terra, ma stretta
contro il suo corpo tiepido. Sachiel era lì per lei, non la
abbandonava, Sachiel la pregava con gli occhi di non perdersi
più –
con le labbra no, perché le labbra chiarissime erano
silenti,
tremanti, incerte tra una smorfia e un sorriso. Sachiel era
lì, la
sua scelta giusta, e riusciva a farla sentire un po’ meglio
–
perché per Sachiel era importante, non un cherubino stupido
insignificante impotente lercio, e... e Sachiel era importante, per
lei. Quando era diventato tanto fondamentale, ricevere un suo
abbraccio per potersi sentire meglio?
«...aveva
le labbra rosse.»
Sachiel
aveva gli occhi
azzurri che la fissavano come se fosse la persona più
importante del
Paradiso, del Mediano, degli Inferi; occhi azzurri intorbiditi da un
sollievo violento e feroce. Aveva le labbra chiare socchiuse a
metà
tra una smorfia e un sorriso. Aveva le braccia a stringerla e un
corpo tiepido, morbido, contro cui era piacevole rifugiarsi.
Sachiel
aveva la sua
devozione molto più del Paradiso, perché la
faceva sentire
fondamentale e amata senza obbligarla a nulla. Perché la
lasciava
scegliere, perché non fuggiva spaventata davanti ai suoi
occhi
pensierosi, perché non l’accusava di follia quando
si perdeva tra
le voci e le domande. Perché era lì,
lì, lì per lei, lì con lei,
e il male un po’ era scomparso.
Sachiel
aveva occhi
azzurri che la imploravano di non perdersi e un corpo che era rifugio
contro i mostri nella sua testa, e labbra chiarissime sospese
nell’incertezza.
«...aveva
le labbra rosse.»
«Lo
ricordi, bambina, il suo sapore sulla lingua?»
Un
bacio.
No,
un addio.
Sachiel
aveva occhi
azzurri sgranati e torbidi e un corpo tremante, e labbra chiarissime
e morbide, mentre lei ne assaggiava il sapore.
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Capitolo 31 *** 30. Silenzi ***
Note iniziali: per l'ennesima volta, chiedo scusa. È passato molto tempo e sono successe molte cose, ma spero che ci sia ancora qualcuno che si ricordi di me, tra chi prima seguiva la storia. Altre note in fondo al capitolo, ora vi lascio al riassunto dei capitoli precedenti per riprendere un po’ le fila della trama.
Ricordate dov’eravamo rimasti?
Avvenimenti spiacevoli nella dimensione umana – Michael amabile come sempre, Eishet sempre più sana e adorabile, un angelo che ha visto troppo ed è stato ucciso da Anane. Di conseguenza, chi ha assistito – Anane, Amitiel, Sachiel e Cassiel – viene sottoposto ad un’amabile chiacchierata con i Censori, per chiarire gli avvenimenti.
Anane si sviluppata e, divenuta un angelo adulto, cade. Sachiel entra in competizione con Cassiel per le attenzioni di Leliel, sempre più distante e più dura con le sue allieve; ha anche scontri con Amitiel, prima di trovare un punto di incontro e approfondire un legame strano. Nelchael, il maestro di Amitiel, non sembra contento di questo avvicinamento – così come non è contento del trattamento riservato ai Cherubini, forzati a crescere troppo in fretta, sino a doversi scontrare con dei Demoni. Durante lo scontro, Amitiel perde conoscenza e al risveglio si scopre smarrita e confusa, annaspante tra ricordi incomprensibili e sentimenti che spaventano Sachiel. E poi accade l’errore.
Sachiel aveva occhi azzurri sgranati e torbidi e un corpo tremante, e labbra chiarissime e morbide, mentre lei ne assaggiava il sapore.
Capitolo 30 – Silenzi
Erano silenzi di seta, quelli che scivolavano nel fiume. Sgusciavano nel flusso di un respiro inutile e le si adagiavano lievi sulle labbra; ma i flutti candidi glieli portavano via in un gorgoglio, scorrendo lenti attorno a lei, mentre le dita sfioravano quella carne chiara macchiata dal peccato. L’acqua le entrava dentro, la avvertiva scorrerle in gola e riempirle le sacche nel petto – polmoni, le chiamavano, e una volta Anane le aveva detto che era stupido, perché polmoni erano quelli degli Umani. Avrebbe potuto fare a meno di quelle sacche, loro, come di tanti altri muscoli e tessuti e organi; ma cosa sarebbe rimasto, senza quelle inutilità? Cavità spalancate sul nulla, silenzi sterili ad aderire alle ossa. Corpi di carne e di vuoto.
C’erano così tante cose insensate, in loro, e così tante cose importanti che non potevano avere.
Le dita le premettero di più sulle labbra, quasi a zittire la voce – perché, avrebbe potuto essere la parola proibita. Voglio. Penso. Sono. O seta, anche, perché nessuno le aveva mai spiegato cosa fosse e non le era permesso conoscerla, non ancora; anche se ricordava un fruscio lieve sulla pelle e tessuto che le scivolava addosso in una stanza buia – e non ricordava quando o come, ma sussurrava seta e c’era il fruscio nella sua mente, c’era il buio davanti ai suoi occhi. O un nome, innumerevoli nomi che avrebbe dovuto solo cancellare e che venivano ridotti a quel silenzio di seta.
Sarebbe stato così sbagliato, se le sue dita si fossero premute su altre labbra?
Così tante cose importanti e proibite. Così tante cose che erano più importanti della luce e del calore e degli organi a riempire spazi sterili, e verso cui non potevano volgere gli occhi e i pensieri.
Era vietato anche desiderare.
Abbandonò la testa sul fondo, dove i suoi capelli si agitavano, nastri neri intrecciati dai flutti, mossi come lingue di fuoco o di serpi. Parole proibite ancora sulle labbra, strappate dalla corrente prima di trovare voce; carne morbida e umida che si stringeva attorno alle sue dita, e il richiamo violento e nebbioso di qualcosa, qualcosa, qualcosa che...
Carne morbida e umida che si stringeva attorno alle sue dita.
Le labbra che suggevano i polpastrelli, lente, quasi senza avvedersene.
Calore. Respiro.
La memoria del corpo.
Fantasmi che la prendevano per mano, impalpabili, guidandola verso l’ora più gelida e calda.
Ma i flutti candidi le strappavano pensieri emozioni ricordi e restava solo quel richiamo violento e nebbioso, indistinguibile, lontano. Passato.
E la seta le scivolava addosso ancora una volta, impalpabile. Sulle membra e sul seno e sulle labbra, a sussurrare i suoi silenzi.
«Il Confine...»
La voce le giunse attutita, tra i flutti che danzavano attorno a lei: nulla più che un gorgoglio tra i fruscii muti della seta.
Sollevò il busto di scatto, con i capelli a coprirle la carne nuda e le labbra ancora socchiuse, le ali grondanti, le sacche nel petto che si contraevano per espellere l’acqua. Ne sentì i fiotti risalirle la gola e colarle dalla bocca lungo il mento, ma non ci fece caso: c’era altro a cui pensare.
Aria. Sabbia. Suoni.
Un cielo azzurro che si mostrava, non più offuscato dai flutti candidi del fiume.
Un cielo azzurro che si rifletteva in occhi puri e corrotti – e distanti, anche. Puri corrotti distanti vuoti.
«È proibito venire qui, Amitiel.»
«Lo so.»
Avrebbe voluto urlare piangere stringerla, peccare ancora, imprimersi sul corpo ogni istante; ma Sachiel le sarebbe sfuggita tra le dita come sabbia, come acqua, come seta. Non l’avrebbe appagata, fuggendo il silenzio, lasciandole il suo sapore dolce sulle labbra e il desiderio di assaggiarla ancora – ma avrebbe potuto davvero appagare quella fame di lei, in fondo? E loro non sapevano neppure cosa fosse la fame, la sete, l’istinto vorace del corpo, eppure... eppure quella era fame, quella era sete, quello era un obbligo. Sfiorarle le labbra con le proprie e sentirsi una in due, per un istante, come a guardarsi allo specchio e congiungere le dita a quelle del riflesso. Non era possibile saziarsi di quella sensazione, ma solo anelarne ancora e ancora, bisogno vorace e violento.
Le ricordava, le labbra di Sachiel e il loro sapore e quegli occhi azzurri terrorizzati.
Era stato sbagliato.
Era stato meraviglioso.
Distese le ali, lentamente, sentendole pesanti per l’acqua e per la stanchezza – non era riuscita a riprendere totalmente il controllo, ancora, come se la sua essenza logora non avesse la forza di legarsi al nuovo involucro.
«Non credevo saresti venuta a cercarmi.» mormorò, cauta. Quanto sarebbe bastato, perché Sachiel si spaventasse di nuovo? Perché le sfuggisse e... e la paura che non tornasse. Il terrore di rimanere sola, ancora, sola come prima, sola come era sempre stata senza neppure rendersene conto. Se la sentiva ancora addosso, quell’angoscia nera e vischiosa di un istante – o di un’esistenza? Il Confine toglieva al tempo il suo significato, fluendo lento e immutabile nel suo ciclo continuo.
«Il Confine è proibito, Amitiel.» ripeté Sachiel. Se ne stava lì in piedi sulla riva, rigida, come manovrata da dita estranee; gli occhi azzurri puri e corrotti non la guardavano, ma fissavano il nulla, persi, quasi opachi. Era stata lei a togliere loro la luce? Eppure lei aveva solo voluto... solo voluto sentirsi una in due, per il tempo di un respiro condiviso.
«Lo so.»
«Il Confine è essenza liquida, sapevi? Sempre la stessa essenza, da quando è stato creato. È senza tempo. È...» la voce le mancò per un istante, prima di tornare a sussurrare atona «È un confine. Il confine. L’attimo del cambiamento, cristallizzato in eterno.»
«Sachiel...»
«Si dice che abbia... proprietà rare, quest’essenza. Che non solo guidi i Cherubini nello Sviluppo, ma che possa anche...»
Sachiel scosse la testa lentamente, con gli occhi distanti e un sorriso vacuo, come se qualcosa le avesse succhiato la vita da dentro – ma no, no, Amitiel non poteva credere che fosse stato quel breve sfioramento di labbra, perché in quel momento la vita era esplosa. Non poteva essere colpa di quello. Non poteva essere colpa dell’istinto più torbido e magnifico di un’esistenza intera.
Le dita pallide di Sachiel si mossero per appuntare una ciocca dietro l’orecchio.
«Si dicono cose, Amitiel... cose incredibili.»
Amitiel si sentì tremare, guardandola negli occhi – occhi azzurri puri corrotti distanti vuoti. Occhi che non erano Sachiel, perché Sachiel era ferma e affilata e ti fissava come se volesse entrarti dentro, non come se non fossi altro che nebbia e silenzio. No, non era Sachiel, quella. Non le accendeva il desiderio di sentirla, toccarla, esplorarla; non scatenava l’istinto vorace di renderla parte di sé. Risvegliava un’inquietudine sottile che scorreva sotto pelle, e folle urlava qualcosa nella sua mente, folle sibilava contro il suo orecchio, folle alitava contro il suo collo, folle come sempre, folle come prima – e quegli occhi erano invasi da una luce rossastra e sanguigna, illuminati da un bagliore esaltato, e c’era ancora l’acqua candida del Confine che le scorreva attorno, ancora il richiamo vago come seta sulla pelle, ancora... ancora cose, cose che non avrebbero dovuto esserci lì davanti ai suoi occhi e nella sua testa, ma cose che c’erano, illusioni, deliri, ricordi.
E il Confine le scorreva ancora attorno, addosso, dentro.
«Non tornare più qui, Amitiel. Non ti fa bene.»
Fruscii di piume.
Gorgogli d’acqua.
Nella sua testa, solo un silenzio assordante; davanti ai suoi occhi, solo quello sguardo vacuo.
Sulla sua pelle, il richiamo lontano della seta.
* * *
Si era aspettato furia – oscurità impenetrabile che si sarebbe serrata attorno a lui, spezzandogli le ali. Lacerando. Devastando. Si era preparato al dolore, perché il nero accecante del tempio aveva sempre tremato, sotto la collera disperata di Leliel; perché, quando lo richiamava in quel luogo di incubi e mostri, il motivo era uno solo.
Ricorda, Esecutore. Ricorda chi sono. Ricorda il mio potere.
E soffri.
Scoprire lacrime su quegli occhi di ghiaccio, invece, era stato inaspettato e terrorizzante. Respirava l’aria scura e avvertiva una disperazione non sua invadergli i polmoni, avvertiva la confusione, la rabbia; un grumo più nero dell’ombra, dolore folle e violento che aggrediva il nulla, essenza impazzita che vorticava e si espandeva e sembrava quasi volersi lacerare. Lui, spettatore esterno di quella tempesta, si lasciava attraversare da ogni cosa senza esserne ferito.
E le lacrime rilucevano nel buio, colando da quegli occhi aridi.
«Hai parlato con Sachiel.» ringhiò Leliel.
Più che un’accusa, gli sembrò una supplica.
«...no, Autorità.»
«Non mentire!» urlò – eppure l’oscurità continuò a non toccarlo, a non ferirlo, perché era una rabbia che si ritorceva su sé stessa e si malediva. «Chi altri le avrebbe parlato? Chi altri, per allontanarla da quel cherubino... chi altri?»
Una supplica, ancora. Un’implorazione.
«Non so di-»
«Non sai, Nelchael? Davvero non sai? Eppure Sachiel è cambiata, Sachiel... Sachiel sembra...»
La sagoma di Leliel, nell’oscurità, parve accasciarsi per un istante, quasi volesse lasciarsi crollare a terra: le spalle curve, le ali tremanti, ciocche che le ricadevano scomposte sul volto e sempre quelle lacrime, quelle scie trasparenti sulle guance che non avrebbero dovuto esistere – non su Leliel. Non sull’Autorità gelida e implacabile.
Doveva essere accaduto qualcosa di terribile, per piegare persino lei; Sachiel doveva sapere qualcosa di proibito, di orrendo, di...
Un presentimento gli strisciò lungo la schiena, gelido.
«Leliel.» la chiamò, cauto, allungando una mano senza osare sfiorarla «Cosa sembra, Sachiel?»
«Non lo immagini?» sussurrò, e crollò davvero, questa volta. L’impatto delle sue ginocchia contro la pietra risuonò come un boato, nel silenzio vibrante del tempio. «Si sta perdendo. È folle, distante, è... sembra come lei.»
«Ne sei certa?» sfiatò, fissandola dall’alto – senza pietà. Senza inginocchiarsi accanto a lei e offrirle conforto, perché la pietà non superava il rancore. «Ti ha raccontato?»
«Non... non vuole, parla solo di... di cose incredibili. Ho tentato, ma non risponde, è... è come lei, Nelchael. Si sta perdendo.»
Avrebbe potuto rassicurarla: dirle che non poteva averne la certezza, che Sachiel poteva essere semplicemente inquieta per l’imminente Sviluppo, che era un cherubino acuto e forse aveva intuito la tensione crescente con gli Sconsacrati, che... che c’erano tante spiegazioni, tanti modi per giustificare distanza e distrazione, che non doveva angosciarsi tanto.
Avrebbe potuto, ma non era mai stato disposto a mentire, lui.
«Dobbiamo separarle.» sibilò invece, deciso e tagliente quanto una lama «Subito.»
Leliel, se possibile, sembrò piegarsi ancor di più su sé stessa – colpevole.
«Le hanno accordato l’ultima Presenza, Nelchael.» mormorò «E Amitiel... stanno concedendo nuovi Fuochi. Gli allievi assisteranno.»
«No.»
La fissò dall’alto e dominò a stento l’impulso di colpirla – perché era colpa sua, sua che non lo aveva ascoltato, sua che non le aveva divise, sua che era stata troppo cieca orgogliosa stolta. Sua che concedeva alla propria allieva lo Sviluppo – e poi sarebbe stata un’adulta, senza difesa, senza guida, esposta alla ferocia di chi non mirava a lei ma a Leliel. Sua che imponeva a Cherubini troppo immaturi di assistere alla Venuta – e c’era una bambina, lì, che lui aveva promesso di proteggere. Giurato no, perché giurare era proibito, ma l’aveva promesso, aveva detto sì; e Leliel lo sapeva, Leliel lo sapeva e gettava comunque quel cherubino bambina in qualcosa che...
Avrebbe dovuto essere alla settima classe – e neppure alla settima sarebbe stato certo che fossero pronti. Era necessario, perché maturassero abbastanza da giungere al ciclo superiore, ma alla quinta, alla quinta... non era bastato che fosse permesso – fosse imposto – di assistere alla sesta classe? Non era accaduto nulla, e forse non sarebbe accaduto nulla neppure alla quinta, ma non era... non era giusto. Stavano strappando l’innocenza, la serenità. Stavano strappando l’infanzia.
Stavano allevando piccoli combattenti che dovevano crescere in fretta, sempre più in fretta, per fronteggiare una guerra che ancora non c’era.
«Non l’ho deciso io.» mormorò Leliel. Aveva le ali tremanti e la schiena curva e la fronte che quasi sfiorava terra, e lacrime che le scorrevano sulle guance e colavano sulla pietra, eppure non risvegliò in lui neppure un barlume di pietà. «Si sono espressi tutti i Censori, tutte le Autorità... persino gli Antichi. È stato collegiale, non... non sono stata io.»
«Ti sei opposta?»
