Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo

di Deliquium
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***



Capitolo 1
*** I ***


Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo

Introduzione

”Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo” è una storia ispirata interamente a “Saint Seiya” di Masami Kurumada, “Saint Seiya - Episode G” di Masami Kurumada e Megumu Okada, “Saint Seiya - Lost Canvas” di Masami Kurumada e Shiori Teshirogi. I suoi personaggi e ogni richiamo alle serie sopraccitate appartengono a Masami Kuramada, Megumu Okada e Shiori Teshirogi.
Il titolo è la traduzione di “Fiat iustitia et pereat mundus” citazione dell’Imperatore Ferdinando I.

Engel


[ I ]


1. L'uomo alla destra di Atena

Aveva quasi completato la sua vestizione.
Indossò la tunica di damasco, color blu oltremare, impreziosita da bordi d’oro e, abbassato, lo sguardo verso il suo inserviente, prese le tre collane, emblemi delle tre caste guerriere al servizio della dea.
Le soppesò pensieroso, lasciando scorrere le maglie ingemmate. Il tempo non le aveva corrotte, conservandole lucenti come quando erano state appena forgiate. Osservò la luce del sole giocare in riflessi bronzei, argentei e dorati e le indossò una a una.
Poi, Elia lo aiutò a mettere il coprispalle rigido e corse al tavolo a recuperare l’elmo classico, culminante nella raffigurazione di un’aquila che si libra in volo.
Il Gran Sacerdote tese le mani per afferrarlo, ma si fermò di scatto. Qualcuno aveva appena bussato.
Guardò il ragazzo, prese l'elmo e gli ordinò di andare ad aprire.
«Buongiorno Elia, è possibile parlare con il Gran Sacerdote?»
All’udire quella voce, ben conosciuta, il Sacerdote sorrise.
«Vieni, Saga. Entra pure.». Poi, guardando fuori dalla finestra, aggiunse: «Sei in anticipo, la Meridiana ha appena battuto le nove.»
Saga di Gemini varcò l’ingresso e lo raggiunse.
«Lo so bene, Aiolos, ma ho bisogno di parlarti prima che inizi il Torneo per l’assegnazione del Cloth...»
«E’ successo qualcosa?» domandò Aiolos, congedando Elia e invitando l'amico a sedersi.
Saga si accomodò su una poltrona di velluto scarlatto e legno intarsiato, accanto alla finestra.
«Nulla di grave. Solo che... ho appena lasciato Shaina dell’Ofiuco ed è... furiosa.»
Aiolos aggrottò le sopracciglia e un mite sorriso sornione comparve sul suo volto.
«Oh, non immaginavo che tu e...»
«No no, Aiolos.» si affrettò a dire Saga. «Per chi mi hai preso?! Shaina è furiosa con Seiya. Stando a quello che mi ha detto, l’allievo di Marin ieri sera ha tentato la fuga.»
Il volto del Gran Sacerdote si fece subito serio.
«Seiya? Fuggito dal Santuario?»
«Sì. Così mi ha raccontato Shaina. Afferma di averlo visto lasciare il Santuario insieme a Marin.»
«C’era anche Marin?»
«Così sembra.»
Aiolos si fece pensieroso. Seiya avrebbe dovuto partecipare al Torneo per l’assegnazione del Cloth di Pegasus tra poche ore e un’accusa del genere avrebbe pregiudicato il suo diritto a scendere nell'Arena.
«Le accuse sono molto gravi.»
«Sì, ma Shaina è convinta di quello che ha visto ed esige che Seiya venga cacciato dal Santuario...»
«Hai parlato con Marin? Che cosa dice la sua istruttrice?»
«Sostiene di aver portato Seiya fuori le mura per un allenamento speciale.» rispose inarcando un sopracciglio.
Il Gran Sacerdote assunse un'espressione pensierosa. Era chiaro, ad entrambi, che Marin aveva cercato semplicemente di proteggere il suo allievo. Seiya, probabilmente, si era fatto prendere dal panico alla vigilia dello scontro e aveva cercato di fuggire. Marin l'aveva sorpreso, l'aveva inseguito ed era riuscita a riportarlo indietro.
«Non è tutto qui, Aiolos... Conosci bene la piega che stanno prendendo le cose, qui ad Atene, negli ultimi anni...»
Aiolos aggrottò le sopracciglia. Lo sapeva molto bene e la cosa non gli piaceva per nulla.
«Sì, Saga. Quest’assurdo nazionalismo che agita gli animi dei soldati ... E' inconcepibile che proprio qui, nella patria della dea, gli uomini possano solo pensare a cose del genere.»
«Non possiamo farci nulla, Aiolos. I soldati non sono Saints, non possiamo pretendere che siano capaci di vedere le cose come noi le vediamo. Le loro menti sono semplici, i loro bisogni primari.»
«Tutto questo è inaccettabile! Come se Atena facesse distinzioni. Atena non si preoccupa solo dei greci... Si preoccupa del mondo intero e lotta per il mondo intero e così fanno i suoi Saints.»
«Sì, questo è vero. Ma i greci non amano che le loro tradizioni coinvolgano anche altre persone ...»
«Stai forse dicendo che non vedono di buon occhio una possibile vittoria di Seiya, solo perché è giapponese?!»
«Non arrabbiarti Aiolos. Sono indignato quanto te, ma questa è l’aria che tira ... Soprattutto per quanto riguarda l’armatura di Pegasus. Tu sai che è considerata un tesoro nazionale, dato il ruolo primario che aveva avuto il Cavaliere di Pegasus, nella precedente Guerra Sacra.»
Aiolos si alzò, e andò alla finestra. La Meridiana dello Zodiaco si stagliava contro un cielo di un azzurro così perfetto, da sembrare dipinto da un pittore dalla mano immobile.
Dopo la morte di Shion, lui era diventato Grande Sacerdote di Atena e, con l’aiuto di Saga, aveva iniziato a ricreare le tre caste guerriere al servizio della dea. La principale, quella dei Gold Saints, era già completa, mentre per quella dei Silver e dei Bronze dovettero cercare i possibili candidati per oltre dieci anni.
Ora, che la guerra contro Hades era alle porte, poteva ritenersi soddisfatto per esser riuscito a trovare quasi tutti gli ottantotto Saints.
Atena aveva da poco compiuto tredici anni e quando la guardava non riusciva a vedere solamente la dea. Vedeva la bambina che sembrava, con tutte le debolezze e la fragilità della sua persona non ancora completamente sbocciata. Spesso si era chiesto per quale ragione la dea decidesse sempre di reincarnarsi in un'infante e crescere al loro fianco, come se fosse un normale essere umano.
Sospirò.
Saga aspettava che prendesse una decisione, riguardo a Seiya.
Saga di Gemini… un amico prima che un compagno.
Con lui aveva condiviso il periodo dell’addestramento. Avevano combattuto, fianco a fianco, quando Atena non era ancora discesa e, quando lui era stato scelto da Shion come successore, avevano continuato ad agire, insieme, nel nome della dea. L'uno come pontefice, l'altro come il migliore, tra tutti i Santi devoti alla dea. Sarebbe potuto essere un ottimo Gran Sacerdote, Saga di Gemini, ed Aiolos, pur accettando la decisione di Shion con somma gioia, non aveva mai compreso fino in fondo, per quale ragione egli avesse scelto lui e non Saga…
«Parlerò con Atena di questo e insieme cercheremo una soluzione.» disse, improvvisamente, volgendosi verso Saga.
Pensare al passato non sarebbe stato di molto aiuto. Shion si era trovato davanti a una scelta difficile e con tutta probabilità doveva aver preso quella decisione tenendo conto di tutti i fattori.
«Credo sia la scelta migliore.» disse Saga.
La dea aveva potere decisionale su ogni cosa, soprattutto ora che, divenuta cosciente, aveva occupato il suo posto a capo del Santuario. Se Atena avesse ritenuto Seiya troppo indegno per partecipare al Torneo, allora ci sarebbe stato ben poco da fare.
«Riguardo a quell’altra faccenda. Cosa mi dici, Saga?»
Saga, che nel frattempo aveva distolto il proprio sguardo, tornò a fissarlo. Il Gran Sacerdote era sempre in piedi, illuminato alle spalle dalla vigorosa luce del mattino.
«La situazione è preoccupante, ma non ci è ancora sfuggita di mano. Aiolia dovrebbe atterrare a breve negli Stati Uniti.»
«Ci sono stati problemi con il Governo?»
Il Saint di Gemini si strinse nelle spalle.
«Non in modo particolare. Il presidente ha preteso che Aiolia venisse accompagnato da un negoziatore.»
«Questo non piacerà molto ad Atena...» - disse il Gran Sacerdote con rammarico.
Negli ultimi tempi, si erano verificati preoccupanti casi di diserzione. Saints considerati moralmente integri, si erano macchiati di colpe imperdonabili. E la comparsa di una schiera di rinnegati non aveva fatto altro che peggiorare la situazione. Si trattava di deboli focherelli sparsi, ma anche la più piccola fiamma, se lasciata a sé stessa, poteva crescere fino a creare un incendio.
«Tienimi aggiornato su quanto sta accadendo. Mi fido di te, Saga.» disse Aiolos, mentre il Cavaliere di Gemini lasciava la stanza.

2. Tu non meriti di essere qui!

L'aria era inerte.
Milo si passò una mano sulla fronte madida di sudore e alzò lo sguardo verso gli ultimi spalti dell'Arena. Atena sedeva sotto il baldacchino che il Grande Sacerdote aveva fatto installare per proteggerla dai raggi del sole e volgeva sovente il suo sguardo alla propria destra, occhieggiando preoccupata Zoe, la sua fedele civetta. L’animale, notturno per eccellenza, era solito accompagnare la dea in ogni sua apparizione pubblica, anche di giorno, facendo un’enorme violenza sulla sua natura. Appollaiata sul trespolo, continuava a dondolare, avanti e indietro.
Milo era sicuro che da lì a poco, la civetta di Atena si sarebbe schiantata al suolo addormentata. Come già, del resto, era capitato in svariate occasioni… Ma Zoe era una civetta tosta e fedele e non avrebbe mai abbandonato la sua dea, neppure se fosse morta di sonno…
Osservò gli spalti circondanti l'arena di combattimento. Erano gremiti di soldati, sacerdotesse, apprendisti Saints, ancelle... La maggior parte di coloro che viveva all'interno delle mura del Santuario era assiepato lì, pronto ad assistere a quello che sarebbe stato il torneo dell'anno.
L'armatura di Pegasus, e conseguentemente il suo custode, era da sempre considerata speciale. Un legame antico la univa alla stessa dea, elevandola a un grado superiore a qualsiasi altra armatura, persino a quelle d'oro. Restava solo da capire se, anche in quest'era, il Saint di Pegasus sarebbe stato degno della fama dei suoi predecessori, come Tenma, le cui gesta, risalenti al diciottesimo secolo, venivano ancora narrate ai bambini quando venivano messi a letto.
L'aumento di brusio della folla fu il segnale dell'arrivo dei due contendenti.
Milo si sporse maggiormente per non perdersi nulla.
Cassios e Seiya marciavano affiancati verso il centro dell'arena. Il primo, nonostante la giovane età, era un vero e proprio gigante, conosciuto ad Atene per la sua forza e la sua crudeltà verso i nemici. L'altro, di origini nipponiche, era piuttosto basso e di corporatura esile.
Milo aveva sentito parlare di lui da Aiolia, che nutriva una certa simpatia per questo ragazzino venuto da lontano. Simpatia che, però, non era condivisa quasi da nessuno, come dimostravano i fischi e i commenti che piovevano dagli spalti.
«Barbari.» sussurrò aggrottando stizzito le sopracciglia.
«Cosa vuoi farci? Seiya non è ben visto qui in Grecia.»
In piedi al suo fianco, Aldebaran, Saint del Toro, aveva ragione. Lo sapeva benissimo che ultimamente le cose in Grecia avevano preso una brutta piega, soprattutto per quanto riguardava l'atteggiamento dei locali per gli stranieri. Questa xenofobia era inaccettabile e il suo pensiero principale andava alla dea. Atena non voleva prendere le parti di nessuno, ed era evidente che tutto ciò la rattristava.
«Ognuno di voi ha combattuto e ha sconfitto nove tra i più valenti guerrieri del Santuario!»
La voce del Gran Sacerdote richiamò immediatamente la sua attenzione.
L'uomo si era fatto avanti, salendo sul pulpito avanti la dea.
«Siete gli unici sopravvissuti. Oggi, chi otterrà la vittoria, diventerà uno dei Saint di Atena.»
Fece una pausa, si voltò verso la dea, che annuì, e riprese: «Tuttavia, siamo venuti a conoscenza di un fatto che potrebbe pregiudicare il diritto di Seiya a partecipare a questo scontro.»
Milo si accorse immediatamente del cambiamento d'espressione del ragazzo. Rigido come una statua, se ne stava a pugni stretti, fissando il pulpito.
«Siamo stati informati che Seiya, ieri sera, si trovava al di fuori delle mura del Santuario. Secondo coloro che l'hanno visto, Seiya stava fuggendo...»
I commenti negativi aumentarono e alcuni epiteti, non certo gentili, iniziarono a piovere in direzione di Seiya.
Milo si voltò verso gli spalti, occhieggiando minaccioso quelli immediatamente sopra di lui.
«Silenzio!» ammonì severo il Gran Sacerdote. «Siete al cospetto di Atena.»
Le voci si zittirono e molti s'inginocchiarono a capo chino.
«Come voi ben sapete, la fuga è una colpa gravissima qui al Santuario. Chi se ne macchia viene severamente punito e perde ogni diritto a concorrere all'assegnazione del Cloth. Io e Atena abbiamo ascoltato sia le accuse che sono state mosse a Seiya, sia le spiegazioni riguardo il suo comportamento. Sappiamo che Seiya, ieri sera, si trovava fuori dalle mura del Santuario, ma non possiamo sapere se stesse scappando, o se stesse seguendo un allenamento speciale come afferma la sua istruttrice...»
«E' un'assurdità! Seiya stava fuggendo perché aveva paura di combattere contro Cassios!»
Il Gran Sacerdote guardò severo Shaina. La sacerdotessa accortasi di quello smacco, si affrettò a inginocchiarsi e a chiedere perdono. Le sue mani, premute a terra, graffiavano nervose il terreno.
«Farò finta che tu non abbia detto nulla, Shaina. Ma, bada, che un’altra mancanza di rispetto del genere, sarà severamente punita.» Poi, tornando a guardare la folla, continuò: «Poiché, allo stato attuale delle cose, ci è impossibile capire se Seiya sia fuggito o meno, con il benestare di Atena, si è deciso di consentirgli lo stesso di combattere...»
Shaina era furiosa e a malapena riusciva a nascondere la sua rabbia. Milo non sapeva se avesse torto o ragione, ma, per quel poco che la conosceva, era certo che non avrebbe lasciato correre la cosa, indipendentemente dalla vittoria o dalla sconfitta di Seiya.
Come aveva immaginato, i commenti che si erano spenti poco prima, ripresero immediatamente ad assiepare l'aria.
Il Gran Sacerdote richiamò nuovamente i presenti all'ordine, ma il monito, questa volta non parve ottenere l'effetto di prima.
«Solo il combattimento potrà dimostrare chi dei due è degno di indossare le vestigia. Se Seiya è un vigliacco, allora non potrà mai vincere contro Cassios, poiché il Fato non permetterà mai che un vile divenga Cavaliere di Atena.»
Milo annuì soddisfatto. Cassios non gli era mai piaciuto e assegnargli il cloth per abbandono dell'altro contendente era una cosa che lo avrebbe urtato e non poco.
«Che il combattimento abbia inizio.» Troneggiò, improvvisamente, la voce del Gran Sacerdote.
Immediatamente, Cassios, come un possente carro da guerra, si precipitò verso Seiya, sollevandolo al di sopra della propria testa. Il ragazzino, tenuto ben saldo per la vita dalle possenti braccia dell'avversario, si dibatteva nel vano tentativo di liberarsi da quella stretta d'acciaio.
«Saresti dovuto scappare ieri sera, Seiya! Desideri così tanto l'armatura di Pegasus, da offrire in cambio la tua vita?»
Milo strinse i pugni, mentre Seiya afferrava le braccia di Cassios.
«Che cosa credevi di fare, eh?! Non ti permetterò di avere quell'armatura, muso giallo... Il Saint di Pegasus dovrà essere greco…»
La stretta di Cassios si fece ancora più vigorosa. Seiya urlò di dolore. I suoi occhi si fecero vitrei. Aveva il volto congestionato per la mancanza di ossigeno.
«Quel ragazzino non ce la farà...» disse sottovoce Milo.
«Pazienza, Milo. Pazienza...»
Aldebaran nutriva ancora fiducia in Seiya.
L'attenzione di Milo ritornò al combattimento.
«Ti farò a pezzi. Lentamente... Da cosa potrei cominciare? Che ne dici se ti staccassi un orecchio, eh Seiya?»
La gigantesca mano di Cassios si sollevò verso l'alto.
«Che barbarie inutile. E quello sarebbe un futuro Saint di Athena?»
«Se il Fato ha scelto Cassios come Saint di Pegasus, allora dobbiamo piegarci al suo volere.» sentenziò Camus, mantenutosi in silenzio fino a quel momento.
Milo lo guardò, senza dire nulla. Sapeva che il Saint di Aquarius aveva ragione. Ciò non toglieva, che fosse indignato dalla crudeltà gratuita di Cassios.
Guardò Shaina che impassibile osservava il combattimento, e stentava a credere che una donna della risma dell'Ofiuco, famosa in tutto il Santuario per la sua lealtà e coraggio, avesse contribuito a creare un simile demonio.
Con un rapido gesto Cassios calò la propria mano verso l'orecchio di Seiya, come una mannaia.
Accadde tutto molto rapidamente, e quasi nessuno dei presenti fu in grado di seguire i movimenti.
«Notevole... davvero notevole...» disse annuendo il Saint del Toro.
Con un'espressione irriverente sul volto, Seiya fissava Cassios. Il gigante non si era reso conto di quello che era accaduto e attonito spostava il proprio sguardo da Seiya a terra dove un orecchio, il suo orecchio, giaceva insanguinato.
«Maledetto...»
«Allora Cassios... dopo l'orecchio cosa vuoi che ti tolga?»
Atena e il Gran Sacerdote erano rimasti impassibili. Ma un leggero sorriso era comparso sul volto di entrambi.
«Cassios, ti ho chiesto... quale parte del corpo vuoi che ti tolga? Se ti colpisco nella parte che preferisci, riuscirai a capire di essere stato sconfitto?»
Cassios non sembrava intenzionato a cedere.
Avanzò, pronto a sferrare un nuovo attacco, ma i colpi di Seiya, portati a una velocità a cui Cassios non era in grado di stare dietro, lo colpirono ripetutamente.
Milo sorrise soddisfatto, incurante del fatto che non confaceva a un Gold Saint patteggiare per un contendente in modo così marcato.
Ma il grido improvviso di Shaina cancellò il sorriso dal suo volto. La Sacerdotessa si era alzata in piedi e rivolgeva parole d'incitamento al suo allievo.
«Se non sconfiggi Seiya, un giapponese si porterà via l'armatura di Pegasus... E' questo che vuoi? Vuoi che l'armatura finisca nelle mani di quel muso giallo...»
Milo scosse la testa. Ecco da dove veniva l'atteggiamento ostile di Cassios... Odiava Seiya fino a quel punto? Le parole Shaina avevano sortito il loro effetto. Cassios stringeva i pugni e l'espressione del suo volto si era fatta truce e determinata.
«Non te la lascerò portare via. Quell'armatura appartiene alla Grecia sin dall'antichità... Tu non hai nessun diritto d'indossarla.»
Caricò il pugno destro, calandolo su Seiya, ma fu tutto inutile.
La piccola mano del ragazzo l'aveva fermato ancor prima che raggiungesse il suo volto.
«Non vuoi proprio capire, Cassios? Sei tu che non hai diritto ad indossarla. Hai solo ottenuto la forza superficiale di un Saint! Tu, l’hai mai sentito il Cosmo dentro di te?»
Milo si rilassò completamente. Per lui, il combattimento era già finito. Cassios non sapeva nemmeno di cosa stesse parlando. Guardava Seiya come se le sue parole fossero state stupidaggini. Non lo stupiva un simile atteggiamento. Uno che era abituato a usare solo la forza non sarebbe mai potuto diventare Saint di Atena.
Sentì Camus alzarsi.
«Aspetta.» lo richiamò immediatamente.
Il Saint di Aquarius si voltò. Milo lo teneva per un braccio, mentre fissava il centro dell'arena.
Seiya aveva assunto una posizione singolare e muoveva le braccia apparentemente in modo casuale.
«Sta disegnando la costellazione di Pegasus con il movimento delle braccia...» sussurrò il Saint di Scorpio.
Camus annuì.
Il Ryusei Ken, uno dei più potenti colpi destinati al Saint di Pegasus, mandò al tappeto Cassios, senza lasciargli alcuna possibilità di difesa.
Seiya aveva vinto.

