Il Wyrda di Nasuada-Waìse Nèiat

di Fair_Ophelia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Forza e debolezza ***
Capitolo 2: *** Castello in collina ***
Capitolo 3: *** Emozioni del trascorso (prima parte) ***
Capitolo 4: *** Emozioni del trascorso (seconda parte) ***
Capitolo 5: *** Fuga ***
Capitolo 6: *** Una lettera di Orrin ***
Capitolo 7: *** Amare scoperte ***
Capitolo 8: *** Mente a mente ***
Capitolo 9: *** Fiori d'arancio ***



Capitolo 1
*** Forza e debolezza ***


1-FORZA E DEBOLEZZA

Nasuada spalancò il portone.
Rimase sulla soglia con le braccia tese e le mani sui battenti, un’espressione feroce che deformava i bei lineamenti. Fece guizzare lo sguardo accigliato da un lato all’altro della sala, poi s’incamminò a passo svelto verso lo scranno, il vestito porpora svolazzante che la faceva somigliare ad un fulmine di pece affogato nel sangue. Si buttò sulla sedia intagliata con uno sbuffo; la attendeva un lungo tavolo straripante di fogli e pergamene, proprio come ai tempi dei Varden. Dopotutto, rifletté lei, la situazione non era cambiata molto da allora: le solite carte da leggere per ore e le battaglie orali con persone che cercavano di manipolare lei e il suo popolo erano il pane quotidiano. Aveva appena finito di litigare col Consiglio degli Anziani al gran completo e l’irritazione per quei quattro vecchi, che avevano perso la loro battaglia ma erano ancora decisi a lottare pur di metterle i bastoni fra le ruote, la faceva andare in bestia: di lì l’espressione dipinta sul suo volto. Ormai Jörmundur  non si considerava più parte di quella masnada di decrepiti.
La regina si lasciò sfuggire un sorriso al pensiero di quella che era stata una vera propria battaglia: una contro quattro, dalle loro bocche uscivano fendenti e stoccate che l’avversario prontamente schivava con una battuta. Ad un certo punto tutti e cinque si erano trovati in difficoltà; ripensò ancora al silenzio che regnò sulla sala per qualche istante, la tensione immateriale che si manifestava con le espressioni sui visi e la contrazione involontaria delle dita. Se fosse stato un duello si sarebbe potuto dire che i due avversari in quel momento avessero le lame incrociate all’altezza dell’elsa, in attesa di qualche mutamento. Ma con quella che si sarebbe potuta definire “osservazione a cui nessuno avrebbe mai pensato” o “rapido movimento del polso” si era liberata dalla situazione di stallo. Infine, con una rapida stoccata orale che aveva messo con le spalle al muro i vecchi e soprattutto fatto rimanere a bocca aperta Umerth, aveva lasciato la stanza con un sorrisetto di scherno che la fece diventare ancora più odiosa agli occhi dei quattro. Dopotutto era quella la sua abilità: pensare soluzioni a cui nessuno avrebbe mai pensato, spericolate ed ambiziose quanto efficaci idee che le permettevano di mantenere con successo la sua posizione.
Eppure vincere quelle scaramucce non erano certo una soddisfazione: il “duello” l’aveva stressata, e al pensiero che avrebbe ancora dovuto leggere quattro rapporti prima della fine della giornata si fece prendere dallo sconforto. Cose che prima della partenza di lui riusciva benissimo a sopportare ora le sembravano faticosissime e più che impegnative. Senza di lui tutto le sembrava più difficile, complicato, le avversità diventavano insormontabili, i colloqui duravano il doppio, solo la sua forza di volontà e l’affetto che provava per il suo popolo le avevano impedito il suicidio, e la sua promessa di tornare.
Senza di lui non riusciva a vivere.
Affondò la testa fra le braccia poggiate sul tavolo. Dopo un po’ la rialzò e notò una fiaschetta di idromele e due calici, rimasti da un incontro con Jörmundur di quella mattina. Sebbene sapesse che anche una mera quantità di alcol bastava a stordirla, ne bevve un calice quasi pieno per farsi passare la malinconia. Il dolce liquore al miele la fece sentire un po’ meglio; forse non ne aveva neanche bevuto abbastanza da farla sentire male.
-Sei stanca, mia signora? –
Senza che se ne accorgesse, Elva, che l’aveva seguita al colloquio col Consiglio, era rimasta sulla soglia. Lei pensava che se ne fosse andata, come faceva di solito. La bambina la fissava con i suoi occhi d’ametista; i capelli corvini nascondevano il dono di Saphira sulla sua fronte. Ormai dimostrava nove anni.
-No, sono solo... un po’ giù.-
-Lo sapevo.-
Lei si accigliò. -E allora perché me l’hai chiesto?-
-Volevo sapere se mentissi a te stessa... Questo non potevo prevederlo. È dalla nascita dell’impero che sei un po’ giù.- replicò lei sottolineando le ultime parole.
Ha ragione.
 La bambina continuò con tono distaccato:-Smettila di pensare a Murtagh, a momenti soffro più io che tu. Anche se cerco di ignorarlo è troppo forte... Mi stai per costringere a non assisterti più-
Le parole di Elva le gelarono il sangue nelle vene. Involontariamente strinse le dita sui braccioli dello scranno come se avesse voluto staccarli con la sola forza delle mani.
-Di solito quando parli porti conforto, non aggiungi dolore al dolore-. La sua voce era diventata un sibilo tremolante. -Se proprio non vuoi sentire il mio dolore, vai via o di’ qualcosa che mi risollevi. Dopotutto è la cosa che sai fare meglio, no?-
Elva la fissò.
-Risparmiati quel tono gelido con me. E comunque, per certe cose non posso fare proprio niente... La soluzione deve venire da te. Ora ti saluto, non sono la tua balia, voglio andarmene in giro.-
Ciò detto, richiuse i battenti dietro di sé con un tonfo. Prima che finissero di chiudersi, però, la regina ebbe modo di constatare che dodici guardie erano decisamente troppe. L’ingresso somigliava più d una sala d’attesa che ad una porta presieduta.
Il broncio tornò ad incupire il volto della regina e a spegnere i suoi vivaci occhi color liquirizia, mentre Occhigialli, il pacioccone gatto mannaro che aveva scelto di vivere con lei, le saltava in grembo. Come al solito si accoccolò e si addormentò, sotto le carezze delle dita distratte della donna. Una parola, un nome pronunciato da Elva aveva smontato il suo già fragile equilibrio, cosa che succedeva tutte le volte che pensava a lui.
Murtagh.
Prima ancora che le lacrime le allagassero gli occhi si costrinse a ricacciarle indietro, perché gli aveva promesso che sarebbe stata forte, che in nome del loro amore avrebbe dato il suo meglio anche in sua assenza, e lei aveva cercato di onorare quel patto come meglio poteva. In un anno e mezzo solo due volte non ce l’aveva fatta e aveva pianto, un risultato di cui andare orgogliosi, ma le sentiva, erano sempre sull’orlo delle palpebre, cadevano e non cadevano, le lacrime, minavano la sua determinazione e le creavano un’instabilità mai provata prima.
È sempre così, quando si ama? si chiese digrignando i denti, sforzandosi di non cedere. Ma ecco di nuovo l’immagine di lui, il suo profumo dolce e penetrante che le riempiva le nari quando si appoggiava al suo petto, la sua voce decisa e rassicurante, a volte velata d’ironia che per lei si trasformava in un distillato di dolcezza, il suo gesto spontaneo di portarsi indietro con le dita una ciocca dispettosa,  il suo sguardo che sapeva leggerle nell’anima e le faceva fondere le viscere... La stessa sensazione che provava ora, insieme ad un caldo tremendo e a brividi che le risalivano lungo i fianchi fino alle spalle.
Provi emozioni forti per quell’ uomo, fece Occhigialli mentre le sue fusa riberveravano nelle dita di Nasuada.
Ti ci metti pure tu? Non mi stavi spiando la mente, come diamine fai a saperlo? Perché non ti fai gli affaracci tuoi?
Alla prima domanda rispondo sì, alla seconda che le tue emozioni sono così forti che si espandono verso le altre menti, alla terza che i tuoi affari sono molto più divertenti dei miei.

Fai anche lo spiritoso, adesso... Comunque io non ho mai sentito le emozioni di una persona espandersi senza che questa lo volesse, per quanto fossero intense.
Il gatto aprì un occhio topazio. Questo perché no sei un gatto mannaro. E lo richiuse.
Agli occhi di Nasuada ora Occhigialli stava diventando veramente odioso.
Si riempì di nuovo il calice e bevve un altro sorso di idromele, poi una delle sue idee imprevedibili le attraversò la mente. Con un gesto improvviso versò il resto della bevanda contenuta nel recipiente sull’animale.
Dopo qualche istante un miagolio irritato che somigliava di più ad un misto fra un ruggito ed un urlo acuto riecheggiò nella stanza ed anche fuori. Il gatto mannaro estrasse gli artigli e saltò giù, mentre la sua reazione strappava a Nasuada una risatina sotto i baffi. Se non fosse stato per la tristezza che la permeava avrebbe riso di gusto, ma sentiva che se si sarebbe lasciata andare avrebbe rasentato la pazzia. Gli artigli del gatto le avevano bucato la veste e segnato le cosce con profonde ferite, ma dopo le torture subite a Urû’baen quasi non se ne accorse.
Tutto qui, micetto? lo schernì lei, guardandolo con occhi maliziosi.
 Lui ricambiò con uno sguardo pieno d’odio; gocce della bevanda gocciolavano dal suo pelo sul pavimento.
Forse le ferite non ti fanno male, ma ho rovinato il tuo vestito preferito.
Per questo Occhigialli aveva ragione: il suo bell’abito rosso, scollato e decorato con fili verdi e dorati intrecciati, era ormai inservibile.
Lo farò sistemare da un mago si schermì, per non dargli la soddisfazione di averla danneggiata.
Un mago, già... Dopo le sue insistenze nel fondare l’ordine dei maghi, non ne avrebbe trovato uno che le facesse un favore neanche se l’avesse costretto col vero nome dell’Antica lingua. Da quando aveva annunciato la sua decisione al Du Vrangr Gata e chiesto il loro parere, aveva perso tutto il loro sostegno. C’erano voluti mesi e mesi di trattative per riappacificarsi con loro, almeno in parte, ma soprattutto c’era voluto tempo per lei, per capire che un potere come la magia non poteva essere regolato da mere leggi terrene. Il suo progetto, aveva concluso, era semplicemente un’utopia: a fin di bene, ma pur sempre un’utopia.
A parte quella divergenza, nelle campagne la vita era nettamente migliorata, ma, dalla partenza di Eragon, a Dras-Leona e Gil’ead erano scoppiate rivolte guidate dai seguaci di Galbatorix: senza l’aiuto di un Cavaliere, controllare un territorio abitato anche da persone che non le erano devote dall’inizio sarebbe stato davvero arduo.
Murtagh, tutti hanno bisogno di te. Sei insostituibile, Arya non può occuparsi di due regni, le uova di nessuna delle quattro razze si sono schiuse, ma soprattutto io ho bisogno di te.
Amore, dove sei?

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Capitolo 2
*** Castello in collina ***


2-CASTELLO IN COLLINA

Saphira faceva acrobazie nel cielo.
Il vento la sfidava: sfidava le sue ali, membrane filigranate da vene sempre pulsanti, sfidava i suoi muscoli massicci e gli occhi, che le bruciavano, e sfidava le sue fauci spalancate da cui penzolava la lingua.
Era un vento davvero forte, che aveva portato con sé nuvoloni grigi i quali ben presto avrebbero scatenato la loro ira.
Con una scrollata del capo scacciò tutte le sensazioni fisiche spiacevoli: una corrente debole come quella non l’avrebbe indebolita, si disse. Inoltre Eragon, il suo compagno per la vita, la stava guardando e non si sarebbe mai permessa di farsi commiserare da lui. Riprese a volteggiare noncurante della fatica, dicendogli:
Gustati questa: è nuova, l’ho inventata giusto ieri. Si chiama ritorno serrato.
Nome artistico... Fa’ vedere. Eragon era impressionato da ciò che era riuscita a fare Saphira fino ad allora, e ancor di più dai nomi di cui investiva le sue contorsioni aeree. L’ultima, un cerchio in cielo effettuato mentre ruotava su se stessa, aveva il nome di “nastro”, perché ricordava uno dei nastri turchesi che le zingare usavano mostrare nei loro spettacoli tra le vie cittadine. Distolse la mente da quel ricordo e si concentrò sullo spettacolo che gli si offriva in cielo: la dragonessa stava richiudendo le ali per poi lanciarsi in picchiata a testa in giù, simile ad uno dei fulmini azzurrini che di rado solcavano il cielo in quel pomeriggio di maggio, messaggeri del temporale che presto si sarebbe scatenato. D’un tratto ripiegò la testa verso l’alto, tenendola vicinissima al collo, e lasciò che il resto del corpo la seguisse, tracciando una stretta U. Il fisico maestoso era reso blu scuro dalla mancanza di luce e si stagliava debolmente sullo sfondo grigio. Il Cavaliere non era abituato a non vedere le squame di Saphira rilucere, ma questo non toglieva spettacolarità all’incredibile acrobazia; anzi, se possibile la rendeva ancor più eccezionale e, per un certo verso, selvaggia.
Che te ne pare?
Sono senza parole, è meraviglioso! Hai davvero superato te stessa!
si entusiasmò lui.
Troppo gentile... Si può sempre migliorare. Alla fine esercizio la coda non ha seguito il resto del corpo. Ma quella frase non bastò a dissipare l’enorme orgoglio che provava, trasfuso dal loro legame mentale.
Non mentire...
Un tuono rimbombò in cielo e interruppe le parole del Cavaliere. Subito dopo iniziò a piovigginare: le gocce minute s’infiltrarono a poco a poco tra i fili di làmarae e a segnare scie sulla sua pelle. Saphira, per oggi basta....
Hai ragione,
concordò lei. Ma non perché sono stanca.
Gli scappò un sorriso bieco. E chi ti sta accusando di essere stanca? O hai la coda di paglia?
Lei lo fissò truce dall’alto. Ne riparliamo quando arrivo.
Il giovane non poté fare a meno di continuare a sorridere. Saphira non avrebbe mai ammesso la sconfitta, fosse essa ad opera di nemici o elementi naturali; piuttosto avrebbe inventato la scusa più improbabile di tutta Alagaësia... e anche oltre, visto che ora non si trovavano più nella terra natia.
Intanto la vide iniziare la sua discesa: ad un quarto di miglio dal suolo, però, un draghetto argenteo le venne incontro arrancando tra le folate di vento, ruggendo al massimo delle sue possibilità, cioè in modo che lei neanche lo sentì.
Tamen! Torna subito al nido! É pericoloso!
Ma io...
“Ma” cosa? Zitto e obbedisci!

Dopo un istante passato nel difficile tentativo di non perdere il controllo, Tamen se ne tornò mesto dai compagni di cova, sballottato da un lato all’altro dalle correnti. Gli altri lo aspettavano: alcuni pigolavano ancora, altri già ruggivano. Lui era il più grande.
Quel presuntuoso farà meglio ad abbassare le punte cervicali. Saphira aveva appena terminato la discesa ed era entrata nella stanza che lei ed Eragon condividevano. Quando lui la raggiunse, si scrollò le gocce di dosso, bagnandolo.
Ehi!, fece lui, cercando invano di ripararsi con le braccia.
Te l’avevo detto che te la facevo pagare, quella frecciatina.
Lasciamo stare... Comunque, riprendendo il discorso... Tamen ha appena tre mesi e si crede una leggenda, solo perché è il primo drago selvatico nato dopo il dominio di Galbatorix. Magari si fa anche il galletto coi più piccoli.  Hai ragione, devi metterlo in punizione.

Delle duecentodiciassette uova di drago selvatiche se n’erano schiuse già una cinquantina nel giro di due mesi. Nell’ultimo mese invece quella continua nascita aveva subito una battuta d’arresto, ed Eragon si era chiesto il perché.
I draghi sono sensibili al mondo esterno. Avranno avvertito che sarebbero stati troppi da allevare per noi, se ne fossero nati altri, e ci sono venuti in aiuto, aveva detto Saphira, fugando ogni suo dubbio. Dopotutto, se non lo sapeva lei, che era un drago... A suo parere comunque anche cinquanta erano troppi; la dragonessa aveva badato loro come una madre, ed era soddisfatta del risultato ottenuto, ma il compito la stancava oltremodo. “Badare a cinquantuno cuccioli di drago”, gli aveva detto il giorno prima, “è più stancante di combattere con l’armatura che mi hanno regalato i nani schiacciata all’interno, come mi era successo per quel maledetto Urgali nella battaglia del Farthen Dûr,  non so se ricordi”. Eccome ,se ricordava.
Con un sospiro si sedette sul letto e si guardò allo specchio: dei suoi tratti umani rimaneva ben poco, solo il viso leggermente più largo e gli occhi non esageratamente obliqui. Se all’inizio aveva accettato i cambiamenti dell’Agaetì Blödhren, ora non più,  perché gli stavano togliendo definitivamente il passato. Non credeva che sarebbe cambiato così celermente. Tempo un anno o due, e sarebbe stato completamente elfo. Un’altra prova che non era più il ragazzino di Carvahall, e che quella strada era persa per sempre. Il pensiero gli provocò un brivido inaspettato, che gli attraversò la schiena fino al collo.
Non incupirti, piccolo mio; non sarai mai completamente elfo dentro.
E chi può dirlo? Tra un po’ potrei iniziare a parlare anch’io per enigmi!

Lei esalò dalle narici una nuvoletta di fumo che uscì dalla finestra aperta. Non essere sciocco. Non te lo permetterei mai. Non ti fidi del mio istinto? Se volevo un Cavaliere elfo, allora me ne sceglievo direttamente uno, non mi sarei di certo schiusa davanti a te. Il tuo wyrda non è diventare elfo, me lo sento nel sangue, e se non ti fidi neanche di me, allora non solo sei elfo, ma sei anche un ben misero Cavaliere. E ora basta rammaricarsi. Non sei davanti allo specchio per fare il vanitoso. Il suo tono si addolcì. Mi prometti che non penserai più una cosa del genere?
Sì... Grazie.
Lei lo leccò su una guancia.
Eragon le sorrise e in cuor suo la ringraziò di esistere, poi tornò coi piedi per terra. Da quando lui, Saphira e altri otto elfi si erano stabiliti lì, aveva deciso che un giorno al mese avrebbe parlato con i suoi amici di Alagaësia, e per maggio quel giorno era arrivato. Era infatti la metà del mese, nonostante la pioggia ricordasse maggiormente ottobre.
Dunque...
Levò una mano e disse:-Dramr kòpa un atra eka hòrna-, aggiungendo una modifica che gli avrebbe permesso anche di parlare con la persona divinata: Nasuada. Dopo un istante di tenebra, lo specchio gli mostrò una scena alquanto strana: lei che reggeva un calice in mano e osservava un punto lontano con sguardo vacuo e leggermente melanconico, la veste sforacchiata lungo le cosce, e il gatto mannaro che viveva con lei, zuppo d’idromele, che la guardava di traverso. La regina si accorse di lui e lo salutò. Aveva abilmente nascosto la tristezza di poco prima sotto una perfetta maschera di affabilità. Il ragazzo era stato uno dei pochi, forse l’unico, ad intuire la mossa che la regina utilizzava per celare i suoi veri sentimenti dalla nascita dell’Impero, ma non ne avevano mai parlato apertamente.
-Qual buon vento, Eragon! Ciao, Saphira! Che piacere vederti!-
Eragon si girò a sinistra e notò con sorpresa che la dragonessa si era accucciata dietro di lui e aveva poggiato la testa sul letto, al suo fianco. Le posò una mano sul muso e lei gli fece un occhiolino, oscurando per un secondo l’occhio brillante come un lapislazzuli.
Dille che anche per me è un piacere rivederla.
Eragon ripeté le sue parole. –Anche lì piove?-
-No, non ancora, ma pare che si avvicini una brutta perturbazione... Allora, si sono schiuse altre uova? Com’è fare la balia ai draghi?-
E così lui le iniziò a fornirle dettagli sulla crescita dei cuccioli, mentre lei quelli sulle rivolte a Dras-Leona e Gil’ead. –Sai, senza un cavaliere è più difficile gestire il regno... E Arya sta già facendo il possibile per tutti. É abile, certo, ma non è ancor molto esperta, in particolare sui legami tra drago e Cavaliere, tant’è vero che mi ha parlato della possibilità di venire da voi per completare il suo addestramento... Il suo e quello di Fìrnen. Ma sono sicura che di questo vorrete parlare in privato.-
Nasuada non poteva sapere quanto in cuor suo il Cavaliere stesse gioendo a quella notizia. Cercò di trattenere l’entusiasmo, ma non poté impedire che un largo sorriso gli illuminasse il volto. Saphira invece non si trattenne: alzò la testa e ruggì di gioia, sputando una fiammella azzurra che fortunatamente non intaccò il soffitto.
-Certo... Certo, mia signora-fece lui, leggermente confuso.
Nasuada sorrise. –Ora vi saluto, ho...-
-Aspetta!- Lei gli rivolse uno sguardo interrogativo. -Vorrei parlare con Angela, Solembum e Jeod... E anche Elva, se le farà piacere.
-Certo. Li chiamerò personalmente.-
-Grazie. Salutami re Orrin, e abbi cura di te.-
-Che la vostra spada resti affilata.-
La regina uscì dalla sua visuale. Poco dopo, quattro persone fecero il loro ingresso nella sala. Solembum aveva assunto le sue sembianze umane. Angela lo salutò per prima, con la solita enfasi: -Ehilà, Eragon! Ti sono cresciuti i capelli! Adesso sembri un selvaggio! Ciao, Saphira, ti trovo in forma... Tu conservi sempre la stessa eleganza.-
Eragon poté percepire l’enorme piacere della dragonessa a quel complimento. Dille che la trovo più in forma che  mai.  Lui riferì.
-Anche Solembum ha un’ottima cera...-
-Già, i tendini di cane pastore in salmì marinati nella limonata sono un toccasana per la lucentezza del suo pelo.- Come per dimostrare il sapore e l’efficacia della pietanza, il gatto drizzò la pelliccia sulla schiena, soffiando.
Dopo aver chiacchierato un altro paio di minuti con i due e aver scambiato qualche battuta con Elva, Eragon li vide congedarsi. A Jeod doveva raccontare tutte le sue avventure, perché non lo rivedeva dal giorno sua partenza, perciò gli volle parlare in privato.
Quando la porta si chiuse dietro i tre, l’uomo esordì, accarezzandosi la cicatrice sulla fronte:-Allora, Eragon, immagino che tu voglia raccontarmi del tuo viaggio... Sono curioso.-
Il ragazzo iniziò a narrare. -Dopo aver abbandonato Hedarth, abbiamo navigato per un mese lungo il fiume Edda. Non abbiamo esplorato il territorio circostante, a dire il vero, perché volevamo procedere più spediti possibile; dopo una settimana siamo entrati in una foresta. Suppongo che sia una propaggine della Du Weldenvarden, perché è costituita interamente da pini, e espandendo la mente ho avvertito qualche filamento di coscienza dell’albero di Menoa.-
L’uomo lo ascoltava, interessato.
-Il viaggio è proseguito così, per altre tre settimane, finché il fiume non si è allargato in un lago grande come quello di Leona, a grandi linee. Il corso proseguiva, ma noi ci siamo fermati lì perché abbiamo visto una collina incantevole,e ci è parso il posto migliore in cui stabilirci. Lì... qui... abbiamo costruito un castello per noi due e gli otto elfi che ci hanno seguito. Due hanno voluto proseguire, esplorare il mondo.-
Jeod non poteva comprendere con quelle poche, sterili parole, il dispiacere che gli aveva provocato la partenza di Blödhgarm e Yaela. Si erano separati il giorno dopo l’attracco definitivo della nave, avvenuto in un tardo pomeriggio estivo. “Blödhgarm, ma perché...”  aveva tentato di dire lui. L’elfo-lupo lo aveva interrotto alzando le spalle con noncuranza. “Ho voglia di nuove avventure, di scoprire nuovi animali... Questa forma di lupo mi sta seriamente cominciando a stancare. Addio, Ammazzaspettri... Ammazzatiranni”, aveva concluso lui, con uno scintillio delle zanne ferine quando gli aveva sorriso. Erano le ultime parole che gli aveva rivolto. Si disse che in seguito avrebbe contattato anche lui.
-Abbiamo impiegato sei mesi per costruire il castello; la zona è ricca di marmo, l’abbiamo estratto dal suolo con la magia e con questa roccia abbiamo costruito gran parte del palazzo. Ti piacerebbe vederlo.-
-Oh sì, dev’essere un vero splendore.- aveva concordato lui, gli occhi sognanti.
-E tre mesi fa è nato il primo drago selvatico, seguito da altri cinquanta nel giro di due mesi.-
Lo sguardo dell’uomo s’illuminò ancor di più. –Davvero!-
-Già. ma da un mese a questa parte non ne nascono più... E noi non ci lamentiamo. Crescerne cinquantuno è già abbastanza faticoso.- Saphira, affianco a sé, borbottò il suo assenso. –Come va la stesura del compendio che volevi scrivere sulle nostre avventure?-
-Bene, l’ho terminato già da un po’... Un giorno mi metterò in viaggio e raggiungerò il monastero, così potrò aggiungerlo al Domia abr Wyrda.-
Per Eragon era un vero onore che il suo nome comparisse nel famoso libro di Heslant il Monaco. Scambiò pochi altri convenevoli con lui e si salutarono.
 Il ragazzo sciolse l’incantesimo e si preparò a riformularlo per divinare, questa volta, Roran. Lo trovò seduto in quella che era la sua “sala del trono”, molto simile a quella di Nasuada. Era una stanza di medie dimensioni, arredata sobriamente: una sedia di noce imbottita dietro ad un tavolo dello stesso tipo di legno, altre sedie uguali alla precedente appoggiate alle pareti, un piccolo tappeto al centro e ritratti e pergamene appesi ai muri. Uno era un fairth che raffigurava lui e suo cugino pochi giorni prima che lasciasse Alagaësia; l’aveva fatto Arya, e lui ne conservava una copia.
Il cugino e la consorte stavano bevendo un tè, mentre Ismira sgambettava da una parte all’altra della stanza. –Eragon, Saphira! Ciao!- li salutarono i due coniugi. Da loro, Eragon apprese solo che la ricostruzione di Carvahall era quasi stata ultimata e che Ismira aveva iniziato a parlare, ma si trattenne a lungo, godendo della loro compagnia.
In seguito contattò Orik. Sebbene gli sarebbe piaciuto intrattenersi a lungo anche con lui, gli affari di Stato lo chiamavano, quindi lo vide congedarsi frettolosamente dicendo:-Tra pochi minuti inizia il Conclave dei grimstborith, Eragon, e alcuni hanno già il sangue che ribolle nelle vene, senza che lo riscaldi ulteriormente, barzûl... Stammi bene.- Il Cavaliere non avrebbe mai sospettato che il nano fosse tra gli amici che gli sarebbero mancati maggiormente, eppure era così:  forse era per il fatto che lui riusciva a tirargli fuori il lato più umano, quello di cui, in quel momento, sentiva la mancanza. Dopo Murtagh e Roran, era l’amico di cui poteva fidarsi di più.
Quando provò a divinare Blödhgarm e Yaela, con suo disappunto vide solo buio.
Forse hanno lo specchio in uno zaino e non si sono accorti del flusso di magia, suggerì Saphira, allungando il collo per annusare il bordo dello specchio.
Allora come faccio a contattarli?
Semplice, non lo fai. Ci proverai il mese prossimo.