E sperò davvero, per un istante, che Leliel lo avesse fatto – s’illuse davvero che quel serafino affamato di gloria si fosse compromesso, lei che sapeva cosa fosse un’infanzia strappata e mille orrori vissuti troppo presto.
«Ti sei opposta, Leliel?»
Leliel rimase muta.
Colpevole.
* * *
Il dolore era una marea rossa che le esplodeva dentro. La sua stessa carne le si ribellava, straziata da sangue sbagliato, sfigurata da un’essenza marcita; è troppo presto, le aveva detto Eisheth con preoccupazione di madre e ghigno di demone, è troppo presto, amore mio. Non le era sembrato che stesse precisamente tentando di dissuaderla, quanto piuttosto di spingerla a farlo, perché se Eisheth l’aveva scelta – se non l’aveva eliminata, abbandonata, ignorata – era stato solo per noia. Quanto avrebbe potuto essere divertente, una ribelle codarda?
Avrebbe dovuto capirlo subito, Anane, che l’interesse di Eisheth chiedeva in cambio la vita – in un modo o nell’altro.
Ma era tardi, troppo tardi, e lei non sarebbe più stata Anane; anche se non avrebbe mutato nome, come invece aveva fatto un fratello codardo quanto lei, avrebbe perso sé stessa tra le dita di Eisheth. Anane era un cherubino immemore e incapace, era traditrice, era amica e sorella in nome di falsità donate come abbracci, ma non... non quello. Non un’essenza impazzita e un corpo che le si ribellava. Non un demone.
Anane era sempre Anane, ma non lo sarebbe più stata.
Savsa era diventato Michael ed era rimasto lo stesso.
Eisheth, senza dubbio, doveva trovare la cosa molto divertente.
È troppo presto, le aveva detto Eisheth, e Anane lo sapeva; come sapeva anche che, ignorando quell’avvertimento, stava solo seguendo le tracce che la madre aveva predisposto da tempo. Avvertì la schiena squarciarsi, abbozzi ossei che si formavano straziando la carne, ma lei li respinse nel nulla con un gemito. Troppo presto. Troppo presto per riuscire a controllare quel nuovo corpo. O troppo presto per affrontare quell'incontro?
Dumah, davanti a lei, mostrava il disgusto del genio costretto a confrontarsi con lo stolto: la piega appena contratta delle labbra, una ruga lieve sulla fronte. Aveva ancora potere su di lui, pensò, cercando la lucidità oltre il dolore che la travolgeva. Poteva ancora incrinare un’impassibilità che non era solo maschera, ma natura profonda; nel gelo di un animo perso tra incubi, lei era reale, concreta, importante. Era meraviglioso, scoprirlo.
Anche se quell’importanza si traduceva in disgusto.
Anche se avrebbe fatto male – qualsiasi cosa avesse scoperto.
«Dumah.» lo chiamò, piano. I denti troppo aguzzi le tagliarono le labbra rovinate, e altro sangue ustionante le si riversò in bocca, corrodendo carne già corrosa.
Le unghie le affondarono nei palmi. Avrebbe voluto avere qualcosa da stringere tra le mani, carta e inchiostro che aveva carezzato e lisciato troppe volte per poterle contare, ricordi che le dessero forza; ma il suo sangue li avrebbe corrosi in un istante, distruggendo quello che – sperava implorava pregava – non era stato solo finzione.
Eisheth l’avrebbe ingannata senza una goccia di rimorso; Savsa, che mentiva anche a sé stesso, avrebbe potuto superare persino la madre.
Lo sapeva, quando era iniziato tutto, ed aveva accettato comunque: aveva sacrificato tutto, tutti, sull’altare di qualcosa che poteva essere solo l’inganno di un demone annoiato e un caduto ossessionato. Forse, in fondo, anche lei era stata tanto annoiata e ossessionata da accettare un gioco che gridava sconfitta sin dal principio.
Aveva pensato che ne valesse comunque la pena; giunta al termine, troppi legami recisi urlavano il loro dolore più di un corpo in mutamento.
«Eisheth fingerà di non essere contenta, quando tornerò da lei.»
Forzò la voce in una risata stridula. Dumah, senza guardarla negli occhi, storse le labbra sottili in una smorfia più accentuata – aveva fiutato il suo dolore, la sua debolezza? Il terrore che la annichiliva?
Non ho nulla da perdere, si era detta nell’accettare l’inganno e il tradimento, ma poi aveva scoperto che sì, aveva tanto troppo da perdere, una sorella e un maestro e un mondo odiato che perlomeno risultava familiare. Sé stessa. Una Anane che non fosse un corpo mostruoso, devastato, denti troppo aguzzi che le tagliavano le labbra quando parlava e artigli che le squarciavano i palmi e sangue che la corrodeva da dentro; una Anane che non fosse allucinata ossessionata confusa, preda del ghigno predatore di una madre crudele.
Era andata avanti comunque, in quel gioco che gridava sconfitta sin dal principio, perché era troppo tardi, e a rifiutarsi non avrebbe guadagnato nulla e perso ogni cosa.
«Ma ha rispettato il patto. Incredibile, sì?» continuò, con un’altra risata stridula «Sono un demone, ora.»
No, sei ancora in mutamento, si era quasi aspettata che la correggesse; ma non era più abbastanza importante da meritarsi la sua voce. Forse non lo era mai stata – non davvero.
«Sono un demone, e lei mi ha condotta sino a te.»
Tacque, attendendo una risposta – un barlume di comprensione, un segno, un sospiro – senza neppure sperarci davvero. Si sentiva tesa; tesa come non era neppure con Eisheth. Come non era stata neppure di fronte agli orrori più atroci, forse, perché lei era egoista e codarda e abbastanza realistica da ammetterlo: era più importante la sua incertezza dolorosa e lacerante, piuttosto che i danni inflitti ad un altro. Aveva visto sua madre strappare unghie e spezzare ossa e lacerare essenze, e Michael infuriarsi sino a devastare ogni cosa, e gli occhi di quella serpe di Shoftiel spegnersi mentre lei stessa ne estingueva la vita; ma non c’era nulla, nulla che l’avesse fatta sentire così esposta vulnerabile angosciata come quelle labbra sottilissime e mute che vomitavano solo silenzio.
C’erano fronde che stormivano, da qualche parte, sussurri di vento e richiami di bestie, lontanissimi; ma il nulla pioveva da quella bocca troppo desiderata e la assordava. Non valeva neppure una parola, lei? Lei che aveva sacrificato ogni cosa. Lei che si era votata a lui, con la devozione malata di un angelo per il suo Dio. Lei che portava il suo marchio dentro, più a fondo della carne, fenditura rossa corrotta spaventosa in un’essenza che avrebbe dovuto essere candida – e forse per questo era stato tanto facile avvicinarsi ad Amitiel, cherubini dal dolore affine e da un futuro che era opposto e uguale, ma aveva sacrificato persino lei. Persino quel legame unico e prezioso. Persino l’unico frammento di sincerità in un’esistenza di menzogne.
E lui rimaneva muto, ancora.
«Quello che mi hai scritto...»
Accuse. Sentenze.
La dimostrazione che ancora, di lei, gli importava qualcosa – fosse anche solo per l’odio.
«...non farmelo chiedere, Dumah. Rispondimi e basta.»
Era sempre stata una codarda, in fondo: non aveva il coraggio di dar voce al suo terrore più profondo.
Dumah non le sorrise – sarebbe stata una crudeltà dolcissima più adatta ad Eisheth, quella, o a Michael. Il signore degli incubi, invece, tornò a distendere il viso in un gelido distacco: non c’era più nulla che valesse una dimostrazione d’interesse.
Sembrava che Naamah, oltre all’appellativo di figlio e al piacere di mille amplessi, gli avesse trasmesso anche l’indifferenza verso il mondo – entrambi troppo persi la propria realtà irreale, sogni e incubi e il futuro che si svelava a occhi ciechi.
Eppure, nel vedere le labbra sottili di Dumah muoversi su quel volto impassibile, scoprì di valere almeno quella risposta – la più temuta. La più prevedibile, in fondo.
«Io non ti ho mai scritto nulla.»
Avrebbe preferito il silenzio.
***
Angolo autrice
Eccomi. Sono finalmente tornata, per tirare le fila di questa storia e fare un po' di chiarezza su tutto ciò che è successo e deve ancora succedere.
Grazie infinite a chi ha seguito la storia e, spero, tornerà a seguirla.
E grazie anche a chi mi fa stare finalmente bene e mi incoraggia, dandomi di nuovo la forza di scrivere.
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Capitolo 32 *** 31. Tramonto ***
Capitolo
31 –
Tramonto
Si
passò una mano tra i capelli, gettando
all’indietro le ciocche –
non aveva avuto tempo di raccoglierli, risvegliata a fatica dai
richiami lontani di Ramiel, strappata ad un sogno che sapeva di
freddo e di voci. Le era rimasto incollato un bagliore rosso alle
palpebre, mentre la Presenza svaniva lasciando l’aria vuota e
le
compagne varcavano l’uscita con le sacche annodate ai polsi e
le
trecce ad ondeggiare sulle spalle; e forse quel rosso erano i capelli
di Ramiel che si allontanava in fretta senza aspettarla, forse la
Presenza che ancora l’accarezzava, o forse l’eco di
un sogno.
Socchiude
gli occhi.
Il
sole, all’orizzonte, muore per rinascere ancora.
Come
me. Come noi.
La
pietra non aveva temperatura, sotto il suo corpo nudo. Le fiamme
della Presenza erano un tepore rossastro che l’accarezzava,
richiamando alla mente ricordi del prima
– prima di Leliel. Prima di ali quasi bianche che non le
dolevano
più per il peso del corpo sopra di esse. Prima di pareti
spoglie,
isolate, che non si tingevano mai del colore rassicurante della
Presenza; prima del silenzio, della solitudine, di tempo infinito a
fissare il vuoto senza poter dormire, rincorrendo angosce e pensieri.
Prima
del presagio di come sarebbe stato sempre.
C’è
l’eco di parole mai udite, nella sua mente, che sanno di
promessa –
o di minaccia.
Tornerò.
Fenice
leggendaria che rinasce dalle ceneri.
C’erano
tante presenze, alla Via: un mare di essenze che si serravano in uno
schema ordinato, s’intrecciavano, si allacciavano, e a lei
sembrava
di percepirle tutte su quella pelle nuova. Il Fuoco che ardeva lungo
il perimetro: lingue rosse stagliate contro il candore degli edifici,
carezza sfuggente e lontana. Fasce nere e azzurre a vigilarvi
– i
Guardiani come punti fermi, stabili, nella cinta un po’
vacillante
dei Custodi. C’era un’essenza più
incerta delle altre tra quei
Custodi, tremante in quell’immobilità, instabile,
afflitta; dava
un po’ pena e un po’ inquietudine, nella sua
fragilità
angosciata, ed era... era Ridwan.
Allontanò
le Percezioni da lui, quasi stesse abbassando di scatto lo sguardo,
perché il tormento di Ridwan era solo uno dei tanti lasciti
di
qualcuno a cui, davvero, non voleva pensare.
Tornò
a concentrarsi sullo schema che intuiva nella disposizione delle
essenze: un circolo che si restringeva sempre di più in
linee
compatte, sino a lasciare un largo disco vuoto al centro della Via.
C’erano essenze di qualsiasi tipo, tutte immobili al proprio
posto,
perfettamente inserite nell’intreccio ordinato, ed era
impossibile
stabilire chi avesse un ruolo e chi semplicemente fosse lì
per
assistere.
C’era
chi, poi, aveva il ruolo di
assistere: Cherubini dalla quinta classe alla settima, schierati
sulla linea più interna dello schema, perché
potessero vedere e
percepire. Un anello rosso intervallato solo dalle ali candide degli
insegnanti e da quelle, ancor più maestose, di
un’Autorità e di
un Censore – persino le due fasce più influenti
rimanevano
arretrate, senza sconfinare nel grande circolo libero.
Era
l’altare,
quello. La sede sacra del rito.
Il
punto a cui si rivolgevano tutti gli sguardi e le Percezioni. Erano
tanti, tantissimi, Ramiel accanto a lei e Raphael poco lontano e
Cassiel che spiccava maestosa anche alla settima classe, e
l’Autorità, il Censore, Nelchael, Ridwan, una
marea di essenze
immobili; tutti concentrati verso quel vuoto che presto si sarebbe
colmato, in un rito tanto puro e luminoso che persino ai Cherubini
era concesso di assistere. Doveva essere meraviglioso, e lei aveva un
disperato bisogno di riempirsi la mente di meraviglia – di
una luce
che fosse riposante e non le ferisse gli occhi, di serenità,
di
gioia. Di qualcosa che riuscisse a zittire sogni e ricordi. Lo
agognava come un umano avrebbe agognato l’aria tra acque
stagnanti,
perché altrimenti sarebbe morta,
smarrita nella sua stessa mente – cercava un modo per respirare.
Si
passò una mano tra i capelli, nervosamente. Sentiva
l’aspettativa
scorrerle addosso, incresparle la pelle in quella staticità
pregna
di attesa e di
silenzio.
Sono tantissimi e sono candidi e sono frementi, attorno a lei, ma
nessuno parla: hanno voce i gesti e gli sguardi, in
quest’attimo
sacro, perché già sanno
e non c’è nulla da aggiungere.
Chi
non sa, ad ogni modo, non può chiedere.
Il
Fuoco si dissolse lentamente e lei si rizzò in piedi,
spoglia e
tremante – si poteva avere freddo in Paradiso?
Le
mani della Custode furono gentili, nell’aiutarla a vestirsi;
gli
occhi di Leliel, due lame di gelo. Nulla
di nuovo,
pensò amara, seguendo l’insegnante fuori dal
tempio; nulla
di nuovo,
si ripeté nel volare accanto a lei con ali per
l’ultima volta
macchiate di rosso, nulla
di nuovo,
nel librarsi sopra lo Specchio, nulla
di nuovo,
nel discendere verso la Piazza e il nastro bianco del Confine. Nulla
di nuovo,
ripeté ancora, guardandosi attorno: le espressioni tese di
qualche
allievo venuto per assistere, la serietà degli adulti, lo
sguardo
vigile del Censore – capelli rossi e occhi verdi e un viso
che non
aveva mai dimenticato, mai, da quando le era penetrato a forza nella
mente. E Leliel, gelida, quasi non fosse neppure interessata. Nulla
di nuovo,
il Censore si fece da parte e lei camminò verso il Confine e
Leliel
restò a fissarla impassibile. Nulla
di nuovo,
lasciò scivolare le vesti sulla riva e mosse un passo
nell’essenza
candida, tiepida, tremando per il gelo di quello sguardo. Nulla
di nuovo, nulla di nuovo,
e pensarlo non faceva neppure troppo male, perché
perché
è preparata. È preparata al rischio, al dolore,
alla morte del sole
– alla propria. Il suo ultimo tramonto è
un’esplosione di rosso
che riecheggia sangue e piume, e labbra agognate morse baciate: il
cielo è lo specchio del peccato, in quel momento.
La
terra, rifugio di incubi.
Si
passò ancora la mano tra i capelli sciolti. Ramiel,
notandolo,
estrasse un pettine dalla sacca e glielo porse in silenzio. Aveva
dita pallide e sottili, Ramiel, troppo simili a quelle di Anane
– e
Anane aveva stretto un pettine uguale a quello, un tempo.
Ricordò
i denti candidi che scorrevano tra ricci biondi, e poi anche tra le
onde nere dei suoi capelli.
Ricordò
che anche Sachiel l’aveva pettinata, talvolta, con mani
tiepide e
attente.
Ricordò
altre mani – mani gelide, crudeli, che si erano immerse tra
le sue
ciocche. Ricordò di come, in un punto, non vi fosse
più nulla da
toccare: solo cute rovinata e fili secchi, sterili, morti.
Il tocco di Sachiel sulla pelle abrasa e nuda della nuca, il suo
sguardo terrorizzato nello scoprirlo.
Lo
sguardo di Sachiel. Terrorizzato. Azzurro. Vacuo. Non
perderti, resta con me
– una preghiera che non sapeva più chi dovesse
rivolgere a chi,
perché entrambe avevano incubi e mostri a portarle via.
Non
si accorse di avere gli occhi lucidi e le ali tremanti – come
non
si accorse neppure che Ramiel aveva ritratto la mano, o che Raphael
la fissava da lontano con feroce diffidenza, o che Nelchael si era
fatto all’improvviso più vicino e più
vigile.
Non
c’era più niente attorno a lei, dentro di lei, se
non un grumo
nero di
angoscia.
Le blocca la gola e non la lascia respirare, e si sente soffocare,
soffocare, soffocare.
Ci
sono voci che mormorano parole in una lingua sconosciuta, come una
cantilena o una preghiera. A lei sembra quasi di comprenderle, quasi
fossero i sussurri antichi, atavici, che l’hanno cullata nel
ventre
di sua madre; è ciò che le hanno ripetuto per
tutta la vita, in
fondo – due volte.
Leggi.
Obblighi.
Divieti.
È
qualcosa che è già preparata a tradire
– e la consapevolezza,
ancora, le toglie il respiro.
Eppure
si lascia cullare da quella cantilena come ha già fatto un
tempo,
perché è la sua stessa natura che la chiama e la
seduce, suoni e
parole che non deve imparare ma solo ricordare:
è nata per questo e la sua mente vi si modella, docile,
finalmente
pronta.
È
la sua essenza, un futuro già impresso nella memoria, il suo
istinto
che la spinge verso qualcosa che coglie senza comprendere davvero.