3. A un passo dall’inferno.

Gli avevano detto che il suo compito sarebbe stato quello di scortare una persona fino al reattore esploso. La fuga di radioattività era stata circoscritta a quella singola area, ma se anche gli altri due reattori fossero saltati in aria, i danni sarebbero stati incalcolabili.
Aveva subito capito che non si trattava di un incidente.
Lui era un negoziatore e il suo compito era quello di aprire un dialogo con i terroristi, ascoltare le loro richieste, cercare di entrare nella loro testa e di trovare le parole capaci di scuotere la loro coscienza.
Anche se era considerato tra i migliori, John Black sapeva che non sempre la sua voce raggiungeva il "cuore" delle persone. Com'era successo a Los Angeles, in quella scuola... ma quella era un'altra storia e tormentarsi… a lungo… come aveva già fatto, non avrebbe fatto nient’altro che impedirgli di salvare altre vite.
“Non puoi mollare, perché hai fallito… Perché, se lo fai, non potrai più proteggere nessuno” gli aveva detto sua moglie e lui l’aveva ascoltata, perché lei era l’unica persona capace di negoziare con la sua anima.
Era giunto alla centrale nel tardo pomeriggio.
Dopo la deflagrazione, si era formata una bolla di idrogeno che, se fosse esplosa, avrebbe causato la morte immediata di almeno ventisettemila persone, per non parlare di coloro che sarebbero morti successivamente a causa delle radiazioni.
Ora, era lì, in piedi, dentro quella stanza e fissava perplesso il giovane che gli stava davanti. Non sembrava avere neppure vent’anni. Gli occhi verdi e limpidi lo osservavano attentamente e il suo volto, imberbe, dimostrava tutta la sua giovane età.
John rivolse il suo sguardo al sovrintendente Timothy Brown, come a chiedergli conferma a ciò che stava pensando.
"Era proprio quella la persona che doveva condurre al reattore esploso?"
Dal gesto di assenso dell’uomo, capì che, purtroppo, non si era sbagliato.
«Un momento.» disse «Voi volete che io scorti questo civile là dentro?! Non scherziamo. Questo ragazzo non avrà neppure vent’anni... Ed io non intendo …»
«Se per lei è un problema, posso andare anche da solo. Ditemi solo dove si trova il reattore.» lo interruppe il giovane.
John fece per ribattere, ma Brown, alzatosi in piedi, lo precedette.
«Ho l’ordine del Presidente di permetterle l’ingresso al reattore, purché sia accompagnato da un negoziatore.»
«Se il vostro Presidente desidera questo, per me non ci sono problemi.»
«I problemi ci sono per me.» intervenne Black «Non mi piace mettere a repentaglio la vita di qualcuno in questo modo e non mi piace neppure lavorare senza sapere cosa sta accadendo di preciso.»
«I dettagli non devono interessarti, John.»
«E’ il Presidente che ha ordinato di mandare questo ragazzo là dentro?»
Brown scosse la testa.
«Non è stato il Presidente ad ordinarlo, ma qualcuno che sta al di sopra di lui. Il Presidente ha soltanto preteso la tua presenza. Non vorrai rifiutare una sua richiesta...»
John Black serrò i pugni. C’era troppo mistero in tutta quella faccenda e lui aveva imparato che per la buona riuscita di una missione la cosa più importante era conoscere i dettagli… ma così… non poteva lavorare così.
«Posso andare da solo a parlare con il terrorista.» disse, improvvisamente.
«Non è possibile, signor Black. Lei non sa assolutamente con chi ha a che fare.»
«Ragazzo, ho impedito molti attentati terroristici nel corso della mia carriera…»
«Questa volta è diverso. La prego di non opporsi ulteriormente. Può scegliere se accompagnarmi, come ha preteso il vostro Presidente, o no. In ogni caso, io ho il dovere di entrare là dentro.»
Black alzò le mani in segno di resa.
«D’accordo ragazzo, se tieni alla tua vita così poco, sarà mia cura scortarti personalmente all’inferno.»


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Capitolo 2
*** II ***


Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo

[ II ]


4. Questo è il mio orgoglio.

Il suono degli allarmi riecheggiava nell’aria. Un suono perpetuo ed ostinato che risvegliava il primordiale istinto di conservazione.
Il personale della centrale era stato evacuato e i corridoi erano deserti e tinti di rosso dalle luci di emergenza.
John Black procedeva rapidamente per i corridoi, diretto alla stanza dov’erano posizionati i reattori nucleari. Accettando di accompagnare quel ragazzo, metteva in dubbio tutti i suoi principi, per i quali aveva sempre posto, al di sopra di tutto, la vita umana. Si sentiva come colui che spingeva l’innocente nelle fiamme degli inferi. Se ciò doveva avvenire, allora sarebbe saltato anche lui tra quelle fiamme e avrebbe protetto quella vita, fino alla fine.
«Ho notato che non sei di madrelingua inglese.» disse, mentre le porte dell’ascensore si chiudevano alle loro spalle. «Dove sei nato?»
«In Grecia.» rispose laconico il ragazzo.
«Capisco… Vieni da parecchio lontano.» constatò. «Senti, non ce l’ho con te… E scusami se ti sono parso un po’ scontroso, prima. Ma, non sono abituato a lavorare in questo modo.» Poi, scuotendo la testa con un sorriso vagamente amaro, aggiunse: «In ogni caso, non avere timore… Non so esattamente cosa contano di fare con te là dentro, ma io non permetterò che ti accada nulla.»
Il giovane non rispose. Sembrava perso in propri pensieri, così distanti che John si domandò se lui avesse realmente sentito le sue parole.
«Capisco che tu abbia i tuoi segreti, non voglio entrare in merito. Ma, almeno il tuo nome potresti dirmelo?»
«Leo.»
John sospirò.
«Leo, eh?! D’accordo… non insisterò.»
Gli aveva dato un nome falso e non proferiva parola, se non quelle indispensabili. Era chiaro che non si fidava di lui e che non era neppure tanto "entusiasta" di averlo con sé. Probabilmente, riteneva la sua presenza inutile e se aveva accettato, era solo perché gli era stato imposto come condizione per accedere al reattore nucleare.
La porta dell’ascensore si aprì e loro poterono scorgere in fondo al corridoio l’ingresso alla sala reattori.
John si avvicinò ad un armadio di metallo situato nei pressi dell’entrata e lo aprì, digitando un codice su una piccola tastiera.
«Oltre quella porta, ci sono i reattori. L’intera stanza è pervasa da radiazioni…»
«Perché lo fai?» gli chiese improvvisamente Leo.
John si voltò di scatto e il ragazzo continuò: «Tu non sei un militare, allora perché lo fai? Perché metti a repentaglio la tua vita? Desideri così tanto proteggere il tuo paese?»
Scoppiò a ridere, mentre prendeva una delle tute di protezione all’interno dell’armadio.
«Non sono affatto interessato a proteggere il mio Paese. Io sono un negoziatore. Questo è il mio lavoro e mi pagano per farlo.» spiegò. Ma dopo una breve pausa, aggiunse: «Comunque non sono i soldi la ragione principale, anche se, devo ammettere che non mi dispiacciono…»
«Allora, perché lo fai?» insistette il ragazzo.
«Per proteggere.» rispose serio John. «Quando un terrorista prende in ostaggio qualcuno, o minaccia di fare un attentato, ci sono delle persone che rischiano la vita… Sono convinto che in tali situazioni, soltanto un’apertura di dialogo con lui può evitare la strage. Loro hanno idee in cui credono e che ritengono giuste e tali idee, spesso, li portano a calpestare il bene più prezioso, la vita. Se parlando con loro, io posso arrivare alle loro coscienze, allora non mi tirerò certo indietro.»
«Ma è pericoloso. Non hai mai avuto paura di morire…»
«Paura di morire? Certo, non posso negare di non aver paura… ma questo è il mio lavoro.»
«E’ questo il tuo senso dell’onore, John Black?»
«Onore? No no… non è onore. E’... orgoglio.»
Una strana espressione affiorò sul viso del ragazzo.
«Credo di capire cosa intendi…» - disse, quasi a sé stesso.
«Beh… basta parlare, ora.»
John aveva già indossato la tuta protettiva e ne stava porgendo un’altra al ragazzo.
«Quelle tute non sono necessarie.»
«Leo, non comprendi il mio inglese?!» chiese, sinceramente preoccupato di non esser stato capito dal ragazzo quando gli aveva spiegato che la stanza era invasa da radiazioni.
«Ho compreso ciò che hai detto, John Black, ma ti dico che quelle non sono necessarie.» ribatté, indicando con un cenno del capo le tute.
«Ma…»
«John Black, io ho deciso di fidarmi di te. Ed ora, io ti chiedo di fidarti di me… Quelle tute non servono.»
Non appena ebbe finito di pronunciare quelle parole, una luce dorata cominciò a brillare, circondandolo come un’aura. John sbatté le palpebre un paio di volte, ma quella luce non accennava a sparire, anzi, il bagliore divenne man mano più intenso e iniziò a circondarlo.
«Ma che diavolo…»
L'idea di togliersi la tuta di protezione non lo convinceva affatto, ma Leo era così certo di ciò che affermava che non aveva potuto fare nient'altro che ubbidire. E poi, c'era quella luce dorata tutt'attorno a loro ...
Non appena furono dentro, John si accorse che la situazione era peggiore di quella che si era immaginato. Stando alle informazioni, le alte temperature raggiunte all'interno del reattore avevano determinato la fusione del combustibile. L'acqua aveva reagito chimicamente con lo zirconio, producendo grosse quantità di idrogeno gassoso. E l'incredibile quantità di vapore aveva causato la rottura delle tubature.
L'esplosione era stata così forte, da sbalzare in aria la copertura del reattore: un disco di calcestruzzo e acciaio di 2000 tonnellate.
Deglutì a vuoto. Lo spazio era invaso da una nube di vapore che, però, non gli impediva di scorgere il reattore semidistrutto e le enormi macerie che lo circondavano.
«Va tutto bene?» gli domandò Leo.
John si guardò le mani luminescenti.
«Credo di sì... non avverto nessun disagio... Questa luce dorata... E' forse un effetto della radioattività?»
«La radioattività non centra nulla. Ma tu non uscire da quella luce, altrimenti non potrò più proteggerti...»
Il reattore esplose una seconda volta. L’onda d’urto, che sarebbe dovuta essere sufficientemente forte da sbalzarli lontano qualche metro, li sfiorò come un vento primaverile.
Guardò incredulo attorno a sé, sorpreso di essere ancora tutto intero.
Leo non aveva mentito. Quella luce, in qualche modo che gli era impossibile comprendere, aveva davvero il potere di proteggerlo.
«Siete Saints?»
Socchiuse gli occhi. Una figura stava in piedi nei pressi del reattore esploso.
«Nessuno può resistere a quest'aria radioattiva. Se siete riusciti ad arrivare fin qui senza protezioni, dovete essere dei Saints.»
Santi? Un momento. Cercò di rimettere in ordine i pensieri che avevano cominciato ad annebbiargli la mente. Punto primo. Cosa diavolo ci faceva quel tizio accanto al reattore, abbigliato in quel modo per giunta? Non poteva dire di vederlo completamente bene, ma se la vista non lo ingannava del tutto, indossava una specie di armatura romana... o qualcosa del genere. Punto secondo. Cosa stava farneticando? Che Leo non fosse un comune essere umano, l'aveva intuito, ma da qui, a parlare di Santi, ce ne voleva... Si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore. Ci mancava solo questo pazzo invasato. Respirò profondamente, ben sapendo che avere a che fare con un terrorista era problematico, ma cercare di far ragionare una persona non sana di mente era quasi impossibile.

5. Colui che non è Santo.

«Mi dispiace, ma non conosco nessun Saint.» cominciò John, assecondando l’uomo. «Io sono un negoziatore e sono stato mandato qui per ascoltare le tue richieste...»
«Le mie richieste?!» domandò questi, esplodendo in una risata profonda. «Niente che tu possa offrirmi. A meno che tu non sia un Saint…» Poi fattosi serio, riprese: «Desidero una cosa sola. Combattere contro un Saint di Atena.»
No, decisamente. Quest'uomo era completamente pazzo.
«Un combattimento, dici?» 
L'uomo avanzò verso di loro, uscendo completamente dai fumi che celavano parzialmente la sua figura. Non si era sbagliato: era un'armatura romana quella che indossava. Un pazzo... John era sconvolto. Com'era riuscito quell'uomo a far esplodere il reattore?!
«Voi, esseri umani inferiori, non potete capire chi sono i Saint di Atena. Siete convinti che i miti siano solo tali... Leggende.»
Sputò fuori quella parola con disprezzo.
John deglutì. C'era qualcosa in quell'uomo... Non sapeva spiegarlo bene... era più una sensazione che un qualcosa che poteva dire di vedere o di capire realmente.
«Nei loro corpi alberga la forza divina. I loro pugni fendono il cielo, i loro calci spaccano la terra... essi proteggono la dea che, ogni tre secoli circa, si fa donna... e scende sulla terra. Essi sono i Saints, i sacri guerrieri di Atena...»
«E tu, saresti uno di loro?»
Guardò Leo, ma il giovane non aveva affatto l'espressione incredula che si sarebbe aspettato. Certo, c'era sempre quella luce dorata attorno a lui... Quella luce che, a detta di Leo, lo proteggeva. Ma in che modo? E perché?
«No, non sono un Saint.» sputò fuori l'uomo con disprezzo. «Essendo troppo forte, Atena si è rifiutata di conferirmi il titolo...»
«Non sei diventato Saint perché sei troppo forte?»
L'uomo lo fissò con occhi iniettati d'odio.
«Cosa ne vuoi sapere tu, misero umano?!» digrignò, mentre una specie di aura iniziò ad avvolgerlo. «Ho combattuto numerose battaglie... uccidendo innumerevoli persone... E ho dimostrato di essere il più forte tra tutti coloro destinati a entrare nelle schiere di Atena, ma la dea...» La sua voce si spezzò, un attimo, per poi continuare con l'analogo vigore offeso. «... La dea non ha apprezzato. La dea ha detto che io non ero degno di combattere in suo nome... E mi ha cacciato dal Santuario, alla vigilia della mia investitura... Ora, dimostrerò ad Atena e a tutto il Santuario quanto si siano sbagliati a cacciarmi... Distruggerò questa centrale nucleare e moltissime persone moriranno. Se Atena vuole fermarmi, che mi mandi i suoi Saints. Io non ho paura di loro e li ucciderò tutti, dimostrando di possedere la forza per essere un cavaliere. Ma adesso basta! Questa non è una faccenda che può riguardare un negoziatore... Tu, mi sei solo d'intralcio...»
John aveva ascoltato le parole dell'uomo attentamente. La sua ragione gl'imponeva di ritenerle solamente divagazioni di un pazzo, ma qualcos'altro, il suo cuore forse, gli suggeriva che no, quell'uomo non stava mentendo... Lui era realmente ciò che diceva di essere. E in un altro luogo, lontano, chissà dove, esisteva qualcuno che lo aveva giudicato colpevole... Lo percepiva attraverso le sue parole. Le sue emozioni, chissà come, lo avevano lambito e in qualche modo gli avevano aperto uno squarcio che dava su quel mondo... Aveva visto riflesso nei suoi occhi l'orgoglio, ma non era lo stesso orgoglio che egli sentiva. Era un orgoglio diverso, permeato di superbia. L'orgoglio di colui che si pone al di sopra degli altri, con vanità e disprezzo. Di colui che non si è mai pentito delle proprie colpe, perché non ha mai avuto il dubbio di essere nel torto. Di colui che è incapace di ascoltare e di vedere.
John aveva intravisto un mondo diverso, segreto e antico. Un mondo che nessuno gli aveva mai raccontato, ma che il suo spirito conosceva, perché faceva parte di loro, della loro storia di uomini.

6. Per proteggere qualcuno, non servono motivazioni.

«Perché mi hai protetto, John Black? Il tuo gesto è stato inutile.»
Gli occhi di John Black, lo guardavano.
«Mi chiedi perché ti ho difeso?!» una risata sommessa gli affiorò alle labbra, mutandosi in un colpo di tosse. «Perché... aiutare le persone... è una cosa naturale. Un comportamento ovvio. Non è un gesto inutile... Per... proteggere qualcuno... non servono motivazioni.»
L'aveva detto, l'aveva pronunciato prima che il suo spirito se ne andasse per sempre.
A capo chino, Leo non riusciva a staccare lo sguardo da quell'uomo. Aveva compreso, con quel suo ultimo gesto, che ogni sua parola, ogni sua azione, aveva avuto un unico scopo... proteggere un altro essere umano.
E lui? Come aveva potuto essere così cieco e ingiusto? Perché aveva permesso che un altro uomo, un uomo che lui avrebbe dovuto proteggere, desse la propria vita per lui...
C'erano cose, da tanto tempo, da quando era diventato un Gold che minavano il suo animo. Domande che si era posto. Dubbi che avevano gradatamente rosicato le sue certezze. L'essere un Saint per la giustizia, per Atena... il loro combattere in suo nome per la difesa dell'umanità.... cose buone e giuste, ma quanto si erano allontanati dagli uomini? Da quanto tempo avevano smesso di essere parte del genere umano? Essi lo difendevano, combattevano... ma in realtà, quanto lo conoscevano? Quanto conoscevano l'animo dell'uomo?
«Che cosa credeva di fare, mettendosi contro di me!?» La voce del guerriero decaduto, irruppe nei suoi pensieri. «Voleva forse diventare un eroe? Patetico... Un uomo che sa solo parlare, è un uomo inutile.»
«Ti sbagli.» La sua voce era calma. «Il suo gesto non è stato inutile. Dare la vita per qualcun altro, non è mai un gesto inutile e, ha ragione, non ha mai bisogno di motivazioni...»
«Allora, se morire è così un nobile gesto... che ne dici di raggiungerlo nell'oltretomba!» - urlò il guerriero decaduto, attaccandolo.
«L'oltretomba? Non farmi ridere... tu non sarai nemmeno in grado di sfiorarmi!»
Il guerriero decaduto lo guardò incredulo.
Si era mosso ad altissima velocità ed aveva evitato l'attacco senza il minimo sforzo.
Poi, senza dargli alcuna possibilità di riprendersi dalla sorpresa, sollevò un braccio e una luce esplose improvvisa per poi prendere rapidamente forma.
«Non chiederò come ti chiami...» cominciò, mentre una corazza dorata andava a ricoprirlo rapidamente. «Sulla tua tomba non ci sarà scritto il tuo nome. Morirai, senza che nessuno saprà mai che sei vissuto.»
Il guerriero decaduto non fece neppure in tempo a rispondere che i pugni di Leo, come un milione di stelle, lo colpirono sbalzandolo via.
A terra, privato in un attimo dei suoi desideri, delle sue certezze, fissava il soffitto con un’espressione di consapevolezza tracciata sul volto. L'ultima consapevolezza che il Fato gli aveva concesso, quella di chi ha compreso che tutta la sua forza era tale solo perché rapportata a qualcosa di meno forte di lui. Ma forse, non fece neppure in tempo a comprendere ciò. Forse il suo spirito, troppo corrotto dalla superbia, lo aveva abbandonato con l'illusione della propria inutile forza.
Il Saint non gli riservò che una breve occhiata. Uno sguardo che non era solo il disprezzo nei confronti di chi, in nome di Atena, aveva agito per proprio tornaconto, ma era anche la compassione nei confronti di un'anima che era stata accecata dal riflesso del sole dentro a uno specchio.
«E così, non ti ho detto neppure il mio nome, John Black.» - sussurrò guardando il corpo privo di vita del negoziatore. «Mi dispiace. Permettimi di dirtelo, ora. Il mio nome è Aiolia. Aiolia di Leo. Gold Saint al servizio di Atena.»


Anche se i fatti di Episode G sono antecedenti alla "saga dei Bronze Saints", ho deciso di cambiare i tempi e intersecare le due storie.
Ringrazio Camus (spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto) e Spartaco (Atena non influenzata dai soldi di Kido è cresciuta meglio e poiché la civetta è l'animale sacro alla dea, credo che Zoe le sarà molto fedele) per le recensioni.

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Capitolo 3
*** III ***


Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo

[ III ]


7. Ricordi all'ombra degli ulivi.

Il giardino degli ulivi, luogo sacro alla divina Atena, era immerso nella calda luce del tramonto. Il sole, basso e indebolito dalla sua attività giornaliera, resisteva ancora all'orizzonte, e le fronde degli alberi, posizionate in controluce, arabescavano la sua superficie pallida.
L'odore era intenso e penetrante. Un odore che poteva non piacere, ma che lui adorava, perché era il profumo della sua amata Grecia.
All'ombra di un grande ulivo, Atena sedeva in raccoglimento. La brezza le smuoveva delicatamente le ciocche castane e giocava irriverente con l'orlo della sua candida veste.
Aiolos la raggiunse, percorrendo il piccolo sentiero che dal cancello principale si snodava attraverso tutto il giardino.
Abbagliato dalla sua aura divina, la guardò rapito per alcuni istanti.
Una dea, la sua dea.
Zoe, appollaiata al ramo più basso, lo fissava arcigna e Aiolos accortosi di quel penetrante sguardo paglierino, abbozzò un sorriso. Per tutta risposta, Zoe gli riservò un frullare d’ali, invero piuttosto indispettito.
Atena aprì gli occhi e lo guardò.
Lui rimase in silenzio. Lo sguardo della sua dea era adombrato da una tristezza lontana ed egli aveva imparato, con il tempo, a decifrare ogni impercettibile variazione d'espressione sul suo divino viso.
«Tu credi che il Tempo abbia il potere di cancellare il dolore, mio buon Aiolos?» domandò lei, tutt'ad un tratto, adocchiando il cielo.
Aiolos distolse lo sguardo. I suoi occhi scrutarono per qualche momento le fronde brune degli alberi, prima di tornare a guardare la dea.
«Non lo so, divina Atena. So solo che esistono dolori talmente profondi che lo scorrere del tempo non riesce a scalfire...»
«Sì.» sussurrò lei, consegnando al vento quella sillaba leggera. «Lo sai che io avevo un'amica?»
Aiolos non assentì, né negò, limitandosi a guardarla attentamente.
La dea continuò.
«Sì, ormai è parte della leggenda. Penso che l'amicizia sia una cosa molto bella, tu non trovi, Aiolos?»
«Sì, divina Atena.»
La dea annuì, pensierosa. Una mano scivolò lenta a lisciare una piega del bianco peplo.
«Tuttavia.» riprese «A volte, sono proprio gli amici più cari a farci del male.»
Lui continuava a tacere. Il suo sguardo, fisso sul volto della dea, scorgeva appena ciò che stava oltre: le nere cime degli alberi e un cielo indaco spruzzato di fuoco.
«Eppure...» continuò la dea, parlando quasi a sé stessa. «Non si può fare a meno di loro e quando essi ci abbandonano, si portano via anche una parte di noi stessi. Questo sentimento non è comune a un dio, anzi, gli dei rifuggono da ogni sentimento d’amore e d’amicizia. Li considerano troppo umani ed è questa la loro debolezza … Io, invece, sono contenta di aver scelto la vita sulla Terra e sono contenta di aver abbracciato sentimenti nobili come l’amicizia. Ironico, che una divinità possa essere così stupida da perdere ciò che considerava prezioso come il suo stesso occhio.»
Tese la mano davanti a se, come se stesse cercando di afferrare qualcosa. La luce del sole al tramonto si irradiava lungo i contorni delle sue dita allargate in controluce.
«Ed ora...? Che cosa mi resta ora di quel nobile sentimento, se non rendere il suo nome immortale, accanto al mio?»
Rise Atena. Una risata bambina che si espandé attorno a lei. Ma non c'era gioia in essa, solo una profonda amarezza.
«Scusami, mio buon Aiolos, ma ultimamente il mio passato sembra tornarmi in mente molto spesso. Ti ringrazio per avermi ascoltata...»
«Nobile Atena, ascoltarvi è per me un dovere e un piacere.» si affrettò a dire Aiolos.
Atena piegò le labbra in un dolce sorriso.
«Tuttavia, non credo che tu sia venuto qui solamente per ascoltarmi, non è vero Aiolos?» domandò retoricamente la dea, mentre tendeva la mano verso Zoe.
«No, nobile Atena. Sono qui per mettervi al corrente a proposito della questione americana!»
«Molto bene. Ti ascolto.» lo invitò la dea, apparentemente concentrata sulla sua civetta.
«Da quanto mi ha riferito Aiolia, il responsabile dell'incidente era, come avevamo presupposto, un guerriero decaduto. Sembra che egli, non essendo riuscito ad ottenere l'investitura, abbia deciso di compiere quell'attentato.»
«E perché lo avrebbe fatto?»
«Per costringerci ad inviare un Saint contro il quale combattere.»
Un'espressione severa occultò la serenità della dea.
«Imperdonabile!» assentì, corrugando le sottili sopracciglia.
Aiolos annuì.
«La situazione ora è stata risolta, Aiolia è riuscito a sconfiggere quel guerriero e a riportare le cose alla normalità... Tuttavia...»
«Tuttavia...» lo incalzò la dea.
«Sembra che il negoziatore sia morto.» continuò, abbassando lo sguardo.
«Come? Morto?» esclamò la dea, sollevando di scatto il capo verso di lui.
«Sì. Non conosco i dettagli, ma questo è ciò che mi ha detto Aiolia.»
«Ho capito. Immagino che avesse famiglia... Occupatene tu, Aiolos.»
Aiolos chinò il capo in segno d'assenso, mentre la dea, preceduta da una rinvigorita Zoe dalle prime luci notturne, s'apprestava a lasciare il giardino, avviandosi lungo il sentiero.
«Divina Atena, aspettate. C'è ancora qualcosa che devo dirvi.»
La dea si voltò, mentre Zoe con un volo semi circolare andò a posarsi su uno dei rami più bassi.
«E' stata da me Marin di Eagle. Vi chiede se sia possibile permettere a Seiya di tornare a Tokyo per un breve periodo. A quanto pare, quel ragazzo ha delle questioni private da sistemare.»
«Sì, lo so. Seiya ha una sorella da cui è stato separato prima di venire qui in Grecia. Immagino voglia andare a cercarla... Bene. Non ci vedo nulla di male... Questo è un periodo di pace e la sua presenza, qui al Santuario, non è indispensabile. Inoltre, ho già permesso al Dragone e ad Andromeda di recarsi da Mitsumada Kido.... Non vedo perché lo debba negare a Seiya. Provvedi ad informare Marin della mia decisione... Tuttavia, fa loro presente che non appena sarà richiesta la sua presenza, Seiya dovrà fare immediatamente ritorno insieme agli altri Bronze Saints.»
«Sì, divina Atena.»
«Ora, se non c'è altro che desideri dirmi, mi ritiro nelle mie stanze.»
«No, mia signora.» disse con un inchino.
Quando sollevò il capo, Atena e Zoe erano già scomparse oltre gli alberi.

