La ragazza dell'ultimo banco di NiNieL82 (/viewuser.php?uid=6229)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -Capitolo 1- ***
Capitolo 2: *** -Capitolo 2- ***
Capitolo 3: *** -Capitolo 3- ***
Capitolo 4: *** -Capitolo 4- ***
Capitolo 5: *** -Capitolo 5- ***
Capitolo 1 *** -Capitolo 1- ***
LA
RAGAZZA DELL'ULTIMO BANCO.
Capitolo
1
L'importanza
di non essere.
Il
cielo plumbeo prometteva neve.
Fu
quella la prima cosa che Matteo vide alzandosi dal suo letto, dopo
che sua madre poco delicatamente era entrata in camera per sollevare
l'avvolgibile e farlo svegliare con il solito e monotono monito:
“Alzati!
O farai tardi a scuola!”
Ci
volle qualche canonico secondo prima che cominciasse a carburare per
bene, poi Matteo poggiò i piedi per terra e rabbrividì
per il contatto con il pavimento gelido.
Ecco!
Quello era un bel modo per cominciare una giornata che doveva essere
tutto meno che fallimentare.
Si
grattò la testa e scompigliò i capelli neri già
arruffati senza il suo aiuto e si guardò allo specchio. Matteo
non era contento del suo aspetto. Non lo era mai stato.
Odiava
il suo corpo troppo alto e dinoccolato, le ginocchia appuntite e
l'attaccatura delle orecchie bassa. Odiava le costanti occhiaie un
po' grigiastre che contornavano gli occhi scuri, scialbi e un po'
inespressivi. Le labbra erano fini, quasi impercettibili nell'ovale
macchiato da un'ombra scura che rappresentava un abbozzo spaurito di
barba. Una barba che tra l'altro aveva deciso, sin dal principio, di
crescere in tutte le direzioni: destra, sinistra, basso, alto.
Matteo
sapeva di non essere bello. Affatto. Per conquistare le ragazze
sapeva di dover puntare sulla sua simpatia, sulla sua intelligenza e
sulla buona dialettica che aveva migliorato negli anni, parlando da
solo davanti allo specchio: interminabili monologhi inconcludenti,
che lo vedevano disquisire di politica scolastica, di temi da
trattare alle interrogazioni e di discorsi d'amore che non venivano
mai proferiti.
C'è
qualche cosa che fa paura quando hai diciotto anni e poche e
fallimentari esperienze alle spalle. Qualcosa che non puoi
controllare, che sfugge ad ogni tuo ordine più del tuo corpo
che cambia lentamente ma prepotentemente. Quel qualcosa che i suoi
compagni chiamavano amore e i genitori di Matteo declassavano a
semplici cottarelle giovanili, guaribili con un po' di sport, studio,
qualche buona lettura e un'uscita con gli amici il sabato sera.
Matteo
non sapeva dire se fosse mai stato innamorato o no. Sapeva quello che
aveva provato davanti alla sua compagna di classe di quarta ginnasio,
quando durante l'ora di educazione fisica l'aveva osservata di
nascosto fare stretching, mentre la maglietta grigia elastica di
tendeva sul seno privo di biancheria, mostrando i capezzoli
inturgiditi dal freddo. Fu quella volta, per la prima volta in vita
sua, che Matteo si eccitò guardando una ragazza. Non capì
esattamente cosa stesse succedendo, o meglio, non se ne rese conto.
L'unica cosa che sapeva era che, mentre la guardava, tutti
cominciarono a ridere. E quando lui se ne rese conto, ormai era
troppo tardi. Anche Elena, la bella Elena, quella che girava senza
reggiseno quando faceva educazione fisica, quella che metteva in
subbuglio gli ormoni dormienti di ogni quattordicenne nei paraggi,
voltandosi aveva visto la tela del cavallo della tuta di Matteo
tendersi impietosamente e portando una mano alla bocca, voltandosi
verso la sua amica che sedeva vicino a lei, aveva indicato il povero
Matteo che si guardava intorno imbarazzato.
Da
quel momento i sogni erotici, via via sempre più spinti e
sempre più fantasiosi, sulla giovane compagna di quarta liceo
vennero surclassati dal ricordo della brutta figura di Matteo che a
malapena riusciva ad alzare lo sguardo davanti ad Elena.
Matteo
non seppe mai se la sua lussuriosa ossessione per i capelli castani e
leggermente mossi di Elena fosse amore o no. Fortunatamente -a
seconda dei punti di vista- il lavoro del padre lo portò
lontano dalla città dove al tempo risiedevano, facendo
lasciare alle spalle di Matteo e di suo fratello Michele tutto quello
che avevano creato. Ossessione per Elena inclusa.
Era
forse per questo che Matteo non poteva essere sicuro di essere stato
realmente innamorato di qualcuno. Il lavoro di suo padre lo aveva
costretto a continui cambiamenti da quando era un bambino, facendolo
diventare un essere un po' chiuso, restio alla nuove conoscenze, o
meglio, capace di stringere rapporti leggeri, senza nessun vero e
proprio legame.
In
parole povere. Matteo aveva avuto tanti amichetti, ma mai nessun
migliore amico; tante conoscenze, ma mai una vera e propria compagnia
di amici con il quale uscire la sera, stare seduti su di un muretto o
una gradinata a ridere e scherzare, fumare, cercare di rubare un
bacio ad un'amica che stranamente appariva più bella senza un
vero e proprio motivo, a cantare canzoni con una chitarra disturbando
i vicini che finivano con chiamare i Carabinieri.
Tutto
questo a Matteo Zanin, classe 1992, era mancato. E alle volte, quando
arrivava in una nuova città, quando vedeva un gruppo di
ragazzi ridere o divertirsi giocando a calcio con una pallina di
carta arrotolata o con una bottiglietta di plastica vuota, si sentiva
vuoto, come se mancasse qualche cosa alla sua formazione.
Michele
Zanin, suo fratello, invece era l'opposto di lui. Classe 1990, aveva
ereditato la bellezza e la delicatezza dei tratti della madre. Dai
capelli sempre in ordine, al corpo atletico, all'altezza
considerevole, Michele era uno di quei ragazzi che nei corridoi delle
scuole faceva voltare tutte le ragazzine e le faceva sospirare
sognanti.
Erano
passati, infatti, cinque anni da quando l'erezione inaspettata di
Matteo aveva svelato i veri sentimenti del ragazzo nei confronti
della bella compagna di classe e da allora Michele aveva seminato un
numero considerevole di amori a distanza, una caterva di lettere
d'amore -in barba alle e-mail -e una sequela di insulti ogni
qualvolta la precedente fidanzata scopriva che Michele aveva
un'altra.
Di
tutto questo, Matteo, non aveva avuto nemmeno una briciola.
Per
anni si era chiesto se nelle culle dell'ospedale dove era nato
avessero fatto le cose per bene e non avessero scambiato lui con il
vero figlio dei Zanin.
Se
si guardava intorno Matteo non vedeva altro che differenze con il
resto della famiglia: della bellezza di sua madre non aveva ereditato
niente; della simpatia del padre, un uomo che riusciva a far ridere
perfino un depresso, non aveva ereditato nulla. Sembrava che suo
fratello Michele avesse preso tutto il meglio dei genitori e Matteo
aveva dovuto accontentarsi delle briciole.
Sospirò
guardandosi allo specchio.
Lui
era quello sempre malaticcio, quando era un bambino. Lui era sempre
quello che piangeva quando giocava alla guerra con Michele e finiva
per farsi male.
Lui
era quello che si nascondeva dietro i suoi genitori prima di prendere
una qualsiasi iniziativa.
Così,
se Michele era quello ribelle, quello che era riuscito a farsi
bocciare in quinta ginnasio, in prima liceo e ora si apprestava a
ripetere la seconda liceo con noncuranza, quasi per lui lo studio
fosse uno scherzo, Matteo era quello serio e giudizioso, quello che
non aveva mai perso un solo anno di liceo nonostante gli spostamenti
continui della famiglia che lo costringevano a lasciare la scuola
anche ad anno inoltrato.
Ed
era questo che Matteo desiderava: essere come suo fratello. Avere una
ragazza diversa in ogni città; correre la mattina appena
sveglio e arrivare a scuola fresco come una rosa; essere ammirato per
il suo fisico. E soprattutto riuscire ad avere tutti gli amici che
aveva Michele e che con nostalgia lo chiamavano anche quando la
distanza era grande.
Perché
Matteo Zanin, anni diciotto, del segno del Toro, era come un'ombra
nascosta dietro il padre e il fratello. Un'ombra grigia, nemmeno
scura, di cui nessuno si accorgeva, che camminava piano per non
disturbare nemmeno se stesso. Un'ombra triste, come quel cielo
grigio, talmente compatto che sembrava quasi una lastra di acciaio. E
invece era solo una massa triste e incapace di risplendere.
Proprio
come Matteo.
Ciabattando
per il corridoio della casa ancora nella penombra, Matteo si
scompigliò ancora una volta i capelli con le mani, entrando in
cucina.
Alla
televisione il telegiornale parlava di politica, di crisi mondiale e
di guerra in Afghanistan.
La
mamma di Matteo, Daniela, ascoltava in silenzio, sistemando le
stoviglie utilizzate la notte prima.
Dalla
portafinestra semiaperta del piccolo poggiolo, entrava un freddo
pungente, che sembrava quasi fare a pugni con la temperatura corporea
del ragazzo ancora in pigiama e si mischiava con il profumo delle
paste calde.
Nella
famiglia Zanin c'era un rituale: tutte le mattine, il padre di
Matteo, Giovanni, usciva presto e andava al bar sotto casa -o a
quello più vicino- e comprava i cornetti caldi per tutti. Non
succedeva mai, o quasi, che mancassero i cornetti e che entrando in
cucina non si sentisse l'invitante profumo del dolce appena sfornato.
“Il
papà ha preso i cornetti alla crema per me?” chiese
Matteo mettendosi a sedere al tavolo.
“Lo
sai che li ha presi!” rispose Daniela senza staccare gli occhi
dal notiziario del mattino.
Ecco
l'ennesimo rituale della famiglia Zanin: nessuno doveva parlare
durante il telegiornale. A qualsiasi ora venisse trasmesso, tutti
dovevano stare in religioso silenzio, lasciando che la voce
dell'anchorman risuonasse per la casa.
Matteo,
senza aggiungere altro, si mise a sedere e prese un cornetto. La
sfoglia era ancora calda e fragrante. Il ragazzo ne addentò un
pezzo e socchiuse gli occhi. Matteo amava mangiare le estremità
prima di arrivare al ripieno cremoso e gustoso. Infondo lui era
sempre stato così: calmo, riflessivo, attento. Il completo
opposto di suo fratello Michele che, a differenza del fratello
minore, era la quintessenza dell'impulsività.
Assaporò
il cornetto in silenzio, sorseggiando di tanto in tanto il
caffellatte freddo, come piaceva a lui.
Prese
un secondo cornetto e lo mangiò nello stesso identico modo.
Daniela guardava attenta il telegiornale, sbattendo di tanto in
tanto, per sbaglio, tra loro le varie stoviglie.
Quella
era una giornata tipo a casa di Matteo Zanin. L'unica cosa che
differenziava la cucina dagli altri giorni era che le presine per il
forno con la faccia di Babbo Natale stampata sopra, capeggiavano
vicino ai canovacci logori dall'uso e dall'umidità accumulata
e filtrata dentro le trame, indicando l'arrivo delle festività
di Natale.
Natale.
Appunto!
Matteo
sospirò e passò di nuovo la mano sui capelli ribelli.
Doveva sbrigarsi o sarebbe stato troppo tardi.
E
non parlava della scuola. Non parlava nemmeno dell'orario. Matteo
Zanin era l'ultimo arrivato nella sezione D della Terza Liceo del
Classico Galilei.
Matteo
Zanin era quello nuovo, intelligente, che i primi giorni tutti
riempivano di domande. Figlio di un militare, costretto -ma guarda
che fortuna- a stare sempre in giro, senza dover pagare una sola
lira.
Peccato
che Matteo non amasse la sua vita e una volta passata la curiosità
dei primi giorni, tutti lo considerarono il nuovo arrivato, quello
intelligente che sapeva fare benissimo le traduzioni di greco e
latino.
Matteo
Zanin non era popolare. Non era bello come Molinari, il figlio del
notaio più conosciuto in città; non era nemmeno
sportivo come Rinaldi, il giocatore di basket della classe, figlio
del sindaco della città.
Matteo
Zanin era interessante solo perché era il nuovo arrivato,
l'inaspettato ultimo acquisto dell'ultimo anno di liceo, quello in
cui gli equilibri sono stati creati e non si ha tempo per far entrare
qualcuno di nuovo e conoscerlo come si è fatto con tutti gli
altri per tutto il tempo precedente. Le ragazze non erano attratte
dalla bellezza di Matteo. Matteo, come già detto, non era
bello. O per lo meno, era un tipo, uno di quelli che se passi per
strada non ti giri a guardare pensando 'cavolo! proprio un bel
ragazzo'. Tutte erano attratte dalla sua vita senza radici, così
poco simile alla loro noiosa vita. E poi, francamente, era il
fratello di Michele Zanin, che solo poggiando piede nell'atrio del
Liceo Classico Galileo Galilei, era diventato il ragazzo più
ambito della scuola. Avvicinare lui, quindi, significava avvicinare
Michele.
Ma
non era quello che interessava Matteo e che le metteva una certa
premura.
In
ogni classe c'è una storia da raccontare.
Ogni
alunno è un libro aperto che si può sfogliare con
facilità, per colpa di tutta quella vasta gamma di sentimenti
che, ancora, difficilmente si riesce a controllare. Ogni ragazzo o
ragazza che sedeva tra i banchi pieni di scritte o di gomme attaccate
sotto perché la professoressa non se ne rendesse conto, aveva
un mondo che stava lentamente creando muovendo i primi passi nel
cammino della vita.
Matteo,
seduto in disparte, all'ultimo banco, aveva osservato silenziosamente
tutti. Così aveva scoperto che Molinari aveva una cotta non
corrisposta per Lara Landolfi, la ragazza più timida che
qualcuno avesse mai conosciuto, capace di arrossire anche quando
diceva presente all'appello; e Lara, dal canto suo, era la classica
ragazzina che si scopre innamorata del professore di matematica.
C'era
Mattioli che prendeva in giro tutti per non farsi prendere in giro
per via del suo aspetto goffo e grasso; c'era Veranocchia, ovvero
Veronica 'ranocchia' Fassi, nota per essere una grande stronza, che
sguazzava nel mettere nei guai i suoi compagni e che non passava mai
un compito a nessuno. Matteo aveva scoperto che Veranocchia, come
nelle migliori tradizioni da telefilm, era innamorata di Molinari,
che le sorrideva solo quando aveva bisogno di qualche cosa.
Ogni
classe che aveva frequentato Matteo, era stata scannerizzata
mentalmente dal ragazzo che nel giro di pochi giorni capiva tutto di
tutti. Almeno fino a quell'anno.
In
ogni classe c'è una persona strana. Qualcuno con cui si parla
ogni tanto, che ha problemi suoi, problemi con il mondo, problemi con
la classe, problemi con i genitori... Alle volte tutto assieme.
Insomma, quello che i ragazzi tendono a chiamare un caso umano. Il
soggetto della classe.
Matteo
quando entrava nella classe, la guardava in silenzio e subito lo
riconosceva.
I
casi umani hanno un modo di vestire tutto loro; sono tormentati da
qualcosa o da qualcuno; sono silenziosi e scontrosi.
Quel
settembre, quando entrò nella sua nuova classe, Matteo
raggiunse l'ultimo banco con noncuranza, ignorando gli sguardi dei
compagni. Fu nel momento esatto in cui posò lo zaino sul banco
che vide una persona che non aveva notato entrando e che sedeva
vicino alla finestra.
Aveva
una lama tra le mani, una di quelle piccole che si posso svitare da
un comune tempera lapis, le unghie smangiucchiate e lunghissimi
capelli castano scuro che si poggiavano sul banco.