È
ciò che dev’essere – ciò che è,
nonostante le menzogne e il tradimento. Oltre spoglie mortali e una
vita troppo breve, la sua natura la chiama a sé e lei non
può
sottrarvisi.
Il
grumo lentamente si scioglie e lei, infine, sente che è
il
momento.
L’acqua – essenza – le
lambì la pelle, mentre
avanzava lungo il greto sabbioso: piedi, caviglie, polpacci. Onde
lievi, sottili, che risalivano lente a sfiorarle la carne nuda
–
cosce. Ventre. Piume.
Il
tocco tiepido della corrente era una carezza morbida che sembrava
portarla con sé. La stanchezza le strisciava addosso: il
desiderio
di chiudere gli occhi, di lasciarsi cullare dal mormorio del Confine,
abbandonarsi al corso dell’acqua e divenirne parte, forse
– parte
di quel moto perenne che prometteva pace e silenzio e nessuna cosa
incredibile che le risuonasse nella testa.
Sino
a sentirti distante,
l’aveva istruita Leliel. Sino
a sentirti sul punto di smarrirti. Non oltre.
Ma sarebbe stato tanto semplice immergersi ancora e perdersi, con le
membra intorpidite e il capo greve; perché fermarsi? La sua
mente
obnubilata annaspava, cercando un motivo, un richiamo che la
trattenesse, e–
e
lo incontrò.
Siamo
legate. Fili
sottili a
strattonarla. Siamo legate, lo sai.
A impedirle di perdersi.
Si
fermò, con il liquido candido che le lambiva i fianchi,
distendendo
le ali perché tutti potessero osservarle: sprazzi rossi,
piume
lattee, l’attaccatura ch’era ormai pelle integra.
Tremavano,
nello sforzo di opporsi alla stanchezza e all’acqua, ma anche
il
dolore delle membra esauste le giungeva attutito.
Forse
gli astanti avrebbero interpretato quel fremito come un segno
d’agitazione, o forse avrebbero potuto leggerle dentro e
giungere a
comprendere – comprendere tutto. La stanchezza, lo
stordimento, la
distanza. La luce che sembrava troppo intensa e accecante, ai suoi
occhi affaticati. Forse, pensò distrattamente, le avrebbero
letto
tanto a fondo da vedere anche
il
peccato. La pece di piume taglienti gliel’ha incollato
addosso e la
sua pelle ancora ne porta il ricordo – ha brividi gelidi,
nella
memoria, e tocchi tiepidi nei suoi sogni. Madre
è sembrata sempre un po’ strana e guardinga, nelle
ultime notti,
come se avesse intuito qualcosa.
Nei
sogni madre ha capelli di luna e sguardo di pazza, ma ora che
è lì
viva e reale le ciocche candide sembrano grigie. Gli occhi, invece,
restano viola e folli come sono sempre apparsi – colmi di
stanchezza angoscia conflitto. E se quegli specchi di delirio la
scrutassero tanto a fondo da rivelare il peccato?
Un
uomo sconosciuto sta accanto a madre
e
le sfiora un braccio in silenzio – non mormora la litania
ipnotica
che accompagna il rito, non la culla con parole cantilenanti. Madre
la fissa ancora con i suoi occhi folli e muove le labbra in una
domanda muta – sei
pronta?
Non
preoccuparti,
sillaba ancora madre. Andrà
bene.
Lei
non è certa che il rito permetta certe rassicurazioni
– certe
menzogne.
Ma
non ha tempo di indugiare in quel pensiero, perché giunge
il
Fuoco.
La
staticità s’increspò in
un’irrequietezza trattenuta a fatica,
nel silenzio si diffusero vaghi fruscii di piume. Il grumo che
Amitiel sentiva in gola divenne ancor più soffocante, o
forse fu
l’aria stessa a farsi pesante e irrespirabile, condensata in tempo:
la poteva sentire addosso, quella dimensione sconosciuta, che
scorreva lenta lasciando tracce graffianti sulla pelle. Il Paradiso
conosceva il tempo ed era come la stanchezza di un corpo sempre
più
debole, come l’urgenza di acqua a dissetare membra aride,
come
l’angoscia di una vita troppo breve che scivolava tra le
dita. Nel
rito più luminoso, nell’istante più
sacro, gli Angeli si
scoprivano fragili e umani.
E
il Fuoco nacque in lingue candide e vermiglie, mutevoli come il cielo
del Mediano.
Prima
un semplice sospiro bianco che serpeggiò come nebbia,
minuscolo al
centro del grande spazio libero; poi un altro e un altro ancora, e
lentamente le vampe si elevarono al cielo, solenni, maestose. Mille
toni di rosso sfidavano il candore, tingendo le fiamme e poi
sciogliendosi nel bianco, in un flusso di colori inarrestabile.
Sembravano
piume di adulti e di infanti, materia fatta essenza,
un’esistenza
intera riassunta in quelle sfumature.
Sembravano
fiotti di sangue mortale.
Sembravano
il
cielo al tramonto.
Il
sole morente richiama parole perdute, vecchie promesse, un destino
temuto e agognato – il
sole muore. Come me, come noi. È quasi il momento. Non sono
sicura
di... non ti riconosco più, Ishild. È umano avere
paura.
È
umano avere paura – non le è più
concesso. E guarda il tramonto,
allora, per non dover guardare occhi impavidi e folli:
nell’agonia
di un astro agonizzante, trova lo specchio di un’esistenza e
la
rassicurazione di non essere sola.
Fiamme
tiepide sfiorano il suo corpo nudo, delicate e dolcissime: è
madre
che allunga dita impalpabili ad accarezzarla – è
la prima e unica
volta in cui le sarà mai concesso il tocco materno, questa.
Una
donna sconosciuta è morta tra spasmi e sangue mentre lei le
scendeva
tra le cosce, e un’altra con capelli di luna e sguardo di
pazza è
sempre stata un fantasma perso nei suoi sogni; e dopo,
lo sa, non ci sarà più neppure uno spettro da
chiamare madre.
Assapora
quel tocco come un infante assetato d’affetto, unica
consolazione
mentre gli ultimi raggi del sole scompaiono oltre la collina e la
litania si fa più intensa – più
intensa, più intensa, più
intensa, sente vibrare dentro quella cantilena incomprensibile e
conosciuta. All’improvviso l’essenza
dell’uomo estraneo si
unisce al Fuoco e
dolore.
Dolore, dolore, un’agonia che la risvegliò
all’improvviso dal
torpore e le scavò dentro. Avvertì le fiamme
invaderle il corpo e
bruciare e... e c’era qualcosa che affondava artigli nel suo
ventre, il torace scosso da convulsioni violente, i muscoli
contratti, vene squarciate che vomitavano sangue, sentiva...
sentiva... dolore dolore dolore il Fuoco la stava mangiando,
divorava ogni cosa e lei lo sentiva, lo sentiva che straziava le sue
carni e lasciava vuoto dietro di sé, pelle tesa su qualcosa
che
ormai non esisteva più, sarebbe collassata su sé
stessa senza più
ossa a sostenerla e muscoli a farla muovere e organi a gestire
l’essenza e-
e-
e-
e
la schiena, le ali, era possibile che in quel tormento qualcosa
facesse ancor più male? Sì, sì, era
possibile, le ali tremavano e
si ripiegavano su sé stesse e c’erano membrane
tese allo spasimo,
sangue che colava tra le piume, male male male male male male neppure
il sangue di demone era stato tanto atroce e lei urlava, urlava, le
doleva la gola per la violenza delle sue grida, ma poi... poi il
sangue le invase la bocca e lei non ebbe più nulla, nel
petto, che
potesse raccogliere l’aria, il Fuoco si era mangiato anche i
polmoni, erano urla mute che le risuonavano nella testa e... e si
ritrovò in ginocchio a pregare che quell’agonia
terminasse, con
l’acqua che le invadeva gli occhi la gola il corpo straziato,
ed
era acqua rossa, acqua rossa per quegli ultimi brandelli
d’infanzia
che le venivano strappati a forza, faceva male
ma mancava poco, mancava poco vero? A vederlo da fuori non era mai
stato tanto lungo né tanto agghiacciante, nessuno
l’aveva
avvertita che sarebbe stata un’agonia, voleva solo che
finisse, vi
prego,
doveva finire subito o sarebbe impazzita. Ormai non era rimasto
più
niente, si sentiva un fantoccio d’ossa e pelle e le ali, le
ali, le
ali continuavano a ingrossarsi e lacerare le membrane e poi qualcosa
dilaniò ancora la sua schiena e- e lo sentì, lo
scheletro che
cresceva e le vene la carne la pelle, sentì ogni cosa che si
formava, serafino
pensò, serafino,
sei ali candide enormi gloriose che sarebbero state un onore, ma
ancora ricordava cose... cose
incredibili,
c’era stato un tempo in cui non era stato necessaria
quell’agonia
per divenire adulti, cose
incredibili,
le sarebbero rimaste sei cicatrici bianche a ricordarle quel momento,
cose
incredibili,
un Censore con capelli di fiamma e ghiaccio verde negli occhi e le
sue dita di ragazza che gli sfioravano la schiena, cose
incredibili,
le aveva sentite quelle sei cicatrici, ma... cose
incredibili,
sulla schiena di Leliel non le aveva mai viste ed era
terrorizzante.
Si
sente lacerare dentro – lì tra l’anima e
il corpo, confine
sottilissimo che non si può toccare eppure esiste. In
qualche modo,
in qualche mondo, lei sanguina d’un sangue immateriale. Il
tormento
accresce, l’agonia si fa infinita, il corpo... il corpo
è puro
dolore che inizia a non
essere,
ma non importa, le hanno detto, non importa, sta solo rinascendo.
Lentamente
il mondo svanisce – madre e l’uomo estraneo e
quella litania
dolce. Il mondo rinasce bianco e accecante e la schiena, la schiena,
la schiena...
Le
ali si estesero.
Ali
bianche, alle spalle di un serafino. Sotto lo sguardo di
un’Autorità
orgogliosa e un Censore all’improvviso sorridente.
Ali
rosse, alle spalle di un nuovo nato. Sotto lo sguardo di Cherubini
troppo immaturi e adulti inquieti – e sotto il velo del
ricordo. In
memorie che riaffioravano incerte.
Ed
era lì, erano lì, con il sangue che scorreva
rosso e bianco lungo
le scapole. Cicatrici; cose incredibili. Il passato.
«È
ferita.»
Era
ferita, ferita, ferita. Lo sarebbe sempre stata, forse – lo
sarebbero state entrambe, insieme, per motivi differenti ma
nell’identica maniera. Con il passato davanti agli occhi.
Ed
era lì, erano lì, mentre il Paradiso rifuggiva
quell’aberrazione.
Entrambe perse, entrambe folli.
E
il serafino cadeva; e il cherubino tradiva.
Insieme.
Ricordando.
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Capitolo 33 *** 32. Aenor ***
Capitolo
32 – Aenor
Il
Paradiso gridò.
Gridò
nelle loro menti, nei loro corpi – uno stridio
che si levava dalla terra stessa, dall’aria attorno a loro.
Qualcuno cadde in ginocchio, altri si aggrapparono ai compagni per
darsi forza. E ancora si udì l’orrore, lo strazio
di un’altra
ferita; l’essenza del Paradiso si squarciò attorno
allo Specchio,
lontano, e si ritrasse come corrosa.
Allo
Specchio.
Allo
Specchio.
«Sachiel.»
mormorò Amitiel. Scorse nubi nere e dense,
lì dove l’altopiano si volgeva alla pianura e
brillava il nastro
candido di un fiume. Lì dove i Cherubini divenivano adulti,
o
perivano consumati dalla loro stessa essenza, o...
Anane
se n’era andata così, tra urla e terrore e i
fremiti di una sacralità violata, mentre essenza nera come
pece le
si addensava attorno e lacerava il Paradiso per esiliarla, per
strapparla a quel luogo e farla cadere giù, giù,
giù verso
l’orrore degli Sconsacrati.
«Sachiel.»
mormorò ancora. Anane se n’era andata
così, ma Sachiel... Sachiel... forse era solo un errore
della sua
mente, una delle troppe visioni che la assalivano nel sonno.
C’era
un peso contro le sue gambe – Ramiel
accasciata a terra, tremante. Il grido ancora la assordava,
riecheggiava nella sua testa sempre più acuto. Faceva male.
Faceva
paura.
Oh,
Sachiel, Sachiel, Sachiel...
Il
peso contro le gambe si spostò. Qualcuno aveva
sollevato Ramiel e la stava abbracciando. Raphael? Sì,
Raphael,
riconobbe al margine del campo visivo. Le sarebbe piaciuto che
qualcuno abbracciasse anche lei. Magari Sachiel, che era sempre
così
tiepida e morbida e sapeva tenerla lontana dai deliri.
Ma
Sachiel era al Confine, dove l’aria era oscura e
densa. Nessuno tornava più per un abbraccio, dopo essere
stato
inghiottito dalla pece.
«Sachiel.»
Nessuno
tornava più per sorridere e chiedere resta
qui e pettinarle
i capelli, e neanche
per singhiozzare e sibilare commenti feroci e parlarle di cose
incredibili, e neanche per farsi sfiorare le labbra in un bacio
sbagliato. Nessuno tornava più per niente,
mai, neppure in un milione di cicli, neppure dopo un miliardo di
Fuochi. Non c’era ammenda per l’esilio.
«Sachiel.»
E
Sachiel se n’era andata, andata, perché? Non aveva
senso, non poteva essere, Sachiel era sempre stata pura, mai corrotta
da pensieri immondi, mai sfiorata dalla minaccia della Caduta, mai
sfregiata dall’orrore...
Mai?
Ricordi
le oscuravano la vista e le opprimevano la mente, voci già
udite nel
sonno, sprazzi di colore, il cielo, tramonto, il vento sulla pelle,
occhi, occhi azzurri occhi grigi occhi che la facevano tremare.
Ishild,
Ishild
ripeteva qualcosa, ed era un sussurro familiare, era il richiamo di
un corpo proibito. Ishild,
Aenor,
nomi che si intrecciavano in urla confuse, fuoco e litanie e dolore,
dolore dentro, dolore dolore dolore, l’assenza che si
spalancava
dentro come fauci di mostro pronte a inghiottirla, no, non di nuovo,
per favore non di nuovo, gelo dolore solitudine, Ishild,
Ishild...
Si
fece strada tra la folla, annaspando, singhiozzando, stordita dalle
urla e dalle essenze impazzite, con un unico obiettivo in mente. Via.
Via da qui.
Le ali
dolevano per gli urti, ripiegate troppo contro la
schiena, ma lei continuò a scansare e spingere e arrancare
fino a
giungere al limite del piazzale.
«Amitiel?»
Ridwan
la chiamò, la trattenne per un
braccio. Si aggrappò a lui, esausta, mentre il pianto le
squassava
il petto e l’angelo le cingeva la vita per sorreggerla.
«Voglio
andare via.» singhiozzò «Ti
prego.»
«Stai...
stai tranquilla. Ti porto a riposare.»
Il
cherubino sollevò lo sguardo implorante. Le dita si
strinsero ancora contro la sua maglia.
«No.
No, no, io... voglio andare via. Via di qui.»
Ridwan
ricambiò lo sguardo, turbato.
«Non...
Amitiel...»
«Ti
prego.»
* * *
Faceva
male.
Faceva
freddo.
Affondò
le unghie nel terreno, costringendo le braccia
a sostenerla per inginocchiarsi, e scoprì che anche quel
semplice
gesto era dolore. Distese le ali e scoprì
l’agonia. Nell’urlare
scoprì l’orrore di una voce raschiante, uno
sfregio all’udito;
nell’aprire gli occhi, l’ustione di un pianto
gelido. Scoprì le
ombre e il freddo, il tocco della pioggia, la furia del tuoni. Il
cielo piangeva e lei lo accompagnava. Assaporò i ricordi uno
ad uno,
carezze e tramonti e parole, assaporò un dolore incredulo e
ingiusto, mentre il temporale si quietava e si affacciava il
crepuscolo.
Cos’altro
le avevano nascosto?
Volle
quasi zittire quella domanda, perché non era
lecita; ma poi ricordò di non avere più divieti e
si cullò nei
dubbi. Ormai era marcia, in fondo, e nessuno avrebbe potuto punirla
per questo – era già successo. Era già
caduta. Non c’era più
niente che potessero fare.
Sorrise,
sofferente e feroce; ma poi ripensò al Censore
che le sussurrava cose incredibili,
un passato che non ricordava, le labbra di Amitiel sulle sue e lo
sguardo gelido di Leliel e non sorrise più. Ora ricordava,
e ricordare faceva solo più male.
Forse,
si disse, un Guardiano avrebbe avvertito la sua
presenza corrotta e lei sarebbe morta, sfuggita a millenni di
tenebra. Millenni – una parola strana, che non avrebbe mai
dovuto
riguardarla, ma vi scoprì un senso tutto nuovo.
Il
tempo esisteva. Il tempo importava.
Il suo
sarebbe finito presto.
Le
dispiaceva solo di doversene andare da corrotta
– no, non era vero. Le dispiaceva per Amitiel. Per
sé stessa. Per
Aenor e Ishild e tutto il dolore che l’aveva investita con
ricordi
confusi, il futuro che non c’era stato, i suoi rimpianti
– aveva
un sacco di rimpianti, lei. Una fascia viola attorno ai fianchi e un
gruppo di Cherubini da guidare e Amitiel accanto, forse, Amitiel
presente e viva senza più ombre incomprensibili. Quelle
ombre ora
avevano forma e nome, ma ormai era inutile saperlo, perché
le cose
incredibili
sussurrate dal Censore si
erano rivelate vere e l’avevano trascinata giù.