8. Non è un mio problema.

A Seiya piaceva camminare per le rovine della vecchia arena, la sera, quando la maggior parte delle persone era già rientrata nei propri alloggi e in giro c'erano soltanto le guardie.
Là, però, era raro persino trovare qualche soldato ed era per questo che a Seiya piacevano. Se ne andava là, a bighellonare, interrogando le stelle con lo sguardo, assaporando l'aria frizzante della sera.
Quando, sette anni fa, era giunto in Grecia, non avrebbe mai immaginato che ce l'avrebbe fatta. Voleva l'armatura, ne aveva bisogno per tornare indietro e sbatterla in faccia a Kido e dirgli: "Guarda! Io ho fatto la mia parte. Adesso tu fai la tua!"
Erano tutti più forti di lui. Cassios, Demetro, Jack, Simon... sembravano tutti così bravi in tutto ciò che facevano...
Lui si allenava, e si allenava e si allenava, fino a quando non riusciva più nemmeno ad alzare un dito. Credeva che avere una donna come istruttrice fosse meglio, perché pensava, ingenuamente, che le donne fossero più dolci, più sensibili, ma si sbagliava.
Marin non gli aveva risparmiato nulla. Lo aveva tartassato, spremuto, mondato, rigirato come un calzino...
Più volte, era stato convinto di lasciarci le penne... come quella volta che Marin l'aveva messo su un precipizio, a fare le flessioni. Se cadeva, si sarebbe sfracellato al suolo.
Era così, Marin. Lo metteva sempre in situazioni tali per cui poteva solo "fare o morire".
Ma lui ce l'aveva fatta. Giorno dopo giorno. Aveva plasmato il suo fisico e il suo spirito ed era riuscito ad essere ammesso al Torneo per l'assegnazione del Cloth. Ora, poteva tornare in Giappone a cercare Seika, sua sorella. Con o senza l'aiuto di Mitsumada Kido.
Quel vecchio...
Aveva chiesto notizie su Kido a Marin. Voleva sapere se il nome del ricco duca giapponese fosse noto anche al Santuario, ma lei non gli aveva detto nulla. O non ne sapeva niente, o aveva avuto l'ordine di non parlare. Perché Seiya non era stupido... esuberante, precipitoso, incosciente, ma non stupido... E qualche tempo dopo esser arrivato ad Atene e aver visto con i propri occhi quel mondo segreto, chi erano i Saints ed era riuscito, addirittura, ad intravedere la bambina che era Atena, si era chiesto com'era possibile che un uomo comune, seppure della risma di Kido, fosse al corrente dell'esistenza di un simile luogo e sapesse del ritorno in terra di Atena.
Ma nessuno seppe mai dargli una risposta ...
Agli occhi della gente, Kido era stato un uomo che aveva raccolto in un orfanotrofio un centinaio di bambini. Aveva dato loro da mangiare, da vestire e aveva iniziato ad educarli.
Seiya, a quei tempi, non capiva perché quell'uomo tanto gentile, con la barba bianca, insistesse tanto a far imparare loro la mitologia, i classici e le arti marziali. Soprattutto, Seiya non capiva che legame ci fossero tra i miti, Omero, e il Kung fu! Gli sembravano manie da ricchi... Poi, ai suoi occhi, l'uomo tanto gentile divenne il vecchio malefico, perché tutti i nodi vennero al pettine e lui capì il senso di tutto... Kido stava solo aggiustando le sue palle da cannone per poterle sparare e fare più danni possibili... E di danni ne aveva fatti, eccome. S'era appropriato dell'infanzia di tutti loro e per cosa? Per una divinità a cui nessuno credeva più.
Ormai, il suo compito ad Atene era finito. Che se la vedessero gli altri. Quello non era certo un suo problema... Guerra, minacce provenienti da divinità degli inferi... Marin gli aveva parlato della Guerra Santa, di quella combattuta dall'ex Grande Sacerdote, Shion. Una storia, con risvolti drammatici, culminata nella morte di quasi tutti i Saints... Ecco, morire per la Giustizia, per un ideale... Nobile, non c'era dubbio. Ma lui aveva altro a cui pensare. Seika era da qualche parte... da sola. Forse era in pericolo, forse era... Scosse la testa. No, era impossibile, non voleva neppure pensarci...
Marin gli aveva fatto quel discorso sul destino e sul dovere di un Saint, poco prima di recarsi dal Gran Sacerdote.
Gli aveva dato del ragazzino, quando aveva affermato che Seika per lui aveva la priorità su tutto. E gli aveva detto che lui aveva ancora bisogno di capire cosa significasse essere Saint di Atena.
«Tu devi aver paura, Seiya. Ora sei un Saint e non potrai più sottrarti alla lotta... non puoi evitarlo. Loro ti verranno a cercare...» gli aveva detto, severa, poco prima di uscire.
«Loro chi?» aveva domandato lui, mentre le sue unghie si conficcavano nei palmi.
«Coloro che minacciano la giustizia. Tutte quelle forze che nel corso dei secoli si sono scontrate con Atena e i suoi Saints. Ora tu sei un Saint, Seiya e il tuo dovere è quello di lottare per Atena e per l'umanità. Prima capirai questo, meglio sarà per te...»

9. Un diritto da difendere.

Nella sua mente, aveva promesso migliaia di volte a sua sorella che una volta ottenuto il cloth sarebbe partito per cercarla.
Aspettare... Era stanco di aspettare. Aveva aspettato per anni di essere libero, e si era convinto che terminato il suo addestramento lo sarebbe stato. Non aveva mai preso in considerazione che una volta iniziato, quel percorso, non avrebbe mai potuto cambiarlo... Fato non gli avrebbe mai permesso di tornare indietro. Lui era stato scelto. Volente o nolente, doveva accettarlo.
Si sedette sulla base di una colonna distrutta. L'intero perimetro dell'arena, ridotto a macerie scomposte, conservava ancora gran parte della struttura originaria. Se chiudeva gli occhi, gli capitava di lasciarsi trasportare dall'atmosfera che permeava quel luogo e riusciva ad immaginare i valorosi duelli che erano stati combattuti nei tempi antichi.
L'attacco, che lo sorprese all'improvviso, lo costrinse a scattare in avanti, e ad atterrare con un balzo al centro dell'arena.
Si voltò di scatto.
Stagliata contro il cielo trapunto di stelle, un'esile figura aveva iniziato a scendere lentamente verso di lui. Riconobbe immediatamente in lei Shaina dell'Ofiuco e un'espressione sorpresa si dipinse sul suo volto.
«Si può sapere perché mi hai attaccato?!» domandò, arretrando di qualche passo.
Aveva vinto correttamente contro Cassios, era stato nominato Saint da Atena in persona... che altro voleva quella?
Shaina non gli rispose. Alzò il braccio, e a lui sembrò che volesse quasi artigliare l'aria... Poi, riuscì a distinguere solo l'inizio del suo movimento, e ancora prima di rendersene conto, era stato sbalzato via dal Thunder Claw.
Seiya sentì come se il suo corpo fosse attraversato da una potente scarica elettrica. Era la prima volta che sperimentava il celebre colpo dell'Ofiuco e dovette dare atto che la sua fama era tutta meritata.
Si alzò dolorante, conscio che se fosse stato colpito una seconda volta, difficilmente sarebbe riuscito a sopravvivere. Maledisse sé stesso per esser stato così imprudente da allontanarsi dagli alloggi senza il suo cloth, pur sapendo l'aria che tirava... Ma non avrebbe mai pensato che osassero attaccarlo anche dopo che era diventato un Saint.
Shaina era di casta superiore, lo sapeva, e non poteva permettersi di prendere uno scontro con lei tanto alla leggera.
Scattò verso di lei, e iniziò a colpirla ripetutamente, con il Ryuse Ken. Ma il suo colpo, che la mattina gli era valsa la vittoria contro Cassios, con Shaina non sembrava sortire nessun effetto.
«Sei ridicolo.» gli disse la Saint, mentre parava ogni suo colpo, con una semplicità umiliante. «Posso distinguere ogni tuo pugno. Posso persino contarli...»
Seiya non poteva crederlo. Gli sembrava che i suoi attacchi fossero molto più letali... ma Shaina era a un livello superiore. Aveva peccato di presunzione... gli era bastato battere uno come Cassios per montarsi la testa?
La Saint avanzò verso di lui.
«La tua vita è arrivata alla fine, Seiya. Ma prima, lascia che t'insegni una cosa. Se vuoi sconfiggermi devi riuscire a fare cento colpi al secondo... Così...»
L'attacco di Shaina fu terribile. Seiya sentì ogni singolo colpo, e l'impotenza di chi non poteva far altro che ricevere. Il suo corpo era come paralizzato, la sua vista non riusciva a distinguere nulla... Sentiva solamente il dolore, un dolore fortissimo... Per alcuni istanti tutto attorno a lui sembrò svanire.
Lo spasimo che sentì alla schiena gli fece capire di essere caduto da qualche parte... forse in un burrone...
Aprì gli occhi. Il cielo pieno di stelle era sempre lì, testimone di questa sua umiliante sconfitta. Era appena diventato Saint e non era stato neppure in grado di difendere il suo diritto a portare il nome di Pegasus.
Chiuse gli occhi. Non sarebbe stato male dimenticarsi di tutto e tutti... chi glielo faceva fare ad alzarsi... forse Shaina aveva ragione, forse non era poi così degno del cloth come pensava... forse avrebbe fatto bene a lasciare che fossero loro a sbrigarsela...
Gli venne da ridere.
"Sei così debole Seiya? Basta così poco alla tua convinzione per vacillare?"
Sorrise, amaramente. No, no che non bastava così poco. Certo che no. Lui era Seiya di Pegasus e lo sarebbe stato fino alla fine, con o senza il consenso di gente come Shaina.
Tentò di alzarsi e solo in quel momento si accorse di qualcosa al suo fianco.
«Il Pandora Box...» sussurrò, accarezzando il rilievo del cavallo alato.
"Come diavolo ha fatto a raggiungermi?" si domandò.
L'incombere di Shaina sopra di lui riportò immediatamente la sua attenzione allo scontro non ancora concluso.
Ricordava le parole di Atena quando lo aveva nominato Saint, il suo volto gentile... la fiducia che traspariva in quegli occhi azzurri come il cielo d'estate... Sentì un calore diffondersi nel suo corpo, e sentì le sue membra rinfrancate, come se i colpi che aveva ricevuto fossero ormai solo un ricordo lontano... Poteva farlo. Se ci credeva, lui poteva vincere... Il cosmo, quella forza primordiale che aveva sentito esplodere contro Cassios, sembrava esser ritornato ad incendiarlo.
Come aveva potuto dubitare? Come aveva potuto dimenticare la meravigliosa sensazione che aveva sentito in quei momenti?
Senza che se ne rendesse conto, la sua mano aveva già stretto la maniglia del Pandora Box e tirato verso di sé, liberando per la prima volta, il cloth di Pegasus. Era bellissimo. Candido e lucente come neve fresca illuminata dal sole.


Quando ho iniziato a scrivere questa storia, e ho abbozzato nella mia mente la personalità dei vari personaggi, pensando ad Atena, mi sono detta. Perché non fare un'Atena più Atena, che quindi, sia più vicina ai canoni classici? E così ho dato vita a questa dea, che passeggia in un giardino degli ulivi e ha una civetta per amica. E sarà molto più umana di qualsiasi altro dio, ma sarà pur sempre una divinità potente, verso la quale si inginocchia, e poi...
Ce l'ho tutta qua!!! *si batte il palmo sulla fronte ripetutamente*
Comunque, sicuro come l'oro, potete metterci una mano sul fuoco, che andrò OOC, ma ho dalla mia l'attenuante che la mia Atena è cresciuta al Grande Tempio, educata da Aiolos e...
Ergo, è tutto un programma!
Ah, ... Zoe non fa così solo perché è Aiolos. A lei non piace nessuno, a prescindere! Eccetto, Atena, ovviamente. :D
Al prossimo capitolo.
Engel

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Capitolo 4
*** IV ***


Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo

[ IV ]



10. Imperdonabile!

Il moccioso insolente pensava di riuscire a sconfiggerla? Shaina scendeva la scarpata, rimuginando e maledicendo la sfacciataggine di quel ragazzino del cavolo. Chi si credeva di essere? Solo perché era riuscito a sconfiggere Cassios sperava di poter battere anche lei? Ma gli avrebbe insegnato, a suon di pugni, cosa significava combattere davvero...
Saltò in avanti, atterrando su una sporgenza rocciosa, chinandosi appena in tempo per evitare un'onda d'urto d'insolita potenza.
Allibita cercò di scorgere qualcosa nella profondità del crepaccio, ma era troppo buio per poter distinguere alcunché.
Che fosse stato Seiya? Scosse la testa, incredula. No, non era possibile. Era scarso, maledettamente scarso, eppure... non poteva far finta di nulla. Un cosmo potentissimo, improvvisamente, aveva preso a mulinare tutt'intorno. E non era un cosmo sconosciuto...
«Merda.» digrignò preparandosi ad affrontarlo.
Non sapeva in che modo, ma qualcosa in Seiya era cambiato. La infastidiva doverlo ammettere, ma quel ragazzo aveva il cosmo dentro di sé, come lo aveva lei, come lo avevano tutti loro...
Si guardò intorno, impossibilitata a discernere la vera posizione del suo avversario. Dove diavolo si era cacciato, quel moccioso?
Non poteva impedire al nervosismo di montarle in corpo. Per quanto si sforzasse di mantenere la calma, non poteva fare a meno di sentirsi come una lepre in un prato che salta di qua e di là mentre attende che da un momento all'altro l'aquila la ghermisca.
Quando Seiya uscì, finalmente, da quel crepaccio, sembrava esser avvolto dalla luminescenza delle stelle. Anche se era soltanto un'armatura di bronzo, il cloth di Pegasus le feriva gli occhi.
Ben presto, la sorpresa che aveva provato, fu sostituita dall'indignazione, e avanzando minacciosa, tuonò: «Come hai osato indossare quell'armatura?»
Seiya non si mostrò intimorito.
«Perché non vuoi accettarlo? Sono io il Saint di Pegasus.»
«Lo verificheremo subito.» gridò lei di rimando, avventandosi sul ragazzo.
Seiya alzò i pugni pronto a contrattaccare, ma ogni suo movimento era incredibilmente lento. Lei lo colpiva e lo colpiva e lui non riusciva neppure a muovere un dito per difendersi.
«Lo sapevo... che tu non puoi controllare quell'armatura.» gli gridò, mentre infieriva sul suo corpo ormai inerte.
Seiya la guardava sgomento. Non sarebbe mai riuscito a batterla. Ciò che ora indossava era come metallo arrugginito, così pesante da tenerlo schiacciato al terreno, impedendogli ogni movimento.
«Che cosa ti succede, Seiya? Credevi di potermi battere così facilmente... Non è in questo modo che potrai vincere uno scontro. Sei solo un inetto incapace di combattere! Dov'è la volontà di lottare? Dov'è il tuo desiderio di uccidere l'avversario?»
Seiya la guardò incredulo, con gli occhi spalancati.
«Non posso farlo...» sussurrò. Gli occhi compassionevoli che continuavano a fissarla.
Shaina piegò le labbra in una smorfia di sdegno, invisibile sotto la maschera.
«Che stai dicendo?»
«Non posso ucciderti... Perché... perché tu sei una donna, Shaina...»
Come osava? Come? Come osava dirle quelle cose.
Lo colpì con tutta la sua forza alla mascella.
«Ripetilo?» urlò la ragazza, afferrandolo per il coprispalle e tirandolo verso di sé.
«E' inutile Shaina. Tu sei forte, ma per me è impossibile combattere contro di te... Io... io non posso fare del male a una donna... non ci riesco... »
Lo allontanò di malo modo e si alzò in piedi, indignata.
«Uccidetelo!» ordinò ai suoi soldati, senza più guardarlo.
Quell'insolente non meritava neppure che lei lo sfiorasse per dargli una morte degna di un Cavaliere. Una donna? Non poteva combattere contro una donna?
Assurdo. Inaccettabile.
Si allontanò, andando a sedersi sul basamento di una grossa colonna ormai distrutta. Una decina di comuni soldati sarebbero stati più che sufficienti per dargli la morte e lei si augurava proprio che quella fosse una morte dolorosa e umiliante.
Ma non fece neppure in tempo a formulare quel pensiero, che i soldati erano già a terra insanguinati.
L'aria sfrigolava ancora in seguito al potente Ryuse Ken che Seiya aveva usato.
Si alzò di scatto.
Seiya rimase a guardarla in silenzio, attonito.
Che cosa stava guardando, quell'idiota?
Poi, lentamente, si portò la mano al volto e le sue dita lambirono la pelle fredda, realizzando ciò che era accaduto. Guardò a terra, sgomenta. La sua maschera giaceva lì, spaccata in due dallo spostamento dell'aria.
«Non ti avevo mai vista in faccia... credevo che... sì... che fossi più paurosa...»
L'aveva vista? Aveva visto il suo volto?
Il disprezzo ritornò a incendiarle nuovamente lo sguardo.
Imperdonabile. Seiya era imperdonabile.
Si voltò di scatto e prese a risalire il sentiero.
«Shaina?[
«La prossima volta che ci vedremo combatterò anch'io indossando un'armatura sacra e in quel momento ti ucciderò.» sentenziò lei, senza voltarsi.

