Psychotropic Romance

di Rosebud_secret
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo: ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo: ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo: ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto: ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto: ***
Capitolo 6: *** Capitolo sesto: ***
Capitolo 7: *** Capitolo settimo: ***
Capitolo 8: *** Capitolo ottavo: ***
Capitolo 9: *** Capitolo nono: ***
Capitolo 10: *** Capitolo decimo: ***
Capitolo 11: *** Capitolo undicesimo: ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodicesimo: ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredicesimo ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordicesimo: ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo: ***


 

Siedo su questa panchina.

Ormai nemmeno mi nascondo, John.
Sei a meno di venti metri da me, di fronte, ma non mi vedi.
Sono come... invisibile.
Sono trascorsi tre anni dalla mia morte e tu mi hai dimenticato.
Chi è la ragazza con te? Come si chiama?
E quella bimba?
Oh, so bene che non è tua figlia, è troppo grande.

È la figlia della tua fidanzata che...

No.
Metto a freno la mia mente.

Per una volta non voglio sapere chi sia lei, non voglio dedurre cosa faccia.
Non voglio sapere cos'ha di speciale...
Non voglio pensare che sei felice anche senza di me.
Hai sofferto, lo so che hai sofferto, ma mi illudevo che mi avresti aspettato, che...
Ho un groppo in gola, sono stato così male solo a Baskerville, ma lì ero sotto l'effetto di una droga psicotropa, ora non ho preso niente.
Nemmeno la cocaina che, in questi anni, è quasi diventata la mia migliore amica.
Com'è potuto succedere, John?
Io avevo previsto tutt'altro, ma... mi sono sbagliato.

Il Destino non è stato di parola, questa volta.

Il Destino, bah! Non credo nel destino!
IO non sono stato di parola con il mio stesso cuore.
Mi sono illuso di essere speciale, di essere prezioso, di essere insostituibile.
Invece...
Invece tu ridi, tu vivi, mentre io sono morto, più morto che se fossi morto davvero.
Che sottile ironia...
Una mano su una spalla e mio fratello compare accanto a me. È stato talmente silenzioso che mi ha ricordato uno spettro.
O forse sono io ad essere distratto?
Si siede al mio fianco e ti guarda. Chissà se anche lui ti vede come ti vedo io.
Non credo.
Sei così... rilucente.

«Quanto ancora aspetterai, prima di andare da lui?»

Me lo avrà chiesto si e no un centinaio di volte, non ho mai risposto, ma penso che questa volta lo farò.

«Non andrò da lui, Mycroft. Non c'è più posto per me.»

Il suo sospiro snervato mi irrita.

«Non puoi andare avanti così. Ti stai lentamente uccidendo, Sherlock e non ho alcuna intenzione di lasciartelo fare.»


«Il mondo si è abituato alla mia assenza, Mycroft e anche John mi ha dimenticato. Che senso avrebbe, adesso, ricomparire? Distruggere la sua vita?»

Non mi condividi.
Lo so.
Non ho bisogno nemmeno di guardarti per capirlo.
Quanto vorrei che le cose fossero diverse, Mycroft.
Quanto vorrei che tu non avessi mai dato a Jim Moriarty le armi per distruggermi.
Perché sei stato tu, te lo ricordi, vero?
La vita ha proprio dei risvolti imprevedibili, alle volte.
Non ti porto rancore.

Ognuno ha le sue priorità, la tua è il Regno Unito e questo non lo metterò mai in discussione.
Eppure mi hai levato tutto.

Certo, stai cercando di rimediare, ti sei occupato di me per questi anni, mi hai protetto, mi hai nascosto.
Non credere che io non riconosca i tuoi sforzi, ma il rammarico per aver perduto ciò che avevo prima, no.

Non riuscirai a levarmelo nemmeno in un milione di anni.
Non è vero che la vita continua nonostante tutto.
La vita non va proprio da nessuna parte, ma è tempo di finirla di rivolgermi mentalmente a te o a lui...
Mi alzo e mi sollevo il colletto del cappotto, incamminandomi verso John a capo chino.
Mio fratello si tende, alzandosi in piedi, pensa che andrò da lui.
No, non lo farò.
Gli passo accanto e gli lancio uno sguardo mentre si rotola nell'erba con un cane e la sua "figlioletta".
Non mi nota.
Io non esisto.




«Hanno suonato alla porta! Sono sotto la doccia, vai tu, John?»


John uscì dalla camera da letto, sbadigliando. Chi era il cafone che si presentava a casa della gente alle undici e mezza?

Lanciò uno sguardo nella stanza della piccola Patricia. Era riuscito a farla addormentare per miracolo, non aveva le energie per ripetere l'impresa.
Fortunatamente non si era svegliata.
Un altro trillo al campanello e John bestemmiò sottovoce.


«Arrivo! Arrivo!» sibilò.

Socchiuse appena la porta e si sorprese nel vedere il detective Lestrade, bagnato fradicio e con un'espressione sconvolta.
Tolse la catena e spalancò l'uscio.


«Greg? Che ci fai qui?»

Erano anni che non lo vedeva.

Almeno due e lo spaventava un po' l'idea che si fosse ripresentato così.

«Mia moglie mi ha lasciato. Avevo bisogno di parlare con qualcuno e nella mia breve lista sei l'unico amico che ho, John. So che è tardi e se mi caccerai lo capirò, soprattutto dato com'è finita l'ultima volta che ci siamo visti...»

John si fece da parte.

«Accomodati.»

Era passato tanto tempo, molta acqua era passata sotto i ponti ed era inutile insistere con rancorose recriminazioni.
John lo aiutò a levarsi l'impermeabile.

«Ti sto bagnando tutto il pavimento...» il detective barcollò un poco, forse quella mezza bottiglia di whisky non avrebbe proprio dovuto berla.

Era frastornato e ricordava in maniera molto confusa l'ultima e definitiva litigata che aveva avuto con Sofia.

«Non ti preoccupare.»

John lo scortò sino al salotto, dove lo fece sistemare su un divano.

«Torno subito.»

Salì al piano di sopra e socchiuse la porta del bagno. Denise si stava asciugando i capelli.

«Chi era alla porta, tesoro?» gli chiese.

«Un vecchio amico. La moglie l'ha appena lasciato, per l'ennesima volta, cerco di tirarlo un po' su. Tu vai pure a letto, ti raggiungo più tardi.»

Denise gli stampò un bacio sulle labbra e sorrise.

«Finalmente compare qualcuno del tuo passato.» scherzò. «Iniziavo quasi a pensare che tu non ne avessi uno.»

John fece uno sbuffetto divertito e richiuse la porta.
Era così: lui non aveva un passato.
La sua vita era finita ed era ricominciata. Quel che c'era stato prima, chi c'era stato prima non avevano più alcuna importanza.
Greg si trovava un po' a cavallo tra il punto A e il punto B, per questo lo aveva fatto entrare, per questo si era offerto di aiutarlo, proprio per il fatto che fosse, almeno in parte, nel punto B, perché se fosse stato solo nell'A, beh, non gli avrebbe nemmeno aperto la porta.
John non era più l'uomo di un tempo.
Quell'uomo era morto, portandosi nella tomba tutti i suoi dolori e le sue rabbie.
Era rinato ed ora aveva una vita perfetta, senza più alcun dubbio o preoccupazione.
Recuperò due birre in frigo e tornò in salotto.


«Sono convito che riuscirete ad appianare le vostre divergenze, Greg. Ti ho visto sbattuto fuori di casa tante di quelle volte.» cercò di cominciare il discorso con il tono dello scherzo per tentare di tirar su l'amico.

«Non questa volta. Mi ha detto che ha un altro... Non credo di aver mai provato tanta rabbia prima, John. Me ne sono andato perché, altrimenti, avrei perso la testa. Come ha potuto..? Io la amo, l'ho sempre amata! Mi ha accusato per anni di tradirla, quando non ho mai fatto niente di male ed ora prende e se ne va con il primo figlio di puttana che incontra?! E' una troia, una lurida zoccola!»

John sussultò, guardando allarmato le scale che portavano al piano superiore.

«Non urlare, la bambina...»

Greg assunse un'espressione davvero desolata.

«John scusa! Se ti creo problemi, io...»


«Nessun problema, solo, tieni basso il tono della voce, oppure, se preferisci, mi vesto e usciamo.»

Il detective scosse la testa.

«No, no. Ora mi calmo, anche perché non è proprio il caso di farmi partire un infarto per colpa sua.»

John si sedette in poltrona e ascoltò pazientemente tutte le parole di rabbia e dolore che uscirono dalle labbra del suo vecchio amico.
Non si fece coinvolgere, le ascoltò con animo leggero e, con profonda calma e dolcezza, gli diede consigli.
Gli disse che il tempo avrebbe aggiustato le cose, che tutto poteva essere superato e che, a conti fatti, nei quindici anni di matrimonio con la moglie Lestrade ne aveva passati quanto meno dieci cumulativi fuori di casa, per colpa della folle gelosia di Sofia.
Riuscì a calmarlo, almeno temporaneamente e si sentì molto soddisfatto del risultato.

«Grazie, John. Non so che avrei fatto, senza di te.» mormorò Greg, alzandosi dal divano.

John sorrise e gli diede una pacca sulle spalle.

«Quando vuoi, la mia porta è sempre aperta.»

Era sincero, ma, nonostante questo non gli avrebbe offerto ospitalità.
La presenza di qualcuno nelle condizioni di Greg, benché fosse una pasta d'uomo, non era consona alla bambina e lui era un padre responsabile, anche se non biologico.

Lo scortò alla porta.

 

«Vuoi che ti chiami un taxi? Hai bisogno di soldi?» gli chiese con premura.

 

Greg scosse la testa.

 

«No, no, grazie. Ho la macchina, andrò in albergo e finirò di sbronzarmi. Non ho alcuna voglia di rientrare a casa.»
 

Era palese che una parte di lui volesse che John lo accompagnasse, che stesse con lui, come ai vecchi tempi, come lui aveva fatto, immediatamente dopo la morte di Sherlock.

Ma John era cambiato e lui non gli avrebbe chiesto di restare in sua compagnia. Forse anche perché in quel modo la sua compagnia nemmeno la voleva.

Non perché fosse stato sgarbato o disinteressato alla sua situazione.

Anzi, probabilmente gli aveva dato consigli migliori di quelli che il vecchio John avrebbe mai saputo tirar fuori.

Ma non era la stessa cosa...

Gli mancava il suo vecchio amico impulsivo, sempre con i nervi a fior di pelle per qualche follia di Sherlock Holmes.

Cielo, Sherlock! Da quanto tempo non pensava a lui!

Al “grande impostore”.

John aveva combattuto con così tanta costanza per difendere il suo onore, agli inizi, ma piano piano il suo furore si era spento ed era sopraggiunto il silenzio.

Aveva passato dei brutti momenti, John, ma ora stava bene e Greg era contento per lui.

Lo salutò con un cenno e si allacciò il cappotto fradicio.

Non sarebbe tornato da lui, qualche anno prima c'era il fantasma di Sherlock a pendere sulla loro instabile amicizia, un blocco insormontabile.

Non credeva che la sua assenza potesse essere persino peggio.

 

 

 

 

Soluzione al 7%...

Chissà, magari non è solo una specifica, magari la cocaina è davvero una soluzione, la risoluzione del 7% dei miei problemi attuali.

Peccato solo che non possa essere incrementata.

Finalmente ho scoperto qualcosa di peggio della noia: la depressione.

È un'amica presente, molto attenta a non farti mai dimenticare quanto stai male. Beh, spero che non mi lasci anche lei, perché altrimenti la situazione diventerebbe davvero comica.

Scosto le tende e guardo la brughiera. È qui che abita Mycroft, in brughiera.

Un ambiente del tutto consono al suo personaggio antisociale e misantropo.

A me non importa di essere qui o altrove.

Albeggia appena e la luce soffusa, timidamente, tinge di grigio i prati.

Non ho niente da fare ma, a ben vedere, non ho nemmeno voglia di fare niente.

Pensavo che John sarebbe stato la mia spinta, la mia propulsione, ma si è arreso, chiudendo i condotti, lasciandomi in sospeso.

Non posso tornare indietro e non posso andare avanti.

Sono qui, perso in un eterno presente, vittima di un uomo che non ha un passato e che preclude a tutti il futuro.

Sento Mycroft entrare in salotto. Non lo guardo.

Sta per uscire per andare a Londra, in ufficio, fa così ogni maledetta mattina.

Ora si siederà in cucina, aspetterà che il caffè sia pronto, mangerà i soliti due biscotti, laverà tutto con precisione certosina e poi mi lascerà solo.

Non che frema all'idea della sua compagnia, ma la solitudine è pesante da sostenere, alle volte.

Questa mattina è una di quelle volte.

C'è qualcosa di strano, però, di diverso: non è ancora entrato in cucina.

Mi volto e lo guardo.

Sembra combattuto tra l'idea di ignorarmi o di dirmi qualcosa.

 

«Ebbene?» lo sprono.

 

«Hanno arrestato Gregory.»

 

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo: ***


Non do peso alla tua frase e mi siedo sul davanzale, continuando a guardare fuori.

Rifletto, rifletto, mentre sfioro il vetro con le dita.

 

«Sherlock?»

 

No, Mycroft, no.

 

«Farai tardi, se non ti muovi.»

 

Devio il discorso.

Sbuffi e vieni a sederti di fronte a me.

 

«Non ti interessa nemmeno sapere il perché?»

 

Sei così preoccupato che se io non fossi io e tu non fossi tu, mi faresti quasi tenerezza nelle tue premure.

No, comunque, il perché non mi interessa.

Mi alzo e sguscio sul divano, dove apro la piccola scatola di legno intagliato e mi preparo a farmi la mia dose.

Poso la boccetta piena di polvere e con precisione schiero tutto.

La percentuale in soluzione dev'essere precisa, ma ormai la faccio da così tanto tempo che non ho più alcun bisogno di strumenti per misurarla.

 

«Avevamo detto: mai prima delle otto di mattina. Non sono nemmeno le sette.»

 

«Non mi rompere i coglioni.»

 

Ok, mi è scappato.

Quest'uscita proprio non è da me, ma, ormai, sono solo un tossico come tanti che lotta per combattere i suoi fantasmi.

Ti avvicini, prendi tutto e lo richiudi nella cassettina, infilandotela sotto braccio.

 

«Gregory è un tuo amico!» mi sibili contro come se avessi commesso chissà quale crudeltà.

 

Non voglio affrontare questo discorso.

Il che significa: tienti pure la cocaina.

Scappo a passo svelto verso la porta del salotto.

 

«Io non ho amici.»

 

Non è la prima volta che pronuncio questa frase.

La prima volta ero sconvolto, non volevo mostrarmi debole, ora sono drammaticamente certo del fatto che sia così.

Ti scocco un'occhiata e non oso immaginare quale sia la mia espressione, ora.

 

«N-Non ne ho mai avuti.»

 

La mia voce è uscita flebile, incerta, arrochita.

No! No!

Sono patetico!

Patetico!

Mi chiudo nella mia camera e giro la chiave nella toppa.

Questo non sono io...

Dev'essere la droga, ho decisamente esagerato.

Oppure è dovuto al fatto che non ho preso la mia dose.

 

«Sherlock...»

 

Bussi alla porta, ma non ho intenzione di aprirti.

Mi vergogno di me stesso, anche di fronte a te, mio fratello. So che stai indugiando con la mano posata sulla maniglia.

Non mi interessa!

NON MI INTERESSA!

 

 

 

«Puncake per la mia principessa!» sorrise John, posando un piatto di frittelle di fronte alla bimba che, impaziente, aspettava la sua colazione.

 

«Grazie papà!» esclamò Patricia, stampandogli un bacio su una guancia, quando lui si chinò verso di lei.

 

Non era suo padre, ma la piccola era orfana e, a conti fatti, aveva passato più tempo con lui che con il suo vero padre, visto che aveva solo quattro anni e lui e Denise stavano insieme da due abbondanti, mentre suo padre era morto quando aveva solo sei mesi.

Era stata Patricia, più che Denise ad aiutarlo a uscire dal suo baratro.

Gli aveva dato delle responsabilità e lui, di sicuro, non voleva deluderla.

Non che non amasse la sua compagna, adorava Denise, ma Patricia era la luce dei suoi occhi.

Era così orgoglioso quando gli portava i disegni che aveva fatto all'asilo o quando, per qualche motivo, diceva o faceva qualcosa che somigliava al suo atteggiamento.

Il concetto di biologia era ininfluente per lui, non era il DNA a rendere genitori o figli.

Spense il fornello e le insaporì il latte con due cucchiai di cacao in polvere.

Denise fece il suo ingresso in cucina, i capelli pettinati alla meglio in una coda di cavallo e il colletto della camicetta rigirato male, sotto al maglioncino.

 

«Buongiorno. Ci sono delle frittelle anche per te.» le notificò John.

 

«No, no, sono in ritardissimo! Senti, ci pensi tu a portare Trisha all'asilo?»

 

L'uomo annuì, passandole la sua tazza di caffè.

 

«Ti ho già messo lo zucchero.»

 

«Sei un angelo, il miglior uomo che si possa desiderare!» esclamò lei.

 

«E il miglior papà.» aggiunse la bimba.

 

«E voi due le migliori ruffiane.» ridacchiò l'uomo che, in momenti del genere si sentiva come se stesse vivendo dentro una pubblicità, tanto era perfetta la sua vita.

 

Denise gli diede un bacio e poi ne diede uno alla figlia, prima di sparire fuori dalla cucina.

Tornò indietro, facendo capolino.

 

«Non è che nella pausa pranzo porti fuori Toby? Non vorrei che ci lasciasse un altro regalino in mezzo al corridoio.»

 

Toby era un cuccioletto, un bastardino misto labrador, fortemente voluto sia da Patricia che da Denise che si erano sperticate in promesse assurde di prendersene cura e poi, come aveva previsto, era finito sulle sue spalle.

Non gli pesava.

Stava talmente bene che adorava anche il cane. Non aveva mai avuto un cane, prima e, beh, era davvero il migliore amico dell'uomo.

Tolti i regalini che lasciava in giro.

 

«Oggi inizio il turno alle dieci, lo porto fuori dopo aver portato Trisha all'asilo.»

 

«Ti amo!» Denise si defilò, correndo a lavoro.

 

«Pronta principessa? Oggi mi porti un bel disegno?»

 

La bimba saltò giù dalla sedia e gli corse incontro, facendosi sollevare tra le braccia.

 

«E tu mi compri la Barbie sirenetta?» chiese lei, stampandogli un altro bacio sulla guancia.

 

«Vedrò cosa posso fare.»

 

 

 

Ogni giorno...

Ogni giorno mi ripeto che devo smetterla di seguirti ed eccomi qui, nell'auto dietro la tua.

Alla fine ti sei comprato una macchina e hai smesso di andare in taxi, John.

Una di quelle brutte macchine con tanti posti adatte ai padri di famiglia.

Beh, in fondo è quello che sei...

Già...

Potrei persino tamponarti, non ti accorgeresti di me comunque.

Ho aspettato che Mycroft uscisse, prima di prendere l'auto, non che pensi che non immagini dove sia.

Ormai ho imparato i tuoi ritmi, so quello che fai e lui, di conseguenza, sa sempre dove trovarmi, in base ad essi.

La mia vita è diventata una noiosa routine.

Accosti di fronte all'asilo e scorti la bambina sin dentro i cancelli.

Niente da dire, sei proprio scrupoloso, ma non mi sorprende, con tutti gli orrori che hai visto, un po' anche a causa mia, è comprensibile che tu non distolga mai l'attenzione dal “tuo cucciolo”.

È una cosa comune a molte razze animali, uomo compreso, o meglio, certi uomini compresi.

La saluti, vi scambiate qualche parola che, con i finestrini chiusi, non riesco a sentire, ma immagino siano le solite banalità del caso.

 

«Fai la brava, tesoro! Fammi un bel disegno!»

 

«Sì, John! Ti voglio bene, John!»

 

O forse ti chiama “papà”?

Sì, così piccola e con il fatto che sei fidanzato con sua madre da due anni, tredici giorni, ventidue ore e trentasette minuti è presumibile che ti giudichi suo padre.

Non lo sei, ma, probabilmente non te ne curi, altrimenti non la guarderesti con tutto quell'affetto.

Una volta guardavi me così.

Era così che mi vedevi? Come un cucciolo da proteggere?

Beh, faccio tanti auguri alla piccola, magari di lei non ti scorderai!

 

Sono... pieno di rabbia.

 

Ti guardo risalire in macchina.

Sorridi.

Sei felice.

Non ti ho mai visto così felice con me.

Era per colpa mia?

E ora andiamo a portar fuori il cane, coraggio! Che vita esaltante!

Ti dà qualche soddisfazione scorrazzare in giro con quell'ammasso puzzolente di pulci e microbi? Ti dà più soddisfazione della vita che avevi con me?!

Aaah, meglio che lascio perdere.

Parcheggio e ti seguo lungo i giardini di Hide Park, lasci andare quel cagnaccio stupido e ti siedi a leggere il giornale che hai comprato al chiosco.

Non avrei nemmeno bisogno di seguirti per sapere esattamente quel che fai.

Sei patetico e io lo sono più di te, perché, nonostante tutto, sono qui, ti seguo, proprio come se fossi anche io un altro tuo stupido cane.

Ti basterebbe voltarti per accorgerti di me, ma non lo farai.

Passo così drammaticamente vicino a te che sento il il profumo del tuo scadente dopobarba riempirmi le narici, potrei quasi sfiorarti i capelli della nuca, non lo faccio, ma indugio comunque qualche istante, sperando che...

 

Inutilmente.

 

Torno a distanza di sicurezza.

Una parte di me nemmeno vuole che tu mi veda.

Non così.

Non come il tuo essere cieco mi ha reso.

Riprendi il cane e si torna a casa, poi allo studio medico dove lavori, ma le cose non vanno come ogni dannato martedì, no.

Oggi no.

Ci sono degli agenti che ti stanno aspettando e questo mi mette sull'avviso.

Sono sicuramente qui per farti delle domande su Lestrade.

Sembri sorpreso e anche a disagio.

Che succede, John? Non sei più abituato a trattare con i poliziotti?

Entri un secondo nello studio per informare che dovrai saltare i pazienti della mattinata e poi segui gli agenti a Scotland Yard.

Io me ne vado.

L'ho detto e lo ripeto: non voglio saperne niente di questa faccenda.

 

 

 

«E' vero che il detective Lestrade ha passato due ore a casa sua, ieri notte?» domandò il detective Moore, appena arrivato alla sezione omicidi di Scotland Yard.

 

John, seduto nel suo ufficio, sbuffò: «Quante volte devo risponderle di sì? È arrivato da me verso le undici e mezza, per la precisione, lo so perché quando hanno suonato al campanello ho controllato l'ora e mi sono chiesto chi fosse l'idiota che si presentava a casa della gente a quell'ora.»

 

«In che stato d'animo lo ha trovato?»

 

Il dottore strinse i pugni, nervosamente.

Non gli piaceva quel tipo, era troppo giovane e dall'aspetto troppo stronzo.

Inoltre non sembrava affatto turbato dal fatto che il presunto criminale in questione fosse un suo collega più anziano e, di sicuro, più capace e noto nel dipartimento.

Sembrava quasi goderne, invece, come se giudicasse quella situazione un'opportunità per fare carriera.

Non gli aveva ancora detto di cosa era stato accusato Lestrade, probabilmente aveva finito con lo schiantarsi dentro una vetrina, ubriaco, o qualcosa del genere, anche se non capiva perché se ne occupasse la omicidi.