Giunse
la notte, e con essa altra pioggia, e con essa altri rimpianti.
Sperò
che quel Guardiano giungesse presto a porre fine
all’agonia.
Ma
giunsero ali nere, occhi grigi a fissarla dall’alto.
Scoprì
il terrore.
* * *
Il
bosco grondava ombre e pioggia sotto il cielo scuro
di nubi, e il portale sembrava volerla richiamare in Paradiso con la
sua luce tiepida; ma mentre le ultime fiamme si estinguevano,
chiudendo il passaggio, lei già estendeva le Percezioni in
una
ricerca febbrile. Ignorò lo stridio dell’essenza
di Ridwan e le
flebili vite tra gli alberi e sospiri lontani di anime,
perché lei
voleva altro, lei voleva Sachiel. Sachiel, oh, Sachiel...
Ora
che aveva compreso, che finalmente quelle voci nel
sonno assumevano un senso. Ora che avrebbe potuto spiegarle. Ora
Sachiel cadeva, senza preavviso, senza motivo. E se non fosse
più
riuscita a riconoscerla? Non sapeva neppure cosa cercare,
perché la
Caduta forse aveva mutato l’essenza di Sachiel,
l’aveva corrotta
sino a renderla irriconoscibile. Ma doveva trovarla, non importavano
la Caduta e Ridwan che le urgeva di raggiungere i Guardiani e le
ombre spaventose del Mediano, non importava nemmeno che tornata in
Paradiso sarebbe stata punita, perché senza Sachiel non
sarebbe
importato più niente. Non lo poteva immaginare, un mondo
senza
Sachiel.
«Perché
piangi, bambina?»
Sussultò
per la voce improvvisa. Ridwan la spinse
dietro di lui, protettivo, ma nessuno si mostrò davanti a
loro. Le
Percezioni non avvertivano nulla; lo sguardo si volse
tutt’attorno
per incontrare solo alberi e ombre.
Ma lei
già sapeva, già immaginava i sussurri crudeli
di quella voce conosciuta, il ghigno dolcissimo teso su zanne di
mostro.
«Mostrati.»
ordinò Ridwan, con voce tremante.
Quanto
tempo sarebbe servito all’angelo per riaprire il passaggio
verso il
Paradiso? Troppo, si rese conto Amitiel, troppo per la
rapidità con
cui tutt’attorno si delineava una nuova presenza acida
e dita immateriali si allungavano a sfiorarle l’essenza
– ogni
carezza una stilettata bruciante. Troppo per la minaccia che si
faceva sempre più incombente. Eisheth era lì, la
stava toccando,
ma non riusciva a trovarla.
E
all’improvviso urlò, mentre le sue ali premevano
contro un petto bollente e braccia crudeli le cingevano i fianchi.
Chiuse gli occhi e urlò e urlò e urlò
mentre la sua schiena-no, il
suo intero corpo ardeva, la sua intera essenza si dibatteva nel
fuoco, la voce di Ridwan si unì alla sua e poi si
zittì e allora
lei urlò ancora, divincolandosi per sfuggire a
quell’agonia,
singhiozzando, implorando. Crollò a terra, ma il fuoco che
la
divorava non si spense e lei si accasciò, tremando,
mordendosi le
braccia per non urlare ancora. Neppure il tocco feroce di Michael era
stato tanto intollerabile, neppure l’Espiazione.
La
pioggia scivolava sul suo corpo, sciacquando il
dolore con carezze fresche. Respiro dopo respiro, lentamente,
l’agonia si acquietò fino a spegnersi. Lei strinse
le ginocchia al
petto e vi nasconde il viso per zittire i singhiozzi.
«Su,
su, bambina. Va tutto bene.»
Dita
bollenti le accarezzarono il capo, quasi materne.
Un calore sopportabile, non un’agonia com’era stato
quell’abbraccio – il demone stava contenendo il
proprio potere.
Non riuscì a sentirsene rassicurata.
«Sssh.»
ripeté quella voce dolce
«È passato.»
«Perché?»
singhiozzò, ritraendosi. Eisheth le
strinse i capelli e la forzò ad alzare il viso. Lei non
aprì gli
occhi, come in un’ultima flebile protesta, prima che il
terrore
ruggisse ancora per le labbra del demone accostate al suo orecchio.
«Perché
sono molto scontenta, Aenor.»
* * *
«Sei
tornata.»
La
voce del caduto vibrava di gioia folle. Lei tentò di
ritrarsi, ma si
trovò bloccata sotto quello sguardo vittorioso, stretta da
mani
estranee. Agghiacciata dal terrore, non ebbe neppure la forza di
implorare lasciami.
Forse era per quello che sentiva così freddo, o forse per i
Caduti
tutt’attorno, per l’uomo chino su di lei.
«Sei
tornata.»
Dita
gelide salirono dalle spalle ad accarezzarle il
volto, scostandole dalle guance ciocche bagnate e sporche di fango.
La assalì il bisogno di piangere, perché quelle
carezze la
disgustavano, ma ricordava che invece in un altro tempo le aveva
cercate come il sole. Quanto marcia doveva essere stata, per agognare
una corruzione simile?
«Tranquilla.»
le sussurrò. Aveva un tono così dolce
da essere ridicolo, e allora lei rise appena, debolmente. Il caduto
sembrò ignorarla. «Non temere. Andrà
tutto bene, ora.»
Rise
ancora – quasi un singhiozzo. Nel prima
era andato tutto bene. Desiderò non aver mai udito le parole
del
Censore, non essersi mai interrogata su quelle cose
incredibili,
aver confessato tutto a
Leliel quando ancora poteva. Ora sarebbe andato tutto male –
era
già andato
tutto male.
Si
lasciò scivolare di nuovo nel fango, con le ali
premute sotto di sé e le palpebre serrate per non vedere.
Come
sempre, aveva sbagliato tutto.
«Ti
ricordi di me, Ishild?» bisbigliò Michael, senza
smettere di accarezzarle il viso.
Lei
pianse.
* * *
Spalancò
le palpebre.
«Non...»
gorgogliò a
fatica. Ingoiò il sangue che le sporcava la bocca
– si era morsa
le braccia troppo a fondo. La pioggia le pulì le labbra.
«Io
non sono Aenor.»
«Lo
sei stata.»
«So-»
un
singhiozzo le incrinò la voce «sono
Ishild.»
«Sei
stata anche lei.»
Eisheth
rise e si inginocchiò accanto a lei. La morsa
tra i suoi capelli si allentò in una carezza.
«Sempre
così ingenua, bambina.»
Non
capiva, non combaciava con i suoi ricordi, le
stringeva il ventre in una morsa di dubbi e incertezze. Avrebbe
voluto urlare. Domandare. Preoccuparsi di Ridwan.
Avrebbe
voluto, davvero; ma Sachiel, ricordò, era più
importante.
«Devo...
devo trovare...»
«Più
tardi, sì? Resta a farmi compagnia, bambina. Ho
tanto da raccontarti.»
«Ma
io devo...»
«Ho
detto»
il demone le strattonò i
capelli per farla avvicinare, sino a posarle ancora le labbra
all’orecchio «di restare. La tua puttana
è caduta ad un soffio
dai Guardiani e non è il luogo, ti
assicuro, per
riunioni familiari.
Quando si sarà spostata, sarò più che
felice di assistere al
vostro lacrimevole incontro e alla reazione folle di mio figlio. Non
ora.»
Michael
era con Sachiel?
L’angoscia
le strinse lo stomaco.
«Ti
prego, io...»
«Oh,
cara, cara Aenor. Sei adorabile quando supplichi.»
Si
morse le labbra e ingoiò le lacrime. Non poteva sfuggire al
demone,
a quel potere bruciante che l’aveva fatta urlare e piangere
– non
osava
sfuggire al demone. Si odiò per quella debolezza patetica.
«Non
sono Aenor.» ripeté in un sussurro. Eisheth le
sorrise, qualsiasi traccia d’irritazione già
scomparsa dal suo
viso, e le guidò il capo contro il proprio seno,
stringendola al
petto come avrebbe fatto una madre.
«Lo
sei stata, bambina.» bisbigliò.
E
iniziò a raccontare.
Amitiel
avrebbe voluto negarsi e fuggire, ma c’era la
voce di Eisheth a cullarla e guidarla verso un altro tempo, e lei
scivolò indietro, indietro, indietro sino a quando il suo
nome era
un altro e socchiudeva gli occhi per guardare il sole. Si guardava
allo specchio e aveva il cielo nello sguardo, grano nei capelli; si
guardava al fianco e trovava un’altra sé.
«Ti
chiamavi Aenor.»
Si
chiamava Aenor, ma Aenor era doppia, Aenor era solo
una metà.
Aenor
mangiava, respirava, dormiva; ma certe notti, nei sogni, si
affacciava la certezza di essere destinata ad altro. Glielo
sussurrava una donna con lo sguardo quieto e due ali alla schiena, e
l’appellativo di madre a riecheggiare tra le pieghe morbide
del
sonno. Le piaceva l’idea di avere una madre, almeno nei
sogni,
perché quella vera l’avevano uccisa lei e Ishild
dibattendosi tra
le sue cosce. Era una cosa piuttosto comune, le aveva spiegato madre
– le spiegava molte cose. E così Aenor sapeva che
una donna aveva
pagato con la morte l’onore di aver nutrito lei e Ishild nel
suo
ventre, le avevano succhiato la vita l’energia fino a
sfibrarla,
perché non era semplice portarle dentro, no, non loro che
erano
destinate ad altro.
A morire per rinascere diverse, senza né sogni né
respiro né fame.
«Nata
da una figlia degli uomini, come figlia degli uomini. Nata doppia, in
un sistema creato per evitare i legami scomodi.
Adorabile ironia, mia cara, sì?»
A
morire per rinascere sole, senza né padre né
madre né ricordi.
Sorelle di tutti, figlie di nessuno – perché i
Cherubini venivano
creati.
I
Cherubini nascevano, invece. L’essenza germogliava in un
ventre di
donna e si sviluppava lentamente, ancora troppo immatura per
controllare un corpo inumano, incatenata alla debolezza di un
involucro imperfetto. Maturava in spoglie mortali per abbandonarle,
poi, nel momento di massimo vigore; per rinascere con un corpo simile
e due squarci alla schiena, e nessuna memoria del prima.
La Venuta cancellava la vergogna di sapersi quasi umani.
A
Aenor non piaceva, l’idea di dimenticare tutto. Di
dimenticare Ishild.
A
Ishild l’idea di non essere umana piaceva troppo,
invece, e contava i tramonti a quel giorno. Ma Ishild nascondeva
passioni sporche, impure; rincorreva ombre e accarezzava piume nere.
«Oh,
bambina, avresti dovuto abbandonare quell’umanità
quand’eri in tempo; e invece guardarti ora. Bambina, bambina
cara.»
E
Aenor era gelosa.
Gelosa
di Ishild, della sua compagnia sempre più rara,
dei pensieri che non confidava. Gelosa delle notti trascorse altrove,
mentre lei restava sola, sola, sola, e guardandosi al fianco non
trovava più nessuno.
Gelosa
di attenzione e baci e carezze e del piacere che riservava ad un
altro, perché – che la perdonessaro, per favore,
che la
perdonassero – la
voleva.
Come un uomo avrebbe voluto una donna.
Ma
erano due donne ed erano sorelle e presto non
avrebbero ricordato più nulla.
Aenor
non voleva dimenticare Ishild.
Aenor
voleva restare umana, perché non riusciva a
immaginare, davvero, un mondo senza sogni e senza sole e senza
Ishild.
«Orgogliosa
della tua umanità. Forse fu per questo che il Fuoco ti
rifiutò,
bambina.»
Ishild
che si dissolveva tra le fiamme, accompagnata da
una litania ipnotica.
E lei,
con l’essenza protesa verso un altro luogo e la
volontà a negarle un corpo immortale.
Lei
ferita dentro, squarciata da quel conflitto.
Lei,
incatenata a quelle spoglie.
Le
fiamme non smisero di ardere.
«E
poi?»
«Poi
sei diventata Ishild.»
|
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Capitolo 34 *** 33. Ishild ***
Capitolo
33 –
Ishild
Non
l’ha udito
arrivare.
Si
è voltata
all’ultimo istante, scorgendone la figura distorta sulle
acque del
torrente, appena prima che l’uomo giungesse a sfiorarla; ora
indietreggia appena, con le braccia al petto e
un’inquietudine
violenta.
Non
è la prima volta
che lo vede – ma mai così vicino, mai a solo un
soffio da lei. Mai
più di una presenza evanescente, a scrutarla a distanza con
occhi
che riecheggiano qualcosa.
Occhi
che riecheggiano
qualcosa.
Riecheggiano
qualcosa.
Qualcosa.
E
allora lo fissa in
silenzio, senza urlare, senza fuggire, cercando di dare un senso a
quel qualcosa che riecheggia lontano.
Lui
china il volto per
ricambiare lo sguardo – è più alto
degli uomini del paese, più
alto persino di Artair, che sfiora gli stipiti con il capo.
È più
robusto, più grande, e quando le tende una mano lei si sente
minuscola. Potrebbe stringerle il collo e strangolarla senza fatica,
con quella mano.
E
invece l’uomo le
preme due dita sulle labbra, come a zittirla.
Lei
sussulta.
È
gelido.
«...Ishild.»
Piange.
Piange
e singhiozza e
urla e non capisce, non vuole credere, tra le dita si trova capelli
strappati. Chiede perché. Chiede di lei.
Vomita parole in una lingua estranea, la lingua di madre
nei sogni, dubbi e domande e ancora singhiozzi e ancora urla.
Lui
la guarda
dall’alto, in silenzio.
«Dimmi
che non è
vero.» rantola con la voce arrochita. Solleva
lo sguardo a fissarlo, implorante. «Dimmi che stai mentendo.
Ti
prego.»
L’uomo
allunga una
mano e le scosta i capelli dal viso, in una carezza lieve.
«Non
posso, Ishild.»
«Morag,
sì? Un nome
grazioso, bambina.»
La
donna la guarda con
il volto inclinato di lato, come se il collo non riuscisse a
sostenerlo.
«Preferisco
Ishild.»
Risata
– bocca
spalancata. Zanne scoperte.
«Oh,
Morag. Bambina.»
«...io
sono Ishild.»
«Tu
credi?»
Le
si avvicina
barcollando, quasi ondeggiasse nell’aria, sospinta dal vento.
Tutto
in quella donna sembra decadente
– anche il passo. Anche il riso. Anche il respiro caldo,
bollente,
ad un soffio da lei.
Una
decadenza
spaventosa e ammaliante.
«Eppure»
sibila il
demone contro le sue labbra «non puoi dire d’essere
la stessa di
un tempo. Sei rinata. Sei diversa. Sì?»
Lei
annaspa, trema
sotto quello sguardo – barato oscuro che la inghiotte senza
speranza. Vorrebbe solo chiudere gli occhi e coprirsi le orecchie, ma
non può, perché quella voce è una
nenia che incanta e incatena.
«Dici
di essere
Ishild.»
La
donna sorride,
dolcissima.
Spaventosa
e
ammaliante.
«Ma
Ishild, bambina,
non è che lo spettro di un’ossessione.»
Lei
è ombra rincorsa negli incubi, vuoto che divora, figura
evanescente.
Sa
che lei
esiste, che è importante. Riconosce il suo richiamo nella
solitudine
opprimente, ne cerca il volto tra i ricordi del prima
– ma i ricordi del prima
sono nulla. Memorie vuote. Solo le parole di Michael a narrare,
spiegare, dipanare davanti a lei la trama di un passato che non
rimembra.
Sa
che lei
esiste,
che è
importante, e che un giorno potrà riaverla e cadere insieme
e non
separarsene più.
Ma
di lei
non sa null’altro e annaspa nell’ignoranza, nel
silenzio di occhi
grigi troppo distanti, cercando di dare un nome all’assenza.
«Mi
ami?»
Michael
aggrotta la
fronte, stringe le labbra con irritazione. La mano, mentre scorre a
pettinarle i capelli, ha un fremito.
Non
risponde.
«Mi
ami, Michael?»
Silenzio
– ancora.
Lei
gli appoggia la
fronte contro un braccio a sospira.
«Perché
non
rispondi?»
«Cosa
vuoi sentirti
dire?»
La
sua pelle è fredda,
ma la sua voce di più.
Sempre
così gelido.
Così distante.
«Di
certo mi hai
amata, se sono qui. D’altronde non è stato il
nostro amore
a farmi rifiutare dal mio primo Fuoco? Non è stato
perché tu mi hai
toccata?»
Gli
stringe il braccio,
affonda le unghie nella carne per reclamare la sua attenzione. Lui la
guarda dall’alto e non reagisce. Forse non se
n’è neppure
accorto, o forse la sta solo ignorando per non cedere alla furia. Non
le piacerebbe se cedesse, immagina.
Continua
comunque.
«Dici
che la ferita mi
aiuterà a ricordare, che ritrovare lei
mi aiuterà a ricordare, quando il Fuoco mi avrà
accettata. Che
potrò tornare da te, eterna e immortale. Penso che...
sì, penso che
si possa definire amore,
forse, questo tuo desiderio di avermi con te per sempre. Non credi,
Michael? Eppure» storce le labbra in una smorfia
«eppure
trascorrono mesi, prima che tu torni da me. Né sembra
costarti molto
sforzo, mantenere puro
il mio corpo.»