11. Mama... Navsegda...

D'inverno, il Mar Glaciale Artico, al largo dell'Isola Kotel'nyj, si ricopre di una spessa coltre di ghiaccio e la temperatura può scendere anche a meno trenta gradi centigradi. Le gocce di vapore acqueo si cristallizzano e l'aria è così spessa che volendo si potrebbe anche affettare con un coltello. Il cielo, in questo periodo dell'anno, è sempre un cielo notturno, scuro e limpido, con una sfumatura più chiara là dove il sole riposa.
Quella mattina, Hyoga lasciò il suo rifugio presto, a un'ora che a latitudini diverse corrisponderebbe a poco prima dell'alba.
Mentre si dirigeva verso la costa, a bordo della motoslitta, le folate di vento gli sferzavano il volto, come scudisciate di cuoio, il cielo di piombo incombeva su di lui e il ghiaccio sfrigolava al suo passaggio.
Quando era arrivato in Siberia, da bambino, il freddo era un nemico contro il quale aveva iniziato a combattere fin da subito. Camus sembrava insensibile alle rimostranze dei suoi allievi e, Hyoga se lo ricordava molto bene, fin dal primo giorno, li aveva obbligati a stare fuori con indosso niente più che una maglietta e un paio di pantaloni. Lui si era preso una broncopolmonite e gli era durata un mese; mentre, Isaac, di tempra più resistente, aveva rimediato solo un "febbrone da cavallo".
Non aveva più indossato abiti pesanti da allora e, piano piano, grazie all'addestramento, il freddo aveva smesso di essere un nemico, ed era diventato il suo prezioso alleato. L'origine e la manifestazione del suo intimo cosmo.
Ogni mattina, fin da quando aveva messo piede in Siberia, Hyoga si svegliava, si vestiva e faceva sempre quella strada. Giorno dopo giorno. Senza mai mancare una volta.
Camus non gli aveva mai detto nulla. Il più delle volte non lo incontrava, neppure. E anche quando accadeva che, casualmente, s'incrociassero, egli evitava sempre di porgli domande. Hyoga però sapeva che il suo maestro era al corrente del suo segreto e sapeva anche che non approvava. Non gliel'aveva mai detto apertamente, ma lui era certo che Camus non lo avrebbe mai ritenuto un vero Saint finché non avesse abbandonato il ricordo di sua madre.
Un brivido gli percorse la schiena.
Abbandonare sua madre. La sua bellissima e meravigliosa madre. Sua madre che aveva dato tutto per lui, fino ad offrire agli dei la sua vita per la salvezza di suo figlio?
Hyoga amava il suo maestro, gli era grato per tutto ciò che aveva fatto. Grazie a lui, ai suoi insegnamenti e alla sua pazienza, era diventato il Saint di Cignus. Ma se c'era una cosa che non avrebbe mai fatto, era proprio quella di dimenticare sua madre e se, per tale ragione, egli non sarebbe stato un guerriero degno di Atena, allora egli non lo sarebbe stato.
Hyoga si morse un labbro, non appena ebbe formulato quella bestemmia e accelerò. La sua motoslitta scivolava rapida sulla neve, sobbalzando ogni qualvolta incontrava un dislivello.
Alzò il capo, spingendo il suo sguardo lontano. Il mare si schiudeva avanti a sé, tra due montagne di ghiaccio e neve. La superficie nera rifletteva la luminosità soffocata del cielo.
Parcheggiò la motoslitta e cominciò a camminare. I suoi stivali producevano un rumore attutito, quasi impercettibile. Camminò a lungo e si fermò a qualche chilometro dalla costa. Guardò in basso, tra i propri piedi. Il ghiaccio non mostrava nulla, ma lui sapeva che era lì che sua madre riposava.
Chiuse gli occhi e richiamò a sé il Cosmo. L'aria attorno a lui si fece ancora più fredda e si cristallizzò. Minuscole particelle di ghiaccio cominciarono a danzargli attorno, brillando come polvere di diamanti.
Respirò profondamente, e aprì di scatto gli occhi. Azzurro, puro, glaciale, perfetto. Il suo pugno frantumò la coltre di ghiaccio, aprendo una breccia grande abbastanza per far passare un uomo. Raccolse il respiro e si tuffò, stringendo una rosa rossa tra i denti.
Il freddo lo pungolò sprezzante, ma la sensazione svanì quasi subito. Nuotò verso il basso. Il buio degli abissi lo avvolgeva
completamente. Ovunque guardasse c'erano ombre, figure indefinibili nere e silenziose.
La nave giaceva sul fondo marino. La sua struttura era solo parzialmente intaccata dal tempo. Entrò. Un nugolo di pesci argentati si mosse spaventato. Rarissimi abitanti di quel regno senza sole.
Sua madre giaceva sul letto della loro cabina. L'abito ancora intatto così come il volto e i capelli. Il tempo e la morte non avevano avuto ragione della sua bellezza. Ella giaceva eterna in una bara di acqua gelida.
«Mama... Navsegda...» sussurrò inginocchiandosi accanto a lei.
I suoi occhi si fecero addolorati. Le sue lacrime, e ce n'erano, si mescolarono all'acqua del mare diventando invisibili.
Rimase in ginocchio per un tempo che parve eterno, sospeso in quella dimensione marina, l'acqua permeava ogni spiraglio, ogni fessura, lambendo qualsiasi cosa, sommergendola e abbracciandola con il suo tocco infinito.
Hyoga sollevò una mano verso il volto di sua madre, le dita protese verso la guancia di lei. Ma non la toccò. Non poteva toccarla. Non osava. Aveva paura che lei scomparisse. Che il suo volto, tanto bello, venisse intaccato dalla sua mano. Che la sua pelle d'alabastro si... Scosse la testa con violenza, dandosi dello stupido. Stupido, stupido, stupido. Non poteva pensare che la sua mamma, la sua adorabile madre, potesse subire l'orribile sorte della decomposizione. No e poi no. Sua madre sarebbe rimasta così per sempre. Bellissima per sempre.

12. Ciò che il ghiaccio custodisce.

Trasse un profondo respiro, non appena la sua testa fu fuori dall'acqua. I capelli fradici s'irrigidirono immediatamente al contatto con l'aria, ma lui non vi badò. S'issò con la forza delle braccia sulla calotta di ghiaccio.
«Hyoga!» lo chiamò improvvisamente una voce infantile, poco distante.
Ingobbito dagli strati pesanti d'indumenti che indossava, il piccolo Yacov se ne stava immobile sul ghiaccio. Hyoga si alzò in piedi e camminò verso la motoslitta. Aprì lo zaino che si era portato dietro e, come se niente fosse, si tolse gli abiti bagnati e ne indossò altri, asciutti.
«Sei andato a vedere tua madre?» trillò il bambino.
Hyoga lo ignorò, immerso com'era nei propri pensieri. Non che avesse qualcosa contro Yacov, ma quello... era... insomma... quello era il suo luogo sacro e nessuno poteva venirci.
«Tu vieni qui tutti i giorni Hyoga. Rompi il ghiaccio e ti tuffi...»
«Yacov, te l'ho già detto tante volte di non venire qui? Questo...»
«Lo so... è il luogo sacro dove riposa la tua mamma» lo interruppe triste il bambino.
Hyoga non aveva parlato con voce severa, ma Yacov aveva abbassato lo sguardo e pareva incredibilmente attratto dai propri scarponcini.
«Allora?» lo incitò improvvisamente Hyoga. «Per quale ragione sei venuto?»
Il bambino alzò di scatto la testa, gli occhi che gli brillavano. Si frugò rapidamente nelle tasche del giubbotto e, con fare trionfante, estrasse una busta chiusa che porse, gioioso, al ragazzo.
«Questa è per te, Hyoga, viene dalla Grecia.»
La lettera recava il sigillo del Gran Sacerdote. Era una lettera formale che, in un certo senso, aspettava da mesi... Da quando, cioè, era diventato Saint del Cigno. La sua nomina al rango di Bronze Saint, infatti, non era stata ancora ufficializzata. Camus di Aquarius, in quanto Maestro Saint, aveva ricevuto da Atena il potere di conferirgli il titolo qualora l'avesse ritenuto idoneo, ma soltanto il riconoscimento da parte del cloth concretizzava la nomina. In parole povere, finché l'armatura non avesse riconosciuto il neo Saint come suo legittimo custode, nessuna nomina poteva considerarsi valida.
Hyoga si trovava in una situazione del genere. Era stato nominato formalmente Saint di Cignus, ma non aveva ancora ricevuto il cloth.
Rimise la lettera nella busta. Il bambino continuava a guardarlo aspettandosi qualche spiegazione, ma Hyoga tirandosi su il cappuccio si avviò verso l'entroterra.
Yacov doveva quasi correre per riuscire a stargli dietro. Con la coda dell'occhio, scorgeva la sua piccola figura infagottata che arrancava in mezzo al ghiaccio. Rallentò il passo, lasciando che il bambino lo affiancasse.
Camminarono ancora per quasi due chilometri, in mezzo all'asimmetrica distesa di ghiacci, fatta di vette, conche, insenature, crepacci indisponenti, finché non arrivarono a un grande spazio.
Al centro, troneggiava una montagna altissima composta interamente di ghiaccio. La gente del luogo la chiamava "Ghiacciaio Eterno" e raccontava che fosse lì fin da quando la Siberia era nata.
«Yacov, vieni qui!» chiamò Hyoga, non appena notò che il bambino si era avvicinato un po' troppo al ghiacciaio.
Era vero che quell'immensa struttura non era mai stata scalfita da nulla, ma era anche vero che, a volte, senza alcun preavviso, lasciava cadere pezzi di ghiaccio. E non era molto chiaro a nessuno, per quale motivo il Ghiacciaio sceglieva sempre il momento in cui qualcuno gli si avvicinava. Sembrava quasi che avesse una volontà propria. Una volontà molto territoriale.
Superstizioni, questo era vero, ma in posti del genere le superstizioni, a volte, ti salvavano la vita.
Come ebbe formulato quel pensiero, uno scricchiolio, seguito da un rapido acciottolamento precedette il tonfo di un grosso lastrone di ghiaccio.
«Stai bene Yacov?»
Il bambino si guardò le mani, si tastò le braccia e il busto, per sincerarsi delle proprie condizioni, e annuì.
Hyoga lo superò, dirigendosi verso il ghiacciaio. Sollevò il capo. La vetta si stagliava iridescente contro il cielo di graffite.
«Allontanati Yacov.» disse, voltandosi verso il bambino.
Yacov lo guardò incerto, poi si affrettò a fare quanto l'amico gli aveva chiesto.
Hyoga chiuse gli occhi e respirò profondamente. Rimase ad occhi chiusi per qualche istante, mentre il suo cosmo cresceva d'intensità.
«Hyoga! Cosa hai intenzione di fare?» domandò spaventato il bambino.
Il giovane non gli rispose e continuò ad espandere il proprio cosmo. Un'aura bianca come la neve prese a danzargli attorno, mentre l'aria diventava, s'era possibile, ancora più fredda.
«Non vorrai colpire Ghiacciaio Eterno?! Hyoga... quel ghiacciaio non si è mai sciolto per migliaia di anni ...»
Hyoga era troppo concentrato per poterlo udire. Doveva espandere il suo cosmo abbastanza da riuscire a distruggere ciò che nessuno aveva mai distrutto dalla notte dei tempi. E doveva farlo in un colpo solo, altrimenti poteva dire addio alla sua investitura a Bronze Saint. Aprì gli occhi e avanzò rapidamente verso il ghiacciaio.
Il boato prodotto dal suo pugno fu assordante. Restò qualche istante, con le nocche premute contro il ghiaccio. Rivoli scarlatti scendevano sulla fredda superficie.
Si allontanò di qualche passo e davanti a lui, il Ghiacciaio sembrò fremere oltraggiato. Il rumore del ghiaccio che si frantumava sembrava un grido offeso, il lamento di chi non aveva mai conosciuto sconfitta alcuna.
Una luce accecante s'accese d'improvviso al centro della voragine aperta da Hyoga e maestoso e bellissimo il cloth del cigno scese verso di lui.
«Quello è ... è... il cloth del Cygnus!»
Yacov gli si era avvicinato ed ora guardava l'armatura ad occhi sbarrati.
«Sì, Yacov. Avevo ricevuto il titolo di Saint, ma non mi avevano dato ancora il cloth. Nella lettera che mi hai portato c'erano proprio le indicazioni per recuperarlo.»
«Allora... adesso sei un Saint a tutti gli effetti.»
Hyoga sorrise, mentre Yacov già gli aveva stretto le gambe, preso dall'entusiasmo. S'inginocchiò accanto al bambino, carezzandogli la testa incappucciata.
Il cloth del Cygnus si era auto-riposto dentro il Pandora Box, dimostrando così di possedere una volontà propria. Hyoga lo scorgeva, immerso nella neve ghiacciata, alle spalle di Yacov.
Con quel suo ultimo gesto, aveva esaurito completamente il proprio addestramento e non gli restava nient'altro che raggiungere la Grecia. Tuttavia, prima aveva qualcos'altro da fare.
Ne aveva parlato con Camus e l'uomo, pur disapprovando una simile condotta, si era impegnato a domandare presso la dea un pemesso speciale.
Il permesso era la seconda notizia contenuta nella lettera.
«Partirai per Atene, adesso?» gli domandò improvvisamente Yacov.
Hyoga aggrottò le sopracciglia.
«No, andrò a Tokyo.»
Yacov lo guardò sorpreso.
«Non... non dovresti ... beh... ecco... tu mi avevi detto... » si confuse il bambino.
Un repentino sorriso mitigò la dura espressione del neo Saint di Cignus.
«Sì, Yacov, dovrei partire per la Grecia e lì che abitano i Saint di Atena, ma, prima, ho una faccenda molto importante da risolvere.»
Yacov continuava a fissarlo con gli occhi spalancati. Due pozze verde-acqua delle più limpide.
«Vado da mio padre.» si risolse a dire, Hyoga.
Anche se non avrebbe voluto, il suo tono era risultato secco e, in parte, rabbioso.
Yacov abbassò lo sguardo. Un'ombra malinconica aveva inondato i suoi occhi.
Hyoga si avviò, ripercorrendo la stessa strada dell'andata. Il bambino gli camminava accanto, silenzioso.
Non aveva mai parlato molto di suo padre, ma quel poco che aveva detto, era stato più che sufficiente per far intendere che lui, suo padre, lo odiava. E odiava tutto ciò che a lui era legato.
Non aveva ancora ben chiaro, nella sua mente, che cosa si aspettasse da quel viaggio in Giappone. Una parte di lui si rifiutava di incontrare quell'uomo, guardarlo negli occhi, sentire le insulse spiegazioni che gli avrebbe dato. La rabbia gli ribolliva dentro, ma il suo volto era una maschera di creta, dura e immobile. E dire che da bambino, durante il breve periodo che era vissuto a Tokyo, dopo la morte di sua madre, quell'uomo gli era sembrato una così brava persona. Ma allora non sapeva che era quello l'uomo che stavano andando ad incontrare, quella notte terribile in cui sua madre morì.


Araya: Sono contenta che Atena e Seiya ti piacciono. Su questi due personaggi punto parecchio... proprio perché sono un po' bistrattati. Ma, in fondo, è solo perché sono stati colpiti dalla "maledizione dei protagonisti".
Gufo_Tave: Ammetto di amare moltissimo il personaggio di Sasha. Una dea Atena come l'ho sempre sognata... :D. Per quanto riguarda Seiya, non ho alcuna intenzione di trattarlo male, anzi... userò i guanti di velluto con lui. (Anche io detesto il bashing). Uhm... l'intenzione è mantenere un forte collegamento con le due opere originarie (Saint Seiya + Episode G) ma già il fatto che abbia deciso di intrecciarli, determina molti cambiamenti.

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Capitolo 5
*** V ***


Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo

[ V ]


13. I bambini dovrebbero eliminarli dalla faccia della terra.

Se c'era una cosa che lo infastidiva, erano i mocciosi che lo fissavano. Se ne stavano lì, con le loro bocche grandi come forni, manco fosse stato un marziano.
Ringhiò, costringendoli alla fuga.
«Vuoi smetterla di terrorizzare i bambini?!» gli disse acido Alëša, lanciandogli un'occhiataccia.
«Perché non dici a loro di smetterla di fissarmi?» ribatté, alzando le spalle.
Alëša lo ignorò. L'espressione del suo volto si era fatta magicamente amabile e un ampio sorriso gli era comparso sul volto, mentre tendeva la mano a quello che doveva essere il Sindaco di Kardamili. O almeno, così presumeva Isaac.
Sbuffò, guardandosi attorno. I bambini che era riuscito ad allontanare con il suo fantastico savoir faire erano tornati alla carica e lo fissavano peggio di prima, parlottando tra di loro, ridendo in modo alquanto fastidioso e additandolo palesemente.
Il sindaco chinò la testa.
«Non so come ringraziarvi per essere venuti così presto.»
«Non si preoccupi. Il nostro signore non dimentica coloro che gli sono fedeli.» disse Alëša, abbracciando con uno sguardo l'intera piazza e le persone che erano lì assiepate.
Isaac si sentì tirare improvvisamente i pantaloni. Abbassò lo sguardo e vide una bambina che lo guardava incuriosita.
«E tu cosa vuoi?» le domandò seccato.
«E' vero che tu sei un pirata?» chiese lei di rimando.
«Cosa sarei io?»
La mocciosa si voltò verso un gruppetto di bambini che fissavano incuriositi la scena.
«Andrikos ha detto che tu hai una benda nera perché non hai un occhio quindi devi essere per forza un pirata perché tutti i pirati hanno quella benda nera...» spiegò tutto in un fiato. Poi, come se stesse riflettendo tra sé, aggiunse: «Però… le mani ce le hai tutte e due…»
Isaac si guardò le mani, poi alzò di scatto la testa, alla ricerca del bambino che aveva pensato bene di dire quella stronzata. Ma non vide più nessuno.
Abbassò lo sguardo nuovamente sulla bambina. La mocciosa aveva del fegato. Quasi quasi l'avrebbe data in pasto ai pescecani, tanto la trovava "adorabile".
Alëša continuava a guardarlo con occhi bellicosi.
«I bambini dovrebbero eliminarli dalla faccia della terra.» gli disse, allontanandosi da quella peste.
Un pirata? Lui? Come accidente gli era venuto in mente a quei mocciosi? Prima di una certa età, mica sapevano cosa fosse il tatto... Serpi.
«Hai intenzione di continuare ancora per molto...» gli domandò sottovoce Alëša.
«Oh, scusa tanto se sono una persona sensibile.»
Alëša lo ignorò.
«Mi stavate dicendo che da un paio di settimane un mostro marino assale le vostre barche...»
«Sì, signore. Molti di noi l'hanno visto. Potete chiedere alle persone che sono qui presenti.» disse il Sindaco, indicando la gente.
Sembrava avere molta premura di dimostrare che quanto diceva corrispondeva a verità.  E come dargli torto, del resto. Parlare di un mostro marino, nel XX secolo, era piuttosto rischioso, visto che gli ospedali psichiatrici non chiudevano mai la porta in faccia a nessuno che fosse sano di mente, ma sembrasse folle. In realtà, le chiudevano in faccia ai pazzi che sembravano normali... ma Isaac preferì non addentrarsi in ragionamenti simili.
Stava facendo notare all'uomo che quell'idea del mostro non stava né in cielo, né in terra che Alëša lo precedette.
«Uhm. Un mostro, dite. E l'avete visto.»
«Non crederai a questa storia del mostro?»
Alëša lo guardò quasi con compassione.
«Devo forse ricordarti il modo in cui sei giunto da noi?»
«Cosa c'entra? Quello era un vortice...»
Ma non è che fosse tanto sicuro di quello che stava dicendo.
«Già, un vortice.» gli fece eco l'amico. Poi, rivolgendosi nuovamente al Sindaco, disse: «State tranquillo, ci occuperemo noi di tutto.»
Gli occhietti dell'uomo s'accesero speranzosi.
«Grazie. Grazie, signori. La barca è già pronta. Conoscete le grotte di Pirgos Dirou?»
«Sì, le conosciamo.»
«Ecco. E' lì che vive il mostro. L'ho visto con i miei stessi occhi, che scompariva là dentro.»
Isaac sbuffò.
Il loro dio era ancora dormiente, ma Sorrento aveva già individuato il corpo umano destinato ad accoglierlo e Baian se ne stava bellamente a godere del lusso e della ricchezza dei Solo, con la scusa che era dovere di ogni buon Marines occuparsi del suo dio. Anche se dormiente.
E quando Isaac aveva fatto presente che nessuno aveva deciso che doveva essere proprio lui a stare accanto a sua Eccellenza, Baian aveva ribattuto: «Non vorresti mica andarci tu?! Lo terrorizzeresti.»
Isaac non l'aveva appeso alla Colonna del Pacifico Settentrionale per un soffio, ma se n'era andato maledicendo il Kraken, la Siberia, Camus e quella mammoletta di Hyoga.

14. Spezzata!

Era così buio. Ed era così freddo in quella grotta. Nuotava nell'acqua, con rabbiosi colpi di coda. Guardava il suo corpo. Quel corpo immenso, viscido, spaventoso e gridava. Ma dalla sua bocca non ne veniva fuori nulla, se non versi disumani. Sibili assordanti che facevano vibrare le enormi stalattiti.
Non voleva più uscire da lì. Non voleva più che qualcuno la vedesse.
Emerse dall'acqua. I suoi occhi color dell'oro e tagliati al centro dall'iride sottile, scrutavano l'antro, rabbiosi e spaventati. Tese i sensi, immobile, con la testa rivolta all'apertura.
Il mare ondeggiava calmo. Il cielo era sgombro di nuvole. Azzurro su azzurro. Un qualcosa che poteva distruggerle gli occhi, perché era troppo bello per lei.
Poi, la vide. Era una barca. Una di quelle che andavano a motore. Assottigliò gli occhi e la lingua biforcuta saettò nell'aria.
Qualcuno si stava avvicinando.
Si rituffò nelle acque, scomparendo alla vista. Nascosta nelle profondità marine, attese che i suoi incauti visitatori entrassero nella Grotta.
«Sei sicuro che sia questa, Alëša?» sentì dire sopra di sé.
I suoi sensi erano così affinati che avrebbe potuto udire il rumore di una piuma che cadeva nel fango.
«Quante grotte hai visto da queste parti?» rispose una seconda voce.
Qualcosa dentro di lei esplose. Una volontà che non era la sua volontà la lacerava dall'interno, dominandola, prostrandola, prendendo pieno possesso del suo corpo e della sua anima. Non avrebbe voluto nuotare fino alla superficie e non avrebbe voluto emergere dalle acque con quelle spaventose fauci spalancate.
Vide la barca rovesciarsi e i suoi occupanti cadere in mare. Li sentì gridare, chiamarsi l'un l'altro e poi quella luce, accecante che le ferì gli occhi.
«Allora, quel vecchio non diceva cazzate! E' un mostro. Stai attento Alëša»
«Non sono un mostro.» gridò lei, ma da quella sua bocca bestiale ne uscirono solo sibili incomprensibili.
Sentì un dolore terribile e un freddo così intenso che le sue membra non avevano mai sperimentato.
Tentò di avventarsi contro il ragazzo che l'aveva attaccata. Avrebbe voluto spiegarsi, dire che lei non voleva farlo. Ma non ci riusciva. Quella volontà che la logorava le ordinava di essere spietata, di uccidere, di mangiare.
Il ragazzo la evitò. Era veloce. Il suo occhio azzurro la fissava rabbioso.
Atterrò in precario equilibrio su una sporgenza rocciosa.
Lei sentì quella fitta atroce, là dove forse aveva ancora il cuore e sentì il proprio corpo scattare in avanti, le proprie fauci aprirsi.
Lo vide risplendere d’oro e sentì di nuovo quell’ondata gelida, più fredda del ghiaccio, investirla. Sentì miriadi di lame entrarle negli occhi e il dolore fu ancora più atroce di poco prima.
Non fece in tempo neppure a immergersi nuovamente, che l’altro l’attaccò sul fianco. Era solo un ragazzo, eppure ebbe come la sensazione che delle fauci la dilaniassero.
Non aveva più forze e non sapeva più come opporsi. Avrebbe voluto fuggire, ma il suo cuore bruciava così tanto e la sua mente si era come spaccata in due.
Sapeva che l’avrebbero uccisa, era solo questione di poco. Poi sentì che tutto il suo corpo andò come in pezzi e non ci fu più nulla.