Non
degnò Matteo di un solo sguardo, non lo salutò, non
fece una sola occhiata ad una delle ragazze che stavano dall'altra
parte della classe.
Lei
non alzava la testa, stava a incidere nel banco chissà che
cosa e non disse una sola parola per tutta la durata delle lezioni.
Matteo
si incuriosì subito. La osservò in silenzio, di
nascosto, guardando le frasi che tracciava nel banco quando la
ragazza si fermava a guardare le nuvole: e succedeva spesso. Quando
il cielo era limpido e si vedevano solo strati bianchi di nuvole che
riempivano il cielo giocando a rincorrersi tra di loro, la vicina di
banco di Matteo si incantava, sorrideva appena e poi tornava a
tracciare il banco o a prendere appunti.
Erano
passati tre mesi in quel modo, anche se per quasi un mese nessuno
aveva varcato la soglia della classe per il solito sciopero per i
termosifoni spenti.
Erano
passati già tre mesi e solo qualche settimana prima, Matteo,
aveva capito qualche cosa della sua compagna di banco. Qualche cosa
di quella ragazza che gli stava quotidianamente vicino, ma che era
lontana come un'aliena.
Quella
ragazza che parlava solo se doveva, quando la professoressa la
interrogava e che sollevava solo la mano per l'appello.
Quella
ragazza che tutti scansavano come un'appestata.
Matteo
stava pensando a questo quando sentì qualcuno colpirlo nella
nuca. Si voltò, toccando la parte offesa e guardò chi
lo aveva colpito: era Michele, che con la tuta e gli auricolari
sorrideva divertito dalla reazione del fratello minore.
“Teo!
Lo sai quante ore di corsa devi fare per smaltire quei due cornetti
che ti sei mangiato?” disse Michele cercando di essere serio,
ma con poco successo.
Matteo
socchiuse gli occhi e rispose:
“Micky...
Lo sai quanto ci vuole prima che ti mandi a fare in c...”
“Ragazzi!”
intervenne Daniela troncando la frase di Matteo.
Matteo
stava per replicare ma Michele fu più veloce e disse:
“Vai
a vestirti fratellino. Devo scegliere cosa mettermi e mentre lo
faccio tu puoi andare a fare la doccia!”
Come
sempre.
Michele
cominciava a litigare, Matteo finiva per essere sgridato e per aver
torto.
Vinto
anche quella mattina, Matteo si alzò mentre Michele Coccuzza
ridendo, spiegava alla folta schiera di telespettatori di Uno Mattina
le proprietà terapeutiche e anti-età del pompelmo.
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Capitolo 2 *** -Capitolo 2- ***
Capitolo
2
Tagli
sul legno.
Una
scala dei pompieri appoggiata su di un albero che si stagliava con le
sue foglie quasi sempiterne contro il cielo plumbeo di quella mattina
uguale alle altre, adornava il noioso paesaggio di un quartiere bene.
Il
Liceo Classico 'Galileo Galilei' iniziava una nuova giornata.
Mentre un pompiere si arrampicava su di uno degli alberi del piccolo
parco di fronte la scuola per salvare un micio che non riusciva a
scendere, i motorini cominciavano a riempire i parcheggi di fronte la
scuola e gli alunni, in attesa del suono della campanella,
attendevano davanti ai portoni ridendo e scherzando.
La
vita in un liceo è piena di colori: di quelli dei giubbini e
delle sciarpe degli studenti; delle risate e delle parole, delle
parolacce, dei baci sui motorini davanti alla scuola; dei secchioni
poco attraenti invidiosi di tutti quei ragazzi con le moto bellissime
e il fisico atletico; dei ripetenti bulli che rendono la vita
impossibile ai ragazzi più giovani di loro prendendoli in giro
o mettendo in atto scherzi idioti che avrebbero segnato per sempre i
ricordi liceali dei poveri malcapitati.
Come
in tutti i licei, anche al Galilei si parlava di baci, di amori e di
prime volte. Di traduzioni di greco o di latino, di appunti di
matematica per un interrogazione impossibile, oppure si andava alla
disperata ricerca di un bignami, amico fidato dello studente ozioso,
per raccogliere informazioni essenziali sulle vite degli scrittori e
delle loro opere più importanti.
Quella
fiumana di persone, quella moltitudine di voci, di risate, di
sorrisi, riempiva la strada di fronte al liceo come sempre.
Infreddoliti, gli studenti del liceo classico con le loro storie,
speranze, sorrisi e vivacità stavano già con la testa
persa nelle vacanze di Natale, fiaccati da un mese di scioperi e
qualche giorno glorioso di occupazione, criticato da quelli degli
Istituti Tecnici, che parlavano di proletariato e li definivano figli
di papà. E poco importava se non era così per tutti, se
dentro il Liceo Classico Galilei ci fossero anche dei ragazzi che non
appartenevano all'alta borghesia; una volta dentro quel Liceo si
diventava come tutti gli altri. Come tutti quei figli di papà
con la puzza sotto il naso, che non dovevano manifestare per diritti
che loro avevano per nascita.
Le
solite stronzate partitistiche.
Il
pompiere scendeva lentamente dalla scala, con il piccolo micio che
miagolava disperato.
Qualche
ritardatario parcheggiava la moto proprio nel momento in cui la
campanella trillava e riempiva con la sua eco gli enormi corridoi dai
soffitti alti, pieni di affreschi.
Subito
sul pavimento a scacchiera, la eco della campana venne sostituita da
quella indistinta di mille voci e lo scalpiccio dei piedi di mille
ragazzi diventava il frastuono di un plotone che marcia contro il
nemico. O per lo meno era quello che si poteva immaginare se si stava
dentro ad una classe.
Nella
sezione D della terza liceo del Classico Galilei, alle otto e un
quarto di quel martedì di dicembre, come tutte le mattine, la
classe era deserta. Deserta tranne che per una ragazza minuscola, con
le mani coperte da un maglione troppo lungo, che in silenzio
tracciava con una lama tolta da un temperino una parola nel banco già
scorticato da lei o da suoi compagni altrettanto incivili:
PAURA. Tagli nel legno che lei incideva giornalmente.
Perché,
alle volte, nelle classi dei licei, perfino in quelle di un istituto
tecnico pieno di figli dei proletari abituati a combattere ogni
giorno e ben lontani dall'essere nati con il culo nel burro, ci sono
delle storie che non si raccontano, vite che non vengono vissute, che
non vivono in un silenzio creato artificialmente e
artificiosamente.
Le
mani di quella ragazzina che incidevano sul banco pensieri che
nessuno decifrava, erano una parte della sua storia sconosciuta e per
quel momento dovevano rimanere coperte.
La
ragazza dell'ultimo banco era come un oggetto, come una pianta
che è viva e che respira, ma che non muovendosi e non parlando
viene ignorata da tutti.
In
classe tutti conoscevano il suo nome, ma i suoi compagni non lo
usavano mai. Dal primo giorno di scuola, nella gloriosa quarta
Ginnasio che contava tra i suoi iscritti Molinari, il figlio del più
noto notaio della città e Ambrosi, figlia dell'unica Miss
Italia che la città poteva vantare -e che sembrava davvero
aver ereditato la bellezza materna- era entrata anche quella ragazza
silenziosa ed enigmatica che si era messa a sedere da sola all'ultimo
banco, quello vicino alla finestra e non si era mai curata di
stringere rapporti d'amicizia con i suoi coetanei, anzi, li evitava
accuratamente. Quell'assenza di contatti suscitò l'ilarità
dei compagni che cominciarono ad additarla come diversa, come
anormale. Per gioco, per puro divertimento, cominciarono a chiamarla
'la ragazza dell'ultimo banco', poi, con il passare dei giorni
e dei mesi, quello divenne il suo nome e nessuno la chiamò in
maniera differente.
Nessuno
sapeva nulla di lei o si interessava a raccogliere informazioni sul
suo conto. Infondo, fare così era la cosa più ovvia,
più normale, almeno con una che di normale non aveva nemmeno
il modo di vestire e sembrava uscita da un video dei Nirvana. Di lei
si sapeva solo che sua madre stava con uno che non era il padre; che
non aveva un amico o un'amica e che spesso la si vedeva persa nei
suoi pensieri, osservando le nuvole fuori dalla finestra. Il suo
mondo era una scorza dura, difficile da bucare. Lei era misteriosa.
Silenziosa e soprattutto strana.
Nessuno
si era mai chiesto, o aveva anche solo osato farlo, se quella strana
ragazza fosse felice. Tutti erano troppo impegnati ad evitarla,
troppo spaventati da quei silenzi, da quei vuoti che non possono fare
parte della vita spensierata di un ragazzino del liceo.
La
lasciarono lì nel suo cantuccio fatto di sogni mai detti, di
scritte tatuate sul banco con un temperino e con la finestra che si
apriva sul cielo. Cinque anni di anonimato e di solitudine; di risate
sommesse e di sguardi annoiati rivolti per puro caso verso di lei. E
che lei non ricambiava mai, se non per sbaglio.
Nulla
cambiò fino al settembre di quell'anno quando Matteo Zanin
entrò nella classe e venne presentato dalla professoressa
Genovesi come il nuovo acquisto della classe. Tutti ascoltarono la
presentazione della professoressa che faceva i soliti discorsi
barbosi sulla speranza che Matteo si dimostrasse ancora lo studente
diligente che le avevano detto fosse e che il suo curriculum mettesse
voglia di studiare anche ai suoi nuovi compagni di classe.
Fu
allora che la ragazza dell'ultimo banco tornò alla ribalta.
Alle
volte ci vuole poco perché la storia cambi. Qualcuno parla di
destino, qualcun altro di fatalità, che poi sono le stesse
cose, solo con nomi differenti. Nessuno immaginava, però, che
quella mattina di settembre, mentre il sole stava alto nel cielo
azzurro, facendo sognare agli alunni ancora le vacanze al mare,
quando la professoressa Genovesi indicò l'unico posto libero
dell'aula -quello dell'ultimo banco vicino alla finestra-, quando con
passo lento e annoiato Matteo posò la sua borsa nell'unico
posto libero nella classe e ci trovò una ragazza che non aveva
notato entrando, qualcosa si mise in moto.
La
stessa ragazza, Matteo, l'avrebbe spiata di nascosto per tutti quei
tre mesi, periodo nel quale avrebbe cercato il minimo spiraglio nel
quale potersi intrufolare per poter capire più di lei, della
sua storia non raccontata. Dei suoi sorrisi persi davanti alle nuvole
che correvano veloci nel cielo.
Perché
quel ragazzo entrato in una terza liceo qualsiasi, piena di tutti
quei colori, discorsi e pensieri che riempiono la vita di ogni
giovane, inaspettatamente, avrebbe mostrato a se stesso e a tutta la
sezione che nulla è come sembra e che bisogna scavare infondo
per capire qualche cosa di qualcuno. Anche se quel qualcuno non è
intenzionato a dirci nulla.
Un'altra
giornata uggiosa.
Nadia
odiava le giornate uggiose. Le mettevano tristezza e la facevano
pensare. E lei odiava pensare.
Specialmente
quella mattina.
'Shh!
Vuoi che ti senta?'
Inutile,
pensò Nadia. Aveva capito tutto anche senza sentire.
'Tu
lo sai che io ti voglio bene, vero?'
Nadia
lo sapeva che aveva sbagliato di nuovo. Come sempre nella sua vita,
come quella volta tanti anni prima quando ancora era una bambina.
Ricordava
i suoi singhiozzi. Ed erano tanto simili a quelli di quella notte.
'E
stai ferma, cazzo! Lo vedi che così mi faccio male?'
Forse,
quei singhiozzi erano i suoi, quelli che soffocava nel cuscino,
cercando di non gridare la sua disperazione, di non mostrare che lei
sapeva e quindi essere complice silenziosa di quello scempio.
Per
non alzare un polverone su scala nazionale, che avrebbe messo alla
berlina tutta la sua famiglia.
Nadia
si era appena alzata. Erano le nove. Tutti erano andati via. E lei
era sola. Sola con il silenzio opprimente, quasi asfissiante di
quella casa. Con le pantofole felpate, di quelle carine con i pompon,
la vestaglia che le copriva le spalle e che lasciava intravedere
appena una sottoveste nera con il bordo della gonna in pizzo. Nadia
si avvicinò alla finestra e la spalancò completamente.
Rabbrividendo un po', passando una mano sul braccio coperto dal
sottile strato di seta e affacciandosi guardò la strada
ordinata e pulita del quartiere per bene dove abitava.
Un
camion con una scala e degli operai sopra sistemava una delle
luminarie che si stavano staccando. E non ci si poteva permettere di
certo una cosa simile durante le vacanze di Natale, quando tutti
escono dalle case sfidando il freddo per guardare le vetrine e
cominciare a pensare ai regali da mettere sotto l'albero.
Nadia
scosse la testa e tornò dentro. Quell'aria di festa la
opprimeva ancora di più del silenzio nella sua casa. Lasciò
la finestra spalancata e si avvicinò alla porta di cucina.
Dentro c'erano i resti della colazione mangiata in fretta dal suo
compagno, la caffettiera semiaperta sulla cucina e una tazzina dentro
il lavello. Una giornata come le altre. Una giornata uguale a tante
in una vita silenziosa, vissuta tra le lacrime e i dolori infiniti;
tra le delusioni e i dispiaceri. Triste e grigia come quel cielo di
metallo che sovrastava la città che si svegliava e che si
preparava a respirare a pieni polmoni lo smog della popolazione che
produce, che si muove, che lavora.
Non
come Nadia che stava chiusa in quella casa da tanto, troppo tempo.
Nadia
era sempre stata debole, fragile, incapace di contrapporsi al mondo
che le aveva sferzato addosso sin dall'inizio.
Nadia
era una donna triste, nata vecchia, che portava sulle spalle, sin da
quando era una bambina, un senso di colpa che difficilmente avrebbe
cancellato e al quale, di giorno in giorno, si aggiungevano paure e
rimorsi che la facevano tenere aggrappata al bordo della sua
esistenza con le unghie.
E
Nadia cominciava ad essere stanca di stare aggrappata.
Lei
non era nata per combattere. Lei non voleva nemmeno combattere.
Sin
da quando era piccola le cose erano state difficili. Era nata di
piedi, di lunedì. La luna era piena quel giorno. Sua nonna,
una donna che aveva vissuto le disavventure delle Seconda Guerra
Mondiale e che aveva sotterrato due mariti, disse che quelli erano
segni avversi del destino: che solo per il fatto di essere nata di
piedi significava che aveva cominciato la sua vita camminando; che la
Luna avrebbe controllato la sua vita e la sua testa sarebbe stata
piena d'acqua affinché potesse controllare, la luna, per bene
ogni sua mossa e renderla fallimentare.
All'inizio
nessuno aveva voluto crederci. Detti popolari come quello avevano
preso il posto della scienza illuminata, della fatalità
appunto. Nessuno è destinato a qualche cosa. Nessuno ha
scritto quello che siamo prima che noi stessi nascessimo.
Nadia
aveva scoperto da subito che non era così.
Aveva
più ricordi brutti che belli. Più cicatrici nel corpo e
nell'anima di chiunque altro al mondo.
Prese
una tazzina e versò il caffè. Lo zuccherò appena
e lo sorseggiò. Era freddo, ma non le importava. Lo bevve
tutto e poi, con movimenti meccanici, mise la sua tazzina vicino a
quella del compagno, si avvicinò al balcone e lo spalancò
guardando un palazzo in costruzione proprio davanti al suo.
Era
uno scheletro di travi e di mattoni, una sorta di bocca piena di
denti acuminati che si ergevano minacciosi davanti a lei. Vinta da
quella paura infantile, Nadia si allontanò e lasciò il
cantiere alle sue spalle.
Stava
andando in camera sua, quando vide la porta di quella di sua figlia
socchiusa. Era la prima volta che succedeva da tanto tempo. La prima
volta che sua figlia lasciava uno spiraglio aperto al mondo. Uno
spiraglio aperto a sua madre. Nadia appunto.