 

«Era leggermente alterato, cosa più che normale se si viene piantati dalla moglie.» borbottò, incrociando le braccia al petto.

 

Odiava stare in quel posto.

Il detective Moore sfogliò delle foto.

 

«Sufficientemente alterato da fare questo?» chiese, posandogliene una di fronte.

 

John la sollevò.

Cristo...

Il corpo di Sofia era legato al letto, completamente nudo.

Il ventre e il torace erano gonfi per le percosse ricevute prima della morte. Contò tre fori di proiettile, uno appena sopra la vagina, uno al cuore, uno sulla fronte, sparati a distanza ravvicinata. Le lenzuola erano intrise di sangue.

 

«Non è stato Greg.» disse, semplicemente, facendo ricadere la foto sulla scrivania.

 

«L'ora del decesso è risalente alle tre di notte, quindi ben dopo che il detective Lestrade aveva lasciato casa sua.»

 

John balzò in piedi, furibondo e gli puntò un dito contro. «Sentimi bene, figlio di puttana: Lestrade non c'entra niente con tutto questo, lui non avrebbe mai toccato Sofia con un dito, lo conosco bene!»

 

«Come conosceva bene il suo migliore amico, Sherlock Holmes, suppongo.»

 

Colpo basso.

Questo era stato davvero un colpo basso.

Il volto di John mutò completamente, diventando minaccioso.

 

«Piccolo, arrogante arrampicatore rampante, sei solo un bastardo saccente. Non ti permetterò di rovinare Lestrade per far carriera!»

 

«Minaccia e offesa a pubblico ufficiale...» cantilenò Moore.

 

«Io non ho sentito niente, detective, e nemmeno lei suppongo.» disse una terza voce.

 

John rimase immobile, senza voltarsi.

L'altro, invece, si alzò con fare scocciato.

 

«E' lei chi diavolo è? Non ha l'autorità per entrare...»

 

Mycroft avanzò, ponendosi al fianco di John, come a volerlo proteggere. «Mycroft Holmes.» si presentò.

 

Quando il giovane detective sentì questo nome impallidì un poco.

Sapeva chi fosse e quanto fosse importante.

 

«Immagino che non abbia intenzione di perseguire il dottor Watson, dico bene? A meno che non voglia che il momento più eccitante della sua carriera non diventi dirigere il traffico a qualche crocicchio di periferia.»

 

«Questo è abuso di potere!»

 

«Ah, davvero? Non ne ho sentore.» sibilò Mycroft.

 

John chiuse gli occhi, cercando in tutti i modi di mantenersi calmo.

Mycroft faceva parte del punto A, quello che si era lasciato alle spalle, avrebbe preferito essere incriminato, piuttosto che vederlo rientrare nella sua vita, seppur a livello minimale.

 

«Puoi andare John, il detective ha finito con te.» gli sentì dire con tono gentile.

 

Si voltò, senza degnarlo di uno sguardo e uscì sbattendo la porta.

 

 

 

Sono quasi le otto quando ti sento rientrare, Mycroft.

Ok, lo ammetto, mi sono comportato davvero in maniera terribile, questa mattina, per questo ho deciso di preparare la cena.

 

«Sei di buon umore.» mi dici.

 

No, non lo sono affatto, ma ti sei portato via la cocaina, quindi qualcosa dovevo pur fare.

Non rispondo nulla e mi chino a tirar fuori il pasticcio dal forno.

Ho mal di testa.

 

«Ho visto John, oggi.»

 

«Mh mh. Il bordo si è un po' bruciato, lo vuoi lo stesso?»

 

Il tuo sospiro palesa, ancora una volta, la tua preoccupazione.

Non ho voglia di discutere, Mycroft, goditi la cena e sta' zitto.

 

«Sì, va bene lo stesso. Torno subito.»

 

Vai a metterti gli abiti da casa, come tua abitudine.

Ti aspetto in cucina dove, quando torni, ceniamo in completo silenzio.

Ci sarebbero troppi discorsi che tu vorresti fare e troppi che io vorrei evitare. È una partita a scacchi su una scacchiera che si perde all'infinito e su cui indugiamo refrattari, immobili.

 

«Voglio la mia droga.» dico, solo a fine cena.

 

«Trovi tutto sul tavolo. Io vado nella mia stanza.»

 

Sistemo i piatti, li lavo, ormai mi sono abituato al tuo ordine.

Non mi riconosco più.

Torno in salotto, almeno con la mia dose forse starò un po' meno peggio.

La disposizione degli oggetti sul tavolo mi fa sussultare.

Nell'angolo a sinistra: la scatola intagliata con la mia droga, in quello a destra: il mio violino e l'archetto, al centro: un fascicolo della polizia.

Che tu sia maledetto, Mycroft!

 

 

 

Quando Mycroft venne svegliato in piena notte dallo stridere del violino, sorrise, sapendo che le cose avevano ripreso a muoversi secondo la loro natura.

 

 

 

N.d.A: Eccoci qui ^^, ringrazio tutti quelli che leggono e che mi recensiscono, fa' sempre piacere sapere che a qualcuno il proprio lavoro piace! Qualsiasi appunto o critica costruttiva è più che bene accetta =)!

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo: ***


«John, ti senti bene? Che ci fai alzato a quest'ora?» Denise avanzò nella penombra del salotto, fermandosi di fronte a lui.

 

L'uomo distolse lo sguardo dalla parete che fissava ormai da ore.

Erano le cinque e mezzo del mattino, si era alzato verso le due, dopo una notte completamente insonne.

 

«No.» rispose. «Che cosa faresti se un passato che hai voluto lasciarti alle spalle rientrasse all'improvviso nella tua vita? Se un amico avesse davvero bisogno di te?»

 

La donna gli si sedette accanto. «Valuterei le priorità, penso, ma credo che tu abbia già preso la tua decisione, amore. Non mi hai mai parlato del tuo passato ed io non te l'ho mai chiesto. Vuoi farlo ora?»

 

John deglutì e prese un sorso di birra.

 

«Greg, l'amico che è passato ieri notte è stato accusato di aver ucciso la moglie. Ti avanzo i dettagli della dinamica, perché sono abbastanza raccapriccianti per chi non è... insomma, nel giro. Ed io nel giro c'ero. Hai mai sentito parlare di Sherlock Holmes?» la sua voce si era arrochita, erano anni che non pronunciava il suo nome.

Che non pensava il suo nome... e quel giorno era successo già due volte.

 

«Non era quel pazzo che ha..?»

 

«Era il mio migliore amico.» la interruppe bruscamente.

 

Non aveva voglia di sentire la solita tiritera sul “falso genio”.

 

«No, “migliore amico” è riduttivo. Era una parte di me, una parte talmente importante che la sua morte ha ucciso l'uomo che ero, portandomi ad essere quel che sono diventato: un uomo pacato, che non si arrabbia, che si rallegra...» guardò il disegno che Thisha gli aveva portato e che ora era solo una sagoma scura sul piano del tavolinetto.

 

«...delle piccole cose. Un uomo semplice che, effettivamente sta meglio, ora che sta lontano da folli assassini e da picchi adrenalinici da infarto. Un uomo che si è rintanato in qualcosa di semplice, qualcosa che è in grado di comprendere e di amare, ma è anche un uomo che ha perso la bellezza degli angeli e che, dopo averla vista un attimo, in un baleno di luce eterea, passerà il resto della vita a rimpiangerla in eterno. Dicono che la felicità sia un lampo passeggero ed è vero, Denise, e, sai una cosa?» prese un altro sorso di birra.

 

«Ti auguro di non incrociarla mai, nella tua vita, perché quando ti viene tolta è peggio, molto peggio. Lui, Sherlock, non era un pazzo, non era un criminale, non era tutto quello che puoi aver letto o sentito su di lui. Sherlock era una creatura superiore, immune alla gioia, ai sentimenti, forse anche alla tristezza, ma... non del tutto... Io ero là quando lui l'ha fatto, ha parlato con me, ha pianto e questo lo ha subito trasportato da creatura eterea ad essere umano. Sì, Sherlock era un essere umano. Io penso di... odiarlo, ma non voglio concentrarmi troppo su questo pensiero, non voglio mandare in pezzi la vita che, tanto faticosamente, ho ricostruito con te e con la piccola. Era impossibile tenermi una donna, quando ero con lui, era invadente, accentrante, ma mi bastava. Ero con lui, eravamo io e lui. Non so se puoi capire, ma non lo odio per questo, oh, no... Lo odio perché mi ha impedito di aiutarlo, perché ha preferito lanciarsi giù dal maledetto tetto del Bart's senza...» mandò giù un singhiozzo amaro, mentre i suoi occhi si velavano di lacrime antiche.

 

«...senza portarmi con lui, senza permettermi, quando meno, di comprendere il perché... Per lungo tempo è stato impossibile per me avere donne anche dopo di lui, ma non solo donne, persino avere persone intorno! Ero sempre ubriaco, sempre intrattabile! Ero addirittura arrivato a sperare che uscisse dalla sua fossa come in un film di Romero, mi sarebbe andato bene anche quello! Mi ero follemente convinto che non fosse morto, che fosse tutto uno scherzo e questo mi stava uccidendo. C'era solo Greg che si prendeva la briga di venirmi a stanare negli angoli più impietosi di Londra. No, non è vero, c'era anche Mycroft, il fratello maggiore di Sherlock. Mycroft c'è sempre stato in questi anni, ma non si è mai fatto vedere. Beh, meglio per lui, perché la tentazione di piantargli una pallottola in fronte sarebbe stata troppo forte, in certi momenti. Dicevo: non si è mai fatto vedere, certo... sino ad oggi. Ho preso a male parole il detective che sta indagando sul caso di Greg, uno stronzetto arrogante, e Mycroft mi ha avanzato una denuncia e ha risparmiato a lui il naso che gli avrei sicuramente spaccato. Cristo, dev'essere difficile per te sentir parlare di un me così diverso, così bestiale, rispetto alla persona che conosci, ma ti prego di considerare che, sino a questo momento, sono stato...corretto... quanto meno ci ho provato... Non lasciarmi anche tu perché ho nominato Sherlock, lui è morto. Tu e la bambina mi avete salvato ed io vi sarò sempre grato e riconoscente per questo. Siete fondamentali per me.» posò la birra sul bracciolo del divano e si stropicciò gli occhi lucidi.

 

Denise sorrise, un po' malinconica, poi gli diede una pacca sulle spalle.

 

«Che vuoi che sia? Ho solo un ex ingombrante con cui confrontarmi. Succede a tutti, prima o poi, solo non pensavo che tu avessi anche certi altri gusti. Non ti sto giudicando, eh, sono solo... sorpresa!»

 

John sussultò.

Un'altra volta! Era successo un'altra volta!

 

«N-No, frena io e Sherlock non...»

 

«Ho detto: non ti sto giudicando. Non c'è problema, John.» lo strinse tra le braccia e posò le labbra sulle sue. «Non c'è problema perché ora sei mio e ricordami di ringraziare questo Mycroft, che nome assurdo, per non doverti portare le arance in prigione.»

 

Lui lasciò perdere la questione, tanto ormai tutto il mondo era convinto che lui e Sherlock fossero stati una coppia.

Cercare di smentire la cosa era una lotta contro i mulini a vento e lui non era di certo pazzo come un Don Chisciotte.

Oh, no, Don Chisciotte era Sherlock...

 

«Sì, ora lo invito a cena, ma per favore!» borbottò John, contrariato.

 

«Sarebbe una magnifica idea, così potrete decidere cosa fare per l'altro tuo amico, Greg. Perché ho già capito che vuoi aiutarlo. No, non voglio sapere come, John, preferisco non conoscere i dettagli, come hai detto tu, ma non voglio impedirti di fare niente di ciò che ti senti di fare. Hai fatto molto per me e Trisha, ci hai dato un tetto, mi hai aiutata a trovare un lavoro e non hai mai chiesto nulla in cambio, quindi prenditi il tuo tempo, prendi le tue decisioni, ma invita quell'uomo per cena o per pranzo, tanto è il mio giorno libero, posso cucinare.»

 

«Ti prego, non puoi fare sul serio! Se ho detto che avrei voluto piazzargli una pallottola tra gli occhi un motivo ci sarà pur stato, no?!» il tono di John si era fatto stridulo.

 

Mai avrebbe pensato che Denise gli avrebbe dato un bello spintone per farlo rientrare nel passato!

Anzi, aveva pregato che lei gli ordinasse di lasciar perdere tutto e pensare alla loro famiglia!

La vide fare una mossa fulminea e sfilargli il cellulare dalla tasca, prima di scattar via dal divano alla velocità della luce.

 

«Ma tu non sei più quel tipo di uomo. Lo hai detto tu.» sorrise lei. «E il minimo che puoi fare per dimostrarlo a te stesso, perché io so perfettamente che tipo di uomo sei, è mettere una bella pietra sopra sul passato.» scorse la rubrica. «Miriam... Michael, Mycroft! Eccolo qui!»

 

«Denise non si invita la gente a pranzo alle sei del mattino!» era un ultimo tentativo, ma la sua fidanzata scrollò le spalle e dopo aver digitato il messaggio lo inviò.

 

 

 

 

Ok, un ultimo ritocco e ho finito.

Dovrò snellire i tempi, la prossima volta, perché ci ho messo tutta la nottata.

Non che mi senta stanco, ma due ore di preparazione sono davvero troppe.

Tu ti sei appena alzato, Mycroft, sono le cinque e mezza.

Entri in salotto borbottando qualcosa contro il violino e sul fatto che, se proprio voglio suonarlo in piena notte, almeno potrei farlo bene, invece che farlo assomigliare a un gatto impiccato.

Di che ti lamenti? Me lo hai lasciato tu sul tavolo.

Dovevi aspettartelo.

Non mi hai ancora guardato ed io attendo, impaziente.

Quando finalmente sollevi lo sguardo fai un balzo indietro e con una mano afferri un soprammobile, poi sbatti le palpebre un paio di volte, ormai del tutto sveglio.

 

«Aspetta un attimo: Sherlock?!» esclami, lasciando il soprammobile al suo posto.

 

Sorrido e rimiro il mio riflesso sulla finestra.

Sfioro appena con le mani i capelli della parrucca rossiccia che indosso, e accarezzo con lo sguardo la finta barba incolta che mi sono messo sul volto e poi il trucco.

Certo, ci ho messo ore a rendermi irriconoscibile, ma il risultato è superbo, sembro tutto un altro uomo.

Persino tu, Mycroft, mi hai riconosciuto solo perché sapevi che ero qui.

Anche perché casa tua è una fortezza quasi inespugnabile, nessuno riuscirebbe a penetrarvi senza far scattare almeno uno degli allarmi.

 

«Spiegami la ragione di questa pagliacciata!»

 

Sei stizzito.

Aahh, e io che pensavo che mi avresti fatto i complimenti!

Ti scocco un'occhiata.

 

«Non posso certamente uscire e muovermi con il mio vero aspetto, né come Sherlock Holmes. Voglio dei documenti falsi, mi spaccerò per uno dei tuoi agenti, uno dei pupilli che hai scelto di persona. Questo mi darà accesso a tutti i fascicoli e alla scena del crimine.»

 

Mi guardi con cipiglio scocciato.

Che? Ti aspettavi un “per favore”?

 

«Non mi sembra una grande idea. Puoi muoverti normalmente, Sherlock, farò in modo che nessuno ti disturbi.»

 

«No. Hai voluto a tutti i costi buttarmi dentro a questa faccenda. Bene, ma farò come voglio io.»

 

Sbuffi e scuoti la testa, poi alzi le mani in segno di resa.

 

«Come ti pare. Preferenze sul nome?»

 

Il senso di colpa è proprio una bella cosa, ti ha reso così accondiscendente in tutto.

Ti passo accanto.

 

«James.»

 

Sussulti e mi studi con i tuoi occhi scuri.

Sei stranito dal vedermi così diverso.

Sembro anche più giovane, leggermente, non ho esagerato.

È voluto: volevo sembrare uno dei ragazzi che, di tanto in tanto, selezioni dall'Accademia per farne i tuoi migliori agenti, come ho detto: uno dei tuoi pupilli.

 

«Mi ha tolto la vita, almeno il nome me lo deve.» aggiungo. «Per il cognome usa quello che preferisci, magari irlandese. Sì, mi sento piuttosto irlandese, oggi.»

 

Entri in cucina, senza considerarmi oltre ed io vado nella mia stanza, dove mi riguardo allo specchio, dopo essermi vestito in modo decisamente non consono alla mia persona.

Voglio avere un aspetto un po' trasandato.

Gli occhi proprio non vanno, sono troppo riconoscibili del mio colore.

Poco male, comprerò delle lenti a contatto scure.

Ogni depressione sembra svanita in un soffio.

Il che è quasi incredibile, mi chiedo come mi sentirò una volta che l'adrenalina sarà calata.

Mi lego i capelli rossi in una coda sfilacciata e tiro fuori un angolo della camicia dai jeans.

Faccio delle prove di voce, fino a raggiungere un risultato soddisfacente, che non mi affatichi troppo le corde vocali e poi assumo una posa un po' ingobbita, non troppo però.

No, non mi riconoscerebbe nemmeno mia madre se mi incontrasse per strada.

Ti raggiungo in cucina, dove tu hai già finito la tua colazione dietetica.

 

«Vieni a prendere i tuoi documenti in ufficio. Immagino vorrai cercarti un altro alloggio, non potrai stare qui.»

 

Mi verso un po' di caffé.

 

«Voglio tornare a casa, Mycroft. Contatta Mrs. Hudson.»

 

«Non penso proprio che sia intenzionata ad affittare, sai benissimo che nemmeno lei sta più a Baker Street e si è trasferita da sua cugina da quando... beh, lo sai.»

 

Dillo, Mycroft: da quando sono morto.

Non ho paura delle parole.

Sorrido.

 

«Ma se glielo chiedi personalmente sono sicuro che acconsentirà. Potresti dirle che mi consideri come un fratello.»

 

Stai per ribattere, ma il tuo cellulare ti distrae.

Che succede? Crisi di stato di primo mattino?

 

«Questo è curioso...» borbotti.

 

Sorseggio il mio caffè, guardando fuori dalla finestra.

I tuoi affari non mi sono mai interessati, né lo faranno mai.

 

«John mi ha invitato a pranzo da lui.»

 

Non so bene perché, ma questa cosa mi da fastidio.

Molto fastidio.

 

«Divertiti. Io esco. Ci vediamo più tardi in ufficio.»

 

 

 

«John, hanno suonato! Io sto finendo in cucina, vai tu!»

 

L'uomo si alzò dal divano controvoglia e spalancò l'uscio.

Mycroft stava lì in piedi con un sopracciglio inarcato.

In attesa di qualche spiegazione.

Deglutì e inspirò profondamente, chiudendo gli occhi per fare appello a tutto il suo autocontrollo.

 

«Non mi hai invitato tu, dico bene?» gli domandò il maggiore degli Holmes.

 

«Non cominciare ed entra.» gli sbottò contro il dottore, facendolo passare.

 

Denise li raggiunse nell'ingresso e recuperò il cappotto del loro ospite, attaccandolo all'attaccapanni.

 

«Salve, lei dev'essere Mycroft! Sono così felice di poter finalmente conoscere un amico di John!»

 

I due uomini si scoccarono un'occhiata e John non poté fare a meno di sogghignare per quell'assurda situazione.

Si sedettero a tavola, estinguendo in breve tempo le formalità di cortesia.

 

«Che vuoi fare per Greg?» domandò John.

 

«Tu che vuoi fare?» gli rigirò la frittata Mycroft.

 

L'altro sbuffò. «Sappiamo entrambi che è innocente.»

 

«No.» lo interruppe Mycroft. «Allo stato attuale delle cose non sappiamo nulla. Giudicarlo innocente solo per irrazionali ragioni emotive è erroneo, John.»

 

«Non avresti alzato il culo dalla tua fottuta sedia se non lo credessi innocente!» abbaiò il dottore.

 

«John!» esclamò Denise contrariata dal suo atteggiamento.

 

«Lasci perdere, è sempre stato così.» la liquidò Mycroft. «E' vero: non credo possa essere colpevole, ma se le prove dimostreranno il contrario e, al momento lo dimostrano, sarò pronto ad accettare la cosa. Sei dello stesso avviso?»

 

«Le “prove”, come le chiami tu, dimostrano anche che Sherlock fosse un bugiardo, questo lo rende tale anche a te che lo hai venduto al suo assassino?!»

 

Mycroft sospirò. «Quindi non si tratta di Greg, si tratta di Sherlock... Salvare la reputazione di Greg non te lo riporterà indietro, spero che questo ti sia chiaro. Comunque sia, se vuoi occuparti del caso, ho un aiuto da offrirti.»

 

Incrociò le braccia al petto.

Forse poteva prendere due piccioni con una fava e risolvere, finalmente, quell'assurda situazione che si perpetrava da tre anni.

Vide John tentennare, livido, sotto lo sguardo preoccupato della sua fidanzata.

 

«Che tipo di aiuto?» chiese.

 

Mycroft sorrise. «Ti affiancherò James O'Neill, il mio agente migliore. Hai lavorato con Sherlock, saprai lavorare anche con lui, sono piuttosto simili. È un'offerta non trattabile, o entri nel caso in questo modo o ti costringerò a restarne fuori.»

 

John balzò in piedi, indignato.

 

«Io non lavorerò con un surrogato!»

 

Mycroft lo imitò, avvicinandosi alla porta.

 

«Sciocchezze. Se accetti, va' a casa di Lestrade per le quindici di questo pomeriggio. Arrivederci, signorina, il pranzo era davvero ottimo.»

 

Denise lo accompagnò alla porta, dopo aver lanciato l'ennesima occhiataccia a John per il suo comportamento sgarbato.

 

«Posso chiederle una cosa, signor Mycroft?» domandò sulla soglia, mentre l'uomo si allacciava il cappotto.

 

«Certo.»

 

«Lei chi è? Che lavoro fa? Ha parlato di agenti, è un detective di Scotland Yard?»

 

Mycroft sorrise, dandole le spalle.

 

«Io sono il Governo Britannico, signorina Lomax.»

 

 

 

Prendo un respiro profondo ed entro nel palazzo del parlamento nel primo pomeriggio.

Con questi vestiti trasandati mi guardano tutti male.

La cosa mi diverte.

Ho deciso di eliminare la parrucca, era troppo rischiosa.

Se qualcuno mi avesse afferrato per i capelli l'avrebbe tirata via in un lampo, sbugiardandomi, quindi ho cambiato taglio, lisciando e schiarendo i miei veri capelli.

 

Di necessità virtù, è così che si dice, no?

Solo che questo mi è costato tutta la dannata mattina.

Ho perso tempo.

 

Le lenti a contatto mi danno un po' fastidio, ma mi abituerò a portarle.

Busso alla porta del tuo ufficio, fratellone, ed entro solo dopo che mi hai dato il permesso.

In fin dei conti, ora, sono uno dei tuoi uomini.

Mi siedo sulla poltroncina mentre tu mi guardi con disapprovazione.

Spingi una voluminosa busta di carta verso di me.

Ne esamino il contenuto: pistola, due caricatori, distintivo dell'MI5, carta d'identità, un portafogli, un cellulare, chiavi di casa e di una macchina e un fascicolo con la presunta storia della mia vita.

Sorrido e mi rialzo.

 

«Grazie, signore.» ti strizzo l'occhio.