15. Ti affido il suo corpo offeso

Alëša guardò in basso, là dove l’enorme serpente s’era accasciato. Parte del suo corpo era sommersa dall’acqua, mentre la sua testa giaceva sulla roccia.
Isaac si era avvicinato al mostro e si era inginocchiato al suo fianco.
«E’ morto?» domandò.
«Certo che è morto.» gli rispose Isaac alzandosi in piedi e avviandosi verso di lui.
Ma, d’improvviso, lo vide arrestarsi e tornare indietro di corsa. Si era inginocchiato nuovamente accanto al mostro.
«Alëša, vieni qui subito!»
C’era urgenza e terrore nella sua voce. Corse verso di loro, mentre l’acqua tinta di rosso cominciava a ribollire.
Espanse il cosmo. Forse quell’essere era ancora vivo.
L’acqua era come impazzita e sembrava volesse riempire l’intera grotta. Alëša non riusciva quasi più a vedere nulla.
Poi, d’incanto, com’era iniziato, tutto si calmò.
Isaac era ancora nello stesso punto. Se ne stava in piedi con le braccia lungo i fianchi, immobile, e il capo chino. Guardava verso il basso.
Gli si avvicinò, ma si fermò di scatto non appena vide ciò che l’altro stava guardando.
«Ma… è una donna.»
Isaac, superato lo stupore iniziale, s’era già precipitato a tirarla fuori dall’acqua.
«E’ morta, Alëša.» gli disse passandole un braccio sotto la testa e sollevandogliela.
«Santi dei, abbiamo ucciso una donna.» disse Alëša, passandosi la mano sulla fronte.
Era sconvolto. Aveva lì, davanti a sé, quella donna. Gli abiti strappati, il corpo pieno di ferite là dove loro l’avevano colpita con così tanta violenza, credendola un mostro marino.
«Com’è possibile? Come cazzo è stato possibile?»
Isaac era sconvolto e anche lui lo era. Cercava di capire, di comprendere… ma …
«Che cos’ha lì?» domandò improvvisamente, attirato da qualcosa sul petto della ragazza.
«Dove?»
Alëša s’avvicinò rapidamente. Non si era sbagliato. C’era come un reticolato violaceo sul suo torace, che dalla base del collo scendeva verso i seni. Afferrò la stoffa dell’abito e diede uno strattone, lacerandolo.
«Ma sei impazzito? Cosa stai facendo?» gli urlò contro Isaac.
Ma lui non gli badò, lo sguardo fisso sulla donna. La pelle bianca, mortale e quel macchia violaceo che s’irradiava dal centro del petto.
Isaac si sporse in avanti.
Conficcata nel seno sinistro c’era una piccola sfera che pareva un rubino incredibilmente liscio e lucido. Ed era proprio da lì che quell’orribile reticolato si espandeva a deturparle la pelle.
Allungò una mano, ma non appena la sfiorò, quella si sciolse in un liquido denso.
«Che cosa pensi possa significare?» gli domandò Isaac.
«Non lo so. Qualcuno deve aver trasformato questa ragazza in un mostro marino, per terrorizzare la gente di Mani.»
«Chi potrebbe essere stato?»
«Sicuramente una divinità. Nessun essere umano è in grado di fare qualcosa del genere.»
Isaac sembrò riflettere qualche attimo.
«Credi che dobbiamo prenderla come una sfida a sua Eccellenza?»
«La Penisola di Mani è da sempre devota al nostro Signore…» rifletté il marines di Sea Dragon «Torniamo ad Atlantide a fare rapporto agli altri. Ho paura che stia accadendo qualcosa.»
Isaac annuì e sollevando la ragazza si spostò rapidamente fino a raggiungere la barca. Lui gli fu subito dietro.
Il mare era così incredibilmente calmo in quel momento, che Alëša aveva come la sensazione che stessero scivolando su una lastra di vetro.
Abbassò lo sguardo sul volto della ragazza. La sua espressione era così sofferente anche nella morte che si ritrovò a pensare a quanto avesse sofferto e a quanto loro erano stati ciechi e presi dalla lotta.
La prese tra le braccia, con tenerezza e la sollevò oltre il bordo dell’imbarcazione.
«Cosa stai facendo?» gli domandò Isaac alle sue spalle.
«Questa ragazza è morta, Isaac.»
«Lo so benissimo che è morta. Dobbiamo portarla a Kardamili. Magari la stanno cercando…»
«A che scopo? Ci farebbero troppe domande. E noi non possiamo dare loro nessuna spiegazione. Siamo colpevoli verso questa ragazza, e porteremo con noi la nostra colpa fino alla morte.»
La sollevò sopra il capo. Era incredibilmente leggera che aveva quasi l’impressione di reggere una bambola di carta.
«Poseidone, mio dio. Ti affido il suo corpo offeso. Possa la sua anima riposare in pace.»
Stette per un po’ ad osservare il corpo della ragazza che lentamente precipitava verso il fondo del mare, poi in silenzio si sedette sulla prua e non parlò più, fino a quando non giunsero a Kardamili.


Credo che adesso sia abbastanza chiara qual è l’idea iniziale che ha dato vita nella mia mente a questa fanfiction. Manca Kanon. Sparito. Eliminato. Mai esistito. Ho pensato che un "What if?" consistente nella sua eliminazione fosse un modo interessante per avere una trama diversa.
Ciò però mi metteva di fronte a un'incognita. Se Kanon non esiste, che fine fa Sea Dragon? Partendo dal presupposto che Kanon, in realtà, non è il vero Sea Dragon, perché, a quanto pare, lui quell'armatura l'ha indossata per incidente di percorso, senza di lui il vero Sea Dragon può tranquillamente avere il ruolo che gli spetta.
Io l’ho chiamato Alëša, in omaggio a sua somma magnificenza Fëdor Dostoevskij e a una delle opere più belle che abbia mai letto.
Gufo_Tave: Hyoga è un personaggio che mi piace molto. Kurumada gli ha dato una personalità molto molto interessante… Stare IC e mantenere un forte collegamento con il manga originale è uno dei miei fini, anche se, come si può vedere da capitoli come questi, non mancheranno situazioni completamente originali. :D
Sakura2480: ti ringrazio per il commento e mi fa piacere che i primi quattro capitoli ti siano piaciuti. Oltre a mischiare le carte, le ho anche truccate ;)… quindi, non ho idea di ciò che potrebbe saltare fuori. Anche se un paio di punti fondamentali ce li ho in mente.
Spartaco: oh, ben ritrovato. :D
 

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Capitolo 6
*** VI ***


Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo

[ VI ]


16. Oltraggiata

L'immagine allo specchio era quella di una regina oltraggiata. Lo sguardo smeraldineo che si fissava era furioso e le labbra increspate in una smorfia sdegnosa e rigida.
Respirò profondamente, alla ricerca di un po' di calma. Ma le unghie smaltate picchiettavano sulla superficie del lavabo.
Aprì i palmi e li richiuse con forza, stridendo sul marmo. Ripeté quell'atto decine di volte, ma non riusciva a calmarsi.
Prese la maschera e se la posizionò sul volto. Era fredda e rincuorante. Il simbolo della sua investitura di sacerdotessa guerriera. Protezione che mai sarebbe dovuta venir meno... per la quale, lei cessava di essere Shaina e diventava l'Ofiuco. Ciò che mai nessuno avrebbe dovuto toglierle. Ciò che lui le aveva strappato, insieme a tutto il suo orgoglio.
«Seiya» sibilò tra i denti.
Non poteva pensarci.
Era successo tutto due notti prima, ma non era riuscita a calmarsi. Non era neppure riuscita a dormire.
Cassios veniva a farle visita regolarmente. Servizievole come sempre. Ma la presenza del suo protetto non faceva altro che aumentarle la bile nello stomaco. Tutte le volte che lo guardava negli occhi, che vedeva i punti di sutura là dove l'orecchio gli era stato strappato, provava un'indicibile rabbia.
A rapide falcalte raggiunse il Pandora Box. Impugnò la maniglia, tirandola verso di sé e in un battito di ciglia, il cloth dell'Ofiuco le si dispose addosso. Aveva ponderato quella decisione a lungo, ed era arrivata alla conclusione che quello smacco non poteva restare impunito. Era stata oltraggiata.
Come guerriera e come donna. Seiya aveva visto il suo volto e nessun uomo avrebbe mai dovuto vederlo. E, come se non bastasse, l'aveva offesa rifiutandosi di combattere con lei. Perché? Perchè era una donna?
Si fermò lungo il sentiero, stingendo i pugni. Tutto il suo corpo fremeva di rabbia. Respirò, cercando nuovamente di calmarsi. Non sarebbe stato affatto utile chiedere udienza alla dea, in quelle condizioni.
La casa dell'Ariete era vuota e l'oltrepassò senza problemi. Il suo custode, stando alle ultime informazioni, si trovava ancora in Tibet. Non che per il resto dell'anno abitasse spesso il Primo Tempio, ad essere sinceri.
«Buongiorno Shaina, qual buon vento di porta da queste parti?»
Shaina alzò il capo, fissando l'imponente figura del Saint di Taurus.
«Nobile Aldaberan, buona giornata a voi.» ribatté, sforzandosi di mantenere un tono tranquillo. Il Cavaliere aggrottò le sopracciglia.
«Ho bisogno di parlare con Atena, e vi chiedo il permesso di oltrepassare la vostra casa.»
«Con Atena, in persona? La questione dev'essere molto seria. E' forse successo qualcosa?»
«Niente che vi riguardi!» sputò fuori la Saint. Poi, accortasi del proprio tono sgarbato, si affrettò ad aggiungere: «Perdonatemi, ma è una questione personale, nobile Aldaberan.»
«Capisco. Non ti chiederò altro, Shaina. Passa pure.»
La Terza Casa era vuota. Saga probabilmente si trovava al Tredicesimo Tempio.
Entrò, titubante, ben conoscendo la fama di quella Casa. Ma, per sua fortuna, Gemini non aveva innalzato il Labirinto e Shaina riuscì ad oltrepassare il Tempio senza problemi.
Procedette rapidamente, oltrepassando a una a una tutte le case dello Zodiaco. Alcune vuote, altre no. Ogni volta che incontrava un Cavaliere d'Oro era costretta a dare sempre le stesse spiegazioni, tant'è che davanti ad Aphrodite il tono della sua voce era all'apice dell'acidità. Il Saint di Pisces, d'altro canto, notando il nervosismo della Saint non aveva di certo agevolato il tutto. Con un aplomb veramente insopportabile aveva cominciato a informarsi su particolari insignificanti.
Shaina si lasciò alle spalle il Tempio di Pisces decisamente più arrabbiata di quanto era entrata. Davanti a lei si estendeva la scalinata che portava al Tredicesimo Tempio, la dimora di Atena. La sua struttura ricordava molto da vicino il Partenone e, stando alle informazioni, era contemporaneo allo stesso periodo. Tuttavia, i continui lavori di ristrutturazione avevano permesso di conservare il Tempio intatto.

17. Perché nessuno mi capisce?

Shaina dell'Ofiuco era entrata nella quinta casa decisa, proprio quando Lythos aveva quasi finito di lavare per terra. La Silver, non appena si era accorta del pavimento bagnato, si era fermata di colpo e le aveva fatto un cenno con la testa, che sembrava sottintendere un "oh, cavolo... c'è il pavimento bagnato."
Lythos aveva sospirato, rassegnata. Ormai, erano dieci anni che viveva nella quinta casa, come inserviente di Aiolia di Leo ed era abituata a vedersi piombare i Saints, a qualsiasi ora del giorno. Aiolia le affidava la tenuta della casa, tutte le volte che andava in missione. E, visto che era praticamente fuori otto giorni su dieci, Lythos passava molta parte del suo tempo a rassettare la quinta casa, gestire la corrispondenza del Gold Saint, accogliere la gente di passaggio.
Shaina aveva rifiutato la tazza di the che le aveva offerto, e si era volatilizzata in un lampo, diretta alla Casa della Vergine.
"Un colloquio con Atena." rifletté Lythos sistemando lo spazzolone nello sgabuzzino e avviandosi verso la cucina.
Conosceva Shaina da quando era arrivata al Santuario. Erano arrivate insieme e ricordava molto bene il grazioso viso di quella bambina italiana e i suoi enormi occhi verdi. Era passato tanto di quel tempo... e quegli occhi non li aveva più rivisti.
Shaina aveva iniziato l'addestramento e a soli undici anni aveva ottenuto un silver cloth. Non erano diventate amiche, perché vivevano a due piani diversi. Si conoscevano. A volte, scambiavano qualche parola cortese, ma nulla di più.
Quando se n'era andata, Lythos era certa che Shaina fosse non solo molto arrabbiata, ma anche turbata. Qualcosa di molto grave doveva essere accaduto.
Si guardò attorno. La cucina era in perfetto ordine e l'orologio alla parete segnava le cinque del pomeriggio.
«Dunque, vediamo... cosa potrei cucinarmi, oggi!» disse a sé stessa, con le mani sui fianchi.
Aveva preso l'abitudine di parlare da sola, non si sa bene quando. Forse aveva cominciato quando s'era resa conto di essere sola la maggior parte del tempo. Certo, c'era il nobile Aiolia e senza di lui, chissà dove sarebbe ora.
Dopo la morte di suo padre, lei aveva perso tutto.
Essere accolta in un luogo misterioso come il Santuario, fu come un sogno. E da allora... quanto tempo era passato...
Aprì il frigorifero. C'era del pesce, della carne... diversi tipi di verdure, frutta, formaggi e uova... Prese la carne. L'avrebbe cucinata ai ferri e della verdura - pomodori, cetrioli, ravanelli, germogli di soia, una scatola di mais dalla credenza - per fare un'insalata.
Sospirò, mentre puliva i cetrioli.
«Lythos! Lythos!»
Il coltello le sfuggì di mano, per lo spavento. Si portò l'indice alla bocca e lo avvolse subito con un tovagliolino di carta.
«Nobile Milo... co-cosa posso fare per voi?» chiese voltandosi.
Milo di Scorpio, la squadrò qualche secondo in silenzio, soffermandosi sulla sua mano.
«Ti sei tagliata?»
«Oh... non è nulla... non preoccupatevi...» si affrettò a dire, nascondendo la mano dietro la schiena. «Ho appena lasciato passare Shaina. Sembrava sul piede di guerra...» disse indicando con un cenno del capo la direzione dove si trovava la propria casa.
«Sì, l'ho notato anche io.» assentì Lythos, riprendendo ad affettare i cetrioli.
Alle sue spalle, sentì Milo camminare e prendere una sedia dal tavolo.
«Notizie da Aiolia?» le domandò.
«Mi ha chiamata questa mattina. Ha detto che rientrerà tra un paio di giorni.» rispose.
Quando l'aveva sentito, aveva capito dal tono della sua voce che c'era qualcosa che non andava. Non gli fece domande, ma sapeva che nonostante la buona riuscita della missione qualcosa era andato male. Era certa che sarebbe tornato subito, appena avesse terminato la missione negli Stati Uniti, ma era già più di un mese che era via, e lei... beh... lei stava cominciando seriamente a soffrire di solitudine.
«... che poi, chiariamo, io non le ho mai promesso nulla.»
Lythos smise di affettare i pomodori e alzò la testa. Non stava ascoltando quello che Milo le stava dicendo e aveva inteso solo l'ultima parte del suo discorso.
«Sei d'accordo con me, Lythos?» le domandò lui.
Si sciacquò le mani e se le pulì sul grembiule.
«Avete fame? Volete fermarvi a cena?» domandò.
Milo allungò le gambe sotto il tavolo e buttò un'occhiata all'orologio. Il suo volto assunse un'espressione radiosa.
«Sicura che non disturbo?» domandò retoricamente.
Lythos gli sorrise.
«No, state tranquillo.»
Gettò un'occhiata a ciò che aveva intenzione di cucinare per sé e, decise che no, quello non poteva andare bene. Al massimo poteva essere l'antipasto, per un guerriero della risma dello scorpione. Aprì la credenza e tirò fuori tutto ciò che le sarebbe potuto servire: pasta, pelati, legumi, spezie, farina...
«E così, Aiolia ha una nuova missione...»
Da come l'aveva detto, Lythos ebbe l'impressione che Milo non conoscesse molti dettagli.
Probabilmente, si trattava di una missione segreta, oppure... gliel'avevano affidata all'improvviso... Non disse nulla.
«Comunque.» esordì lui, all'improvviso «Non hai risposto alla mia domanda.»
«Quale... quale domanda?»
«Sei d'accordo con me, vero Lythos? Tu sei una donna... e sai come ragionano le donne. Io sono sempre stato corretto nei loro confronti. E loro... prima mi dicono "Sì, sì. Non preoccupatevi. La scelta è mia... " e bla bla... E poi? Mi fanno delle scenate e dicono che io sono troppo sfuggente, che mi sono preso gioco di loro, che sono un bastardo e via dicendo...»
Lythos si passò una mano sulla fronte. Improvvisamente, l'era venuto un gran mal di testa. Si preparò mentalmente a sorbirsi la tiritera delle sue questioni "amorose", che culminavano sempre nelle uscite esistenziali, personali, e auto-accusatorie e condensante nella domanda "Ma secondo te, io sono veramente così infingardo con le donne?"
Con tatto Lythos gli aveva più volte spiegato che il suo atteggiamento poteva essere, come dire ... frainteso? E tutte le volte, Milo spalancava i begli occhi azzurri e la guardava come se fosse un'aliena.
«Fraintendere? Me? E per quale ragione, Lythos?» le chiedeva sempre.
E allora lei, s'armava di santa pazienza e cercava di spiegargli l'universo femminile. Fatica sprecata, lo sapeva. Milo era uno dei migliori Saint in circolazione e uno dei più ligi al dovere... Lythos non era molto informata riguardo le missioni dei Saints, ma sapeva benissimo che Milo era conosciuto con l'appellativo di "Assassino del Santuario". Un nome terribile che dimostrava quanto, in realtà, la gioviale persona che aveva di fronte, avesse ombre molto molto scure.
«... che poi, parliamoci chiaro, Lythos. Io metto sempre subito in chiaro le cose. Se ti va bene, a me va ancora meglio. Altrimenti, amici come prima. Tu vai per la tua strada... Io per la mia.»
Lythos tagliò a pezzetti i filetti di salmone.
«Ma forse... con il tempo... i loro sentimenti cambiano.» tentò di dire. «Una donna innamorata ...»
«Innamorata?» la interruppe il Saint facendosi scherno con una mano, come se avesse di fronte un'orda di demoni.
Lythos sospirò rassegnata. Era inutile. Appena sentiva le parole "amore" o "innamorato", Milo si metteva sulla difensiva. Per non parlare dei termini "fidanzata" e "matrimonio", avrebbe battuto il record della "velocità della luce" nel darsela a gambe.
Versò la panna e incominciò a mescolare. Quella sarebbe stata una lunga... lunga serata.

18. Il disonore può attendere

Dietro il Tempio, un'alta scalinata conduceva alla statua della dea. Ma lì, nessuno, eccetto il Gran Sacerdote e la dea stessa, poteva recarsi.
Shaina varcò la soglia e attraversò spedita il lungo corridoio. I suoi passi, decisi, solcavano il marmo arabescato da greche ed intricate volute. Le colonne, imponenti, delimitavano entrambi i lati e incombevano attorno a lei, come giganti silenziosi. Lineari e marmorei.
Nel Salone delle Udienze, con suo grande rammarico, era presente molta più gente di quanta ne avesse prevista.
Shaina si chiuse lentamente la porta alle spalle ed avanzò verso l'usciere. A bassa voce, si presentò e domandò udienza alla dea. L'uomo scrisse il suo nome in fondo all'elenco di nomi che riempivano fittamente la pagina e l'avvertì che era prevista un'attesa minima di un paio d'ore. La ragazza annuì e raggiunse un angolo isolato dagli altri.
Non aveva alcuna voglia di ingannare l'attesa conversando e decise di mettere più distanza possibile tra lei e gli altri. Del resto, pochi avrebbero avuto l'ardire di avvicinarsi alla Saint dell'Ofiuco, quando il suo atteggiamento era tutt'altro che amichevole, come in quel momento.
Lo scorrere del tempo era contrassegnato dal continuo ricambio delle persone. A quanto poteva osservare, l'intero Santuario aveva deciso di domandare udienza alla dea. Le sue labbra si piegarono sdegnose sotto la maschera. Avrebbe potuto mettere la mano sul fuoco che la maggior parte di loro era lì nient'altro che per futilità.
Fissava con sdegno un gruppo di giovani apprendiste che cicalavano rumorosamente. Una di loro si stava lamentando con le compagne a proposito delle sessioni di allenamenti, a suo avviso, troppo massacranti.
Più in là, un giovane francese, faceva notare ad alta voce come fosse necessaria una rimodernazione al Santuario.
«Siamo nel 1983, gente e noi viviamo ancora come se fossimo nell'Antica Grecia.» diceva.
Shaina stava per avere un conato di vomito. Non era possibile che il Santuario fosse pieno di gente simile... Tutta inutile feccia, che non sarebbe stata in grado neppure di combattere con la più misera e insignificante stella di Hades. Delle loro sorti non si curava. Sarebbero morti, scomparsi, fuggiti, esiliati... Chi poteva dirlo. Di certo, nessuno di loro avrebbe mai potuto sperare di avere un cloth. Insieme a Misty, Aphrodite e Shura era stata tra coloro che avevano votato la riforma riguardo le modalità con le quali venivano accolti i nuovi apprendisti. La proposta aveva fatto storcere il naso ad alcuni Saint come Aiolia e Aldaberan, ma alla fine, era stata approvata, soprattutto grazie all'intervento di Saga di Gemini.
Anch'egli, come loro, si era reso conto che il Santuario stava diventando un "calderone" di gente inutile, che mai sarebbe potuta diventare Saints. Non che esso fosse, improvvisamente, diventato di "dominio pubblico", sia inteso. Ma, come dire, le frontiere si erano un po' allentate. Veniva accolta gente che nei secoli passati non avrebbe mai potuto sperare di mettervi piede. Una situazione piuttosto fastidiosa, alla quale era necessario, senza dubbio, porre freno.
Atena inizialmente non sembrava molto propensa ad irrigidire le cose. A suo dire, sarebbe stato ingiusto, da parte di coloro che si ergono a baluardo della Giustizia, negare asilo a coloro che erano fuggiti dalle aree maggiormente a rischio. Shaina non aveva nulla da recriminare su ciò, sia chiaro. Ma non capiva come il passaggio dall'essere accolti in termini umanitari al diventare "apprendisti Saint" si fosse fatto, magicamente, così breve. Insomma, parliamoci chiaro... le due cose erano su due piani completamente diversi. Ma, si sà come vanno certe cose. All'inizio sono uno o due, poi cominciano a diventare sempre di più. Nessuno parla, le cose vanno avanti e, alla fine, ci si ritrova con i campi di addestram...
«Shaina dell'Ofiuco!»
Shaina scattò sull'attenti. L'usciere era in piedi, davanti alla porta della Sala del Consiglio e si guardava attorno alla sua ricerca.
«Eccomi.» disse lei, con voce decisa facendosi avanti.
«Prego, seguitemi da questa parte.» la invitò l'uomo, aprendole la porta.
Shaina varcò la soglia.
La Sala del Consiglio era enorme e delimitata in entrambi i lati da colonne doriche. Il pavimento era talmente lucido che Shaina poteva distinguere un'altra sé stessa come se stesse camminando su uno specchio. C'erano finestre, enormi, dalle quali entrava la luce calda del tramonto.
Atena era seduta su un semplice trono di marmo, con cuscini di broccato. Un tappeto rosso, lungo qualche metro, era stato steso avanti al seggio.
Il Gran Sacerdote era alle sua spalle. Lo sguardo luminoso era fisso su di lei e un lieve sorriso gli increspava le labbre.
«Mia signora, Grande Sacerdote.» disse, inginocchiandosi.
«Shaina dell'Ofiuco, cosa ti conduce a me?» le domandò la dea.
Shaina sollevò il capo e la guardò. Atena aveva lo sguardo scintillante fermo su di lei. Due occhi di un azzurro così splendente che parevano le stelle del cielo.
«Mia signora, vi domando scusa se ho osato disturbarvi, ma vedete ho una richiesta da farvi.» spiegò.
Poi, vedendo che Atena sembrava intenzionata ad ascoltarla senza interromperla, continuò: «Voi, immagino siate a conoscenza degli attriti che si sono sviluppati tra me e l'allievo di Marin.»
Atena annuì.
«Qualche sera fa, abbiamo avuto uno scontro.»
«Vi siete scontrati?» l'interruppe il Gran Sacerdote.
«Sì, Grande Sacerdote. So che qualsiasi scontro tra Saint è vietato e sarò pronta ad affrontare qualsiasi punizione vogliate darmi, ma... io non potevo accettarlo.»
«Che cosa non potevi accettare, Shaina?» le domandò Atena.
«Che un'armatura, importante come quella di Pegasus, andasse a uno straniero. Non fraintendetemi Atena, vi prego. Sapevo che lui aveva battuto Cassios in un incontro regolare. E sapevo che era stato investito dell'armatura. Ma...» si fermò, come se d'improvviso, si fosse resa conto della poco credibilità delle sue parole.
«Non riuscivi ad accettarlo.» continuò per lei Atena.
«Sì, mia signora. Non riuscivo proprio ad accettarlo. Così, decisi di sfidarlo. Avevo intenzione di verificare personalmente se fosse degno del cloth di Pegasus.»
«E... si è mostrato degno?»
A quella domanda, Shaina sentì un moto di rabbia rovesciargli lo stomaco. Quel moccioso...
«Io non so se sia degno o meno. E' riuscito ad indossare il cloth e ha sconfitto alcuni soldati che mi avevano accompagnata...»
«Hai sconfitto Seiya?»
Shaina rimase qualche istante in silenzio. Sconfitto il moccioso? Sconfitto quell'insolente? No, che non l'aveva sconfitto... quel bastardo non aveva voluto battersi. "Perché sei una donna.", le aveva detto. Una donna? Una donna!
«No, mia dea. Non ci siamo scontrati.» sibilò. «Ma lui mi ha ... disonorata.»
Atena si era alzata in piedi di scatto, mentre il Gran Sacerdote la guardava con occhi allibiti.
«Ti.. ti ha disonorata...» le domandò cautamente il Gran Sacerdote.
«Sì, certo. Mi ha disonorata.» ripeté con maggiore foga. «Ha visto il mio volto.»
Atena si risedette e a Shaina parve che il Gran Sacerdote tirasse un sospiro di sollievo.
«La mia maschera si è spaccata a metà a causa di uno spostamento d'aria.»
«E' stato un incidente, quindi?»
«Non è stato un incidente, Gran Sacerdote.» disse, bellicosa. «Perdonatemi, non volevo essere scortese. Ma sono certa che l'abbia fatto apposta...»
«Comprendiamo il tuo disappunto, Shaina. »
«Vi ringrazio, mia dea. Però, permettetemi ora di farvi una richiesta. Quel mocc... volevo dire... Seiya di Pegasus ha visto il mio volto senza maschera. Come voi sapete, ciò è un grave disonore per noi sacerdotesse ed io... vi domando il permesso di poter sfidare Seiya in un combattimento regolare, sino alla morte.»
Nessuno dei due batté ciglio. La guardarono entrambi con occhi attenti. Shaina sapeva che non stava chiedendo nulla d'impossibile. Era la regola. E le regole andavano applicate.
«Comprendo la situazione, Shaina.» cominciò la dea con voce calma, ma incredibilmente triste. «Sono sicura che Seiya non voleva disonorarti volontariamente...»
Lo stava difendendo? Shaina strinse i pugni, ma s'impose di non interrompere la dea.
« ... tuttavia, ciò che è accaduto non ammette scusanti. Seiya è arrivato al Santuario sei anni fa e in quest'arco di tempo ha avuto tutto il tempo per apprendere le regole che vigono tra i Saints.» S'interruppe qualche istante, come a ponderare qualcosa. Poi, con tono più deciso riprese: «Se è questo che desideri, Shaina. Hai il mio permesso per sfidare Seiya. Tuttavia, ti chiedo la cortesia di attendere due settimane.»
Shaina spalancò gli occhi, ma la dea non poteva vederla. Due settimane? Per quale motivo? Non è che pensasse che due settimane fossero sufficienti per farle cambiare idea? Glielo chiese.
«Ho una missione da affidarti, Shaina.» rispose la dea. Poi, rivolgendosi al Gran Sacerdote gli fece un cenno, affinché lui le spiegasse ciò che si aspettavano da lei.
Stringendo i pugni, Shaina si apprestò ad ascoltare le parole del pontefice, conscia che anche questa volta il destino aveva deciso di remarle contro.