Con
mano tremante spinse l'uscio ed entrò nella camera ordinata,
che profumava di sua figlia e che era piena di lei anche quando era
assente.
'Profumo
di vaniglia' pensò sorridendo Nadia annusando il profumo che
portava la ragazza.
Alle
pareti c'erano poster di cantanti moderni e no. C'era Ligabue che
capeggiava alla testata del letto, le braccia aperte, il mento
all'insù, la chitarra davanti.
Era
stata Nadia a far amare Ligabue a sua figlia. Era stata lei a mettere
in continuazione il CD di 'Buon Compleanno Elvis' nel lettore
e sua figlia, che allora aveva solo tre anni e che ancora non parlava
bene, aveva imparato a memoria tutte le canzoni. Da allora Ligabue
era diventato uno di loro. Uno di famiglia, insomma.
Lui,
la sua voce roca, la sua filosofia alle volte profonda, alle volte
spiccia.
Ora
non le univa più nemmeno quello. Solo sua figlia era rimasta
fedele al Liga. I CD capeggiavano nella colonnina tutti assieme,
belli in vista. Frasi delle canzoni del Liga erano scritte con
l'UNIPOSCA sulle ante degli armadi e sulla scrivania.
Nadia
si guardava intorno sentendosi una intrusa in quel mondo che non le
apparteneva più, dal quale se ne era andata senza fare rumore.
Guardò
il letto accuratamente rifatto e vide un orsacchiotto piuttosto
vecchio e malconcio sul lato destro. Si avvicinò e mettendosi
a sedere prese il giocattolo e lo strinse al petto. Quello era il
primo regalo che Nadia aveva fatto a sua figlia. E forse uno dei più
sentiti.
Mille
ricordi affiorarono lentamente alla mente di Nadia. Risate, colori,
vita. Un periodo così lontano che non le sembrava nemmeno
possibile che lei stessa lo avesse vissuto assieme a sua figlia.
Lacrime
calde bagnarono il volto di Nadia: da quando piangere era diventata
un'abitudine? Da quando piangere era diventato più semplice di
bere un bicchiere d'acqua?
'Smettila!
Tanto lo so che ti piace...'
Ecco
da quando. Da quando il mostro era entrato tra di loro.
'Una
puttana! Ecco cosa sei! Come tutte le tue amiche'
E
i mostri non hanno sempre la faccia brutta e cattiva. Alle volte
aspettano qualche tempo per diventarlo. Alle volte, quando si
trasformano in quello che sono realmente sono più pericolosi
di quelli che mostri lo sono sempre stati.
'Tanto
lo so che ti piace. E muoviti cazzo!'
Ed
era solo colpa sua. Il mostro, le sue frasi sussurrate nella notte,
la sua bella faccia che si sfigurava nel momento della
trasformazione, erano entrati nella vita di Nadia e di sua figlia per
caso. E da allora il buio era diventato loro amico. E così la
paura e il dolore.
Il
mostro aveva preso in mano le loro vite. Le aveva spaventate e aveva
cancellato il loro rapporto di affetto. Erano sparite le risate,
erano morti i colori.
Nulla
era come prima in quella casa.
E
Nadia sentiva che era solo colpa sua.
E
stringendo l'orsacchiotto forte al petto, quello stesso orsacchiotto
con la faccia buffa che l'aveva salutata dallo scaffale di un negozio
quindici anni prima, pianse forte.
Come
aveva fatto quella notte, come stava facendo poco prima. Come faceva
sempre da sei anni a quella parte, ormai.
Da
un po' di tempo la ragazza dell'ultimo banco era strana. Anche se
parlare di stranezze quando si trattava di lei era una cosa
ordinaria. Lei era sempre strana. Lei era sempre silenziosa e
assente.
Nessuno
si curava anche solo di capire quale fosse il motivo di quella
stranezza, nessuno era veramente interessato a lei nella sua classe.
Ormai avevano fatto il callo a quella ragazza strana e non si
rendevano quasi conto che lei, in quelle ultime settimane era
cambiata per davvero.
Un
tempo era facile sentire la sua voce fine, come quella di una persona
che non ha parlato per molto tempo, alle interrogazioni. Ora, sempre
più di frequente, la ragazza dell'ultimo banco non accettava
le chiamate alle interrogazioni e collezionava dei voti quasi
irrecuperabili in tutte le materie. Il suo volto sparuto era
diventato una maschera bianca, indifferente a tutto, perfino alle
nuvole bianche. Al contrario, passava ore ad incidere sul banco
quelle parole che sembravano lasciate al caso ma a cui solo un ottimo
osservatore riusciva a dare un senso. E a Matteo Zanin quelle parole
frullavano continuamente in testa.
C'era
qualche cosa di spaventoso in quelle parole, un messaggio scuro che
Matteo aveva decifrato da un mese ormai, prima che cominciasse la
mesata degli scioperi, delle autogestioni e delle occupazioni.
Da
un mese, infatti, Matteo cercava il coraggio di agire, di sfondare
quella porta sprangata che era il cuore della sua compagna di banco e
costringerla ad uscire fuori e vedere la vera luce del mondo.
La
ragazza dell'ultimo banco non lo sapeva. Viveva nel suo mondo
ermetico, lontana dai pensieri altrui e dai suoi. Non immaginava che
quel ragazzo che non amava le sfide, che non amava prendere
iniziative e che si nascondeva dietro la sua straordinaria
intelligenza, dietro il suo innato acume che gli permetteva di
decifrare qualsiasi carattere matematico e no, preferendo di gran
lunga indossare la sua maschera di ragazzo indolente per non mostrare
le sue debolezze agli altri, avrebbe cambiato le vite di entrambi con
un inatteso gesto di coraggio, rendendo più vivibile quella
vita vivacchiata che lei e Matteo avevano vissuto fino a quel
momento.
Alla
fine aveva fatto davvero tardi.
Michele,
nella sua moto 125, si toglieva il casco e sistemava i ricci
guardandosi nel finestrino di un'auto lì vicino. Matteo,
sospirando frustrato, si voltò e guardò la camionetta
dei pompieri allontanarsi, mentre una vecchietta stringeva al petto
un gattino, rassicurandolo. Sollevò poi gli occhi al cielo e
sospirando cercò di trapassare quella massa omogenea di nuvole
scure che oscuravano il sole. Odiava le giornate uggiose, gli
mettevano tristezza.
Sistemando
la sciarpa, Matteo, si voltò verso il fratello e disse:
“Vuoi
muoverti? Arriveremo in ritardo?”
Michele
sbuffò e prendendo i libri che Matteo aveva messo nella sua
borsa, ironizzò:
“Scusami
secchia. Non volevo farti arrivare in ritardo...”
Matteo
scosse la testa arreso. Era inutile mettersi contro il fratello.
Significava litigarci e arrivare alle mani e quelle poche volte che
era successo, Matteo lo ricordava ancora bene, aveva portato i segni
per giorni e giorni.
“Senti!
Io vado. Ci vediamo all'uscita!”
“All'uscita
non posso. Vado a casa di Liliana a studiare!” sorrise Michele.
Matteo
si voltò. Il nome di una ragazza e il verbo studiare in una
frase nel linguaggio del fratello facevano a pugni. Anzi! Entravano
in conflitto come quando usi qualche programma assieme ad un altro
nel PC.
“Studiare?”
domandò poco convinto.
Michele
guardò il cielo con aria indifferente e rispose:
“Sai!
Sono un po' indietro in latino e ho pensato che Liliana mi potesse
aiutare!”
“Io
sono un anno avanti a te come programma! Perché non lo hai
chiesto a me?” chiese ancora Matteo.
Michele
sorrise malizioso. Stava per rispondere quando la seconda campanella
suonò. Matteo fece un gesto con la mano e seccato disse:
“Ho
capito! Torno a casa in autobus!” e senza aspettare la risposta
del fratello entrò dentro l'istituto.
A
testa china, Matteo, percorse piuttosto velocemente i corridoi del
liceo, dove ancora riecheggiavano le voci degli alunni riversati sui
corridoi.
Pensava
a mille cose: alla sua rendita scolastica che era abbastanza
soddisfacente; pensava ad Elena, la bella ragazza della quarta liceo;
pensava a suo fratello che si preparava a fare sesso con la sua nuova
ragazza, dimenticando completamente Daria, sua ragazza per quasi due
anni, con la quale Michele aveva condiviso un letto di fortuna
durante le occupazioni dell'anno prima, nel Liceo Classico
'Alessandro Manzoni' e con la quale aveva dovuto affrontare la
terribile prova di un aborto, quando scoprirono che il risultato di
quelle notti di protesta era un bambino.
Pensava
a tutto questo, Matteo. E pensava a lei. Alla sua compagna di classe.
Alla ragazza dell'ultimo banco e ai suoi tagli nel legno.
Arrivò
davanti alla sua classe e sentì la risata di Ambrosi, la
ragazza più bella della classe nonché l'infelice
ragazza di Molinari, che rideva abbracciando Rinaldi mentre
Veranocchia guardava con cupidigia Molinari che senza degnarla di uno
sguardo, parlava con Rossi, suo amico del cuore, fissando serio Lara
Landolfi che, poco lontano, rideva piano con Satta, la sua compagna
di banco e amica del cuore.
Mattioli
uscì dalla classe. Guardò Veranocchia e un sorriso
malvagio si dipinse sul suo volto. Quasi gonfiò i polmoni
perché lo sentissero tutti e disse:
“Veranocchia!
È inutile che lo guardi così! Non tira nemmeno con il
vento davanti a te!”
La
povera Veronica Fassi sbarrò gli occhi e raddrizzò la
schiena, come colpita da una pugnalata. Non ebbe il tempo di vedere
Molinari guardarla con sorpresa prima, scoppiando a ridere poi.
Veronica, a testa china corse nel bagno delle ragazze, non prima di
inciampare nel piede che Mattioli aveva teso, permettendo a tutti i
presenti, Molinari e Mattioli più degli altri, di ridere di
cuore. Non pago, Mattioli, quando la vide sparire nel bagno delle
ragazze entrò in classe.
Non
c'era nessuno se non la ragazza dell'ultimo banco. Non la degnò
di uno sguardo e diresse la sua enorme figura verso la lavagna e
prendendo il gesso scrisse 'VERANOCCHIA FESSA FACCI CAGARE!'.
Divertito
poggiò il gessetto accanto alla cimosa e sbatté le mani
con forza per togliere la polvere, si voltò e vide gli occhi
chiari della ragazza dell'ultimo banco fissarlo. Sentendosi in
imbarazzo per via di quegli occhi puntati addosso, Mattioli si bloccò
un attimo, poi voltandosi, riprese il gesso e lo lanciò contro
la ragazza dell'ultimo banco. Lei non reagì nemmeno quando,
passandole vicino all'orecchio, il gessetto andò a schiantarsi
contro il muro dietro lei. Continuò a fissare Mattioli in
silenzio e lui, chinando la testa biascicò un mezzo:
“Sfigata!”
e uscì dalla classe per lasciarla di nuovo da sola.
Fu
così che la trovò Matteo. Seduta nel suo banco, da
sola, che incideva parole nel legno.
Fu
in quello stesso momento che la professoressa di latino entrò
in classe, seguita da tutti gli alunni e una strana sensazione si
impadronì di Matteo. Qualcosa che il diciottenne intuì
essere coraggio, si rimescolò nelle sue viscere e veloce
raggiunse il cervello permettendogli, con passo svelto di raggiungere
in fretta il fondo della classe. Come il primo giorno di scuola, tre
mesi prima, poggiò lo zaino sul banco. Nessuna reazione come
allora, con l'unica differenza che il primo giorno di scuola, lei, la
ragazza dell'ultimo banco, guardava con interesse le nuvole, quel
giorno, invece, continuava maniacalmente a ricalcare la parola che
aveva tracciato con la lama smussata.
Matteo
spostò la sedia e si mise a sedere. Frugò nello zaino,
con il pretesto di cercare qualche cosa, poi, dopo aver tolto il
libro di latino, si voltò verso la sua vicina di banco e con
il cuore che gli batteva anche nelle orecchie per la paura e
l'emozione, dando una rapida occhiata alla parola PAURA che la
ragazza aveva tracciato, fece una cosa che in quei tre mesi non aveva
ancora fatto: le parlò.
“Io
so il tuo segreto!” le sussurrò all'orecchio sovrastando
la professoressa Castelli che a voce alta disse:
“Mattioli
e Gardini. Lo sapete vero che oggi vi devo interrogare. E non accetto
scuse...”
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Capitolo 3 *** -Capitolo 3- ***
Vorrei
scusarmi se negli scorsi capitoli non mi sono presentata.
Lo
faccio sempre ma non dovendo mettere nessuna precisazione
sull'appartenenza dei personaggi, non ho proprio pensato di scrivere
chi sono.
Allora!
Scherzi a parte... Mi chiamo Niniel82 ed è la prima volta che
scrivo in questa sezione.
Se
avete letto le trame del concorso letterario che è stato
indetto sul sito, avrete letto anche la trama della mia storia. Forse
^___^!!!
LA
RAGAZZA DELL'ULTIMO BANCO, infatti, è nata con l'idea di
essere pubblicata come one-shot per concorrere al famoso concorso ma,
a quanto pare, non è andata come speravo.
All'inizio
ci sono rimasta un po' male, lo ammetto, ma ora mi rendo conto che ho
avuto la possibilità di rendere un po' più profonda la
storia e di caratterizzare di più i personaggi.
Ecco
perché da una shot ho scritto una long per spiegare meglio
degli aspetti che nella shot potevano solo diventare marginali.
Ringrazio
chiunque ha letto i due capitoli ed elliepotter che ha recensito.
Per
me è importante sapere che cosa pensate della mia storia. È
la prima originale che pubblico e vorrei davvero avere una vostra
recensione. Accetto tutte le critiche, basta che siano costruttive e
non offendano l'altrui persona.
Voglio
inoltre ricordare che i fatti narrati nella storia sono inventati
qualunque somiglianza dei fatti, luoghi, personaggi descritti è
puramente casuale.
Un
bacio a tutti. Niniel.
Buona
lettura.
Capitolo
3
La
faccia del mostro.
“Io
conosco il tuo segreto!”
La
voce di Matteo era un soffio quasi impercettibile mentre Gardini
ridava:
“Ma
prof! Non può interrogare!”
La
professoressa Castelli era una donna con gli occhi neri e piccoli, i
capelli corvini sempre raccolti, con una grande passione per e lingue
morte che, nonostante ci provasse con tutto il cuore, non riusciva a
far sentire ai suoi alunni.
Era
la classica professoressa tutta di un pezzo che sapeva tenere in
pugno tutta unaclasse con un solo sguardo. Ecco perché
Gardini, vedendo lo sguardo che le venne rivolto dalla professoressa
si gelò sul posto.
“E
qual sarebbe il motivo di grazia? Non è Lunedì e non mi
sembra neanche tu non abbia avuto il tempo di studiare, dato che
tutte queste cose le ho spiegate molto prima che cominciasse la
stagione degli scioperi!”
Tutti
sghignazzarono. Molinari fece spallucce e diede una pacca sulla
spalla a Gardini e disse:
“Ci
tocca!” e prendendo la sedia si avvicinò alla cattedra
con il libro di latino in mano.
Gardini
lo seguì.
Tutti
erano troppo presi a guardare l'interrogazione, per vedere la strana
reazione della ragazza dell'ultimo anno.
Con
gesti lentissimi, quasi impercettibili, smise di calcare sulla ferita
che aveva procurato al legno del banco e gli occhi azzurro scuro si
voltarono verso di lui. Erano spaventati. Sembrava quai che si
stessero scurendo mano a mano che passavano i secondi diventando due
pozze scure in cui Matteo poteva essere risucchiato dentro.
Sembrava
quasi che il tempo si fosse fermato solo per loro. Non c'erano più
le grida, le risate, la voce acuta della professoressa Castelli, ma
solo la ragazza dell'ultimo banco e Matteo, che si fronteggiavano in
silenzio, come due pistoleri silenziosi in un dello a mezzogiorno.