Lui
resta a fissarla in
silenzio, immobile, per un tempo che le pare infinito.
Istanti
di stasi.
E
poi sente la sua mano
gelida contro il volto e il suono di un colpo e lei
all’improvviso
rovina a terra. Bruciore, sangue dal labbro spaccato – fa male.
Il
caduto incombe su di
lei, fremente di collera.
«Ti
avevo detto di non
parlare con Eisheth.»
Lei
sorride, anche se
il labbro rigurgita sangue. Ha voglia di piangere.
«Mi
ami, Michael? O è
solo ossessione?»
Michael
le volta le
spalle.
(rabbia
silenzio
solitudine.)
Non
usi mai il mio nome. Eisheth a volte mi parla del prima.
Mai il mio nome. Non capisco. Dove vai? Da
Dumah.
No,
non andare. Per favore. Per favore, resta. (silenzio.)
Mai
il mio nome. Mai il mio nome. Ti prego, parlami di lei. Parlami del
prima. Ci
sono
cose, del prima, che potrebbero non piacerti.
Ma
io voglio sapere. Ti prego. No, non andare. Resta. Resta... (rabbia
silenzio solitudine dubbi.)
Non
usi mai il mio nome. Mai il mio nome. Io sono Ishild, non sono uno
spettro. Sono qui, perché non mi guardi? Perché
non mi parli?
(silenzio.)
Ti manca mai il Paradiso? Voglio essere l’unica a mancarti.
Solo
io. Dimmi che sono l’unica, dimmi che sono importante. Dimmi
che mi
ami.
(rabbia
silenzio
solitudine dubbi terrore.)
E
se non ricordassi? E se non la riconoscessi? E se- hai
paura.
...sì.
Stringimi, ho paura. Mi disprezzi, vero? Sono sempre così umana,
lo so. Non
li
tradirai. Resterai con loro.
Non...
no, non dire questo, non dirlo, ho bisogno di sapere che ci sei, che
mi aspetterai, avevi ragione tu non avrei mai dovuto ascoltare
Eisheth mi sono venuti tutti questi dubbi ma ti prego non dire
così,
sto crollando non vedi? Ho bisogno di te. Ho bisogno di te. Li
temi. Li temi a tal punto che non oserai.
No,
no no no no, no, non sono codarda, non sono una di loro, non
disprezzarmi, non sono... Dimostralo.
Socchiude
gli occhi.
Il
sole, all’orizzonte,
muore per rinascere ancora.
Come
me. Come noi.
«Povera,
povera cara.
Povera sciocca.» sussurrò Eisheth, stringendola
contro il proprio
petto. Le accarezzò le guance, si bagnò le dita
delle sue lacrime.
«Fa male, sì? Sapere di essere stata ingannata,
usata, tradita.
Sapere che qualcuno ha voluto sibilarti menzogne, avvelenarti la
mente. È davvero crudele, bambina, sì?
Così sola, confusa,
disperatamente affamata di attenzioni. E lui è giunto ad
abbracciarti, bambina, bambina sciocca...»
strusciò le labbra
contro i suoi capelli «solo per strapparti le ali.»
* * *
Dita
di ghiaccio
cercavano le sue labbra, gli zigomi, il groviglio dei capelli. Le
percorrrevano il volto come a voler ritrovare forme conosciute e
riecheggiare il passato, ribadire un possesso.
«Non
piangere.»
bisbigliò il caduto «Va tutto bene, Ishild, ora
va tutto bene.»
Le
baciò le gote, si
bagnò le labbra delle sue lacrime.
Fece
male.
Fece
schifo.
Lei
voltò il viso di
scatto per sottrarsi a quel tocco. Pregò che la pioggia
lavasse la
vergogna e il disgusto, ma dalle gocce ottenne solo altro gelo,
brividi di freddo a scuoterle il corpo ancora nudo – un
freddo che
veniva da dentro e non se ne sarebbe più andato,
perché era la sua
stessa essenza ad agonizzare nel ghiaccio.
Se
solo non avesse
ascoltato il Censore, se solo avesse ignorato quelle cose
incredibili – Cherubini nati umani e madri e unioni
fertili e
schiene senza squarci e basta per favore basta.
Avrebbe voluto
cancellare ogni parola perché era troppo, troppo da
assimilare,
troppo da sostenere. Portava alla follia. Alla Caduta.
E
lei era caduta,
infatti. Con un altro dannato ad attenderla.
Se
solo da umana non si
fosse lasciata corrompere.
«Ishild,
non mi
riconosci? Non ricordi?»
Sì,
ricordava – grazie al Censore e all'essenza sconvolta dal
Fuoco e a
un bacio che aveva risvegliato troppo.
Ricordava e si odiava.
«Lasciami
in pace.»
Ricordava
e lo odiava.
«Ishild...»
Lo
sguardo dello
sconsacrato era dolore confuso che le colava addosso. Avrebbe voluto
rallegrarsene, ma i singhiozzi continuarono a violarle le labbra, i
rimpianti non smisero di stringerle la gola. L'angoscia minacciava di
non concederle mai tregua, indifferente persino alla stanchezza
opprimente.
«Io
sono Sachiel.
Ishild non esiste più.» lasciò che le
ali si accasciassero attorno
al busto, esausta, sottraendo la pelle nuda agli sguardi
«Lasciami
in pace, Michael.»
Lui
le sorrise con una
malinconia dolce, delicata quanto la carezza che le sfiorò i
capelli.
«Non
posso.»
*
* *
«Ci
pensi, bambina?
Sei stata nelle sue mani per la tua intera vita. La ferita che lui ha
corrotto, lui ha infettato, senza che potesse mai chiudersi. Anane
che ti ha condotta a lui. I tuoi pensieri impuri, i tuoi ricordi,
l'attrazione verso quella puttana... lui lo sapeva, bambina. Lui ti
ha condannata a marcire nel dolore e nel passato, perché sporcassi
la puttana. È sempre stata lei, quella
importante. Lei.» le
baciò il capo «E di te, bambina, cosa rimane ora?
Una bambola
inutile, gettata nel fa-»
Eisheth
tacque. Tornò
a parlare dopo un istante, la voce inasprita e rivolta ad un altro.
«…la
feccia è
in fermento.»
Amitiel,
ancora stretta
al suo petto, avvertì le sue braccia farsi più
calde.
«Sephon?»
«Siamo
ancora celati.»
rispose una voce maschile, dietro di loro. Il cherubino
sussultò –
non aveva percepito nessuno oltre ad Eisheth.
«Questo
lo so,
Sephon.»
Il
demone la lasciò e
si alzò in piedi di scatto, urtandole il viso con le gambe.
Bruciore.
«Il
Custode?»
«Ancora
dov'era,
inerme. Sto celando anche lui.»
«Vivo?»
Sibilo.
Inquietudine.
L'aria
che tornava
bollente, carezze minacciose di un'essenza inquieta. La pioggia aveva
smesso di cadere: nulla portava conforto dal calore, nulla lavava le
lacrime.
«Tua
figlia ha un...
un certo attaccamento verso di lui. Ho pensato che-»
«Idiota.»
«Vado
subi-»
«L'hanno
trovato.
Idiota!»
Amitiel
portò le mani
alle tempie – mal di testa. Nausea. Non capiva.
«Cosa...»
mormorò,
alzando lo sguardo su Eisheth.
La
donna storse le
labbra in una smorfia e sibilò: «Sono sempre
più scontenta,
bambina.»
«Eisheth,»
s'intromise l'altro demone «aprono un passaggio. Ne arrivano
altri.»
«Quella
puttana non si
sposta. Vogliono farsi ammazzare?»
Quella
puttana.
Sachiel.
Amitiel
fece forza con
le gambe e si rizzò lentamente, percependo ogni muscolo
rigido per
l'essenza ancora sconvolta. Si aggrappò ad un braccio di
Eisheth. Il
demone arricciò ancora le labbra, come infastidita, ma da
vicino la
sua smorfia si rivelava quasi un ghigno.
«Sì,
bambina, vieni
anche tu. Sarà divertente.»
* * *
«...Khamiel?»
«Spostati,
Liwet.
Voglio gli Arcangeli.»
«Ci
è permesso
recuperare i nuovi Ca- ah!»
Successe
tutto molto in
fretta. L'urlo si levò mentre ancora sembrava riecheggiare
il colpo,
poi qualcosa sbatté contro una superficie dura e cadde a
terra –
no, non qualcosa. Qualcuno. Ma nel momento in cui lo
realizzò già
risuonavano altre voci, ringhi, gorgogli rauchi, e Michael era ritto
davanti a lei con le ali tese.
«Cosa
volete?»
«Il
cherubino.»
«È
adulta, Guardiano.
Sono certo che tu sappia contare sei ali.»
Una
sagoma si mosse
verso Michael, ma prima ancora che lei riuscisse a distinguerla c'era
stato un altro colpo sordo, membra contrapposte, un ringhio di rabbia
a vibrare nell'aria. Altri due arcangeli si erano affiancati a
Michael per fermare il Guardiano: una aveva ali nere come ombre e un
viso sconosciuto, l'altro piume bianche e capelli color sabbia e una
mano sulla spalla di Khamiel – Gabriel, lo riconobbe, Gabriel
che
tante volte aveva salutato nella luce, in Paradiso. Khamiel ancora
ringhiava, trattenuto dal caduto a lei estraneo e dall'arcangelo
candido, mentre dietro di lui altri Guardiani latravano parole roche
– Simiel e Hagar e Ramiel e altri, altri che aveva intravisto
nei
viali, udito discutere alla Via, timbri dolorosamente familiari.
Sì,
successe tutto
molto in fretta, perché lei non avrebbe mai potuto avere i
riflessi
di un arcangelo e il gelo le rodeva le ossa, stordendola.
Ma
i Guardiani erano
giunti, finalmente, a porre fine all'agonia e al disgusto.
«Calmatevi.»
tuonò
Gabriel, sovrastando gli altri. Scese di nuovo il silenzio –
neppure la pioggia scorreva più, persino il cielo era muto.
Khamiel
assecondò la stretta del compagno e si allontanò
di un passo.
«Stiamo
raccogliendo
un nuovo caduto.» sibilò Michael, ancora fremente
«Non vi è
concesso intromettervi.»
«Attaccate
i
Cherubini, ora?» una voce femminile – Ramiel.
«Così rispettate i
patti?»
«Vedi
cherubini?»
rispose uno sconsacrato, gorgogliando una risata.
«È
svanito nel nulla,
quindi.»
Khamiel
tornò a
parlare, rauco e minaccioso. Sachiel si ritrasse, spaventata, ma
nessun altro diede segno di timore. Non avevano conosciuto l'ira di
Khamiel, forse? Non era un bene far arrabbiare Khamiel, no, no.
Davvero. Dal basso vide la sua espressione distorta dalla furia e
strisciò più indietro.
«Il
cherubino è
svanito nel nulla, e il Custode si è massacrato da
solo.»
«Cosa
farnetichi,
Guardiano?» latrò una donna, l'arcangelo caduto
che aveva fermato
Khamiel.
Idioti.
Idioti. Sarebbe
stato solo peggio, a quel modo, più lungo e più
atroce, e lei
invece voleva solo chiudere gli occhi e trovare il nulla ad
attenderla. Prima che la sua essenza si guastasse e le sue piume si
annerissero e lei diventasse come loro, corrotta, crudele,
ché il
Paradiso a volte l'aveva nauseata e ferita ma era sempre meglio di
loro,
del loro marciume, del
loro orrore, il Paradiso era l'alternativa migliore perché
in
Paradiso c'era luce e calore e c'era Amitiel e se non poteva avere il
Paradiso allora non avrebbe avuto niente. Era meglio così,
davvero,
era meglio morire che corrompersi, restare incatenata a quel caduto
agghiacciante, macerare nei rimpianti e nell'orrore e nella vergogna
di ciò che aveva ricordato, ciò che era successo,
ciò che aveva
fatto.
Che
si scontrassero e
basta, senza logorarsi con parole che lei capiva solo in parte,
troppo angosciata e stordita. Che facessero schioccare i colpi e
risuonare le grida, e che la uccidessero, pregava, che la uccidessero
in fretta.
«Gabriel,
non
collaborano.» ringhiò Khamiel.
L'altro,
in risposta,
ritirò la mano dalla sua spalla.
Di
nuovo, successe
tutto molto in fretta.
***
Angolo autrice
Piano piano si chiudono le fila, ma come vedete, l'azione
non è finita! *ride malefica*
Grazie mille a chi mi segue. Prima o poi riuscirò a
rimettermi in pari con le risposte alle recensioni, non mi aspettavo
davvero di riceverne così tante!
Alla prossima (:
|
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Capitolo 35 *** 34. Sangue ***
Capitolo
34 – Sangue
«Portala
via.»
Michael
ringhiò l'ordine mentre già le dita di Khamiel
scattavano verso la
sua gola, le unghie irrigidite simili ad artigli. La donna accanto a
lui obbedì, ma nello scatto per raggiungere Sachiel si
arrestò
bruscamente.
Sachiel
vide il suo volto distorto dalla furia, le ali macchiate di bianco
quando si voltò. C'era Gabriel dietro la donna, con la mano
ferita
dalle sue piume taglienti, e quella ringhiò di rabbia e
dolore nel
venire sporcata ancora dal suo sangue. Anche Michael latrò
un verso
ferino, da qualche parte – non era più di fronte a
lei, rimanevano
solo gocce nere a divorare la terra. Altre grida, voci conosciute
mischiate a timbri estranei. Essenze violente che si mordevano e
respingevano e turbinavano, stridevano in quella dimensione a cui non
appartenevano, e lei le percepiva tutte con quel nuovo corpo, ma era
troppo, la opprimeva, la stordiva.
Si
portò le mani al capo.
La
donna tornò all'improvviso vicino a lei, con i denti esposti
in un
ringhio bestiale e un occhio socchiuso, il volto deturpato da
abrasioni. Le afferrò un braccio con una mano gelida,
umida di sangue bollente,
e la strattonò in piedi ignorando le sue urla.
Dolore.
Le
sembrò che il
proprio corpo dovesse ripiegarsi su sé stesso, incapace di
sopportare oltre, e invece le gambe ressero, le ali si distesero per
bilanciarla. Si strappò alla presa violenta dell'altra
– no, la
strapparono. Gabriel si avventò di nuovo sull'arcangelo,
rovinarono
entrambi a terra. Un urlo, lontano. Qualcosa le sfrecciò
accanto,
Sachiel sussultò e si ritrasse.
Il
braccio bruciava.
La
donna tentava di mettersi in ginocchio, si sosteneva con le braccia.
Perdeva sangue dall'occhio socchiuso – no, da dove c'era
stato
l'occhio. Gabriel, da terra, vibrò un calcio.
Il
tallone impattò
contro il gomito della donna.
Schiocco.
Urlo.
La
donna crollò di
nuovo.
Sachiel
si tastò il
braccio, sibilò quando sangue gelido le bagnò le
dita. Era ancora
candida – le ali e il sangue e l'essenza – ma
già l'esilio la
rendeva ghiaccio e abiezione.
«Mihr!»
Un
grido, un'essenza
glaciale che si tendeva a proteggere quella della donna mentre
Gabriel le gravava addosso, affondando gli artigli alla base delle
sue ali. Mihr aveva il ventre a terra, il viso rivolto verso Sachiel
a fissarla con un occhio solo, annebbiato di furia e dolore.
La
furia si tramutò in
trionfo. Gabriel era in piedi, a pochi passi di distanza, con il viso
sanguinante e un altro caduto ad assalirlo.
E
poi fu in piedi anche
in Mihr, vicina, a stringerle di nuovo un braccio e ringhiare:
«Andiamocene.»
Aveva
una bella voce,
notò Sachiel, anche se resa roca e bestiale dallo scontro
– una di
quelle voci create per cantare. Aenor aveva avuto una voce
così, un
tempo.
Chissà
cos'era
successo a Aenor.
Chissà
cos'era
successo a Ishild – perché lei era Sachiel,
Sachiel, non Ishild.
Ishild era persa, morta, forse rinata, ma non era lì. Non
era lei.
Ishild
forse avrebbe guardato quell'occhio furioso, quell'orbita vuota che
rigurgitava sangue, e chinato il viso in un impeto di compassione e
timore; avrebbe cercato Michael con lo sguardo per assicurarsi che
stesse bene e disteso le ali per volare via, fuggire, aspettare che
lui la raggiungesse.
Sachiel
guardò
quell'occhio furioso, quell'orbita vuota che rigurgitava sangue, e
senza chinare il viso rispose.
«No.»
L'aria
risuonava di
colpi e ringhi, s'inspessiva di essenze rabbiose che tentavano di
mordere, lacerare, annientare. Sangue scuro e candido si mescolava
sul terreno spoglio dei colli, come a voler riflettere le nubi
grigiastre che soffocavano il cielo.
Gli
squarci urlavano ad
ogni battito, ma Amitiel continuò a volare, instabile,
frugando con
lo sguardo lungo i pendii. Su un'altura due Guardiani affrontavano
uno sconsacrato, gli artigliavano le ali per impedirgli di volare.