Al Cavaliere dispiacque, ma convenne con lei che era la soluzione migliore: se avessero insistito avrebbero impiegato più tempo cercando di richiamare la loro attenzione che non per parlare.
Quando concluse che era il momento di divinare la persona successiva, nonché l’ultima del suo lungo giro, rimase sovrappensiero per lunghi minuti, fissando il riflesso dell’angolo del letto nello specchio. Se esteriormente apparisse apatico, però, al suo interno ribolliva, come una borraccia di ferro che conteneva faelnirv.
La pioggia tamburellava sul pavimento marmoreo del balcone, accompagnata ogni tanto dal borbottio burbero di un tuono in lontananza. Nell’animo del Cavaliere i suoni esterni riecheggiavano fino ad ingrandirsi a dismisura, come se avessero voluto riempire il vuoto che la separazione da lei gli aveva causato. Parlare una volta al mese per pochi minuti, spesso e volentieri assistiti dai nobili elfici, non gli bastava.
Dai, muoviti, fece Saphira dandogli un colpetto col muso. Ho voglia di rivedere Fìrnen.
Lui sospirò. Era arrivato il momento che più aspettava e temeva. Parlare con Arya.
Gli altri mesi non l’hai fatta così tragica, osservò lei.
Già, ma se non ricordi male l’ultima volta le ho praticamente detto in faccia che si deve affrettare a raggiungermi perché non ce la faccio più!
Quante storie... Lei hai dichiarato amore eterno in faccia e ti disperi per così poco! Secondo me ha esagerato lei, dopotutto sa cosa provi e non si doveva stupire del fatto che non fossi riuscito a contenerti.

Forse, ma resta il fatto che è arrabbiata a morte con me... Ha sciolto l’incantesimo di divinazione subito dopo! Non si è neanche degnata di parlarmi! Eragon rabbrividì al ricordo del suo viso incollerito e del bagliore dello specchio che, una volta scomparso, l’aveva portato a contemplare il proprio riflesso, là dove prima si stagliava la figura dell’elfa.
Chiedile scusa, come...
Ormai si sarà stancata delle mie scuse, 
la interruppe lui.
...come le altre volte e gira pagina. Non puoi fare nient’altro, concluse lei imperterrita.
Eragon sospirò ancora una volta, sentendo quasi l’anima che lo abbandonava fuggendo attraverso le labbra, poi raddrizzò le spalle e disse: Hai ragione. Compiangersi non serve a nulla. Mi guadagnerò il suo perdono.
Bravo, così ti voglio. Ma ora muoviti.

Il ragazzo si alzò in piedi, pronunciò le parole magiche e dopo qualche istante si ritrovò a fissare i rami fronzuti di un pino del palazzo di Tialdarì. Al contrario di quello degli altri reggenti, lo specchio di Arya non si trovava in una sala, bensì in una angolo del giardino del palazzo reale. Un elfo che passava di lì notò la luce, si avvicinò e salutò il drago e il Cavaliere con la consueta formula, cui i due risposero. Poi andò a cercare Arya.
Passarono una decina di minuti, minuti in cui Eragon non poté impedirsi di pensare alla bella elfa, anche se gli faceva male. Si sentì il cuore martellare nel petto come se si trovasse in una gabbia di artigli di drago e lottasse per uscire. Percepiva ancora la soggezione in cui lo metteva il suo sguardo smeraldino fisso, le dita affusolate che cercavano le sue o gli accarezzavano la guancia, il profumo di aghi di pino quelle poche volte che lo aveva abbracciato, rendendolo l’uomo più felice di tutta Alagaësia, le labbra che gli avevano sfiorato la fronte in un ultimo saluto, un anno prima. Nonostante sapesse quanto l’equilibrio fra di loro fosse fragile come il filo di una ragnatela, e quanto lei tenesse ancora a Faölin, ancora troppo per potersi dedicare a qualcun altro, l’ultima volta non aveva saputo trattenersi e le aveva rivolto quella domanda imbarazzante. Gli sembrava di essere tornato ai tempi dell’addestramento con Oromis, quando il suo fairth l’aveva sconvolta. Non avrebbe mai voluto essere la causa di tanto gelo e rabbia repressa sul suo volto.
Se lui stava male per Arya, però, Saphira nascondeva una disperazione maggiore per la separazione da Fìrnen: riusciva a celare il suo dolore solo grazie alla sua grande forza di volontà e all’orgoglio che le impediva di manifestare lo scoramento. Eragon se ne accorse solo mesi dopo la loro partenza, e quando lo scoprì si sentì debole ed egoista per aver pensato che lei riusciva a nascondere perfettamente tanto dolore mentre lui si lamentava di continuo. Come era successo a Linnëa, il destino le “aveva dato un assaggio della pienezza della vita, per poi negargliela”, usando le parole di Arya: Saphira si era sempre creduta l’unica femmina di una specie destinata all’estinzione, aveva trovato il compagno adatto e prima di poterne gioire era stata costretta  ad abbandonarlo. C’era una differenza tra lei e l’elfa, però: lei era ricambiata e sperava prima o poi di rivedere Fìrnen. Era strano, pensò il Cavaliere, che i due fossero così legati; i draghi cambiavano più volte compagno nella loro vita e senza troppi preamboli, ma sentiva che se anche la dragonessa in futuro avesse avuto uno stuolo di corteggiatori, li avrebbe rifiutati a uno a uno in favore del drago verde.
Uno scalpiccio proveniente dallo specchio lo distolse dalle sue constatazioni: finalmente apparve Arya. Indossava una tunica ruggine, nascosta in parte da un corpetto color sabbia. Una sottile cintura di cuoio dei nani, in cui era infilato un pugnale di fattura elfica, le cingeva i fianchi. I capelli sciolti accentuavano la luminosità degli occhi verdi.
Non parlò: voleva che la onorasse iniziando lui il saluto, comprese.
-Atra esternì ono thelduin, Arya Dröttning- fece lui portandosi indice e medio alle labbra.
-Un du evarìnya ono varda, Eragon-vodhr- rispose lei ripetendo il gesto. Il sopracciglio inarcato e gli occhi che sprizzavano scintille erano segnale palese che era ancora arrabbiata con lui.
Prima che potesse iniziare a parlare, però, la anticipò: -Arya, perdonami, non ho saputo controllarmi. Sai come sono, e quanto sia difficile per me contenermi, ma ti prometto che non accadrà più.-
-Mi avevi già promesso che avresti frenato i tuoi sentimenti... Evidentemente non sei un uomo di parola.-
-Io ho cercato, però...-
-Però la prossima volta riuscirai.- Il suo sguardo si posò su Saphira e il suo atteggiamento si addolcì: -Ciao. È bello rivederti.
Dille che anch’io sono felice di rivederla, e che ti meriti il suo perdono.
Lui la fissò incredulo. Non credi che così penserebbe che te l’ho fatto dire io?
Arya sa che non sono un cagnolino ai tuoi comandi.

-Dice che anche  lei è felice di rivederti... e...- prese fiato-vuole anche lei che mi perdoni.-
L’elfa chiuse gli occhi per pochi secondi, un sospiro malcelato che le dilatò le narici. Quando li riaprì, la collera era scomparsa;  rimaneva solo la sua austerità formale. –L’ho già fatto.-
Un sollievo indescrivibile pervase il Cavaliere e lo fece sentire leggero come un soffio di vento. -Grazie, Arya.-
Lei rispose con un lento cenno del capo, ma soprattutto con un sorriso: sulle sue labbra Eragon vide splendere dolcezza pura, e solo lui poteva vederlo. –Nasuada ti avrà già parlato della mia... della nostra.... intenzione di raggiungerti, qualche volta. Io e Fìrnen non siamo esperti come pensi, non conosciamo tutti i segreti dei Cavalieri... Prima di poter addestrare, dovremo essere noi i primi ad essere addestrati. Ma vorrei prima aspettare che si schiuda almeno un uovo.-
A lui andava benissimo. –Capisco.-
Saphira s’intromise tra i due con l’enorme testa. Avete già cianciato abbastanza, posso rivedere Fìrnen?
Eragon rimase colpito dalla schiettezza di Saphira. Ripeté le sue parole ad Arya.
-Certo. Eragon, parleremo più approfonditamente un’altra volta.- Senza aspettare una risposta,  si scostò e al suo posto comparve la testa del drago verde. La dragonessa azzurra prese a sua volta il posto del Cavaliere, e i due si guardarono negli occhi e comunicarono così, in un colloquio muto e intenso. Nei loro sguardi luminosi si riflettevano l’affetto e lo struggimento condivisi e la speranza di rivedersi. In quei pochi minuti sfogavano ciò che erano riusciti a nascondere in un mese intero. Avevano chiarito sin dall’inizio che non volevano che i loro Cavalieri trasmettessero oralmente i loro pensieri; piuttosto si sarebbero solo guardati pochi minuti al mese per anni.
Eragon aveva intuito che era uno stratagemma dei due draghi per mascherare i loro sentimenti, perché era di certo considerato imbarazzante manifestarli spudoratamente. Né lui o Arya si sarebbero sentiti a loro agio nel proferire frasi più importanti dei soliti convenevoli, se non provenivano dai loro pensieri. Dopo lunghissimi minuti, per un tacito accordo i due si scostarono.
-Ciao, Eragon- fece Arya, facendo capolino sul bordo d’argento cesellato dello specchio. Con grande stupore del Cavaliere, l’elfa posò una mano sulla superficie riflettente, all’altezza della spalla. Quasi automaticamente, vi sovrappose la propria, poi la guardò negli occhi e lesse in quegli smeraldi tutta la nostalgia che non era stata capace di esprimere a parole, e che aveva nascosto sotto l’aria rigida.
-Ciao, Arya-, fece in tempo a dire, prima che lei sciogliesse l’incantesimo. La superficie dello specchio tornò a riflettere la sua immagine.

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Capitolo 3
*** Emozioni del trascorso (prima parte) ***


Buon San Valentino a tutte/i! Non che l'abbia fatto apposta ma il capitolo si addice alla festività... Grazie a tutti, Giorgia98, laramao, Chiara_, shruikan99, Wany97... e speriamo che si aggiunga qualcuno! Buona lettura! ;-P

3-EMOZIONI DEL TRASCORSO (PRIMA PARTE)

Tra poco pioverà.
Nasuada, ferma lungo un ripido sentiero che portava da Ilirea allo sperone roccioso che la sovrastava, aveva lo sguardo rivolto al cielo cupo.
Credeva che in poco tempo avrebbe raggiunto la sua meta, il punto più alto della sporgenza, dove finalmente recidere ogni legame con il mondo, ma a metà della salita aveva già il respiro ansante e si era dovuta fermare.
Perché?
In realtà lo sapeva: non si era ripresa ancora dalle ferite fisiche e mentali che la prigionia di Urû’baen le aveva inferto, anche se una parte di lei si rifiutava di accettarlo. Quella parte che l’aveva aiutata  a raccogliere le sfide, incurante dei pericoli; a prendere decisioni proibitive; a rimanere sveglia la notte per pensare a come deporre  l’Usurpatore; che le aveva permesso di sconfiggerlo e di dare un futuro al suo popolo. Erano stati la determinazione, e l’orgoglio. Quei due elementi non volevano vedere quanto il suo fisico fosse deperito, o quanto fosse vicina all’orlo di una crisi mentale, finché non ne sentiva gli effetti o qualcuno glielo rinfacciava, come era successo qualche giorno prima con Elva.
Scacciò il pensiero e riprese a camminare fino a giungere ad un vecchio salice piangente. Le piaceva sedersi sotto i suoi rami, in un incavo del tronco: era il suo rifugio segreto, dove sognare a occhi aperti e dimenticare la dura realtà.
Inoltre a Ilirea non avrebbe mai trovato un luogo in cui sentirsi veramente a suo agio a causa dell’atmosfera che vi si respirava, resa opprimente dall’aria pesante e secca ma soprattutto dalla presenza dello sperone roccioso, un tiranno che sembrava schiacciare i suoi sudditi e seguire onnipresente ogni loro mossa con occhi invisibili. Trovarsi su di esso era anche un modo per liberarsi, almeno per un po’ di tempo, dalla sua egemonia. Il Farthen Dûr era diverso: oltre ad essere molto più vasto, aveva l’apertura da cui si vedeva il cielo e, per poche ore al giorno, il sole. Un’altra caratteristica che Nasuada non sopportava della città era la mancanza di vento e pioggia, elementi di cui aveva fatto a meno per gran parte della sua vita ma che aveva imparato ad apprezzare dopo essere uscita dalla città-montagna.
E quel giorno era salita sulla sporgenza proprio perché si avvicinava una tempesta e aveva voglia di godersela da vicino; non voleva bagnarsi, ma solo sentire il vento che con le sue carezze la tentava a giocare con lui, a danzare, lasciarsi trasportare, liberarsi delle sue vesti umane, diventare una delle ninfe decantate nelle leggende. L’intrico di rami l’avrebbe protetta dalle gocce, ma avrebbe fatto passare le correnti: un luogo perfetto per ammirare la furia dei nuvoloni bigi e densi che si stava per abbattere sulla regione.
Con un sospiro abbandonò le sue riflessioni e si sedette nella solita nicchietta comoda fra due radici, appoggiando la schiena al tronco. Proprio davanti a lei molti rami erano stati tagliati, aprendole una finestra sul mondo all’esterno del rifugio naturale.
Ripensò a ciò che si era appena detta. Tagliati? Era la prima volta che lo notava. Chi avrà tagliato dei rami ad un salice isolato, e in maniera così particolare? E perché?
Si arrovellò su quelle domande per qualche secondo, poi capì. Qualcun altro doveva aver scelto quel luogo come nascondiglio da tutto e da tutti, e lo aveva modificato a suo piacimento. Doveva essere qualcuno che dopo la caduta dell’Impero era morto o si era trasferito, però, poiché, ne era certa, nessuno dopo allora era più tornato lì oltre a lei.
Si alzò e uscì dal riparo offerto dal salice, mentre i primi tuoni annunciavano l’approssimarsi della pioggia, preceduti da esplosioni di luce o fili seghettati all’orizzonte. La brezza si trasformò a poco a poco in vento forte.
Osservando i moncherini dell’albero, si accorse che non erano stati tagliati, ma che la loro crescita era stata bloccata dalla magia.
È opera di un mago. Ma chi... I suoi occhi si soffermarono su alcuni blocchi di pietra scalfiti e la risposta le venne in mente prima ancora che potesse ponderarla. Era inequivocabile. Nel suo inconscio l’aveva sperato, ma neanche nei suoi pensieri era stata capace di ammetterlo. E ora non poteva negarselo. L’aveva sognato, e il sogno si era avverato. L’ironia della vita.
I macigni erano scheggiati da artigli di drago. La creatura non doveva essere troppo grande, perché tra le orme c’era una zampata integra di dimensioni ridotte, che raffigurava tutti i quattro artigli di un arto posteriore. Shruikan avrebbe lasciato un segno sei volte più grande. No, era opera di Castigo.
Il misterioso visitatore era Murtagh.



Murtagh volava con Castigo.
Stavano sorvolando Skradhzeb, un villaggio Urgali aggrappato alle pendici di un monte della Grande Dorsale. Le vette selvagge, incappucciate di neve candida nonostante la stagione, fornivano ai loro occhi uno spettacolo inestimabile.
Il ragazzo si accasciò sul collo del drago con un sospiro, chiuse gli occhi e ripensò alla loro vita dopo aver salutato Eragon e Saphira: inizialmente avevano viaggiato verso nord, senza una meta precisa né una fissa dimora. Dopo aver raggiunto le pianure isolate della zona di Ceunon, aveva usato il vero nome dell’Antica lingua per liberare se stesso e Castigo da ogni sortilegio di Galbatorix, e da lì avevano  iniziato il difficile cammino per superare il passato. La vita nomade li aveva aiutati nello scopo: infatti per lui erano bastate una decina di settimane per sentirsi meglio, anche se gli incubi continuarono a tormentarlo ancora per mesi, ma per Castigo fu più difficile. Essendo nato e vissuto sempre sotto il controllo perverso del tiranno, inizialmente non riusciva neanche ad afferrare il concetto di mente libera; era pericolosamente barcollante sull’orlo della pazzia. Solo grazie all’aiuto del Cavaliere si era lentamente ristabilito e aveva riconquistato una sua dignità. Una dignità da drago. Libero da catene mentali, ora esprimeva appieno il suo carattere forte ed orgoglioso, a volte solenne, che aiutava Murtagh ad osservare con realismo le sue visioni pessimistiche. In compenso lui gli risollevava il morale quando qualcosa non andava.
Sì, erano davvero una gran bella coppia.
Sentì un’ondata di affetto venire da Castigo, che aveva percepito i suoi pensieri, e gli rispose con una pacca sulla spalla.
Solo quando il drago si fu ristabilito completamente osarono riavvicinarsi alla civiltà. Gli Urgali facevano al caso loro: li trattarono sin dall’inizio come loro pari, e mai come reietti o nemici; inoltre avevano un fortissimo senso dell’ospitalità che li lasciò sbalorditi. Infatti il capo villaggio, Qag, aveva alloggiato il Cavaliere in una capanna tutta per sé e lo invitava a pranzo tutti i giorni, mentre Castigo era riverito quasi come un dio per la sua brutalità nella caccia: quando dilaniava le prede con le zanne e gli artigli scarlatti di sangue, gli Urgali lo guardavano ammirati, prendendolo come esempio. Lì inoltre erano venuti a conoscenza di tutto ciò che riguardava il regno, le uova e la partenza di Eragon. Era ormai un anno che  vivevano a Skradhzeb e in quel periodo avevano imparato ad apprezzare gli Urgali, nonostante le tradizioni bellicose.
Tornò al presente. In cielo sembrava che un dio dei venti avesse soffiato su un letto di ceneri, facendo alzare nubi di ogni sfumatura di grigio. Presto avrebbe piovuto.
Torniamo a casa? La voce tonante di Castigo gli rimbombò nella mente.
A casa?! Murtagh non credeva alle proprie orecchie.
Certo, a casa. Se così si può chiamare quella catapecchia di travi marcite. Girò in parte il collo, quel tanto che gli permettesse di incrociare lo sguardo con lui. Murtagh, che c’è di strano? Perché quell’espressione incredula?
L’aria intrappolata nei suoi polmoni uscì, e  con essa le illusioni che le sue speranze segrete gli avevano creato.
Niente. Abbassò lo sguardo, mentre il drago tornava a guardare in avanti. Per un attimo ho creduto che per “casa” ti riferissi a Urû’baen... A Ilirea, si corresse. Comunque sì, scendiamo.
Tra i due calò il silenzio.
Castigo colse una corrente discensionale e la prese. Il cambio di direzione sollevò i capelli neri del ragazzo, facendoli ondeggiare. Dopo pochi minuti giunsero a terra; lui scese, ma nonostante la tempesta imminente non entrò nella capanna: si rannicchiò sotto un’ala di Castigo. Voleva stare ancora con lui.
Pensi ancora a lei? fece il drago dolcemente. La frase sussurrata squarciò il silenzio fra di loro come un coltello una tela.
Penso sempre a lei.
Lui stette in silenzio, ma il suo non era un silenzio assente, bensì quello che esprimeva più emozioni di cento parole. Voleva consolare il suo piccolo, sempre deriso dalla vita, tanto che dopo aver scoperto che lei lo amava era stato costretto a lasciarla. Vide i suoi pensieri tingersi di un rosso simile alle sue squame, un colore luminoso che la mente di Murtagh assumeva quando pensava a lui... O a quella ragazza che vedeva come stupenda. Quando scorgeva i ricordi che il suo Cavaliere conservava di lei, lo assaliva una serie di informazioni confuse: capelli corvini lisci, profumo delicato e penetrante, occhi neri in cui sprofondare che a volte scintillavano per una forte emozione, portamento fiero, voce sprezzante e aggressiva o dolce e remissiva che sembrava impossibile attribuire quelle sfumature alla stessa persona. In quel momento Murtagh stava pensando al loro primo incontro; lui ridacchiò, emettendo una serie di curiosi grugniti, mentre iniziava a piovigginare.