 

Non ho intenzione di chiederti nulla del pranzo con John.

Ti ho visto arrivare a casa sua intorno a mezzogiorno e venti, poi me ne sono andato.

 

«Può andare, agente O'Neill.» reciti la tua parte controvoglia ed io mi defilo.

 

Trovo la macchina nel parcheggio sotterraneo: un vecchio cassone scalcagnato.

Che stronzo che sei, Mycroft...

Però è perfettamente consono al mio aspetto.

 

Ci metto poco a raggiungere casa di Lestrade.

Ho sempre saputo il suo indirizzo, ma non ci sono mai stato.

In fin dei conti dubito che ci avrei mai messo piede.

Scrollo le spalle e scendo, sbattendo la portiera, lascio anche la macchina aperta.

Così malridotta persino un ladro pidocchioso si vergognerebbe di rubarla.

Svolto l'angolo, sbuffando e alzando il colletto del giubbotto di jeans.

Per poco non mi prende un colpo quando, davanti al portone del palazzo, vedo te...

John...

Mi guardi, punti i tuoi occhi dritti sulla mia faccia ed io sento il mio stomaco stringersi in una morsa.

Sono anni che il tuo sguardo non si posa sul di me, lo sento addosso e... fa quasi male.

Dopo qualche secondo di panico misto a blackout, mi ricordo che sono camuffato e che non puoi riconoscermi.

Rilasso i muscoli e il mio cervello riprende a funzionare.

Mycroft! Dev'essere stato Mycroft!

Figlio di...

Scusa mamma...

 

«E' in ritardo, agente.» mi ringhi contro.

 

Sei astioso sin dal principio, ho la sensazione che James O'Neill ti stia antipatico ancor prima che apra bocca, John.

Prima dovresti conoscerlo, non credi?

Sento la vita pomparmi nelle vene come non mi accadeva da anni.

James potrebbe tirar fuori tutto quello che Sherlock ha sempre nascosto.

Dagli un'opportunità...

Sorrido, affabile.

 

«Sono rimasto a secco di benzina e ho dovuto farmela a piedi sino al distributore. Tu devi essere John, l'uomo di cui il capo mi ha parlato.»

 

«Lei il distintivo dell'MI5 l'ha preso con i punti del supermercato?»

 

Non accenni ad essere minimamente accomodante.

Che diavolo ti ha detto Mycroft?

Maledetto il mio orgoglio, avrei potuto chiedere, invece mi ritrovo ad improvvisare!

 

«Qualcosa del genere. Mi chiamo James, ma puoi chiamarmi Jim.»

 

Ti porgo la mano, ma tu non la stringi e incroci le braccia al petto.

 

«Agente O'Neill andrà benissimo e ora entriamo, non ho tutto il giorno.»

 

 

 

 

N.d.A: Capitolo piuttosto lungo, spero non vi sia dispiaciuto! Ogni commento positivo/negativo è sempre ben accetto!

Mille grazie a tutti quelli che mi leggono e mi recensiscono!

Un bacione,

Ros.

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Capitolo 4
*** Capitolo quarto: ***


 

Entriamo nell'androne del palazzo e tu lanci un'imprecazione quando noti la scritta “guasto” sopra alle porte dell'ascensore.

 

«A che piano dobbiamo salire?»

 

Domanda retorica.

So perfettamente che l'appartamento di Lestrade è al quinto piano, interno 7, ma sto cercando di apparire quasi normale, quasi semplice, almeno per le cose di poco conto.

Sbuffi, guardandomi quasi con superiorità.

 

«Al quinto.»

 

Che espressione... curiosa, non te l'ho mai vista.

Quando parlavi con me, in passato, i tuoi occhi erano sempre pieni di ammirazione e mai una volta, nemmeno durante le assurde discussioni sul Sistema Solare, ti sei mai sentito “migliore di me”.

Cristo, ora l'inutile informazione che la Terra giri intorno al Sole è marchiata a fuoco nella mia memoria.

Solo perché me lo hai detto tu...

Buffo.

No: patetico...

Cominciamo a salire in silenzio, tu vai avanti.

La tensione della tua spina dorsale, i pugni stretti, quasi del tutto nascosti dentro le maniche della giacca, mi comunicano con estrema chiarezza il tuo fastidio.

Abbiamo appena superato il quarto piano quando ti fermi a metà scala e mi guardi.

 

«Non pensi nemmeno per un istante che lei possa prendere il suo posto.» la frase è diretta, incisiva e io sono sorpreso.

 

Nonostante questo, fingo di non capire.

 

«Di cosa stai parlando?» ti chiedo, passandomi una mano tra i capelli e scompigliandoli più di quanto non lo siano di base.

 

«Mycroft ha voluto che collaborassi con lei, mi ha obbligato a farlo, mi ha detto che lei è “simile” a Sherlock. Ho capito cosa vuole fare, ma non ce n'è alcun bisogno: ho superato il mio lutto, quindi si avanzi la recita con me. Facciamo il lavoro e basta.»

 

Non sono per niente sicuro che quel che è uscito dalla tua bocca mi piaccia, John.

Superato significa solo: mi hai dimenticato, brutto ipocrita bastardo!

Ok, forse la focosa personalità dell'irlandese che sto interpretando mi sta contagiando e questo non è un bene.

Scrollo le spalle e riprendo a salire.

 

«Non ho mai conosciuto Sherlock Holmes. Ho letto solo qualche articolo su di lui, ma solo perché non avevo altro da fare.»

 

«E che idea se n'è fatto?»

 

Provocazione.

Mi sono stancato.

Ti sbatto contro la parete, tenendoti fermo con un palmo premuto sul petto.

Non voglio realmente farti del male e tu lo sai perché non reagisci.

Corrughi solo le sopracciglia, guardandomi come farebbe un cane pronto ad attaccare.

 

«Nessuna. Non spreco il mio tempo su persone morte e sepolte, né la mia memoria per informazioni inutili!» ecco, questa potevo risparmiarmela, potrebbe essere un'uscita sospetta, meglio aggiungere dettagli per distrarre la tua attenzione. «Per quel che ne so Sherlock Holmes è solo un tizio che si è buttato giù da un palazzo. Era un genio? Era un pazzo assassino? L'ha fatto per delle buone ragioni? L'ha fatto per codardia? Beh, non me ne frega un cazzo, solo un idiota compirebbe una stronzata simile!»

 

E questo la dice lunga su quel che il mio inconscio pensa realmente su quel che ho fatto...

Meglio non pensarci, non adesso.

Intuisco che mi stia per arrivare un pugno.

Sei ancora prevedibile, John.

Lo schivo con un semplice movimento e ti sbatto di nuovo contro questo dannato muro.

Ti faccio male.

Perché?

Perché sono furibondo con te!

 

«Sono un uomo paziente, John, davvero, se mi sforzo riesco ad essere anche simpatico, credimi. Puoi pensare quello che ti pare di me, puoi anche chiamarmi “Stronzo Idiota”, invece che James O'Neill, la cosa non mi tocca, ma non tollero di perdere tempo dietro a dei fantasmi! Io non sono Sherlock Holmes e nemmeno lo vorrei essere.»

 

Freud, vaffanculo...

Ti lascio andare e tu ti sistemi la giacca.

Incrocio le braccia al petto.

 

«Estinte queste formalità, mi auguro che non torneremo in argomento.»

 

«Non vale nemmeno la sua ombra.» mi sibili alle spalle, quando, dopo esser saliti ancora, raggiungiamo la porta dell'appartamento di Lestrade.

 

«Questo è da vedere.»

 

Che bello sentirsi messi in competizione con se stessi.

Un'esperienza che ancora mi mancava...

Fai per infilare le chiavi nella toppa e non mi pongo troppe domande, so che hai passato un periodo qui da lui, agli inizi.

Evidentemente ti aveva fatto una copia delle chiavi.

Ad ogni modo ti fermo.

 

«Che..?» inizi ad obbiettare.

 

«Voglio esaminarla, prima.» in condizioni normali ti avrei detto di stare zitto e non occupare il mio spazio mentale, ma non sono Sherlock, al momento.

 

Scorro lo sguardo sulla porta, alla ricerca di qualche indizio, qualsiasi cosa, ma non trovo niente.

Nessun graffio che possa lasciar presupporre uno scasso.

Spazio intorno e noto un porta ombrelli sotto al campanello.

Lo sollevo, ma sotto non c'è niente, quindi lo ribalto.

Gli ombrelli all'interno si abbattono sul pavimento con un rimbombo secco che si dipana per tutto il corridoio.

 

«Ma che cazzo fai?!»

 

Oh, siamo passati dal “lei” al “tu”, lo devo giudicare un passo avanti?

Mi chino e scosto qualche ombrello e qualche foglia secca ed eccola lì: la copia di scorta delle chiavi.

Alzo gli occhi al cielo per maledire, o forse ringraziare “Nostro Signore delle cose ovvie”.

Ti guardo con un sorrisino.

Hai la bocca leggermente socchiusa, sei sorpreso, forse deluso dal fatto che mi sia dimostrato capace, almeno un poco.

Fa male riconoscere che sono bravo anche se “non sono Sherlock Holmes”, vero?

Provo un illogico brivido di piacere per questa minimale rivalsa.

Mi alzo, infilo la chiave nella toppa ed entriamo.

Una serie di bip provenienti da sinistra mi comunicano che c'è un sistema d'allarme inserito.

Ti guardo e ti chiedo un'altra cosa per me ovvia, visto che so che hai abitato qui:

 

«Sai disinserirlo?»

 

«Fallo tu.»

 

Mi stai mettendo alla prova?

 

«Volevo solo risparmiare tempo.» sbuffo.

 

Ho circa tredici secondi, prima che le sirene inizino a suonare.

Apro lo sportellino e, ad una rapida occhiata, noto che il 3, il 9 e l'1 sono più usurati degli altri tasti.

È un sistema d'allarme comune, domestico, con una password di quattro cifre.

Lestrade, meriteresti di marcire in prigione per la banalità della scelta del codice!

1993, l'anno in cui ti sei sposato...

Ovviamente James non può saperlo, ma io sì.

Lo digito e i bip cessano.

 

«Due a zero per me.» ti notifico con un ammiccamento divertito.

 

«Come hai fatto?»

 

Scrollo le spalle e mi incammino lungo il corridoio.

 

«Sono un mago.» ironizzo.

 

Supero il salotto con i tuoi borbottii indistinti ad accompagnarmi e lancio un'occhiata distratta anche alla cucina.

Per il momento decido di soprassedere e punto alla camera.

Il corpo, ovviamente, è stato portato via, questo non significa che non ci siano elementi utili.

Mi avvicino alla testiera del letto, dove la moglie di Lestrade era legata.

Come si chiamava?

Ah, poco importante!

Ho un sospetto, ma dovrei vedere la corda.

Come prevedibile hanno portato via anche quella.

Pazienza, ci aspetta una tappa a Scotland Yard.

Noto una coperta di lana su una poltroncina.

È piena di peli scuri, neri, ne sollevo uno, poi mi volto verso di te.

 

«Dov'è il gatto?»

 

Sbatti le palpebre, ormai fatichi a celare la tua sorpresa.

Tre a zero per me, dottor Watson...

 

«Non lo so. Sarà qui in giro.»

 

«Cercalo.»

 

Torno a guardare il letto.

Hanno tolto le lenzuola ma il materasso lo hanno lasciato qui.

Imbecilli...

Ci sono delle gocce sul bordo, piuttosto distanti dalla grossa chiazza centrale, segno inequivocabile del fatto che la vittima fosse già ferita, quando è stata legata, ma sono anche leggere, non sono riuscite a trapassare di molto le lenzuola.

Probabilmente la moglie di Lestrade è stata sollevata di peso e adagiata sul materasso.

Svenuta, presumibilmente.

Questo significa che devono esserci altre tracce di sangue in giro.

Aaah, mi chiedo chi dia la licenza investigativa ai detective di Scotland Yard!

Questo delitto di passionale non ha nulla, anzi, è stato compiuto con estremo professionismo.

Un professionismo di cui Lestrade non sarebbe capace nemmeno fra mille anni.

 

«Il gatto non c'è.» mi notifichi, rientrando nella camera.

 

Ma va?

Dimmi qualcosa che non so...

 

Tieni due ciotole in mano, piene di croccantini. «E non ha mangiato.»

 

Bene, bravo, vedo che almeno qualcosa di quel che ti ho insegnato ti è rimasto.

 

«Era un gatto d'appartamento? Usciva mai?»

 

«Sì. No.»

 

«Fantastico!» esclamo, in uno slancio di entusiasmo.

 

«Già, il gatto è scomparso, controlliamo in giro, magari poteva avere un movente per uccidere Sofia!»

 

Sarcasmo, sarcasmo, quanto sarcasmo...

Devo proprio spiegartelo o ci arrivi da solo?

Istanti preziosi persi nel silenzio dell'oblio del tuo piccolo cervello, John.

Sorrido.

Mi mancavano questi momenti.

 

«Il gatto probabilmente è scappato quando è stata aperta la porta di casa. Va da sé che. se fosse stato l'ispettore Lestrade a rientrare, il gatto non si sarebbe spaventato...»

 

«E non potrebbe essere scappato per gli spari?»

 

«Certo, perché i gatti sono noti per passare attraverso le porte chiuse, vero? Comunque sia i colpi sono stati sparati con un silenziatore. È stata la domestica a trovare il corpo, la mattina dopo, se l'assassino non avesse usato un silenziatore non si sarebbe spaventato solo il gatto, alle tre di notte.»

 

Persino un idiota ci sarebbe arrivato, John, per Dio!

Esco dalla stanza e passo al salotto.

I cuscini sono spostati da un lato: qualcuno ci si è seduto.

Esamino lo schienale con cura, la tappezzeria è scura, ma non è un problema.

Infatti eccole qui, le mie altre, care, macchie di sangue.

 

«E' stata colpita alla nuca dal suo aggressore, ma dubito di poter confermare la mia versione, viste le condizioni del cranio della vittima. Queste, comunque, spiegano che non si era accorta della presenza di qualcun altro in casa. Il che sottolinea, ancora una volta, che non si è affatto trattato di un delitto passionale...» mi interrompo, perché questo non te l'ho detto, l'ho solo pensato.

 

«Chi avrebbe voluto uccidere la moglie di un detective?» sembri raccapezzarti bene pur senza ulteriori spiegazioni.

 

«Non lo so.»

 

Lestrade è un uomo semplice, tonto, non ha nemici... ma forse non si poteva dire lo stesso della vittima.

E sono sincero: non lo so e non lo saprò per i prossimi:

Tre,

due,

uno...

Torno nella camera da letto e spalanco l'armadio.

Devo capire di più di questa donna.

Ci sono molti vestiti firmati, portati regolarmente in lavanderia.

Lestrade guadagna una miseria, quindi lei doveva sicuramente avere un lavoro meglio retribuito.

Tanti tailleur, troppi perché siano solo un gusto personale.

Un cappotto è ancora nella busta della lavanderia, c'è il cartellino.

Seven Dials Cleener”, Shelton Street.

Cosa può offrire un salario medio/alto in quella zona?

Ovvio: la nostra vittima era una dipendente della Stuckley's Financial Company .

Certo, avrei potuto chiedertelo, John, ma che divertimento ci sarebbe stato?

No...

In realtà non mi sto divertendo affatto...

È tutto così... sbagliato.

Mi volto e ti trovo appoggiato alla porta che mi osservi con sguardo torvo.

Che palle! Posso dirlo?

 

«Usciamo di qui e andiamo alla Stuckley's Financial Company .» ti comunico, passandoti accanto.

 

È snervante il non renderti partecipe delle mie deduzioni, ma “Sherlock” lo farebbe per bearsi della tua ammirazione ed io non voglio sbugiardarmi.

 

Mi afferri per un braccio. «Come lo sai che lavorava là?»

 

«Ho letto un fascicolo su di lei, prima di venire qui.»

 

Ok, questa menzogna ha fatto male.

Mi ha sbalzato indietro di tre anni a quando ti dissi che avevo fatto ricerche su di te, prima di conoscerti.

 

«Ah, capisco.» il tuo tono si è fatto strano.

 

Forse lo hai ricordato anche tu quel momento.

 

Usciamo dall'appartamento in silenzio.

 

«Non c'è bisogno che fingi di non averlo dedotto, ti ho visto guardare gli abiti e trovare il cartellino della lavanderia...» la tua voce all'improvviso riempie l'androne. «Siamo... sono partito con il piede sbagliato...»

 

Sembri a disagio e la cosa mi incuriosisce.

Alle volte vorrei essere più preparato sulla gamma delle emozioni umane, perché questo tuo cambio repentino proprio non lo comprendo.

Una maggior conoscenza sarebbe utile anche per sistemare i miei di problemi, suppongo.

 

«In fin dei conti mi stai aiutando a scagionare Greg e dev'essere frustrante per uno come te occuparsi di un banale caso di omicidio. Certo, l'idea di avere Mycroft sulla spalla come un avvoltoio non mi rallegra. So che hai anche il compito di controllarmi, cosa credi?»

 

Credo che tu abbia costruito una trama plausibile su presupposti completamente erronei, John, ma è proprio quello che voglio.

Quindi va bene così.

Davvero?

No, non va affatto bene così.

Una parte di me vorrebbe che tu avessi l'acume (o forse si tratta di coraggio?) di guardare oltre questa maschera che mi sono messo addosso e vedermi.

Non lo farai, lo so che non lo farai.

In fin dei conti non mi hai mai notato, in questi tre anni, come potresti farlo adesso?

Fa così male, John...

 

«Non ho nessun ordine in merito.»

 

Sbuffi e scuoti la testa, ma ti sfugge un sorriso.

Piccolo, pallido, esitante, ma è il primo che mi rivolgi da tre anni e...

E non so cosa mi stia succedendo...

Sono tanto confuso...

 

«Non insultare la mia intelligenza...» sbuffi.

 

Quale intelligenza, John?!

Quella che non ti lascia nemmeno vedere al di là del tuo naso?!

Devo calmarmi, respirare, questa rabbia non mi porterà da nessuna parte.

Riprendi a parlare.

 

«Quel che volevo dire è che: mi sta bene lavorare con te. Senza nessuna pretesa, però. Non siamo amici.»

 

Alzo gli occhi al cielo.

 

«Mi meraviglio che qualcuno possa mai aver voluto esserlo, tuo amico!» ribatto esasperato.

 

Ora sono io ad essere stizzito ed il mio astio potrebbe apparire troppo evidente, quindi smetto di considerarti e proseguo la mia discesa.

 

«Io non posso venire.» mi notifichi una volta fuori dal palazzo.

 

Mi volto.

Che diavolo significa “non posso venire?”?!

Che cosa?!

Resto in silenzio, in attesa di ulteriori informazioni, prima di spaccarti la faccia, o, almeno, crogiolarmi nel pensiero di farlo.

Perché?

Come prima: perché sono furibondo con te!

E più tempo passo in tua compagnia, più le cose vanno peggio!

Non credevo che sarei arrivato a pensarlo, ma Mycroft mi sentirà, oh, se mi sentirà!

 

«Devo andare a prendere mia figlia all'asilo.»

 

«Non si dovrebbe avere una famiglia quando ci si occupa di certe faccende. Decidi quali siano le tue priorità, John.»

 

Ti rispondo, mentre apro la portiera del mio cassone.

Non ti guardo, ma so alla perfezione di averti messo in difficoltà.

 

«Mi daresti un passaggio? Ho dovuto lasciare la macchina alla mia fidanzata perché la portasse a fare la revisione.»

 

Pure?!?

Certo che sei incredibile! Prenditi un taxi!

Non solo perdi tempo tu! Vuoi farlo perdere anche a me?

Sorridi, Sherlock, sii accomodante.

 

«Sali. Non c'è problema, ti capisco, scusa se sono stato brusco.»

 

Scusa, un cazzo...

Sorridi e sospiri di sollievo, sedendoti al posto del passeggero.

 

«Figurati, con quanto sono stato odioso io, qualche frecciata da parte tua è d'obbligo.»

 

Metto in moto e il motore protesta.

Cristo! Non mi meraviglierei se questo relitto andasse a carbone, altro che benzina!

 

«Ma col tuo stipendio non puoi permetterti niente di meglio?» ridacchi, mentre impreco per inserire la retro.

 

Il cambio è duro come l'Inferno.

Colgo l'occasione al balzo per cercare di farti sentire almeno un po' stronzo.

 

«Era di una persona molto importante per me. È morta qualche anno fa, la tengo per quello.»

 

Mi guardi, incuriosito, mentre mi inserisco nel traffico del pomeriggio.

 

«Ma non hai detto che non ami perder tempo dietro ai fantasmi?» mi domandi.

 

«Infatti non lo faccio. Questo non vuol dire che voglia dimenticare

 

«Nessuno dimentica mai sul serio.» ti lasci sfuggire.

 

Ma stai zitto, cretino!

Infatti lo fai, ma, a questo punto, non sopporto il silenzio e quindi accendo la radio.

Parte un cd di cui non ero a conoscenza.

Ma che carino, mio fratello, mi ha fatto un cd!

Ma quanti anni hai, Mycroft..?

Dodici?!

 

If I die young

Bury me in satin

Lay me down on a bed of roses

Sink me in the river, at down

Send me away with the word of a love s...”

 

La spengo, mandando al diavolo te e i messaggi subliminali che vuoi lanciarmi.

 

«La musica non mi dava fastidio.» mi dici tu, John.

 

«Lo dava a me.» rispondo.

 

Ridacchi, chiedendoti mentalmente perché diavolo l'abbia accesa, allora...

 

«Tu sei un tizio molto strano, sai?»

 

«Di solito il termine che usano per definirmi è “freak”.»

 

Ti zittisco un'altra volta e sono molto soddisfatto di questo, certo, mentre mi sento morire, ma non si può avere tutto...

 

 

 

 

N.d.A.: La compagnia finanziaria per cui lavorava la moglie di Lestrade è inventata, questo perché non volevo avere beghe di nessun tipo, lo ammetto XD, la lavanderia, invece, esiste davvero. Sono così pazza che mi metto a cercare indirizzi e riferimenti precisi su Google Map, per questo la precisazione sulla compagnia, cerco di essere il più scrupolosa possibile.

La canzone in fondo è “If I die young” di “The Band Perry” gruppo o cantante di cui ignoravo l'esistenza sino a pochi minuti fa, ma, cliccando a caso su Youtube mi è sembrata indicatissima al momento, per questo l'ho messa XD. Se volete ascoltarla per intero la trovate qui: http://www.youtube.com/watch?v=3xntULAS-FU

Ho deciso di usare “freak” al posto di “geniaccio”, come l'hanno tradotto in italiano, perché trovo che i due termini non abbiano nemmeno da lontano la stessa valenza, ma in italiano non abbiamo un termine preciso che corrisponda a “freak”, pertanto da qui in avanti, quando mi capiterà di usarlo, userò, appunto “freak”.

Detto questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto!

Un bacione,

Ros.

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Capitolo 5
*** Capitolo quinto: ***


John osservò in silenzio quello strano tipo, era trasandato e i suoi modi erano piuttosto bizzarri.

Niente di troppo sorprendente, nulla in confronto a Sherlock... ma, in fin dei conti appariva essere piuttosto alla mano, ben più del suo vecchio amico.

 

«Come mai hai deciso di fare l'agente?» gli domandò, giusto per fare un po' di conversazione, mentre erano imbottigliati nel traffico.

 

«Non ho trovato un posto da impiegato in banca.» lo sentì ribattere, sarcastico.