Matteo
deglutì e sospirando disse:
“So
che aspetti un bambino!”
Quello
fu il colpo finale. La pelle già bianca divenne quasi
opalescente. La ragazza si trasfigurò per un attimo, come se
solo scoprendo il suo segreto si fosse finalmente liberata da un peso
che la opprimeva. Ma durò poco. Gli occhi azzurri si ridussero
a due fessure scure, piene di rancore e la ragazza, con la sua voce
piccola piccola, ma simile ad un sibilo di serpente, lo minacciò:
“Se
provi a dire a qualcuno che sono incinta...”
“Non
lo voglio dire a nessuno. Voglio solo aiutarti!” rispose in
fretta Matteo.
La
ragazza dell'ultimo banco sollevò un sopracciglio raddrizzando
la schiena. Il maglione si tese e sotto si vide per un attimo la
perfetta forma ad ovetto del ventre.
“Vuoi
aiutarmi?” chiese quasi divertita la ragazza.
“Sì!”
rispose deciso Matteo, non sapendo nemmeno lui da dove togliesse
fuori tutto questo coraggio.
La
ragazza lo guardò con interesse per un attimo, poi prendendo
di nuovo la lama, senza dire nulla, riprese a ferire il suo banco.
Matteo
si sentì perso. Si guardò intorno. La Castelli stava
facendo tradurre un pezzo di Seneca a Molinari. Mattioli sghignazzava
divertito, mangiucchiando caramelle colorate che teneva nascoste
sotto il banco. Erano invisibili. Ma non gli importava. Matteo voleva
attirare l'attenzione della compagna, riuscire a scucirle una parola,
qualche cosa che gli facesse capire i sentimenti di quella ragazza
che condivideva con lui il banco , involontariamente, le sue paure
con Matteo. E in un estremo tentativo di attirare l'attenzione della
ragazza mormorò:
“Di
cosa hai paura? Del mostro per caso?”
Per
la seconda volta la lama smussata venne abbandonata e gli immensi
laghi azzurri della ragazza si posarono sul viso pallido del ragazzo,
scrutando la profondità degli occhi scuri del ragazzo che le
sedeva affianco da tre mesi ma che lei osservava per la prima volta
solo in quel momento. Stavolta non c'era paura nel volto della
ragazza, ma cauto stupore. Soppesò a lungo quello che avrebbe
dovuto dire e quando parlò, disse:
“Hai
letto le mie parole?”
Matteo
annuì. La ragazza guardò la parola PAURA e quella
vicina MOSTRO. Sorrise ricordando quello che le diceva la madre
quando era piccola, per farle passare la paura dopo un incubo:
'I
mostri non esistono piccola. Esistono solo nelle fiabe. E sono brutti
e cattivi!'
In
quegli anni aveva imparato invece che il mostro può uscire dai
libri di fiabe, può indossare i vestiti di un comune essere
umano a modo e rispettabile. Ha una bella macchina, un bel lavoro.
Nel palazzo dove abita tutti lo conoscono e lo salutano. Lui risponde
con un sorriso e chiede sempre a tutti come è stata la
giornata. Un uomo normale. Talmente normale che non desta sospetti.
“Leggo
quelle parole da un po'. Non puoi affrontar tutto da sola!”
pigolò ancora Matteo.
Come
potrebbe un uomo così affabile con tutti, essere un mostro?
Come
potrebbe un uomo che porta la spesa alle vecchiette compiere atti
atroci verso un fiore?
Eppure
ci riescono. Perché i mostri non hanno che a cuore se stessi.
Non hanno amore per nessun altro che per la loro persona. E curano
in maniera maniacale la loro reputazione di uomini perfetti.
Quante
volte, quando ne parlano i giornali, si sente dire:
“Ma
era un brav'uomo. Non me lo sarei mai immaginato, sa?”
I
mostri sono subdoli. Entrano nella tua vita con un sorriso,
promettendoti amore. Ma poi, quando tutto comincia a cambiare,
dell'amore che promettevano all'inizio, i mostri non ne hanno più.
I
mostri amano il ficus che tengono fuori dalla porta, che addobbano in
maniera ridicola quando è Natale.
Il
Mostro ama il silenzio. Guai se solo qualcuno prova solo ad alzare
la voce. Prova a gridare. Si arrabbia, diventa nervoso.
Il
Mostro quando non sa come passare il tempo chiude tutte le finestre.
“Questa
è una richiesta d'aiuto!” disse Matteo indicando la
superficie scorticata del banco.
Allenta
il nodo della cravatta e accendono il bellissimo televisore ultimo
modello che nessun altro, tranne lui, può toccare. Si avvicina
al tavolo degli alcolici e sceglie un bottiglia.
“Mio
padre è un militare! Un generale. Se io gli dico quello che ti
è stato fatto, lui ci può aiutare!” continuò
Matteo, guardando la ragazza che fissava un punto davanti a sé
in silenzio.
Beve
qualche cosa di forte. Canticchia gettando un occhiata al salotto. Ti
chiama. Tu devi andare subito da lui. Il Mostro si arrabbia se non
si fa come dice.
Ti
guarda quando entri in camera chiedendoti per che cosa porta tutti
quei soldi a casa, lui, se poi vai in giro vestita come una
stracciona.
“Qualcuno
ti ha fatto del male?” continuò il ragazzo.
Sembra
arrabbiarsi. Il Mostro quando si arrabbia fa paura. Chiudi gli occhi
e lui si rende conto di averti spaventato. Sorride bevendo un altro
sorso dal suo bicchiere. Ti chiede di avvicinarti. Tu lo fai poco
convinta, ma lui non se ne accorge.
“Devi
dirmelo! Giuro! Non voglio prenderti in giro e andare a raccontarlo a
tutta la scuola. Davvero!” continuò Matteo.
Ti
chiama e ti chiede di sedergli in grembo, sorridendo. Ti accarezza i
capelli, ne aspira l'odore. Senti un brivido freddo correrti lungo la
schiena. Il Mosto è pronto ad attaccare. Lo sai. Si sta già
trasformando, lentamente.
“Se
è così me lo devi dire. Io ti voglio aiutare. Non siamo
tutti mostri come credi!” cercò di convincerla Matteo.
Ti
accorgi della sua erezione. Cerchi di alzarti, divincolarti, ma la
sua indole è già uscita fuori. Ti sovrasta, ti
schiaffeggia se provi a morderlo a tirare calci. Poi ti blocca. E la
trasformazione avviene quando senti il rumore della zip e senti che
ti penetra.
Non
ci sono più i cartoni animati di quando eri bambina, i sorrisi
di tuo nonno che ti insegnava ad andare in bici. Lui li ruba in un
secondo, il tempo che le basta per minacciarti, per spaventarti. E
guai se provi anche solo per un attimo a ribellarti. Tua madre che
piange in cucina e la sua prossima vittima e tu lo sai. E mangerà
anche lei.
“Greta!
Greta mi senti?”
La
ragazza dell'ultimo banco si voltò guardando con rinnovata
sorpresa il suo compagno. E per la prima volta da quando si
conoscevano, Greta Balestrieri sorrise. E non per circostanza. Non
per cortesia. Greta Balestrieri, la ragazza dell'ultimo banco quella
a cui nessuno voleva parlare perché lei non parlava con
nessuno, quella strana, quella pazza, si rese conto per la prima
volta che qualcuno, per davvero le stava tendendo una mano. Qualcuno
l'avrebbe aiutata a uscire da quell'incubo una ola per tutte.
“Gardini!
Molinari! Potete andare a posto. Tre a tutti e due!”
La
campanella suonò. La Castelli guardò l'ora e prendendo
il cappotto e la sua borsa on i libri e il registro uscì
salutando gli alunni che non ebbero tempo di far chiasso che subito,
Marchesi, il professore di matematica, entrò in classe
annunciando:
“Oggi
si spiega! Siamo a Dicembre e non abbiamo cominciato nemmeno il
ripasso! Aprite il libro del quinto anno a pagina ventisei. I
logaritmi!”
Greta
frugò la borsa e prese un fogliettino da dentro la sua agenda.
Scrisse veloce e porse il foglietto a Matteo che lo lesse:
'IL
MOSTRO MI ASPETTA ALL'USCITA, OGGI. PORTAMI CON TE E PROMETTO CHE TI
SPIEGO TUTTO!'
Matteo
annuì. Accartocciò il foglio nel momento in cui il
professore si alzò per andare alla lavagna e scrivere una
formula alla lavagna. Guardò Greta e sorrise. Si sentiva fiero
di sé, aveva fatto qualche cosa di coraggioso e non aveva
avuto bisogno di un adulto.
“Mi
raccomando. Studiate bene questo capitolo che giovedì
interrogo. E poi non venite a dirmi che non ve l'ho detto!”
La
professoressa Mandelli gridò inutilmente cercando di superare
il frastuono dei banchi che venivano spostati. C'era un momento in
cui tutta la classe non ascoltava nulla. E quello era al suono
dell'ultima campanella.
La
professoressa di letteratura scosse la testa e mise dentro la borsa
scura il registro, preparandosi ad uscire anche lei.
“Possiamo
andare prof?” chiese Rossi che già stringeva il casco.
Ambrosi
stava già mano nella mano con Molinari che con la coda
dell'occhio guardava Landolfi che sistemava i capelli con un gesto
della mano e metteva le ultime cose dentro la borsa, mentre Satta l
chiedeva se volevano uscire assieme quella sera per far un giro al
centro commerciale che avevano appena aperto.
Matteo
indugiò sistemando qualche cosa dentro la borsa, ma Greta
sibilò:
“Muoviti,
pezzo di idiota! Se ci vedono uscire assieme sospetteranno qualche
cosa! Aspettami all'uscita. Tutti se ne saranno andati via ed io e te
potremo camminare tranquillamente!”
Matteo
annuì. In effetti il ragionamento quadrava. Se gli avessero
visti assieme qualcuno avrebbe potuto sospettare ed indagando la
storia del bambino sarebbe venuta subito fuori.
Si
alzò, non rivolse uno sguardo alla ragazza e si avvicinò
a Mancini, un ragazzo con cui era diventato abbastanza amico in
classe e si mise a parlare.
“Prof?”
disse ancora Rossi.
“Quando
suona la seconda campanella potete uscire!” rispose la Mandelli
ricordando: “E mi raccomando. Studiate il capitolo del
Congresso di Vienna. Giovedì comincio ad interrogare e non
voglio scuse. Siete al quinto anno e non ho nessuna intenzione di
portarvi alla fine del primo quadrimestre con NC in pagellina”
“Va
bene prof!” dissero tutti in coro.
Proprio
in quel momento suonò la campanella. Matteo guardò in
direzione di Greta e la vide seduta da una parte che giocherellava
con una ciocca di capelli. Sarebbe uscita per ultima, come sempre.
“Fate
piano!” si raccomandò la Mandelli.
Gli
alunni non ascoltavano. Ridendo Mattioli, Molinari e Gardini facevano
dispetti a Rossi e a Pisano. Ambrosi gridava qualche cosa contro il
suo ragazzo, mentre Landolfi salutava Veranocchia tornava a parlare
con Satta.
“Ti
accompagna tuo fratello?” chiese Mancini a Matteo.
Matteo
scese le scale in silenzio. Non stava nemmeno ascoltando quello che
stava dicendo l'amico. Stava pensando a Greta e a quel sorriso. E per
un attimo un brivido di paura lo percorse: lui non sapeva che cosa
fare! Aveva detto a Greta che la poteva aiutare, ma come avrebbe
fatto.
Sì!
Suo padre era un generale. Ma dell'esercito. Cosa avrebbe potuto fare
nel caso Greta si fosse confessata anche con lui? Di certo non poteva
andare a casa del mostro e bombardarla!
Non
era auspicabile!
Allora?
Cosa avrebbe fatto? Avrebbe chiesto aiuto a suo fratello? Quello, nel
peggiore dei casi, ci avrebbe provato con Greta, peggiorando la
situazione.
Di
parlarne con sua madre nemmeno a pensarci. Quella sarebbe stata
subito sul chi vive chiedendo continuamente a Matteo se il bambino
fosse suo oppure no.
La
nonna viveva da anni nel fantastico delle telenovela e quindi non era
di nessun aiuto.
-In
che guaio mi sono andato a cacciare- pensò Matteo mettendosi
le mani tra i capelli.
“Zanin?
Zanin mi stai ascoltando?”
La
voce di Mancini fece tornare alla realtà Matteo che voltandosi
verso l'amico disse:
“Scusa
ero sovrappensiero. Dicevi?”
Stavano
uscendo fuori dalla scuola. Greta si era mischiata con un gruppo di
ragazzi di quinta ginnasio.
“Ma
ti è successo qualcosa? Hai una faccia!” rispose
Mancini.
Matteo
sospirò e disse:
“Tutto
apposto! Ho solo dimenticato il quaderno di matematica in classe.
Vado a riprenderlo!” e salutando l'amico aggiunse: “Ci
vediamo domani!” e salì le scale.
Mancini
non fece domande e si allontanò. Era quello che Matteo voleva.
Confondersi tra la folla e raggiungere Greta.
Ci
riuscì e quando le fu vicino, prendendo il braccio della
ragazza, disse:
“Seguimi!”
Greta
fece come ordinato. Seguì Matteo e quando furono fuori dalla
scuola, guardandosi attorno, il ragazzo mormorò:
“Dimmi
chi è!”
Il
dito di Greta indicò un punto lontano dall'ingresso della
scuola.
“La
vedi quella BMW la?”
Matteo
annuì senza parlare e Greta continuò:
“Quella
è la macchina del Mostro. Ed è la macchina del padre
del mio bambino!”
Matteo
la guardò sorpreso.
Conosceva
quella macchina. Tutti nella sua classe sognavano di averne una
simile appena presa la patente. E tutti sapevano chi guidava quella
macchina: il patrigno di Greta.
“Mamma
sono a casa!” disse Matteo dopo aver aperto la porta.
“Matteo!
Dov'è tuo fratello?” chiese la madre non sentendo i
figli litigare come erano soliti fare ad ogni ora del giorno.
“Michele
è andato a studiar da una sua compagna di classe!”
rispose Matteo.
La
madre del giovane si affacciò sulla porta. E vide un ragazza,
vestita con abiti da uomo molto più grandi della sua taglia. I
capelli erano arruffati e il viso spaurito, quasi non avesse mai
visto una casa.
Cercò
di sorridere, per apparire il più naturale possibile e
asciugando le mani con un canovaccio e disse:
“Non
ti ho mai vista. Matteo non porta mai nessuno a casa. Quello che
porta le ragazze a casa è il mio più grande, Michele.
Dovresti conoscerlo. Dice di essere molto conosciuto nella vostra
scuola. Ma non ci crede nemmeno lui!” e sorrise tirata.
Matteo
uscì dalla camera e sollevando gli occhi al cielo esclamò:
“Mamma!”
“Che
ho fatto?” chiese risentita la donna. Non le piaceva mai che
suo figlio la sgridasse davanti a chi non conosceva.
“Non
è nemmeno entrata che tu già la stressi!” disse
Matteo prendendo la mano di Greta e portandola in cucina aggiunse:
“Greta è una mia compagna di classe. Oggi pranza con
noi. La devo aiutare a recuperare!”
La
donna raddrizzò la schiena e sbuffando disse:
“Hey!
Guarda bene come parli a tua madre. Quando io avevo la tua età,
se mi permettevo solo di pensare di parlare così a mia madre
nessuno mi risparmiava uno schiaffo di quelli che ti fanno girare la
testa per tre ore...”
“...
Ricordarti sempre che devi portare rispetto a tua madre...”
concluse a bassa voce Matteo aggiungendo poi a voce alta: “Va
bene mamma... Va bene!”
Greta
sorrise mettendo una mano davanti alla bocca. Matteo che stava
guardando dentro il frigo per vedere cosa ci fosse da mangiare, fece
capolino da dietro l'anta del frigo e socchiudendo gli occhi disse:
“Uhm!