Le gambe di Nasuada cedettero e cadde in ginocchio. Le sembrava impossibile che lei e Murtagh avessero scelto lo stesso luogo come rifugio. Eppure il wyrda si divertiva a beffeggiarli ancora una volta, come aveva già fatto con lui, come aveva sempre fatto con lui. Si rialzò per poi andarsi a sedere sotto il salice. Le prime gocce di pioggia precipitarono dalle nuvole.
Sussurrò il suo nome e rabbrividì. Prima che la ragione potesse impedirglielo, ripensò al loro primo incontro, e quel pensiero le fece spuntare il più dolce dei sorrisi sulle labbra.

******************************
Nasuada superò la soglia di una cella rettangolare piuttosto spaziosa, arredata con un tavolino, uno scrittoio ed un letto. Su quest’ultimo era sdraiato un bel giovane dai capelli lunghi e neri, gli occhi scuri e il fisico atletico. I tratti leggermente marcati ma non sgradevoli gli conferivano un fascino particolare. Stava leggendo un libro e in quel momento si stava infilando in bocca un acino d’uva che aveva piluccato da una ciotola piena, accanto a lui.
Non si era ancora accorto della sua presenza; forse era troppo assorto nella lettura. La ragazza richiuse la porta dietro di sé, poi diede un leggero colpo di tosse.
A quel suono il prigioniero distolse lo sguardo dal libro e incrociò il suo. Sbarrare gli occhi, emettere un grugnito soffocato e balzare a sedere fu tutt’uno: divenne rosso in viso e iniziò a tossire; l’acino gli era andato di traverso. Allarmata, Nasuada corse verso di lui, gli circondò il collo con le mani e premette coi pollici sulla gola per una frazione di secondo. Dopo un terrificante istante il boccone scese giù, mentre lui, col fiato grosso e una mano sul cuore, mormorava:-Per un soffio...-
-Mi dispiace di averti spaventato...- Tolse lentamente le mani dal collo di lui.
-Ti sei fatta perdonare; mi hai salvato la vita-. Le sorrise. Aveva ancora le guance rubizze.
-Un trucchetto della mia tribù... In realtà si usa per uccidere, ma ne ho appena scoperto un uso alternativo.
-Chi sei?
-Mi chiamo Nasuada. Sono la figlia di Ajihad.
-Davvero, figlia di Ajihad? Gli somigli.- Si alzò in piedi. Era di un paio di pollici più alto di lei.
-E tu, come ti chiami?
-Non te l’hanno detto?
-Veramente mio padre mi ha detto: “Va’ a trovare il prigioniero arrivato con il Cavaliere dei Draghi e chiedigli da parte mia se vuole sottoporsi all’esame dei Gemelli”. Non so nient’altro di te.
-Fai da messaggera per tuo padre?
-In parte, e non solo... Allora, come ti chiami?
-Il mio nome è Murtagh e sono... il figlio di Morzan
-Sul serio?! Non sapevo che i Rinnegati avessero figli! A dire il vero non ho mai sentito parlare di te.
-Penso di essere l’unico, infatti- le rispose lui laconico. -Vuoi sederti?
-Va bene-. Il letto duro non cambiò quasi forma quando i due si accomodarono una accanto all’altro. Si sistemò l’abito viola con le dita, poi si girò verso Murtagh. La stava guardando.
-Comunque... Di’ a tuo padre che non voglio ancora sottopormi all’esame.- Prima che potesse rispondergli, aggiunse:-Sai, sei l’unica che non ha provato neanche un minimo di repulsione per me, quando hai saputo che sono figlio di Morzan.
-Ti capisco. Anch’io sono stata presa in giro per i miei natali, da bambina... Ma penso che il tuo caso sia più difficile. Mi chiamavano tutti “principessina”.- Fece Una smorfia. -Mi dava fastidio non essere trattata come gli altri.
-È la stessa cosa che succedeva a me.
-Inoltre mi deridevano per la pelle scura.
-Che sciocchezze! Ma se
sei bellissima!
Fermi tutti. Cos’ha detto?!?
******************************
Ripensando a quella frase, la regina provò un’emozione indescrivibile, un misto di adorazione, malizia e sincera tenerezza. Come aveva fatto a non capire già da allora che lui era pazzo di lei?


Le aveva detto “sei bellissima” solo pochi minuti dopo averla conosciuta. Murtagh non poteva fare a meno di sentirsi ancora uno sciocco. Riparato sotto l’ala di Castigo, se la rideva tra sé e sé rievocando l’imbarazzo, mentre la tempesta infuriava al di fuori. In seguito aveva imparato a nascondere meglio i suoi sentimenti, ma in quel momento era in balia di una parte del suo essere che aveva appena scoperto.
******************************
-Che sciocchezze! Ma se sei bellissima!
Lei si girò verso di lui. I suoi occhi spalancati, neri come inchiostro, brillavano di una luce strana. Capì di averla messa in imbarazzo e cercò di rimediare:
-Cioè, certo, non sei un’elfa, per dire, insomma... Però...- Lei  lo divorava con lo sguardo, curiosa di sapere cos’avrebbe detto. Era nel panico. Adesso l’aveva spinta anche troppo in basso. Come rimediare?
Si arrese e seguì il suggerimento del suo cuore.
-...però sei bella lo stesso.
Sei bellissima.
Al posto di migliorare la situazione l’aveva peggiorata. Abbassò lo sguardo per non incrociare di nuovo il suo; non ne aveva il coraggio. Con uno sforzo sovrumano si costrinse a farlo. E gli occhi di lei esprimevano solo pura dolcezza. Avrebbe voluto guardarli all’infinito, annegare in quegli oceani neri.
-Grazie, Murtagh- sussurrò Nasuada. Si alzò. –Mio padre voleva che riferissi altri messaggi. Devo andare.- Lui le avrebbe voluto chiedere se sarebbe tornata, ma temeva che si insospettisse. Fortunatamente lei, già sulla soglia, lo anticipò: -Magari ti torno a trovare uno di questi giorni, va bene? Ciao, Murtagh.
-Ciao, Nasuada.- La porta si chiuse senza un cigolio là dove prima si trovava la ragazza.

******************************
Murtagh, sei davvero divertente! “Ma se sei bellissima”...
Oh, taci.
Tacere?!
Castigo emise una serie di grugniti e borbottii divertiti che gli sconquassarono il corpo possente. Passò un minuto intero in preda all’ilarità, mentre il suo Cavaliere rimaneva schiacciato sotto la membrana color vino.
Insomma, smettila! Mi stai anche schiacciando!
Va bene, va bene...
Il drago, dopo immani sforzi, tornò serio.
E se penso alla seconda volta che vi siete visti! Ancora peggio!
Lui gli inviò un pensiero truce.
Hai finito?
Sì, basta... Ah, Murtagh?
Sì?
Sei bellissimo.

Il ragazzo gli affondò un gomito nelle costole.
******************************
Stavano chiacchierando da una mezz’oretta. Dopo le scuse che Nasuada gli aveva rivolto per non poter essere venuta a trovarlo per due giorni, avevano iniziato a parlare della struttura di Tronjheim e della costruzione di Isidar Mithrim. Tutti i suoi sforzi non bastarono a evitare che due leggere chiazze rosse gli imporporassero le guance. Lei invece discorreva del più e del meno, gesticolando.
-...E così Korgan morì, dopo aver appena terminato la sua opera.
-Una vita davvero ben spesa, però. Insomma, creare una tale meraviglia!
-Già... Almeno aveva realizzato il suo scopo.
I loro discorsi furono interrotti dal suono melodioso e leggiadro di un flauto e una lira, proveniente dall’esterno. Le note altalenanti di una ballata riempirono la cella.
-Vuoi ballare?
Murtagh si riscosse e la guardò.
-Come?
-Ho detto, vuoi ballare?- ripeté lei, sorridendogli.
-Veramente... Non l’ho mai fatto.
-Neanch’io ho mai ballato, però ho visto farlo... Dai, al massimo ci facciamo una bella risata.- Gli porse la mano.
Non poteva resistere ad un tale invito. –Va bene.- Le strinse le dita e si alzò. Anche se tutto fosse finito lì, nello stare mano nella mano, si sarebbe ritenuto soddisfatto. E invece continuò.
-Io ti poggio una mano sulla spalla... Così... Mettimi il braccio sinistro sul fianco... Prendimi la sinistra. No, la tua mano sotto e la mia sopra. Mantieni sempre la distanza di una mezza dozzina di pollici. Perfetto. Ora, vai sempre così: un passo avanti, due indietro, uno avanti, io farò il contrario, e ti giri verso destra. Via.
Iniziarono a muoversi a ritmo di musica. La vicinanza a Nasuada lo stordiva, rendendolo goffo e impacciato. Si sentiva ardere vivo. Dal canto suo lei non mostrava eccessivo imbarazzo, né parve accorgersi delle sue reazioni. Si muoveva leggera, seguendo il ritmo, un passo indietro, due avanti, uno indietro, la  veste azzurra che frusciava sul tappeto.
-Sei davvero bravo.
-Neanche tu sei da meno.
-Allora siamo entrambi ballerini provetti?- Una strana luce illuminava i suoi occhi come un cielo stellato: Murtagh non avrebbe mai voluto smettere di guardarli.
-Già! Tutti e due!- fece con un sorriso.
Ballarono ancora per alcuni minuti, poi la canzone arrivò alle battute finali.
-Attento: nel finale la dama fa un giro su se stessa.
La mossa lo colse impreparato: lui cos’avrebbe dovuto fare? Prima che se ne rendesse conto, Nasuada aveva terminato la mossa e si erano ritrovati petto a petto. Il suo braccio che circondava tutta la vita sottile della ragazza. Le fronti che si toccavano. I nasi che si sfioravano.
Le loro labbra a un soffio di distanza.
Il mondo si fermò. “Baciala”, gli diceva un imperativo dentro di lui. Sarebbe stato così maledettamente facile avanzare di un decimo di pollice e incontrare le sue labbra morbide! Eppure era paralizzato, non riusciva a muoversi.

******************************
E poi dici che non dovrei ridere! Ti sei buttato addosso a lei! Ah! Ah! Un ruggito interruppe la monotonia del picchiettio delle gocce sulle foglie, le travi e le squame, seguito da una fiammata.
Vuoi un’altra gomitata?
Ehi, calmati! Anche se a momenti la bacia... Ouch!




La pioggia cadeva già da tempo, e il vento, come voleva lei, la prendeva in pieno, ma Nasuada nemmeno se ne accorse. Non era sotto il salice: era nella cella del Farthen Dûr, stretta a Murtagh, e stava per baciarlo.
******************************
Non sapeva come, non sapeva perché, ma si era ritrovata appoggiata al petto di lui, il suo braccio che le circondava i fianchi con una presa delicata ma decisa, lei che con il suo gli attorniava le spalle, i capelli di lui che le pizzicavano le guance, il suo profumo che le risaliva nei polmoni per poi scorrere nel sangue, ma soprattutto le labbra semidischiuse che si sfioravano e non si sfioravano.
Incrociò il suo sguardo. Non riuscì più a distogliere gli occhi: era rimasta come ipnotizzata dalle iridi nocciola, scure, tendenti al nero, di lui. Il ragazzo non era arrossito, di più: era paonazzo. Se non avesse avuto la pelle scura, era certa che avrebbe avuto lo stesso colorito; sentiva comunque il sangue ribollirle sugli zigomi.
Sapeva che doveva allontanarsi, chiedergli scusa per quell’enorme, stupido errore del fato, ma non riusciva quasi a respirare, figurarsi a parlare. Eppure doveva trovare il modo di togliere lei e il suo
amico da quella situazione imbarazzante.
Dopo lunghissimi minuti di lotta interiore, riuscì a dire:
-Devo andare.
La frase cadde pesante  come un pezzo di piombo nella stanza e le ferì le orecchie. L’unica cosa che cambiò fu la luce negli occhi di Murtagh.
Seguirono secondi eterni.
Improvvisamente il prigioniero spostò la testa e la baciò bruscamente sulla guancia sinistra, poi vi appoggiò  la propria.

Che diamine sta succedendo?!? Forse non sa che fare... Ma certo. Credeva che io volessi baciarlo, ma lui non voleva e per non deludermi ha agito così... Che confusione, ed è tutta colpa mia! Eppure non poteva fare a meno di provare un sottile piacere nel trovarsi così vicina al bel ragazzo, guancia a guancia.
Stettero così per un tempo indefinito, poi lui scostò il viso dal suo e disse:-Vai-. Nei suoi occhi, così come nella voce incerta, Nasuada lesse un tumulto di emozioni. L’accaduto doveva averlo turbato.
Senza che neanche lei sapesse bene cosa stesse facendo, gli posò una mano su una guancia e gli baciò l’altra. Si scostò subito.
Non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi.
-Ciao-, fece, mentre si dirigeva verso la porta. Prima che lui potesse risponderle, era già uscita.

******************************
Rivivere quell’episodio le aveva fatto provare le stesse sensazioni ed emozioni di tanto tempo prima. Se solo il fato li avesse spinti appena un soffio più vicini! Invece aveva fatto sì che fossero loro a decidere il loro destino, e la timidezza aveva decretato la fine di quel sogno.

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Capitolo 4
*** Emozioni del trascorso (seconda parte) ***


Salve a tutti/e! Scusatemi per l'enorme ritardo, ma dovrete vedere di abituarvici... almeno fino a giugno. D"X E finalmente si posta! Grazie a tutti per il vostro sostegno e le recensioni, che mi fanno davvero un mondo di piacere! Ditemi tutto ciò che pensate, se ci sono stati cambiamenti di stile, peggioramenti, miglioramenti.. tutto ciò che vi viene da dire! Vi aspetto con ansia! ;-*


4-EMOZIONI DEL TRASCORSO (SECONDA PARTE)

Il tranquillo plicchettio della pioggia si era trasformato a poco a poco in uno scroscio tonante, come se una cascata si fosse abbattuta sullo sperone roccioso. L’acqua inzuppava la terra permeabile, che sprigionava il suo pungente profumo, ma lasciava intatte le zolle sotto il salice piangente, ben protette dai rami fitti. Nasuada si trovava ancora lì sotto, le gambe strette al petto e il mento poggiato sulle ginocchia, e pensava al suo terzo incontro con Murtagh nel Farthen Dûr.
L’ultimo.
Se l’avesse saputo, gli avrebbe certamente detto qualcosa di diverso.
******************************
Nasuada entrò nella cella e lo vide subito: era di spalle, in piedi davanti ad un tavolino su cui erano impilati una decina di libri. Ne stava sfogliando uno con aria distratta.
Lei deglutì e mandò giù anche l’agitazione: aveva pensato a lungo su cosa dirgli, ed era certa che quello che stava per fare fosse la cosa giusta. Ma sentiva ancora il petto di lui così vicino, le labbra rosee che per un soffio non aveva sfiorato, il braccio che le circondava la vita...

Smettila. Solo sensazioni fisiche, che rovinano la vostra amicizia.
Come al solito lui non aveva sentito la porta aprirsi. –Ciao, Murtagh.
Il ragazzo trasalì, si girò e le sorrise timidamente. Richiuse il libro e lo ripose sul tavolo.
–Ciao.- Aveva un’aria spaventosamente incerta: i suoi occhi guizzavano da una parte all’altra e non riusciva ad incrociarli per più di qualche istante. Ciò la sorprese: si era sempre comportato come una persona decisa e determinata, e lei lo ammirava proprio per la sua forza perché la condivideva. Il silenzio calò tra di loro: le sembrava di trovarsi tra l’incudine e il martello, e l’arnese ormai la soffocava con la sua pressione ferrea sul metallo. Prima che l’agitazione ricominciasse a farle battere il cuore la domò e annientò, ma non riuscì a farlo del tutto.
-Devo dirti una cosa....- iniziò lui, ma lei lo interruppe: -Anch’io devo parlarti. Riguarda... ciò che è successo l’altra volta.
Murtagh rimase in silenzio. Prese fiato e continuò:-Non voglio che la nostra amicizia sia distrutta per colpa mia.... E della mia stupida idea. Quella di ballare. Quando ci siamo ritrovati... in quel modo... Credevi che volessi baciarti e così hai cercato di rimediare un compromesso. Ma io non volevo farlo, non ti amo, insomma, tu per me sei solo un buon amico, ti sei sbagliato, capisci? Mi dispiace per quello che è successo...
Sul volto di lui apparve un’espressione indecifrabile, gli occhi più lucenti del solito. A mano a mano che parlava i suoi muscoli si erano irrigiditi. Aveva forse sbagliato? –Ho indovinato?- sussurrò incerta. Silenzio. Si chiese ancora se avesse fatto la cosa giusta: non riusciva a capire come avesse reagito lui. Cosa provava? Rabbia? Paura? Delusione? Sollievo? Il ragazzo aveva capito davvero il filo dei suoi pensieri? E lei, si era espressa bene?
Il dubbio la assillava; non sapeva più cosa pensare.



Non ti amo.
Quelle parole non avrebbero mai dovuto essere proferite da Nasuada per lui. Non lo amava. I sogni che gli affollavano la mente da quando l’aveva conosciuta s’infransero come vetro, e gli sembrava che le schegge gli si conficcassero nel cuore. Provò l’impulso di piangere, di correre da lei, stringerla, comunicarle la sua disperazione, convincerla in tutti i modi che aveva commesso un terribile, terribile sbaglio pronunciando quella frase. Invece rimase fermo e in silenzio. Ma non poté evitare che i suoi occhi diventassero lucidi e le membra gli tremassero; sentiva il desiderio impellente di sfogare l’energia che lo logorava dall’interno. Eppure fu costretto a mantenere la farsa.
–Sì, hai indovinato. Ho pensato proprio questo di te.- Cos’altro poteva dirle?
-Mi spiace...- fece lei, la voce incrinata.
–Non preoccuparti. Ti vuoi sedere?- Si chiese se il sorriso che aveva cercato di ostentare l’avesse convinta.
Lei si avviò verso il letto e si sedette. La seguì. –Allora, cosa stavi leggendo?- gli chiese la ragazza con un sorriso. Chiacchierarono per un’oretta, che per lui passò tra piacere e dolore, amore ed odio, serenità e disperazione che si alternavano di continuo; li sentiva opprimergli il cuore in una presa artigliata. Il tono spensierato di Nasuada e l’atteggiamento rilassato indicavano chiaramente che invece lei considerava conclusa la questione precedente, e senza troppi problemi.
Lei però si dovette accorgere che qualcosa non andava, perché quando lo salutò gli disse: -Sono felice di averti come amico- e gli sorrise dolcemente. Il ragazzo si sentì ardere il cuore, e quando lei uscì nel suo petto non rimase che cenere.

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Dopo quell’ultimo incontro Murtagh aveva cercato in tutti i modi di dimenticare Nasuada, ma a nulla valsero i suoi tentativi di pensare male di lei. Come poteva biasimare una persona che conteneva un tale perfetto misto di dolcezza, determinazione, intelligenza, fascino e quel qualcosa di inspiegabile che aveva solo lei? Come poteva pensare di dimenticarla, se non poteva neanche vivere senza? Eppure aveva dovuto abbandonarla a causa della guerra, la guerra che uccide e distrugge, e che aveva fatto sì che lei e tutti gli altri lo credessero morto per mesi.
In seguito era nato Castigo, e da allora la sua vita era stato un susseguirsi di rancore, rabbia repressa, paura e isolamento. Castigo era il suo unico amico e aveva infuso in lui ogni oncia del proprio affetto, quell’affetto che ancora sopravviveva in lui nonostante le innumerevoli volte che era stato respinto, quell’affetto che solo il drago rosso era riuscito a ricambiare. Eppure un pizzico del suo amore era ancora rivolto a Nasuada: c’era sempre una porta socchiusa nel suo cuore, che poteva essere ignorata ma non chiusa. Ma quando arrivò la notte in cui cambiò tutto, lo spiraglio divenne una porta spalancata e le emozioni del trascorso presero a fluire al di fuori, con il loro carico di dolore, gioia e incertezza.
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Murtagh entrò nella sala amministrativa di Galbatorix: una stanza dalle pareti grigie, arredata con un enorme tavolo nero circondato da sedie. Il re stava discutendo con tre uomini e una donna, membri della Mano Nera.
-...e questo è tutto. Andate ed eseguite gli ordini.- I tre fecero un piccolo inchino e si avviarono verso l’uscita con un fruscio di mantelli. Il Cavaliere si avvicinò, ripeté il gesto degli uomini e fece:- Sire.-
-Salve, Murtagh.- Il tono del re era neutrale e distante. Guardava delle carte sul tavolo, e più le guardava, più un sorriso perverso si allargava sulle sue labbra. Lui si sporse per sbirciare sul tavolo: una pianta dell’accampamento dei Varden e varie pergamene piene di appunti disordinati occupavano la superficie. –Sì, è davvero un piano geniale.
-Posso chiedervi cosa avete progettato, sire?
-Uccideremo Nasuada. Ultimamente la sorveglianza su di lei si è allentata, e quello sciocco di Eragon non riuscirà a proteggerla...- continuava a parlare, ma le parole riecheggiavano vuote nella mente di Murtagh. Due sole erano degne della sua attenzione: uccideremo nasuada. Il cuore accelerò i battiti.
–Ma sire, lei è un valido alleato!
Il re s’interruppe bruscamente e lo guardò con occhi ben aperti, quasi sbarrati; subito dopo nascose l’irritazione sotto una maschera d’imperturbabilità. –Spiegati meglio.
-Uccidere Nasuada sarebbe un enorme spreco. Possiede capacità che neanche immaginate, sire. È intelligente ed efferata e usa la rabbia e la grinta per raggiungere le sue ambizioni... Neanche Lord Barst può vantare queste qualità. Ci sarebbe utilissima, perciò...- a questo punto si fermò, improvvisamente vuoto. Sapeva come proseguire. Ma sapeva anche che ciò che avrebbe detto avrebbe condannato Nasuada ad una vita che non voleva per nessuna ragione al mondo farle condurre. Non voleva dirlo... Eppure non aveva scelta... Il re aspettava impaziente.
-...Perciò anziché ucciderla, potremmo rapirla.- Terminata che ebbe l’ultima parola, abbassò lo sguardo.
Galbatorix continuò a fissarlo immerso nelle proprie riflessioni. Lui aspettava impaziente il verdetto, logorato dall’attesa. Infine il re si aprì in un sorriso perverso. –Sì, è un’idea geniale. Sarà facile rapirla...- il sorriso si allargò -...e molto divertente torturarla. E tu mi aiuterai, Morzansson. Avverto subito la Mano Nera... Ci riuniremo domani dopo pranzo per decidere i dettagli.- Si girò e si avviò a grandi passi verso l’uscita, il mantello svolazzante sulle spalle. D’un tratto si fermò. –Murtagh, come ti è venuta quest’idea? Forse provi interesse per lei?-
Il respiro gli rimase intrappolato nei polmoni, mentre al sollievo precedente si sostituiva un’ansia di ghiaccio. Avrebbe dovuto pensare a quel dettaglio. Ma non c’era modo di nasconderlo.