 

Sorrise, quel tizio era buffo, in un certo senso. «Di questi tempi è difficile trovare un posto praticamente ovunque.»

 

Sherlock gli lanciò un'occhiata. «Un buon motivo per tenersi stretto il proprio. Comunque iniziai l'accademia perché non sapevo cos'altro fare, non piaccio molto alla gente e non farmi cacciare via dopo due giorni da un qualsiasi posto di lavoro stava diventando sempre più difficile. Stavano per buttarmi fuori anche da quella, a ben vedere, ma il grande capo scese dall'alto e mi prese a lavorare con lui.»

 

«Come mai volevano cacciarti?»

 

«Diciamo che non sono proprio un asso in “rispetto e disciplina” e sono pieno di vizi e difetti.»

 

John lo fissò, interessato, tanta sincerità era sorprendente ed anche piuttosto rara.

 

«Ad esempio? Non mangi? Non dormi? Sei sempre in movimento? Passi dall'euforia alla noia più totale e non parli per giorni?»

 

Quelle caratteristiche appartenevano a Sherlock, non sapeva spiegarsi perché le avesse buttate lì a quella maniera, ma era curioso della risposta.

Mycroft aveva detto che James O'Neill e Sherlock erano simili, al momento non gli sembrava, ma voleva capire il motivo delle parole del maggiore degli Holmes.

 

«Oh, no, nulla di tutto questo. Sono un consumatore abituale di cocaina, ad esempio e questo a molti non piace.» lo sentì rispondere.

 

Sussultò e sbatté le palpebre.

 

«Mi stai prendendo in giro?» chiese, allibito.

 

«Oh, no, per niente, apri il cruscotto se non mi credi.» gli rispose James con tranquillità, come se dire che era tossicodipendente fosse la cosa più normale di questa terra.

 

John si schiarì la voce. «Non credo proprio di volere una conferma.» borbottò.

 

«Tranquillo, non permetterò alla tua bimba di giocarci.»

 

«E vorrei ben sperare! Gira a sinistra.»

 

Di nuovo silenzio. «Non ti manca la tua vecchia vita?» gli domandò Sherlock, per nulla certo di voler sapere la risposta.

 

John prese un lungo respiro profondo. «Non credo...»

 

«Che tu voglia parlarne con me. Afferrato il concetto.»

 

«Devi sempre finire le frasi altrui?»

 

Sherlock sorrise e lo guardò, paziente. «Solo quando sono ovvie.»

 

John gli lanciò un'occhiataccia, poi, giusto per il gusto di smentirlo, decise di sbottonarsi un poco.

 

«Cerco di non pensarci più di tanto, anzi, a dire il vero era quasi da un anno che non ci pensavo affatto. Questo tuffo nel passato non mi piace, se non ci fosse Greg di mezzo non avrei mai accettato di finirci invischiato...»

 

Sherlock lo interruppe di nuovo, accostando di fronte all'entrata dell'asilo. «Non è quel che ti ho chiesto.»

 

«Come facevi a sapere che..? Ah, giusto, delle madri stanno uscendo con i figli.»

 

Sherlock scrollò le spalle, la realtà era che lo sapeva già che quello fosse l'asilo e basta.

La riluttanza di John nel parlare del passato lo infastidiva.

Era andato oltre, allora perché tante storie?

 

«Torno subito.»

 

Lo osservò scendere ed avviarsi oltre i cancelli e poi prendere in braccio la piccola. Si voltò e recuperò la busta dal sedile di dietro, oltre che dalla cocaina, magari era opportuno tenere quella mocciosa lontana anche dalla pistola.

Scese e buttò tutto nel bagagliaio, dove vide anche un borsone che non aveva notato, non avendo ancora aperto il baule.

Era pieno di vestiti trasandati come quelli che indossava, Mycroft gli aveva anche fatto preparare i bagagli.

Appariva quasi come un fratello coscienzioso, in quel modo...

Richiuse lo sportello con un gesto secco e si voltò verso John.

 

«Posso chiederti un altro passaggio o è troppo disturbo?»

 

 

 

Sorridi, mentre mi fai questa domanda, sorridi mentre stringi la mano della tua (non)figlia.

Sei gentile, ora, ti è passata la furia di sdegno nei confronti di James e mi guardi con una luce nuova negli occhi.

Accidenti, sei davvero poco coerente, John, persino con te stesso, non solo relazionandoti agli altri.

Quindi, sorrido anche io, sempre più disponibile, sempre più accondiscendente, sempre più insospettabile.

Con tutti gli errori (voluti e non voluti) che ho commesso in queste due ore Mycroft mi avrebbe riconosciuto almeno mille volte, tralasciando anche l'osservazione prettamente empirica, ma tu, ancora, non mi vedi.

Pazienza, non mi aspettavo un risultato differente.

 

«Ciao! Io sono Trisha!»

 

La vocina squillante della piccola mi fa sussultare.

Non mi piacciono i bambini, non ho mai saputo relazionarmi con loro, nemmeno quando IO ero un bambino, figuriamoci adesso...

L'ipotesi di risalire in macchina e darmi alla fuga e poi, solo poi, uccidere mio fratello con queste mani è da scartare, ma non escludo che potrebbe farmi sentire molto meglio.

 

«Ciao.» rispondo.

 

Mi scruta con i suoi occhioni, cercando di capire se le sorriderò, se sarò carino con lei, se magari riuscirà a scroccarmi qualche regalo fuori programma che i suoi genitori non le hanno concesso, o se potrà promuovermi come nuovo compagno di giochi.

Spiacente, piccina, non faccio per te.

John apre la portiera anteriore del mio Land Rover Defender dell'1980 (devo trovare un modo per cambiare auto senza destare sospetto, penso che distruggere questa sia una soluzione più che accettabile) e issa a bordo la bambina, le mette la cintura e, dopo averla chiusa dentro, mi guarda divertito.

 

«Non sei proprio un asso con i bambini, vero?»

 

«Non sono il mio genere.» ribatto, mentre risaliamo.

 

«Qui puzza...» si lamenta Trisha che, suppongo, stia per Patricia.

 

Pienamente d'accordo.

 

«Trisha!» esclama John con tono severo.

 

Rido, un po' forzatamente, ma nessuno dei miei due passeggeri ci fa caso.

 

«Non riprenderla, ha ragione. È l'inconveniente di avere una macchina che ha trentacinque anni.»

 

Faccio per mettere in moto, ma il motore tossisce, gracchia e mi manda al diavolo...

MYCROFT!

Mi volto verso John con espressione angelica.

 

«Per l'appunto. Sai cosa devi fare, vero?»

 

Lui mi guarda perplesso.

 

«Scusa?»

 

«Si è ingolfata.» chiarifico l'ovvio.

 

«E quindi?» mi fai, fingendo di non capire.

 

«Quindi scendi e spingi.»

 

Sbatti le palpebre, sbuffi e poi ubbidisci.

Abbasso il finestrino e tolgo il freno a mano, per fortuna non abbiamo nessuno di fronte.

 

«Come mai papà è sceso?» mi chiede la piccola, mentre con un ghignetto mi godo le tue imprecazioni a bassa voce.

 

«Perché la macchina ha bisogno di un incentivo.» rispondo.

 

«Eh?»

 

«Niente, lascia stare.»

 

Provo ad accendere in continuazione e, finalmente, dopo circa cinque minuti e trentadue secondi, la macchina ci fa la grazia.

Rientri e ti siedi, sei sudato, ma non sembri spazientito.

 

«Dove devo portarvi?»

 

«Hai detto che volevi andare alla Stuckley's.»

 

Guardo te, la bambina, poi di nuovo te.

Non vorrai sul serio portarla con noi, vero?

 

«L'ho detto, ma...» non so nemmeno come concludere la frase.

 

«E allora andiamo.» rispondi con semplicità.

 

Durante il tragitto Trisha ci illumina con la sua “eccitantissima” giornata, per farla breve: ha litigato con la sua amichetta del cuore perché lei, a suo dire, si è trovata una nuova compagna di giochi e si comporta come se fosse diventata invisibile.

Il tutto mi suona un po' familiare, ma siamo arrivati, quindi rimanderò a dopo gli esami di coscienza.

 

«Io e James dobbiamo parlare con dei signori e tu devi stare buona buona, ok, tesoro?»

 

Sto per vomitare, davvero, quindi apro la porta e mi avanzo di sentire la risposta di Patricia.

La segretaria è scema, o non capisce la nostra lingua.

Devo ripetere per ben tre volte che voglio vedere il signor Stuckley immediatamente.

Ovviamente, l'entrata di John con una bambina non mi aiuta per niente, perché la segretaria si distrae a farle le feste e tanti saluti al povero James O'Neill.

Perché i bambini suscitano tanta attenzione?

Gli adulti li giudicano dolci, carini e si sentono in dovere di farglielo notare tutte le volte.

Mi ricordo zie, zii e amici di famiglia, quand'ero piccolo io.

 

«Oh, ma come sei carino, Sherlock!» e via con odiose strizzate di guance, pacche sulle spalle e baci unticci.

 

Che schifo.

Mycroft riusciva sempre a fuggire via in quelle situazioni, le prevedeva e faceva sempre in modo che l'unico a rimanervi incastrato fossi io, per coprire la sua ritirata strategica.

Non gliel'ho mai fatta pagare per tutte quelle maledette volte.

Sbuffo e incrocio le braccia al petto, lanciando a John un'occhiataccia, poi, dopo infiniti:

 

«Ma come sei carina, tesoro, con quei codini, poi! La vuoi una caramellina? Ma quanti anni hai? Come ti chiami?» e altri commenti altrettanto inutili a cui John ha abbozzato qualche risposta smozzicata, la segretaria torna a voltarsi verso di me.

 

«Il signor Stuckley è in riunione, ha chiesto di non essere disturbato.»

 

Cerca di liquidarmi così...

Dev'essere perché non ho i codini, magari la prossima volta rimedio.

Sto per tirar fuori il distintivo, ma tu mi sorprendi, John.

Con una disinvoltura di cui non eri capace, anni fa, tiri fuori il portafogli e mostri uno dei tanti distintivi falsi che avevamo un tempo.

 

«Siamo della polizia, dobbiamo fargli alcune domande in merito all'omicidio di Sofia...»

 

Lei lo interrompe.

 

«Che tragedia, povera Sofia, la conoscevo poco ma la notizia mi ha sconvolta...»

 

La nostra signorina, amante dei bambini, mente.

Non le dispiace affatto per l'uscita di scena della signora Lestrade.

Con tutta probabilità è passata di grado, ma non penso sia lei l'assassina, è solo un'arrivista e non manterrà a lungo il suo posto, è distratta e disordinata: ha lasciato il bicchiere del caffè su dei documenti e le gocce hanno macchiato i fogli, probabilmente erano anche importanti.

No, non è la nostra assassina, una che compie una svista del genere sul posto di lavoro proprio non ha il cervello di architettare un omicidio.

Inoltre è gracile, probabilmente anoressica, troppo debole per trasportare un corpo di, approssimativamente sessanta/sessantacinque chili senza trascinarlo e non c'erano segni di trascinamento nell'appartamento.

 

«Ma non è stato suo marito? Lo dicono tutti i giornali, mi sorprende che voi siate qui.»

 

Bla bla bla...

Non mi sorprende affatto che non sia venuto nessuno, ormai il caso è chiuso per quegli imbecilli di Scotland Yard.

La porta di un ufficio si apre sbattendo e un tizio in giacca e cravatta arriva di gran carriera.

 

«E' arrivato o no?! Doveva essere qui per le cinque!»

 

Mi risveglio dalla morte cerebrale che mi stava soggiogando mentre ascoltavo annoiato la conversazione tra John e la segretaria e mi stacco dal bancone informazioni.

 

«Chi doveva arrivare?» domando, parandomi di fronte al nuovo venuto.

 

«Lei chi è?!»

 

«Agente speciale James...»

 

Sì, Bond, James Bond... a questa cretinata non avevo ancora pensato...

Annotazione: mai più cominciare una frase con “agente speciale James”.

 

«...O'Neill.» concludo. «Io e l'agente Watson siamo qui per la morte di Sofia Craig.»

 

«Venite nel mio ufficio.»

 

Oh, finalmente qualcuno che collabora.

Lo seguo.

 

«Se volete la bimba la tengo io.» si offre la segretaria.

 

«Ma anche no.» rispondo io prima di John.

 

Questa donna si scorderebbe di Patricia dopo cinque minuti e non ho voglia di perdere il mio tempo a cercare una bambina persa in uno stabilimento di dieci piani.

John mi guarda, sembra sorpreso della mia presa di posizione.

Mi sorride perché mi approva, pensa che il mio ragionamento sia stato: non bisogna lasciare dei bambini con degli sconosciuti.

Nulla di più lontano dalla verità.

Quella mocciosa è una palla al piede, punto e basta, sto solo cercando di limitare la sua dannosità.

 

Ci sediamo nell'ufficio.

 

«Non pensavo veniste qui, ma, visto che ci siete, forse potrete rintracciare Adam. Non sono stato pressante con lui, ma i tabulati di quelle transazioni mi servono e non posso più aspettare i suoi comodi, anche se, vista la situazione...»

 

Ed ecco entrare in scena l'amante della signora Lestrade.

 

«Adam e poi? Dove abita?»

 

Non voglio proprio perdere altro tempo.

 

«Adam Roberts, per l'indirizzo chiedete alla segretaria, lui è...»

 

Mi alzo.

 

«John andiamo.»

 

Sono fuori dalla porta ancor prima che tu abbia finito di dire: «Ma...»

 

Chiedo l'indirizzo alla nostra imbranata del giorno e ti aspetto alla macchina.

Sei diventato lento, i tuoi riflessi si sono affievoliti.

Saliamo e, questa volta, la macchina ci fa la grazia di partire subito.

 

«Mi spieghi perché te ne sei andato così? Quel tizio poteva...»

 

«Non avevo bisogno che finisse di parlare e il tuo flirtare con la segretaria ci aveva fatto perdere già abbastanza tempo.»

 

Ti blocchi e mi guardi irritato.

Lancio uno sguardo ai sedili posteriori, la bambina sta giocando con un pupazzo e sembra non aver fatto caso alla mia uscita ma, in fin dei conti, dubito che possa conoscere il significato di “flirtare”.

Bah, non capisco nemmeno perché mi stia facendo questi scrupoli.

 

«Io non stavo flirtando proprio con nessuno!» abbai, piccato, ma tenendo un tono di voce basso.

 

Sbuffi e incroci le braccia al petto, poi ti schiarisci la voce.

 

«Prima non volevo essere brusco. Il passato è sempre lì, James, non se ne va. La tua domanda era molto precisa: mi manca il passato? Sì, ogni giorno, ogni momento, ogni secondo in cui non riesco a distrarmi con ciò che sto vivendo al momento attuale. Ma non posso vivere quel tipo di vita senza Sherlock, lui era la mia spinta propulsiva, lui era “la Ragione” di tutto.»

 

Reazione emotiva, mia, non tua.

Le mie mani stringono il volante con un po' troppa forza, ma tu non saresti mai in grado di accorgertene.

 

«Quindi ti sei fermato...»

 

«Nient'affatto, ho una famiglia, faccio molte cose che prima non avevo il tempo di fare, non sono sempre sull'orlo di una crisi di nervi, io ora...»

 

«Sei una persona ordinaria, mentre prima, forse, eri straordinario.»

 

Ti zittisci e nemmeno ti risenti di essere stato interrotto.

Questo discorso sta rattristando entrambi, anche se James O'Neill non lo da a vedere come, invece, fai tu.

 

«Mi sarebbe piaciuto molto conoscerti allora, forse saresti potuto risultare interessante.»

 

Il mio tono è monocorde.

Distogli lo sguardo e ti mordi l'unghia del pollice destro.

Ti ho ferito... e mi dispiace, ma non chiederò scusa.

Mi manchi John, qualsiasi cosa questo significhi per me.

Mi siedi accanto, ma non ci sei...

 

«Sai una cosa?» spezzi il silenzio e il tuo tono controllato non riesce a celare del tutto un rantolo di rabbia (tristezza, forse). «Ho capito cosa intendeva Mycroft dicendo che sei simile a suo fratello: esattamente come lui non sai fermarti prima di far male alle persone che ti stanno intorno.»

 

C'è rimprovero nelle tue parole.

Sgrano gli occhi e rallento, sollevando appena il piede dall'acceleratore.

Stavo correndo troppo, avresti potuto accorgertene...

Ti sto lanciando così tanti segnali...

 

«Ti chiedo scusa.»

 

Mi contraddico, sono arrivato addirittura a questo.

Avevo detto che non lo avrei fatto.

 

«Ora hai capito anche perché non riuscivo a tenermi a lungo un posto di lavoro. Nessuno sa gestire la verità quando gli viene messa di fronte, anche se palese. La vita delle persone è basata su un dosato equilibrio di verità e menzogna. Certo, potrei essere accomodante con te, dirti che hai fatto bene ad andare avanti e che sono contento che tu viva una vita serena e priva di pensieri, ma sentirei di non essere a posto con la mia coscienza.»

 

Quanto c'è di realmente vero in quel che sto dicendo?

É verità? È recitazione?

Non riesco più a capirlo ma è certo che parlare di verità assolute quando si finge di essere qualcun altro è un'ipocrisia senza precedenti.

Taci ancora, John, stai riflettendo, probabilmente mi dirai, con un linguaggio più, o meno colorito, che le mie verità posso tenermele e andare al diavolo.

Non lo fai.

 

«Forse hai ragione.»

 

Corrugo le sopracciglia, confuso.

 

«Non è quello che mi dicono di solito.»

 

Dejavu...

Ma tu non mi chiedi che cosa mi dicano di solito.

No, della vita di James O'Neill non ti importa nulla...

Questo mi porta a pormi delle domande, domande complesse che non ho mai affrontato e che pensavo mai mi avrebbero attraversato la mente.

Sono io, Sherlock, a provare tutti questi sentimenti contrastanti, o è la maschera che porto?

Io sono io o sono la mia maschera?

Se ti stessi parlando come Sherlock, lo farei nel medesimo modo?

Crisi esistenziali che non mi porteranno da nessuna parte, se non a perdere il focus del perché sono qui: tirar fuori Lestrade di prigione, scagionarlo.

Nulla di più.

 

Stai per rispondere qualcosa, quando la bambina, con la semplicità e la spietatezza consone alla sua età, uccide il nostro discorso, sopprime noi e pone se stessa al centro di tutto.

 

«Papà io sono stanca... voglio andare a casa.»

 

E forse ha ragione lei.

Sono stanco anche io...

 

«John, ascoltami, non c'è alcun bisogno che tu mi segua ovunque, o che costringa tua figlia a venire con noi. Vi porto a casa.»

 

Ti irriti immediatamente, lo colgo da come hai irrigidito la schiena, ma non ti permetto di parlare.

Voglio tagliarti fuori, o non risolveremo assolutamente niente e Lestrade resterà dov'è.

Anni fa avevo bisogno di te perché catalizzavi i miei pensieri nella direzione corretta, ora i miei pensieri sono al 90% su di te e questo NON VA BENE.

Devo tenerti lontano o mi perderò, lo so che mi perderò.

 

«Sei un padre di famiglia, non sei più in grado di reggere il gioco, hai altre priorità e benché la cosa ti faccia infuriare, sai perfettamente che ho ragione. Così perdi tempo tu e rallenti me. Non funziona, è semplice. Non stai aiutando il tuo amico, in questo modo. Hai la mia parola che ti terrò aggiornato.»

 

«E non pensi che forse anche io dovrei avere voce in capitolo?!» stai alzando la voce, ma non mi intimidisci affatto.

 

«No. So come voglio lavorare, John e, di sicuro, non con una bambina appresso. È carina, è dolce ma non può far parte della squadra, chiaro? È un intralcio.»

 

«Portami a casa e non farti più vedere, dì a Mycroft di informarmi personalmente.»

 

E' bastato toccare la tua preziosa creaturina per farti capitolare, Dio mio, ma cosa sei diventato?

Ubbidisco al tuo ordine perentorio e mi faccio dire l'indirizzo, fingendo ancora una volta, di sapere poco o nulla di te.

Fa male tutto questo, ma io vivo per il mio lavoro e tu lo stai intralciando.

A dire il vero sono io che lo sto facendo, ma questo è un altro discorso.

Arrivati di fronte al palazzo dove abiti, scendi, prendi la tua (non)figlia e te ne vai senza rivolgermi nemmeno un cenno di saluto.

Ti caccio dalla mia mente e faccio rotta verso l'indirizzo del signor Roberts.

La questione è chiusa, non posso lasciarmi trascinare da tutto questo...

 

 

 

N.d.A.: ho deciso di aggiungere l'avvertimento OOC nello specchietto introduttivo per due motivi profondamente legati fra di loro:

 

1): sento di essere andata troppo oltre con l'introspezione di Sherlock, ma non ho posso fare altrimenti per via del motivo 2): è previsto che la storia sia slash, ma non può esserci slash senza un coinvolgimento sentimentale o emotivo, coinvolgimento che, ahimè, non sento consono al personaggio di Sherlock e questo mi porta a considerarlo OOC, benché faccia quanto in mio potere per non sconfinare troppo dall'IC.

Con questo non voglio dire che lo manderò ovunque OOC, non gli farò fare spassionate dichiarazioni d'amore in pieno stile Romeo e Giulietta, state tranquilli, solo reputavo doveroso essere il più chiara e corretta possibile.

Detto questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto ^^.

Un bacione,

Ros.

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Capitolo 6
*** Capitolo sesto: ***


Nel venire qui la macchina si è fermata per ben due volte, una al semaforo, per di più.

Ho fatto una figura da cretino senza precedenti, volevano linciarmi.

No, la giornata non gira in mio favore, ma di cosa mi sorprendo?

Nulla gira in mio favore da tre anni.

Suono il campanello di Adam Roberts.

 

Una.

Due.

Tre volte.

Niente.

 

Com'è che la cosa non mi sorprende?

Sbuffo e suono ad un commercialista dello stabile, come prevedibile il campanello è collegato all'apertura automatica.

Muovo passo dentro l'androne e lancio una rapida occhiata alle cassette per la posta. Sulle targhette è segnato il numero dell'interno.

13, dodicesimo piano e per l'ascensore serve la chiave.

Grandioso, oggi è giornata di scalinate.

Cristo, mi sembra di sentir mio fratello parlare nella mia testa, ma con la mia voce.

Evidentemente la pigrizia cronica è contagiosa.

No, la realtà delle cose è che: se non ci fosse di mezzo Lestrade avrei già mollato il caso e tanti saluti.

 

Nulla di questo ha senso senza John e dire che sono stato proprio io ad allontanarlo, non più di un'ora fa...

 

...

Non avevo deciso di cacciarlo dalla mia mente..?

Non avevo detto che la questione era chiusa?

 

Ho criticato lui per la sua poca coerenza, ma, prima o poi, dovrò fare i conti con la mia.

 

Prendiamo la bambina, ad esempio.

Perché mi dava tanto fastidio?

Questo non è un caso pericoloso, né che presupponga tempi necessariamente ristretti, potevo anche sopportarla per un pomeriggio...

John avrebbe sicuramente trovato un modo per non portarla con noi nei giorni successivi, una conclusione piuttosto logica, in fin dei conti.

E il discorso che ha fatto sulla sua amichetta?

È gelosa.

Un sentimento... strano, spiacevole.

 

Sono geloso anche io, di una bambina, per di più?

 

No, no, non posso essere diventato così... stupido!

Patetico...

O forse è stupido negarlo?