Spartaco: Eh eh... Io adoro Saga... e adoro proprio la sua doppiezza. ^^ Sul suo personaggio non mi pronuncio, ma ho già in mente, a grandi linee, cosa fargli fare.

Gufo_Tave: Davvero? No, guarda ad essere sincera... non sto molto considerando l'Hypermith ed è stato proprio involontario il collegamento.

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Capitolo 7
*** VII ***


Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo

[ VII ]


19. Credi che possano qualcosa contro di me?


Quel mattino, la brezza portava con sé un delicato profumo di artemisie e glicini.
Girò un'altra pagina e alzò gli occhi pensieroso, fissando il proprio ritratto. L'aveva fatto dipingere un anno addietro e il pittore aveva insistito per ritrarlo con indosso il sukotai. Ne era risultata una raffigurazione altera e imponente, aristocraticamente emblematica.
Sotto i documenti che stava esaminando, era possibile scorgere l’angolo di una busta strappata e un pezzo della lettera in essa contenuta. La centesima che riceveva da inizio anno.
Avrebbe dovuto mostrarle alla polizia, ma non si fidava del governo e non voleva avere gente estranea per la villa. La sua milizia personale era più che sufficiente per proteggerlo.
Tuttavia, alcune parti della lettera l'avevano impensierito. Chi l'aveva scritta conosceva l'esistenza del Santuario, dei Saints e sapeva anche che Atena si era reincarnata.
Se non ci fosse stato questo legame, difficilmente avrebbe preso la decisione di parlarne con Atene, ma temeva che colui o coloro che minacciavano lui di morte, potessero arrecare danno anche al Santuario.
Atena si era subito offerta di mandargli alcuni Gold Saints per proteggerlo, ma conscio dell'imminenza della Guerra Sacra, Mitsumada Kido aveva gentilmente declinato l'offerta.
Il suo maggiordomo, Tatsumi, non era, però, altrettanto tranquillo e non si dimenticava di far notare al suo padrone quanto pericolosa fosse diventata Tokyo in quel periodo, quanti pazzi ci fossero in giro, che il mondo non era più quello di una volta, etc.... etc...
Certo, loro sapevano dove viveva e in quell'anno, sicuramente, avevano avuto tutto il tempo per prepararsi. Restare a vivere nella villa, come se niente fosse, era pericoloso ma lui non aveva alcuna intenzione di andarsene.
«Tatsumi, credi che io mi faccia spaventare da dalle ridicole minacce? » gli aveva domandato con la sua voce possente.
E a Tatsumi non era restato altro che accettare il suo volere e organizzare nel miglior modo possibile la sua protezione.
Sollevò la testa e premendo la schiena contro la poltrona si tolse gli occhiali cerchiati d'oro. Un leggero dolore gli pulsava tra le sopracciglia, retaggio della notte insonne appena trascorsa. Sospirò,  si rimise gli occhiali, spostò di lato il plico di carte e ne prese un altro gruppo dalla sommità della pigna che avrebbe dovuto analizzare prima di pranzo.
Gli affari andavano bene e l'accordo, appena concluso, con la famiglia Solo per quanto riguardava le esportazioni marittime nell'Oceano Pacifico, avrebbe comportato un interessante incremento dei guadagni della sua società.
Per quanto riguardava, invece, il suo personale progetto, c'erano solo alcune cose che lo impensierivano. Una riguardava il giovane Hyoga, figlio di Natasha, l'unico tra tutti i suoi figli che conosceva la verità; l'altra, invece, riguardava Ikki. Seppure suo fratello Shun fosse tornato la settimana scorsa dall'isola di Andromeda, di Ikki non era più riuscito a sapere nulla.
Lui che fin dall'inizio aveva seguito, passo dopo passo, i progressi di quei ragazzi, nonostante tutto il suo potere e il suo denaro, se n'era lasciato "sfuggire" uno. Una sconfitta, ai suoi occhi. Uno smacco che andava a macchiare la sua nomea di uomo potente cui tutto doveva essere possibile.

20. Non sei niente.


Tatsumi varcò la soglia dello studio del duca.
Mitsumada Kido era seduto al suo tavolo di noce ricoperto da innumerevoli carte. Sollevò gli occhi neri, scrutandolo da sotto lo lenti.
«Perdonatemi signore, ma Ichi è appena arrivato dalla Finlandia.» lo informò.
«Molto bene. Hai provveduto a sistemarlo in una delle stanze?» chiese l'uomo, togliendosi gli occhiali.
«Sì, signore.»
Il duca appoggiò i documenti che stava leggendo su una pila di fogli al suo fianco. La spinse verso il bordo del tavolo e aprì il cassetto da cui estrasse una piccola scatola di legno. L'aprì e mise un po' del tabacco in essa contenuto all'interno della sua pipa.
Un lieve sentore si diffuse nell'aria, mentre Kido aspirava lentamente, ad occhi chiusi.
Tatsumi si era limitato a restare immobile e a guardare con attenzione ogni movimento. Ma dopo un po' domandò:
«Signore, che cosa avete intenzione di fare, quando saranno tutti qui?»
Kido aprì gli occhi, puntandoli oltre il suo maggiordomo.
«Per ora nulla, vediamo cosa succede. Notizie dal Santuario?»
«Non di recente. Sembra che abbiano avuto delle questioni da risolvere negli Stati Uniti.»
«Capisco...»
«Fermo, la prego... Non può entrare... Mi scusi signore, non ho potuto fermarlo.»
Tatsumi si voltò di scatto, quando sentì la porta aprirsi.
I due uomini fissarono stupiti la porta dello studio spalancata e il segretario che invano cercava di trattenere un ragazzo entrato nella stanza come una furia.
Tatsumi socchiuse gli occhi cercando di riconoscerlo. Non molto alto, capelli castani e ribelli, occhi scuri dallo sguardo vivace.
«Ne è passato di tempo, eh... Kido?! Ti vedo invecchiato...» disse il ragazzo, avanzando verso di loro con le mani nelle tasche e un'espressione sprezzante sul volto.
Il maggiordomo spostò il suo sguardo sulle spalle del ragazzo, notando delle cinghie di cuoio che reggevano una scatola di bronzo.
«Chi sei tu? Come osi?» gli domandò.
Mitsumada non si era scomposto minimamente, così come il ragazzo. Entrambi tenevano gli occhi fissi in quello dell'altro.
«Bentornato Seiya ... di Pegasus. Ti aspettavo più tardi...» gli disse in tutta tranquillità.
«Oh, mi dispiace aver alterato i suoi piani, eccellenza.» 
Seiya stava dimostrando di non avere il minimo rispetto per l'uomo che aveva di fronte. Erano trascorsi sei anni da quando Tatsumi l'aveva visto andare via ed ora che l’aveva riconosciuto si rammentava molto bene di quel suo carattere borioso e sicuro di sé. Tra lui e quell'altro selvaggio, Ikki, aveva avuto parecchio da fare per mantenere la disciplina.
«Bada a come parli, ragazzino.» gridò, alzando il braccio pronto a colpirlo.
Seiya afferrò la sua mano allontanandolo di malo modo.
Poi, tornando a guardare l'anziano duca, continuò:
«Io ho mantenuto la mia parola, Kido... adesso tocca a te farlo.»
Mitsumada sospirò e lentamente si allontanò, camminando in direzione della finestra.
«Immagino tu ti riferisca a tua sorella, Seika.»
«Esatto, Sono sopravvissuto per un pelo agli allenamenti in cui ho rischiato la vita per sei anni e finalmente ho ottenuto questo cloth. Ora portate qui mia sorella.» gridò il ragazzo.

21. Fine delle speranze

Mitsumada Kido.
Quel nome gli rimbombava nella testa, mentre fissava la sua schiena. Da piccolo, gli era sembrata enorme. Ma ora, non era nient’altro che la schiena di un vecchio.
Era riuscito ad ottenere il benestare di Atena per il viaggio e aveva preso il primo volo disponibile ad Atene.
Lo sapeva che semmai ci fossero stati dei problemi, lui avrebbe dovuto far ritorno immediatamente al Santuario.
Il Duca non gli rispondeva. Continuava a guardare fuori da quella finestra. Tatsumi lo fissava con risentimento. E avrebbe probabilmente ripreso a ingiuriarlo, se non si fosse reso conto, suo malgrado, che il bambino di un tempo era morto e sepolto.
Non hai più le palle per picchiarmi, eh, Tatsumi”, si ritrovò a pensare, lanciando un’occhiata di traverso all’uomo.
Poteva sentirla chiaramente la sua rabbia. Poteva sentire le deboli vibrazioni che producevano. Sbuffi d’aria, paragonati all’intensità dei cosmi che aveva percepito in Grecia.
Ma quel vecchio, continuava a tacere. A ignorarlo. Vibrò di rabbia. Dopo tutto quello che aveva fatto per avere il cloth, dopo le pene, i soprusi e tutto il resto... Era inaccettabile. 
«Sei proprio un casinista, Seiya. Smettila di lamentarti in continuazione e porta maggiore rispetto...»
Si voltò di scatto, sorpreso. Alle sue spalle, era entrato un biondino che vagamente, ma molto vagamente, riconosceva…
«Non hai capito, Seiya?» continuò imperterrito. «Se vuoi ci penserò io ad insegnarti ad avere un giusto comportamento davanti al Signor Kido.»
Seiya spalancò gli occhi, increduli, quando d’improvviso gli sovvenne il nome del ragazzo. Non poteva credere che tra tutti e cento proprio lui fosse riuscito a sopravvivere.
«Tu... tu sei... tu sei Jabu.»
«Seiya, ti rendi conto con chi stavi parlando? Il signor Kido è una persona verso la quale noi dobbiamo mostrare il più assoluto rispetto. Adesso, tu chiedi scusa in ginocchio.» gli disse, ignorandolo.
Jabu avanzava verso di lui. Sembrava ben deciso a dargli una lezione di buona educazione. Buona educazione? Poteva mettersela nel culo la sua buona educazione?! Patetico leccaculo che non era altro.
«Non sono fatti tuoi, Jabu…» gli disse tornando a fissare le spalle di Kido.
L’uomo sembrava essere disinteressato di ciò che accadeva alle sue spalle. Era questo, tra tanti altri, uno degli atteggiamenti che detestava maggiormente in lui. Questa sua indifferenza verso gli altri, come se le loro esistenze non valessero la pena di essere notate.
Seiya sentiva la rabbia montargli nel petto. Il tempo trascorreva lento, gli attimi sembravano non avere mai fine, mentre lui attendeva che quell’uomo si degnasse di dargli una risposta.
«Ancora non capisci…» quella voce odiosa continuava a pungolarlo. «Ti sto dicendo che questo tuo atteggiamento è un grave errore»
Patetico, patetico Jabu. Sempre pronto a far notare agli altri i loro comportamenti irrispettosi. Lo sentì muoversi alle sue spalle, avvicinarsi a lui. Cosa credeva di fare?
Si voltò di scatto afferrando con una mano la gamba alzata del ragazzo. Voleva colpirlo? Sferrargli un calcio così, solo perché mancava di rispetto a un uomo che non meritava rispetto alcuno?
«Basta, Jabu» gli disse con una voce stranamente calma.
L’altro lo fissava con occhi incendiati d’ira. Se avesse potuto l’avrebbe ucciso, lo sapeva. Erano gli occhi di qualcuno che ti odiava dal profondo del cuore. Cosa mai gli avesse fatto per meritarsi un simile disprezzo, Seiya non lo sapeva e non gli interessava neppure.
«E’ assurdo che tu faccia il leccapiedi a un uomo del genere.» continuò quasi con amarezza. Lui Jabu non lo odiava. Lo considerava un borioso arrogante e non sopportava il suo atteggiamento servilista.
«Co… me?» balbettò Jabu con i pugni stretti per la rabbia.
Seiya lo fissava.
«Te l’ho detto. Anche quando eravamo bambini tu eri sempre pronto a farti camminare sulla faccia da quest‘uomo. Signor Kido, qua… signor Kido, là… Mi stupisco che non ti abbiano trovato a fare da tappetino all‘ingresso…»
Ecco, succedeva sempre così. Più Jabu si mostrava zelante, più lui sentiva la necessità di deriderlo, farlo arrabbiare, suscitare reazioni che poi, quando era bambino, gli procuravano le indimenticabili lezioni di buona educazione di Tatsumi.
Solo a lui però. A Jabu, no. Perché Jabu era il prediletto, non è vero? Il bravo bambino.
«Come ti permetti, brutto bastardò» urlò il ragazzo prendendolo per la maglia e attirandolo verso di sé. «Adesso ci penserò io a farti rimangiare tutto quello che hai detto…»
L’avrebbe colpito o almeno avrebbe tentato di farlo, se Kido non si fosse ricordato di essere lì con loro.
«Ora basta, voi due. Vi rendete conto di dove vi trovate?»
Non aveva pronunciato le parole con rabbia e non aveva neppure alzato la voce. Ma la fermezza del suo tono era bastata a farli fermare. E Seiya questo non poteva sopportarlo. Ancora aveva queste reazioni di fronte a quell’uomo?
Jabu non sembrava intenzionato a lasciarlo andare. La sua voce tremava di indignazione mentre cercava ancora di averla vinta.
«Jabu, non vuoi obbedirmi?» domandò lapidario l’uomo.
Jabu lo lasciò andare e mesto chinò il capo in segno di sottomissione.
Patetico. Come sempre.
Liberatosi dalla stretta di Jabu e avuta l’attenzione del duca, Seiya gli si rivolse ancora una volta.
«Come mi avevi promesso sei anni fa, fammi vedere mia sorella. Ho fatto ciò che mi hai detto.»
Kido lo fissava in silenzio. Seiya non capiva l’atteggiamento dell’uomo. Gli aveva fatto una promessa, era così vile da non mantenerla?
Furioso si tolse il Pandora Box dalle spalle.
«Vuoi questo stramaledetto cloth?» urlò lasciandolo cadere davanti al duca. «Eccolo, Kido. Prenditelo.»
Kido tornò a sedersi alla sua scrivania e riprese a leggere da dove si era interrotto.
«Quell’armatura è più preziosa della tua vita e di quella di tua sorella. Bada bene alle parole che usi, ragazzo.» disse senza guardarlo.
Seiya stava per ribattere, quando l’uomo aggiunse: «Riguardo… Seika… giusto? Non so nulla, Seiya.»
Seiya si precipitò verso la scrivania, battendo i pugni sul tavolo. «Cosa?» urlò, costringendo il duca ad alzare lo sguardo.
L’uomo si tolse gli occhiali.
«A quanto pare, dopo che ti abbiamo prelevato all’orfanotrofio, Seika è scomparsa. Ho compiuto alcune ricerche, ma senza ottenere nulla.»
Seiya era sconvolto. Aveva sopportato ogni cosa fino ad allora solo per sentirsi dire che Seika era scomparsa. Scomparsa? In che modo? Perché?
Non poteva restare in quella stanza un minuto di più. Doveva raccogliere le idee, capire cosa era successo e se era possibile, iniziare a cercare sua sorella al più presto.
Prese con sé il Pandora Box. L’avrebbe volentieri lasciato lì, ma non gli sembrava giusto. In fondo gli apparteneva, era il pegno pagato dal Santuario per l’infanzia che gli era stata sottratta.
«Non lo ferma, signore?»
No che non mi ferma, stupido ciccione. Non gli interessa nulla di quelli come me. Abbassò la maniglia della porta e si precipitò fuori nell’istante in cui Kido diceva qualcosa a proposito di ciò che era realmente importante.
Ma Seiya lo sapeva cosa era importante. Aveva un volto e aveva una voce e non c’era al mondo nulla, per lui, di più importante.



NdA
Mitsumada Kido è vivo e ... sta benissimo! Io sostengo con "ardore" l'idea che l'assenza dell'orfanella greca gli abbia giovato. Jabu è sempre un lecca-culo di prima categoria... e Seiya il solito "sorellomane".