Accidenti!
Ma prima che potesse aprir bocca, Galbatorix emise una risata sadica e disse: -Ah, già, tu sei Murtagh il Regicida! Colui che è senza cuore, colui che tradisce i vecchi amici... E stai certo che se Nasuada non mi giurerà fedeltà, spetterà a te il privilegio di spremerle la vita goccia a goccia. Sarà la seconda vittima della tua collezione di reggenti. Un onore ed un piacere.- Fece una pausa, mentre lui si sentiva gelare e sciogliere al tempo stesso per il sollievo di non essere stato scoperto e il terrore di ciò che avrebbe fatto. –A presto, Regicida...- I suoi passi riecheggiarono nel corridoio mentre abbandonava la sala.
Che cosa ho fatto?
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Castigo rabbrividì sotto il gelido ed insistente scrosciare della pioggia e il tremito riverberò anche nelle membra di Murtagh.
Tu stai bene, cucciolo, ma io no. Sono fradicio e intirizzito di freddo... Per piacere, spostiamoci sotto quella quercia.
Il tono ironico di Castigo si era mitigato; anche lui era stato condizionato dalla malinconia che aveva invaso il suo compagno per la vita. Forse lo preferiva quando era dispettoso e sarcastico, pensò il Cavaliere; almeno gli risollevava il morale.
Chi ti dice che non lo sia più... un filamento sottile della mente del drago lo raggiunse; evidentemente aveva sentito il suo precedente pensiero. Dal contatto traspariva malizia. Il resto della mente era schermato: gli stava nascondendo qualcosa. Iniziò a nascergli un terribile sospetto.
Castigo?
Sìì?
Cos’hai in mente?
Io? Niente...
E invece sì, stai pensando qualcosa!
Ma se ti dico che non sto pensando niente!
E io ti dico di sì.
E io di no.
Sì.
No.
Sì.
E allora sì anch’io!

Aprì di scatto l’ala, lasciandolo esposto alle intemperie. In due secondi si ritrovò gli abiti zuppi e aderenti al corpo e i lunghi capelli neri attaccati al viso.
CASTIGO!
Iniziò a imprecare, mentre correva incespicando verso la quercia e Castigo, che era già arrivato, si rotolava a terra dal divertimento.


Forse avrei dovuto capirlo. Una goccia filtrò tra i rami lussureggianti del salice e cadde sulla sua guancia, come una lacrima.
Dopo la battaglia del Farthen Dûr e la notizia della sua morte, Nasuada non aveva più pensato a Murtagh, anche se aveva provato un dolore immenso alla notizia della sua scomparsa. In seguito l’elezione a capo dei Varden e gli impegni politici l’avevano trascinata nel loro vortice di intrighi, bugie, accordi diplomatici, strette di mano, enumerazione di risorse ed armi, raggiri di sorta che schivava con la sua abilità... Non avrebbe mai potuto dire che fare la reggente le piacesse, eppure era ancora lì: il suo senso di giustizia e la sua determinazione l’avevano assistita là dove gli altri non erano arrivati, le facevano stringere i denti quando c’era dolore da sopportare, le suggerivano risposte argute ai consigli, la guidavano nei discorsi al popolo, cui teneva più di ogni altra cosa al mondo. O quasi.
Sospirò e si mise in una posizione più comoda. Anche dopo la battaglia delle Pianure Ardenti e la scoperta che Murtagh era diventato Cavaliere, la sua vita non era cambiata. Cambiò invece molto tempo più tardi, in una notte in cui si ritrovò faccia a faccia con lui, e con il suo wyrda.
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-Ben svegliata, dolcezza.
Nasuada si ridestò faticosamente dal sonno e socchiuse gli occhi, ma ciò che vide subito dopo glieli fece sbarrare.
A pochi pollici dal sul viso c’era quello di Murtagh.
Il Cavaliere le aveva bloccato i polsi sul cuscino, ai lati della testa; le punte dei suoi capelli le sfioravano le guance; le labbra erano atteggiate ad un sorriso sardonico.
Lei per istinto cercò di divincolarsi, in preda al panico, ma un incantesimo non le permetteva di muoversi.
Si arrese. –Murtagh...- Pronunciò il nome a fatica. –Perché sei qui? Devi uccidermi?
Com’era possibile che l’avesse raggiunta? E i Falchineri? Eragon? Elva? Gli stregoni del Du Vrangr Gata? Possibile che non ci fosse nessuno che avesse ostacolato il Cavaliere?
Accantonò quei pensieri inutili, concentrandosi sul qui e adesso. Guardò il ragazzo negli occhi: solo allora si accorse che la stava divorando con i suoi occhi scuri, luminosi e seri. Si chiese perché la guardasse così intensamente: quasi la consumava a forza di fissarla. L’aria beffarda non aveva niente a che fare con ciò che trapelava dal suo sguardo...

Ma forse... Forse è un’illusione.
-No. Il re mi ha dato l’ordine di rapirti.
Rapirmi? Si trattenne dal chiedere il perché.
-E tu lo farai?
-Naturale. A Galbatorix non si sfugge...-avvicinò le labbra al suo orecchio -...e non sfuggirai neanche tu.- L’armatura gelida contro il suo corpo la fece rabbrividire;il freddo del metallo si percepiva ben oltre la camiciola leggera. Cercò di allontanarsi il più possibile dal viso del ragazzo, per quanto l’incantesimo potesse permetterglielo. Fuori sentiva infuriare la battaglia e i ruggiti di Saphira e Castigo che lottavano in cielo.
-Uccidimi.
-Il re ti vuole viva.
-So che non lo farai. Dov’è finito il tempo in cui mi dicevi “sei bellissima”?
-È finito quel tempo, ormai.
-Ti prego, per la nostra amicizia, non farlo... Sai che non è vero...
-Non ho scelta!- Il Cavaliere perse il suo tono controllato e sprezzante. Si alzò in piedi e con forza sovrannaturale trascinò anche lei. Arrivata a terra puntò i piedi.
-NO!- Sapeva di non poter resistere, ma avrebbe fatto di tutto pur di non finire tra le grinfie di Galbatorix. Liberò una mano, afferrò un pugnale nascosto tra le pieghe della vestaglia e cercò di colpire Murtagh al cuore, ma le difese magiche la bloccarono. Il giovane le riprese il polso e nella foga le ferì una guancia. L’arma cadde a terra, affondando nella terra arida, mentre un fiotto scarlatto straripava dal taglio come un fiume che rompeva gli argini. Faceva male, ma aveva sopportato ben altro. Intanto lui continuava a trascinarla: urlò, cadde in ginocchio, ma il Cavaliere non la lasciò e la riportò in piedi.
-Arrenditi, non fare la bambina!-
-Mai!
Quando raggiunsero l’uscita del padiglione vide i Falchineri e gli stregoni che la proteggevano a terra, le tende in fiamme e soldati imperiali ovunque. Nonostante tutti i suoi sforzi si allontanavano sempre di più. Disperata, tirò un calcio verso il ginocchio di Murtagh, ma ancora una volta le difese la bloccarono. Sentì Eragon gridare e correre verso di lei, ma era troppo lontano... Non ce l’avrebbe fatta...
Era tutto perduto...
All’improvviso si trovò addosso al Cavaliere che la tratteneva: un colpo alla tempia, e cadde nell’oblio.

******************************
I giorni seguenti erano stati i più intensi della sua vita. A volte riviveva nei sogni l’attizzatoio rovente che le marchiava le braccia, la lastra di marmo gelido sotto di lei, la voce mielata di Galbatorix, le mascelle dei brucotarli che la rodevano dall’interno, e più rodevano più sentiva dolore e ribrezzo, e più sentiva dolore e ribrezzo, più si avvicinava pericolosamente alla pazzia...
O alla morte...
C’erano state volte in cui credeva davvero di morire. In cui voleva davvero morire.
Invece era ancora viva, ancora sottoposta a torture, discorsi melliflui, paura che le veniva inculcata per stillicidio, e il cuore che batteva sempre più veloce a mano a mano che il ferro si avvicinava, e i suoi sforzi e rituali a cui si aggrappava come un monaco al suo dio, e le sue paure e i desideri più nascosti che Galbatorix le faceva sfilare davanti pur di spezzare la sua determinazione... Eppure aveva resistito a tutto.
Un’esperienza del genere porta davvero a scoprire i propri limiti.
Ma non ce l’avrebbe mai fatta senza di lui. A volte compariva anche nei suoi sogni, ma sempre con la maschera d’argento, o girato di spalle. Non capiva perché non riuscisse a vedere il lato della sua personalità che voleva lei. Quello premuroso, impacciato, rassicurante, dolce, che unito agli aspetti che tutti conoscevano di lui, lo rendevano irresistibilmente, assurdamente, indiscutibilmente, inevitabilmente, misteriosamente, tremendamente attraente... Sentiva, sapeva che avrebbe potuto vivere solo di lui, perché aveva pregi e difetti unici, messi insieme da qualcosa cui non era riuscita a dare nome all’inizio.
Le ci era voluto un po’ per scoprire la sua parte più dolce, perché inizialmente si era soffermata solo sull’apparenza: sarcasmo, durezza, orgoglio, rancore. Ciò che vedeva in lui, e come lo etichettavano gli altri. Non si era mai sforzata di andare oltre e capire che con lei si comportava in maniera diversa. Ma poi scoprì che lui le aveva salvato la vita e nonostante avrebbe preferito morire, non poté fare a meno di ringraziarlo in cuor suo... e chiedersi il perché.
Sdraiata sulla lastra, in attesa della visita di Galbatorix, si arrovellava sulla domanda, su quel “perché?” che tempo dopo si sarebbe voluta sentir dire da lui. E più si lambiccava il cervello, più un pensiero s’infiltrava, sottile, eppure penetrante, nella sua mente: lei gli piaceva.
Ma certo. Era così evidente. Aveva avuto per tanto tempo la risposta sotto gli occhi, ma aveva sempre guardato in un’altra direzione, finché quel suo gesto no aveva attirato la sua attenzione.
Solo allora riuscì a interpretare il tono dolce, le guance rubizze, lo sguardo incerto che si soffermava a lungo su di lei, le sue visite, l’odio per se stesso quando la torturava... La scoperta la scosse, perché nessuno si era mai innamorato di lei, né lei si era sentita particolarmente attratta da qualcuno.
E poco tempo dopo la scoperta si era trovata stretta a Murtagh, un braccio di lui intorno alle spalle, le dita del Cavaliere che stringevano le sue, la sua voce rassicurante che le giurava solennemente di salvarla... E parlando con lui iniziò a notare quanto fosse interessante, sagace, forte, deciso, dolce, e tra l’altro anche davvero bello... No, non bello, divino... Come non aveva potuto notare prima il suo fascino?
Sentì, mentre lui parlava delle cinghie della sua sella e si scostava una ciocca nera dal viso con due dita, che se anche fosse stato il suo peggior nemico e l’avesse odiata, sarebbe andata fino in capo al mondo pur di godere della sua presenza, del piacere di chiacchierare con lui, di stare tra le sue braccia... Di... baciarlo?... Una sensazione che la spaventava e attraeva, cercava e evitava, un caos di pensieri disordinati e sentimenti confusi che avevano una sola direzione: Murtagh Morzansson. Ma ciò che più la estasiava era che lui non era il suo peggior nemico... lui la amava. E quando voleva sentirselo dire, voleva che rispondesse alla domanda dalla risposta più bella di Alagaësia, Murtagh le aveva detto “Lo sai perché.”
Da allora tra loro era nato l’implicito patto di essere destinati l’uno all’altra; non se l’erano mai detti, non si abbracciavano, non si tenevano neanche per mano, ma era un segreto palese. Quando Murtagh aveva finalmente capito che il suo sentimento erano ricambiato aveva iniziato a trattarla con estrema dolcezza, le sorrideva di più, irradiava tenerezza allo stato puro e si impegnava al massimo per trovare un modo di farla fuggire. I suoi occhi brillavano e non si staccavano mai da lei. Incrociarli le faceva fondere le viscere come ferro in una fucina, e la costringeva ad abbassare lo sguardo... E anche allora, sotto il salice, rivedeva le sue iridi scure e luminose dedicate solo a lei e sentiva uno strano calore all’altezza dello stomaco... Nessuno era mai riuscita a metterla in soggezione come Murtagh.
Quando giaceva sulla lastra e Galbatorix non le manipolava i sensi, il pensiero la spingeva involontariamente a fantasticare su una vita con il bellissimo Cavaliere, come una ragazzina. Immaginava di uscire dall’incubo del regno del tiranno per entrare nel sogno del loro dominio insieme, re e regina in un’era di pace e prosperità. Era sì uscita dall’incubo, ma era entrata in un altro, uno in cui lui era assente. La frustrazione le fece tirare un pugno per terra; le nocche scure affondarono tra le zolle e si confusero con esse. Ripensò all’ultima volta che aveva visto la persona che più amava al mondo, e la disperazione le fece venire i lucciconi.


Questa me la paghi, oh, se me la paghi!
Non eri tu quello che mi preferiva “dispettoso e sarcastico”?
Nnn!... Non mi ti far rispondere.
Dai, Murtagh... Non ti sarai arrabbiato sul serio?

Il Cavaliere chiuse la mente al suo drago. Aveva voglia di piangere, sfogare la rabbia e la disperazione per aver abbandonato tutto e tutti di punto in bianco; soffriva a stare lontano da Nasuada, oltre che da Eragon e gli altri vecchi amici, ma sapeva che sarebbero passati ancora molti anni prima del momento in cui avrebbe trovato la forza interiore per tornare. Gli venne in mente l’addio che aveva dato a Nasuada: aveva ucciso centinaia di uomini senza battere ciglio, visto il dolore in tutte le sue forme, ma era certo che lei fosse la persona che più aveva fatto soffrire nella sua vita. Non potrò mai dimenticare i tuoi occhi... Amore.
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-...e questa è l’ultima.
Ora sì che sto bene. Grazie, Murtagh. Castigo si stiracchiò, come a saggiare il riottenuto pieno vigore, e rabbrividì: la guarigione causava sempre prurito e altre sensazioni anormali, ma dopo qualche minuto passava tutto. Il Cavaliere inviò un’ondata d’affetto al suo drago, che ricambiò. Sentiva già le loro menti più libere: evidentemente la morte di Galbatorix aveva permesso ad alcuni giuramenti di sciogliersi, ma per sicurezza avrebbe usato il Nome dei Nomi più tardi.
Castigo, l’abbiamo ucciso! Siamo liberi!
Perché gioisci? Non sai cosa ci attende ora? Il tono del suo compagno per la vita era solenne e triste. Solo allora ripensò ai loro piani. Il mondo gli crollò addosso.
No... No! Accidenti, non doveva andare così!
Lo so... Ma ricordi tutte le nostre considerazioni...
Lui lasciò cadere un muro tra le loro menti e distolse lo sguardo. Si girò e vide Nasuada accanto a lui, una mano posata sulla sua spalla, che ammirava la mole di Castigo. Negli occhi brillavano di nuovo la forza, la fierezza e la speranza che la contraddistinguevano, e che avevano contribuito a farlo impazzire di lei. Non avrebbe mai sperato di vedere i propri sogni realizzati e la donna che amava accanto a lui. La vicinanza lo impacciava ancora un po’: la mano di lei gli sembrava piombo rovente sulla spalla.
Il mio tesoro. Il mio tesoro, e devo proteggerlo ad ogni costo. Eppure sapeva quale sarebbe stato il destino suo e di Castigo se se si fossero salvati. La disperazione iniziò a penetrare nel suo cuore, inesorabile come la punta di una spada.
Dove trovo il coraggio di dirglielo?
Lei finalmente si girò e si accorse che la stava guardando. Gli scintillanti occhi color liquirizia si abbassarono e tolse la mano dalla sua spalla, imbarazzata.
-Ce l’abbiamo fatta-, disse.
-Già, ce l’abbiamo fatta. Quasi non credo di essere ancora vivo.
-Non voglio neanche pensarci. Mi hai fatto prendere un tale spavento quando Eragon ti ha colpito! Oh, Murtagh, mi sentivo come se avesse ferito me!
-Mi fa piacere che ti preoccupi... Anzi, non mi fa piacere perché questo ti rende triste... Cioè...
Nasuada sorrise dolcemente. –Basta tristezza. Abbiamo realizzato il sogno di una vita! Voi siete liberi e stai certo che io otterrò il trono...- gli rivolse un’occhiata obliqua –...non per scopi egoistici, naturalmente, ma perché mi ritengo un buon capo. Tuttavia... Sono certa che una mano mi sarà utile.- Sorrise, e il mondo s’illuminò. –Non ti piacerebbe regnare con me? Cos’hai intenzione di fare ora?
Era arrivato il momento. Da allora niente sarebbe più stato come prima. Perché doveva darle quella sofferenza? Perché loro?
-Credo che...- si odiò quando lo disse –me ne andrò.
Gli sembrava di aver sputato veleno.
Il sorriso di lei si spense ed emanò incredulità.



-Andartene?!
Non credeva alle sue orecchie. No... No... No. Quella frase non aveva senso.
-Non posso stare al tuo fianco, e lo sai. Ti sarei solo d’intralcio nell’ascesa al potere. Nessuno accetterebbe di averti come regina, se ti assistessi. Sono un peso... La tua rovina... Ti ho fatto solo soffrire, avrei fatto meglio a non... corteggiarti... A stare al mio posto...- Parlava con voce atona, piatta.
-Non dirlo neanche per scherzo! Ce la faremo, vedrai... Riusciremo a convincere tutti...- Ma neanche lei credeva a ciò che aveva detto. Sapeva che le sue parole erano maledettamente veritiere, tranne per il fatto che non avrebbe dovuto affezionarsi a lei.
S’irrigidì.
-E i nani? Re Orrin? Non ci provo neanche. Il mio posto è... lontano da tutti. Lontano da te.
Lei si accigliò. –Non sei un vigliacco! Devi lottare e costruire la tua vita! Vuoi dire che non t’interessa più vivere con me? Che pur di non guardare in faccia i tuoi nemici rinuncerai alla nostra vita insieme? Non mi...
-Certo che ti voglio ancora bene, Nasuada, come puoi non crederlo! Ma non si tratta solo di affrontare nemici, c’è un intero popolo che mi chiama il Regicida! È un’utopia! Quando il tuo impero nascerà e sarà fiorente, io dovrò essere lontano, per il bene di Alagaësia.
Quelle parole la ferirono più di tutti attizzatoi roventi che aveva sperimentato nella sua prigionia.
-Quando partirai?- chiese con voce sommessa.
-Subito. Ora.
-Come, ora!
-E cosa dovrei aspettare, che il popolo dica che è sfuggito un nemico alla loro furia massacratrice? No, prima me ne andrò, meglio sarà per tutti. Compresa te.
-Ti prego, smettila di dire che per me sei un danno! Sai che rivivrei cento volte le torture dei brucotarli pur di averti accanto a me!
Gli occhi di lui si riempirono di gratitudine. Le prese un lembo della tunica vicino al collo e lo strappò, esponendo all’aria aperta le cicatrici che le deturpavano la pelle. La riconoscenza si trasformò in dolore e rabbia. –Posso guarirti prima di andarmene?
Lei annuì e abbassò la testa. Nonostante la situazione non aveva intenzione di sopportare le ferite un minuto di più; erano una testimonianza dell’opera di Galbatorix, e doveva essere eliminata. Murtagh iniziò a borbottare nell’Antica lingua e a sfiorarle leggermente la pelle ferita, come se si vergognasse di toccarla. Com’era dolce il suo Cavaliere, talmente insicuro con lei da non avere l’ardimento di posarle le mani addosso! Era un po’ impacciato, certo, ma nella sua insicurezza c’erano un fascino ed un senso di protezione che nessun corteggiamento di leggiadro elfo avrebbe potuto eguagliare. E ne avrebbe dovuto fare a meno per... Quanto tempo?
-Murtagh, quanto starai via?
Il ragazzo finì d pronunciare l’ultimo incantesimo, abbassò la mano e la guardò negli occhi. Uno sguardo di fuoco che la incendiò.
-Io e Castigo abbiamo bisogno di trovare la pace, e ci occorrerà molto tempo. Non so. Anni. Lustri. Decenni. Voglio recuperare totalmente l’equilibrio... Se mai riusciremo a farlo.
Nasuada sentì salirle un groppo in gola e le prime lacrime colmarle gli occhi; le pareva che il cuore potesse scoppiarle da un momento all’altro, come se fosse stato troppo pieno di sangue e pioggia degli occhi.
Murtagh, dopo un momento d’incertezza, fece lentamente avanzare le mani verso le sue e gliele strinse. Anche lui tratteneva a stento il pianto, la mascella che tremava.
-Promettimi che non mi penserai troppo, e non piangerai.
-Te lo prometto.
-Promettimi che sarai forte, che guiderai il tuo popolo impegnandoti al massimo delle tue capacità.
-Te lo prometto.
Fece un passo avanti e le sussurrò all’orecchio una frase. Lei rabbrividì nel sentire i capelli corvini e lisci di lui sulla guancia e la sua voce calda così vicina e solo per lei, dolcezza fatta suono. Non appena finì di parlare, il Cavaliere si scostò, leggermente rosso sugli zigomi. Inchiodò gli occhi ai suoi: in essi si riflettevano struggente dolore e morbosa attesa per la risposta.
-Oh, sì! Sì, Murtagh!- La sua risposta lo fece sorridere dolcemente: avrebbe voluto catturare quel sorriso e rivederlo ogniqualvolta lo avesse voluto, custodirlo gelosamente nel suo cuore come un segreto. Invece non poté farlo.
-Questa è un’informazione che ti metterebbe in pericolo, se qualcuno ti frugasse la mente. Mi permetti di cancellarne il ricordo, e farlo riapparire quando vorrò io?
Lei lo guardò per un lunghissimo secondo.
Che strana richiesta. Ma ha ragione.
-Va bene...- Il ragazzo pronunciò qualche arcana parola e subito dopo si ritrovò con la strana sensazione che un ricordo le sfuggisse: sapeva che era in atto l’incantesimo, ma sentirne gli effetti le provocò un disagevole... senso di colpa. Lei era solita tenere a mente qualsiasi cosa, dote necessaria per un buono stratega, perciò non sapere ciò che le aveva detto la irritava, ma sopportò. Gli rivolse di nuovo la sua attenzione.
-E tu promettimi di tornare.
-Tornerò. Te lo prometto- sospirò.
Le lacrime finalmente iniziarono a rotolare dai suoi zigomi alti giù per le guance come comete di vetro fuso, lasciando dietro di sé una scia simile al letto prosciugati di un fiume.
-Non piangere... Ti prego, no, non piangere...- Il volto di lui era sconvolto dal dolore.
-Per ultimo, promettimi di tenere lontani i pretendenti.- Cercò di sorridere, ma ciò che vide fu solo una smorfia tirata.
-Te lo prometto.
Passò qualche secondo, lui che le stringeva le mani e la fissava, lei che ricambiava lo sguardo. Il giovane alzò una mano e le asciugò la rugiada degli occhi con un pollice; fu un debole contatto, ma la fece arrossire ugualmente. Le riprese le dita. Cercò di assaporare ogni momento della sua stretta, ogni brivido che percorreva la sua pelle, ogni suo tratto.
All’improvviso sentì la presa allentarsi per poi svanire del tutto.
-Addio, Murtagh!
-No. Non addio, arrivederci. Ricordatelo, sempre. E non dimenticarti mai che ti voglio bene... Sarà l’ultimo dei tuoi dubbi.
-Anch’io... ti voglio... bene.
La fissò ancora, poi si girò e iniziò ad allontanarsi, mentre i singhiozzi le scuotevano il torace e fiocchi di neve infuocati le ustionavano il viso. Lo vide sganciare delle bisacce dalla sella, lasciarle cadere e salire su Castigo, e non si oppose. Lui si girò e cercò di farle l’occhiolino, ma non risultò convincente. Il drago si alzò in volo, le squame rosse rese più cupe dall’ombra dello sperone che sovrastava Urû’baen. La stessa tenebra era scesa sul suo cuore: vedeva Murtagh andarsene da lei, e non poteva fare niente.
Solo piangere.