Sono così confuso... ho un'emicrania tremenda e questo succede PERCHE' RIEMPIO LA MIA TESTA DI STRONZATE!

Chiudo gli occhi e smetto di salire le scale, mi siedo sui gradini e scuoto la testa.

Odio le lenti a contatto!

 

Calmo, devo restare calmo.

Prendo un respiro profondo e mi arrendo alla consapevolezza che il fatto che John sia presente o, al contrario, assente non cambia le mie condizioni deliranti.

 

 

 

John si sedette sul divano e si aprì una birra,aveva preparato la merenda a Trisha e poi aveva giocato un po' con lei, ma non era proprio riuscito ad essere spensierato e partecipativo come al solito.

Continuava a ripensare alle parole di James, soprattutto a quelle inerenti alla “verità”. Sentì la porta aprirsi e Denise rientrò con la spesa.

Meccanicamente si alzò a darle una mano.

Lei lo salutò con un bacio, ma trasalì quando lo guardò.

 

«Va tutto bene? Hai una faccia.» gli disse, iniziando a sistemare la roba in frigo.

 

Si sedette al tavolo, ma poi si rialzò.

 

«No. Non va tutto bene. Vado a portar fuori Toby.» rispose criptico.

 

 

 

Il cellulare vibra nella mia tasca, lo prendo e mi insulto per l'ennesima volta perché, no, non può essere John a chiamarmi.

Non ha nemmeno questo numero...

Una volta avrei ignorato il telefono, ma meglio non perdersi in altre considerazioni.

 

Mycroft, è Mycroft.

E chi altri potrebbe essere?

 

«Pronto?» cerco di apparire quasi normale, avrò tempo per sfogare su di lui tutte le mie frustrazioni.

 

Ora che mi abbia rifilato una macchina scadente è l'ultimo dei miei problemi.

 

«Che è successo?» la domanda è semplice, concisa, come se non mi fossi accorto dei suoi segugi che mi hanno seguito per tutto il pomeriggio.

 

«Non mi va di parlarne.»

 

Un sospiro esasperato.

Credo che in questi anni sia arrivato a sopportarmi ancor meno di quanto mi sopportasse prima.

Sentimento pienamente ricambiato.

O sono solo ingiusto?

 

«John è appena uscito di casa.» mi comunica.

 

«Non mi interessa.» ribatto.

 

Sarà andato a portar fuori il cane, questo è l'orario della passeggiatina serale pre-cena.

 

«Ha preso l'M4.»

 

Un brivido lungo la spina dorsale, chiaro e fastidioso.

 

«Non mi interessa.» ripeto, ma non sono convincente. «Devo occuparmi del caso, sono...»

 

«So dove sei. Il caso può aspettare.»

 

No, non può.

È il mio STRAMALEDETTO lavoro!

 

«Tanto non riusciresti ad occupartene.» mio fratello è spietato, ma ha ragione.

 

Ci sono troppe questioni in sospeso.

 

«Anche volessi andargli dietro, quel cassone che mi ha rifilato nemmeno ci arriva all'autostrada.»

 

«Il mio autista ti aspetta di fronte al palazzo. Resterà lì ancora per tre minuti, poi se ne andrà, a te la scelta.»

 

E attacca.

Del tutto superfluo dire che sono fuori dal portone ben prima dello scadere dei tre minuti.

Ho anteposto John al lavoro e lo so che non è la scelta più saggia, ma non posso farci niente.

 

 

 

Non fece il solito giro e salì in macchina, caricando il cucciolo sui sedili posteriori. Sapeva dove stava andando, quel che ancora non gli era chiaro era perché lo stesse facendo.

Imboccò l'M4, ritirando il biglietto per il pagamento del pedaggio.

Lo attendevano quasi tre ore di viaggio...

Che poi, perché proprio a Newport non lo aveva mai capito... magari gli piaceva il posto...

Non trovò nemmeno traffico, sembrava quasi che il destino, nella sua ironia, volesse farlo giungere a destinazione il prima possibile.

Quando parcheggiò di fronte al Newport and St. Wools New Cemetery¹ senti un groppo salirgli in gola e si pentì di aver percorso tutta quella strada... per che cosa?

Erano le otto e mezza e il sole era quasi tramontato in quella pigra giornata primaverile, il cimitero era anche chiuso, Denise, probabilmente si sarebbe preoccupata, che diavolo gli era saltato in mente?

Toby uggiolò, era stato fin troppo paziente, povera bestiola e quello fu il segnale che spinse John ad aprire la portiera e scendere dalla macchina.

Si avvicinò al basso muro di cinta, tenendo al guinzaglio il cagnolino. Sfiorò la muratura con la punta delle dita.

Sollevò Toby e lo posò sul muretto, poi fece leva con le braccia e scavalcò.

Era vietato portare cani nei cimiteri, ma, in fin dei conti, era vietato anche entrare dopo l'orario di chiusura, quindi...

Camminò lentamente.

Ad ogni passo i suoi piedi sembravano diventare più pesanti che macigni.

Scorse la tomba da lontano e si fermò, totalmente dimentico del cane che, impaziente, tirava e mordeva il guinzaglio, desideroso di giocare e di correre come facevano tutte le sere.

Riprese a camminare e una fitta alla gamba gli comunicò che si stava avvicinando troppo al passato.

Psicosomatico, Sherlock glielo aveva detto, Sherlock gliel'aveva fatta passare...

Il groppo in gola si fece più fastidioso e provò il bruciante desiderio di voltarsi e correre via da quel posto maledetto.

Non poteva.

Raggiunse la lapide e si sedette, esausto.

Fissò la superficie d'alabastro traslucido che rispecchiava il suo riflesso attraverso i rosati guizzi di luce del tramonto.

Lasciò andare il cane, permettendogli di correre via.

Sfiorò con la punta delle dita il nome dell'amico, poi si schiarì la voce.

 

«E' da un po' che non vengo qui, Sherlock...» gli occhi gli si inumidirono e una folata di vento gli scompigliò i capelli, un po' più lunghi di come li portava anni prima, un po' meno militari, un po' meno da lui.

 

«Scusami... non ti ho nemmeno portato dei fiori, ma è stata una cosa improvvisa, io... io sto parlando con un pezzo di pietra, chissà quanto rideresti di me, adesso. È una cosa talmente stupida. Ovunque tu sia, forse ti stai chiedendo perché dopo, tre anni, io sia tornato qui, no, probabilmente lo hai già dedotto ed io sto solo parlando a vanvera, come sempre. Comunque: Greg è nei guai, è accusato dell'omicidio della moglie ma sono convinto che non sia stato lui, ma non è questo il mio problema. Non pensavo al passato da anni e tuo fratello mi ha affiancato un tizio che sembra proprio non voler far altro che darmi il tormento per questo. È una persona strana che non riesco ad inquadrare, sembra simpatico ed amichevole, ma c'è qualcosa in lui, una sensazione, che mi fa pensare che abbia... qualcosa che non va, probabilmente tu capiresti il perché a colpo d'occhio, ma io non sono come te, nessuno è come te... Non so cosa fare, Sherlock, il tuo spettro è tornato a darmi il tormento più che mai in questi due giorni ed io non so se posso... reggere. Ho una famiglia, ora, una compagna e una bambina stupenda, vivo tranquillo... perché non vuoi lasciarmi in pace?» il suo tono si incrinò e cominciò a piangere.

 

«Sei morto, maledizione! Morto! Mi hai lasciato qui da solo e non ti basta! Mi ossessioni, sei ritornato ad essere una presenza costante e io non mi merito questo! Non mi meritavo nemmeno che tu te ne andassi così, senza nemmeno curarti di spiegarmi il perché. Mi hai abbandonato! E ora questo stronzo sembra disprezzarmi, perché ho cercato di smettere di soffrire, perché mi sono ricostruito una vita! E... ha ragione lui... ha ragione lui, Cristo! Cosa penseresti di me, adesso? Se faccio uno slancio di fantasia riesco quasi a immaginare la tua espressione scocciata e delusa dalla banalità con cui mi sono circondato, dietro cui mi sono rinchiuso, ma non potevo fare altro! Sarei morto, lo capisci?! Dovevo morire per te per dimostrarti..? Per dimostrarti che cosa? Non lo so! E sai perché non lo so? Perché tu non sei mai stato chiaro! Mai una volta, in tutta la tua intera vita. Tu ti muovevi a cento all'ora e al diavolo quelli che non riuscivano a stare al tuo passo! Tutti stupidi, vero? Tutti lenti! Persino io...» si interruppe, cercando, con fatica, di recuperare un minimo di lucidità.

 

«Che cosa devo fare per poter, finalmente, vivere la mia vita senza di te..? Mandami un segno, qualcosa! Qualsiasi cosa per capire che direzione devo prendere...»

 

 

Vuoi un segno, uno qualsiasi, John e ti accontento, nei limiti delle mie possibilità, cercando di ignorare il tuo lungo discorso che ho sentito solo a metà, dopo esser arrivato.

Avrò modo di riflettere sulle tue parole, solo, non adesso.

Oh, no, ora devo raccogliere i cocci di quel che ho rotto e cercare, almeno un poco, di rimetterli insieme.

Avanzo, silenzioso, tra queste lapidi di nessuna importanza.

Ripeto: se è un segno che vuoi, un segno avrai.

Poso una mano sulla tua spalla e tu ti volti, spaventato.

 

«Sono io.» ti dico.

 

Io, James O'Neill.

Ti asciughi il volto, quasi colpendoti, vergognandoti di esserti mostrato così “poco uomo” nelle tue lacrime.

Come se la cosa avesse una qualche importanza...

Mi siedo accanto a te e guardo la lapide.

La mia lapide, a ben vedere, ma... non mi comunica alcuna sensazione.

Dovrebbe?

Non lo so.

Qualcosa è davvero morto quel giorno e non so cosa sia rimasto.

Di me, di te, di ciò che eravamo insieme.

Vuoi la pace, John, vuoi che il mio (o forse il suo) spettro scompaia e io ti donerò tutto questo.

Fidati di me.

 

«Il capo mi ha detto che ti avrei trovato qui, mi ha ordinato di raggiungerti e gli ordini non si discutono.» mento.

 

Mycroft mi ha indotto a venire qui e io non ho saputo oppormi.

Mi sono piegato al suo gioco, forse dovrei pentirmene.

Sono del tutto incapace di comprendere quale sia la scelta giusta.

Le emozioni non sono il mio campo, erano il tuo, ma anche tu sei perso, quindi come potrei raccapezzarmici io?

 

«Levati di torno, sei inopportuno!» mi ringhi contro.

 

Inopportuno per che cosa? Per la tua conversazione con il mondo dei morti?

Andiamo, John, non essere assurdo.

 

«Sono stato a casa di Adam Roberts...» inizio a cercare di spiegarti.

 

Il tuo volto si trasmuta, diventi ferino.

 

«FORSE NON CI SIAMO CAPITI: VATTENE!» gridi, spingendomi indietro.

 

Sbatto con un gomito sul terriccio e non capisco.

Sono totalmente spaesato.

Come mi dovrei comportare?

Il fatto di esser comparso mentre “chiedevi un segno” doveva essere sufficiente, ma, evidentemente, non lo è stato.

Mi sono sbagliato e questo succede quando mi metto in testa di impelagarmi in situazioni in cui ho scarsa, se non nulla, preparazione.

Non dovevo venire qui...

 

«Accompagnami in questo caso, risolvilo per lui. In fin dei conti è questo il tuo problema, no? Che cosa lui avrebbe voluto.»

 

«E tu cosa ne sai?!» mi ringhi contro, ma in modo più controllato, forse cominci a capire.

 

Almeno tu, perché io vado totalmente ad improvvisazione.

 

«Come ti ho detto non so molto su questo...» mi interrompo per leggere, volutamente, il nome sulla lapide. «Sherlock Holmes... ma se ho ben inteso che tipo fosse, beh, lui mai avrebbe lasciato che un caso rimanesse insoluto, soprattutto con un suo amico di mezzo.»

 

«Lui non aveva amici.» borbotti, stringendoti le ginocchia al petto. «Non ne aveva bisogno, anzi, forse erano un intralcio, ma tanto, alla fine, ha fatto come gli è parso lo stesso.»

 

Cosa?!

COSA STAI DICENDO?!

Io non avevo amici, è vero, avevo te e te l'ho anche detto chiaro e tondo! Che cosa dovevo fare di più?

Sdraiarmi ai tuoi piedi e farmi calpestare?!

Mi sono lanciato da un tetto PER TE!

 

«Credo tu sia troppo stupido per comprendere.» sibilo, incattivito e deluso.

 

Mi fulmini con lo sguardo, ma attendi che aggiunga qualcosa, vuoi capire.

 

«Ti arroghi il diritto di poter giudicare solo perché ti basi sul presupposto erroneo che tutte le persone siano come te. Hai un modo di vedere il mondo totalmente traviato, sei arrogante e presuntuoso. Che ne sai di quello che pensava lui se, nemmeno per un istante, hai mai provato a metterti nei suoi panni? Il fatto che tu non capisca perché ha compiuto un determinato gesto, non vuol dire che lui non provasse niente e sono dell'idea che se fossi meno furibondo e un po' più lucido te ne renderesti conto anche da solo. Al posto suo mi sarei vergognato di avere un amico come te.»

 

Un pugno in piena faccia, il mio zigomo destro scricchiola e io mi accartoccio su un fianco.

Non me lo aspettavo e ha fatto male.

 

«TU NON SEI NESSUNO! NON TI DEVI PERMETTERE!» gridi.

 

Oh, ne avrei talmente tante di cose da dire, John, potrei permettermi molto di più, se solo lo volessi!

Potrei distruggerti solo aprendo bocca!

 

«TU... tu...» il tuo tono si affievolisce, si incrina, poi crolli contro la mia spalla e ricominci a piangere.

 

Perfetto... a questo punto, di nuovo: che cosa dovrei fare?!

Sto male e sono furioso con te, ma tu stai peggio, o, almeno, credo.

Non lo so, reputo tu stia peggio perché stai così, mentre io...

Black out! Sto andando in black out, di nuovo, dannazione!

Che devo fare?

Qualcuno mi dia un manuale di istruzioni... perché, a parte rimanere immobile come una statua, sono totalmente impreparato.

Guardo la lapide, guardo tutto quello che ho intorno, alla ricerca di uno spunto su qualcosa da dire.

Sono conscio che se perdo il momento non ti fiderai di James, ma lo stesso discorso varrebbe se dalla mia bocca uscisse la cosa sbagliata.

Riportatemi Jim Moriarty, con lui era tutto più semplice...

Molto più semplice.

Se solo riuscissi a concentrarmi abbastanza da fingere tutto questo diventerebbe facile...

Facile! Certo, facile: come Jim con Molly!

Precisamente.

È questo che devo fare: fingere!

Ma sarebbe davvero finzione? Non ci devo pensare, non ora!

 

«Mi dispiace. Non pensavo che per te, dopo tre anni, fosse ancora così dura, questo Sherlock ti ha scombussolato per bene, eh?» cerco di essere un po' ironico, ma la mia voce ha qualcosa che non va, una distorsione di fondo che rivela tutto, o quasi.

 

Sollevi la testa, prevedo che stai per chiedermi qualcosa che mi metterà in difficoltà.

 

«E a te? Chi ti ha scombussolato?»

 

Appunto.

Certi segnali li cogli, allora.

 

«Qualcuno non molto diverso da te a cui avrei voluto dire molte cose, ma non ne ho avuto il tempo. Come vedi, siamo piuttosto simili tu ed io.»

 

Empatia, sto cercando di crearla mentendo spudoratamente.

Sono così combattuto, John, non sei l'unico ad essere ossessionato.

È curioso e assurdo che i fantasmi che ci perseguitano non siano altro che le nostre essenze reciproche e vive, dato che nessuno dei due è realmente morto.

Forse, quindi, la definizione “fantasmi” è del tutto inappropriata, ma non è il momento delle definizioni.

Forse dovrei del tutto cancellare Sherlock ed essere solamente James, chiudere tutto il passato in una scatola da riaprire all'occorrenza (o da non riaprire affatto?).

Posso provarci.

Posso riuscirci.

Ma lo voglio?

Non lo so, ma una cosa è certa: lo vuoi tu, perché non c'è più spazio per uno Sherlock Holmes nella tua vita, lo hai detto chiaramente.

Vuoi solo che sparisca e chi sono io per non accontentarti?

Chi sono io, semplicemente?

Mi sto perdendo, era previsto e, forse, alla fine, non è nemmeno così male...

 

«Come posso affiancarmi a qualcun altro che non sia lui?» mi domandi, indicando la tomba.

 

Tutto questo discorso è assurdo.

 

«I morti sono morti, non si offendono.» rispondo con qualcosa di un po' meno assurdo. «E, anche potesse farlo, credo che la sua priorità sarebbe scagionare il vostro amico.» continuo a ricordarti di Lestrade, perché tu sembri averlo dimenticato.

 

Sembri esserti dimenticato molte cose: la tua fidanzata sa che sei qui?

Ad esempio.

Stai per rispondermi qualcosa, ma entrambi ci fermiamo ad osservare il tuo cane che, in tutta tranquillità, si ferma davanti alla lapide, solleva la zampa e spruzza la superficie.

Resto pietrificato per un istante

Ma certo, è questa la risposta!

Ed è come un esplosione, il mio petto si scuote e scoppio in una fragorosa risata.

Mi guardi attonito, quindi, in qualche modo, cerco di chiarire perché rido.

 

«Piss off, Sherlock Holmes!»²

 

E allora ridi anche tu.

Non ti chiedi come faccia a saperlo, ridi e basta, contro la mia spalla, in modo un po' isterico.

È buffo che un essere non dotato di un'intelligenza superiore (mi riferisco al cane, non a te) abbia dato la risposta più saggia.

Così va' la vita, in fin dei conti.

 

 

N.d.A.:

 

1): Il Newport and St. Wools New Cemetery è il cimitero che hanno usato come location nella puntata 2x03, non avendo io un chiaro riferimento di dove sia stato “seppellito” Sherlock Holmes secondo il canone, ho ritenuto opportuno mantenere questo.

 

2): Il gioco di parole non regge in italiano, lo riconosco, ma ho deciso di lasciarlo lo stesso, ben conscia che molti di voi abbiano visto le puntate in lingua originale e/o conoscano l'inglese. Tutto questo pezzo è un riferimento alla puntata 1x01, precisamente al punto in cui John chiede a Sherlock: “What people normally say?”

E Sherlock risponde: “Piss off.”

Mingere (volgarmente: pisciare) in inglese è to piss (o to pee), quindi Sherlock, vedendo il cane far pipì sulla sua lapide, ricollega la cosa al vecchio dialogo avuto con John e capisce che, nella situazione specifica della mia storia, “Sherlock Holmes” deve farsi da parte, letteralmente “levarsi dai piedi”, o “dalle palle”, a seconda di come preferiate tradurlo.

In puntata, in italiano, la battuta è diventata “fuori dai piedi”.

 

E dopo questa bella botta di “piccoli Nerd crescono (degenerano?)”, vi ringrazio per seguirmi tanto assiduamente e spero che il nuovo capitolo vi sia piaciuto.

Un bacione,

Ros.

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Capitolo 7
*** Capitolo settimo: ***


Terminato il momento d'isteria dilagante, mi rialzo e ti tendo la mano.

 

«Amici?» ti domando.

 

Ancora titubi, lanci uno sguardo alla lapide, ma, infine, ti decidi e mi stringi la mano, facendoti anche tirare in piedi.

 

«Amici.» confermi con un mezzo sorriso.

 

Recuperi il cane ed io mi distraggo a guardare l'orizzonte.

Il sole del passato è tramontato, adesso comincia la notte, resta un mistero se l'alba che verrà risulterà essere più luminosa o se, al contrario, non sorgerà affatto.

Mi chiedo come dovrei sentirmi, se più sereno o più triste.

Ci incamminiamo verso il muretto di cinta in silenzio, il tuo cane un po' protesta, lo hai degnato davvero di poca attenzione.

 

«Mi dicevi in merito a Roberts?» una domanda qualsiasi, giusto per ricominciare una conversazione.

 

Scrollo le spalle.

Non è che abbia molto da dirti, in merito.

 

«Non l'ho trovato in casa, stavo salendo al suo appartamento quando il capo mi ha chiamato e mi ha detto di raggiungerti.» rispondo, scavalcando.

 

Tu sollevi il cane e fai per passarmelo.

Resto interdetto per qualche istante.

 

«E' un cucciolo, non ti mangia.» mi prendi in giro.

 

Ma sì, prendiamo in braccio questo sacco di pulci, alla fin fine è merito suo se abbiamo sospeso le ostilità.

Lo accarezzo, fingendo di esserne intenerito e questa bestiola si sente autorizzata a inzupparmi la faccia con la sua bava.

Che-schifo!

 

«Come si chiama?» ti chiedo, mentre trovarlo tenero diventa un'impresa sempre più difficile.

 

«Toby.» mi rispondi, prendendolo dalle mie braccia e posandolo a terra. «Dov'è la tua macchina?»

 

Toby... tanti saluti alla possibilità di essere originale in qualcosa, beh, dai, poteva andarmi peggio: potevi averlo chiamato Sherlock in mia memoria.

Lo avresti fatto se, invece che un misto labrador, avessi preso un cocker nero?

Sto considerando davvero la possibilità e la cosa, sotto sotto, mi diverte.

 

«Che hai da ridere?» mi chiedi.

 

«Niente. Potevi chiamarlo “Sherlock”.»

 

«Sì, certo, così sarebbe venuto a tirarmi i piedi nel letto per l'indignazione!» scherzi.

 

Vero, partendo dal presupposto folle che i fantasmi esistano, probabilmente l'avrei fatto.

 

«Allora? La tua macchina?»

 

Giusto. Avevo totalmente ignorato la tua domanda.

 

«Non ce l'ho. Mi ha portato uno degli autisti del capo, la mia auto non avrebbe retto l'autostrada.»

 

Ridi. «Sei lo 007 più farlocco che mi sia capitato d'incontrare!»

 

Intimità...

Sorrido.

 

«Però sono simpatico. Mi dai un passaggio?»

 

Sollevi un sopracciglio. «Ho forse alternative?»

 

«Potresti lasciarmi qui a farmi divorare dai fantasmi di questo cimitero.» ironizzo.

 

Rotei gli occhi e fai scattare l'apertura automatica della tua macchina. «Sali.» mi fai.

 

Ed ubbidisco, mentre ti osservo caricare Toby sui sedili posteriori e poi ti lasci cadere goffamente sul tuo sedile.

Sembri stanco.

 

«Vuoi che guidi io?» ti chiedo.

 

«No, no. Ho dormito poco ma ce la faccio, grazie.» metti in moto.

 

«Penso che venire qui ti abbia fatto bene, nonostante tutto. Solo una cosa: il divieto di avere una bambina al seguito resta. È anche per la sua stessa sicurezza.»

 

Sì, perché potrei portarla a sperdere nei boschi.

Troppo cattivo?

Può darsi.

 

«Vedrò di organizzarmi.» mi rispondi, ma sembri distante.

 

Pensi ancora a “Sherlock”?

Non monopolizzo la tua attenzione e questo mi indispone, non ci sono abituato.

 

«Sei stato a Scotland Yard?» mi chiedi.

 

«No. Non ho avuto tempo.»

 

«Quali sono le tue conclusioni? Tieni tutto per te, stai sulle tue...» lasci cadere il discorso.

 

Forse ti avrei reso un po' più partecipe se tu non fossi stato tanto scontroso.