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Capitolo 8
*** VIII ***


Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo

[ VIII ]

22. Amici

Lasciato lo studio del duca, Seiya macinava una rabbia completa, assoluta, destabilizzante. Se solo avesse incontrato anche solo qualcuno che avesse osato dire qualcosa di sconveniente, il Ryuse Ken non glielo toglieva nessuno.
Adesso doveva pure rendere grazie a quel vecchiaccio per avergli impedito di morire in mezzo a una strada. Jabu s'era forse dimenticato di tutti i bambini che non ce l'avevano fatta? Ah, sì, certo... la legge del più forte. Stronzate. Non era giusto e non gliene fregava niente di tutte quelle cose. Voleva trovare Seika e, diavolo, l'aveva fregato un'altra volta ...
Arrabbiato, tirò un calcio a uno degli alberi del giardino, facendo sfrigolare offese le fronde.
«Quell'albero non ti ha fatto nulla!»
Seiya si voltò. Aveva appena formulato il pensiero che non voleva scocciatori tra i piedi...
Il ragazzo che gli stava davanti aveva pressappoco la sua età. I lunghi capelli neri incorniciavano un viso minuto dalla carnagione chiara. Gli occhi di un insolito colore verde lo fissavano calmi. Indossava abiti cinesi color glicine. Accanto a lui, c'era una ragazza con i capelli neri raccolti in una treccia bassa e abiti della stessa fattura del ragazzo.
«E voi chi sareste?» domandò, socchiudendo gli occhi e riparandosi con una mano dai fastidiosi raggi solari.
« Il mio nome è Shiryu, Saint di Dragon e lei è Shunrei.»
Seiya fece un cenno di saluto con il capo alla ragazza.
«Shiryu, eh... ?!» rifletté «Ma certo! Mi ricordo di te...»
«Sono contento che tu ti ricorda di me, Seiya.»
«E... e... Hyoga? E ... Shun?» iniziò ad enumerare contando con le dita della mano. «E poi... oh, sì, Ikki? Cosa mi dici di loro? Hai notizie.»
Shiryu sorrise.
«Shun è qui alla villa, e ho saputo che Hyoga arriverà presto da Mosca. Per quanto riguarda Ikki, invece, nessuna notizia... Sembrerebbe essere scomparso nel nulla.»
«Scomparso?»
Shiryu gli spiegò che si erano perse le tracce di Ikki, subito dopo il suo arrivo a Death Queen.
Seiya si ricordava molto bene cos'era avvenuto sei anni fa. Mitsumada Kido aveva avuto la brillante e sadica idea di affidare tutto al Caso. Aveva fatto preparare un contenitore di vetro e aveva messo al suo interno cento sfere, ciascuna contenente una destinazione ben precisa.
Ad uno ad uno, lui e gli altri bambini avevano pescato una sfera. Quand'era giunto il momento di Shun, il ragazzino aveva tirato fuori la sua sfera, l'aveva data timoroso a Tatsumi e aveva atteso che il maggiordomo leggesse ad alta voce la destinazione.
«Death Queen Island» aveva decretato Tatsumi. «Povero piccolo, Shun... chissà se sopravvivrai.» aveva aggiunto, non senza una punta di crudeltà nel tono della voce.
All'udire quelle parole, Ikki si era alzato in piedi, offrendosi volontario al posto del fratello, conscio che Shun non sarebbe mai potuto sopravvivere in un simile posto. Ci fu, poi, un vero e proprio litigio tra Ikki e Tatsumi, interrotto soltanto dall'intervento di Kido.
«Se vuole andare all'isola di Death Queen, che ci vada pure! L'importante è che tornino con il cloth...»
E così, Ikki era andato al posto di suo fratello in quell'inferno e di lui si erano perse tutte le tracce.
«Ah, mi raccomando... non dire niente su Ikki, adesso... » disse ad un tratto Shiryu, guardando al di sopra delle sue spalle.
Seiya si voltò e vide camminare verso di loro un ragazzo. Fu sorpreso nel vedere Shun. Era cresciuto, ma conservava ancora quella bellezza efebica del volto che, in passato, gli era valsa la poco onorevole fama di "femminuccia". In realtà, non era solo per quello che Shun era sempre vessato dalle angherie altrui, quanto, più che altro, per il suo continuo commuoversi per ogni minima cosa. La sensibilità, in un ambiente guerriero come quello dei Saints si pagava molto cara.
«Sei appena arrivato, Seiya?» domandò con voce flebile il Saint di Andromeda.
Seiya annuì.
«E in Grecia, come vanno le cose? Albione, il mio maestro, sembrava piuttosto preoccupato...»
«Ma, figurati! Sono i soliti Saints rinnegati... Ogni tanto si fanno vivi. Gli rode il fegato per non aver ottenuto il cloth e combinano qualche casino, mettendo in mezzo la gente comune... Comunque, Aioria è già sul posto. Non c'è da preoccuparsi!» dichiarò convinto il Saint di Pegasus.
Ritrovare i suoi vecchi amici, tuttavia, non fu sufficiente a ripagarlo dell'offesa e della rabbia provata poco prima. Seiya guardava il cielo che si tingeva dei colori del tramonto e pensava che no, questa volta, non sarebbe stato un burattino nelle mani di Kido.
Ma non poteva fare nulla. Un accidente di niente. Agli occhi dell'autorità era solo un ragazzino, per di più minorenne e senza famiglia. Tredici anni, quelli che si portava addosso, erano un bagaglio piuttosto irrilevante. Agli occhi del mondo lui era solo un bambino orfano salvato dalla carità di un miliardario giapponese.

23. Croque, croque, mon ami, croque cette mitaine!

Aiolia non vedeva niente di strano attorno a sé. Solo le pareti degli edifici, i bidoni dell’immondizia rovesciati e le insegne che cigolavano smosse dal vento.
Eppure, qualcosa l’aveva attaccato.
Non era riuscito a distinguerlo bene, non era neppure certo che fosse un essere umano. No, decisamente non era un essere umano. Non poteva esserlo.
Da oltre mezzora, stava percorrendo vie illuminate da luci così deboli che faticava persino a distinguere i contorni degli edifici.
A mano a mano che camminava, la gente si diradava e le luci si facevano più fioche.
L'odore dei copertoni bruciati, dei secchi della spazzatura, di benzina e di olio si univano, creando un miasma acre.
Si guardava attorno. Sagome di barboni addormentati, stretti in fogli di giornali e cartoni logori e  capannelli di prostitute, fasciate in abiti inesistenti.
Scrutava i volti. Sentiva le voci. Incrociava gli sguardi. E quell’inquietudine, continuava a ribollirgli nell'anima. Senza fine.
Aveva svoltato un angolo, ed era entrato in un viottolo buio, delimitato su entrambi i lati da edifici d'inizio secolo, con i calcinacci in disfacimento, alcune finestre sfondate e scritte oscene sui muri.
Quel Paese gli logorava l'anima con i suoi controsensi. Le strade che percorreva parevano l'anticamera dell'inferno.
Era restato sdraiato sul letto, per ore, a guardare il soffitto. I pensieri erano troppi e il loro rumore era troppo assordante. Si era alzato, ed era andato in bagno. Si era lavato la faccia e aveva fissato il suo volto nello specchio. Era lo stesso di sempre. I suoi occhi erano gli stessi di sempre. La curva delle sue labbra era la stessa di sempre. Tutto era lo stesso di sempre.
Era tornato in camera e aveva fissato il letto per lunghi istanti, prima di indossare i jeans, il maglione e le scarpe. Guardò il pandora box indeciso su cosa farne, poi aprì la porta e uscì nel corridoio dell’albergo.
Stava percorrendo una strada deserta, quando senza nessun avvertimento, qualcosa era balzato fuori dall'oscurità.
Lo aveva colpito fortissimo al petto, tanto da sbilanciarlo.
Compì qualche passo indietro e sbilanciandosi in avanti riuscì a mantenere l’equilibrio. Sentiva un calore intenso nel punto in cui quel qualcosa l’aveva colpito. Si voltò subito cercando il proprio aggressore. Ma era solo.
Questa volta il colpo arrivò alla spalla. Aiolia si girò rapidamente, sferrando due colpi. I suoi occhi scrutavano l'oscurità e le sue orecchie erano tese al minimo rumore. Ma non c’era niente da vedere e nulla da udire. Più che da ciò che non vedeva, era ciò che non sentiva ad impensierirlo. Era come una bolla atemporale avesse avvolto quell’angolo di strada, rendendolo un mondo a sé stante.
Con la coda dell’occhio intravide, di nuovo, un movimento rapido alle sue spalle. Cercò di afferrare qualcosa, ma le sue mani artigliarono l’aria. Qualcos’altro lo attaccò di lato e altro ancora piovve dall’alto.
Ora riusciva a intravederle, seppure si muovessero ad altissima velocità. Sembravano ombre dotate di vita propria. Emergevano dal nulla per poi nel nulla scomparire. I loro occhi spiccavano come fiammelle nelle oscurità dei loro corpi.
Ogni volta che lo colpivano la sua pelle bruciava, come se qualcuno con un movimento deciso sfregasse contro la sua pelle della carta abrasiva.
Si asciugò il sudore dalla fronte e ansimando scrutò lo spazio attorno a sé. Erano scomparsi un’altra volta.
Aiolia non aveva mai visto qualcosa del genere. Li sentiva arrivare ancora prima di vederli. Ma era tutto inutile finché non trovava il modo di concretizzare i suoi colpi.
L’attacco fu più potente di quanto si fosse aspettato e lui cadde a terra, in preda al dolore. Li sentiva muoversi sopra di sé, e prima che potessero colpirlo mentre ancora a terra, si rimise in piedi, mettendosi in posizione di guardia. Era pronto. Questa volta avrebbe fatto vedere loro, cosa significava mettersi contro un Saint di Athena.
«Perché ti ostini a non usare il Ligthing Bolt, Aiolia di Leo? »
La voce proveniva da un punto imprecisato alla sua destra. Dal buio emerse lentamente un uomo. La figura alta e il passo deciso. L’eco di un cosmo potente e conosciuto. Un guerriero della dea.
«Camus di Aquarius. Tu qui? »
La risposta non venne.
Aiolia intravide nuovamente quei rapidi movimenti e sentì quel terribile bruciore, questa volta al braccio sinistro. Al suo fianco, Camus era scattato all’indietro e aveva cercato di colpire quelle cose. Il suo pugno andò a vuoto, come prima, tutti quelli del Cavaliere di Leo.
La cosa stava diventando fastidiosa e Aiolia era ben deciso a porvi fine al più presto.
«Non ti hanno mai raccontato la favola dell’uomo nero per convincerti ad addormentarti? »
Il tono di Camus era gelido e inespressivo e anche quella che in bocca ad un altro sarebbe parsa l’inizio di una potenziale gag, tra le sue labbra diventava l’enumerazione smorta di un elenco.
«Di cosa stai parlando?»
«Dell’uomo nero. Meglio conosciuto come Boogeyman, qui negli Stati Uniti.»
Aiolia non era sicuro di dove volesse andare a parare Camus.
«Sono uomini neri.» continuò questi, per nulla in dubbio di quanto stava affermando.
Il Saint si guardò attorno perplesso, poi stizzito ribatté: «Lo vedo da me che sono uomini neri. Non sono cieco.»
«No, non hai capito.» gli fece questi di rimando. «Sono gli uomini neri delle leggende. Quelli di cui parlano le madri ai bambini per farli addormentare.»
Aiolia per un attimo pensò a uno scherzo. Ma l’espressione seria di Aquarius era la prova che non stava facendo quelle affermazioni con leggerezza o divertimento.
«Usa il Lighting Bolt e fallo non appena li senti arrivare. Se sono esseri nati dall’oscurità come credo, solo la luce potrà annientarli.»
Certo, il Lighting Bolt. Ce l’aveva lì. Pronto all’uso. Ma non l’aveva ancora lanciato. Era difficile da spiegare, ma c’era qualcosa che gli impediva di usare tutta la sua potenza. Una sorta di indulgenza priva di ragione.
Raccolse il cosmo attorno a sé quel tanto che bastava per lanciare un attacco di media potenza. Attendeva con le orecchie e gli occhi pronti a percepire il minimo movimento.
Per pochissimi istanti l’incrocio fu illuminato a giorno e l’oscurità cominciò a disperdersi. Con essa gli uomini neri sfumarono nel nulla prosciugati dalla luce.
Il Lighting Bolt esaurì il suo bagliore.
Alle sue spalle, Camus si lasciò sfuggire un gemito soffocato.
«Per Zeus» sussurrò, mentre si inginocchiava.

24. Manufatti pieni di vita e corvi


«Io dico di fermarci qui e chiedere in giro.»
Jamian era davanti a un negozio di souvenir e fissava rapito una serie di corvi in porcellana esposti in vetrina.
La missione era semplice. Da qualche settimana a Praga si erano verificate delle morti sospette. Detto così sembrava l’inizio di un giallo di quart’ordine. Ed effettivamente Shaina si sentiva parte di una storia simile.
Alla metà degli anni ‘80, Praga era una città che stava maturando un forte desiderio di cambiamento. Era nell’aria, attraversava le strade, affollava i circoli letterari.
L’Unione Sovietica stava collassando. Da lì a pochi anni, avrebbe smesso di esistere. Ma in quegli anni, la Cortina di Ferro continuava a stringere la città nella sua morsa ed ogni presa di posizione opposta al regime comunista era ancora vista in termini di tradimento e perseguibile dalla legge.
«D’accordo.» sospirò la ragazza. «Vediamo che cosa ci dicono.»
Una signora al bancone non sollevò neppure lo sguardo dalla rivista che stava leggendo, quando loro entrarono.
«Buongiorno» esordì Shaina, in inglese.
Questa la guardò in silenzio qualche istante prima di ricambiare il saluto e lasciarsi riassorbire nuovamente dalla lettura.
Shaina sospirò e si avvicinò al bancone.
«Potrei farle qualche domanda?» chiese con tutto il tatto e la gentilezza di cui era capace. 
La donna si tolse gli occhiali, li piegò e li appoggiò sul bancone. Poi, piegò la rivista in modo tale che il fronte pagina che stava leggendo fosse rivoltato verso l’alto e sollevò il capo verso Shaina.
«Riguardo ad alcune morti che sono avvenute da queste parti nelle ultime settimane.» continuò la Saint.
L’espressione sul volto della donna mutò radicalmente. Si alzò in piedi e con modi piuttosto sgarbati cercò di indicare loro la porta.
«Un momento signora.» cercò di calmarla Argor. «Non intendiamo farle del male. Vorremmo solo farle alcune domande…»
Ma la donna non lo ascoltava. Ripeteva la parola “démoni” mentre li spingeva fuori. Vane furono le rimostranze dei tre Saints. Quella donna aveva smesso di ascoltarli e l’unica cosa che desiderava era sbatterli fuori dal suo negozio.
«Perfetto.» fece Jamian guardandosi attorno. «Potevate almeno aspettare che comprassi quei bellissimi uccellini.»
«Che diavolo stai dicendo, Corvo?»
«Nulla, nulla.» fece questi voltandole le spalle.
«L’hai notato, non è vero, Shaina? Quella donna sembrava avesse una paura infernale e poi continuava a ripetere la parola “démoni”.» le disse Argor, affiancandola, mentre insieme si avvicinavano al centro storico.
«Sì, l’ho notato. Vero o no, pare che le persone credano all’esistenza di qualche creatura soprannaturale.»
«I miei corvi hanno un’idea.»
Shaina si arrestò e si voltò verso il punto da cui era provenuta la voce.
Jamian sembrava perso nei propri pensieri, mentre accarezzava dolcemente la testolina di un corvo.
«I tuoi corvi hanno avuto un’idea?!» scandì Shaina.
«Certo.» esordì lui, ignorando il tono dell’Ofiuco. «Secondo me, la cosa migliore è pattugliare le strade questa notte.»
«Scusa, da dove ti è venuta questa idea?»
«Te l’ho detto, i miei corvi sono creature molto intelligenti. E si sono offerti di darci una mano.»

Lo sapeva benissimo, ma non era preparata a vedere arrivare così tanti corvi tutti insieme.
Sembrava di essere dentro il film di Hitchock ed era una fortuna per loro che fosse notte e che, in qualche modo, i corvi si confondessero nell’oscurità.
Sì, certo a chi voleva darla a bere. Come minimo il giornale del mattino avrebbe riportato la notizia di un’inspiegabile invasione di uccelli nei cieli di Praga.
Ma, se tutto andava bene, quei due sarebbero già stati in viaggio alla volta del Santuario e lei sarebbe stata in volo verso Tokyo.
«Allora, mie adorabili creature. Avete capito bene qual è il vostro compito?»
Neanche a questo era preparata. Jamian attorniato da corvi che parlava loro con atteggiamento paterno.
«Un mostro molto molto cattivo sta facendo male a tanta gente innocente e noi dobbiamo fermarlo. Ma per fermarlo dobbiamo prima scoprire chi è che si nasconde dietro tutto questo. Su su» fece sventolando le braccia e dando in tal modo ai corvi il segnale per mettersi in volo. «Siate i miei occhi in ogni angolo di questa città e trovatelo per me, figli miei.»
No, decisamente non era proprio preparata a una missione del genere, con un uomo del genere, tra l’altro.
Il Corvo si muoveva in circolo come impazzito, ridendo con gli occhi chiusi e mimando il movimento degli uccelli in volo.
«Io la salterei questa cosa dei corvi nel rapporto.» le sussurrò Argor avvicinatosi.
Lei annuì in silenzio.
Jamian si fermò e senza dire una parola cominciò a correre.
«Oh, magnifico!»
Shaina si precipitò all’inseguimento del compagno affiancata da Argor.
Jamian era pazzo, completamente pazzo. Forse era il destino dei Saints dominati dalla costellazione del Corvo, quello di impazzire.
Li aveva trascinati in una zona della città vecchia lontana dal centro. Le vie sembravano più vecchie, più sporche, più sofferenti. Le falene volavano suicide attorno ai lampioni rotti. Abituato a quel mondo notturno, un cane randagio rovistava in un bidone della spazzatura, incurante di ciò che gli stava attorno.
Si portò un dito alle labbra. Jamian si era fermato poco avanti a loro e accovacciato fissava qualcosa davanti a sé.
I suoi corvi erano tutto attorno a loro, appollaiati sui cornicioni degli edifici, sui pali della luce, sui cartelloni pubblicitari. Non facevano nessun movimento, ma avevano la testa rivolta tutti verso la stessa direzione.
Shaina seguì la direzione di quegli sguardi.
In penombra, qualcosa si muoveva davanti a loro.
Compiva movimenti misurati. Abbassava la testa e la tirava su lentamente.
Precedendoli si avvicinò. Argor le fu subito dietro. I cosmi erano celati alla percezione, ma pronti ad espandersi come un palloncino la cui massa contratta veniva dilatata dall’etere. 
«Che diavolo…»
Shaina non finì la frase. L’essere si era accorto di loro ed ora li fissava con due occhi di brace.


Nda

Il folklore offre una buona varietà di mostri e leggende, comuni, in molti casi a diverse culture. "
Croque, croque, mon ami, croque cette mitaine!" è una frase che ho trovato sulla wiki francese. Sto cercando a che fiaba appartenga, ma non ci sono "note di riferimento".

 

 

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Capitolo 9
*** IX ***


Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo

[ IX ]


25. I Solo non suscitano compassione.


Osservava il mare, e da esso si sentiva attratto.
Era sempre stato così. Fin dalla prima volta che suo padre lo portò su una delle navi della loro flotta.
Lui non conservava un vero e proprio ricordo. Erano sempre i suoi genitori che, ridendo, raccontavano di quella volta che per poco non era caduto in acqua, perché voleva tanto toccare uno di quei pesci che facevano capolino tra le onde.
«Vi stavo cercando, mio signore.»
Aveva sette anni più di lui, ma sembrava molto più vecchio. Non nell’aspetto, quanto, piuttosto negli atteggiamenti. Lo trattava con assoluto rispetto. Esaudendo ogni suo capriccio, facendo di tutto per compiacerlo, prendendosi cura di lui come una cosa preziosa.
«Che cosa c’è Baien?» domandò, senza distogliere gli occhi dal mare.
«Si tratta della festa di domani sera per il vostro compleanno… mi chiedo se Voi non preferireste annullarla…»
«Annullarla? E perché mai?»
Non l’avrebbe rimandata. Non avrebbe permesso agli altri di compatirlo. Avrebbe dimostrato di essere un Solo. Suo padre glielo diceva sempre. Il dolore non è parte di un uomo. Non mostrarti mai debole davanti ai tuoi sottoposti. Non permettere mai a nessuno di consolarti.
S’incamminò verso la villa. Baien lo seguiva silenziosamente. Non voleva guardarlo negli occhi. Non poteva. Se lo avesse fatto, avrebbe visto della compassione, e lui non poteva accettarlo.
“I Solo non suscitano compassione“ diceva sempre suo padre. A poche ore dalla notizia della morte dei suoi genitori, erano le parole del padre che continuavano ad affiorargli alla mente.
«Riguardo agli invitati …»
Julian era entrato nello studio e si era avvicinato alla scrivania di suo padre. Era tutto come lui l’aveva lasciato.
« … Francis Murray, Duca di Atholl ha rifiutato l’invito, pare che la moglie sia in procinto di partorire. Il sultano del Brunei ha accettato, così come Lord William Machenzie, Conte di Cromartie e Monsieur Mitterrand…»
Tutto era nello stesso identico ordine di sempre. Julian sentiva il forte desiderio di sconvolgere quell’ordine. Spazzare via tutto. Distruggere le cornici, sparpagliare le carte…
«… ah, sì certo. E ha accettato anche la signorina Athena Glaukopis.»
Athena. L’incantevole fanciulla greca che non era riuscito a dimenticare. Così sfuggevole e impossibile da avvicinare. Così eterea…
Aveva il nome di una dea guerriera; la più forte, la figlia di Zeus. Ma quanto poco assomigliava a una dea della guerra, la sua Athena…
Lasciò che quella notizia gli scivolasse oltre, depositandosi in un angolo a cui nessuno guarda mai. Congedò Baien e si sedette allo scrittoio. Fece un respiro profondo, chiudendo gli occhi e quando li riaprì attese alcuni minuti fissando le fotografie che suo padre teneva accanto a sé. Lui da piccolo, mentre mostrava uno dei premi vinti con la gara di nuoto. Suo padre e suo nonno che posavano davanti a una delle loro navi. Sua madre che lo guardava sorridendo. Si alzò di scatto e andò alla finestra e lì restò per tanto tempo. A guardare il mare e a convincersi che loro non sarebbero più tornati.