******************************
Già, piangere... Quello che avrebbe sempre voluto fare, da allora fino a quel momento, lamentare la sua terribile perdita. Ma quando sentiva la tristezza condensarsi sulle palpebre ripensava alla promessa: “Promettimi che non mi penserai, e non piangerai.”
“Te lo prometto.”

Da allora era sempre stata una lotta alle lacrime, alla disperazione, alla malinconia. Ma aveva resistito a tutto. Lo faceva per lui. Eppure, il ricordo di una frase ogni volta le spezzava il cuore, rendendolo schegge e sabbia: “Il mio posto è... lontano da tutti. Lontano da te.”
Non ce la fece più: si alzò, corse fuori dal riparo del salice e lasciò che la pioggia scrosciante scorresse su di lei, facendo scivolare via colpe e rimpianti, sciogliere le membra, diventare parte della terra, andare a imbevere le zolle insieme alle intemperie, unirsi in un tutt’uno con la natura pur di dimenticare il suo dolore. Alzò il viso al cielo, mentre l’abito leggero si attaccava al corpo, i capelli al viso e alla schiena, e brividi le correvano su e giù per i fianchi.
Le lacrime spingevano prepotentemente, e non poté più trattenerle: pianse, pianse tutta la sua sofferenza, lasciando che si mischiasse, stemperasse, scolorisse con la cascata celeste.
Quel giorno, nessuna promessa riuscì a fermare il suo dolore.


Oh, Murtagh... Mi dispiace... Ricordati sempre che torneremo, fatti forza...
Murtagh aveva riaperto la mente a Castigo, sommergendolo di emozioni. Adesso avvertiva che il drago era davvero dispiaciuto per lui: la creatura gli allungò il muso accanto, mugolando piano. Incrociò i suoi occhi di brace e appoggiò la guancia e una mano sul suo morbido naso caldo, mentre cristalli di struggimento gli percorrevano le guance.
Pensò che non avrebbe mai trovato il coraggio di affrontare i suoi nemici, e che non avrebbe rivisto Nasuada mai più.


-Et...cì!- La doccia disperata aveva portato a Nasuada un brutto raffreddore. Il formidabile temporale andava scemando, ed era tornata a palazzo: aveva già perso troppo tempo, doveva scrivere una lettera a Orrin in cui lo avvertiva che le uova, giunte a Ilirea già da un paio di mesi, non si erano schiuse nonostante tutti i ragazzi dei più sperduti villaggi si fossero presentati loro avanti. Avevano girato di città in città per tutto il suo impero, ma non avevano voluto saperne di schiudersi. Bisognava trasportarle ad Aberon il più presto possibile.
Stava percorrendo il corridoio verso la sala del trono, quando qualcosa le colpì la schiena: se l’avesse presa un fulmine, non avrebbe potuto sussultare più violentemente. Si girò e vide Farica, piegata in due dallo sforzo, che ansimava e boccheggiava.
-Farica! Cos’è successo? Perché hai corso?
-È...- Cercò di raddrizzarsi, ma lo sforzo sortì l’effetto contrario e le ginocchia le cedettero. Nasuada la sostenne.
- È...- la serva prese fiato, poi disse:: -È scomparso un uovo di drago!

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Capitolo 5
*** Fuga ***


 

Rieccomi! E con me il quinto capitolo! Sperando che siate sopravvissuti alle minacce di diabete degli ultimi post, aspetto le vostre recensioni! Attenti all'ultima parte!!! ;)

 

5-FUGA

-Cosa? Un uovo di drago? Com’è possibile?- L’ancella provò a risponderle, ma aveva ancora il respiro ansante. Nasuada passò ad un tono più mite: -Su, vieni nella sala, c’è un po’ d’acqua, ti farà bene.
Le prese un braccio e se lo fece passare intorno alle spalle, poi iniziarono ad arrancare verso il portone di quercia. Lo spalancò con un con un colpo secco della mano e fece sedere la donna su una delle numerose sedie, liberandosi del peso gravoso con uno sbuffo. Prese un calice di vetro e una borraccia dal tavolo, riempì il primo recipiente di gorgogliante acqua e lo prose a Farica. Lei lo vuotò in due lunghi sorsi, poi lo allungò e lei glielo riempì di nuovo. Il suo respiro stava lentamente tornando alla normalità. La regina la osservava con un sopracciglio inarcato: aveva sottovalutato il sacrificio che era costato alla fedele serva correre per il palazzo alla sua ricerca, sebbene dovesse annunciare una notizia tanto importante. Gli anni passano, amica mia... La vide posare una mano sul cuore e sorridere al pensiero che il peggio era passato. Ti stai facendo vecchia. Poi scacciò quel pensiero: prima o poi sarebbe accaduto anche a lei, e una constatazione del genere l’avrebbe mandata su tutte le furie. Il pensiero del furto intanto la irritava e sconfortava;  aspettava con ansia che la donna tornasse in grado di parlare senza boccheggiare. Quando capì che Farica si era ripresa completamente, e aveva alzato il viso verso di lei, si chinò all’altezza dei suoi occhi nocciola inchiodandoli ai suoi di liquirizia: -Ora, dimmi. Cosa sai della scomparsa dell’uovo?
-Stavo passando davanti alla porta della sala delle uova e ho visto le guardie a terra e la porta socchiusa. Ho guardato all’interno e una delle teche in cui si trovavano le uova era vuota! E sono corsa... Da te, signora.
-Le guardie erano morte?
-Non so; quando ho visto che mancava l’uovo, mi ha preso il panico... E avete potuto constatarlo.- D’improvviso tacque, e parve perplessa. –Signora, dove sono le tue...
Un urlo di puro straziante dolore giunse alle loro orecchie, talmente forte che  superò anche le mura spesse e il massiccio legno. Nasuada s’irrigidì, i sensi vigili, atterrita dalla voce improvvisa; poi riprese freddamente il controllo. –Resta qui, Farica; vado a vedere.
Mentre si allontanava a passo svelto nella direzione del suono, il cuore le martellava forte nel petto, come un uomo sotto la pioggia che bussa alla porta di casa per entrare al più presto. Quel grido poteva essere tanto di un servo scivolato a terra quanto di un uomo morente, ma l’abitudine agli orrori della guerra non le faceva presagire nulla di buono; all’improvviso incespicò e rischiò di cadere. Agitò confusamente le braccia e riuscì a non perdere l’equilibrio. Abbassò lo sguardo e vide Occhigialli che si strusciava sulle sue gambe, facendo le fusa; il gatto alzò lo sguardo e la fissò altezzoso.
-Accidenti, ti ci metti anche tu? Spostati, mi rallenti! Per poco non mi hai fatto cadere!
Ma non l’ho fatto. E poi è inutile che ti affretti, se vai nella direzione sbagliata.
Direzione sbagliata... Perché, dove devo andare? Lo sai?

L’animale sbuffò dalle narici con aria di sufficienza. Certo. Seguimi!
Si staccò dalle sue gambe e con agili ed eleganti balzi prese un corridoio laterale.
Aspettami!
Corri e non blaterare!

Se in precedenza aveva cercato di andare veloce ma di mantenere comunque un certo contegno, adesso le era impossibile, o avrebbe perso la sua guida. Iniziò a correre al massimo delle sue possibilità, gli occhi sbarrati dallo sgomento, reggendo l’orlo della gonna con le mani, slittando agli angoli, evitando uomini e donne allibiti per un soffio, mentre cercava di seguire l’indistinta macchia corvina che si districava tra scale, corridoi e sale. Nonostante la corporatura massiccia e l’aria paciosa, il gatto mannaro era davvero scattante; lei invece, con il suo fisico leggermente deperito, iniziò a stancarsi dopo pochissimo tempo. Manteneva ancora il contatto mentale con il felino.
Rallenta! Non riesco a starti dietro!
Non ero io quello che ti ostacolava, prima?

I suoi occhi si ridussero a due fessure mentre le veniva in mente una bella risposta per Occhigialli. Smettila di vantarti della tua velocità. Tutti sanno che i gatti mannari sono più agili.
Corri, o non arriverai in tempo!
Si sentiva che era rimasto punto sul vivo, ma il suo tono era allarmato.
Lei sgranò gli occhi. Non arriverò in tempo per cosa?
Non ricevette risposta, se non un vago senso d’agitazione. Riversò ogni oncia della sua energia nelle gambe e nei piedi per non arrendersi.
Dopo aver svoltato l’ennesimo angolo vide il gatto davanti ad una porta socchiusa. La riconobbe: era la stanza di Angela l’erborista. La camera non era eccessivamente lontana dalla sala del trono, eppure le pareva di aver percorso più strada.
Si avvicinò lentamente alla soglia e sbirciò. Trovò una scena sorprendente: al centro della stanza c’erano l’erborista, Solembum e due donne sconosciute, seduti intorno ad un draghetto blu scuro, quasi nero.
Era magnifico, di una bellezza oscura, profonda e attraente: le zanne e gli artigli candidi riflettevano la luce delle finestre, in netto contrasto con il resto del corpo; le ali erano ripiegate suoi lati e oscuravano in parte le meravigliose squame del colore del cielo notturno; il suo muso tenero si scontrava con il mistero degli occhi scuri e luminosi, quasi liquidi, dello stesso colore del corpo, ed era proteso verso una delle straniere. Spostò lo sguardo su di lei: era una ragazza all’incirca della sua stessa età, che indossava una rozza tunica marrone. La veste le lasciava scoperti gli avambracci muscolosi e quella caratteristica la sorprese: doveva essere abituata a lavori ben più pesanti del consueto zappare la terra per avere muscoli così sviluppati. Gli occhi grigi le conferivano un’aria dura, seria; i capelli, chiari come quelli degli elfi, e ricci erano tenuti indietro da un fazzoletto nero legato dietro la nuca. Aveva un’espressione appena sofferente; Nasuada abbassò lo sguardo e notò una macchia argentea che riluceva sul palmo della sua mano destra. Non ci posso credere! Ecco il perché dell’urlo! Ancora sbigottita, spostò di nuovo lo sguardo.
Accanto al Cavaliere c’era una donna vestita con la stessa tunica della ragazza, che la scrutava preoccupata. Era robusta e di spalle larghe. Il viso abbronzato era percorso da numerose rughe, più scavate ai lati della bocca, ma che le conferivano una bellezza particolare. I capelli erano corvini  come i suoi. Anche le sue braccia, come quelle della ragazza, erano scoperte e mettevano in mostra polsi ricoperti da ferite e tagli che da poco avevano iniziato a risanarsi. Anche questo dettaglio stupì la regina: logorarsi le braccia fino all’osso non era impresa da molti.
Angela, al suo fianco, mormorava parole nell’Antica lingua, le mani alzate, le dita contratte come rami di un albero secco, i ricci neri scompigliati che le incorniciavano il viso, le iridi che si muovevano a scatti dietro le palpebre abbassate. Solembum la guardava assorto.
Dopo il primo momento di incredulità, si riprese ed esclamò: -Che succede?
Tutti trasalirono e si girarono verso di lei, tranne Angela, che continuò a borbottare formule arcane. L’atmosfera era agghiacciante.
All’improvviso al centro della stanza comparve un ovale luminoso grande come uno specchio per la cristallomanzia. La superficie era liscia e bianca, i bordi appena tremolanti. L’indovina scattò in piedi, mise il draghetto in braccio al Cavaliere e latrò: -Entra! Svelta!- Anche le straniere si erano alzate, e la più anziana spingeva l’altra verso la fonte di luce. La ragazza era confusa e spaventata, si stringeva il drago al petto e puntava i piedi, cosciente solo del tesoro che aveva tra le braccia. Poi, spinta dalle esortazioni, mosse titubante verso l’ovale. Nasuada entrò nella stanza ma prima che potesse impedirlo i due erano scomparsi nella superficie candida, che iniziò a restringersi gradualmente con sprazzi di luce lungo il bordo, portando via ogni traccia della coppia. Dopo qualche secondo scomparve del tutto. Si girò verso Angela: aveva un’aria esausta ed era in un bagno di sudore. Le si avvicinò e la prese per le spalle.
-Cos’hai fatto? Dove sono la ragazza e il drago? Sei stata tu a prendere l’uovo?
-Sì, sono stata io! Siamo state noi.- La regina si voltò verso l’anziana donna, che si era avvicinata in silenzio.
-Perché?
-Non volevamo che te ne accorgessi.
-Ma perché? Perché avete fatto tutto di nascosto? Perché non volevate che lo sapessi?
Angela sospirò. –Sentivo che una delle uova era destinata a Occhi di Lupo.- Lei inarcò un sopracciglio. –La ragazza. Siamo entrate nella sala –neutralizzare le guardi e è stata una bazzecola- e Solembum ha sentito che quello era l’uovo che cercavamo.
-I gatti mannari non hanno di questi poteri!
-Effettivamente è stato un semplice colpo di fortuna, uno dei rari istinti che a volte mostrano le razze senzienti.
Solembum soffiò irritato. Ora il suo sguardo guizzava da lui, all’erborista, alla straniera, febbricitante. Si sentì girare la testa e lasciò la presa ferrea sulle spalle scarne dell’indovina.
-E poi... Il resto lo sai- continuò. –L’uovo si è schiuso per lei e l’ho lasciata fuggire.
-Non hai ancora risposto alla mia domanda. Perché?- Il malore persisteva. Lo sai perché... Ancora quella frase!
-Perché volevo che fosse libera.- Era stata l’anziana a parlare. Il suo tono la colpì: aveva un accento particolare, che le ricordava quello della sua tribù, originaria del Deserto di Hadarac, una pronuncia che lei aveva perso quasi totalmente.
La risposta l’aveva confusa. –Libera...
-E io l’ho aiutata- riprese Angela.
-Ma libera da cosa?
-Da te. Ne avresti fatto ciò che volevi, l’avresti resa una tua serva!- le rispose la straniera con odio.
-Cosa? Angela, come hai potuto aiutarla? Pensavi davvero che avrei fatto ciò?
-Lei mi ha chiesto di farlo e io ho obbedito. Non ho avuto il tempo di pensarci.
-Hai avuto il tempo di pianificare il furto e non di riflettere se ciò fosse giusto o sbagliato?
-Neanche io volevo che subisse la tua influenza!
-Ma non l’avrei mai resa una marionetta al mio servizio! Doveva essere istruita da Eragon...
-Certo, le avrebbe insegnato ad essere solo una messaggera ai vostri ordini!- la attaccò di nuovo l’altra.
-Non lo faremmo mai! Non siamo forse persone di fiducia? Non facciamo tutto in buona fede? Io mi sono fatta torturare da Galbatorix, mi sono tagliata le braccia con le mie stesse mani per assicurare un futuro ai Varden e ai prigionieri dell’Impero!- Si strappò le maniche e mostrò alla sconosciuta le cicatrici della Prova dei Lunghi Coltelli. –Mai sentito parlare di queste, donna? Non è vanagloria se dico che ho fatto qualcosa per il mio popolo e non mi ridurrei mai a certe meschinità! Eragon ha lasciato la sua patria, la famiglia, gli amici per poter istruire i Cavalieri lontano da influenze politiche! Io ho costruito solide alleanze e anche il più sperduto contadino sulle rive del lago Tüdosten è a conoscenza delle più piccole clausole dei patti statali, perché non mi si possa accusare di macchinare alle spalle degli altri! E lo faccio con piacere, come l’ho sempre fatto! E ora voi mi accusate di essere un’egoista dalla doppia faccia!- Nonostante il malessere, l’accusa l’aveva fatta adirare tanto profondamente che si era accalorata... Forse anche in troppo. Ma il sermone aveva sortito l’effetto sperato.
-Oh, va bene. Se ci tieni. Cantalama, cosa ne pensi?
-Eh... Va bene. Accetto di far istruire Occhi di Lupo dal Cavaliere Eragon, ma se mi accorgerò che i suoi principi vanno contro i miei, non esiterò a rivendicare la mia facoltà di farla tornare da me. Nasuada avrebbe voluto ribattere che il Cavaliere era abbastanza grande da decidere da sola per il proprio futuro e che avrebbe comunque subito un cambiamento della personalità, ma si trattenne. –D’accordo.- Improvvisamente si sentì mancare; gli occhi le si chiusero, le gambe tremarono.. –Oh, no! Un’altra volta! Ma tu non fai che svenire!- sbottò Angela, spalancando le braccia. Nasuada corrugò la fronte e riaprì gli occhi. –Io non... Sverrò- sibilò tra i denti. –E di certo non per far piacere a te.- Si sforzò di esibire un sorriso di scherno, ma la sua fu più una smorfia perversa. Cantalama le venne incontro e le posò una mano sulla fronte. Le dita erano gelide contro la sua pelle in fiamme. –Ha la febbre alta. Veggente, falla sdraiare sul tuo letto.
-Sul mio letto? Neanche per sogno! Me lo occuperebbe per giorni, dovrei badare a lei e dormire per terra! Non ci penso nemmeno!
-Se è per questo dovrai badare a me ovunque io sia- ribatté. –E comunque sì, hai ragione, occupare la tua stanza sarebbe i... Ah!... Ingiusto...- Appoggiò una mano al muro e con l’altra si massaggiò le tempie; dopo un momento di smarrimento si scostò dalla parete e si diresse lentamente verso la sua camera, seguita a ruota da Angela, Solembum e Cantalama. Quando arrivò si sedette a peso morto sul letto; la testa le scoppiava. Trasse lunghi respiri e a mano a mano che l’aria entrava e usciva dai polmoni, attraversano la gola gonfia, iniziò a sentirsi meglio. Mi sono raffreddata! Poi le vene una domanda spontanea: -Dove avete mandato Occhi di Lupo?
-Tra la Du Weldenvarden e il Deserto di Hadarac, nei pressi di Kirtan- rispose Angela prontamente.
Così lontano! –E perché da quelle parti?
-Non posso dirti tutto! Non rimarrebbe in me un briciolo di mistero! Come sorprenderti se ti rivelassi ogni mio trucco?- si sfogò la sua interlocutrice. Sperduta in quelle pianure! Ma che bella trovata! Come la ritroveremo? Non sapeva cosa pensare.
Poi le venne un’idea. –Angela, prendi quello specchio sul tavolo.- L’indovina le porse l’oggetto richiesto, un’opera nanesca dalla squisita cornice d’argento lavorato a sbalzo.
-E ora... Mettimi in contatto con Arya, per piacere.- La donna borbottò poche parole e la superficie riflettente s’illuminò. Comparve un vetusto ma solido pino i cui rami lussureggiati facevano quasi da cornice interna a quella di metallo e, più in basso, la regina degli elfi. Dietro di lei si stagliava la mole smeraldina di Fìrnen: Arya era intenta a slacciare la cinghie della sella. Quando si accorse della sua presenza, si girò e si salutarono con le consuete formule.
-Che piacere vederti! A cosa devo il tuo desiderio di vedermi?- Gli occhi verdi la scrutarono per un istante. –Hai una pessima cera.
-Un po’ d’influenza, direi. Nulla che non possa passate tra qualche ora.
-Non credo affatto. Scusami la mia osservazione, ma da più di un anno a questa parte la tua costituzione ha subito dei peggioramenti e non mi stupisce che un malanno abbia fatto breccia nelle tue difese. Dovresti avere più cura di te stessa.
Fosse facile, pensò lei; però sapeva che lo diceva per il suo bene. Le sorrise. –Lo farò. Ora, però, devo parlarti di questioni più urgenti della mia salute.
-Sono tutt’orecchi.-  Fìrnen abbassò l’enorme capo e lo portò all’altezza dello specchio. Salutò anche lui, poi con poche parole spiegò ai due l’accaduto e concluse: -Ricordi quando dicevamo che sareste andati da Eragon quando si fosse schiuso il primo uovo? Se riusciste a rintracciare Occhi di Lupo, potreste poi partire per est, per completare l’addestramento.
-Mi sembra un’ottima idea. Ma non si può divinare il Cavaliere? Questo velocizzerebbe le nostre ricerche.
-È protetta con un incantesimo dalla divinazione- le rispose Angela fredda.
L’elfa non mostrò segni di irritazione. –Capisco. Allora ci vorrà più tempo. Ma ti prometto, Nasuada, che troverò lei e il suo drago, e in seguito andremo tutti e quattro da Eragon.
-Grazie, Arya. Quando partirai?
-Sistemerò degli affari interni e... Domani mattina inizierà la caccia.- Sorrise incantevolmente. –Sarà difficile ma divertente... Una prova, in poche parole. E io e Fìrnen non vedevamo l’ora di andare a trovare Eragon e Saphira.- Fìrnen manifestò la sua approvazione con un leggero mugolio. Anche Nasuada sorrise: si era sempre accorta che tra l’elfa e il Cavaliere c’era un rapporto molto solido, a dir poco particolare, per non parlare di quello tra il drago verde e la dragonessa azzurra. Si scambiarono poche battute, poi si salutarono a malincuore.
-Avanti- Fece Nasuada.
-Ma nessuno ha bus...- obiettò Cantalama, ma dovette ricredersi quando entrarono Farica e  dodici guardie vestite di tutto punto. –Invece sì, quando era in atto la conversazione- le spiegò stancamente. Poi tirò un sospiro e alzò gli occhi al soffitto. –Farica, era questo che volevi dirmi quando sono uscita dalla sala del trono?
-Sì, signora. Non devi mai stare senza i Falchineri.
-E poi dicono che sono io che comando...
 

Murtagh dormiva nella sua capanna, e fantasmagoriche follie si erano impossessate del suo sonno.
Sognò Galbatorix in groppa alla carcassa di Shruikan, un mostro spettrale a metà tra il nero e il bruciaticcio che non aveva iridi. Lo sfondo rosso vorticava alternandosi col nero. Vide il braccio destro del re duplicarsi a partire dalla spalla, estrarre un pugnale dalla cintura e affondarselo nel petto. Dalla ferita uscì un fiume di inchiostro,  mentre dalla bocca colava sangue e gli occhi lasciarono posto a due orbite vuote. La pelle sbiancò, i capelli divennero rossi, di rame: era diventato uno Spettro. La visuale si offuscò, le figure divennero chiazze sbiadite di carminio e tutte le sfumature della cenere, i contorni e i dettagli ormai solo un ricordo impossibile da cancellare. Quando tornò a vedere immagini particolareggiate, Shruikan e Galbatorix erano stati sostituiti da un esercito di nani che marciava verso di lui ma non avanzava. Alla testa c’era uno scheletro con un mantello purpureo bordato d’ermellino, la barba intrecciata, un elmo dorato tempestato di gemme e un martello da guerra in mano. Voleva il suo sangue. Rothgar. Un vortice  risucchiò lo schieramento, e con esso la sua disperata petizione di vendetta. Al suo posto apparvero Oromis e Glaedr: il Cavaliere si trovava nella bocca del suo drago, e questo ruggiva, chiudeva le fauci, le apriva, ruggiva, le richiudeva, lasciando che il corpo dell’elfo si tingesse di impossibile e quindi orrido sangue verde e oro, e i suoi lineamenti si deformassero e sfigurassero sotto l’azione deleteria delle temibili zanne. Il drago si muoveva con movimenti sempre identici, come un automa; Oromis era ormai diventato un misto di ossa e carni maciullate. Solo il viso si distingueva, ma aveva cambiato aspetto: era quello di Eragon, ma con i capelli di Morzan. Anche quell’orrida visuale scomparve come se si fosse spenta una candela e la luce avesse deciso di abbandonare il mondo. Dopo una frazione di secondo apparvero Orrin e Nasuada: il primo cercava di baciare la ragazza, un sorriso sadico immutabile stampato sul volto, e lei si ribellava disperatamente, con gli occhi colmi di lacrime e la bocca aperta in un muto grido di angoscia e aiuto. Più volte il re riuscì ad arrivare alle sue labbra, e più spesso vi riusciva, più lei diventava remissiva, finché non si arrese e anziché opporsi iniziò a rispondere ai suoi baci con trasporto. Lui era lì, a pochi passi da loro, e non poteva fare nulla.
Un ruggito lo destò dal macabro incubo: era Castigo che si dimenava impazzito fuori dalla catapecchia. Il ricordo della prima volta in cui il drago era entrato in quello stato assalì il Cavaliere: pochi mesi dopo essere nato era stato colto da un attacco di isteria che aveva portato alla morte tre servi. L’episodio si era ripetuto anche un’altra volta, appena dopo la conquista di Gil’ead. Era una, la più terribile, delle conseguenze della schiavitù forzata.
Troncò il legame con il drago per non subirne l’influenza e si precipitò all’esterno. L’aria gelida della notte gli gelò le gocce di sudore lungo la schiena, le braccia e la busto esposti al vento freddo; non aveva avuto neanche il buonsenso di mettersi qualcosa addosso, tanta era la preoccupazione per lo stato del suo compagno per la vita. Lo vide rotolarsi a terra, ruggire dolore allo stato puro, mentre i demoni non gli lasciavano la mente e Galbatorix continuava a farlo soffrire; le fiammate bruciavano l’erba circostante, ma fortunatamente erano lontane dalle capanne. Murtagh spense i piccoli incendi e continuò ad osservare frustrato Castigo che si dimenava in preda a quei sogni atroci che avevano intrappolato anche lui. Nonostante tutto quel tempo, nonostante tutti i loro sforzi non avevano fatto niente. Erano ancora schiavi del re oscuro. Cosa dobbiamo fare per liberarci di lui?