Vedo che stai ridendo!”
Greta
incrociò l braccia sul tavolo e chiese:
“Perché?
Non mi credi capace di ridere?”
“Non
è che non ti credo capace di ridere. È che non ti ho
mai visto farlo. E visto che oggi hai sorriso due volte...”
disse matto e si blocco facendo vedere la scatola dei sofficini e
chiedendo: “Ti piacciono? Se non puoi mangiarli fritti li metto
al forno!”
“Sono
incinta non diabetica! Comunque non ho capito se è un bene o
un male che tu mi abbia vista sorridere oggi!”
Matteo
prese una padella da dentro un pensile e sorridendo rispose:
“Tranquilla!
È un bene. Non sei come Mercoledì Addams che quando
sorride spaventa tutti!”
Greta
sbarrò gli occhi e la bocca e fingendosi risentita replicò:
“Cosa
vorresti dire Zanin? Che sembro Mercoledì Addams?”
“Non
ho detto questo!” sorrise Matteo.
I
due cominciarono a ridere e a scherzare mentre la mamma, dal salotto
annuiva nella poltrona vicino alla nonna.
La
vecchia, sentendo le risate chiese alla nuora:
“Che
succede?”
La
madre di Matteo si voltò e sorridendo rispose:
“Matteo
ha la ragazza!”
La
nonna sorrise e tornando a guardare 'Beautiful' disse:
“Ma
guarda tu cosa vanno ad inventarsi questi! L'ho sempre detto, io!
Come 'Sentieri' non ce ne saranno più di telenovala!”
Matteo
stava lavando i piatti in silenzio. Greta, mentre mangiavano aveva
raccontato a grandi linee la sua storia. Di come il Mostro fosse
entrato nella sua vita e in quella di sua madre. Di come tutto fosse
precipitato nel giro di pochi mesi. Gli raccontò delle
violenze, dei brividi quando la porta di camera si apriva a notte
fonda. Gli raccontò delle minacce se avessero provato a
denunciarlo. E del silenzio della madre, troppo spaventata anche per
reagire.
“Mia
madre è una che ha sofferto nella vita. Quando era una
bambina, mentre era in vacanza con i genitori, ha visto morire il suo
fratellino più piccolo. Il nonno dice che è sicuro che
non fosse colpa sua. Mio zio a quando è successo il fatto
aveva appena quattro anni. Ma lei, che era la più grande, non
ha mai potuto sopportare il peso di questa responsabilità. Ha
fatto molte stupidaggini nella sua vita, per non parlare del fatto
che da allora ha cominciato a comportarsi in modo strano e crescendo
ha fatto un sacco di scelte sbagliate. Ecco perché io non
conosco mio padre. Il poco che so è che lo ha conosciuto
durante una vacanza, sono stati assieme per qualche settimana e
quando mamma è tornata in città era incinta di me. Non
volle abortire e mi mise al mondo da sola. Mio nonno la prese molto
male, ma le stette vicino, nonostante tutto... Poi è arrivato
lui...”
Greta
si rabbuiò. Matteo sospirò e disse:
“Il
fatto che tua madre abbia sofferto non è una scusa per portare
un essere simile in casa. Da quando sei nata tu dovrebbe essere
diventata almeno un po' più responsabile, non trovi?”
Greta
scosse la testa e sorridendo amara rispose:
“Tu
parli bene. Tua madre è la classica donna perfetta. Sta a
casa, prepara il pranzo, pulisce, ti stira le camicie. Mia madre è
quella che tutti definirebbero una persona molto immatura, che ama
gli agi ma che non vuole compiere sforzi. E lui le ha sempre dato
questo stile di vita!”
“Ma
tua madre sta con lui perché ha i soldi o per paura?”chiese
Matteo mettendosi a sedere.
“Prima
lo faceva per i soldi. Quando hanno cominciato a stare assieme mia
mamma tornava sempre a casa con un nuovo regalo. Era felice! E quando
l'ho incontrato lui mi ha fatto capire di essere veramente innamorato
di lei. 'Nadia è una donna fantastica. Credo proprio che la
sposerò'. Diceva questo all'inizio. Specchi per le allodole. È
entrato nella nostra casa con la promessa di un matrimonio che ancora
non si è celebrato. Prima ha cominciato a picchiar la mamma.
Poi, una notte d'estate, mentre stavo nel mio letto ad ascoltare
musica, l'ho visto entrare. Quella è stata la prima volta
che... che...”
Matteo
interruppe Greta. Non ce la faceva a sentir dire quella parola. E
giocherellando con i bordi del cesto di vimini che la mamma riempiva
di frutta disse:
“Tu
lo devi denunciare. Se tua madre non lo ama...”
“Se
lo dovessi denunciare perderei mia madre. Lo vuoi capire?” lo
interruppe Greta.
“Una
donna che non sa badare a sé non è il migliore aiuto
che puoi avere mettendo al mondo un bambino a diciassette anni.
Greta... Tu hai bisogno di qualcuno che t aiuti, che ti guidi...”
stava elencando matto quando Greta si alzò in piedi e sbottò:
“Nadia
Balestrieri è mia madre. Mi ha cresciuto e se non avesse
incontrato quel mostro ora le cose sarebbero diverse. Tutti possiamo
incontrare persone sbagliate. Tu non la conosci. Non voglio che a
giudichi... perché se lo rifarai me andrò via. E farò
a meno del tuo aiuto...”
Matteo
rimase in silenzio poi, illuminandosi disse:
“C'è
un modo!” e avvicinandosi a Greta aggiunse: “Se tu
convincessi tua madre a denunciare a sua volta, nessuno vi separerà!”
Greta
ci pensò un attimo e rispose:
“Ha
troppa paura che mi faccia del mal se mai dovesse denunciare!”
“Mio
padre è un militare. Ne parlerei con lui prima di fare la
denuncia. Faremo in modo che non vi possa fare del male...” le
spiegò Matteo.
Greta
gli prese la mano e la strinse forte e con le lacrime agli occhi lo
implorò:
“Non
dire nulla ancora nessuno. Ti prego!”
“Ma
dobbiamo fare qualche cosa...” replicò spaventato
Matteo.
“Dammi
tempo!” implorò sull'orlo delle lacrime Greta.
“Tempo!
Ma sei matta? Quello è pazzo! Potrebbe farvi qualche cosa di
peggio!” le fece notare Matteo.
Greta
scosse la testa e rispose:
“A
Natale siamo in montagna dalla sorella di mia madre. Lui non viene
mai. Ha litigato con la zia e lei non lo vuole in casa. Una volta lì
ho quindici giorni per pensarci!”
Matteo
annaspò un attimo guardando il calendario. Mancavano ancora
nove giorni alle vacanze natalizie.
Nove
giorni passano veloci quando qualche cosa che non vuoi deve venire.
Ma quando c'è necessità che il tempo voli, quello
sembra quasi fermarsi.
Si
voltò verso Greta e domandò:
“Le
vacanze sono il ventidue. Che cosa farai nel frattempo?”
Greta
scosse la testa, ammettendo di non sapere come fare. Matteo cacciò
una mano nei capelli e disse:
“Puoi
dormire qua da noi qualche volta. Ho un letto estraibile nella mia
stanza. Michele ti cederà volentieri la stanza...”
“Tu
non gli dirai nulla, però?” domandò terrorizzata
Greta.
“Non
gli dirò nulla. Tranquilla. Il problema però è
un altro... Non puoi venire qua per nove giorni di seguito senza che
qualcuno si insospettisca. Anche mia nonna che sa dirti esattamente
cosa ha fatto Ridge Forrester nell'ultima settimana, ma non ricorda
che classe frequento quest'anno, comincerebbe a chiedersi se c'è
qualche cosa che non va!” le spiegò Matteo che passando
una mano sulla faccia, guardando l'albero di Natale che si accendeva
e si spegneva aggiunse: “Hai una buona amica? Una di cui ti
puoi fidare? Una che non farebbe troppe domande se ogni tanto andassi
da lei a dormire?”
Greta
annuì e rispose:
“La
mia vicina di casa, Elena. Ci conosciamo da quando siamo bambine!”
“E
sa qualche cosa?” chiese Matteo.
Greta
scosse la testa e Matteo disse:
“Lo
devo dire a lei. E devi dirle che io sto cercando il modo di far
arrestare il tuo patrigno. Ma se per caso dovesse succedere che né
io, né Elena ti possiamo ospitare... Promettimi che ti
chiuderai in camera a chiave quando dormirai a casa. Se non lo vuoi
fare per me, o per te... Fallo per il bambino... Sempre che tu lo
voglia tenere!”
Greta
si strinse nelle spalle e con un sorriso rispose:
“Sono
arrivata al quarto mese. Secondo te?”
Matteo
annuì con un sorriso velato. Guardando ancora le luci
dell'albero disse:
“Ti
aiuterò, promesso. Ma tu devi permettermi di parlare con mio
padre. Lui saprà cosa dirmi!”
Greta
sospirò e rispose:
“Prima
che io parta ti dirò cosa voglio fare. Ti chiedo solo del
tempo!”
Matteo
rimase qualche secondo in silenzio. In un attimo mille pensieri gli
frullarono in testa. Aveva paura. Paura che qualche cosa andasse
storto, che qualcuno si potesse fare davvero male, che lui potesse
farsi male.
Pensò
che fino a quella mattina la sua vita era stata normale e niente
l'aveva scossa. Una vita normale non vissuta quasi. Una vita ben
lontana dai canoni che il padre sognava per lui e che ricopriva
Michele per entrambi.
Perché
Matteo non amava esporsi. Ma quella sera la vita, il destino e uno
strano sentimento di amicizia lo spinsero a prendersi cura di quel
gattino ferito, di quella ragazza che amava le nuvole e che scriveva
il suo dolore silenzioso nel banco. Un dolore che solo lui aveva
ascoltato. E che ora era diventato il modo più veloce che
Matteo aveva trovato per crescere e diventare finalmente un adulto.
“Ora
muovi le chiappe Balestrieri. Devi recuperare un po' di voti. E poi
devo dire alla mamma che ti fermi a dormire. E tu devi avvisare la
tua... Una delle poche cosa che voglio è che tu perda l'anno!”
disse Matteo alzandosi per andare in camera sua.
Greta
sorrise e scosse la testa. Di una cosa era certa. Matteo non era come
tutti gli altri suoi compagni di classe che non si erano mai accorti
di nulla. Matteo a differenza di tutti loro sapeva essere un buon
amico.
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Capitolo 4 *** -Capitolo 4- ***
Capitolo
4
La
solitudine e i suoi mille racconti
“Conosci
Remedios la Bella?”
Matteo
si voltò con le sopracciglia aggrottate verso Greta che
sorridendo ripeté:
“Conosci
Remedios la Bella?”
Matteo
rimase qualche secondo in silenzio pensando. Poi voltandosi verso la
ragazza disse:
“Sì!
Credo che sia una delle protagoniste di un libro... Ma non ricordo
quale!” e riprese a tradurre il testo di latino che la
professoressa Castelli aveva assegnato per il giorno dopo.
“Sì!
È uno dei personaggi di 'Cent'anni di solitudine' di Gabriel
Garcìa Màrquez...” ribatté Greta guardando
il libro di latino senza vederlo realmente.
Fuori
la neve cominciava a scendere con fiocchi fitti. L'albero di Natale
illuminava il salotto nella penombra dove la nonna, coperta con un
plaid su di una poltrona, dormiva tranquilla. Non si era resa conto
che la nuora era entrata in camera e aveva spento la televisione.
Greta
sospirò e Matteo rispose distratto:
“Interessante...”
Greta
osservò Matteo in silenzio per qualche secondo, poi seria
disse:
“Remedios
non è mai morta, lo sai?”
“Son
contento per lei!” rispose Matteo prendendo il vocabolario e
sfogliandolo velocemente.
Greta
sospirò e aggiunse:
“Remedios
era una ragazza bellissima. Gli uomini si innamoravano di lei ma
spesso e volentieri morivano. In un modo o in un altro tutti
cominciarono a pensare che Remedios avesse un qualche strano filtro
che accecasse gli uomini che l'amavano portandoli alla morte. Lei
invece non sembrava interessata all'amore. Viveva in un mondo tutto
suo, non conosceva Macondo e stava rinchiusa quasi sempre tra quattro
mura. Era semplice. Poteva sembrare una ritardata. Non sapeva né
leggere e né scrivere e si era cucita un sacco per vestirsi e
aveva rasato i capelli a zero. Poi, un giorno, mentre stendeva le
lenzuola di donna Fernanda, salì al cielo. Come la Madonna.
Volò via e di lei non si seppe più nulla...”
Matteo
si era bloccato e aveva ascoltato quello che Greta gli stava
raccontando. La sigla de 'La Vita In Diretta' arrivò attutita
dalla cucina. Michele uscì dal bagno canticchiando 'Close To
Me' dei Cure ed entrò in camera sua sbattendo la porta e
svegliando la nonna che dal salotto gridò:
“Com'è
finito Beautiful?”
Matteo
guardò gli occhi di Greta. Non stava parlando di qualche cosa
di triste, nonostante tutto, nonostante il fatto che da un paio di
giorni a quella parte sembrava come essersi svegliata dal letargo in
cui era caduta mostrandosi più allegra del solito, il quel
preciso momento, mentre parlava di Remedios la Bella, gli occhi della
ragazza dell'ultimo banco era tornati tristi, velati di quel dolore
radicato in lei, lo stesso dolore cieco che stava nutrendo il bambino
che portava nel grembo.
“Voglia
andare via come lei, sai, a volte... A volte vorrei che tutto finisse
così. Io che stendo i panni e volo via, lontana, verso il
cielo...” spiegò Greta guardando i fiocchi fitti di neve
che coprivano i tetti della casa di fronte a quella di Matteo. Per un
attimo il ragazzo si sentì come qualche giorno prima quando,
prendendo il coraggio a quattro mani, decise di parlare con la sua
compagna di banco ed aiutarla. In quel momento, Greta, era di nuovo
la ragazza dell'ultimo banco e basta, quella che tutti lasciavano in
un angolo per giorni, per mesi, per anni senza curarsi che un mostro
con una bella macchina, ogni giorno, veniva a prenderla per divorarla
nel silenzio di una casa dall'arredamento perfetto. E in un attimo
capì. Ecco perché Greta guardava le nuvole. Ecco perché
si perdeva a fissare il cielo in silenzio. Perché sperava che
quel cielo la rapisse come aveva fatto con Remedios e la portasse
via, lontana dalle risatine delle sue compagne di classe, dai
compagni di classe che le lanciavano contro i gessetti e
l'indifferenza dei professori che nemmeno si ponevano qualche domanda
su quello strano comportamento. Il cielo. Lo stesso che aveva rapito
Remedios dalla sua non vita, proprio come Greta che, a differenza
della giovane protagonista di 'Cent'anni di solitudine', conosceva la
grettezza dell'uomo e la respingeva.
Lontana
nel cielo, sopra un mondo sporco che la guardava dall'alto al basso.
Sopra un mondo imperfetto che le aveva procurato ferite più
profonde di quelle che lei inferiva al legno non più liscio
del suo banco.
Sorrise
e cercando di sdrammatizzare e di riportare l'attenzione di Greta
alla traduzione di latino, disse:
“Non
è possibile. Non puoi volare. Va contro le leggi di gravità.
E poi devi recuperare ancora matematica. Non ti puoi permettere di
volare via...”
Greta
rise e lanciò il cuscino contro Matteo che fingendosi
risentito disse:
“Non
farlo mai più. Posso diventare molto cattivo sai?”
Greta
rise più forte e replicò:
“Certo,
sto tremando di paura Zanin!” e ridendo si becco la prima
cuscinata al quale ne seguì un'altra e un'altra ancora.