26. Yours Ever

Percorreva quel corridoio. Era enorme. I pavimenti erano lucidi e i muri sembravano perdersi su, là in alto. Alzava la testa e non vedeva nulla. I suoi passi erano tonfi sordi che alteravano quel silenzio mortale.
Cominciò a camminare sempre più veloce, fino a quando non iniziò a correre. Correva e i corridoi sembravano non avere mai fine e non c’erano porte che lui potesse aprire, non c’erano finestre da cui poteva vedere il mondo.
”Fratello. Fratello mio, dove sei?”
Ma nulla gli rispose.
E i corridoi non avevano fine e il loro bianco diventò ancora più accecante, fino a quando lui non vide più nulla. Chiuse gli occhi perché faceva troppo male il bianco.
Si fermò perché sotto i suoi piedi non sentiva più la dura superficie dei pavimenti. Una brezza gli accarezzava la pelle e avvertiva come un calore sulle braccia e sul volto.
Aprì lentamente gli occhi.
Ora era in mezzo a un campo. Dell’edificio che aveva attraversato non c’era nessuna traccia. C’era solo quel campo, con le spighe riscaldate dal sole, che ondeggiavano sotto le carezze del vento.
Iniziò a camminare. Ovunque, vedeva solo spighe che ondeggiavano. Il cielo era azzurro. Sembrava carta da zucchero.
Poi, si fermò d’improvviso, quando sentì una risata. Si guardò attorno, ma non vide nulla.
Però la risata continuava. A tratti era vicina, pareva che fosse a un soffio dal suo orecchio, poi scivolava via espandendosi da lontano e di nuovo gli era accanto, poi esplodeva in ogni direzione…
«Chi sei? Perché stai ridendo?»
Il suo grido non ebbe risposta, ma la risata mutò di timbro. Diventò più alta e più urgente.
Cominciò a correre e a guardarsi attorno. Cercava. Non sapeva bene neppure lui cosa cercasse, ma cercava. E quella risata correva con lui. Gli era attorno in ogni dove. Lontana e poi vicina. Come il vento. Come l’onda che prima s’infrange e poi si ritira.
E sentiva le spighe pungergli i piedi nudi. E correva, correva… guardandosi attorno. Ma tutto era sempre uguale. Niente mutava. Né il cielo così azzurro. Né il campo. E più correva, più l’orizzonte s’allontanava. E più correva, più il mondo diventava grande. E c’era sempre quella risata che non lo lasciava mai… C’era sempre quella risata che lo faceva impazzire.
Si portò le mani alle orecchie, continuando a correre. Lacrime sgorgarono dai suoi verdi occhi e i capelli avevano il colore del grano. E il cielo… il cielo sembrava così pesante. Così bello e soffocante.
Cadde in ginocchio e poi si gettò a terra. Rimase lì, con il volto in mezzo alle spighe e le mani a coppa attorno alle orecchie. Respirava affannosamente. Voleva solo essere altrove. Girò la testa di lato, portando le braccia lungo i fianchi.
Nulla. Solo il rumore del vento. Aprì gli occhi. Vedeva solo spighe di grano e sentiva l’odore della terra. Sembrava vero. Ma non lo era.
Poi una mano, gli accarezzò la testa. Era una mano gentile, ma fredda. Alzò la testa per vedere chi fosse. E la vide.
Aveva gli occhi del colore della notte e i capelli come colate di petrolio. La pelle pareva fatta della luce della luna e il suo volto era il volto più bello che avesse mai visto.
Lei lo guardava con dolcezza. Le sue labbra gli parlavano, ma non c’erano suoni. Avrebbe voluto avvicinare la sua mano a quel volto. Toccarlo. Ma non riusciva a muoversi. Non poteva muoversi. Voleva essere lì, eppure… Eppure sentiva come se non dovesse affatto essere lì. Sentiva il proprio cosmo piangere ed anche se tutto ciò che stava vivendo non era reale, lui sentiva che c’era qualcosa di sbagliato.
Guardò altrove… distolse lo sguardo da quel volto di dea e…

Shun aprì di scatto gli occhi. Era madido di sudore. Sbatté le palpebre più volte.
Un altro giorno era arrivato.
Era da un po’ di tempo che continuava a fare sempre lo stesso sogno. Il medaglione che aveva con sé fin da quando è nato, era gelido a contatto con la pelle.
“Yours ever”.
Sempre.
Ikki non aveva mai voluto che lui lo tenesse. Anzi, una volta gliel’aveva addirittura buttato via. Gli ci erano voluti tre giorni per recuperarlo. Avrebbe potuto fingere che quel ciondolo non gli fosse mai appartenuto, ma non bastava.
Per qualche ragione, che ignorava, non poteva separarsi da esso.

Gli altri erano già in piedi e, nello scendere le scale, li trovò radunati all’ingresso.
«Hyoga non ha il carattere leale di un vero uomo giapponese … non lo sai? Lui è per metà giapponese e per metà russo …» sentì dire Jabu, con tono beffardo.
Shun riconobbe subito nei tratti adulti del ragazzo, il suo vecchio amico di infanzia. Tuttavia, lo sguardo dell’amico non era più lo stesso di allora. C’era un risvolto tagliente nei suoi occhi. L’eco di una terra lontana, divenuta sua patria negli ultimi anni.
Lo stesso gelo era nell’aria. Avrebbero dovuto festeggiare il ritorno di un amico, ma la tensione era tutta lì, visibile, rigida, inspiegabile.
«Beh… Hyoga. Bentornato!» Seiya ruppe il silenzio e di slancio abbracciò il ragazzo.
Hyoga non si mosse. Si lasciò abbracciare e annuì senza dire una parola. Shun nel frattempo gli si era avvicinato. Cercava il suo sguardo. Un segno che ricordasse i bei momenti andati. Ma Hyoga lo guardò con sufficienza, al pari degli altri.
«Kido dov’è? - chiese all’improvviso, guardandosi attorno.
«Che cosa vuoi dal Signor Kido? -
«Non è affar tuo, Hydra.
Alzò il braccio per parare il pugno che Ichi aveva provato a rifilargli.
Shun sentì che la temperatura stava scendendo.
«Fermati, Hyoga! - urlò Shun precipitandosi verso i due ragazzi.
Afferrò la mano di Hyoga, nel tentativo di liberare Ichi. Era così freddo. Sembrava che stesse infilando la mano in un blocco di ghiaccio. Perse sensibilità quasi subito, e a fatica riuscì a muovere le dita quando la lasciò andare.
Hyoga parve seccato da quell’intervento.
«Adesso ti ergi a difensore dei deboli. Un grande passo per chi è sempre corso tra le gambe del fratello.
«Adesso basta, Hyoga. Stai esagerando!
«Non importa, Seiya. Non … non fa niente.
Shun non voleva piangere. Non poteva piangere di nuovo. No, dopo esser stato all’isola di Andromeda e aver combattuto contro quelli che considerava suoi amici, Reda e Salzius. Non dopo aver sopportato il Rituale di Andromeda ed essere sopravvissuto.
«Non sono più il vigliacco di un tempo. - disse risoluto guardando Hyoga negli occhi.»
Il Saint sorrise. I loro sguardi si incrociarono, prima che Hyoga decidesse che doveva averne abbastanza di quella conversazione.
«Dove stai andando?» Gli urlò dietro Jabu. «Non abbiamo ancora finito.»
«Cosa altro avete da aggiungere? - rispose senza voltarsi. Poi, mentre afferrava la maniglia della porta, aggiunse: «O forse volete combattere e dimostrare una volta per tutti che razza di mammolette siete.»

27. Nightmares & Dreamscapes (1)

Alla morte non ci si fa mai l'abitudine. S'impara a non versare più lacrime, quando ci si rende conto che queste non resuscitano i morti e s'impara ad uccidere più rapidamente. S'impara ad andare avanti e a non guardarsi indietro. S'impara. Fine.
Ma non era proprio la morte a turbarlo. No, non era quello. Era più... come dire... ciò che quelle morti inutili e evitabili avevano risvegliato.
Perché non aveva ascoltato le silenziose parole del suo cosmo che lo avvertivano dell’errore?
Perché li aveva attaccati, trattandoli alla stregua di potenti nemici, quando non erano nient’altro che uomini vittime di chissà quale maleficio?
Non riusciva a darsi pace. S’inchinò accanto a uno di essi.
Sembrava un comune impiegato. Uno di quelli che incontri per strada alle otto del mattino, concentrato su sé stesso e sulle prossime ore in ufficio.
Aveva il completo in ordine, perfettamente stirato. Aiolia gli allentò la cravatta e gli aprì il colletto.
«Guarda qui, Camus. Che cosa ti sembra?»
I due fissavano il collo dell’uomo. C’erano delle macchie violacee che scendevano fino al centro del petto. Un reticolato di vene in superficie o di qualcosa di molto simile che convergeva verso una specie di sfera nera incastonata sopra il cuore.
«Che cos’è?» domandò Aiolia, mentre cercava di estrarla.
La sfera aveva una consistenza dura, ma riuscì a tenerla tra le dita solo per pochi attimi. Prima che si  sciogliesse in un liquido denso e nero. Si portò le dita al volto, ma non avevano nessuno odore.
«Che cosa ne pensi?»
«Non lo so. Ma di certo questa non è opera di un essere umano.»
Il volto di Camus s’incupì.
«Credi che Hades si sia risvegliato prima del tempo?»
«Non credo, Camus. Questa non è opera di Hades. Lui non agisce in questo modo. Ma mi chiedo come sia stato possibile… »
Si alzò in piedi.
«Ti meraviglia che i mostri delle leggende esistano davvero? In fondo anche di noi si parla come fossimo leggenda, eppure esistiamo realmente. Puoi forse negarlo?!» ribatté Camus, mentre si allontanava da quel luogo.
Aiolia restò ancora qualche istante e guardarsi attorno.
«Effettivamente mostri e Saints non sono dissimili.» disse, una volta affiancato il Saint di Aquarius.
«Parole aspre le tue. Qualcosa non va ... Aiolia?»
Camus si era fermato all’improvviso e lo fissava intensamente negli occhi.
«Affatto. I cavalieri, coperti di onori e carichi di orgoglio, in sostanza sono schiavi delle battaglie in difesa del popolo. Come potrei non esserne entusiasta?»
«Sei molto sarcastico.» fece l’altro, riprendendo a camminare. «Comunque, sono qui per riportarti al Santuario.»
«Che cosa vuoi dire?» domandò Aiolia.
«Nulla. Stai tranquillo. Athena e tuo fratello erano solo preoccupati per la tua assenza prolungata. Saresti dovuto tornare in Grecia giorni fa.»
Aiolia non disse nulla. Camus aveva ragione. Sarebbe dovuto tornare ad Athene appena terminata la missione alla centrale nucleare, ma per qualche ragione aveva tergiversato. C’erano troppi pensieri che lo costringevano a stare sveglio e a vagare per le strade come quella notte.
«In ogni caso, Aiolia. Questo non è un caso isolato.»
«Che cosa intendi dire, Camus?»
«Poco prima che partissi, ho ricevuto una missiva da Isaac.
«Il tuo allievo? Credevo fosse scomparso.»
Camus sospirò.
«Lo credevo anche io. Ma a quanto pare, in Isaac si è risvegliato il potere del Kraken.»
«Che ironia della sorte. Addestrarsi per diventare Saint di Athena e scoprirsi destinato alle fila di uno dei suoi più acerrimi nemici.»
«Spero di no. Sarebbe un problema affrontarlo, quando la Guerra Santa è alle porte.»
Poseidone, al momento, non rappresentava una minaccia e i suoi Marines si occupavano di ogni cosa in attesa che il suo risveglio fosse completato. Forse potevano sperare nel fatto che non si risvegliasse del tutto.
«Cosa c’era scritto in quella lettera?» domandò Aiolia.
«Mi ha parlato di un mostro. A quanto pare, lui e Dragone del Mare si sono recati a Kardamili, perché un mostro marino attaccava le imbarcazioni.»
«Lasciami indovinare. Il mostro in realtà era un essere umano?!»
Camus annuì.
«Era una ragazza. Finora non si sono verificati altri casi, ma credo che non dovremmo tardare molto prima che fatti simili si ripetano.»

Nda.
(1) Il titolo è un antologia di racconti di Stephen King pubblicata nel 1993.

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Capitolo 10
*** X ***


Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo

[ X ]


28. Ciò che è prezioso.

Hyoga non aveva tempo da perdere con quegli idioti dei suoi fratelli.
Avrebbe tanto voluto dir loro la verità.
Come avrebbe reagito Seiya nel sapere che l’uomo che tanto odiava era in realtà suo padre?! Oppure, Shun, o Jabu. Ah, certo… Jabu ne sarebbe stato felicissimo.
Ora come ora, l’unica cosa che gli interessava era parlare con Kido. Dirgli tutto quello che pensava.
Sentì alcuni rumori alle sue spalle, un improvviso tintinnare. Forte ed insistente. Si voltò. Tutti gli altri erano in piedi ed attorniavano Shun.
Hyoga seguì i loro sguardi e vide le catene di Andromeda agitarsi furiose. Conosceva molto bene la loro funzione di difesa e sapeva che le catene non esitavano a prendere vita qualora avvertissero una minaccia.
Le catene si agitarono e scivolarono rapidamente sul pavimento. Curvandosi e disponendosi in angoli e segmenti, fino a formare una parola.
«Axia?!»
Shun aveva pronunciato quella parola in un sussurro.
«Qualcosa d'importante... o qualcosa di prezioso ... Cosa c'è qui di prezioso e importante?!»
Prezioso e importante? Nulla a Villa Kido poteva essere prezioso e importante. Eccetto il desiderio di vendetta.
Avevano tutti rapidamente indossato i loro cloth, compreso Hyoga, anche se riluttante, a fronteggiare qualsiasi nemico minacciasse Villa Kido.
Del resto quando l’aveva liberata dai ghiacci in Siberia, era la seconda volta che la indossava. La prima non è che l’avesse proprio voluta indossare, ma era stata proprio lei che riconoscendolo gli era finita addosso.
Con indosso l’armatura del Cigno si era gettato nelle fredde acque del Mare della Siberia e aveva raggiunto la nave dove riposava sua madre.
Era per questo che aveva accettato di diventare Santo di Atena. Per essere forte, per poter compiere missioni impossibili, come raggiungere una nave sprofondata nelle gelide acque del Mare della Siberia.
«Cosmo nemico? Ma chi potrebbe essere?!» domandò Seiya, distogliendolo dai suoi pensieri.
«Ho un brutto presentimento …»
Non gli piaceva dare ragione a uno di loro, ma anche lui era turbato. Lo sentiva nell’aria, quel presentimento. Fin da quando aveva messo piede in Giappone. Quel nome, sulla bocca di tutti e a stento pronunciato. Un nome carico di vendetta. Lo sapeva. Non era l’unico lì che aveva dei conti in sospeso con Mitsumada Kido.
Hyoga fissava le catene di Andromeda, come ipnotizzato. Queste ricominciarono a muoversi, sempre più velocemente. Il nemico stava arrivando. Forse era già riuscito a superare il sistema di difesa della villa.
Se era lui …

29. And all the wounds are reopening again (1)

Le catene si arrestarono
Shun le strinse più forte e rimase in attesa, fissando il punto che loro gli indicavano.
«Il nemico verrà da lì...» sussurrò.
Sentì i propri compagni agitarsi attorno a lui. La finestra si spalancò come per un improvviso colpo di vento. Le tende sventolavano e nella luce della luna, un’ombra comparve dal nulla.
Era un guerriero. Potevano capirlo dai contorni dell’armatura che, seppure visibili in parte, erano parzialmente riconoscibili.
Strinse più forte le sue catene. Il cosmo dell’intruso era carico di odio. Riusciva a percepirlo. Lo sentiva dentro di sé. Era come se gli avessero tolto l’aria.
L’uomo non accennava a volersi muovere. Sembrava che li stesse osservando o che stesse aspettando qualcosa.
Lo stava guardando. Anche se non poteva scorgerne il volto, sapeva che quell’uomo, tra tutti, stava fissando lui.
Ormai faticava a trattenere le catene. Non voleva che attaccassero, ma esse sembravano di tutt’altro avviso. La minaccia che avvertivano era così grande che se non fosse stato per la ferma volontà di Shun, l’avrebbero raggiunto. Da quell’uomo non bastava difendersi, Shun lo capiva molto bene. Eppure …
L’uomo fece un passo avanti, uscendo dal vano della finestra. Era più giovane di quanto avesse creduto. Non doveva avere più di vent’anni. Forse ancora meno. I capelli neri, mossi, spuntavano da sotto l’elmo e una maschera gli celava in parte il volto.
Shun non aveva mai visto quell’armatura. Ma ne aveva sentito parlare. L’armatura con le “code di piume di bronzo”.
Scrutò ancora il suo volto. Seppur in silenzio, i suoi occhi erano assai loquaci. Disprezzo e odio erano le due parole che pronunciavano con ostinazione.
Shun avrebbe voluto distogliere lo sguardo e non credere a ciò che ormai tutto il suo cosmo gli stava urlando dall’inizio. Se quell’odio, se quel disprezzo non fosse appartenuto a quegli occhi. Ai suoi occhi.
“Ecco. E’ lui! E’ tornato!” pensò, ormai inerme.
Shun abbassò le braccia richiamando a sé le catene. Queste parvero esitare qualche istante, convinte che la persona che avevano di fronte doveva essere attaccato, ma Shun ormai aveva già deciso.
«Sei vivo... Sei vivo, fratello...» sussurrò abbassando gli occhi lucidi.
L’aria cominciò a scaldarsi. Un vento impetuoso iniziò a vorticare per la stanza.
Shun vide suo fratello scattare in avanti, il braccio sollevarsi, la mano chiusa, pronta a colpirlo. Ogni cosa sembrava immersa in un denso liquido. Sentì un dolore lancinante alla spalla e il rumore del suo coprispalle che andava in frantumi.
Si rialzò a fatica, tenendosi la spalla.
«Ikki, mio fratello, era forte e generoso.» disse tra le lacrime «Non l’incarnazione dell’ira, come sei tu ora.» Mosse qualche passo verso di lui. «Dimmi, fratello. Che cosa ti ha cambiato fino a questo punto?»
«Che vigliacco!» disse Ikki mentre solleva la maschera e dissipava definitivamente ogni dubbio «Sei sempre un piagnone! Non voglio più vedere la tua faccia coperta di lacrime, altrimenti ti ammazzerò alla prima occasione!»
La voce di Ikki era dura e tagliente. 
«Perché…?!» sussurrò tenendo la mano verso suo fratello.
L’aria si fece incandescente, ancora una volta, ed Ikki colpì Shun una seconda volta. In questo pugno c‘era così tanto odio, così tanta forza che se non avesse indossato il cloth, sarebbe morto.
Shun si alzò a fatica. Avrebbe preferito, infinite volte, restare a terra, accorgersi di essere preda di un incubo. O se si fosse svegliato in quell’istante. Cosa avrebbe dato perché gli ultimi cinque anni fossero soltanto frutto dei giochi di Morfeo.
«Cosa ti è successo? Dimmelo, Ikki...»

30. Obblighi di fedeltà


Dalla sua suite al quinto piano dell’Hotel Milestone, Radamanthys osservava pensieroso i Giardini di Kensington.
Era tornato a Londra da qualche giorno e aveva scelto una sistemazione da dove riusciva a vederli.
Considerava l’Inghilterra e Londra la sua seconda patria, dopo Tórshavn, sua città natale.
Chiuse la tenda.
Il carrello con il te gli era stato portato poco tempo prima. Sollevò il coperchio della teiera e annusò l’intenso aroma. Tra le varie miscele che aveva provato, le sue preferite restavano quelle indiane. Niente sapeva appagargli i sensi come le diverse varietà di Darjeeling, come l’Ambootia (molto raro), o il Rose d’Himalaya o l’Assam Thowra. Non sopportava invece le miscele come l’Earl Grey (chiamarlo te era un’offesa) o quelle varianti scialbe tanto apprezzate dagli orientali.
Si versò il te nella tazza e si sedette accanto al camino spento in attesa.
Due cose rendevano appaganti i suoi momenti di solitudine. Il te e il talisker. Il primo vellutato e soave gli inebriava il senso del gusto e dell’olfatto, mitigando la cupezza dei giorni. Il secondo, intenso e pungente, incantatore di menti e annientatore di cattivi pensieri.
Lady Pandora aprì la porta della stanza.
«Noto che ti stai rilassando.» disse, mentre si toglieva i guanti e il cappello.
Radamanthys si era affrettato ad alzarsi e ad inginocchiarsi. La tazza rapidamente appoggiata sul tavolino.
Lady Pandora si lasciò cadere sull’ottomana.
«Alzati, Radamanthys.» disse, senza degnarlo di uno sguardo.
I suoi occhi d’ametista fluivano per la stanza, appagati dal gusto raffinato dell’arredamento.
In fondo, Pandora era abituata al lusso della sua famiglia mortale e alla grandiosità di un Regno senza fine quale l’Ade.
«Quanti Spectre si sono risvegliati finora, nobile Pandora.» domandò mentre le porgeva una tazza di te.
«Abbastanza.»
«Quindi è giunto il momento.» disse l’uomo.
Lady Pandora non rispose. A capo chino, fissava il liquido ambrato incresparsi in lievi onde.
«Che vi succede, mia signora?»
«Nulla. Assolutamente nulla. Perché me lo chiedi?»
Radhamantys appoggiò la tazza sul tavolo.
«Mi era sembrato …»
«Ti era sembrato!?» disse lei, con un tono di voce un po’ troppo alto. «Non c’è nulla che non vada. Hades sta tornando. Presto io e lui guideremo l’armata di Spectres come 243 anni prima e distruggeremo quell’insulsa ragazzina che si fa beffe di noi.»
L’uomo decise di cambiare argomento.
«Avete sentito le ultime notizie riguardo la comparsa di misteriosi mostri in alcune città d’Europa e degli Stati Uniti?»
Lady Pandora lo guardò attenta.
«Sembra che recentemente alcuni Marines di Poseidone si siano imbattuti in un mostro marino e che anche un gruppo di Saint sia stato inviato a Praga per un motivo simile.»
«Mostri? - Lady Pandora rise. «I mostri non esistono. Sono favole per bambini.»
«Dimenticate Cerbero.»
«Non dimentico affatto Cerbero, Radhamantys.» ribatté lei, stizzita. «E comunque, che cosa centrano questi … mostri con noi?!»
Radhamantys era fedele ad Hades e conseguentemente a Lady Pandora che ne era la sorella, nonché luogotenente, ma c’erano delle volte che avere a che fare con una ragazzina simile, gli dava ai nervi.
Ma per fedeltà, ingoiava colonie interi di rospi ed eseguiva scrupolosamente ogni suo ordine, accettando spesso punizioni ingiuste e dettate esclusivamente dal carattere collerico della ragazza.
“Possa Hades sorgere presto a nuova vita.” pensava in quei frangenti il Giudice Infernale.
Tuttavia, nonostante il disinteresse di Lady Pandora, lui non era affatto tranquillo.
«Mia signora, al fine di dissipare ogni dubbio,» azzardò «non sarebbe meglio cercare di raccogliere quante più informazioni possibili riguardo quest’ondata di mostri?» non sapeva in che altro modo definirla.
«E di grazia, Radhamantys, a chi vorresti chiedere queste cose?» Lo canzonò lei. «Ai Marines? » continuò, impedendogli di rispondere. «No aspetta. Fammi indovinare… ad Athena e ai Saint. Ma certo… ti accoglierebbero a braccia aperte. Che cosa fai ancora qua?»
Radhamantys strinse i pugni e con un respiro profondo, disse: «Perdonatemi Lady Pandora, ma ritengo saggio non ignorare simili fatti…»
«Saggio!? Saggio!! E con ciò cosa vorresti dire!?» Lady Pandora si era alzata e furiosa inveiva contro l’uomo. «Mi stai dicendo che non sono saggia. Non vi ho forse condotto con saggezza? Non vi sto forse conducendo con saggezza?!»
«Perdonatemi, mia signora, se con le mie parole vi ho offesa.» si affrettò a dire, messosi in ginocchio. «Voi siete la sorella del mio signore, e in quanto tale, io sono al vostro servizio. La vostra volontà è la volontà del mio signore. Le vostre parole sono le parole del mio signore.»
Lady Pandora parve acquietarsi. Radhamantys sentiva il suo sguardo fisso su di sé, seppure, essendo a capo chino, non riusciva a vedere nien’altro che parte del suo abito nero.
«Sì… è vero. Tu mi servi, Radhamantys. In quanto sorella del tuo dio…» La ragazza si mosse verso la porta e senza dire nient’altro, lasciò la stanza del Giudice Infernale.

NdA
(1) Il titolo è un verso di Blood Brothers degli Iron Maiden.

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