Una sagoma nera stesa a terra, sulla cima di un altro colle; Eisheth
e Sephon discesero per atterrarle accanto. Una fitta più
intensa
alla schiena le oscurò la vista. Si sentì
precipitare per un
istante, prima di riprendere quota a fatica, ma le ali erano rigide,
l'essenza incontrollabile. Continuò a cercare –
arcangeli e
arcangeli e arcangeli, violenza volta a versare sangue, a indebolire
e prosciugare l'essenza e uccidere, un Guardiano immobile sotto i
colpi – ma scartò ogni viso, ogni voce,
perché non importavano,
non erano Sachiel. Avrebbero potuto morirle cento Guardiani davanti e
non le sarebbe importato comunque. Un lampo biondo la fece
sussultare, ma era solo un altro caduto. Stanchezza. Dolore.
Obbedì
alle
implorazioni degli squarci, si lasciò cadere accanto ai due
demoni.
Rovinò sulla cima della collina e batté le
ginocchia contro il
terreno – non riusciva a volare. Non riusciva neppure ad
alzarsi in
piedi, troppo stanca, troppo rigida, con l'essenza sconvolta
dall'angoscia. Ma Sachiel, Sachiel...
Tentò
di estendere le
Percezioni, ma le essenze in lotta stridevano in quella dimensione
estranea, la stordivano, e allora si morse le labbra per non urlare e
le ritirò di nuovo. Sachiel, urlava ancora la sua mente,
Sachiel,
Sachiel, Sachiel, Sachiel era lì e lei non riusciva a
trovarla. Un
urlo strozzato le raschiò la gola, il verso di una bestia
ferita. Si
rialzò tremando.
«Ti
cercavano,
cherubino.» mormorò Liwet, stesa a terra. Amitiel
la guardò di
sfuggita. Non sembrava ferita: solo una chiazza grigiastra le
macchiava uno zigomo, come se fosse stata colpita con violenza. Ma
era la sua stessa essenza, angelo tra arcangeli, a proibirle lo
scontro – e nessuno avrebbe perso tempo ad attaccarla.
E
lei, cherubino,
avrebbe voluto addentrarsi tra quei combattenti?
Scacciò
quel pensiero.
«Non
che fosse più di
un pretesto, s'intende.» continuò l'angelo. Si
mise a sedere. «E
in un pessimo momento.»
«Si
ritireranno a
breve?» chiese Sephon, aiutandola ad alzarsi in piedi. Un
altro che
non avrebbe mai potuto avvicinarsi agli arcangeli in lotta.
«Non
credo.»
«Credi
male, Liwet.»
gorgogliò Eisheth. Li superò per avvicinarsi il
crinale e si voltò
a guardarli con un ghigno. Nell'aria scura e densa, tuonante di urla,
sembrava ancor più fosca. Pericolosa.
«Ci
sono io, sì? A
risolvere i problemi di mio figlio, a scacciare i cani.
Come
sempre.»
Eisheth
ruotò su sé
stessa, latrando una risata. Fissò Amitiel negli occhi e
spalancò
le braccia, come a voler abbracciare tutto quell'orrore, colpi e
ringhi e sangue e Sachiel che non c'era.
«Divertiti,
bambina.»
Balzò
indietro,
evitando le dita artigliate di Mihr. Atterrò più
lontano di quanto
avesse previsto, ma già l'arcangelo le era di nuovo di
fronte, a
colpirle il viso. Vide la mano avvicinarsi, le dita piegate, la parte
dura del palmo a impattare contro il mento e spingerlo verso l'alto;
non fu abbastanza pronta per reagire. I denti sbatterono, si
trovò a
guardare il cielo con la vista offuscata – un istante. Solo
un
istante. Poi il suo corpo reagì e abbassò il
capo, smise di esporre
il collo; le braccia si sollevarono a bloccare la mano di Mihr.
Unghie
le graffiarono
la gola. Un rivolo gelido iniziò a colare.
Scostò
l'arto di lato,
con la mano libera cercò una spalla e spinse, balzando
ancora
indietro. Quel nuovo corpo era rapido, scoprì, e forte.
Mihr
indietreggiò di un passo per la spinta, visibilmente
affaticata per
il sangue perso, stordita dal dolore – un'orbita cava, un
braccio
inerme lungo il fianco.
Non
abbastanza rapido,
però, né abbastanza forte: l'arcangelo la
raggiunse in un istante e
le afferrò un'ala, strattonando.
Sachiel
urlò.
Un
altro urlo risuonò,
più violento del suo.
Una
bestia ferita, un
mostro furioso che ruggiva in cielo.
Amitiel
riconobbe la
voce, alzò lo sguardo di scatto per trovare la fonte del
grido. Un
caduto precipitava, stretto da un puro lercio di
sangue
corrotto. Piovevano stille nere.
Lei
corse da quella
parte per vedere meglio, incespicando sulle gambe tremanti;
riuscì a
scorgere i volti, così, Michael e Khamiel della sesta
classe.
Sachiel non ne sarebbe stata felice, pensò. Sachiel aveva
paura di
Khamiel.
L'arcangelo
candido
abbandonò l'altro e distese le ali, Michael
impattò contro il
terreno. Il grido si scurì in un ringhio. Khamiel
atterrò accanto a
lui e piegò un ginocchio, sollevò il piede. Le
braccia del caduto
s'incrociarono a proteggere il viso, ma il colpo giunse più
in
basso, a infierire sul fianco squarciato. Il caduto si voltò
di
lato, gravando su quello stesso fianco; piegò le gambe al
ventre e
slanciò un piede, quando Khamiel aveva appena ritirato il
proprio.
Il tallone impattò contro il ginocchio teso.
Khamiel
non cadde. Si
voltò per fronteggiare una donna, giunta alle sue spalle;
dal cielo
calarono altri Guardiani e Amitiel, in quella ferocia caotica, non
riuscì più a distinguere nulla.
Michael
urlò di nuovo.
L'ala,
nel trovarsi
all'improvviso libera dalla stretta feroce, sembrò quasi
dolere di
più. Sachiel socchiuse gli occhi, arricciò le
labbra quando una
scia gelida scivolò tra le piume. Di nuovo sola, di nuovo
ignorata
dagli arcangeli in lotta come un semplice ostacolo, un fantoccio
inutile. Sollievo. Era bastato un grido di Michael perché
Mihr
scattasse a soccorrerlo – sperò che stessero
massacrando entrambi.
Forse
anche il caduto
che teneva impegnato Gabriel se n'era andato, perché
l'essenza
dell'arcangelo la investì con violenza. Voltò il
capo, stupendosi
di trovarlo all'improvviso accanto a sé.
Lui
la guardava
dall'alto, serio, con una ruga profonda a solcargli la fronte. Un
braccio già flesso nell'istinto di colpire; eppure esitava.
Sachiel
ricambiò lo sguardo senza reagire, quasi sfidandolo, quasi
chiedendogli perché indugiasse. Pensava a quando, talvolta,
l'aveva
accompagnata nella dimensione umana con gli altri Cherubini? O forse
a quando l'aveva vista al fianco di Leliel, a quando anche lui era
stato allievo dell'Autorità, a quanto l'insegnante avrebbe
sofferto?
O... la memoria del prima ricompose le schegge,
restituendole
l'immagine di Gabriel che attendeva il rogo di un corpo umano.
L'aveva guardata così anche quel giorno, ricordò,
con una ruga
profonda a solcargli la fronte e la serietà nello sguardo.
Forse
sì, ripensava a
quando lei era rinata in Paradiso, guidata dalla sua essenza.
Ed
esitava.
Mihr
era lontana, ma
presto sarebbe tornata da lei, per condurla via e condannarla a
tornare Ishild; e allora lei sarebbe morta, morta dentro, lo sapeva,
perché Ishild non esisteva più e c'era Sachiel al
suo posto.
Passare l'eternità con un caduto, a ricordare e rimpiangere
e
disgustarsi e marcire e rimpiangere ancora, e ripensare ad Amitiel, a
Aenor, a Leliel e al Paradiso e alla luce e al calore... no. Sarebbe
morta.
E
Gabriel, ancora,
esitava.
Lei
gli sorrise,
tremando. Serrò le palpebre e si riempì la mente
di luce, di una
carezza rara di Leliel, e degli occhi di Amitiel, delle labbra di
Amitiel. Il rimpianto le strinse la gola.
Mi
dispiace,
avrebbe voluto urlare,
e invece sussurrò altro.
«Uccidimi.»
«Là.»
le sussurrò
Liwet, giunta al suo fianco.
Amitiel
seguì con lo
sguardo la direzione del suo indice teso, scivolò lungo il
pendio di
un altro colle. Non vide nessuno.
«Là,
in basso. Se è
lei che cerchi.»
Scese
ancora e scorse
un lampo biondo, sagome bianche che si stagliavano contro la terra
nera.
Il
sollievo morì in un
rantolo di terrore.
Sforzò
le ali rigide,
sentì gli squarci urlare e il sangue colare lungo la
schiena,
dolore, le ginocchia sbatterono a terra, portò le mani
davanti al
viso nel crollare. Dolore. Terrore. Singhiozzò, l'odore di
terra
bagnata le invase le narici. Si rialzò, incespicò
lungo il pendio
prima che le ali riuscissero a tendersi di nuovo, le mosse frenetica
e con un grido strozzato si sollevò.
Il
lampo biondo era
ancora là, ma le sagome bianche erano troppe, non sei ali ma
di più,
troppe, troppe ali, e una fascia nera e altro bianco – fiumi,
pozze
che stagnavano a terra. Doveva avere la gola squarciata, le ali,
tutto il corpo nudo abbandonato contro il Guardiano, perdeva troppo
sangue, la stava uccidendo, la stava uccidendo e Sachiel non reagiva.
Amitiel rovinò ancora sul terreno, sangue nero le
macchiò una mano.
Singhiozzando si lasciò cadere, altro gelo a bruciarla,
grida troppo
vicine. La risata di Eisheth. Rialzò lo sguardo e Sachiel
era lì,
ad un soffio, avrebbe potuto correre da lei, era lì,
lì, venti
passi forse? Sì, venti passi, sarebbero bastati venti passi
per
raggiungerla, poteva vedere il suo profilo, le palpebre strette, le
labbra socchiuse in un gemito, la pelle nuda sporca di terra, e le
mani del Guardiano che la sorreggevano mentre la sua gola vomitava
sangue, e il ventre e le ali e... e Sachiel non reagiva, restava
lì
a morire, a farsi prosciugare il sangue e l'essenza, Sachiel,
Sachiel, Sachiel Sachiel Sachiel Sachiel...
Urlò.
Sachiel spalancò
le palpebre, voltò il capo verso di lei con il viso distorto
dall'agonia. Anche Michael urlò, rabbioso, da qualche parte
che era
troppo troppo troppo vicina. Eisheth non rideva più. No,
sillabò Sachiel, ma dalle labbra le uscì solo un
gorgoglio
soffocato dal sangue. Aveva lo sguardo un po' perso, annegato nel
dolore. Andava via.
Anche
lei era andata
via, pensò Amitiel, sì, anche lei, ma Sachiel era
sempre riuscita a
riportarla indietro e si erano strette l'una contro l'altra, ossa e
carne morbida e calore, come aggrappandosi alla vita. Anche lei
poteva riportare indietro Sachiel, sì, anche lei.
Si
mise in ginocchio,
sporca di sangue e terra, e Sachiel gorgogliò ancora tra le
urla
troppo vicine. Anche lei poteva, anche lei poteva, non era ancora
tardi, anche lei pote-
Qualcuno
le afferrò un
braccio, strattonò per trascinarla in piedi.
«Via.»
le ringhiò
all'orecchio una voce familiare. Amitiel diede uno strattone nel
senso opposto, verso Sachiel, e ancora l'altra gorgogliò
qualcosa e
la guardò con quella sua maschera di agonia, ma era uno
sguardo
sempre più perso, sempre più distante.
«Sachiel.»
singhiozzò
lei, e si rese conto solo in quel momento di averlo ripetuto senza
tregua. «Sachiel. Sachiel.»
«Via.»
ordinò di
nuovo la voce familiare, ma lei ancora si divincolò, morse
la mano
che tentava di afferrarle il collo, sapore di terra e sangue
dolciastro le investì la lingua. Gridò, ma
Sachiel non rispose. Il
sangue era tanto e colava, colava, colava. Le sei ali pendevano
flosce alle sue spalle. Il suo viso si stava scurendo, sulla pelle si
aprivano crepe come nella terra arida. Il suo sguardo non guardava
più niente.
E
il sangue colava,
colava, colava, e ancora colava prosciugando l'essenza. Un lago di
morte.
La
cenere scivolò tra
le braccia del Guardiano.
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Capitolo 36 *** 35. Fiore marcio ***
Capitolo
35 – Fiore marcio
Aveva
le unghie sporche – grumi neri sotto il bordo, sulla pelle.
Un
insulto al candore.
Si
portò la mano alla bocca, ma lo sguardo disgustato del
Guardiano
sembrò bruciare su di lei. Lo ignorò. Li
raschiò con i denti
unghia per unghia, li sputò accanto alle proprie gambe
raccolte, sul
pavimento bianco.
Un
insulto al candore.
L'avrebbe
rifatto, se avesse trovato la forza di sollevare anche l'altra mano.
La guardò, pelle sporca e unghie nere e dita torte ad angoli
strani,
abbandonate sulla coscia. Dolevano – Ramiel aveva stretto e
piegato
e strattonato per trascinarla, per farle male. Decise che ripulire le
unghie non era così importante.
Spinse
le ali a circondarle il busto – dolore. Erano troppo rigide
per
avvolgerla, e allora le abbandonò di nuovo contro il muro.
Si
abbracciò le ginocchia e vi appoggiò il capo,
nascondendo il viso,
ma lo sguardo del Guardiano continuò a bruciarle addosso.
Sentì gli
avambracci appiccicosi contro la fronte, acqua e terriccio impastati
sulla pelle nuda. Doveva apparirgli così sporca,
pensò, così
miserabile, abbandonata contro la parete. Avrebbe voluto
rannicchiarsi in un angolo, ma c'erano tracce rosse sul pavimento,
sangue di demone che non era stato lavato. Chissà se erano
stati lì,
i demoni che era stata costretta ad attaccare. Non tutti, no
– era
una stanza troppo piccola, ogni lato non più di quattro,
cinque
passi. Ma alcuni. Se li immaginò ammassati, corpi dilaniati
da cui
colava sangue acido. Ringhi, chiostre di denti aguzzi, le unghie
indurite in artigli. Il tormento dell'aria tiepida, della luce.
Terrore. Avevano avuto anche loro un Guardiano a fissarli dall'alto,
a farli sentire nudi e disgustosi? Essenze sconvolte che si
scontravano contro le pareti, senza riuscire a oltrepassare quella
pietra troppo densa.
Era
la pietra che formava i templi, che custodiva il sonno dei Cherubini
più maturi: una barriera impossibile da penetrare.
Prigionieri
in una bolla di luce.
Era
stanca. Quanto tempo era passato? Lì non arrivavano i
richiami dei
Fuochi a scandire i cicli, né il sole a dividere i giorni.
Le
mancava il tramonto. Lo guardava spesso un tempo, ricordò.
Da umana
– da Aenor. O da Ishild?
Scosse
la testa, gemendo. Non capiva. Due vite si fondevano, colavano senza
senso negli angoli della memoria, la menzogna confondeva ogni cosa.
Dolore. Smise di pensarci.
Ma
la voce di Eisheth era ancora lì, annidata tra i suoi
pensieri a
straziarla da dentro. Aenor. Ishild. Michael aveva voluto fingere che
lei – l'umana, non Aenor, la seconda, la seconda...
cercò nella
memoria un nome. Davanti ai suoi occhi balenò il volto di un
bambino
in lacrime, la sua voce infantile risuonò stridula mentre
tendeva le
braccia e la chiamava. Morag. Si chiamava Morag, la
seconda
lei, e Michael aveva voluto fingere che Morag fosse Ishild.
Sollevò
il capo, rise, continuò anche quando lo sbatté
contro la parete per
la foga. Il Guardiano strinse le labbra in una smorfia. Poi
ricordò
Morag che si convinceva di esserlo, Ishild – notti insonni
passate
a bruciare, madre che nei
sogni restava in silenzio a fissarla, ossessione, nausea, freddo, gli
occhi di Michael sempre distanti. Non rise più.
Stupida,
si disse. La testa sbatté di nuovo contro la parete. Stupida
Morag.
Colpo. Stupida Morag. Colpo. Stupida Morag. Colpo. Stupida Mo-
sussulto. Il Guardiano le strinse i capelli, le strattonò la
testa
in avanti.
«Basta.»
le ordinò, irritato. Lei restò immobile, il
Guardiano le strattonò
ancora i capelli. La fronte le sbatté contro le ginocchia.
«Sì.»
mormorò.
L'altro la lasciò e tornò al proprio posto,
davanti alla porta
chiusa. Si pulì la mano sui vestiti. Lei avvertì
l'essenza del
Guardiano arricciarsi, sfiorare la sua e subito ritrarsi. Era
così
disgustosa?
Latrò
una risata. Oh,
sì. Stupida, disgustosa Morag.
Colpo.
Fissò
il Guardiano.
Avrebbe dovuto essere lui a tormentarla, e invece eccolo, con le
labbra strette e la fronte aggrottata, lo sguardo distolto troppo
spesso. Cos'era quel lampo nei suoi occhi? Irritazione, fastidio?
Disagio?