Le
loro risate arrivarono fuori dalla stanza. Michele, completamente
profumato, ben lavato, stava nel corridoio sistemando i capelli neri
quando sentì i due ridere. Smise di canticchiare e guardò
il suo riflesso allo specchio. Da quando quella ragazzina strana era
entrata in casa Matteo era cambiato. E anche la mamma sembrava più
allegra. Quella ragazza che cantava canzoni di Ligabue e sorrideva
appena, stava prendendo il posto del generale Zanin, sempre fuori
casa, sempre lontano.
Le
risate arrivarono sempre più forti mentre Matteo implorava
pietà.
In
un attimo Michele ricordò una serata simile a quella, senza
neve, quando fece l'amore per la prima volta con Daria, sotto il
piumone dei Looney Toones che aveva da quando era una bambina. E con
una fitta allo stomaco e al cuore si rese conto che gli mancava
davvero quel sapore dolce, la sua mano premuta sulla bocca di lei per
non far sentire i gemiti della giovane.
Perché
Michele Zanin aveva amato davvero solo una volta. Si era reso conto
che tutto era finito era stato quando, stretto mano nella mano con
Daria, per le strade ancora addobbate a festa nonostante fosse già
Gennaio, aveva ammesso di non essere pronto ad essere un padre e
aveva permesso alla sua ragazza di abortire.
A
distanza di mesi, quando il pensiero diventava più pesante del
piombo e non lo faceva dormire, Michele apriva il cassetto del suo
comodino e guardava la foto di lui e Daria abbracciati durante
l'occupazione. Quando il loro figlio stava sbocciando nel ventre
della giovane. Quando ancora non avevano deciso di schiacciare quel
piccolo fiore dalle radici deboli. Quando non aveva una voragine
aperta nel centro del petto, scavata dalla solitudine di ragazze
stupide che gli cadevano ai piedi solo perché era bello o per
la sua moto e dall'assenza di un essere che non aveva mai visto
neppure ma che, Michele lo sapeva, gli assomigliava davvero.
Scosse
la testa, sospirò e cacciando dentro il malumore, uscì
salutando velocemente tutti, lasciando indietro quelle risate che lo
laceravano nel centro stesso della sua solitudine.
Nadia
stava giocherellando con il telecomando, facendo zapping tra un talk
show, una televendita, una serie televisiva e una telenovela di
Veronica Castro in replica su qualche rete locale.
Greta
avrebbe dormito ancora fuori casa. Anche quella sera il suo compagno
sarebbe tornato a casa, avrebbe chiesto della giovane che aveva
avvisato di non andare a prenderla e poi avrebbe cominciato a
litigare con la compagna, ma facendolo nel modo peggiore, in
silenzio, senza gridare ma rompendo qualche cosa e costringendola a
pulire i cocci.
“Dov'è
Greta?”
Nadia
si sollevò e guardò il palazzo di fronte al suo. Da una
finestra si vedevano le lucine colorate dell'albero di Natale montato
vicino alla finestra.
“Di
nuovo in giro? Ma quella puttanella ha preso
questa
case per un albergo?”
Lentamente
si avvicinò allo stanzino e prese la scala. Si arrampicò
e prese un grosso scatolone. Non sapeva nemmeno lei perché lo
faceva, ma prese anche un'altra scatola. E un'altra. Poi,
inginocchiandosi cominciò ad aprirle tutte e guardò
l'albero diviso in due tronchi e gli addobbi colorati pieni di
paillette o brillantini. Non si era nemmeno resa conto che il canale
su cui aveva lasciato acceso il televisore era Mtv. Cominciò
a montare l'albero, poi piazzò le luci e una per una tutte le
palline dorate e rosse tra i folti rami. Ai bordi dei rami piazzò
i fiocchi e i pacchetti e davanti mise le campanelle. Sistemò
il puntale e collegò la presa delle luci alla corrente.
Subito
si accesero compiendo semplici giochi di luce che illuminarono la
stanza nella penombra.
Soddisfatta
sistemò gli scatoloni uno dentro l'altro lasciandoli però
in mezzo al salotto, poi andò in bagno e si fece una doccia.
Si vestì, s' truccò e stava per uscire di casa quando
la chiave nella porta girò e dietro apparve il suo compagno.
La
guardò e le chiese, senza nemmeno salutarla:
“Dove
stai andando?”
Nadia
sorrise e rispose, indicando l'albero:
“A
prendere qualche regalo da mettere sotto l'albero... Lo sai che è
Natale?”e senza aspettare risposta uscì, sorridendo.
Montare
quell'albero le aveva ricordato le cose belle. Quando era una bambina
e suo fratello era ancora vivo e tutta la famiglia montava l'albero
di Natale nel grande salone. Quando Greta era piccola e guardava
affascinata le lucette bianche. Quando ancora credeva a Babbo Natale
e aspettava con impazienza la Vigilia, considerandola come la vera
festa magica.
E
mentre l'aria fredda le sferzava il viso, Nadia si rese conto che
stava piangendo. Ogni singolo ricordo era una ferita che la lacerava.
Ogni singola parola rievocata era uno schiaffo. E solo allora si rese
conto di tutto quello che aveva perso da quando il suo compagno era
entrato nella sua vita, da quando aveva scoperto che la solitudine
aveva un peso, un odore e un sapore insopportabile.
Daniela
sistemò una statuina del vecchio presepe e sorrise ascoltando
la voce di Greta che dal bagno diceva:
“Lo
so. Il Congresso di Vienna era caratterizzato da due arie di
pensiero: i conservatori che volevano ritornare al passato e i
progressisti che volevano prendere come modello il passato ma
progredire verso il futuro.”
“Brava!”
fece eco Matteo sulla soglia con il libro aperto. “Cosa è
la Provvidenza?”
Greta
parve pensarci un attimo e rispose:
“Dopo
che gli Illuministi avevano detto che l'uomo determinava la sua
storia con la ragione, al Congresso di Vienna si dovette mettere
sulla bilancia il tragico epilogo della Rivoluzione Francese e quella
delle guerre di conquista di Napoleone che avevano segnato il
tramonto definitivo dell'era dei lumi. Al Congresso di Vienna venne
infatti assodato che non è l'uomo che guida la sua storia,
bensì Dio che agisce con la Provvidenza divina che sistema ciò
che l'uomo cerca di sistemare con la ragione.”
“Bene!”
e guardando ancora il libro Matteo chiese: “E chi erano gli
ideologi della Restaurazione?”
“Uno
non mi hai chiesto che cosa è la Restaurazione!” sorrise
Greta. “E io non ho potuto rispondere che è il processo
di ristabilimento dei sovrani assoluti in Europa... E poi... perché
non rispondi anche tu a qualche domanda?” e scuotendo la testa
aggiunse: “Fai pena come insegnante!”
Daniela
rise e disse:
“Matteo...
Non mi fai giustizia, sai?”
“Mamma...
Non mi mettere in imbarazzo...”cercò di difendersi
Matteo ridendo divertito.
“No!
Io ero la migliore del mio corso quando ero a scuola. E in storia
avevo sempre voti altissimi!” continuò la donna.
“Uffa
mamma!” replicò Matteo da dentro la camera aggiungendo
subito: “Greta vuoi muoverti o vuoi che la mamma mi metta in
ridicolo davanti a tutta la famiglia?”
Greta
uscì dal bagno e sistemò la maglietta proprio davanti a
Daniela, che rimase fulminata. In quel piccolo corpo acerbo, in cui
si erano appena abbozzate le prime forme, spiccava piccola ma pur
sempre visibile una piccola pancia della forma perfetta di un piccolo
uovo. Daniela la conosceva. L'aveva vista formarsi due volte. E due
volte aveva atteso nove mesi prima che la sua pancia si svuotasse e
tornasse normale.
In
un lampo Daniela capì tutto. Greta era incinta.
La
guardò muoversi con grazia verso la porta della camera del
figlio e sorrise tirata al sorriso della giovane.
Greta
era incinta.
Ma
di chi?
No!
Non poteva essere di Matteo. Matteo era solo un bambino, un ragazzino
incapace anche solo di pensare al sesso. Come poteva anche solo aver
pensato di fare una cosa simile?
Guardò
il suo volto riflesso nello specchio. E con un'occhiata più
attenta si rese conto di essere più vecchia. Qualche capello
bianco cominciava a spuntare tra i capelli folti e neri e le rughe
solcavano il suo viso una volta perfetto.
Sapeva
che sarebbe arrivato quel momento, sapeva che sarebbe successo che i
suoi due figlio avrebbero preso il volo e l'avrebbero lasciata da
sola. Ma non così presto, non ora che non era preparata,
almeno!
In
attimo quella casa le tolse il respiro. Perfino la nonna divenne una
catena che la teneva ancorata alla sua vecchiaia. Alla sua
solitudine.
Perché
per Daniela era quello essere soli. Un orologio che scandiva lento i
minuti in cucina. Il pollo da girare nel forno la domenica a pranzo.
La nonna che si svegliava alle quattro chiedendosi cosa fosse
successo nella puntata di Beautiful. E suo marito le cui assenze
riempivano il cuore di Daniela di tristezza e di malinconia.
Malinconia
che si sarebbe accentuata una volta che Michele e Matteo avrebbero
deciso di spiccare il volo.
E
a quanto pareva... Quel momento era arrivato.
“Buona
serata Generale!” salutò cordialmente il soldato
all'uscita della caserma facendo il saluto militare.
“Buona
serata a lei!” sorrise Giovanni Zanin mettendo i guanti e
sistemando il cappello si diresse verso la macchina.
Entrò
dentro l'abitacolo rabbrividendo appena per il freddo e accese il
cellulare. Giovanni Zanin, infatti, poteva anche stare tutto il
giorno a lavoro, ma non accendeva mai il cellulare prima di essere
entrato nella sua macchina. Aveva sempre detto a sua moglie che
qualsiasi problema doveva contattarlo in caserma e solo se era libero
le avrebbe risposto.
Sua
moglie si era dimostrata una buon allieva e aveva obbedito con la
stessa meticolosità di un suo inferiore. Non lo aveva nemmeno
contattato in caserma quando la situazione si era dimostrata più
grave, come quando Michele e Matteo erano finito al comando di
Polizia perché avevano partecipato all'occupazione. O quando
la mamma di Giovanni aveva avuto una crisi cardiaca ed era stata
ricoverata d'urgenza in cardiologia.
Quella
sera suscitò quindi una certa sorpresa e curiosità
vedere il numero della moglie apparire sul display una volta acceso
il cellulare.
Rispose
tranquillo:
“Cosa
è successo? Sta andando a fuoco la casa?” e sorrise alla
sua stessa battuta.
“Peggio!”
rispose senza preamboli Daniela. La sua voce era asciutta e non
nascondeva una nota di preoccupazione.
“È
successo qualche cosa ai ragazzi per caso?” chiese più
preoccupato che mai Giovanni.
Daniela
rimase un attimo di silenzio e poi balbettò con un filo di
voce:
“Riguarda
Matteo...”
“Che
ha fatto?” chiese Giovanni sempre più preoccupato. Si
sarebbe aspettato di sentire il nome di Michele, non quello di
Matteo.
“Hai
presente la sua amica. La sua compagna di banco... Beh! Ho scoperto
che è incinta...” replicò diretta Daniela, quasi
bastasse quella parola per far capire tutto al marito.
Fu
il turno di Giovanni di non parlare. Poi, con un sospiro, disse:
“E
allora? Non vedo cosa ci sia di male. Hai presente quante ragazzine
rimangono incinte a diciotto anni?”
“Penso
che sia figlio di Matteo...” ribatté con la voce
spezzata Daniela.
Di
nuovo silenzio. L'abitacolo parve diventare troppo piccolo d'un
tratto. Suo figlio stava per diventare padre. Suo figlio non era più
un ragazzino imberbe, ma un uomo... Un futuro padre.
Guardò
il suo viso riflesso nello specchietto e disse asciutto:
“Arrivo
subito!”
Matteo
sorrise a Greta che sbadigliando disse:
“Bene.
Se domani dobbiamo essere freschi per l'interrogazione credo che sia
ora di andare a nanna, Matteo Zanin...”e cominciandolo a
spingere aggiunse: “Su! Fuori! Su! A nanna Zanin!”
Matteo
stava ridendo quando sentì le chiavi girare nella toppa. Si
irrigidì e guardò Greta.
“Mio
padre...”sussurrò il ragazzo.
Greta
guardò la porta e poi fissò gli occhi scuri di Matteo.
Bastò quello sguardo per capire. E bastò quello sguardo
per capire.
“No!
Non voglio che tu dica nulla!”
“Greta!
Mio padre è un militare. Potrebbe aiutaci. Potrebbe dirci cosa
fare...” le spiegò Matteo.
“No!
Non voglio che nessuno lo sappia. O almeno non per il momento.
Aspetta che parta in montagna,. Che vada dai nonni...” replicò
Greta terrorizzata.
“Ma
tu devi parlare con mio padre! Possiamo aspettare, ma abbiamo bisogno
della tua denuncia. Noi da soli non possiamo fare nulla...”
disse Matteo.
“Matteo!”
La
voce di Giovanni bloccò la discussione dei due. Il giovane
Zanin si voltò verso il padre, drizzando la schiena quasi lo
avessero appena sparato. Lentamente si voltò e con un filo di
voce disse:
“Sì
papà!”
“Devo
parlarti!” disse Giovanni che stava sulla porta e guardava lui
e Greta.
Matteo
incurvò la schiena e senza dire nulla seguì il padre.
Nonostante
la testa china riusciva a capire come si muoveva il padre anche senza
a guardarlo: le braccia rigide lungo il corpo, la testa dritta e il
petto in fuori.
Un
militare, sempre e comunque, anche quando non era in caserma, anche
quando smetteva la divisa.
Seguì
il padre in silenzio, mentre le scarpe eleganti di Giovanni
emettevano un sinistro ticchettio che echeggiava nel corridoio
altrimenti deserto.
Aprì
la porta del salotto dove nell'oscurità l'albero di Natale
sembrava un mostro peloso pronto ad attaccarli se solo lo avessero
disturbato. In effetti tutto il mobilio sembrava tendersi minaccioso
verso di loro.
Matteo
deglutì attese che suo padre accendesse la luce fissando la
punta dei piedi.
Quando
lo fece il mobilio riprese la sua forma famigliare ed antica e
Giovanni indicò la poltrona al figlio, serio al punto tale da
sembrare arrabbiato.
“Siediti!
Dobbiamo parlare!”
Matteo
fece come ordinato e guardò il padre negli occhi, serio.
“Tua
madre oggi ha notato una cosa che prima non aveva visto... Greta è
incinta. È così?”
La
voce di Giovanni era dura, seria. Matteo non riusciva a guardarlo
negli occhi, ma nonostante questo sapeva di non poter negare. Di non
poter nascondere ancora a lungo la verità.
“Sì!
È incinta!”
Giovanni
si sollevò e cominciò a misurare il salotto a grandi
passi. Non parlava, ma guardava con la fronte corrugata davanti a sé,
pensando chissà che cosa. Poi si bloccò davanti a
Matteo, con le mani dietro la schiena e disse:
“Mi
sembra di essere sempre stato molto chiaro riguardo queste cose, con
voi. Non vi ho forse detto che dovete dare attenzione quando si
tratta di sesso. Non ricordi che ho parlato chiaramente con voi
riguardo i rischi che si corrono con una gravidanza inattesa?”
Matteo
sollevò gli occhi e incontrò quelli del padre.
Non
ci poteva credere! Pensava che il bambino fosse suo.
“Io”
cominciò cercando di giustificarsi, ma il padre lo bloccò
e disse:
“Hai
solo diciotto anni, ma dovresti essere maturo abbastanza per capire
che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, non trovi?
Fare sesso sarà anche divertente ma comporta dei rischi... Ora
tu sai che la tua vita sarà condizionata da questo evento. Che
probabilmente dovrai dire addio a tutti i tuoi sogni?”
“Papà
se mi lasci spiegare...” cercò di interromperlo Matteo,
ma Giovanni scosse la testa e irremovibile continuò:
“Sei
grande abbastanza per fare sesso? Sei grande abbastanza per mettere
incinta una ragazza? Bene! Immagino che tu sia grande abbastanza per
ascoltarmi e fare la tua prima discussione da uomo. Ora parlo io. E
non voglio sentire un solo fiato da te...”