Ed io un po' meno isterico, lo ammetto.

 

«Finché non vedrò Roberts può essere tutto o nulla. Escludo che il colpevole possa essere lui. L'omicidio di Sofia Lestrade è stato compiuto da un professionista, su questo non c'è alcun dubbio ed un professionista non sparirebbe mai il giorno dopo, facendo ricadere tutti i sospetti su di sé. Questo è chiaro.»

 

«E di Greg che mi dici?» ti interrompi. «Il detective Lestrade.» ti correggi.

 

«Da quel che so di lui è tonto ma, sostanzialmente innocuo. Quando dico professionista intendo un vero professionista, John, un killer, qualcuno che sa come uccidere e che lo fa con estrema disinvoltura e sangue freddo. Un impiegato non ha queste capacità e nemmeno un detective.»

 

«Sembri molto sicuro di te.»

 

Ovvio che lo sono.

 

«Se non lo fossi perderei di credibilità. Che fine pensi possa aver fatto Roberts?» te lo chiedo per non farti sentire escluso e anche per vedere se il tuo “secondo parere” possa, in qualche modo, rimettere in moto le mie sinapsi.

 

Nella direzione giusta, preferibilmente e non in una “John-centrica”.

Resti in silenzio per qualche secondo, mentre guardi la strada con aria concentrata.

È buio da un pezzo, ormai, ma mi sento sollevato in questo tranquillo viaggio con te.

 

«Forse sapeva qualcosa ed è scappato.» borbotti.

 

«Quindi ipotizzi la presenza di almeno una terza persona...» bofonchio, perdendomi con lo sguardo fuori dal finestrino.

 

Ti schiarisci la voce, sei a disagio. «Ho detto una scemenza?» mi chiedi, preoccupato di aver fatto una pessima figura.

 

«Forse.» sono diplomatico. «Ma ti lascio il beneficio del dubbio, per il momento.» aggiungo con un sorriso.

 

«Quanto sei magnanimo!» esclami, sarcastico.

 

Ridiamo, di nuovo e sembriamo quasi due persone normali.

Ci comportiamo come se avessimo davvero lasciato dietro di noi il cimitero.

Ad ogni modo un terzo uomo è plausibile, ma: perché?

I dipendenti di società finanziarie non finiscono ammazzati, magari vengono minacciati, corrotti, indotti a prendere una direzione piuttosto che un'altra.

Non ammazzati, ripeto.

Il puzzle tornerebbe anche, volendo togliere quest'elemento, ma non sono uno stupido e so riconoscere un'ovvietà quando ce l'ho di fronte.

No, no, Sofia era implicata in qualcos'altro...

Dovremo passare la sua vita al setaccio il che comprende anche parlare con Lestrade.

Avrei preferito evitare.

 

«A cosa stai pensando?»

 

Mi riscuoto.

 

«Ipotesi.» rispondo criptico.

 

«Ti ascolto.»

 

Scuoto la testa. «No, non stanno in piedi.»

 

«Fammi capire: io devo dirti qualsiasi stupidaggine mi passi per il cervello e tu te ne resti in silenzio?» non mi stai realmente accusando, sei canzonatorio.

 

«Più o meno funziona così, sì.»

 

«Non mi sembra affatto uno scambio alla pari.»

 

«Non ho mai detto che lo sarebbe stato.» sogghigno con un po' di soddisfazione.

 

Ti sto stuzzicando e tu stai al gioco senza insultarmi.

Decisamente abbiamo fatto passi avanti.

Bastava così poco?

Dicono che “basti sempre molto poco” ma, prima d'ora non l'avevo mai sperimentato sulla mia pelle.

Forse dovrei smettere di scervellarmi a questa maniera e godermi il momento come farebbe una qualsiasi persona normale, ma non posso spegnere il mio cervello e, a ben vedere, questo nemmeno voglio farlo.

 

Il resto del viaggio trascorre tranquillo, mi racconti un po' della tua vita (come se non la conoscessi a menadito), della bambina che ti rende tanto orgoglioso e che ami al di sopra di ogni altra cosa.

Io resto in silenzio, mi beo del piacere di ascoltarti, o meglio: di ascoltare la tua voce rivolgersi a me dopo tanti anni.

I contenuti lasciano a desiderare, ma non si può avere tutto.

Poso lo sguardo sul maglioncino che indossi e sorrido, è orrendo, certe cose proprio non cambieranno mai.

 

«E di te che mi dici?»

 

Non mi lascio cogliere impreparato.

 

«Beh, come qualsiasi agente ho un lavoro di copertura, per il mondo vendo aspirapolvere, ma ammetto di non averne mai usata una in tutta la vita. Non ho molti amici, anzi, si può quasi dire che non ne abbia. Non fraintendermi, non è che non li voglia, solo che, beh, non ne ho, ma non ne sento molto la mancanza.»

 

Mi guardi, vuoi chiedermi qualcosa, ma adesso che sei a mente lucida ti fai degli scrupoli.

Suppongo sia inerente alla persona che ti ho detto di aver perso.

Fai la tua domanda, sono più che in grado di ricostruire una storiellina plausibile.

Esiti ancora ed io fingo di distrarmi per accarezzare il cane che ha fato capolino dai sedili posteriori.

 

«E la persona di cui mi hai detto prima..?» la tua voce è flebile.

 

Mi trattengo dal ridere per sottolineare la tua prevedibilità e assumo un'espressione piuttosto contrita.

Beh, potrei decidere di lasciare il crimine e cominciare una carriera d'attore, dopo tutto questo, quando, alla fine, ti lascerò andare, John.

Quando ti abbandonerò alla tua vita tranquilla senza voltarmi indietro.

Ecco, ora la tristezza è reale.

Bene. Meglio. Più credibile.

 

«Era un collega, un compagno. Temo di non poter essere più specifico di così. Eravamo in missione, ma è andata male. Non ha nemmeno avuto un funerale perché, ufficialmente, noi in quel posto nemmeno dovevamo esserci, di fatto non esistevamo nemmeno. Mi sono sbarazzato personalmente del suo corpo. Era... uno stupido emotivo, sempre pronto a seguire l'istinto piuttosto che il raziocinio, farlo ragionare era un'impresa.»

 

Mi posi una mano sulla spalla e mi guardi.

Sul tuo volto leggo comprensione e una dolcezza dal retrogusto amaro.

 

«Mi dispiace.» dici, con un pizzico di senso di colpa nella voce.

 

Forse stai riflettendo sul fatto che, almeno tu, hai una tomba dove andare (di rado) quando vuoi sfogarti.

Mentre James non ha nemmeno questo.

In effetti questa storia misteriosa potrebbe apparire molto triste.

È... buffo.

La percepisco quasi come se fosse davvero reale, se mi sforzo riesco a immaginare questo finto ricordo con estrema nitidezza.

Forse l'ipotesi di andare da uno strizzacervelli non è poi così astrusa.

 

«Dove devo portarti?»

 

Ti do l'indirizzo di Roberts, dove ho lasciato la mia macchina, non voglio dirti “Baker Street”, non ancora.

Complicherebbe tutto.

Mi accompagni, paziente e gentile.

 

«Mi lasci il tuo numero?» mi domandi, rovistando nelle tasche per cercare il cellulare.

 

«Cristo!» imprechi, quando ti rendi conto, evidentemente, di non averlo dietro. «Denise!» esclami, ricordandoti, all'improvviso che, sì, hai anche una fidanzata, oltre che una “splendida bambina”.

 

«Credo ti aspetti un brutto quarto d'ora, amico.» ironizzo, aprendo la portiera. «Per il numero non ti preoccupare, ti chiamo io.»

 

Riparti solo dopo esserti accertato che la mia macchina sia riuscita a partire.

Un gesto premuroso, gentile.

Di sicuro hai calcolato che, su sette ore di ritardo dal tuo normale rientro quando porti fuori in cane, qualche minuto in più non avrebbe fatto molta differenza.

Ti saluto picchiettando appena sul clacson e proseguo per la mia strada.

Non ho intenzione di andare a casa, non ancora.

Devo fare un discorsetto con mio fratello, prima.

 

 

 

John rientrò in casa alla chetichella, silenzioso come un adolescente sbronzo in ritardo di ore sul coprifuoco.

Lasciò andare Toby, placando la sua euforia ma, non appena superò il corridoio, la luce del salotto si accese.

Implacabile.

Si voltò, come a rallentatore, trovando Denise in piedi con le braccia incrociate e un'espressione davvero poco rassicurante.

 

«C-Ciao, tesoro!» balbettò, sfoderando un sorriso teso.

 

«”Ciao, tesoro?! CIAO, TESORO?!?” Sei sparito per ore, John! Ti ho telefonato decine di volte solo per scoprire che avevi lasciato il telefono di sopra, in bagno! Mi sono preoccupata da morire. Ho persino chiamato tutti i dannati ospedali di Londra e tu rientri e mi dici: “Ciao, tesoro”?!» strillò lei, andandogli incontro.

 

«A-Abbassa la voce, sveglierai la piccola...»

 

«Dove diamine sei stato?!» gli chiese, abbassando il tono.

 

«Sediamoci, ti spiego tutto.» rispose.

 

«Sarà meglio.» borbottò lei.

 

Si accomodarono in salotto e John prese un respiro profondo. «Sono andato a Newport, ho i biglietti dell'autostrada, se non...» cominciò a rovistare nelle tasche, ma lei lo fermò.

 

«Non penso tu abbia un'amante, John, rilassati e spiegami. Perché a Newport? Da quando ti conosco non ti ho sentito nominare quel posto nemmeno una volta.»

 

«Sono stato al cimitero... è lì che è sepolto Sherlock.» le afferrò le mani con forza e la guardò negli occhi. «Io dovevo farlo, Denise, dovevo, prima di imbarcarmi in questa storia. Lo so che è stupido ma l'idea di lavorare con qualcun altro mi faceva sentire...» si interruppe, conscio di non riuscire a trovare le parole giuste per esprimersi.

 

«Come se lo stessi tradendo.» gli andò incontro lei.

 

«Sì. Qualcosa del genere. Dovevo... chiedergli il permesso.»

 

Denise inarcò un sopracciglio, non sapendo se ridere in faccia al suo fidanzato o insultarlo per quanto l'aveva fatta preoccupare.

 

«E ti ha risposto?»

 

Fu John a ridere, questa volta. « In un certo senso, sì. Dopo un po' mi ha raggiunto James, abbiamo parlato un po', l'ho preso a pugni e poi Toby ha fatto pipì sulla lapide di Sherlock e abbiamo deciso di lavorare assieme.» riassunse.

 

«Chi è James?» chiese Denise, a cui mancavano molti tasselli della vicenda. «Il “signore antipatico” di cui parla Trisha?»

 

«Non è così male, comunque è l'uomo che mi ha affiancato Mycroft: James O'Neill.» le raccontò con precisione la sua giornata, rendendosi conto che non le aveva detto assolutamente nulla, prima di scappare a Newport con Toby.

 

Al termine del racconto prese un respiro profondo.

 

«Ascoltami... ho intenzione di prendere tre settimane di ferie per questa faccenda, ma, insomma, potrei rientrare ad orari assurdi, o non rientrare affatto, se le cose dovessero prendere una piega strana. Non dico che lo faranno di sicuro, né che il caso durerà tanto, ma, insomma, c'è questa eventualità. Potrei non avere tempo di occuparmi di Trisha. Insomma, se tutto questo non ti sta bene, basta che lo dici, parlerò con James e cercherò di trovare un compromesso accettabile, in fin dei conti...»

 

«John, John, calmati. Te l'ho già detto: mi sta bene che tu ti prenda del tempo per te. Penserò io a Trisha, la porterò con me in negozio. Non farà i salti di gioia, ma potrà sopportarlo per un po'. Ho solo due condizioni da dettare: 1): esigo e pretendo che ti porti dietro quel dannato cellulare! 2): ti ricordi che tra qualche giorno scendono i miei amici e fanno un salto qui a Londra. Ho già prenotato al ristorante, vedi di esserci.»

 

«Nient'altro?»

 

«Nient'altro.»

 

Il volto di John si distese in un sorriso e subito strinse Denise tra le braccia. «Grazie, amore...» le disse.

 

Lei gli tirò un coppino.

 

«Ahi!»

 

«Questo è per avermi fatta preoccupare. Adesso andiamo a letto, che tu ti prendi tre settimane di ferie e potrai poltrire, io invece devo andare a lavorare.»

 

Si alzarono e John ridacchiò.

 

«Fidati, Denise, non hai idea di come funzioni questa vita.»

 

Entrò in bagno e recuperò il telefono, scorrendo le innumerevoli chiamate di Denise.

Si preparò per la notte e aveva appena spento la luce quando il suo cellulare trillò.

 

«Dì alla tua amante di mandarti sms al mattino...» ironizzò Denise, assonnata, rigirandosi sotto le lenzuola.

 

«E' James.» chiarì lui con un sorrisino.

 

«E che dice?»

 

«Passo da te domattina, sempre che la tua ragazza non ti abbia già ucciso, in tal caso indagherò. Promesso. Jim»

 

Ancora vivo, per il momento. Ci vediamo domattina. JW”

 

Digitò rapidamente il dottore, riponendo, poi, il telefono sul comodino.

 

«Se va per le lunghe... metti la vibrazione...»

 

John la cinse da dietro in un abbraccio.

 

«No, ora dormiamo.» disse, esausto.

 

 

 

La macchina riesce a portarmi da Mycroft e questo è già un successo.

Dovrei essere stanco, ma la realtà è che ho talmente tanta adrenalina in corpo che dubito riuscirò a fermarmi spontaneamente.

 

Il cancello è aperto, mi mi stai aspettando, lo sai.

Apro la porta con la copia delle chiavi che ho tenuto ed entrò.

Sei al pianoforte, stai suonando, ma ti interrompi quando varco la soglia del salotto.

Non ti volti, ma so che stai guardando il mio riflesso.

 

«Dato che sei ancora agghindato in quel modo ridicolo, deduco che John non si sia reso conto di nulla e che tu non gli abbia rivelato chi tu sia in realtà.»

 

«Corretto.» rispondo, sollevando il mio violino dal tavolinetto, roteo un paio di volte l'archetto e tu fai una serie di note al piano.

 

Le riconosco, è un invito, anche se mi domando da dove ti venga la voglia di suonare con me.

Tentenno, la tua scelta è strana, una “Danse Macabre”¹.

Ripeti la serie di note e ti fermi di nuovo.

Lo fai perché è il violino che parte, quindi continui a punzecchiarmi.

Va bene, suoniamo.

Il pezzo è un perfetto quadro di ciò che pensi, un lungo battibecco tra me e te, un'infinita serie di non detti, di metafore che significano molto più delle parole.

Ora ho capito perché volevi suonare con me, per poter dialogare senza interruzioni o prese di posizioni.

Ci accompagniamo, cerchiamo di surclassarci, pause, mie, poi tue... silenzio, riprese, legature di concetti, non unicamente di note.

Reputi una scelta stupida il mio non rivelare a John la mia vera identità, tra queste note c'è la velata minaccia che, qualora tirassi troppo la corda, interverrai tu.

Non mi spaventa quest'eventualità, anche perché so che vi ricorrerai solo se costretto e non ho alcuna intenzione di farti impicciare troppo dei miei affari.

Il pezzo finisce e noi ci siamo detti tutto ciò che dovevamo, il tutto in circa sette minuti.

Il mondo non capirebbe, ma non è un nostro problema.

Poso il violino e ne sento la mancanza ma, no, non posso portarlo con me.

Se John venisse all'appartamento (e ci verrà sicuramente) sarebbe un indizio troppo lapalissiano (persino per lui).

No, dovrò lasciarlo qui.

Curioso il fatto che per tre anni lo abbia considerato appena e adesso... adesso ne senta il bisogno.

Come ho già detto: è così che va la vita.

Mi incammino verso la porta.

 

«Sherlock.» mi richiami.

 

Pensavo avessimo finito.

Che vuoi ancora?

Mi fermo, ma non mi volto.

 

«Non scordarti chi sei realmente. Non perdere i punti di riferimento.»

 

«Ci vediamo.»

 

Esco da casa tua, ti lascio la copia delle chiavi sul mobiletto d'ingresso e risalgo in macchina.

Prima di partire mi volto e provo lo stesso, spiacevole, senso di malinconia.

Forse mi mancherai, Mycroft e ti stresserò molto più di quanto non facessi prima di questi tre anni.

Vedremo.

 

Durante il tragitto scrivo a John per informarlo che lo raggiungerò l'indomani.

Quando già dubitavo del ricevere una risposta, il mio cellulare vibra.

Sorrido e lo ripongo in tasca.

Rientrare a Baker Street fa uno strano effetto. La casa è silenziosa, ora che nemmeno Mrs. Hudson abita più qui.

Il nostro appartamento è quasi del tutto vuoto, John, ma pulito. Evidentemente quella cara donna ha mandato qualcuno a pulirlo, visto che sapeva che presto (oggi) sarebbe arrivato il “nuovo inquilino”.

Ignoro come Mycroft l'abbia convinta, mi m'importa poco, in realtà.

Sfioro con le dita la parete, accarezzando i fori di proiettile e poi lo smile, ormai in parte scrostato. Fa caldo, ma non resisto alla tentazione di accendere il camino.

Chiudo gli occhi e riassaporo com'era vivere qui, ma poi li riapro e mi ricordo che la realtà è un'altra.

Il divano c'è ancora, coperto da un lenzuolo grigiastro. Lo sollevo con uno strattone e mi lascio cadere sdraiato.

Guardo il soffitto e comincio a domandarmi se Mycroft non abbia ragione.

Che diavolo sto facendo?

Affondo una mano nella sacca con “la mia roba” e ne tiro fuori la cocaina.

Solo quella.

Non ho alcuna intenzione di sfare i bagagli e scoprire cos'altro si sia inventato mio fratello per darmi tormento.

Voglio andarmene da qui e questo è l'unico modo che conosco.

Quando ho cominciato lo facevo per combattere la noia, ora lo faccio per liberarmi la mente da pensieri che non voglio (non ci dovrebbero stare).

Sono cambiato, sono involuto.

Lego il laccio emostatico, poi l'ago entra nel braccio, ormai sono talmente avvezzo che il dolore nemmeno lo sento più.

Premo lo stantuffo ed è come perdersi.

Ho mantenuto la stessa soluzione?

7% è questa la regola.

Non sono sicuro, ma, ormai, è ininfluente.

Chiudo gli occhi.

Qualsiasi altra cosa può aspettare domani mattina, non voglio alcun punto di riferimento, non ora (forse mai più).

Voglio perdermi nell'ebrezza estatica di un'eccitazione mentale artificiale, in cui John, o chiunque altro, persino Sherlock, non esista.

Un'eccitazione breve, poco duratura e che dopo mi lascerà abbastanza spossato da riuscire a dormire almeno un paio d'ore.

 

 

 

Mycroft si svegliò di soprassalto, destato da dei rumori sinistri provenienti dal salotto.

Recuperò la pistola dal comodino e si alzò con fare circospetto e attento. Il corridoio era buio, ma ci voleva ben altro per riuscire a spaventarlo.

Socchiuse la porta del salotto e sbirciò all'interno.

Nessuno.

Abbassò la pistola, ritenendo probabile l'ipotesi di aver sognato. Accese la luce, ormai del tutto sveglio e si sedette sul divano, osservando il violino di Sherlock.

Era preoccupato per lui, non gli piaceva la piega che quella faccenda stava prendendo. Posò la pistola sul tavolo e si stropicciò il volto.

Scorse due ombre, ma la sua reazione fu troppo lenta, venne immobilizzato, narcotizzato e portato via...

 

 

N.d.A.:

 

1): La “Danse Macabre” a cui faccio riferimento la trovate qui: http://www.youtube.com/watch?v=X0z3KuivDow ho riflettuto molto sul mettere o meno questa scena nella storia, ma il capitolo ha un po' deciso da solo, in tal senso.

 

Eccoci qui alla fine del settimo capitolo, che dire? Come al solito spero vi sia piaciuto.

Un bacione.

Ros.

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Capitolo 8
*** Capitolo ottavo: ***


Mi sveglio e fatico ad aprire gli occhi.

Ho la vista annebbiata e gli occhi incrostati.

Devo farmi i complimenti, avevo del tutto scordato di avere le lenti a contatto, una mossa geniale, davvero, bravo...

Me le levo un po' con fatica, visto che ho gli occhi secchi, e le abbandono sul bracciolo del divano.

La mia emicrania non se n'è andata, anzi, se possibile è persino peggiorata.

Guardo il telefono e sono le sei del mattino, avrò dormito si e no due ore, se vado avanti così finirò con il far concorrenza a Mycroft che dorme, si e no, un'ora e mezzo per notte, sempre.

Almeno io non dormivo solo quando avevo un caso per le mani, o quando mi annoiavo tremendamente...

Vado in bagno e mi concedo una lunga doccia, cercando di rilassarmi almeno un poco.

Sono teso, in realtà, non credo nelle “premonizioni”, ma c'è una strana elettricità nell'aria, stamattina.

Paranoia post-dose?

Plausibile, probabile, praticamente certo.

Meglio ignorarla di sana pianta.

Ci vado molto più leggero con il travestimento, questa mattina, tanto John non mi riconoscerebbe in alcun caso. Niente barba finta, troppo fastidiosa, inoltre se quel dannato cane dovesse, un'altra volta, ripassarmi la facci di bava potrebbe staccarsi.

Meglio non correre il rischio.

Le lenti, però, mi vedo costretto a rimetterle e i miei occhi, giustamente, protestano, lacrimando per qualche minuto.

Mai più dormirci, devo ricordarmelo.

Recupero i primi vestiti che trovo in cima al borsone e infilo chiavi e cellulare in tasca e la pistola nella fondina, sotto il giubbotto di jeans.

John sarà sveglio?

Ormai sono le sette, tempo che metta in moto la macchina e che arrivi da lui saranno le otto.

Sì, un orario consono per presentarsi a casa della gente o, almeno, credo.

La macchina protesta, tanto che sono tentato di mollarla qui e prendere un taxi.

Un ultimo tentativo e parte, a saperlo la minacciavo prima...

Sono imbottigliato nel traffico quando il mio cellulare squilla.

 

«Pronto?» rispondo senza nemmeno guardare chi sia.

 

Tanto o è John o è Mycroft, più probabilmente Mycroft.

 

«Ciao, James, sono la mamma...»

 

Inchiodo bruscamente per non rischiare di tamponare l'auto che mi sta di fronte.

 

«C-Come?» balbetto.

 

«Come stai? Non ti fai sentire da una vita! Ero così preoccupata!»

 

Attacco.

Avranno sbagliato numero, è la conclusione più sensata. James, in fondo, è un nome piuttosto comune.

Sono in errore, perché il cellulare squilla di nuovo.

 

«CHI DIAVOLO PARLA?!» grido.

 

Silenzio dall'altra parte, ma dura solo pochi istanti.

 

«Sono John...»

 

Cristo...

Mi schiarisco la voce.

 

«Scusami, pensavo fosse... qualcun altro...» borbotto dispiaciuto.

 

«Non preoccuparti.» tagli corto, ma sento del risentimento, o forse lo immagino, non lo so. «Ti chiamavo per dirti che, quando vuoi, sono pronto.»

 

Sorrido, non prestando attenzione al mio umore altalenante.

 

«Non vedi l'ora di cominciare sul serio, vero?»

 

Esiti un poco, poi capitoli, ridacchiando. «Sono sveglio da ore.»