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Capitolo 6
*** Una lettera di Orrin ***


Ben ritrovati! Ecco un nuovo cap.. Ma siete spariti? L'ultimo (per ora, si spera!!!!!!) l'ha letto solo oldfashion :""((( comunque ringrazio tantissimo lei per la recensione, che mi ha ispirato nuove idee, e mi ha chiesto: "quando posti?" tvb ;*

6-UNA LETTERA DI ORRIN

Angela girovagava da ore per il palazzo di Ilirea alla ricerca di una persona che doveva fugarle qualche dubbio. All'improvviso la vide spuntare da una vietta laterale: la raggiunse, le posò pesantemente una mano sulla spalla e con tono grave fece: -Cantalama, puoi spiegarmi una cosa?
La donna trasalì, si fermò e si girò verso di lei. -Accidenti, mi hai spaventata! Comunque certo che posso, parla.- Sembrava allarmata. Subito dopo il discorso di Nasuada all'erborista era venuto un sospetto, ora accentuato da quel dettaglio. Qualcosa non andava.
-Perché ti sei arresa così facilmente al discorso di Nasuada, ieri? Eri molto ferma nelle tue idee.
La donna in parte si rilassò. -Lo sono ancora. Tuttavia non sarebbe stato saggio insistere e comunque riuscirò a mantenere un certo controllo su Occhi di Lupo... Senza contare che Nasuada ha ragione, sono stata eccessivamente dura.
Angela storse il naso; quella risposta non le piacque affatto. -Non mi convinci. Quando abbiamo discusso per la prima volta del destino di Occhi di Lupo, sembravi un'altra persona tanto eri infervorata nell'elencare...- Si portò una mano sulla fronte, l'espressione corrucciata. -Ora non ricordo bene cosa dicesti, ma mi hai persuasa completamente che Occhi di lupo dovesse fuggire dall'Impero! Mi chiedo come tu abbia potuto capovolgere le mie idee con poche parole! Neanche Galbatorix in persona avrebbe parlato così! Un ardore simile non può essere spento da un discorso che non avrebbe convinto neanche un lattante quale era quello di Nasuada. Sei passata dal tono di chi sta per mettere le mani addosso a qualcuno a quello di un cagnolino da compagnia dolce e remissivo! Come me lo spieghi?
A mano a mano che parlava Cantalama si era irrigidita e la sua espressione era diventata sempre più impaurita, ma comunque controllata. Seguirono istanti di silenzio.
Lei aveva resistito solo perché Elva le era entrata nella mente mentre la regina parlava, altrimenti avrebbe continuato a credere a quelle baggianate dell'inadeguatezza di Nasuada e Eragon. La bambina le aveva detto di aver avvertito pericolo per lei e di esser penetrata nelle sue difese per salvarla. Un attimo prima era estremamente convinta delle ragioni di Cantalama, un attimo dopo non lo era più; la stessa cosa era accaduta a Solembum. Ma non gliel'avrebbe detto: doveva conservare quel segreto come arma.
-Ma le parole di Nasuada sono state molto convincenti.- Appena Cantalama finì di pronunciare quella frase un'entità sconosciuta s'impossessò della sua mente, incenerendo le difese come foglie secche: la stritolò, soffocò, paralizzò, ma più che dolore provò confusione, e poi non fu più capace di pensare. Una voce maschile le rimbombò in testa e le arrivò anche alle orecchie attraverso le parole dell'altra donna: -La regina ha perfettamente ragione: non dobbiamo opporci a lei, solo asservirla con il massimo zelo, perché è giusta e buona e si prodiga per il bene di Alagaësia. E' stato un enorme sbaglio dubitare della sua inclinazione. Ma tu ricorderai solo questo: le parole di Nasuada mi hanno convinta. E' andata così. Non obietterai più.
La presenza svanì, veloce com'era arrivata; ritornò in se stessa. Cantalama la scrutava preoccupata.
-Ehi, mi ascolti? Hai capito perché ho reagito in quel modo?
-Perché le parole di Nasuada ti hanno convinta. E' andata così. Ma...- Una smorfia le arricciò gli angoli della bocca. -Non ricordo le parole esatte con cui me l'hai detto. Ricordo solo che mi hai persuasa subito... Sei stata molto convincente. Scusa se ho dubitato di te, non si ripeterà.
-Bene. Ora devo andare, ci si vede.- Cantalama si allontanò per il dedalo di corridoi. Angela rimase da sola, cercando di afferrare ciò che le sfuggiva, ma non riusciva a farlo. Un miagolio sommesso attirò la sua attenzione: Solembum le si era avvicinato e la guardava preoccupato.
Tu ricordi qualcosa di quello che ha detto Cantalama?
Non più di quanto ricordi tu. Lascia stare, sarà una cosa passeggera.
Hai ragione, meglio non pensarci.

Seguita dal felino, si avviò verso la sua camera.



Una donna coperta da un mantello marrone si muoveva furtivamente per le strade di Ilirea; arrivò all'alto cancello d'ingresso della città e si fermò. Dopo qualche minuto di nervosa attesa, passata a battere ritmicamente un piede per terra con la testa bassa, un sussurro sommesso accanto a lei la fece sobbalzare. -Sono qui.- Alzò lo sguardo: la persona che stava aspettando era arrivata. Era appoggiata al muro, un piede a terra, uno posato sui mattoni dietro di lei. Il viso era completamente celato dal cappuccio del mantello nero. -Novità?
-Come ben sai, Angela stava per scoprire tutto, ma grazie al tuo intervento non ci darà più fastidio. Mi chiedo solo... Come abbia fatto a liberarsi dal primo incantesimo.
L'altro cambiò gamba d'appoggio. -Non so. Ma non curiamocene. L'importante è che Arya e Occhi di Lupo siano fuori gioco.
-Entrambe sperdute nelle pianure tra Du Weldenvarden e deserto di Hadarac... Naturale che Nasuada pensasse alla regina degli elfi per rintracciare il Cavaliere. E quando la troverà, avrà un'amara sorpresa.
-Sono curioso di sapere quale stratagemma ha pianificato la tua mente geniale per convincere la ragazza a servirti.
La donna s'illuminò alle lusinghe. -Nessuno. Non sa che la userai. Se fosse venuta a conoscenza dei nostri piani, si sarebbe opposta... No, meglio lasciarla agire di sua spontanea volontà.
-Interessante. Sei un'alleata davvero valida e presto la tua intelligenza sarà premiata. Ora va', è arrivato il mio turno.



Nasuada aveva passato tutto il giorno a leggere rapporti e rispondere alle lettere, ma la febbre alta l'aveva rallentata enormemente nel suo lavoro: se di norma a mezzogiorno avrebbe finito, era pieno pomeriggio e le mancava ancora una lettera cui rispondere. Questa, e poi è finita. Aveva trasportato il materiale necessario nella sua camera da letto per poter stare sdraiata; una posa scomoda, ma non riusciva a stare neanche seduta. La fronte le aveva bruciato per tutto il giorno, era torturata dal raffreddore e la testa le girava come una trottola.
Afferrò l'ultima busta e lesse il mittente. Orrin Larkinsson. Oh, no! Doveva spedirgli una lettera per dirgli che non si era schiuso alcun uovo... Ma ora si è schiuso, pensò con un sorriso, dovrò informarlo almeno di questo. Chissà cosa mi ha scritto. Non prendeva mai contatti con il re del Surda attraverso lo specchio magico perché "preferisco i buoni vecchi metodi di una volta, non queste diavolerie! La magia mi ha già causato abbastanza guai!", per usare le sue parole. Ancora con il sorriso sulle labbra, ruppe il sigillo della busta e tirò fuori il foglio con un fruscio. Ma a mano a mano che leggeva il sorriso diventava una smorfia tirata, gli occhi le si sbarravano da soli, le veniva da ridere e da piangere insieme per l'assurdità di quella lettera, per il suo desiderio che fosse uno scherzo di pessimo gusto, che fosse indirizzato a qualcun'altra, che il suo incubo di sempre non si realizzasse.
Orrin le aveva chiesto di sposarla.
Appoggiò la testa alla parete, sentendosi vuota. No. Non poteva essere. E se fosse stato davvero un incubo concreto, con quali motivazioni? Rilesse: "...Sono certo che hai bisogno di un'alleanza per domare le rivolte a Gil'ead e Dras-Leona..." Doveva accettarlo, ma… Sciocchezze. Scuse. Cosa vuole davvero? La proposta l'aveva scossa nel profondo: ovviamente non avrebbe mai accettato!
Prese un foglio pulito e si preparò a rispondergli; avrebbe cercato di minimizzare la sua reazione e l'importanza della richiesta, ma il suo rifiuto sarebbe stato secco e senza possibili implicazioni involontarie o vane speranze nel futuro. Intinse una penna nel calamaio e in quel momento sentì bussare. Alzò lo sguardo. -Avanti!
La porta si aprì; era Farica. -Un uomo chiede di vederti, mia signora.
-Un uomo?
-Sì, non ho idea di chi sia. Aspetta nella sala del trono.
Nasuada si alzò con riluttanza, aiutata dall'ancella, e raggiunse la stanza scortata dalle guardie. Una di queste l'aiutava a sorreggersi, ma arrivati quasi a destinazione con un'occhiata le fece capire che non sarebbe stato decoroso e cercò di reggersi da sola sulle gambe malferme. Nella sala trovò un ometto basso e smilzo, vestito di tutto punto, che s'inchinò profondamente. -Vi porgo i miei più umili omaggi, mia regina.
Lei represse un moto di ribrezzo: odiava gli adulatori. Richiuse la porta alle sue spalle e fece con tono secco: -Chiamami Lady Nasuada e taglia corto con i salamecchi. Chi sei? Cosa vuoi da me?
-Sono un messaggero di Re Orrin. Volevo informarvi, se avete letto la sua missiva, che è in incognito qui in città e domani verrà a palazzo per sposarvi, essendo sicuro del vostro consenso.
Nelle vene iniziò a scorrerle terrore; rimase con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati. Approfittando di quel momento di smarrimento, il paggio aprì la porta e sgattaiolò all'esterno.



Murtagh si sedette a gambe incrociate insieme agli altri Urgali disposti in cerchio, Castigo accucciato dietro di lui. Invece di un falò centrale, la piazza di Skradhzeb era rischiarata da molte torce affondate nella terra, dietro agli Urgali, in modo che la luce non fosse oscurata dalla figura di qualcuno che le passasse avanti. Le fiaccole vivaci drappeggiavano la notte con un’atmosfera calda e morbida, ma non bastavano a riscaldare il cuore di Murtagh, ancora devastato dall’episodio della sera precedente. Credeva che la solitudine, o meglio la lontananza dai nemici, fosse ciò di cui avessero bisogno lui e Castigo, ma sembrava che on fosse così. Ora non sapeva più che fare.
Su, piccolo. Vedrai che troveremo una soluzione.
Sì, e tu sei ancora nell’uovo.
Uh, che pessimismo! Guarda il lato positivo! C’è… ehm... Puoi… Cioè…

Dopo un istante di silenzio incerto, il ragazzo fece sardonico: Ma sì, hai ragione! Guardiamo il lato positivo! Dai, qual è?
Ehm… Fammici pensare…
Con calma, non preoccuparti.
Eh… Va be’, adesso non mi viene in mente, ma stai sicuro che c’è! Anzi, ce ne sarà più di uno!
Allora quando ti vengono in mente scrivili come epitaffio sulla mia tomba.
Ma tu sei immortale!
Appunto!

Il battibecco venne interrotto dall’arrivo del cantastorie del villaggio, un Kull alto e possente vestito di pelli di capra: le sue corna erano così levigate che riflettevano la luce delle torce come specchi incurvati. Dopo aver imposto il silenzio alzando le braccia, iniziò a parlare: -Questa sera vi racconterò la leggenda di Teph e la sua paura. Teph era un magnifico Kull dei Monti Beor che aveva sconfitto molti nemici  e si era guadagnato la stima di tutta la sua tribù, ma un giorno per l’ira uccise un suo fratello. Poteva riparare al danno uccidendo tre Urzhadn e chiedendo perdono alla sua famiglia, ma preferì vivere in esilio e non avere più contatti con il villaggio. Andò a vivere in una grotta vicino alla Foresta di Pietra, dove tutto è silenzio e gelo. Ma la Grande Madre un giorno fece apparire lo spirito del fratello davanti a Teph; era spaventoso, con corna grandi il doppio del normale e occhi viola, e gli disse: “Fuggi, fuggi, ma dove fuggi? Il mio spirito attende la riconciliazione”.  Teph atterrito lasciò la grotta e andò aviere in un nido di avvoltoi, scacciando i suoi abitanti con grande coraggio. Ma dopo poco tempo la spirito riapparve dicendogli: “Fuggi, fuggi, ma dove fuggi? Il mio spirito attende la riconciliazione”.-
Murtagh e gli Urgali ascoltavano rapiti l’oratore, che dopo una breve pausa riprese:-Teph, ancor più spaventato, scalò la vetta più alta e fredda dei Monti Beor e si stabilì sulla cima, in mezzo al ghiaccio. Solo lui con la corporatura robusta e la pelle spessa, riuscì in questa impresa, come narrano gli avi. Eppure anche qui tornò a fargli visita lo spirito, che gli ripeté: “Fuggi, fuggi, ma dove fuggi? Il mio spirito attende la riconciliazione”. Allora Teph si arrese: uccise tre grossi Urzhadn, tornò al suo villaggio e fu perdonato. Da allora lo spirito del fratello riposa in pace e Teph, oltre ad essere ricordato come un eroe grande e potente, è considerato uno dei nostri maggiori saggi. Ricordate sempre questa storia e serbatela nella memoria, compagni, perché è uno tra i migliori patrimoni della nostra razza.-
Il Kull tacque e uscì dal cerchio; gli Urgali si alzarono e se andarono, borbottando riguardo la storia appena appresa. Murtagh invece era rimasto immobile, con la testa tra le nuvole. Sentì un colpo sulla spalla: trasalì e si girò. Era Castigo. Allora, andiamo? Che ci fai ancora lì imbambolato?
Hai sentito la storia di Teph…
Sì, sì, certo, molto interessante. Ho sonnecchiato tutto il tempo. Ora andiamo?
Come, non l’hai ascoltata?
Ancora? No! Non ho mai prestato attenzione a queste favolette!
Senti almeno questa, allora! Te la ripeterò!
Ma dico, ti è andato di volta il cervello? Alzati, fannullone! Io che mi accuccio come un bambino a ascoltare le fiabe?
Castigo, non lo sto dicendo per niente! Dai, leggi i miei ricordi!

Il drago sbuffò. E va bene… Si immerse nei pensieri del compagno e in qualche istante appese la trama della storia, che dal punto di vista di Murtagh era piena di partecipazione, scoperta e collegamenti con la sua vita, la loro vita. Solo allora comprese e condivise l’entusiasmo del ragazzo.
Ho capito dove vuoi andare a parare. Pensi che dovremmo fare come Teph, vero? Dovremmo affrontare i nostri nemici per liberarci della loro ombra?
Esatto! Cosa ne pensi?
Penso che ho trovato il lato positivo.
Davvero? Qual è?
Lasceremo questo covo di bestie cornute una volta per tutte.

Murtagh rise di gusto, per la prima volta dopo tanto tempo; anche Castigo rise con lui, emettendo cupi versi di gola. Si allontanarono verso la loro capanna per dormirvi un’ultima volta.

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Capitolo 7
*** Amare scoperte ***


Rieccomi!!! Ma... se ne accorgerà qualcuno? L'altra volta ho ricevuto solo tre recensioni!!! :'( meglio di niente, però... ringrazio quelle che mi hanno recensito e perdono le ritardatarie ;) buona lettura, e commentate commentate commentate!!

7-AMARE SCOPERTE

La sera del giorno dell’incontro con il mellifluo messaggero, Nasuada era stesa sul letto, sotto calde coperte, in preda alla febbre. Il viso le bruciava, e così gli occhi: le sembrava di trovarsi in un incendio, con il fumo che le pizzicava le iridi, sfumando i contorni di ciò che guardava. Nelle orecchie persisteva sommesso un fischio. Una mano che reggeva una pezza imbevuta d’acqua gelida sulla fronte e lo sguardo perso nel paesaggio fuori dalla finestra, pensava a un modo per liberarsi dalla trappola che Orrin aveva creato, e soprattutto di scoprire i motivi dietro quella folle proposta, ma dopo pochi secondi perdeva la concentrazione e doveva ricominciare da capo.
Che cosa vuole ottenere con questo matrimonio...? Sa benissimo che non gli concederei mai il mio potere, anzi!, che non lo sposerei mai e poi mai! Che abbia qualche asso nella manica...? Ma qualunque cosa faccia, lo costringerò a tornare ad Aberon scapolo così com’è venuto, può... starne certo. Ehi... Aspetta! Un pensiero le attraversò la mente come un fulmine a ciel sereno. E se si facesse aiutare da un mago? Diede la pezza a Farica, che cuciva accanto a lei; la serva la bagnò in un catino, la strizzò e gliela porse. Cosa stavo pensando... Un momento! E se si facesse aiutare da un mago? Ma c'è sempre Angela... E' più potente di chiunque, qui.
Ma tutte quelle ragioni non bastavano a sciogliere il nodo di tensione che le attanagliava le viscere al pensiero del giorno dopo; sentiva che doveva ancora aver paura di qualcosa.
Poi le venne un'idea. Che sciocca! Come ho fatto a non pensarci prima? -Farica, va' a chiamare Trianna, per favore.- L'ancella si alzò e uscì. Lei rimase a fissare il soffitto, pensando cosa avrebbe detto a Orrin attraverso lo specchio. Perché gli avrebbe parlato. Non m'interessa se non gli piace la magia; scoprirò cos'ha in mente, e lo obbligherò a tornare ad Aberon con la coda tra le gambe. L'ancella tornò poco dopo, seguita dalle negromante; questa aveva un'espressione seccata sul volto che non presagiva niente di buono. -Va' a prepararmi un infuso, per piacere- fece rivolta alla serva, che fece un piccolo inchino e uscì.
-Cosa c'è, mia signora?
-Volevo chiederti di divinare Orrin per me.
Trianna rimase in silenzio, guardandola con occhi spenti e tetri: il vano tentativo di riunire i maghi in una lega aveva ancora le sue ripercussioni. Temeva davvero che avrebbe risposto di no, quando il suo sguardo si ravvivò e rispose: -Va bene, ma ricordati che non sono la tua serva.- Si rivolse verso lo specchio e borbottò poche parole; la superficie ebbe il consueto bagliore per poi mostrare una spettacolo tanto incredibile quanto orrido. Nonostante la febbre la regina scattò a sedere ad occhi sbarrati, incredula, orripilata, terrorizzata; non voleva credere ai proprio occhi, ma quando realizzò che non era uno scherzo dell'immaginazione, un profondo dolore si scavò strada nel suo cuore.
Nello specchio si rifletteva l'immagine del cadavere di Orrin. L'uomo era stato trafitto da una spada in pieno cuore e sangue scarlatto gli macchiava i vestiti e il volto, con una concentrazione particolare sul petto; i lineamenti contratti in una smorfia di terrore ricordavano appena l'espressione da vivo; la pelle andava già in decomposizione e le mosche banchettavano sul corpo. Trianna sgranò gli occhi e fece un passo indietro, emettendo un gemito strozzato; poi cadde a peso morto, mentre l'immagine sullo specchio scompariva.
Nasuada sentiva il cuore implodere e contorcersi: si alzò fissando il corpo della maga, sconvolta. -Trianna! Trianna, mi senti?- La voce le morì in gola. Si abbassò e le afferrò un braccio, scuotendola, ma non diede il minimo segno di vita. Non può... Con un orrendo presentimento, si alzò e si avviò barcollando verso la porta. La aprì e sbirciò all'esterno: i Falchineri di turno stavano discutendo animatamente tra di loro in fondo ad un corridoio laterale, non l'avrebbero notata uscire. Agile e silenziosa, sgattaiolò verso la sala appoggiandosi alle pareti, attraversando i corridoi bui rischiarati solo dalla debole luce delle torce, i passi stentati e la testa pesante come un macigno.
Chiederò a Occhigialli di far venire Angela in camera mia; certo lui la troverà più velocemente di quanto possa fare io e lei saprà come aiutarmi in questa situazione. Non mi fido di nessun altro. Nessuno tranne lei dovrà sapere quello che è accaduto. Se è accaduto. Trianna è... Davvero morta? Non può! Mi rifiuto di crederlo! Una volta arrivata aprì lentamente il portone ed entrò silenziosamente nella stanza: il gatto era sveglio e la guardava adagiato sul suo cuscino, gli occhi che gli davano il nome brillanti come topazi nel buio oltremare, le orecchie all'erta. Gli spiegò la situazione e lui saettò silenziosamente verso la porta, la sorpassò rallentando appena l'andatura e guizzò per i corridoi morti.
Lei si avviò di nuovo verso le sue stanze, ancor più lentamente di prima. Maledetta febbre! Dovrà pur passare prima o poi, no?
Quando arrivò Angela e Solembum erano già davanti all'ingresso e l'erborista la guardava con aria accusatoria. -Mi prendi in giro?- Le venne incontro con passi decisi e le puntò un dito sul petto.
-Dico, mi prendi in giro? Ma quale cadavere e cadavere? Di Trianna? Ho altro da fare che stare ai tuoi scherzi!- Aveva le sopracciglia aggrottate e l'indice tremava sul tessuto del suo vestito tracciando piccoli cerchi; sembrava vicina al perdere il controllo. Si aspettava che da un momento all'altro l'avrebbe presa a schiaffi -e lei nonostante la febbre avrebbe reagito furiosamente- ma dopo quello sbotto semplicemente si allontanò, seguita dal gatto, tranquillo come al solito, che faceva ondeggiare la coda. La guardò allontanarsi, quasi sollevata che avesse deciso di finirla lì, ma rimaneva l'interrogativo del suo comportamento. Che cos'ha visto? Anzi, che cosa non ha visto?! Il corpo di Trianna è in camera! E'... è in camera...? Ormai non si fidava più neanche della sua stessa ombra. Un terribile sospetto, inculcatole dal suo sesto senso, le diceva di entrare nella stanza. Percorse i pochi passi che la separavano dalla soglia con foga, ma una volta arrivata rimase pietrificata.
Il corpo di Trianna era scomparso.