“Il
bambino non è di Matteo, signor Zanin...”
Greta
era sulla porta, pallida, con il petto che si sollevava e si
abbassava velocemente, quasi avesse corso la maratona.
Guardò
Matteo e Giovanni e con quello che sembrò uno sforzo
sovrumano, disse:
“Matteo
mi sta difendendo. E non ha detto nulla perché sono io che
gliel'ho chiesto. Ma visto come stanno le cose mi sono resa conto che
non posso più tenerlo nascosto...”
Matteo
sorrise guardando Greta.
Giovanni
la guardava come se la vedesse per la prima volta.
“Ho
bisogno del suo aiuto signor Zanin.” pigolò Greta
cercando di sorridere.
Giovanni
sistemò le scarpe nella piccola scarpiera dietro la porta e
infilò le pantofole. Daniela lo guardava in silenzio dal
letto, con gli occhi sbarrati, in attesa di qualche notizia. Di
qualche buona notizia.
Giovanni
si rese conto che per lei le buone notizie sarebbero arrivate, ma in
quel momento qualche cosa gli rendeva impossibile essere
completamente sollevato nel sapere che suo figlio non si era messo
nei guai.
Passò
una mano sulla faccia e ricordò con orrore il racconto di
Greta. E si chiese come un uomo potesse fare delle cose così
abominevoli. Così terribili. Si spogliò con lentezza,
ponderando cosa fare o non fare per aiutare quella giovane,
aspettando solo qualche giorno.
Mise
il pigiama e stava per entrare nel letto perso nei suoi pensieri
quando Daniela gli chiese:
“Allora?”
Giovanni
si voltò e toccò la mano della moglie e sorridendo
disse:
“Non
è figlio di Matteo!” e si mise a dormire, spegnendo la
luce della lampada.
Daniela
non disse nulla. Rimase in silenzio, al buio. Poi, dopo qualche
minuto, il respiro regolare fece capire a Giovanni che la moglie si
era addormentata.
A
pancia in su guardava il soffitto illuminato di tanto in tanto da
qualche macchina di passaggio.
Era
quella la sua vita. Decidere. Sempre e da solo.
La
vita del militare, del padre, dell'uomo e del figlio che si prende
cura di una madre che perdeva pezzi di memoria ogni secondo, che
seminava pezzi di vita nel cammino che la conduceva all'oblio del
corpo e della mente.
Solo.
Anche se intorno c'erano tante persone.
Solo
come un corpo nel buio.
Perché
la solitudine è questa. Corpi immersi nel buio dell'universo
che lottano per non andare persi. Per non essere dimenticati una
volta che il buio, la solitudine stessa li avrebbe inghiottiti per
sempre.
Chiedo
scusa per la latitanza.
Questo
è il penultimo capitolo.
Sono
riuscita a finirlo dopo tutto questo tempo.
Ora
per il prossimo prometto che ci metterò meno tempo.
Ringrazio
OurThirteen e PinkStuds per le recensioni che mi hanno lasciato.
Spero che ci siate ancora a leggere questo capitolo e per farmi
sapere che cosa ne pensate.
Ringrazio
anche chi ha messo la storia tra i preferiti, ricordati, seguiti.
Anche
voi mi incoraggiate a riempire un foglio di word vuoto.
Alla
prossima.
Niniel82
|
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Capitolo 5 *** -Capitolo 5- ***
Capitolo
5
Leggera
come una nuvola.
Una
cosa che Matteo non sopportava era aspettare e non sapere che cosa
sarebbe successo dopo.
In
quel caso non sapere che cosa fosse successo dopo lo faceva
stare se possibile ancora più male. Specialmente se il dopo
poteva mettere a repentaglio la vita stessa di Greta.
Dopo
la chiacchierata con suo padre, infatti, le cose cambiarono. Greta
venne a scuola solo il giorno dopo, poi sparì.
Né
un messaggio, né una mail, né una lettera.
Una
settimana prima delle vacanze di Natale, Greta Balestrieri non venne
più a scuola e nel banco vicino a Matteo rimasero solo i suoi
tagli che aveva inciso, le nuvole sul cielo terso quando il sole
faceva capolino per sciogliere un po' di neve e il suo silenzio che
sembrava quasi mancare al resto di tutta la classe.
Per
la prima volta, infatti, tutti cominciarono a chiedersi che fine
avesse fatto Greta e cominciarono perfino ad usare il suo nome quando
parlavano di lei.
Disgustato,
Matteo tenne i denti stretti fino al 22 Dicembre, quando le scuole
chiusero per le vacanze natalizie.
E
nonostante tutto, nonostante l'aria di festa che si respirava anche
in casa Zanin, Matteo non riuscì ad essere tranquillo. Più
volte provò a chiamare Greta al cellulare, ma risultava sempre
irraggiungibile. Aveva chiesto anche a suo padre, ma lui aveva
risposto che Greta e sua madre erano al sicuro, che non doveva
cercare Greta e quindi non doveva preoccuparsi.
Le
vacanze cominciarono a passare.
Poi
un giorno le cose cambiarono. Come le nuvole che si allontanano e
mostrano il sole, qualcosa di inaspettato colse la vita di Matteo.
Accadde il giorno prima di Capodanno che il Mostro apparve in TV.
Era
perfetto, impeccabile. Stretto in un abito scuro, con una cravatta
chiara. Era a lavoro quando i poliziotti lo andarono a prelevare. Non
sorrideva, cercava di coprirsi il volto dalle telecamere che
riprendevano il nuovo mostro della piccola città, l'uomo
insospettabile che violentava la figlia minorenne della sua compagna.
Non
fecero nessun cenno su Matteo o sulla sua famiglia. Dissero solo che
la ragazza era stata aiutata da un generale dell'esercito, padre di
un amico della ragazza, che si era assicurato che sia la ragazza che
la madre fossero al sicuro prima che le manette scattassero ai polsi
del mostro.
Matteo
seguì la notizia con rabbia e rassegnazione. Rabbia verso il
padre che sapeva e non gli aveva detto nulla. Rassegnazione perché
dentro di sé sentiva che la vita di Greta da quel momento
sarebbe cambiata per sempre, finalmente in meglio. M nonostante
questo la loro amicizia sarebbe stata in serio pericolo.
Nella
vetrina della panetteria difronte il Liceo Galilei ancora si
accendevano e spegnevano le luci intermittenti, quasi desiderassero
prendere in giro gli studenti che quel 7 Gennaio rientravano a
scuola. La neve era scesa quella sera, ma non abbastanza da
permettere alle scuole di rimanere chiuse. Così, come
succedeva qualche settimana prima, motorini, sciarpe e cuffie
colorate coloravano e riempivano la strada difronte al Liceo Galilei,
dove gli studenti si raccontavano più o meno sguaiatamente le
loro avventure, i regali, la noia e i divertimenti delle vacanze di
Natale.
Matteo
Zanin era agitato quella mattina. La neve ai lati della strada
cominciava a diventare una poltiglia grigiastra che gli altri ragazzi
si lanciavano contro, ma Matteo Zanin non pensava a questo mentre
saliva le scale che lo avrebbero introdotto nell'enorme atrio del suo
liceo.
Alcuni
degli alunni, come al solito quando cominciava l'inverno, affollavano
già gli androni troppo infreddoliti per stare in cortile o nel
parcheggio delle moto. Matteo non si curò di loro, salì
le scale a tre a tre ed arrivò al terzo piano. Corse verso la
porta, ignorando le lamentele della bidella isterica e trovò
la classe vuota.
Un
peso gli piombò nel cuore. Aveva letto tutti i giornali locali
e no durante le vacanze, cercando notizie di Greta e sospirando di
sollievo quando non ne trovava. Ma non vederla lì, quella
mattina lo riempì di paura.
Si
mise a sedere al suo posto, guardando con aria sconsolata quello
vuoto vicino alla finestra:
“Ehy,
Zanin! Non ti sarai mica innamorato della pazza dell'ultimo banco?”
gridò Mattioli che almeno aveva avuto l'accortezza di non
cambiare le vecchie abitudini e aveva continuato a chiamare Greta
come sempre.
Matteo
sorrise forzatamente e guardò il banco vuoto, con ansia.
Attese
il suono della seconda campanella, guardò riversarsi i
compagni in classe, aspettò che entrasse il professore di
matematica e con aria afflitta, persa ormai ogni speranza, spostò
lo zaino e si mise a sedere nel posto della ragazza. Come per magia
lo stesso torpore di Greta colpì Matteo, che accarezzò
con il dito le parole da lei incise, quasi che facendolo riuscisse a
richiamarla a sé, a farla tornare ad essere di nuovo la
ragazza dell'ultimo banco, quella che doveva proteggere.
L'attese
tutta la mattina del sette. E anche quella dell'otto e del nove. Poi,
il 10 Gennaio, mentre suonava la seconda campanella, una ragazza con
un taglio di capelli corto dietro e lungo davanti entrò nella
classe. Aveva due occhi azzurri bellissimi, arricchiti dall'eye-liner
nero e da un ombretto chiaro. Le gote erano rosate dal phard e la
bocca laccata dal lip-gloss. Indossava un cappottino corto, nero che
doveva tenere aperto perché dalla maglietta elasticizzata si
notava una piccola pancia, segno di una gravidanza che cominciava
inesorabilmente a mostrare la sua presenza al mondo.
Tutti
si voltarono a guardare quella giovane, non riconoscendola subito,
additando la pancia, mormorando 'ma allora è vero', 'lo
avevano detto al TG, il patrigno la violentava', 'non ci posso
credere, quella è Balestrieri!', 'oh Dio! Ma è
incinta!'.
Le
voci cominciarono a diventare mormorii sempre più alti, sempre
più forti, fino a diventare il frastuono che si sente in ogni
classe quando tutti parlano a voce alta, con l'unica differenza che
quel cicaleccio continuo era rivolta solo ad una persona, senza
pudore, senza curarsi se quella persona potesse sentirli o no. Ma a
quanto pareva Greta non si curava di loro. Passava tra i banchi
guardando fissa il suo posto, quell'ultimo banco vicino alla finestra
dove stava seduto quel suo amico dagli occhi e i capelli scuri che,
anche se non lo vedeva chiaramente, era cambiato molto dopo quelle
vacanze di Natale.
Matteo
si illuminò e sorrise guardando Greta entrare, con le cuffie
dell'Ipod ancora alle orecchie.
La
guardò in silenzio, senza dire nulla. La guardò
avvicinarsi e quando la ragazza poggiò la borsa su quello che
era sempre stato il banco di Matteo, si avvicinò all'amico e
serena disse:
“Manco
un paio di giorni e ti prendi il mio posto?”
Matteo
sollevò un sopracciglio e rispose:
“Sarebbe
carino che magari mi dicessi perché sei sparita per tutti
questi giorni!”
Greta
sollevò un angolo della bocca in un sorrisino divertito e
replicò:
“Fammi
sedere al mio posto e te lo dico...” e mettendosi in piedi
aggiunse: “Sono una donna incinta. Un po' di rispetto!”
Il
mormorio cessò. Che Greta fosse incinta era una cosa evidente.
Ma sentirglielo dire era una cosa differente. Matteo sorrise e si
alzò scuotendo la testa riprendendo quello che fino a prima
delle vacanze di Natale era stato il suo posto. Poggiò lo
zaino per terra e guardando Greta, avvicinandosi a lei le chiese:
“Allora?
Come mai sei sparita e non mi hai fatto sapere nulla? E non dirmi che
papà ti ha detto di stare in un posto sicuro...”
“Ero
a casa di mia zia... Tuo padre mi ha consigliato di andare da lei
fino a che non si sistemavano le cose... Svelato l'arcano!” lo
interruppe sorridendo Greta.
Matteo
la guardò stupito e un po' risentito dal sapere di essere
sempre a conoscenza del posto in cui era stata nascosta la sua amica.
Pensavano forse che avrebbe avuto la straordinaria idea di andarlo a
dire al Mostro? Ma lo avevano preso per un bambino stupido?
“Non
prendertela!” disse Greta prendendogli la mano. “Non ho
voluto che nessuno lo sapesse perché avevo paura che quel
porco potesse seguire le persone che mi stavano vicino per sapere che
fine avevo fatto io e la mamma... Non siamo state sempre dalla zia...
Prima abbiamo passato un po' di tempo in un albergo in città.
Poi siamo andate da lei, dopo Natale...”
Matteo
annuì in silenzio e Greta continuò:
“Io
e mia madre ce ne siamo andate da casa il giorno della Befana.
Abbiamo dovuto sistemare le nostre cose e io nelle mie condizioni non
posso essere di grande aiuto. Così sono potuta tornare a
scuola solo oggi. E ieri, io e mamma siamo state al comando dei
Carabinieri!”
“Ti
hanno chiamata a deporre?” chiese Matteo incredulo.
Greta
annuì e Matteo la strinse forte. Lei rispose un po' fredda
all'abbraccio e sorridendo divertita disse:
“Mi
hai aiutata tu. Se tu non avessi preso coraggio, un mese fa e non mi
avessi detto di sapere tutto, io non avrei avuto il coraggio di
parlare con mia madre e di chiederle di andare a denunciarlo quando
tuo padre mi ha detto che mi avrebbe protetto a costo della sua
stessa vita!”
Matteo
arrossì. Non era abituato a sentirsi elogiare. E gli piaceva.
Come gli piaceva sentirsi orgoglioso di suo padre che, a quanto
dicevano tutti, si era comportato da vero eroe.
E
scrollando le spalle rispose.
“Ho
fatto quello che doveva essere fatto. Niente di più!” e
poggiando la sua mano su quella di Greta, le domandò: “Ed
ora? In cosa posso esserti utile?”
Greta
lo guardò di sottecchi e divertita disse:
“Una
cosa ci sarebbe...”
20
Gennaio 2012...
Gioia
corse ridendo felice verso Matteo.
Non
la vedeva da un anno ormai ed era veramente diventata grande.
Matteo
quasi non ci credeva. Erano passati due anni da quando Greta gli
aveva chiesto di accompagnarla a fare l'ecografia, la mattina del suo
rientro a scuola dopo l'arresto del patrigno.
L'anno
della sua maturità classica. L'anno in cui tutto cambiò.
In cui lui diventò un uomo capace di volare da solo. Fu
quell'anno che decise di farsi coraggio e chiedere a Claudia Landolfi
di uscire con lui. Si misero assieme e dopo l'estate cominciarono
anche a vivere assieme.
In
quello stesso anno, poco dopo l'esame orale, nacque Gioia
Balestrieri.
Matteo
non partecipò al parto, ma attese fuori che qualcuno le
annunciasse che la bambina era nata. Quando la dottoressa uscì
dalla sala parto Matteo pianse. Non seppe mai perché. Sapeva
che la piccola era nata e dal sorriso della dottoressa sapeva che
tutto era andato bene. Si sentiva commosso, come mai gli era successo
prima di allora. E allo stesso tempo si sentiva triste.
Lo
sapeva dal Natale passato che la vita di Greta dopo l'arresto del
patrigno sarebbe cambiata per sempre. E sapeva che dopo il parto, per
cancellare i brutti ricordi, le brutture della vita, Greta e Nadia
avrebbero lasciato per sempre la loro vecchia città, per
trasferirsi in una nuova.
Lontano
da quel mostro che ora stava chiuso in una cella. E a quanto si
diceva non aveva nemmeno una vita facile.
Il
12 Giugno 2010 Matteo Zanin ebbe la certezza che Greta Balestrieri
sarebbe volata in cielo leggera, come Remedios la Bella, senza le
lenzuola di donna Fernanda, ma con un piccolo esserino che le avrebbe
reso la vita meno difficile da vivere, lasciando nella sua personale
Macondo il suo ricordo.
E
così fu infatti. Dopo il parto Greta attese un mese prima di
battezzare la piccola Gioia, chiedendo a Matteo di farle da padrino.