 

«Sono in macchina, sto arrivando.»

 

«Ok, ciao.»

 

Chiamata breve, ma che dice molte cose.

La tua indole non è affatto mutata, in questi anni, da questo lato sei tale e quale a come ti ho lasciato.

Hai ancora bisogno del pericolo, dell'adrenalina, hai provato ad accantonarlo, ma non ci sei riuscito.

Sei stato riluttante di fronte all'idea di collaborare con me, ma ora che ti sei arreso è tutto diverso.

Dieci minuti e sono da te, mi aspetti fuori dal portone, senza figlia e senza cane, ma con la tua fidanzata.

Impreco, mentalmente, quanti giorni ci vorranno per non aver nessun altro al seguito?

Accosto e scendo, facendo finta di nulla.

 

«Buongiorno.» saluto, guardando entrambi.

 

Mi fai un cenno con il capo e sorridi, lei, invece si avvicina, mi studia.

È curiosa.

 

«Ciao, io sono Denise. Tranquillo, sparisco subito, volevo solo vedere che faccia avevi.» mi dice, porgendomi la mano.

 

La stringo e l'atmosfera si fa strana, mi sento messo in competizione per la tua attenzione, John.

Competizione che, probabilmente, sento solo io, visto che la tua compagna è gentile e non comunica in alcun modo avversione nei miei confronti.

La osservo e, ancora una volta, sopprimo la mia mente per evitare di fare deduzioni.

Di nuovo la gelosia, ma una gelosia diversa da quella che provo nei confronti della bambina.

 

«James.» rispondo, semplicemente. «Piacere di conoscerti.»

 

«Bene, ora l'hai conosciuto, Denise.» il tuo tono, John, è leggermente scocciato.

 

Sono, onestamente, sorpreso.

Gelosia?

No, non sei mai stato quel tipo di uomo. Non ti è mai importato più di tanto se le tue fidanzate parlassero con qualcun altro.

Tensione?

Probabile, ma perché?

Non vuoi che le tue due vite si mescolino.

Tu sei abituato al rischio, ma la tua famiglia no.

Forse sei preoccupato, ti ricordi ancora quanto è avvenuto con Sarah e non vuoi che l'episodio si ripeta.

Non credo di poterti biasimare per questo.

 

«Andiamo?» ti rivolgi a me.

 

Denise sorride e mi da una pacca sulla spalla, mentre si allontana.

 

«E' un po' scontroso, oggi, buona fortuna!» ironizza.

 

«Cercherò di sopravvivere!» le do man forte, salutandola con un cenno, prima di salire in macchina.

 

«Problemi?» ti chiedo, retoricamente, visto che la risposta è: sì.

 

Sospiri. «Denise si illumina d'immenso ogni qual volta nella mia vita si presenti qualcuno che assomigli, anche vagamente, ad un amico. Lei mi ha conosciuto dopo la morte di Sherlock, molto dopo e, in quel periodo ero praticamente solo. È sempre rimasta molto turbata dal mio “non avere amici”, lo giudica un problema, quindi, ogni volta che ne appare uno dal passato, o che ne arriva uno che possa diventarlo, comincia a chiedermi di invitarlo a cena, di conoscerlo. Non vuole essere invadente, lo so, ma è così inusuale che io esca con qualcuno che non siano lei e Trisha, che la curiosità la possiede. Scusa se ti ha infastidito.»

 

Corrugo le sopracciglia, divertito. «Che razza di persona credi che sia?»

 

Sospiri di nuovo e scuoti la testa. «Scusa...»

 

«Per cosa, questa volta?» te lo chiedo perché non ti seguo.

 

«Quando facevo conoscere a Sherlock le mie fidanzate lui diventava intrattabile per il tempo che gli stavo facendo perdere, o per il tempo che perdevo io stando con loro, piuttosto che con lui. Oh, almeno, io l'ho sempre vista in questo modo, quindi ho dato per scontato che chiunque abbia un QI un po' più alto della media...» cerchi, in qualche modo, di spiegarti e, te lo giuro, sei comico.

 

«Io non sono Sherlock e, purché non ti porti dietro il tuo intero parentado (cane compreso) quando lavoriamo, al di fuori puoi anche presentarmeli tutti.» ti interrompo.

 

Mi guardi, sollevato. «Con Sherlock questa linea di demarcazione non c'è mai stata. Con lui c'era solo il lavoro, tolti, ovviamente, i momenti di noia, ma era più rischioso presentargli qualcuno durante quest'ultimi, che durante un caso, benché, alla fine, il risultato fosse lo stesso: non riuscivo a tenermi una fidanzata per più di due settimane.»

 

«Non doveva essere granché simpatico.» commento, incassando la critica con signorilità.

 

Sentirti parlare di me “senza veli” è un interessante esperimento per capire come le persone, dall'esterno, mi hanno sempre visto.

 

«Non... Non credo di averlo mai giudicato in termini di simpatia o antipatia. In certi momenti era odioso, con tutti, me compreso, quasi offensivo, ma non l'ha mai fatto con il chiaro intento di ferire, lui era così. A volte aveva persino degli slanci altruistici, solo che o erano talmente contorti che, a meno che non li spiegasse, nessuno ci capiva nulla, oppure del tutto legati al suo freddo modo di ragionare che non teneva affatto in considerazione il fatto che i suoi consigli potessero fare male. Non molto diversamente dal modo in cui tu tendi a dire sempre la verità, senza filtrarla in alcun modo. Le buone intenzioni, magari, c'erano, anzi, c'erano sicuramente, ma gli mancavano i mezzi per edulcorare il tutto.»

 

Questa la incasso con più sforzo. «Magari giudicava superfluo il bisogno altrui di sentire “consigli edulcorati”. Forse puntava al massimo risultato nel minor tempo possibile.»

 

«E allora sbagliava tutto.» irrigidisci la mascella e stringi le braccia al petto.

 

Chiusura, atteggiamento difensivo, fastidio, poca disponibilità al dialogo.

Peccato.

Stringo il volante, chiedendomi se riusciremo mai a parlare di qualcosa che non sia “Sherlock”.

Parcheggio sul marciapiedi di fronte alla casa di Roberts, nella speranza che un qualche vigile mi faccia portar via questo catorcio, ma lo sento che non sarò così fortunato.

Scendiamo e fai per avvicinarti al portone.

 

«No, non di lì.»

 

«E da dove, scusa?» mi chiedi.

 

C'è un impalcatura sul retro del palazzo, l'ho notata solo adesso, ieri ero troppo distratto.

Da proprio sul lato dell'appartamento.

 

«Useremo quella per entrare.» ti notifico, indicandotela.

 

«Cosa?!»

 

Ignoro le tue proteste e i tuoi borbottii indistinti.

Ti opponi tanto, a parole, ma non fai nulla per fermarmi.

Mostro il mio distintivo al capo cantiere e gli dico che c'è un'indagine in corso e dobbiamo entrare in un appartamento al dodicesimo piano.

È riluttante, ma, dopo qualche rassicurazione sul fatto che, no, non passerà dei guai per questo, ci lascia salire, sollevandosi da qualsiasi responsabilità nel caso dovessimo ferirci.

Ti lascio venire con me, John, “Sherlock” ti avrebbe detto di aspettare davanti alla porta e poi non ti avrebbe aperto, ma devo smetterla di comportarmi a quel modo.

La salita è rapida, per non sprecare fiato hai persino smesso di lamentarti.

La vasistas del bagno è socchiusa, c'è solo un impedimento: l'impalcatura non ci arriva.

Scavalco.

 

«James!» esclami allarmato.

 

«Resta lì.» ti ordino.

 

Ora non ho tempo di preoccuparmi per te, il cornicione è stretto.

Sarebbe davvero comico morire precipitando da qui.

Raggiungo la vasistas e sfondo il vetro con il calcio della pistola, tolgo la maggior parte dei frammenti e mi isso sul davanzale, mentre lo faccio ti guardo.

Sei pallido come uno straccio.

Ti sorrido e sparisco all'interno.

Il bagno ha un aspetto normale, piuttosto disordinato, il che mi indica che Roberts vive da solo, nessuna donna lascerebbe mai un asciugamano appallottolato sul bordo della vasca.

Lo tocco, è asciutto, non lo era quando vi è stato posato, Roberts si è fatto una doccia prima di uscire, ovunque egli sia andato. Non un bagno, non c'è nemmeno il tappo per la vasca, il nostro uomo era un uomo d'affari con ben poco tempo da concedere al relax.

La mia conferma al fatto che vivesse da solo viene dall'unico spazzolino sul lavandino. Apro il mobiletto: rasoio elettrico (nessun pettine: calvo), lenti a contatto (miopia lieve), farmaci generici, antistaminici e anche un broncodilatatore (asmatico, allergie stagionali).

 

«James!» sussulto, quando la tua faccia sbuca dalla finestra.

 

Mi volto, bruscamente. «Ti avevo detto di...»

 

«Sta' zitto e dammi una mano!» mi ringhi contro.

 

Ti aiuto ad entrare e mi rendo conto che ti tremano le gambe.

Non hai mai sofferto l'altezza.

Oh...

Certo, non l'hai mai sofferta prima.

 

«Ti avrei aperto la finestra della camera, non serviva che...»

 

«Sì. Serviva.» tagli corto, chiudendomi fuori da processi mentali che non capisco.

 

Emotivi.

Cosa stai cercando di dimostrare e, soprattutto, a chi?

A me, o a te stesso?

 

«Non è rischiando di precipitare nel vuoto che mi confermerai di esser in grado di lavorare con me.» provocazione, giusto per avere conferma.

 

«Non l'ho fatto per te.»

 

Ok, dovremmo fare un salto anche sul tetto del Bart's per farti passare del tutto anche questo trauma, prima che io mi allontani definitivamente da te.

L'idea di star pianificando la mia definitiva “dipartita” è atterrente, ma necessaria.

 

«Cos'abbiamo?» mi chiedi.

 

Tanti problemi, John, davvero tanti, ma non mi stai chiedendo questo.

 

«Dimmelo tu.» rispondo, indicandoti il bagno.

 

Ed ecco di nuovo il tuo disagio. «Non aver paura di sbagliare.»

 

Ti schiarisci la voce. «Questo bagno è un casino, vive da solo. Denise mi da il tormento se solo lascio cadere una goccia d'acqua sul pavimento, dopo aver fatto la doccia, qui è un macello.» mi dici, indicando verso il basso.

 

Non avevo ancora controllato il pavimento.

Curioso tu l'abbia fatto prima di me.

Evidentemente la lezione della tua fidanzata sulla preservazione del bagno ti è rimasta particolarmente impressa.

Il pavimento è in marmo, un materiale noioso e costoso, macchiato tutt'intorno alla vasca perché l'acqua non è mai stata asciugata con un panno, dopo le varie docce.

Non molte, nonostante tutto.

Roberts non abita qui da molto...

Un anno, a livello approssimativo, considerando il degrado delle mattonelle accanto alla doccia e paragonandolo con quelle lontane che, invece, sono ancora in condizioni quasi ottimali.

Ha qualcuno che si occupa di fargli le pulizie, una domestica, un uomo che non si preoccupa di lasciare macchie sul proprio pavimento, di certo, non perderebbe tempo a passarvi la cera.

La domestica è un incapace, però, la cera non è passata in modo omogeneo, ma è un dettaglio irrilevante.

 

«Altro?» ti sprono.

 

Ti avvicini al mobiletto e raggiungi, in breve, le mie stesse conclusioni per quel che riguarda le allergie stagionali.

Non noti le lenti a contatto, non capisci che è calvo, né che si sia trasferito qui un anno fa, circa e che abbia una domestica, ma, pazienza, non si può avere tutto.

Sono, comunque, molto fiero di te, quando ti ho conosciuto eri del tutto incapace di arrivare a capo delle deduzioni più elementari, adesso, invece, noto con piacere che ti vengono con naturalezza.

Bravo, John.

Ti sorrido e ti do una pacca sulla schiena, proseguendo fuori dal bagno.

 

«Beh?» mi chiedi, impaziente.

 

«Cosa?»

 

«Erano giuste? Le deduzioni, intendo.»

 

Sorrido. «Non mi pare di averti corretto. Sei stato bravo.» ti faccio notare.

 

Arrossisci, imbarazzato.

No, non voglio dirti che hai saltato delle cose, o che dettagli importanti nemmeno li hai notati.

Lo terrò per me e fingerò di aver raggiunto le conclusioni mancanti grazie a qualche altro dettaglio.

Forse questo è uno di quegli slanci d'altruismo di cui parlavamo poco fa, ma c'è una cosa di cui non hai tenuto conto in quell'analisi: non ho alcun bisogno che le persone si avvedano del bene che ho fatto loro.

Le volte che sono “altruista”, non lo sono per sentire ringraziamenti o, per farmi dire quanto sono bravo.

Punto solo al risultato

Per questo i “miei tentativi” sono “talmente contorti che, a meno che non li spieghi, nessuno ci capisce niente” e, di certo, non ho alcuna necessità di edulcorare alcunché, quanto meno in questo caso.

Peccato il non poterti sbattere in faccia questa ineluttabile verità, sarebbe stato un bello smacco.

 

«Grazie.» lo mormori all'improvviso, dopo qualche istante di silenzio.

 

Scrollo le spalle e apro la porta della camera.

Puzza di chiuso, il nostro amico non si preoccupa nemmeno di aprire la finestra quando si alza, al mattino.

Il letto è sfatto e i cuscini sono in disordine, c'è una cornice tra le lenzuola, una foto che ritrae lui (calvo!) e la moglie di Lestrade, sorridono, felici in riva a un fiume (Ouse, West Sussex, probabilmente un paio di giorni di vacanza a Lower Beeding. Vacanza che Sofia ha fatto passare come un meeting o come una qualche riunione importante, agli occhi di Lestrade, che, ingenuo com'è, ci ha creduto). C'è una casa sullo sfondo, una villetta, probabilmente la seconda casa del nostro uomo. Vestiti leggeri, era primavera inoltrata o estate, il che indica che la storia tra Roberts e Sofia dura, almeno, da un anno, ma probabilmente da più tempo.

C'è anche un macchina sullo sfondo, una Mercedes Slk 250 CDI, uscita nel 2011, quindi potrebbero stare insieme, di fatto, da almeno quattro anni, rettifico.

Ti passo la foto, cosicché tu possa esaminarla a tua volta e continuo a controllare il letto.

Ci sono sette fazzoletti usati, ma nessun farmaco contro il raffreddore: ha pianto.

Non è il nostro assassino, ma, allora, dov'è sparito?

È scappato con il presunto gatto omicida di Lestrade?

 

«Non è l'assassino.»

 

«Ma è scomparso.» obbietti.

 

Oh, cielo, non dirmi che hai dato per scontato che il colpevole fosse lui...

 

«Questo non significa nulla. Non scadermi a poliziotto idiota, per favore.»

 

«Ma se non è lui, allora chi?»

 

«Non lo so, ma ho visto abbastanza.»

 

Faccio un rapido giro per il resto dell'appartamento. La porta blindata è chiusa, segno che Roberts è uscito sulle sue gambe.

Ti raggiungo in camera, spalanco la finestra e torno sull'impalcatura.

 

«Che facciamo ora?» mi chiedi, una volta in strada.

 

«Cerchiamo la sua macchina.»

 

«Per tutto il quartiere?» mi domandi, allibito.

 

Mi fermo a riflettere e chiudo gli occhi.

 

«Ciao Jim.»

 

Non ci faccio caso fino a che tu non mi picchietti su un braccio. «Quel tizio ti ha salutato.» mi fai notare, indicando dietro le tue spalle.

 

Mi sporgo a guardare, ben conscio che non possa essere, ma l'ho sentito anch'io quel “ciao, Jim”.

È inutile.

Vedo solo decine di persone percorrere il marciapiedi in entrambi i sensi e nessuna di loro mi ricorda qualcuno.

Mi si stringe lo stomaco e provo la stessa spiacevole sensazione di qualche ora fa.

 

«Cominciamo il giro?» mi chiedi.

 

«Certo... oh, no, no che stupido! La macchina nella foto era tenuta benissimo, probabilmente Roberts non la lasciava in strada, aveva un box, dobbiamo solo... cercarlo in giro.» ti rispondo a varie riprese, cercando di capire cosa stia succedendo.

 

Ti accorgi che c'è qualcosa che non va.

 

«Ti senti bene?» mi chiedi.

 

«Sì. Torno dentro il palazzo e cerco di farmi dire dove sono i box, non c'è un piano interrato. Torno subito.»

 

Ti mollo in strada e, una volta dentro l'androne, afferro il telefono.

Tre chiamate perse, tutte dallo stesso numero di questa mattina.

Chiamo Mycroft.

Non so dove voglia andare a parare, ma questo gioco non mi piace!

 

«Il numero da lei chiamato è inesistente.»

 

Riprovo.

 

«Il numero da lei chiamato è inesistente.»

 

Ancora.

 

«Il numero da lei chiamato è inesistente.»

 

Cristo!

La capacità di mio fratello di farmi perdere le staffe è quasi da entità superiore!

Prendo un respiro profondo e cerco di calmarmi.

C'è John, qui fuori, mi sta aspettando, non posso mandare all'aria tutto.

Il lavoro, devo pensare al lavoro.

Spengo il cellulare e mi avvicino a una donna anziana che è appena scesa a controllare la posta.

Sorrido.

 

«Salve, signora.»

 

«Non compro niente.» mi risponde seccamente.

 

È prevenuta.

Rido.

 

«No, no, non voglio vederle nulla, vorrei solo un'informazione, per cortesia. Scusi se le faccio perdere tempo.»

 

Lei mi sorride.

 

«Mi dica pure.»

 

Che dire? L'aria da cretino spaurito e timido funziona sempre.

 

«Devo prendere la macchina di un mio amico per portarla dal meccanico, ma il mio cellulare si è scaricato e non riesco a trovare i box. Mi aveva mandato un messaggio ma non posso leggerlo. Sarà la quinta volta che faccio il giro dell'intero quartiere!» ma sì, cerchiamo anche di farle un po' di pena.

 

«Oh, ma sono qui accanto! Chi è il suo amico?»

 

«Adam, Adam Roberts.»

 

«Il signor Roberts, che cara persona!» la signora mi accompagna sino al portone.

 

«Davvero.» sorrido.

 

Ci affacciamo entrambi e lei mi spiega che troverò i box in un piazzale sulla destra ad una ventina di metri, la ringrazio mentre guardo te, John, che ridacchi sotto i baffi.

Lascio la “cara vecchina”.

 

«Che le hai raccontato?»

 

«Ah, niente di che, ho solo detto che ero un amico di Roberts.» ti rispondo.

 

Entriamo nel piazzale dove ci due costruzioni basse con un totale di dodici box auto. Non sono in ottime condizioni, per niente, in effetti.

 

«E ti ha saputo dire anche quale sia?»

 

«Il terzo sulla sinistra.» rispondo.

 

Il tuo cellulare squilla.

 

«Scusa, è Denise, devo rispondere. È l'unica regola che mi ha dato.» mi dici a disagio, allontanandoti di qualche metro.

 

«Fa' pure.» scrollo le spalle e mi avvicino al garage.

 

Provo a girare la maniglia, ma non ruota: è aperto.

Ti lancio un'occhiata e sbuffo.

Sei ancora al telefono ed io non ho alcuna voglia di aspettare.

Sollevo la porta con parecchia fatica ed entro dentro.

I cardini cigolano e questa riprecipita verso il basso ancora prima che abbia avuto il tempo di guardarmi intorno.

Sono quasi del tutto al buio, tolto un piccolo fascio di luce che arriva da una finestrella rotta sulla parete di fondo.

Faccio per riaprire la porta, ma è bloccata, da dentro non ci riesco.

Gran bel garage, davvero... sento addirittura la puzza del legno marcio.

Ah, comunque la macchina è qui.

Allungo una mano e sfioro il bagagliaio, poi sento un ronzio, più di uno, molti ronzii.

Chiudo gli occhi e resto immobile, mentre percepisco chiaramente sei zampe muoversi sulla mano che tengo ancora appoggiata al cofano.

Tre centimetri e mezzo, è un calabrone.

Qui dentro dev'esserci un nido.

Uno impatta contro la mia nuca, li sento volare intorno a me.

Mi muovo lentamente, questi animali pungono solo se si sentono minacciati, non devo in alcun modo innervosirli.

Un nido conta, di media tra i trecento e cinquecento esemplari.

Muovo passi incerti verso destra, sperando che la macchina sia aperta e di potermici chiudere dentro. Una volta lì potrò telefonare a John e spiegargli la spiacevole situazione.

Non vedo nulla, inciampo in qualcosa e cado lungo disteso su un cadavere.

Adam Roberts, suppongo, ma ora non posso proprio occuparmene, la caduta è stata la mia fine, molti calabroni erano proprio sul corpo.

Il ronzio si fa assordante, ho qualche millesimo di secondo per decidere cosa fare. Mi levo il giubbotto e mi ci copro testa e collo, poi mi schianto contro la porta del garage.

 

«JOHN!» grido, prima che gli insetti comincino ad abbattersi su di me come grandine.

 

Il giubbotto mi protegge e anche i jeans, ma la mia schiena è coperta solo dalla maglia e i pungiglioni la trapassano, sento distintamente almeno tre punture.

Bruciano.

 

«JOHN!» urlo ancora, colpendo la lastra metallica.

 

 

 

N.d.A.: In realtà il capitolo doveva arrivare ben più avanti di questo punto, ma ho deciso di spezzarlo perché, altrimenti, sarebbe diventato davvero troppo lungo, non avrei avuto il tempo di finirlo e poi, diciamolo onestamente, è decisamente un bel modo sadico di lasciarvi XD.

Io ho il terrore degli insetti con le ali e il pungiglione, davvero, mi spaventano a morte, riesco a guardare senza batter ciglio video di autopsie, ma documentarmi su questa parte specifica mi ha provocato un senso di nausea imperante, spero che i miei sforzi vi siano piaciuti.

L'autrice non è solo sadica, in questo caso è anche masochista.

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Capitolo 9
*** Capitolo nono: ***


«JOHN!»

 

Grido ancora, mentre cerco di restare il più immobile possibile, per tentare di far calmare questi dannati animali.

Quante volte sono stato punto? Tre, quattro?

Forse di più.

Se mi agito ancora le cose non si metteranno per il meglio, ma ho brutti presentimenti, comunque.

Quanti ne ho dentro la maglietta?

Sto iniziando a gonfiarmi, il veleno è entrato in circolo, i miei bronchi sibilano e ho sempre meno ossigeno.

 

«CRISTO, JOHN!!!»

 

«James! Che succede lì dentro?!»

 

E alla buon'ora!

 

«APRIMI!»

 

Uno strattone alla porta, ma quella si apre troppo poco perché io riesca a passare, poi ricade pesantemente a terra.

Cerco di urlare qualcos'altro, ma non ci riesco, comincio a tossire, cercando aria.

La mia pelle brucia come l'inferno e i timpani quasi mi esplodono per il ronzio di queste bestie maledette.

La porta, finalmente, si apre a sufficienza e grazie all'adrenalina balzo fuori, correndo.

Faccio qualche metro, lancio via il giubbotto e mi levo la maglia, poi l'adrenalina scema, non è più sufficiente a tenermi in piedi.

Mi schianto a terra ma non sento dolore, quello delle punture e l'emicrania coprono qualsiasi altra cosa io possa provare.

Non respiro.

Il cuore martella nel petto e mi sento come se mi stessero stritolando l'addome in una morsa.