Il
suo viso cambiava
per l'angolazione, quando lei chinava il capo e di nuovo lo gettava
all'indietro. A volte, appena dopo il colpo, le sembrava quasi
assomigliare a Michael. C'era un piacere sottile nel tormentarlo
così.
Stupida,
disgustosa
Morag. Colpo. Fronte contro le braccia. Attesa.
Stupida,
disgustosa
Morag. Colpo. Fronte contro le braccia. Attesa.
Stupida,
disgustosa
Morag. Colpo. Fronte contro le braccia. Attesa.
Era
quella la misura del tempo, lì. Gli echi della sua
umiliazione.
Dovevano essere decine, ormai, ma il Guardiano non l'aveva
più
fermata. Gli faceva troppo schifo?
Colpo. La testa urlò il proprio dolore, ma il dolore era
buono, il
dolore annichiliva i pensieri.
Stupida,
disgustosa
Morag. Che si era lasciata ingannare e sedurre.
Ma
non era stata
l'unica, vero? Sembrava un errore ricorrente, un meccanismo rotto
dentro di lei che-
Colpo.
Colpo. Colpo.
Che
la spingeva ad
aggrapparsi, a credere, a fremere sotto tocchi gelidi.
Colpo.
Colpo. Colpo.
Colpo. Colpo. Colpo. Il dolore non bastava più.
E
davvero si era illusa
di essere libera nel scegliere Sachiel, e invece-
Colpo.
Colpo.
E
invece si era solo
piegata di nuovo ad un gioco perverso. Era sporca, infetta, marcia
dentro. La ferita era un mostro che non l'avrebbe mai abbandonata,
radicato in lei da troppo tempo – baratro nero in cui restava
qualcosa di Aenor, qualcosa di Morag, ed era un qualcosa oscuro e
guasto. Solitudine e dolore e ossessione. E dal baratro erano
risalite parole a tormentarla nei sogni, e gli occhi di Michael, gli
occhi di Sachiel. Sachiel. Sachiel. Quei desideri che Aenor aveva
respinto nel ventre languido. Ricordava le labbra di Sachiel contro
le proprie, il respiro ch'era passato di bocca in bocca, ed era stato
un respiro corrotto, quello, un soffio di morte. L'aveva macchiata.
L'aveva condannata.
Stupida,
disgustosa
Amitiel.
Abbandonò
il capo tra
le braccia.
Uno
spiraglio –
essenza che s'insinuava, riusciva a sfiorarla, la avvertiva,
esisteva, il mondo chiuso delle pareti dense si era espanso
all'improvviso. Sussurri. Sollevò lo sguardo. Porta chiusa
–
vuoto.
«Preparati.»
Il
Guardiano le posò
davanti una brocca d'acqua e si rialzò in fretta. Prese un
straccio
dal tessuto ripiegato che aveva tra le mani, glielo gettò.
Lei
appoggiò di nuovo la fronte contro le braccia.
«Devo
costringerti,
cherubino?»
Lo
ignorò. Che la
costringesse, sì. Che la toccasse, la spogliasse. Aveva
importanza?
«È
acqua delle terme.
Non dovrebbero nemmeno concedertela, cherubino – non
sprecarla.»
...acqua
delle terme.
Un ricordo guizzò sulla pelle e lei si mosse, piano, a occhi
bassi.
Si mise in ginocchio e sollevò la mano sinistra,
guardò le dita
piegate, strette troppo da Ramiel. Le immerse nell'acqua. Tepore. Il
dolore si assopì in un fastidio lontano, ma tornò
a morderle non
appena riemersero. Non poteva curare, quell'acqua – solo
lenire e
ingannare, promettere che il peggio era passato.
Il
peggio era presente,
invece, e il passato Sachiel che le sciacquava gli occhi. Con la mano
sana bagnò lo straccio e se lo portò al viso,
premendolo contro le
palpebre socchiuse. L'acqua scivolò lungo le guance come
aveva fatto
quella volta, infinito tempo prima, quando la sua vista si perdeva
nel bianco e nel panico. Quando Sachiel era ancora un'estranea, occhi
familiari oltre un velo di nebbia, mani sconosciute che l'avevano
riportata al mondo con l'acqua lenitiva delle terme. Si
passò lo
straccio sulla fronte. Le labbra di Sachiel si erano posate
lì, e
c'erano state le sue braccia a circondarle le spalle, anche, e un
sussurro morbido, non piangere, mentre lei
annaspava tra le
parole del Censore. Il tepore dell'acqua si spostò su uno
zigomo,
gota, labbra. Labbra. Ssssh, non ricordare. Abbassò lo
straccio sul
collo, lungo la spalla. Abbracci. Le mancava così tanto da
far male.
Lo
straccio era
asciutto. Lo avvicinò alla brocca – esitazione.
Mano a mezz'aria.
Restò a guardare l'acqua limpida, il tessuto lercio di terra
che
ondeggiava incerto.
E
ora?, si
chiese con la voglia di
urlare. E ora. E ora.
Ciò
che è stato
sporcato non si può ripulire.
Ciò
che è stato
sporcato non può tornare alla purezza, al candore, o la
macchia
della sua colpa gli si allargherà attorno come un fiore
marcio.
Ciò
che è stato
sporcato non può tornare e no, non sarebbe tornato, mai
più.
Mai
più. Mai più.
Colpì
la brocca, la
gettò contro il pavimento. Cocci infranti. Acqua versata.
E
ora.
Le
labbra di Sachiel le
mani di Michael una ciocca che non si allungava. La fascia della
quinta classe le avvinghiava i fianchi e sembrava chiederle davvero?
Davvero sei come quei Cherubini che non sanno e non sognano?
E
quella ciocca agonizzante sulla nuca, che non trovava più la
forza
di crescere, rispondeva con un sospiro esausto. Non ricordava neppure
quando l'avesse tagliata – forse erano state le unghie di
Michael,
strattonando? Gli occhi di Sachiel, gli occhi di Sachiel quando le
aveva toccato la nuca e aveva trovato quella ciocca spezzata. Quanto
doveva essere esausta la sua essenza, se non riusciva più a
darle
vita?
Anane
che le
intrecciava i capelli e Ramiel che le porgeva un pettine prima della
Venuta e Michael, Michael che accarezzava e stringeva e strattonava.
I capelli pesavano sulle spalle e sussurravano no, bambina,
non
sei come loro. Non più. La fascia bruciava contro
i fianchi. Il
tocco di Michael sembrava essere ancora lì a sporcarla.
«Cherubino.»
Sollevò
lo sguardo. Il
Guardiano si era avvicinato, ma il suo viso era sfocato. Lacrime? Si
sfiorò una guancia – sì, lacrime.
«Cambiati,
cherubino.»
Il
Guardiano lasciò
cadere sulle sue cosce del tessuto ripiegato. Lei annuì
piano e
mormorò una richiesta.
«Non
può presentarsi
così.»
Amitiel
ignorò il
sibilo femminile alle sue spalle e avanzò nella sala
circolare. Dopo
la stanza minuscola e il corridoio stretto, quell'immensità
la
stordiva; chiuse gli occhi e trattenne l'essenza, con una morsa alle
viscere che già minacciava di diventare malessere. Troppo
spazio.
Troppo bianco. Troppa luce.
«Non
preoccupartene,
Hagar. Che si presenti come preferisce.»
L'ingresso
si chiuse e
i due Guardiani le si affiancarono. Le venne da ridere – cosa
temevano, che scappasse? Inspirò, ma l'aria le invase la
gola troppo
in fretta e la risata morì in un verso strozzato. Persino
l'aria era
stata più pesante, tra le mura soffocanti che l'avevano
circondata.
Quanto
poteva far male
la libertà, dopo una prigionia troppo lunga?
Inspirò,
espirò, si
abituò piano al nuovo ambiente. Socchiuse le palpebre.
Meglio.
«Chi...»
si inumidì
le labbra «chi arriverà? I Censori?»
La
donna ebbe un
fremito. L'altro Guardiano storse le labbra, come quando si era
pulito la mano dopo averle toccato i capelli. Non le risposero.
Sistemò
una spallina
scivolata lungo il braccio. Non aveva mai avuto abiti del genere, che
avvolgevano il busto e stringevano le spalle – un cherubino
non
avrebbe mai potuto indossarli. Gliel'avevano portato di proposito?
Lei con la sua mano inerme che tentava di vestirsi e il Guardiano che
dopo un'eternità di fallimenti umilianti l'aveva aiutata,
aveva
strappato il tessuto sulla schiena per far spazio alle ali, e ora i
lembi pendevano scomposti, la veste non aderiva. Nessuna fascia le
cingeva i fianchi.
«Quanto
dovremo
aspettare?»
Le
essenze dei
Guardiani s'incresparono, sconcertate. Sì,
ebbe voglia di
urlare, sì, un'altra domanda, davvero.
Chinò il capo per
nascondere una smorfia, ma i capelli non scesero a coprirle il viso.
Sentiva il sangue seccarsi sulla nuca, dove la lama le era sfuggita,
e la cenere sporcarle le mani, le spalle, la veste bianca
già lercia
di sangue e terra. Aveva dovuto stringere i capelli con la mano
ferita, tenderli con le dita sane e ignorare il dolore a quelle
inermi. Nulla le avrebbe ricordato il tocco di Michael, ora che
quelle ciocche si erano dissolte – era un'illusione, lo
sapeva, ma
per un attimo... per un attimo, solo per un attimo, era tornata a
respirare.
«...sì.»
mormorò
«Sì, saranno di certo i Censori.»
Qualcosa
tremò, in
lei. Chiuse gli occhi e inghiottì il ricordo.
Era
già avvelenata.
Era già distrutta.
Non
potevano farle più
male di così.
Riaprì
gli occhi.
Attraversò la sala con lo sguardo, bianco bianco bianco,
senza
finestre, senza tregua, senza cielo, e lo fissò davanti a
sé. Il
portale era così bianco che riusciva a malapena a
distinguerlo, e
quando iniziò a schiudersi faticò a realizzarlo,
perché dietro il
portale bianco c'era solo altro bianco, altra luce, nessuna ombra a
definire i contorni. Una macchia rossa, violenta – capelli.
Un
viso. Altre figure, essenze, passi. I Guardiani smisero di trattenere
il portale, lo lasciarono a richiudersi piano alle loro spalle. Il
Censore dai capelli rossi si fece avanti nella grande sala. Lei
irrigidì le ali, impedì loro di tremare. Un altro
Censore gli si
affiancò, mentre i Guardiani restarono dietro di loro, sei
figure
bianche contro la parete bianca. I due accanto a lei avanzarono,
l'uomo le calcò la mano contro i lombi perché li
seguisse. Il
Censore rosso sorrise, di un sorriso così dolce che le
ricordò
Eisheth. Le sue ali tremarono, il terrore le congelò le
gambe. Il
Guardiano la spinse avanti. Incespicò.
«Con
gentilezza,
Guardiano.» mormorò il Censore «Non
c'è bisogno di essere
bruschi.»
Amitiel
si raddrizzò,
ma si sentì all'improvviso piccola e sporca, lei con le
piume rosse
e il sangue e la terra e il vestito strappato, lei lì tra
loro che
avevano ali da arcangeli, ali da serafini, essenze maestose che la
circondavano, lei insulto al candore. Strinse le braccia contro il
ventre, riconoscendo l'effetto dei Censori – quella
capacità di
denudarla, strapparle ogni scheggia di sicurezza. Gli occhi verdi del
mostro la osservavano quieti, l'essenza si tendeva a
lambirla,
e Amitiel avvertì la propria ritrarsi, tentare di sfuggire a
quel
tocco conosciuto. È come se ti entrassero dentro,
aveva
sussurrato a Ramiel nel dormitorio vuoto, nella testa, tra i
pensieri, ma non rendevano folli, le aveva detto, no, i
Censori
non rendevano folli, perché chi erano i folli? Chi? La
follia era
già lì, ad accarezzarli nel sonno, a germogliare
in silenzio dentro
quel corpo ch'era stato umano, umano, umano, quello non era
abbastanza da portare alla follia? Sospettarlo, saperlo, ricordarlo?
Ammazzare una donna per sgusciarle tra le cosce? Folli, folli a
saperlo, folli a non saperlo, a credere sempre, senza domande,
ingoiando boli di dubbi e inquietudine. Ma l'avrebbero mai ammesso?
«Cherubino.»
la
chiamò il Guardiano, stringendole un gomito. Lei
sussultò. Il
Censore rosso non sorrideva più. Le aveva parlato? Schiuse
le
labbra, incerta, ma poi le serrò di nuovo. Il serafino
avanzò di un
passo, lasciandosi l'altro alle spalle, e la sua essenza
agghiacciante sembrò violarla, affondarle dentro.
«Sei
stata convocata
per la seconda volta.»
Se
lo sentiva dentro,
dentro, oltre pelle muscoli ossa, dentro dove c'erano le memorie di
Aenor e Morag e Ishild e gli incubi, le voci, lo squarcio che non si
chiudeva mai.
Si
morse il labbro.
Inspirò. Espirò. Inspirò.
«Sì.»
«È
inusuale,
cherubino. Ti stai macchiando.»
Non
rispose. Il Censore
le sfiorò una guancia e continuò, con quella sua
voce gentile che
sembrava Eisheth, davvero, sembrava orrore e falsità.
«Stai
macchiando chi
ti attornia. I tuoi insegnanti, i tuoi compagni. I tuoi
fratelli.»
«Non...»
deglutì.
Inspirò. Espirò. Inspirò.
«Non è ciò che voglio.»
«È
ciò che accade.»
Chiuse
gli occhi.
Ripensò all'acqua limpida, allo straccio lercio di terra che
stava
per immergere. Il fiore marcio della colpa che si allargava attorno.
«Eppure
sei stata
avvertita.» il Censore corrugò la fronte
«Perché rifiuti di
lasciarti proteggere, cherubino?»
Soffocata
violata
annegata. La sua essenza annaspava, stretta da quella del Censore, ma
non poteva sottrarsi, costretta a dispiegarsi e schiudersi. Non
riusciva a respirare.
«Non
hai voluto
comprendere. Perché, cherubino? L'altra. Anane.
Perché hai
rifiutato di separartene?»
Faceva
male. Male.
Male. Il rimpianto bruciava e urlava e le divorava il petto.
«Si
è persa,
cherubino, appena prima dello Sviluppo. Ha scelto di rendersi
indegna.»
Anane.
Anane Anane
Anane Anane allegra solare meravigliosa Anane che l'aveva ingannata.
Le dita del Censore bruciavano sulla guancia. Stupida, stupida
Amitiel che le aveva creduto. E le risate gli abbracci le lacrime
potevano morire nell'oblio, perché faceva solo male,
ricordare. Male
male male.
«L'allieva
dell'Autorità, cherubino. Perché anche
lei?»
Sussultò.
No, non
dovevano parlare di Sachiel. Non dovevano avvelenare anche quel
ricordo. No. No. No.
«No.»
mormorò «No.»
C'erano
occhi azzurri,
stagliati sul candore delle sue palpebre chiuse. E cenere grigia.
«Sì,
cherubino. Si è
persa. Perché anche lei, cherubino? Perché hai
voluto corromperla?»
«No.»
«Era
impura.»
«No.»
No?
Davvero? Davvero
non l'aveva corrotta, davvero non l'aveva avvelenata? Il calore che
stringeva il bassoventre e la pelle che fremeva e le labbra, le
labbra di Sachiel, quel respiro che era passato di bocca in bocca e
le aveva condannate. Stupida, disgustosa Amitiel.
«L'hai
corrotta,
cherubino?»
«No.
No.»
Il
pollice del Censore
si mosse lungo la guancia, raccolse le lacrime. Voleva singhiozzare,
ma non riusciva a respirare, l'aria si bloccava in gola.
«O
è stata lei?»
Spalancò
le palpebre.
Il Censore sorrideva.
«Lei
ha corrotto te?»
«Non
insultarla.»
«Cos'è
successo,
cherubino? Cos'è stato a spargere il marcio attorno a
voi?»
Le
ali tremavano. Male.
Male. Marcio? Era stato così bello potersi abbandonare e
parlare e
stringersi le mani e sapere che c'era qualcuno a cui importava, era
stato un balsamo e un veleno. I pensieri erano un vortice impazzito
che impattava sempre contro quel muro, il rimorso e il disgusto e il
rimpianto, e la certezza che non avrebbe più conosciuto
quegli
abbracci tiepidi.
«Chi
è stato a
corrompere entrambe?»
Attraverso
il velo
delle lacrime, il Censore era un sorriso falso e occhi freddi.
Inspirò piano, tremando. Sapeva? O cercava solo qualcun
altro da
incolpare?
«Attorno
a voi,
cherubino, ci sono stati un Custode morto e due Cadute. Il Custode
che ti ha aiutata è ancora dai Guaritori, e quando si
sarà ripreso
dovremo convocarlo. Un Guardiano ha rischiato di morire. Il Paradiso
piange i suoi figli perduti. Perché, cherubino?
Perché tradisci
così i tuoi fratelli?»
Serrò
di nuovo le
palpebre. Le entrava dentro, nella testa, nei pensieri, e lei si
sentiva così inerme e sporca, e c'era quell'essenza estranea
a
violarla e uccidere ogni logica. Le sfiorava la ferita. Il mondo era
dolore e nausea e rimorso.
«Eri
con un demone.»
intervenne l'altro Censore. Aveva una voce meno morbida, più
profonda, e un'essenza ferma che circondò la sua senza
soffocarla.
Il mostro smise di sfiorarle la guancia ma non
ritirò la
propria essenza, la lasciò annidata tra le pieghe,
nell'intimo.