Non ci fu una grande festa. Alcuni compagni di classe parteciparono
più per curiosità che per reale affetto verso Greta e
sua figlia.
Poi,
quando il sole di Agosto lasciò il posto alle nubi di
Settembre che cantavano il requiem all'estate che stava passando,
casa Balestrieri venne svuotata da dei camion di traslochi e la borsa
di Greta si chiuse su di una foto di lei, Matteo e Gioia che
capeggiava sulle sue cose.
Non
ci furono lacrime, ma solo la promessa di rivedersi spesso e le
solite frasi fatte:
“Tanto
non sto andando in America...”
“Poi
ci sono le mail...”
“E
anche i cellulari...”
“E
vuoi che non ti faccia vedere tua figlioccia!”
“Certo!
Ci sentiamo tutti i giorni su Skype!”
E
in effetti Skype fu la loro risorsa, quello che gli permise di
sentirsi tutti i giorni, di confidare la paure reciproche. A Matteo
di chiedere consigli sulla sua storia con Claudia; Greta per
confidare le sue paure sulla crescita della piccola Gioia.
Passò
un anno e mezzo.
E
solo quel 20 Gennaio 2012 Matteo e Greta si incontrarono di nuovo.
O
meglio...
Gioia
corse ridendo felice verso Matteo. O almeno corse per quello che
poteva riuscire a fare una bambina di quasi due anni.
Impacciata
nei movimenti. Ma leggera come una nuvola.
Come
Remedios la Bella. Come sua mamma quando la sua vita cambiò
radicalmente, mentre una macchina la portava via dal suo migliore
amico.
Di
quell'incontro, oltre la piccola Gioia che era una bellissima copia
di Greta, solo in miniatura, un'altra cosa sarebbe rimasta impressa
nella mente di Matteo per sempre: la mano che stringeva quella di
Greta. E non era una mano qualunque. Era quella di un ragazzo.
Si
chiamava Lorenzo e aveva un anno in più di Matteo e Greta.
Era
uno studente di Lettere e aveva conosciuto Greta ad un'assemblea
studentesca che si era tenuta nella Facoltà di Giurisprudenza
dove Greta stava studiando.
L'amore
tra di loro era spuntato giorno dopo giorno, tra un comizio e
l'altro, scaldato dal sole tiepido dell'autunno, quello che comincia
a far seccare la clorofilla dentro le foglie e le fa seccare.
E
sotto quel sole triste, anticipo della stagione della morte, Lorenzo
corteggiò Greta, in maniera semplice, senza essere invadente.
Cominciarono
ad uscire. Si frequentarono e scoprirono di piacersi.
Lorenzo
felice per la fortuna di aver conosciuto una ragazza meravigliosa e
di una bellezza sconvolgente; Greta perché cominciava a
conoscere quella normalità che il suo silenzio, le sue parole
appena sussurrate quando era ancora una studentessa del liceo non le
avevano permesso di vivere.
Arrivò
Natale di nuovo. E fu allora che Lorenzo conobbe Gioia.
Per
Greta fu una sorta di banco di prova. La possibilità di vedere
se Lorenzo fosse l'uomo adatto a lei. Forse meschinamente la giovane
pensava che conoscendo la bambina il ragazzo sarebbe scappato, ma
dovette ricredersi.
Tra
Gioia e Lorenzo si creò da subito un ottimo feeling. Entrarono
in sintonia e cominciarono da subito a piacersi. Forse perché
Lorenzo non era poi così simile a tutti gli altri ragazzi che
Greta aveva conosciuto. O semplicemente perché era semplice
amare Gioia, una bambina nata dal più grande dei dolori,
venuta fuori dallo sporco del mondo ma bella e splendente come una
stella.
Matteo
di una cosa era certo. Vedere Greta camminare per mano con quel
ragazzo alto, con folti cappelli ricci, la barba rossiccia incolta e
gli occhi dello stesso azzurro del cielo lo rese felice. Perché
infondo, quando qualcuno entra nella tua vita, anche se non ne ha
fatto parte da sempre, può diventarne un tassello importante.
E
Greta lo era diventata per tutta la famiglia Zanin. Perfino la nonna
che ricordava solo i personaggi di Beautiful con precisione,
ricordava perfettamente la giovane ragazza silenziosa, quella dei
maglioni larghi e dagli occhi spaventati e chiedeva sempre come
stava.
Perché,
per quanto potesse dire la gente, Matteo sapeva che il suo affetto
per la giovane amica era incondizionato. Anche se il mondo pensava il
contrario, Matteo sapeva che l'amicizia che lo legava a Greta era
pura ed era rimasta immutata. Forte e robusta come un albero
secolare. Pura come le nuvole che la ragazza dell'ultimo banco
osservava in silenzio una mattina di settembre, quando il destino li
fece incontrare. Un regalo delle nuvole stesse e delle ali delle
rondini che volavano verso il caldo del sud.
Ed
era per questo motivo che sapere Greta felice, rendeva Matteo, se
possibile, ancora più contento.
“Allora
hanno bocciato Molinari?”
Greta
beveva il suo succo di frutta alla pesca e guardava l'entrata del
Liceo Galilei.
“Sì!
Lui e Mattioli. Sono andati completamente impreparati all'esame...”
rispose Matteo sorseggiando la sua birra.
“Forse
pensavano di poter leggere dal libro come facevano quando erano
all'interrogazione!” rispose quasi infastidita Greta poggiando
il bicchiere e facendo girare la cannuccia.
Matteo
rise e Lorenzo, passando le mani sulle gambe per scaldarsi, domandò:
“E
tu come hai fatto per l'esame?”
Greta
sospirò e rispose: “Come ho fatto... Ho semplicemente
fatto l'esame scritto assieme agli altri. L'orale sono venuti a
farmelo in ospedale. Ricordo che stavo allattando Gioia...
Assurdo...”
Matteo
sorrise e rispose:
“Però
è andata bene dopotutto. Eri preparata e ricordo che non ti
hanno fatto nessuno sconto nonostante la gravidanza!”
“La
Castelli ha detto che era tutto merito tuo se son riuscita a prendere
il diploma. E che dovresti fare l'insegnante. Le ho detto che era
molto meglio di no!” replicò Greta tranquilla, volgendo
di nuovo lo sguardo verso la scuola.
Gioia
stava in piedi davanti ad una sedia, giocherellando con delle cose
che aveva recuperato dalla borsetta della mamma. Di tanto in tanto
diceva qualche parolina non bene articolata, rivolta ai giochi più
che agli adulti che le stavano attorno.
I
tre ragazzi stettero in silenzio per un po', poi Matteo disse:
“E
tua madre?”
Greta
sospirò e mettendosi a sedere meglio disse:
“Credo
che abbia smesso di darsi colpe per tutto. O almeno è quello
che sta cercando di fare. So che è riuscita dopo tutti questi
anni ad ammettere che se suo fratello è morto quando era un
bambino non era per colpa sua ma per colpa degli eventi... E per il
suo ex compagno... Beh! Per lui le cose sono diverse. Di quello
dobbiamo parlarne assieme. Almeno per quello che le ha detto lo
psicologo!”
“Ah!
Va dallo psicologo? Non me lo avevi detto!” replicò
Matteo prendendo il cellulare da tasca che trillava forte annunciando
l'arrivo di un messaggio. Matteo lo lesse, sorrise e ripose il
telefonino in tasca.
“Sì!
Da un annetto ormai. Credo che sia perché stava andando in
depressione dopo tutto quello che è successo. È stata
la nonna a dirle di andare. E sono felice che ci sia riuscita...”
rispose Greta.
Anche
quel piccolo passo per la nuova vita di Greta era davvero importante.
La mamma di Greta aveva avuto una vita difficile. Tutto era
cominciato un'estate di molti anni prima quando il suo fratellino più
piccolo morì annegato quando lei lo aveva ancora in custodia.
Matteo aveva saputo da Greta che quella colpa aveva sempre tormentato
Nadia e che non si era mai ripresa completamente dal lutto.
Sapere
che aveva cominciato ad andare da uno psicologo rendeva un nuovo
inizio qualche cosa di concreto e non un semplice miraggio.
Greta
sbuffò e disse:
“Andiamo
al Galilei? Voglio vedere la nostra vecchia classe...”
Matteo
la guardò titubante e chiese:
“Sei
sicura?”
Greta
finì in un solo sorso il suo succo e annuendo rispose:
“Certo!
Ho voglia di sapere chi sta all'ultimo banco!”
Matteo
sospirò. Qualche cosa gli diceva che non era indicato per
Greta andare nella vecchia scuola, specialmente in un momento così
delicato.
Greta
lo guardò e quasi leggesse i suoi pensieri disse:
“Matteo...
Per nessuno la dentro sarò la ragazza dell'ultimo banco. Sarò
solo Greta Balestrieri, una vecchia alunna che ha deciso di andare a
salutare i suoi vecchi professori e vedere la classe dove ha passato
la sua adolescenza...”
“Non
puoi portare Gioia!” cercò di temporeggiare Matteo.
Lorenzo
sorrise e rispose:
“Tranquillo.
Sta con me. Andate se volete. Noi vi aspettiamo qua...” e
prendendo in braccio la bambina baciandole una guancia aggiunse: “...
vero piccola?”
Gioia
abbracciò Lorenzo ridendo divertita. Matteo spostò lo
sguardo dalla bambina e Lorenzo, a Greta.
Tre
contro uno... Aveva perso!
La
voce della Castelli arrivava chiara a forte da dietro la porta:
“Franceschini...
Ti avevo detto che dovevi assolutamente portare la traduzione oggi
oppure ti avrei messo due... Se non ce l'hai, come la mettiamo!”
“Io
un'idea ce l'avrei per Franceschini, professoressa...” gridò
la voce di un ragazzo.
Tutta
la classe rise. Matteo e Greta sorrisero sotto i baffi mentre la
Castelli gridava:
“Bosio.
Smetti immediatamente di fare lo stupido e chiedi scusa alla tua
compagna...”
Greta
scosse la testa e sollevando il pugno picchiò l'uscio. Il
silenzio calò di botto e la Castelli disse:
“Avanti!”
Fu
Greta ad aprire la porta. E fu Matteo l'unico dei due a sentirsi
agitato dal tornare nella vecchia classe dove aveva compiuto gli
studi di terza liceo e che ora ospitava una quarta ginnasio.
Ma
quando la Castelli li vide e spalancò la bocca per la
sorpresa, un po' dell'ansia andò via e Matteo, anzi, quasi si
aspettava una ramanzina per aver fatto tardi.
“Balestrieri!
Zanin!” e sollevandosi andò a baciare i suoi due ex
alunni, calorosamente.
“Come
state?” chiese la donna.
“Bene!”
sorrise nervoso Matteo.
Greta
invece guardava verso il suo banco. Una piccola fitta al cuore la
prese quando vide al posto suo e di Matteo due ragazze che parlavano
fitto tra di loro, indicando Matteo e guardandolo con occhi famelici.
“E
tu Balestrieri? Che cosa studi adesso?”
Greta
si voltò, sorrise e rispose:
“Faccio
giurisprudenza... Sono al passo con gli esami e ho la media del
ventotto!”
Gli
occhi della Castelli si riempirono di orgoglio guardando Greta e
Matteo e indicando la classe che li osservava curiosa disse:
“Qua
invece non cambia nulla!” e sorridendo continuò a
parlare con Matteo, mentre gli occhi chiari di Greta rimasero
poggiati sull'ultimo banco.
Con
un cenno della mano Greta si allontanò dalla professoressa che
la guardò per un attimo confusa. Matteo rimase in silenzio,
guardando l'amica che come un fantasma si avvicinava all'ultimo
banco, quello vicino alla finestra.
“Ti
dispiace se mi metto a sedere?” chiese alla nuova occupante del
banco una volta che lo ebbe raggiunto.
La
ragazza con i capelli neri e gli occhi appesantiti dall'eye-liner,
giocherellò con il piercing che aveva sotto il labbro al lato
sinistro e annuendo di alzò e lasciò il posto a Greta
senza dire una sola parola.
Greta
sorrise, la ringraziò e si mise a sedere. E quando lo fece
quasi sentì un nodo salire in gola. Un nodo difficile da
mandare giù.
Le
dita della giovane corsero sui vecchi tagli che aveva impresso nel
banco.
La
sporcizia e la polvere di quei due anni sembrava quasi li avessero
guariti.
Un
dito indugiò sulla parola PAURA e la vicina della ragazza che
occupava il suo posto chiese:
“Questo
era il tuo banco?”
Greta
sollevò gli occhi lucidi e guardò la ragazza, poi volse
lo sguardo del suo migliore amico e sorrise:
“No!”
rispose: “La ragazza che occupava questo banco non c'è
più!” e una lacrima scese veloce bagnando le labbra di
Greta Balestrieri.
Claudia
sorrise e abbracciò Greta dicendo:
“Mi
spiace quasi che non ci siamo potute conoscere a fondo quando stavamo
nella stessa classe. Ero proprio una stupida...”
Greta
scosse la testa e prendendo meglio la mano di Gioia rispose:
“Non
c'è problema. Vuol dire che ci conosceremo meglio adesso!”
Claudia
annuì con un sorriso e abbracciò Greta sussurrandole:
“Torna
presto a trovarci!”
“Ci
puoi contare...” rispose l'altra.
Matteo
la guardò staccarsi dalla sua ragazza e quando Greta le fu
vicina sentì una strana sensazione di vuoto riempirgli il
petto. La sua migliore amica stava già andando via. E chissà
per quanto non l'avrebbe vista.
“Tranquillo.
Torno per il matrimonio di Michele...” sorrise Greta commossa
quasi rispondendo ai pensieri dell'amico.
“A
Giugno mancano ancora cinque mesi!” replicò Matteo.
Greta
sorrise e rispose:
“So
che aspetterai... Ci conto Zanin!” ribatté Greta con gli
occhi sempre più lucidi.
Matteo
chinò la testa per non guardare Greta negli occhi. Se lo
avesse fatto sarebbe sicuramente scoppiato a piangere come un
bambino. E non voleva farlo davanti a Claudia anche se un nodo alla
gola stringeva sempre più forte, quasi volesse strozzarlo.
Greta
lo abbracciò, cogliendo Matteo di sorpresa. E piangendo disse:
“Voglio
conoscere questa Daria di cui mi avete parlato tanto. E poi i
matrimoni sono una cosa meravigliosa. Lo sai che li adoro...” e
asciugando le lacrime con il palmo della mano aggiunse: “Arrivederci
piccolo grande migliore amico...” e baciandogli una guancia
scappò sul treno, con la testa china e la piccola Gioia per
mano che voltata verso Matteo lo salutava muovendo la piccola manina
avvolta nel guantino colorato.
Matteo
rispose al saluto con gli occhi lucidi, stringendo Claudia.
Lorenzo
seguì le due poco dopo, salutando a sua volta.
Poi
il capotreno fischiò e l'intercity partì.
Greta
era di nuovo volata via, verso la sua nuova vita, verso le nuvole
come Remedios la Bella.
A
vivere la sua nuova vita dove era solo Greta Balestrieri e non più
la ragazza dell'ultimo banco.
FINE.
Bene!
Eccoci
all'ultimo capitolo.
Come
ho già detto la storia non sarebbe stata
lunghissima,
essendo
nata da una one shot
scritta
per il concorso di EFP di questa estate.
Ringrazio
chiunque abbia letto questa storia. E ringrazio chi
l'ha
aggiunta tra i preferiti, ricordati e seguiti in questo lunghissimo
periodo.
Ringrazio chi ha recensito i capitoli:
OurThirteen,
-Velvet-, maudsunrise, Pinkstuds ed elliepotter.
e
Chiara e Irene che hanno letto la mia storia
e
mi hanno fatto sapere il loro giudizio.
Spero
che sia piaciuta a tutti.
Fatemelo
sapere. Anche con una recensione che non fa mai male...
un
bacio e grazie a tutte.
Niniel82.
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