Il mattino seguente Nasuada si svegliò di buon'ora: aveva passato la notte in bianco alla disperata ricerca di un senso logico per ciò che aveva visto. Le passavano di continuo davanti le immagini del corpo straziato di Orrin, di quello di Trianna, pallida e immota sul pavimento, che non si sapeva se fosse un cadavere, di Angela che le puntava un dito sul petto accusandola di essere una falsa; della stanza deserta al suo ritorno. Quando il sipario delle sue palpebre si era finalmente chiuso su quelle scene da tragedia e il sonno l'aveva accolta tra le sue braccia protettive, il sole stava per sorgere.
Eseguì le solite abluzioni mattutine aiutata da Farica, poi si sedette su una sponda del letto e la serva uscì. Rimase per un po' con gli occhi persi nel vuoto, poi trasse un lungo respiro. Quel giorno sarebbe arrivato Orrin -sempre che non fosse morto; ormai non ci stava capendo più niente- e avrebbe chiesto di sposarla. Non si sentiva abbastanza forte da resistere a qualche suo trucco: la febbre le faceva ancora pulsare le tempie e girare la testa. Non le restava che aspettare, aspettare il momento in cui lui sarebbe venuto, e quello di lottare giunto, e pregare che la sua forza l'assistesse ancora una volta.
E arrivò. Dopo un'oretta, sentì un vocio confuso in corridoio che si avvicinava sempre più, poi Farica che protestava vivamente: -Sire, insomma, non potete entrare! Vorreste contrastare gli ordini della regina?
-Portatemi da lei o entrerò lo stesso! Si tratta di una questione urgentissima, che non sto qui a spiegare ad una serva!
Oh, no... Ti prego, no... Nasuada, che ti succede? Fatti forza! Rimandalo ad Aberon umiliato e sconfitto!
-Lady Nasuada mi ha espressamente ordinato di non far entrare nessuno!
-Ora ci entrerai tu, e a pezzettini, se non ti decidi ad aprire quella maledetta porta!
Un mugolio stentato fu la risposta, poi la maniglia si abbassò ed entrarono la serva, terrorizzata, sul punto di scoppiare i lacrime; il messaggero lusinghiero del giorno prima, che le rivolse un sorriso dolciastro come lui; un uomo sconosciuto, vestito con una lunga tunica, che portava un baule di medie dimensioni tra le mani; e Orrin.
Il re indossava una splendida camicia di lino candido, calzoni neri attillati ed un mantello purpureo bordato di una morbida e lucente pelliccia corvina; i fianchi erano stretti da una cintura di cuoio nanico con le borchie d'oro, da cui pendeva una spada a una mano e mezza.
Era di una bellezza solenne, ma lei riusciva a vedere in lui solo una minaccia.
-Buongiorno, mia bella- fece con una profonda riverenza e voce mielata. Una voce che non gli apparteneva. Lui è morto... Come fa ad essere qui? E se è lui ed è vivo, perché si comporta in modo così strano? La cupidigia l'ha spinto davvero fino a questo punto? Nonostante cercasse di controllarsi, non poté impedire al cuore di iniziare a battere all'impazzata come un tamburo da guerra. -Mai.- Non se l'aspettava, ma il suo tono di voce era duro, fermo e risoluto. -So benissimo che lo fai solo per costringermi a dividere il mio potere con te. Ribellioni nelle città? Sciocchezze! Hai preso quelle scaramucce come scuse per arrivare al tuo scopo... E ti aspettavi davvero che mi arrendessi? La sete di potere ti ha reso davvero cieco e spietato, allora.- Voleva tenere ancora nascosto il suo asso nella manica, la scoperta di quel cadavere, ma non sapeva se per strategia o per panico.
-Ma cara, quanta rabbia insensata che c'è nel tuo cuore! Riesco a perdonarti, solo perché comprendo il tuo desiderio di proteggere il tuo popolo, che ti induce a essere diffidente come un riccio che si richiude al riparo dei suoi aculei... Ma questo scetticismo ti può anche far perdere preziosi alleati, come me. Voglio solo aiutarti, tesoro. Mentre arrivavo in città ho avuto la brillante idea di fare una deviazione per Dras-Leona, per constatare di persona la tragica situazione del luogo, e devo ammettere che è davvero peggiore di quanto pensassi. Qui ad Ilirea le informazioni arrivano attutite e distorte come pettegolezzi, ma la situazione è davvero drastica. I nobili rivendicano la parte dei beni che hai loro confiscato, e se non si interverrà la città diverrà loro nel giro di poche settimane. E non bastano le truppe ordinarie a sedare qualcosa di proporzioni così grandi: serve un evento politico, quale potrebbe essere il nostro matrimonio, che possa creare instabilità. E la mia cavalleria eliminerebbe in un batter d'occhio queste difficoltà: non per niente è rinomata in tutta Alagaësia.- La voce del re diventava via via più suadente; sgranò gli occhi.
-Inoltre, non sto qui ad elencarti i vantaggi che ne ricaverebbero entrambi i regni: tu prima hai parlato di "costringerti a dividere"... La metti in modo troppo drastico! Si tratta di semplice collaborazione politica, come è sempre stato fatto tra i nostri territori! Immagina i risultati: la pace e la prosperità, unendo i nostri forzieri e le nostre forze, andrebbero dalla periferia di Ceunon al palazzo sul mare di Roccascissa. E per concludere, io ti amo, e sono certo che anche tu ti innamorerai di me. Sarò dolce, gentile, vivrò solo di te, e insieme governeremo i nostri regni con giustizia e amore. Sposami, e questo sogno diventerà realtà.
Il discorso anziché tranquillizzarla l'aveva terrorizzata; c'era qualcosa di errato. Poi ebbe un deja-vu. Quella voce. Così allettante e gentile, eppure che odiava più della morte; quell'inflessione dialettale antica, che una volta che ti entrava in testa non ti usciva più. Qualcosa da evitare ad ogni costo, a cui era stata abituata sin da bambina. Allora capì. E la comprensione la gettò nel baratro dell'incredulità e della convinzione che il mondo non avesse più regole, se era possibile quello. La certezza che più contava per lei da un anno e mezzo era solo un'illusione. Anni e anni di battaglie... Invano. Ancora lì. L'aria le rimase intrappolata nelle viscere contorte. -Tu menti.- Deglutì, ma aveva la bocca prosciugata.
-Tu... Tu sei Galbatorix.
Nello stesso momento un'entità potentissima le spazzò le barriere mentali e s'impossessò della sua mente.


NdA: non è una vostra impressione, è il cap che fa schifo... Ho avuto dei problemini e la fine dell'anno scolastico mi ha stancata... ricopritemi pure di tutte le critiche che volete... :(

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Capitolo 8
*** Mente a mente ***


8-MENTE A MENTE

 

Nasuada gemette quando le sue difese furono abbattute come fuscelli: la mente messa a nudo si scontrò con un'entità immensa che avrebbe paragonato ad una grotta dalle pareti rivestite di diamante brillante, con un cuore nero di avidità, spietatezza e pazzia. Una voce risuonò sprezzante e nitida nel suo più profondo essere: -Mi hai riconosciuto, Nasuada figlia di Ajihad. Vedo che ti ricordi bene di me.
La frase risuonò distante, quasi solenne, senza traccia di echi o rimbombi: le sembrava che venisse da tutte le parti e di trovarsi chiusa nella grotta immaginaria dell'essenza di Galbatorix, sospesa in aria.
-Mmph... che cosa ci fai... qui? Tu... tu sei morto!- Faticava anche a pensare a causa della presenza dell'altro e della febbre.
-Se sono davnti ai tuoi occhi, evidentemente quel giorno nella sala non è andata come pensi. Ti spiegherò qualcosa, almeno per togliere i dubbi che ti assillano, se vuoi.
-Ricordi cosa ho detto prima di essere ucciso, nella sala del trono?-
Impossibile dimenticarlo. Aveva passato giorni e giorni a parlare con Eragon per cercare di capire quella magia. -Waíse néiat.
-Esatto. Waíse néiat è una frase ambigua... Sai, significa "non essere", e "non essere" può avere molte accezioni: non esistere, non avere una certa qualità, non trovarsi in un dato luogo, tanto per citartene alcuni. E io ho sfruttato proprio quest'ultima proprietà: ho cercato di trasferire il mio corpo in un altro luogo. Ma qualcosa dev'essere andato storto. La cosa non mi stupisce più di tanto... In quella sala c'erano enormi concentrazioni di energia e migliaia di incantesimi che pregnavano gli oggetti, così come me stesso, e devono aver modificato la magia che tra l'altro era stata formulata in fretta e furia ed era già di per sé equivoca. E così sono scomparso e un bel giorno mi sono risvegliato nelle Du Fells Nángoröth, le montagne al centro del Deserto di Hadarac. Non so cosa mi sia accaduto o come sia arrivato lì; fatto sta che è avvenuto un prodigio.-
Improvvisamente i lineamenti del viso di Galbatorix tremolarono e scomparvero per lasciar posto ai suoi tratti originali, perdendo ogni somiganza con Orrin. Il volto aveva però qualche strano particolare che terrorizzò la regina: il viso era più scarno, la pelle cerulea e sottile come quella di un vecchio sembrava sul punto di decomporsi e lasciava intravedere le ossa dietro di sé -senza muscoli-, le iridi erano di un rosso vivo come una goccia di sangue alla luce del sole e sembravano animate di vita propria, perché passavano rapidamente da una sfumatura all'altradel vermiglio. Gli altri nella sala non dovevano vedere l'orrore che si presentava ai suoi occhi, perché osservavano la scena ma non sembravano particolarmente concentrati sul viso di lui.
Nasuada non credeva ai propri occhi. Le sembrò che l'aria non volesse più uscirle dai polmoni. -Sei... Sei uno Spettro?!
-No, Nasuada figlia di Ajihad. Sono molto di più. Non so nenache io cosa sono. Non c'è traccia di spiriti in me, né io riesco a controllarli o ad esercitare un particolare controllo su di loro; al massimo, ho alcune delle loro facoltà. Ma preservo intatti anche tutti i miei poteri, e anzi sono più forte fisicamente di prima. Sono una creatura mai esistita in Alagaësia; sono fuori dalle leggi della natura, della morale, della magia. Un reietto, uno scarto, un esemplare unico, ma non ho mai osato chiedere di meglio. Nessuno può dirmi cosa devo fare, coem dovrei essere, per quali leggi morire, perché sono un "Waíse néiat", un non essere. Non esisterà mai nessuno come me. Presto tutti avranno paura, come già l'hanno avuta... Perché si cova sempre terrore e diffidenza per il diverso... Per ciò che non si conosce, capisce... Come il Consiglio dei Cavalieri non capiva il mio dolore alla scomparsa di Jarnunvosk... E ogni membro è perito a causa della sua stoltezza. E così tu, e tutti gli altri che mi avete ucciso, verrete ripagati con la vostra stessa moneta. E la prima a morire sarai tu, Nasuada figlia di Ajihad. Non compirò lo stesso errore di quando ero umano: lasciarti in vita è stata la causa di tutti i miei guai.- Gli occhi si ridussero a due fessure, mentre lei tremava di paura. -Ma prima mi aiuterai a tornare al potere. Ho elaborato un piano a dir poco perfetto per riottenere il trono di Alagaësia, tanto diabolico quanto geniale. Credo che in parte tu l'abbia già intuito, ma per vederti soffrire te lo spiegherò lo stesso.
Qualsiasi cosa tu abbia pensato, non riuscirai a sconfiggermi, pensò lei, ma non ne era così sicura.
-Devi sapere che quando mi sono risvegliato e ho constatato ciò che ero diventato, ero pieno di giubilo, per i motivi che già ti ho spiegato, ma non ci volle molto che mi resi conto che quella nuova situazione aveva portato anche un lato negativo: avevo dimenticato il Nome dei Nomi.-
Nasuada sbarrò gli occhi incredula, ma lui continuò imperterrito. -Dopo questa constatazione, ho iniziato ad informarmi con la magia su tutto ciò che era successo in Alagaësia nel lasso di tempo in cui ero morto, o addormentato.-
-Quanto tempo fa ti... sei ... risvegliato?-
La presa sulla sua mente si serrò di più, e lei strinse i denti.
-Non osare interrompermi! E se proprio ci tieni a saperlo, si tratta di tre mesi fa all'incirca.-
La stretta nonsi allentò, e lui riprese. -Ero pieno di odio cieco, e iniziai a cercare un modo per vendicarmi e riprendere il potere. Non ci volle molto perché elaborassi questo semplice piano: avrei ucciso Orrin, ti avrei sposata fingendomi lui e dopo aver consolidato l'unione tra il Surda e l'Impero tanto da renderli un unico Stato avrei ucciso anche te. Nel frattempo non mi sarebbe stato difficile fare una visita ufficiale a Arya ed estrapolarle il vero nome dell'Antica Lingua: e allora il mio potere sarebbe davvero tornato quello delle origini. Ma c'erano ancor adue ostacoli da eliminare: Angela e la stessa Arya, le uniche due persone che avrebbero potto aiutarti. Poiché avevo bisogno di avvicinarti gradualmente, avresti potuto allertare una delle due. Nonostante questo problema, però, mi misi in marcia verso Aberon impadronendomi del corpo di un eremita del deserto, sperando che la buona sorte e i miei nuovi poteri a me ancora sconosciuti mi avrebbero aiutato. E così fu. Passando per caso accanto a due viandanti nella via verso Petrøvya, mi apparve nella mente un uovo di drago blu scuro, poi la città di Ilirea, e il sesto senso mi disse che una di quelle due persone era destinata a diventare Cavaliere. Guarda tu stessa cos'è accaduto.
Galbatorix lasciò sfuggire un ricordo dalla mente per mostrarlo a Nasuada, come se una particella del diamante della grotta immaginaria si fosse staccato e spostato sotto i suoi occhi.
Galbatorix raggiunse due donne girate di spalle e le salutò: -Buongiorno, belle signore.
Le due si girarono: l'una, più anziana, aveva capelli corvini e un'aria severa; l'altra, piuttosto giovane, ricci biondo cenere e occhioni grigi. -Cosa volete da noi, signore?- disse la prima, con fare distante.
-Mi presento: mi chiamo Rovenic, e sono mago, negromante e sensitivo. Vi ho fermate perché passando accanto a voi-, e indicò la ragazza, -ho sentito una strana energia... E la sensazione che presto diventerete Cavaliere di una delle tre uova che girano per l'Impoero: quello blu, per la precisione. Volevo che coosceste il vostro destino, perciò sono tornato indietro per avvisarvi.-
Le due si erano irrigidite ed emanavano un'aria incredula. -Credete che stia mentendo?- riprese lui osservandole.
-No, affatto. Anzi, sappiamo per certo che state dicendo la verità-, rispose la donna dai capelli neri.
-Mi... Mi era già stato predetto da un'indovina nel Surda, tanto tempo addietro- fece l'altra, sgranando gli occhi che, già grandi di loro, adesso sembravano laghetti argentati.
-E non volete che il Wyrda segua il suo corso? Se è vostro destino diventare Cavaliere, cercate il vostro uovo di drago! Gira per le città con altri due, o sbaglio?
-È esatto, ma sono appena arrivate a Ilirea, e devono ancora giungere nel Surda... Pare che rimarranno qualche mese nella capitale dell'Impero, per poi trasferirsi in quella del nostro Paese: quando arriveranno qui, si compirà il mio Wyrda.
-Signorina, non dovete aspettare che l'uovo vi passi sotto il naso; anzi, dovreste andargli incontro! Prima Alagaësia avrà un nuovo Cavaliere, meglio è! Chiunque, al vostro posto, sarebbe già corso a reclamare ciò che gli spetta! Cosa
aspettate?- La ragazza sembrava titubante, mente la donna annuiva convinta.
-Signore, dovete però tener presente che quando giungeranno in città le uova saranno già state toccate da tutti e verranno messe al sicuro nel palazzo. Sarà impossibile avvicinarle!
-Be', allora ruberete quello che vi serve.- Vedendo le loro facce stravolte, aggiunse: -Sarà un'azione a fin d bene, dopo tutto. Pensate alla felicità della regina quando troverà un Cavaliere al suo servizio!- La bionda non era ancora del tutto convinta, mente l'altra era quasi entusiasta. -Avete perfettamente ragione! Occhi di Lupo, potresti andare un attimo a comprare della frutta a quella bancarella, per piacere?
Lei la guardò storto, ma non protestò e si allontanò in fretta.
-Occhi di Lupo... E voi, come vi chiamate?
-Cantalama... Ma datemi del tu! La vostra idea è semplicemente geniale! Però sarà difficile da realizzare!
-In realtà, un modo c'è- fece lui misterioso. -Vuoi davvero che la ragazza diventi Cavaliere?
-Certo, con tutto il cuore! Voglio solo il meglio per lei!
Nasuada sentì il suo volto tremolare ocme se fosse stata lei Galbatorix, poi vide che l'altra era diventata pallida e tremava. Doveva essere tornato ai suoi tratti originali, come aveva fatto in precendenza con lei.
-Eka weohnata néiat haina ono. Vel eïnradhin iet ai Shur'tugal.- la rassicurò l'uomo. Stranamente riuscì a capire il senso della frase, anche se non sapeva l'Antica Lingua: "non ti farò del male. La mia parola di Cavaiere."
L'altra invece doveva conoscere la lingua, perché in parte si tranquillizzò. -Galbatorix...- un sussurro impercettibile, una parola finita prima di iniziare.

Il ricordo si allontanò, e la regina tornò in sé.
-Cantalama...-
-Sì, proprio lei. Ti risparmio i particolari: le ho spiegato il mio piano ed è stata ben felice di aiutarmi, e inoltre ha trovato il modo di far fuori due piccioni con una fava. Innanzi tutto ha convinto Occhi di Lupo che ua volta diventata Cavaliere sarebbe dovuta fuggire dall'Impero, senza svelarle la mia identità, poi è andata con lei a Ilirea e si è fatta aiutare da Angela a rubare l'uovo, convincendola delle stesse ragioni.
-È impossibile che abbia corrotto anche lei!- Non le importava se l'avrebbe punita per averlo interrotto; avrebbe detto ciò che pensava e fatto tutte le domande che le venivano in mente.
Lui sbuffò: -Infatti l'ho posta sotto un incantesimo. Non è stato facile domare la sua mente, ma alla fine l'ho messa fuori gioco.
-Ma se l'avevi davvero convinta che era giusto allontanare Occhi di Lupo da me, perché poi ha ceduto? E a che pro allontanare il Cavliere?
-Se solo non m'interrompessi!- sbraitò lui, stringendo la sua mente ancor più forte. Le sembrava di implodere fino a scomparire. -Lasciami... Lasciami!- urlò. La presa durò ancora per alcuni secondi, momenti per lei di lacinante dolore, poi sciamò gradualmente.
-Angela è passata dalla tua parte perché l'incatesimo ha ceduto, ma poi è stato ristabilito e ora è la fedele serva di Cantalama.- Ecco perché mi ha aggredita quando le ho detto della scomparsa del corpo di Trianna... L'incantesimo la rende mia nemica. -E ho allontanto Occhi di Lupo perché così Arya è dovuta andare a riprenderla ed è irrangiungibile, e ora né lei, né l'erborista potranno aiutarti! E infine, quando Occhi di Lupo inconterà la regina mi impossesserò della sua mente attraverso la ragazza e il Nome dei Nomi sarà mio!-
Non è possibile! Tutto quello che sta dicendo è un incubo! Si sentiva in trappola. Nessuno poteva salvarla, nessuno sapeva niente. Quando Galbatorix la faceva sognare nella Stanza dell'Oracolo ai tempi della prigionia, almeno c'era Murtagh a rassicurarla con il tocco della sua mente, a dirle di stare tranquilla, a dissipare la menzogna. C'era quell'alone rosa di preoccupazione per lei a convincerla che la speranza di salvarsi sopravviveva ancora, c'erano le sue visite alla fine delle torture, c'era la sua risata allegra quando veniva a sapere che non si era lasciata piegare dalle visioni mostruose, c'era la sua voce premurosa e il tono concitato quando parlava di un piano per liberarla, c'erano i suoi occhi che anche con uno sguardo distratto sapevano dirgli se lei era preoccupata o fiduciosa per il futuro; e, nel primo caso, c'era la sua consolazione che le faceva passare la malinconia, le faceva pensare che bastava la presenza di lui a risolvere tutti i problemi. Ma in quel momento lui era via, e l'incubo persisteva. Perché non sei qui? Perché mi hai lasciata da sola?
-Stai pensando a Murtagh, non è vero?- La frase beffarda di Galbatorix la fece cadere dalle nuvole. -No, stavo pensando a come mai Trianna è morta dopo aver divinato Orrin.- Non gli avrebbe mai permesso di conoscere i suoi pensieri su di lui, anche se doveva aver intuito che provava qualcosa visto il sogno su loro due alla tenuta.
-E chi è Trianna, di grazia?- fece con un sorrisetto.
-Una maga che mi ha aiutata a divinare Orrin, ed è stato allora che l'ho visto morto.
-E hai scoperto così la mia identità. Be', poco male. È scomparsa perché prevedevo la tua mossa e un mio icantesimo fa subire quel fato a chiunque divini Orrin... Così saresti stata l'unica a saperlo, e se l'avessi detto a qualcun altro ti avrebbe presa per pazza. Come Angela.
-Ma lei era sotto l'effetto dell'incantesimo.
-E secondo te qualcuno ti avrebbe creduto se avessi detto che Orrin era morto e il suo cadavere giaceva abbandonato?- Conosceva la risposta; era lo stesso motivo per cui non l'aveva confidato a Farica, né a nessun altro. Rimase in silenzio, sollevata almeno del fatto che non aveva scoperto che aveva pensato a Murtagh, ma il suo sollievo durò poco, perchè dopo qualche secondo lui aggiunse: -E comunque non mentirmi quando dici che non stavi pensando al tuo dolce Cavaliere rosso.
-Ma... Non è vero.
-Oh, invece stavi proprio ricordando quel traditore.
-No.
Galbatorix con un ringhio d'ira si avventò sui suoi ricordi, ripescando quelli di pochi minuti prima. Lei cercò di ostacolarlo il più possibile ponendo avanti altre memorie e pensieri che vanificassero o almeno rallentassero la sua ricerca, innalzando barriere, recitando la filastrocca che era solita usare per difendersi, ma la febbre e l'agitazione non le permisero di resistere a lungo, e la mente di lui sembrava nata appositamente per districarsi nell'animo altrui e trovare ciò che cercava. Così in pochi secondi ciò che voleva fu suo.
-Già, ora non c'è il tuo tenero Murtagh ad aiutarti, bambina- fece lui con ferocia -e visto che mi hai anche mentito, mi vendicherò scoprendo cos'è accaduto nella Stanza dell'Oracolo, e come hai fatto a cambiare il suo Vero Nome. L'amore è una trerribile bestia, e tu sei capitata nel posto sbagliato al momento sbagliato quando hai stregato il mio servo!-
-No! NO!- Il suo urlo mentale l'assordò più che se avesse gridato davvero. Quelli no! Quelli no! Gli avrebbe anche dato tutti i ricordi dell'infanzia, se fosse stato necessario, ma i ricordi con Murtagh erano i più preziosi della sua vita, quelli che non aveva mai apero a nessuno, di cui non aveva mai parlato. Ma era troppo tardi: prima che se ne accorgesse aveva già iniziato e lo vide sfogliare rapidamente le sue visite al Farthen Dûr, il "sei bellissima" a cui a quei tempi aveva sorriso innocentemente senza capire cosa ci fosse sotto, il loro ballo, il momento in cui quasi si erano baciati -e rivederlo la fece ardere di desiderio, imbarazzo e tristezza-, che avrebbe voluto rivivere ancora e ancora e ancora finché la vita, stufa di sentirsi chiedere all'inifinito di rivivere le stesse scene, l'avrebbe trasferita eternamente lì dentro, il "non ti amo" che quasi la fece piangere di rammarico perché aveva fatto soffrire così tanto il suo amore ed era stata così cieca da non accorgersi della passione che ardeva dentro di lui... -Ma quanto siete teneri- latrò lui sarcastico, quasi strappando le pagine delle sue memorie che invece andavano sfogliate con tanta delicatezza. E poi rivide la Stanza dell'Oracolo, il ghigno di Murtagh che rispondeva "Vero, sire" dietro la maschera d'argento e che l'aveva tanto fatta soffrire, la prima visita in cui ubriaco le svelava i segreti della sua vita e lei aveva reagito con un atteggiamento forse troppo distante per l'enorme portata di quei ricordi -e a ripensarci sentiva forte l'istinto di stringere il suo cucciolo al seno, la voglia di percepire il suo abbraccio ricambiato, di fargli capire che non era solo come pensava, consolarlo, allontanarlo dai mostri del suo doloroso passato-, e ancora il momento in cui gli aveva detto di ribellarsi, suscitando l'ira di lui ma a fin di bene, e il loro abbraccio. Qui Galbatorix si soffermò a lungo, ascoltando ogni parola della conversazione impressa a ferro e fuoco nella sua mente.
-Esci di lì!- fece lei, ma lui neanche la sentì. Non può vedere quello... Era in preda alla disperazione: Galbatorix stava scandagliando tutti i suoi ricordi più intimi, le impressioni, le speranze, i progetti, i castelli in aria su Murtagh, e con un'irriverenza, una disattenzione, una superficialità, un senso di scherno che la ferì nel profondo. Non può permettersi di trattare così il mio Murtagh! La cosa che più le faceva male era sentirsi presa in giro da lui e avvertire sprazzi denigratori tra i suoi pensieri: essendo impacciata e inscura quando era con il suo Cavaliere, temeva che lui ridesse del suo modo di comportarsi perché ridicolo, e quindi di aver fatto qualche passo falso con il ragazzo. -"Perché?" "Lo sai perché..." mi fate venire il diabete- commentò alla fine dell'esplorazione di quel ricordo, il più prezioso per lei perché in quella visita Murtagh aveva piantato in lei il seme dell'amore, che era in seguito cresciuto diventando un rigoglioso e maestoso albero, che però soffriva per la mancanza della linfa vitale. Come poteva quell'odioso "Waíse Néiat" guardare con tanto disprezzo l'abbraccio di Murtagh, le loro mani strette l'una nell'altra come se fosseero una cosa sola, i suoi occhi dolci e vibranti d'affetto e di emozione, le loro chiacchierate banali che valevano più di un colloquio di Stato, quelle tre parole che l'avevano fatta impazzire di gioia e sognare sulla lastra per giorni e giorni e giorni? Galbatorix passò ai ricordi successivi, giudicandoli con maggior ribrezzo di quanto potesse riservarne a un mucchio di letame, fino ad arrivare al loro addio. Dopo aver rivisto gli occhi lucidi di lui, risentito il suo "ti voglio bene" a cui si era aggrappata disperatamente per un anno e mezzo, sentì il ricordo sfuggirle, perché finalmente l'uomo aveva abbandonato le sue memorie, e ritornando in sé si scoprì a piangere: non si era accorta che le grosse lacrime avessero superato la barriera delle palpebre e le stessero scorrendo sugli zigomi. -Galbatorix, non dovevi... Non... Dovevi...
-Altroché, se dovevo! Non c'è che dire, sei proprio una persona di parola. Gli avevi promesso che non avresti pinato, e invece lo fai. Gli avevi promesso che non l'avresti tradito, e invece ti sposerai con me!- Lei ringhiò la sua rabbia ma lui neanche ci fece caso. -E anche lui è certamente molto fedele... Ti aveva promesso che sarebbe tornato, invece ti ha abbandonata a me! Ecco cos'è successo mantre io pianificavo come distruggere i Varden. Ecco come quello sporco traditore mi ha girato le spalle!
-Non chiarlo così! Lui non ti ha mai servito con il cuore!
-SILENZIO! Comunque sia andata, sono stufo di parlare con te. Iniziamo la cerimonia! Entro un'ora sarai sposata con me!-
Sentì Galbatorix che prendeva il controllo del suo corpo, anche se la lasciò cosciente; la stessa sorte toccò a Farica, solo che lei fu completamente assoggettata.
-Sarà la tua testimone. Crede ancora che ti stia sposando con Orrin, e così tutto il regno; solo io, te, il sacerdote e il mio testimone, oltre a Cantalama naturalmente, sappiamo la verità. E on oserai dirlo a nessun altro.-
Le lacrime non riuscivano a fermarsi; la testa le girava più che mai. Mi dispiace... Murtagh...