«Una
femmina. Tua
madre?»
Riaprì
gli occhi e
sollevò il capo di scatto. Fissò il secondo
Censore senza capire.
Quello rosso storse le labbra con uno sbuffo, come se non credesse
nella sua incertezza, ma l'altro chiarì: «Ti ha
promesso
protezione? Ha stretto un patto?»
Non
era un legame vero,
realizzò – Anane non era davvero figlia di
Eisheth, o sorella di
Michael. Ovvio. Come aveva potuto non capirlo? Forse perché
era
assurdo, incomprensibile, che qualcuno scegliesse
di legarsi a
Eisheth. Quanto non sapeva, ancora? La nausea le strinse le viscere.
«No.»
mormorò «No,
nessun patto.»
«Chi
è?» intervenne
il Censore rosso «Lei ti ha corrotta, cherubino?»
«...Eisheth.»
Il
Guardiano al suo
fianco ebbe un fremito. Il Censore tornò a sorridere e le
sfiorò di
nuovo la guancia, gentilmente. La pressione delle essenze estranee
aumentò, lei si morse le labbra per non gemere –
dolore alle
tempie. Dolore dentro.
«Si
chiama Eisheth.
Non so altro.»
«Come
l'hai
incontrata?» le chiese il secondo Censore.
Si
sentì invadere
ancora, più a fondo, e il dolore esplose nella sua testa
insieme ai
ricordi. Il respiro le tremò in gola.
«Chi
te l'ha
fatta incontrare, cherubino?» continuò l'altro
serafino,
accarezzandole il capo.
Si
irrigidì – dita
tra i capelli Michael ciocche che non crescevano più il
terrore di
Sachiel la lama cenere. L'essenza vibrò nello sforzo di
ritrarsi, si
richiuse su sé stessa come un grumo pulsante di dolore.
Basta.
Ricordò il terreno duro contro le ginocchia e il tocco
gelido di
Michael che l'aveva fatta urlare e anche Anane aveva urlato e la
risata di Eisheth, e poi c'era stato ancora Michael, Michael, Michael
a ingannarla e corromperla e far sbocciare il fiore marcio in lei.
Basta. Basta. Non le avrebbero strappato anche quello – non
avrebbero saputo come si era lasciata sporcare, come aveva sporcato
Sachiel. Era un dolore solo suo.
«La
virtù conosce il
peccato per poterlo fuggire.» mormorò il Censore
rosso. Le strinse
il mento con gentilezza per alzarle il viso «Hai visto
l'orrore –
hai capito perché lo combattiamo. Ma ora torna tra i tuoi
fratelli,
riposa gli occhi nella luce del Paradiso. Sarai perdonata.»
Amitiel
ricambiò il
suo sguardo malinconico. Avvertiva l'essenza del serafino circondare
la propria, premere tentando di penetrarvi ancora, ma non cedette.
E
ora?
Sorrise.
«No,
non credo.»
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Capitolo 37 *** 36. Eco ***
Capitolo
36 – Eco
Riposa
gli occhi nella
luce del Paradiso aveva detto il Censore rosso.
Lei
che aveva visto il
sole e gli incendi e il luccichio del sangue umano.
La
luce del Paradiso,
la luce senza ombre, la luce accecante ch'era stata un tempo tutto il
mondo conosciuto. Bianca? Davvero? Era rossa invece. Rossa come i
tramonti dimenticati da bambini nati una seconda volta, e le loro
ali, e il Fuoco che li aveva ingoiati per risputarli sanguinanti e
immemori. Era l'Espiazione a divorarle carni.
Gli
squarci alla
schiena tormentati, la gola aperta in un ghigno che vomitava fiotti
bianchi – per dissanguarla e sfinirla e impedirle di
muoversi.
Bambola fragile, inerme nell'abbraccio delle fiamme. E ringraziava
quel calore bruciante perché la strappava alla sua mente, e
il
dolore, il dolore, il dolore profondo che sembrava lacerarla da
dentro, una violenza, uno stupro, quel dolore era benedetto
perché i
pensieri s'infrangevano contro l'eco delle sue urla. Era solo un
corpo in fondo. Ma se anche l'Espiazione l'avesse dilaniata al punto
da segnarle l'essenza, importava?
Era
già rotta,
ripiegata sulla sua fragilità, rovinata sfiorita difettosa,
smembrata in mille frammenti di vite passate. Che la sfregiassero
ancora. Era solo un corpo in fondo, era solo un'essenza in fondo, era
solo lei stessa in fondo – e di sé,
scoprì, non le importava poi
molto. Non in quel momento almeno, e forse per altri mille anni a
venire, sino a quando i ricordi non fossero scomparsi nel buio.
Troppi fantasmi avvinghiati al suo collo.
E
il ghigno sulla sua
gola vomitava sangue, e la follia nella sua mente vomitava risate.
* * *
Doveva
sembrare un
cadavere pensò, lì abbandonata sulla pietra
fredda, il Fuoco
placato e il dolore rovente. Non era mai stato così intenso,
così
violento – ferite scavate nel corpo e nell'essenza, e sangue
versato e urla e risate e il sollievo di non essere sola con la
propria mente. La rassicurazione di sentirsi bruciare. Era una cosa
malata forse – no, di certo. Scoprì che neanche
questo le
importava.
Nelchael
dall'alto la
guardava e non si muoveva. C'era dolore nei suoi occhi? Non riusciva
a capirlo, il suo stesso sguardo sfocato da capillari rotti e
stanchezza.
«Sciocca.»
le mormorò, ma senza biasimo. Solo constatando.
Lei
gli sorrise.
Nelchael
dovette
abbassarsi e passarle le braccia attorno al busto, sollevandola di
peso, perché da sola non sarebbe mai stata in grado. Le ali
si
accasciarono contro la sua schiena, attraversate da piaghe sino alle
punte – desiderò di poterle ritrarre,
così Nelchael avrebbe
potuto prenderla tra le braccia, invece di trascinarla.
Tentò di
muovere un passo, le gambe cedettero con una nuova ondata di dolore.
Si abbandonò contro l'angelo.
«Se
vuoi lasciare il
Paradiso, vattene ora. Non ti è concesso tempo per
riprenderti.»
«Voglio.»
«Sciocca.»
le ripeté
Nelchael. C'era sollievo nella sua voce.
*
* *
Nelchael
la adagiò sul
terreno umido, sotto un cielo chiaro e lontanissimo. Le ali
soffocavano sotto il suo peso. Lei raccolse le ultime energie, uno
sforzo appena per sollevarsi appena e farsi ricadere su un fianco.
Terra nelle ferite – non aveva voluto che la rivestissero
dopo
l'Espiazione, maneggiandola come un fantoccio. Sarebbe stato
più
umiliante della nudità stessa.
«Sono
stanca.»
sussurrò. Aveva la voce debole e raschiante, rovinata dalla
ferita
alla gola.
«Dormi.
Sei al sicuro
– i Cherubini sono preziosi anche per gli
Sconsacrati.»
Sorrise.
Non era vero,
ma dirlo ad alta voce sarebbe stato troppo spaventoso.
«Resta
con me finché
non mi addormento.»
Nelchael
si sedette
accanto a lei.
L'essenza
si
accartocciava su sé stessa, proteggendo disperatamente il
proprio
dolore. L'assenza era un vuoto terrificante dentro di lei, un'agonia
che riecheggiava nella solitudine della sua mente.
«Ricordo
Sariel, sai.»
sussurrò per zittire il silenzio «La sognavo, da
umana. Si faceva
chiamare madre.»
Nelchael
non rispose.
«Tu
invece ci sei
stato solo alla Venuta. Accanto a Sariel.»
Parlare
le faceva male,
ogni inspirazione una fitta, ogni parola bruciore, ma
continuò.
«Ricordo
la tua
essenza che mi avvolgeva mentre morivo.»
«Non
dovresti.»
«Ti
sei interessato
così a tutte le tue creazioni?»
«No.
Ma tu sei stata
l'ultima, e l'unica ferita.»
«Perché
l'ultima?»
«...perché
poi Sariel
è impazzita.»
Compagni
d'eternità
strappati l'uno all'altra. Doveva essere come perdere una parte di
sé, guardarsi attorno e scoprirsi solo all'improvviso.
Chiuse
gli occhi.
«Come
si sopravvive
all'assenza, Nelchael?»
Lui
non rispose.
* * *
Quando
riapre gli
occhi, Michael è lì.
***
Angolo autrice
Capitolo cortissimo, lo so, ma è l'ultimo prima
dell'epilogo. Tra tre giorni pubblicherò anche quello e
quest'avventura, che mi ha accompagnata per due anni e mezzo,
sarà finita. Stento a crederci. Colgo l'occasione per
ringraziare chi ha commentato, inserito la storia tra le preferite e le
seguite o è semplicemente passato di qui - tutti molto
più numerosi di quanto mi aspettassi. Sapere che questa
storia interessava a qualcuno è stato lo stimolo
più grande a continuarla e a fare del mio meglio. Ci sarà un seguito?
Forse, ma prima voglio finire anche Lambda, in attesa da troppo tempo
di essere continuata, e magari dedicarmi anche ad altre idee. Si vedrà. Per ora mi basta l'enorme soddisfazione di poter scrivere la parola fine a questa storia.
Di nuovo, grazie a tutti. Spero che leggere Ceneri vi sia
piaciuto quanto è piaciuto a me scriverla.
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Capitolo 38 *** Epilogo ***
Grazie a Melissa,
che ha visto l'inizio di questa storia.
Grazie a Matteo,
che invece l'ha accompagnata alla fine,
e a cui appartiene
l'ultima frase di questo epilogo.
Buona lettura.
Epilogo
– Ceneri
Ha
dormito?
Probabilmente.
Nelchael non è più lì e lei sente
l'essenza appena rinfrancata, il
corpo in grado di muoversi. Ma è con lo sguardo ancora
velato che
vede Michael incombere, figura scura contro cielo scuro, le ali tese
su di loro a nasconderli dal mondo; è con la carne ancora
scavata
dall'Espiazione che sente il sangue del caduto colarle addosso, gocce
gelide che aprono crateri nella sua pelle.
Dal
corpo di Michael piove dolore.
Lei
si tira a sedere, guarda verso gli occhi dell'altro – ed
è come
guardarsi dall'alto, la sensazione straniante di non essere in
sé.
Il dolore c'è ma non c'è, come se fosse diventato
troppo e la sua
mente l'avesse rinchiuso in un angolo per non impazzire. Una goccia
cade sul petto, scorre tra i seni scavando la carne. Pioggia sul suo
viso, sulle sue braccia. Un'agonia a cui non tenta neppure di
sottrarsi.
«Dovrei
ucciderti.»
sibila Michael.
Lei
getta indietro il capo e ride. Lui fa vibrare le ali, dalle ferite
tra le piume cola altro sangue sulla sua gola già ferita. La
risata
si spezza in un rantolo.
«Avrei
dovuto ucciderti molto tempo fa.»
«Ah,
davvero.»
L'essenza
del caduto si stringe attorno alla sua, la soffoca in una morsa
brutale che le strappa un urlo acutissimo di bestia morente.
Doloredoloredoloredolore il dolore è lontano ma quello
è il suo
intimo, già violato dai Censori, già tormentato
dall'Espiazione, e
attorno alla ferita con lei dalla nascita si sono aperte piaghe che
la sfiancano e le velano gli occhi e le scavano la carne, un corpo
difettoso per un'essenza difettosa, e l'essenza di Michael sembra
aggrapparsi alla ferita e squarciarla. Gocce di sangue sul viso,
sulle labbra socchiuse nell'urlo, sugli occhi spalancati. Il mondo si
fa d'ombra, figure scure distinguibili appena.
La
mano di Michael si serra sul suo braccio e la trascina in piedi,
l'altra le afferra i capelli e le scrolla il capo.
«È
stata colpa tua.» le sibila a un soffio dal viso
«Se tu non avessi
attirato gli Arcangeli, Ishild sarebbe viva.»
È
una rabbia che pare più disperazione, la sua, e lei tende le
labbra
spaccate in un ringhio.
«Io?
Tu.
Tu hai creato quest'intreccio assurdo e ti sei fatto ossessionare e
mi hai mentito mi hai illusa e mi hai ingannatausatatradita
e»
doloredoloredolore, nel mondo di ombre rilucono i denti scoperti di
Michael, ali nere la avvolgono e la gelano dentro «e dici
anche che
è colpa mia.»
«Tu
l'hai seguita, tu hai richiamato l'attenzione, tu
l'hai uccisa.»
«E
non l'avresti
uccisa dentro, tu?» si aggrappa alle spalle di Michael, gli
affonda
le unghie nella carne «Sachiel, non Ishild, Sachiel, e tu
Sachiel
non l'hai mai conosciuta, non sai come ride e come piega le spalle
quando è stanca e il suo sguardo e il suo abbraccio e le sue
labbra,
tu non conosci le sue labbra e io sì, io le conosco e ora
sono sola,
io, io, io...»
io
ho avuto Sachiel per un lungo brevissimo attimo,
vorrebbe dire, ma quell'agonia che cercava di ignorare esplode
all'improvviso, la squassa dentro con una violenza agghiacciante e
lei si accascia contro Michael, incapace di sostenersi ancora.
e
io ora posso solo ricordare
e
io ora non posso sopravvivere
perché
ioioioioio
io
la amavo
«Tu
l'hai uccisa!» urla Michael e spalanca le ali, la getta via
come una
bambola rotta e la fa cadere, è su di lei che le afferra il
capo e
glielo sbatte a terra, e glielo sbatte, e glielo sbatte, e glielo
sbatte, e glielo sbatte, e sangue gelido le cola ancora sul viso e la
sua vista si fa sempre più buia e lui le sbatte il capo e
glielo
sbatte e glielo sbatte e lei ormai vede solo nero.
E
poi Michael le
abbandona il capo per stringerle la gola, affondare le unghie
taglienti nella ferita già aperta.
«Ti
avrei risparmiata,
per lei.» le sibila «Anche se mi disgusti. Mi
disgustavi da Aenor,
da Morag. Sei sempre stata patetica e debole. Credevi davvero di
essere Ishild? Ho dovuto passare una vita con te e avrei voluto
ucciderti ogni giorno.»
E
le squarcia la gola,
affonda e affonda e affonda ancora, e il sangue la abbandona
portandosi via lucidità e forze.
«Uccidimi
allora.»
rantola lei, la voce ridotta a un suono raschiante sottilissimo
«Per
quel che importa.»
E
sente Michael calare
sul suo collo, affondarvi i denti, sbranarla come una belva affamata.
Non può urlare, non può muoversi sotto il suo
peso, inarca la
schiena e spalanca gli occhi e il mondo è nero e dolore.
«Ho
dovuto passare una
vita con te.» ringhia ancora Michael. Ha il fiato gelido
sulla sua
carne martoriata, raccoglie il sangue con la lingua – deve
bruciargli più dell'Espiazione. Forse gli piace.
«E credevi di
essere Ishild, davvero. Mi venivi a cercare la notte. Ti avevo
raccontato che Ishild lo faceva e allora tu, patetica, umana, vagavi
e urlavi il mio nome finché non comparivo.»
affonda i denti, ma
ormai lei distingue a fatica altro dolore nella carne martoriata
«Mi
chiedevi se ti amassi. Volevi che ti chiamassi Ishild e ti dicessi
che eri l'unica, e mi venivi a cercare, la notte, e mi sembrava di
sentirti anche quand'ero lontano. Avrei voluto ucciderti per non
sentirti più.»
Lei
si abbandona contro
il terreno, smette di combattere il dolore. Nell'agonia riesce a
tendere le labbra in un sorriso amaro, rantola parole quasi
incomprensibili.
«Fallo.
Fallo e»
tossisce, volta il capo di lato per sputare un fiotto di sangue
«resta solo con la tua ossessione.»
I
denti sfiorano ancora
la carne, labbra gelide seguono la scia del sangue lungo la gola.
«...mi
venivi a
cercare la notte.»
Il
mormorio di Michael
si spegne contro la sua pelle e lui si abbandona su di lei, le
stringe il capo quasi a cercare l'eco di una carezza tra i capelli,
le ali da arcangelo si distendono attorno a loro chiudendo fuori il
mondo. Il sangue delle loro ferite si mescola. Solo il dolore la
tiene cosciente, aggrappata alla realtà – vorrebbe
perdersi dentro
di sé, diventare cenere dispersa dal vento. In fondo
l'Espiazione
l'ha già arsa, e i Censori, e Michael, e Sachiel e Ishild e
Aenor e
Morag l'hanno fatta a pezzi dentro, e il Fuoco della Venuta forse non
è stata una nascita ma una condanna a morte. Quell'ultimo
tramonto
da umana, a bruciare sotto un cielo in fiamme, forse è stato
anche
il suo ultimo istante di vita.
Vorrebbe
solo bruciare
di nuovo e non svegliarsi più. È stanca.
«Mi
venivi a cercare
la notte...»
Forse
lo è anche Michael, abbandonato su di lei come se un peso
enorme lo
schiacciasse. Uccidimi
e
resta solo con la tua ossessione,
prova a ripetergli, ma il corpo non le risponde più
– ha troppe
ferite, l'essenza non riesce a controllarlo. Si sta spegnendo
lentamente.
Ma
poi Michael le preme
la mano sulla gola, fermando il sangue, e sussurra gelido contro le
sue labbra.
«Possiamo
essere soli
in due.»
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