 

-È destinato ad una persona molto importante. Prendilo tu.
-Ma... Qag...
-Tu hai certamente più opportunità di me di incontrare qualcuno che cambierà il corso della storia.- Il Kull abbozzò un sorriso. -Dai, prendilo.
Allungò le mani e afferrò l'uovo. -Grazie. E grazie anche per la tua ospitalità... Ci hai trattati benissimo. Possano gli altri Urgali gridare di terrore quando sapranno che sei il loro sfidante, e che la vostra tribù ha deciso di invaderli.
-Che la tua spada resti affilata... Si dice così da voi, no?

Murtagh. Ehi, Murtagh. Il ragazzo si ridestò dai suoi pensieri. Perché ti preoccupi tanto? È solo un uovo.
Lo so, Castigo, ma hai sentito cos'ha detto il capo villaggio. È destinato a una persona importante.
Il drago annusò una bisaccia sull'erba e lui l'aprì, tirandone fuori il contenuto: un magnifico uovo di drago color panna, rilucente come la superficie di una perla, tanto che quasi ci si poteva specchiare. Sottili venature argentate correvano lungo la sua fredda superficie.
E chi potrebbe essere questa persona?
No lo so.
Ma in realtà se lo sentiva nel profondo, di chi era. Nasuada. Quell'uovo doveva essere suo, se il wyrda l'aveva consegnato proprio a lui. Glielo diceva il cuore.
Si alzò dal prato montano su cui era sdraiato e iniziò a riallacciare la sella e le bisacce sul dorso del suo compagno, mentre in lontananza alla sua destra scrutava il mare e un puntolino che doveva essere Narda. Dall'altro lato, quando erano in volo, si vedevano le pianure deserte tra il monte Utgard e Yazuac. Gli erano mancati, i paesaggi selvaggi di Alagaësia.
Castigo, stiamo tornando a casa, a riprendere ciò che è nostro.
Dai, non fare l'epico!
rispose lui con uno sbuffo e un tenero buffetto sulla fronte.
Il Cavaliere sorrise e montò sul suo drago, abbracciandogli forte il collo; poi spiccarono il volo in direzione di Ilirea.
Mia bella, sto arrivando!

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Capitolo 9
*** Fiori d'arancio ***


Bene, ringraziate DawnRose per questo capitolo, visto che io non riesco a scrivere in codice html per problemi tecnici, e... Buona lettura!!! :D PS: a tutti quelli cui ho detto che potevno leggere su Eragon Italia, chiedo scusa... Ora potete leggere comodamente qui :)) Non vi stavo prendendo in giro insomma!!!

9-FIORI D'ARANCIO


Dopo che Galbatorix ebbe preso il controllo della mente di Nasuada, fece cupo al sacerdote: -Iniziamo-.
Questi annuì e iniziò a parlare: -Benvenuti a tutti voi. Siamo qui riuniti oggi per celebrare l'unione tra le famiglie di Galbatorix Ibleksson e di Nasuada Nadarasdaughter.- La sua voce piena, sommessa e calda era alle orecchie di Nasuada un lentissimo rullare su un tamburo che scandiva secondo per secondo i termini della sua condanna. Chissà come fa a conoscere il nome di mia madre... Gliel'avrà detto Galbatorix quando mi è entrato nella mente, forse. Spostò lo sguardo sul Cavaliere, ma neanche fu notata: un sorriso maligno stampato sul volto, la sua attenzione era rivolta al discorso che proseguiva.
-Godono entrambi di ottima reputazione...- Entrambi? Non direi proprio! -... E a quanto mi risulta non hanno ricevuto altre proposte di matrimonio.  Se così non fosse, tuttavia, o se esitesse qualsiasi altro motivo per cui non devono diventare marito e moglie, esprimete le vostre obiezioni davanti a questi testimoni, così che si possa giudicare la bontà di quanto sostenete.-
D'improvviso un silenzio asfissiante calò sulla stanza: Nasuada vedeva la porta spalancarsi e Murtagh entrare gridando "Fermi!", vedeva un sasso frantumare i vetri della finestra e la tensione crescente, vedeva se stessa riuscire a riprendere il controllo del suo corpo e pugnalare Galbatorix con un'arma che solo allora si era accorta di avere in mano... Vedeva tutto ciò che per lei avrebbe potuto significare salvezza in quel momento, ma solo nella sua mente, perché in realtà tutto rimaneva immoto in quel silenzio fragile, che sembrava tanto poter durare per ore che svanire il secondo dopo. Era un'atmosfera che la tormentava; pregava che finisse presto per dar fine alla sua logorante attesa e allo stesso tempo che non finisse mai perché c'era sempre una speranza finché durava.
-Chi parla a nome di Galbatorix Ibleksson?- Ecco, il momento buono per opporsi è finito... Ma si può sempre interrompere la cerimonia... Non disperare...
L'ometto che si era finto messaggero di Orrin fece un passo avanti:
-Galbatorix non ha un padre né uno zio, dunque sarò io, Kindunos Quazarsson, a parlare per lui come se fosse sangue del mio sangue.- La vocetta acuta le infastidì le orecchie.
-E chi parla a nome di Nasuada Nadarasdaughter?- Farica si alzò e, guardando fisso un  punto lontano, recitò: -Nasuada non ha più una madre né una zia, dunque sarò io, Farica Amillasdaughter, a parlare per lei come se fosse sangue del mio sangue.
-Mi sembra giusto e appropriato.- Non ho mai sentito tante balle in una volta sola. -Cosa porta Galbatorix Ibleksson in questo matrimonio, così che lei e la moglie possano prosperare?- Prosperare?! Parla per lui!
-Porta il suo nome. Porta la sua corona. Porta i suoi poteri. E porta il suo regno- rispose Kindunos.
-Accetti questa offerta, Farica Amillasdaughter?
-Sì.
-E che cosa porta Nasuada Nadarasdaughter in questo matrimonio, così che lei e il marito possano prosperare?- Un enorme battipanni per spappolargli le cervella e arrossargli la testa e il sedere! Si sentiva tanto sciocca e infantile quanto disperata.
-Porta... L'amore e la devozione con cui servirà Galbatorix Ibleksson.- Amore?! Devozione?! Quelli serbali per qualcun altro! -Porta la sua corona. Porta il suo regno. E porta molti gioielli e vestiti come dote.-
Quando la serva tacque, pensò: Ehi... Non ha elencato tutta la dote! Questo potrebbe mandare all'aria il matrimonio! Si aggrappò fiduciosa a quell'apparenza di salvezza, ma prima che la presa potesse diventare salda le sovvenne un cavillo secondo il quale nei matrimoni reali, per amor di brevità, non era necessario descrivere ogni avere della sposa, e l'eccitazione si afflosciò come un fazzoletto gettato a terra, prima gonfiato dal vento e poi accartocciato su se stesso in morbide pieghe. Non c'era via d'uscita.
-Accetti questa offerta, Kindunos Quazarsson?
-Sì.
-E così, secondo le leggi della nostra terra, le vostre famiglie diventano una sola.
All'improvviso il sarcasmo abbandonò Nasuada, lasciando il posto al panico per l'avvicinarsi del suo destino. Non doveva finire così...



Castigo...
Eh...
Dove ci troveremo, più o meno?
A un quarto della strada tra Narda e Teirm... Forse un terzo.
E tra quanto saremo a Ilirea?
Non lo so, un paio di giorni, al massimo tre, dipende dai venti...
Il drago tacque per qualche momento, poi disse in tono provocatorio: Hai perso anche il senso dell'orientamento, oltre al buon gusto nel vestire?
Lui sbuffò. Sarebbero stati rasi al suolo anche i Monti Beor, ma Castigo non avrebbe mai smesso di stuzzicarlo, nemmeno nelle situazioni peggiori. Si chiese perché avesse scelto proprio lui da dentro l'uovo, lui che era sempre così serio...
Allora?
Quante storie per un bottone! Non puoi mai lasciarmi in pace?
L'ho fatto per te, per renderti più attraente agli occhi della tua donzella.

Anche su questioni così assurde, si doveva mettere a querelare. Tutto quel caos solo perché nella loro ultima sosta era andato a fare un bagno nel fiume e rivestendosi aveva allacciato tutti i bottoni della camicia, ritenendo quella scelta consona alla situazione che presto avrebbe affrontato e al resto del suo abbigliamento -pantaloni neri di cotone, cintura borchiata d'argento e stivali neri di cuoio-. Ma era arrivato il solito guastafeste che l'aveva convinto a scioglere ben tre bottoni, facendogli notare come fosse ridicolo che un ventenne si vestisse come un barone. Forse era stato il periodo passato con Galbatorix a influenzarlo così pesantemente... Ma non gli sembrava di vestire in modo così strano... Inoltre temeva di apparire spavaldo agli occhi di Nasuada.
Lei non fa caso a certe sottigliezze.
Senti, con quella camicia abbottonata fino alla gola sembravi un cigno, non succede niente se ti vede fino a un po' più giù del collo!
Non deve amarmi per il mio aspetto, ma per come sono dentro!
Ma lei è già innamorata di te
-quella frase gli fece balzare il cuore in petto- e se dimostri di volerti presentare bene ai suoi occhi non c'è niente di male, anzi lo prenderà come un ulteriore gesto d'affetto e non potrà che esserne felice.
Sotto sotto sapeva che il drago aveva ragione, ma non voleva dargli la soddisfazione di saperlo o sarebbe diventato ancor più saccente.
Non sono abituato ad avere mezzo petto scoperto.
Esagerato, per uno spiraglietto! Insomma, sei un uomo, non fare il bambino!
E va bene, sì, hai proprio ragione tu, guarda, mi inchino al cospetto della tua suprema intelligenza.
Certo. Come sempre. Così devi fare.

Murtagh inarcò un sopracciglio. Ti ho mai detto che sai essere davvero insopportabile quando fai l'arrogante?
Almeno un centinaio di volte
, fece lui tranquillo.
Il Cavaliere lasciò perdere l'argomento e si trovò a pensare a Ilirea, la sua vecchia Urû'baen. Chissà com'era cambiata, che aspetto aveva in quel momento. Chissà se lei era cambiata o lo pensava ancora.
Nasuada,che starai facendo ora?



-Coloro che parlano per voi si sono accordati sui termini del vostro matrimonio. Galbatorix, sei soddisfatto del modo in cui Kindunos Quazarsson ha condotto i negoziati a tuo nome?
-Sì.- Il sorrisetto perverso non accennava ad abbandonargli le labbra: aveva sempre una perfetta faccia da schiaffi.
-E tu, Nasuada, sei soddisfatta del modo in cui Farica Amillasdaughter ha condotto i negoziati a tuo nome?- Come no, sto scoppiando di soddisfazione! Tutto questo non può essere vero! Aveva appena deciso che si sarebbe opposta con tutta se stessa, quando sentì le labbra muoversi, le corde vocali vibrare: -Sì.- L'aveva detto. Ma non lei, era stato Galbatorix a farlo. Fu una sensazione stranissima, si sentiva un fantasma: esisteva ma non aveva il possesso del proprio corpo.
-Galbatorix, figlio di Iblek, giuri dunque sul tuo nome e sulla tua stirpe di proteggere Nasuada Nadarasdaughter e di provvedere a lei finché entrambi avrete vita?
-Io, Galbatorix, figlio di Iblek, giuro sul mio nome e sulla mia stirpe di proteggere Nasuada Nadarasdaughter e di provvedere a lei finché entrambi avremo vita.
-Giuri di difendere il suo nome, di rimanerle fedele negli anni a venire e di trattarla con rispetto, dignità e gentilezza, come si conviene?
-Giuro di difendere il suo nome, di rimanerle fedele negli anni a venire e di trattarla con rispetto, dignità e gentilezza, come si conviene.
Oh, sì, certo. Sarai senza dubbio una persona di parola.
-E giuri di darle accesso ai tuoi beni, qualunque essi siano, e al forziere dove tieni il tuo denaro entro il tramonto di domani, così che possa cominciare ad occuparsi dei tuoi affari come si conviene a una moglie?
-Lo giuro.- Cos'è, una gara di bugie?, pensò sull'orlo della disperazione, poi si preparò: toccava a lei. Dopo i suoi giuramenti, il matrimonio sarebbe finito. Sarebbe stata sposata con Galbatorix. Cercò di spostare gli occhi, per quanto il controllo del Cavaliere nero glielo permettesse, e lo sguardo si posò sullo specchio accanto al letto: la superficie rifletteva la sua immagine, quella confusa di una donna disperata. Se solo qualcuno mi divinasse... Potrebbe interrompere la cerimonia e mandare tutto a rotoli...



E se divinassi Nasuada?
Murtagh era nei pressi di un piccolo affluente del fiume Toark, un rigagnolo dalle acque limpide che scorreva in una vallata della Grande Dorsale prima di contribuire al corso più grande.
Come mai quest'idea?, fece serafico il suo drago, che aveva appena finito di dissetarsi: delle gocce ancora penzolavano sul suo mento, indecise se cadere o oscillare ancora un po' a destra e a sinistra. La bestia scosse l'enorme capo color rubino e decretò per loro il destino, rispedendole nel fiume.
Perché voglio che sappia che sto tornando, e... sorrise, perché voglio rivederla e risentirla. È un anno e mezzo che non abbiamo neanche il minimo contatto.
Va bene, ma sbrigati, così ripartiremo presto e potrai rivederla di persona.

Entusiasta all'idea di parlare con la sua  amata dopo tanto tempo, cercò una cavità del terreno per riempirla d'acqua.



-Nasuada, figlia di Nadara, giuri sul tuo nome e sulla tua stirpe di servire Galbatorix Ibleksson e di provvedere a lui finché entrambi avrete vita?- Neanche per sogno! Eppure, con suo grande disappunto, si trovò a ripetere quelle parole: -Io, Nasuada, figlia di Nadara, giuro sul mio nome e sulla mia stirpe di servire Galbatorix Ibleksson e di provvedere a lui finché entrambi avremo vita.
-Giuri di difendere il suo onore, di restargli fedele negli anni a venire, di portare in grembo i suoi figli finché potrai e di essere una madre premurosa?
-Giuro di difendere il suo onore, di restargli fedele negli anni a venire, di portare in grembo i suoi figli finché potrò e di essere una madre premurosa.- Non è possibile che lo stia dicendo sul serio!



Angela stava cucendo in camera sua, quando avvertì la presenza di Elva: abbassò le difese e le parlò. Cosa c'è?
Nasuada... Nasuada è in pericolo!
Non appena sfiorò i pensieri della bambina, le sembrò che un muro fosse crollato intorno alla sua mente. In che tipo di pericolo incorre?
Non lo so... Ci sono delle persone in camera sua... Una di queste è strana, non ho mai sentito una coscienza fatta in quel modo! Assomiglia vagamente a quella di Galbatorix...

Non ascoltò il resto. Il mondo si fermò, gravando su quel nome: Galbatorix. Un pensiero sepolto risorse dall'inconscio.
Galbatorix, Cantalama.
Quei vuoti di memoria.
La sensazione di qualcosa che scivola via.
Incantesimi travestiti da convinzioni assurde.
Il muro era crollato, e adesso capiva. Afferrò Trillamorte e uscì dalla stanza veloce come un fulmine, sperando che non fosse troppo tardi.



-E giuri di farti carico della sua ricchezza e dei suoi possedimenti e di amministrarli in maniera responsabile, così che lui possa concentrarsi su quegli incarichi che spettano a un marito?
-Lo giuro.- È la fine... È la fine...



La buca era piena, e Murtagh si preparò a recitare l'incantesimo...



-Incrociate i polsi.- Galbatorix porse la mano sinistra, incrociandola con la sua destra: l'ebano del braccio seghettato era in netto contrasto con la pelle cerulea del Non Essere. Il sacerdote aprì la cassetta che aveva in mano quando era entrato tirandone fuori un nastro, con cui avvolse i polsi incrociati per tre volte, per poi unire le estremità con un fiocco. E a mano a mano che la fascia si stringeva sulle loro braccia unite Nasuada sentiva il baratro avvicinarsi, e presto l'avrebbe inghiottita...
Il suo pensiero corse a Murtagh: chissà cosa stava facendo, se la stava pensando, se avrebbe mai immaginato cosa le stava accandendo. Se solo l'avesse divinata!



Ma all'improvviso il ragazzo si fermò, chiedendosi cosa stesse facendo. Che sciocco, si disse. Presto avrebbe incontrato Nasuada di persona, che senso aveva scambiare solo due parole e accrescere lo struggimento per la loro distanza? Le farò una sorpresa.
Si alzò, spazzolando il terriccio dai calzoni, e si riavviò verso Castigo. Be', non l'hai divinata più?
No, ho deciso che è meglio ripartire subito
, rispose salendo in groppa. Il drago non disse nulla: aprì di scatto le ali e riprese il volo verso la capitale.



-Com'è mio diritto in qualità di sacerdote, vi dichiaro marito e moglie!
NO!
-Hai sentito che bella notizia, Nasuada?- sibilò Galbatorix nel suo orecchio, mentre un piccolo applauso riempiva la stanza. -E ora,il tocco di classe.-
Avvicinò le labbra alle sue e fece per baciarla: vide le palpebre chiuse di lui a un soffio dai suoi occhi, le loro ciglia che si accarezzavano. L'istinto le suggeriva di scatenare ogni muscolo del suo corpo per allontanarsi dal marito, eppure lei non aveva più corpo, era ancora sotto il suo controllo. No, anche questo no! Io dovevo dare a Murtagh il mio primo bacio...
Una porta sbattuta, un sibilo e una lama di diamante puro si frappose fra le loro bcche, vibrando quando s'infisse nella testiera del letto: Galbatorix si alzò, e con la coda dell'occhio riuscì a vedere Angela con un pugnale in mano. La donna corse verso il re emettendo un grido disarticolato, e pronunciando parole dell'Antica Lingua colpì il Waíse Néiat al cuore. Non appena l'uscio fu sgombro della presenza dell'indovina, il testimone e il sacerdote fuggirono a gambe levate, mentre il Cavaliere nero guardava esterrefatto l'elsa del pugnale. Alzò le iridi vermiglie e le inchiodò in quelle nere di Nasuada, dichiarando: -Non credere che sia finita, moglie. Presto riapparirò e l'incubo della tua vita con me inizierà.- Poi si dissolse di punto in bianco, senza lasciare tracce; il pugnale cadde rumoosamente a terra, e nello stesso istante la regina riprese il controllo di sé, così come Farica.
-Oh, Nasuada, se fossi arrivata prima! Dimmi cos'è successo... Anche se penso di averlo intuito... Su, non piangere!- la esortava Angela, estraendo la spada dal legno.
"Ma non sto piangendo", avrebbe voluto ribattere lei, poi si accorse che non era vero: grosse gocce bagnavano le tempie e il cuscino, la testa aveva ripreso a girare e la fronte scottava. Se fosse stata nel suo corpo durante la cerimonia, avrebbe versato lacrime tutto il tempo. "Promettimi che non piangerai..." Cosa penserai di me adesso, Murtagh?
Si asciugò gli occhi con il dorso della mano e disse, roca: - Sono sposata con Galbatorix.

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