Mi porto le mani alla testa, cercando di placare almeno il mal di testa, ma è l'ultima cosa di cui mi rendo conto.

 

 

 

Non appena vide alcuni calabroni uscire dal garage, John richiuse immediatamente la porta.

Si voltò. James era a terra a qualche metro da lui.

 

«James!» gridò, accorrendo. «Oh, Cristo...» gemette.

 

Rovistò nervosamente nelle tasche della giacca e chiamò immediatamente un ambulanza, spiegandogli la situazione con estrema precisione.

Senza adrenalina non c'era niente che potesse fare. Pregò che si sbrigassero e tenne sotto controllo la situazione. Il polso era debole e il respiro quasi del tutto assente, James stava diventando cianotico.

Fu sollevato nel sentire le sirene dell'ambulanza avvicinarsi e balzò in piedi quando la vide sbucare dalla stradina che portava ai garage.

Andò incontro ai paramedici, urlando loro che cosa dovevano fare e cercò di salire, una volta che la barella venne caricata a bordo con James sopra.

 

«E' un familiare?» gli venne domandato.

 

Troppo in ansia per mentire, diede la risposta sbagliata: «No, no. Sono un suo amico, ma sono un medico!»

 

«Allora non può salire con noi.» venne costretto a terra, ma John non si mise a discutere, chiese solo il nome dell'ospedale.

 

James aveva bisogno di cure immediate, non doveva fargli perdere tempo.

Osservò l'ambulanza allontanarsi, poi corse in strada.

Di taxi nemmeno l'ombra.

Fermò una macchina di passaggio e mostrò al conducente il suo finto distintivo.

 

«Il mio collega è su quell'ambulanza!» sbraitò, aprendo lo sportello e spintonando il povero malcapitato sul sedile del passeggero.

 

Era in ansia, tremendamente in ansia.

Premette il piede sull'acceleratore e si maledì per esser tornato alla sua vecchia vita, per aver ripreso a preoccuparsi di un altro folle come Sherlock.

Non aveva ancora imparato la lezione?

Certo, non pensava che James si fosse buttato in un garage pieno di calabroni di sua spontanea volontà, però... però niente.

Ora era lì, a bordo di una macchina che aveva rubato senza tante cerimonie, accanto a un poveraccio che gli stava ponendo un sacco di domande a cui non aveva dato alcuna risposta.

Si sentiva di nuovo vivo, ma non era sicuro che questo gli piacesse.

Bruciò un semaforo rosso, continuando a ignorare le rimostranze del proprietario dell'auto e totalmente dimentico del motivo per cui Denise gli aveva telefonato: si era rotto un tubo all'asilo di Patricia e la scuola aveva deciso che fosse opportuno far andar a prendere i bambini.

Inchiodò di fronte all'entrata del pronto soccorso e scese dalla macchina, ringraziando frettolosamente l'uomo che aveva rapito per quella tratta di strada.

Entrò quasi di corsa e si fermò alla reception, chiedendo informazioni su James. L'infermiera fu gentile e gli rispose che il suo amico era fuori pericolo, che lo avevano ripreso appena in tempo e che, da lì a poco, avrebbe potuto vederlo.

Si sedette, un po' sollevato e si stropicciò il volto.

Gli era preso un colpo.

Attese con impazienza, fino a che non gli fu concesso di entrare. Venne condotto in un ambulatorio.

James lo aspettava, seduto sul letto, il volto gonfio per la reazione allergica.

 

«Come ti senti?» gli domandò.

 

Quello scrollò le spalle. «Chiama Scotland Yard e il loro inutile ispettore, digli che il cadavere di Adam Roberts è in quel garage. Adesso...» James fece per alzarsi, ma John lo spinse nuovamente sul letto.

 

«Oh, andiamo, vengo con te.»

 

«E' fuori discussione.» sentenziò il dottore. «Devi restare sotto osservazione per almeno otto ore.»

 

James, per quel che poté, corrugò le sopracciglia. «Oh, finiscila! L'anafilassi bifasica si verifica solo nel 20% dei casi, posso benissimo alzarmi e proseguire il lavoro!»

 

John lo guardò malissimo. «Ma ti senti, idiota? Riesci a malapena a parlare da quanto hai la lingua gonfia! Dove vuoi andare?! Ti hanno ripreso per i capelli!» strillò.

 

«Per l'amor del cielo, John! Non farla così drammatica! Ora sto bene e tra poco il gonfiore passerà!»

 

«Tu resterai qui, a costo di costringerti sparandoti a un ginocchio, James!»

 

 

 

Incrocio le braccia al petto, risentito.

Ce la faccio benissimo a proseguire, non sarà il bruciore alla schiena, il sibilo ai bronchi o i vari gonfiori a fermarmi è chiaro?!

Sto cercando le parole per risponderti, ma mi esplode la testa, non riesco a raggruppare coerentemente i pensieri.

 

«Me ne occuperò io. Dimmi cosa devo fare.» insisti.

 

Non ti rispondo.

Mycroft direbbe che sto facendo i capricci come un bambino.

Forse avrebbe ragione, ma non ho alcuna voglia di tagliarmi fuori dalla faccenda.

Non dopo che qualcuno mi ha fatto finire in un garage pieno di calabroni.

 

«Sto parlando con te!» mi sbraiti contro.

 

E smettila di gridare! Ti sto ignorando, non sono sordo.

Possibile che tu non capisca la differenza?

Ti muovi nervosamente per la stanza, sei furioso.

Che inutile spreco di energie...

Ti siedi al mio fianco e prendi un respiro profondo.

Ti calmi.

No.

Fingi di farlo, non sono stupido.

 

«Ascoltami...»

 

Quando qualcuno inizia un discorso con “ascoltami” provo sempre il bruciante bisogno di chiudermi le orecchie, è un po' quel che succede quando si dice “calmati” a una persona arrabbiata.

Ora sono entrambe le cose, inutile persino pensarlo.

 

«Mi hai voluto come tuo compagno, hai detto che la cosa non sarebbe stata alla pari. Bene, non la è. Io torno là, ma tu non ti muovi di qui o prendo la porta e me ne vado.»

 

Sarei quasi tentato di dirti di farlo, e di andartene non solo da questa stanza, ma anche a...

Devo calmarmi.

È imperativo.

Se la mia schiena non bruciasse come l'inferno, di certo la cosa sarebbe più semplice.

Cerco di ragionare, anche se sono in una situazione senza uscita.

Non voglio che tu te ne vada...

 

«Ora, se cortesemente vuoi smettere di comportanti come se avessi cinque anni, forse potremmo anche intraprendere una conversazione civile.»

 

E' così che rimproveri la tua bambina quando fa i capricci.

È così che mi vedi?

Come un maledetto bambino?! Io non sono un bambino!

 

«Dimmi quello che devo fare.» mi ripeti.

 

E sono costretto ad arrendermi.

Ti guardo e mi ritrovo a chiedermi se in tutto questo gran casino le mie lenti a contatto siano ancora al loro posto. Probabilmente, analizzando il mio campo visivo scarso, tu puoi vedere solo una fessura sotto il gonfiore, quindi la mia preoccupazione è del tutto inutile.

 

«Chiama l'idiota che si occupa del caso Lestrade, mettilo al corrente delle nostre conclusioni. Digli che anche Adam Roberts, collega e amante di Sofia Lestrade, è stato assassinato...»

 

«Assassinato?» mi interrompi.

 

Se ci riuscissi, roteerei gli occhi, ma non ce la faccio, quindi me lo risparmio.

 

«Dimmi in quale universo parallelo trovare un nido di calabroni nel garage di un uomo che soffre di allergie può essere una casualità? Accidenti, John, eppure l'hai esaminato anche tu quel armadietto, in bagno!»

 

Ti risenti, probabilmente il mio tono è uscito troppo accusatorio e ti ho offeso.

Mi dispiace.

Non sono Sherlock, non posso permettermi di darti dello stupido senza che tu te la prenda.

 

«Scusa...» borbotto, resistendo all'impulso di grattarmi la schiena, cosa che andrebbe solo a peggiorare le mie condizioni. «Non ho passato un pomeriggio piacevole.» cerco di giustificare la mia scortesia e di stimolare il tuo senso di pietà.

 

Dovrebbe funzionare.

 

«Non fa niente.» dici.

 

No, non ha funzionato, hai solo deciso di soprassedere. Un'altra cosa da farmi perdonare.

L'elenco sta diventando infinito.

 

«No, sul serio, non volevo sminuirti...»

 

«Finiscila.» mi abbai contro. «So perfettamente quali sono i miei limiti, James e non mi offendo quando mi vengono fatti notare.»

 

Ammutolisco.

Forse è meglio, perché comunque faccio, faccio peggio.

 

«C'è altro?» mi chiedi.

 

Scuoto e chino la testa.

Ti rialzi e mi dai una pacca su un braccio. Sorridi.

Forse è vero che non te la sei presa.

 

«Ci vediamo tra otto ore.» mi notifichi.

 

E ora capisco perché hai sorriso. Ti stai prendendo la tua rivalsa.

Il punto va a te, questa volta.

Mi stendo su un fianco, mi ci manca solo di posare la schiena al materasso...

Saranno otto ore molto, molto lunghe.

Allungo una mano sino al comodino e afferro il mio cellulare.

Meglio occupare questo tempo in modo proficuo.

Compongo il numero di Mycroft perchè, no, nonostante tutto, non mi sono affatto scordato del suo giochino idiota.

 

«Il numero da lei chiamato è inesistente.»

 

Ancora?!

Ma quanto vuoi tirarla per le lunghe?

Su, Mycroft, sicuramente sai cos'è successo...

Ok che la parte del fratello maggiore preoccupato non ti è consona per qualche puntura di calabrone, ma non potresti sospendere le ostilità solo per un po'?

Sei davvero pesante, sai?

Non costringermi a venire sino in brughiera anche questa sera, non ne ho affatto voglia...

 

 

 

«E lei mi ha davvero chiamato qui per questo?! Per delle congetture basate sul nulla?!» esclamò il detective Moore.

 

John provò il desiderio di tirargli quel cazzotto che Mycroft gli aveva avanzato qualche giorno prima, ma si trattenne.

 

«Non sono affatto congetture basate sul nulla! Sono analisi precise e approfondite, quelle che lei e i suoi uomini non avete fatto!» strillò.

 

Moore si passò le dita sotto il colletto inamidato, dando segno di insofferenza. «E sulle parole di chi si sta basando, questa volta? Su quelle di un altro fenomeno di baraccone come quello Sherlock Holmes? Non ha imparato a dovere la lezione?» lo provocò.

 

«Lei è un incapace e un idiota e lo dimostrerò a tutti.»

 

Il dottore rientrò nel garage che, dopo un paio d'ore, era stato del tutto disinfestato.

Si chinò nuovamente sul cadavere e lo riesaminò.

Roberts era palesemente morto a causa delle punture degli insetti, ma James aveva ragione: trovare un nido nel garage di una persona affetta da allergie non poteva essere un caso.

L'assassino era furbo.

Si soffermò a pensare a quanto Sherlock si sarebbe divertito, di fronte a quella sfida e sollevò lo sguardo verso Anderson.

I loro occhi si incrociarono solo per un istante, poi l'altro si defilò prudentemente.

Anderson era sicuramente stupido, ma non tanto da andare a provocare palesemente John come, invece, stava facendo Moore.

Non si scambiarono opinioni, non si salutarono neppure.

 

«Credo che non ci sia più bisogno di lei, dottor Watson.» gli disse il detective, tirandolo forzatamente in piedi.

 

«Io, invece, sono certo che non ci sia bisogno di lei. Ci vediamo.»

 

John si allontanò, digrignando i denti.

Un buco nell'acqua, tutto quel lavoro non aveva portato assolutamente a niente. Recuperò la giacca dalla macchina aperta di James, dove l'aveva lasciata per comodità.

Sentì il suo cellulare squillare.

Rispose.

 

«John, ma porca troia!» Denise sembrava infuriata, davvero infuriata.

 

Impiegò qualche secondo per rendersi conto del perché. «Cristo... Patricia...» gemette, colpendosi la fronte con una manata. «Vado subito a prenderla...»

 

«No, John, No! Ci sono andata io, ma Cristo santo, ti ho chiamato ore fa! Dove avevi la testa?! Ti ho chiamato anche per tutto il pomeriggio e dire che avevi promesso di rispondere al telefono!»

 

«Dieci minuti e ti raggiungo in negozio. Scusami...» attaccò e salì al volo sul primo taxi, preparandosi psicologicamente ad una lunga e dolorosa discussione.

 

Ben tornati, vecchi tempi!

 

 

 

Le otto ore sono passate da un pezzo, John, dove diavolo sei finito?

Mi hanno persino fatto uscire dal pronto soccorso e ti sto aspettando da mezz'ora seduto su una panchina.

Ti ho scritto tredici sms, ma non ti sei degnato di rispondermi.

 

«Senti, amico, lascia perdere. Prendo un taxi. Jim»

 

Caccio il cellulare in tasca e mi incammino.

Sono deluso.

Ma, in fondo, che cosa dovevo aspettarmi di un uomo “tutto casa e lavoro”?

E dire che sembravi anche così preoccupato! Sono un imbecille!

Probabilmente nemmeno ci sei tornato da Roberts.

Avrei dovuto farlo io, altro che darti retta!

Salgo su un taxi e mi siedo ricurvo in avanti.

La mia maledetta faccia si è sgonfiata, ma la schiena è ancora un campo di battaglia. Meglio che non l'appoggi.

Mi faccio portare alla macchina e metto in moto. Certo, potrei andare a controllare il garage, ma, onestamente, non ho alcuna voglia di morirci dentro.

La cosa migliore è andare da mio fratello.

No, rettifico: la cosa migliore sarebbe andarmene a casa e FREGARMENE DI TUTTI!

Ma credo di essere biologicamente incapace di farlo.

Quindi quarantacinque minuti di macchina.

Di umore più pessimo di così proprio non potrei essere. Mi sento tradito.

Premo il pulsante d'apertura del cancello, ma non funziona.

Grandioso!

C'è qualcos'altro che può andare storto oggi?

Scendo e mi attacco al campanello.

 

«Chi è?» mi risponde una voce femminile che non è quella di Anthea.

 

«Chi è lei? Piuttosto!» mi lascio sfuggire, snervato. «Dove diavolo è mio fratello?!»

 

«Fratello? Ma chi sta cercando, scusi?» risponde la donna dall'altra parte.

 

Sento la rabbia montarmi dentro. «Può uscire un secondo in giardino, per cortesia?!» la domanda è gentile, ma il mio tono non è affatto cortese.

 

La porta principale si apre e compare una donnetta sui sessant'anni in pantofole e vestaglia.

Casalinga, probabilmente, ma non ho la freddezza sufficiente per mettermi a fare deduzioni, adesso.

 

«Posso fare qualcosa per lei?» mi domanda, stringendosi le braccia al petto.

 

È tesa, spaventata da me.

Fossi in lei lo sarei anche io. Mi aggrappo con le mani alle sbarre del cancello.

 

«Dica a Mycroft che tutto questo è molto, molto divertente, ma che davvero non ho voglia di giocare!» sbotto.

 

Lancio uno sguardo dentro la casa, visto che la porta è aperta e noto che l'arredamento è completamente diverso da quello che so essere l'arredamento di mio fratello.

Ho vissuto per tre anni lì dentro! So come è fatta quella casa!

Sento la morsa del panico stringermi lo stomaco.

 

«Avrà sbagliato indirizzo.» la signora tenta di essere gentile.

 

«DOV'E' MIO FRATELLO?!» grido.

 

Si ritrae e scappa verso la casa. «Se ne vada o chiamo la polizia!» mi minaccia, prima di sbattere la porta.

 

Arretro di qualche passo, per la precisione: barcollo.

Cosa diavolo sta succedendo?!

Guardo il giardino e... anche quello è diverso!

Non molto, ma diverso! La panchina è dieci centimetri più a destra di dov'era ieri sera, quei vasi di fronte all'ingresso non ci sono mai stati, la verniciatura della veranda è rovinata in più punti, usurata, Mycroft non l'avrebbe mai tollerato.

Mi rifugio in macchina, cercando di far passare l'iperventilazione.

Inutilmente.

Il cellulare squilla.

 

«Mycroft?!» esclamo, rispondendo.

 

«Chi è Mycroft? James, sono la mamma, ti ho chiamato per tutto il giorno...»

 

«C-Ci sentiamo domani. Ora non posso.» attacco e il cellulare mi scivola via dalle dita.

 

Poso la fronte al volante e non riesco proprio a spiegarmi tutto questo.

Sono confuso e nel panico.

Torno a casa a velocità folle e mi chiudo dentro a Baker Street come se fosse la mia ultima fortezza.

Non so... cosa mi stia succedendo...

 

 

 

N.d.A: Eccoci qui, anche questa volta, zitta zitta, ho scritto otto pagine, finirete con l'odiarmi in questa storia. Come vedete far stare tutto questo nello scorso capitolo era piuttosto impossibile.

Spero di non aver scritto scemenze disumane sui calabroni, vi giuro che ho fatto tutte le ricerche del caso, ma non essendo mai stata punta la mia descrizione poteva solo essere prettamente teorica.

Un bacione a tutti,

Ros.

 

P.s: avendo finito la mia altra long su Sherlock è plausibile che, dalle prossime settimane, questa storia abbia aggiornamento fisso al giovedì, impegni permettendo.

 

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Capitolo 10
*** Capitolo decimo: ***


John entrò nel negozio di vestiti della fidanzata con espressione tesa e dispiaciuta.

Non fece nemmeno in tempo ad aprire bocca che la donna cominciò ad urlargli contro.

 

«Ti rendi conto di quello che hai fatto?!»

 

«Denise, ti prego, lasciami spiegare...»

 

«No, John! No! Tu non hai idea di come mi sono sentita quando la direttrice mi ha telefonato per dirmi che Trisha era l'unica bimba rimasta all'istituto! Ho dovuto chiudere il negozio e andarla a prendere a casa sua! Che avevi nel cervello, eh?!»

 

«Mi dispiace.»

 

«E pensi di cavartela con un “mi dispiace”?! Già ieri mi hai fatto prendere un colpo, sparendo di botto per ore senza nemmeno portarti dietro il cellulare! Cristo, John!»

 

«James è finito in ospedale, poteva morire. Per questo mi sono dimenticato di andare a prendere Trisha. Certo, questo non mi giustifica, ma mica potevo lasciarlo lì così, da solo!»

 

Uscirono dal negozio e Denise chiuse tutto, mentre John prendeva in braccio la bambina e si avvicinava, depresso, alla macchina.

Sistemò la piccola sui sedili posteriori e si mise alla guida. Denise gli si sedette accanto, imbronciata e furente.

La sentì prendere un respiro profondo.

 

«Che è successo?»

 

John le raccontò tutto, interrompendosi solo per scendere e, una volta a casa, per preparare la cena.

Lasciò il cellulare nella giacca, all'ingresso.

 

«Se la caverà?»

 

«Sì, ma non era per nulla scontato. L'hanno ripreso per i capelli. Dopo, beh, dopo è colpa mia. Mi ha detto di tornare ai garage e di chiamare la polizia e occuparmi di tutto. Ho dovuto farlo, altrimenti si sarebbe alzato da quel letto e sarebbe uscito sulle sue gambe.» borbottò John, giocherellando con il cibo, visto che non aveva affatto appetito.

 

Quella situazione non gli piaceva, anche perché l'aveva già vissuta molte volte con le sue precedenti fidanzate, quando c'era ancora Sherlock, ed ora questo spiacevole dejavu gli stava risbattendo in faccia tutti i pro e i contro del suo, ormai antico, stile di vita.

Trisha che, annoiata dalla discussione “dei grandi”, si era alzata dal tavolo e aveva preso fogli e pastelli, attirò l'attenzione di John.

 

«Papà, domani mi porti al parco?» Domandò, impegnandosi con convinzione nel disegno che stava facendo.

 

Il dottore tentennò e, per fortuna, Denise intervenne in sua difesa.

 

«No, tesoro, papà domani è occupato.»

 

«Ma così il Signore Triste diventerà ancora più triste, già non siamo andati oggi!» si oppose la piccola.

 

«Il “Signore Triste”?» la donna si rivolse a John con aria interrogativa e anche un po' preoccupata.

 

Quest'ultimo rise, divertito. «Non è nulla di quel che stai pensando. Il “Signore Triste” è il suo amichetto immaginario, tutti i bambini ne hanno uno, prima o poi. L'ho notato solo qualche tempo fa, perché, qualche volta, lo disegna.»

 

Denise si voltò verso la figlioletta. «Perché è triste, tesoro?»

 

«Non lo so. Forse perché non può parlare e non riesce ad esser visto da nessuno. A volte si avvicina, ma scappa subito. Si avvicina a papà, forse ha perso il suo papà e lo rivuole.»

 

John sorrise, intenerito e si alzò per sbarazzare la tavola. «Coraggio, disegnalo a mamma.»

 

Trisha annuì e tirò subito fuori dalla scatola i pastelli che le servivano, cominciando a disegnare su un nuovo foglio.

 

«Mi preoccupa questa cosa del “Signore Triste”, non è che un tizio le si è avvicinato..?» Domandò Denise a bassa voce, cominciando a lavare i piatti.

 

«Non le togliamo mai gli occhi di dosso e, tutte le volte che “l'ha visto”, era con me. No, è solo frutto della sua fantasia, rilassati.» la rassicurò John.

 

«Papà...» prese la parola Trisha. «Non ho il pastello giusto.»

 

«Il pastello giusto per cosa?»

 

«Per fargli gli occhi, te l'ho detto tante volte! Quando me lo compri?» obbiettò la piccola, mettendo il broncio.

 

«E di che colore ha gli occhi, piccola? Te lo prende la mamma il pastello.» intervenne Denise.

 

Trisha indicò il bicchiere mezzo pieno che aveva di fronte. «Del colore dell'acqua.»

 

«Per ora usa l'azzurro.» le sorrise la madre e la bimba ubbidì.

 

«Cristo, James!» esclamò John. «Dovevo andarlo a prendere in ospedale ore fa! Denise, io esco, prendo la macchina!»

 

«A che ora ritorni?» Gli urlò dietro lei, ma l'unica risposta che sentì fu quella della porta che veniva sbattuta.

 

Pochi istanti dopo Trisha trotterellò in sua direzione, agitando il disegno. «Ho finito!» esclamò pimpante, mettendolo in mano alla mamma.

 

Denise lo guardò con attenzione, studiando l'uomo che la bambina aveva disegnato sul foglio. Era alto, molto alto e, a quel che vedeva, anche molto magro, vestiva interamente di nero e aveva i capelli scuri, oltre agli occhi “del colore dell'acqua”. La sua espressione era davvero triste, perfettamente in linea con il nome che Trisha gli aveva dato.

Era troppo definito per essere un amico immaginario.

Non era convinta.

Si chinò, posando le mani sulle spalle della piccola

 

«Tesoro, questo signore si è mai avvicinato a te? Ha mai provato a parlarti? Ti ha mai toccata in qualche modo?» chiese a disagio.

 

La bambina scosse con forza la testolina, facendo ondeggiare i suoi codini. «No, no, mamma. Lui non mi guarda neanche, di solito, guarda papà. Non l'ho mai sentito parlare, secondo me non ha nemmeno la lingua! Vado a guardare la tv!» corse via.

 

«“Guarda papà...” mah...»

 

 

 

 

Più veloce.

Più veloce.

Devo pensare più in fretta. Tutto questo non ha senso, chi è quella donna?

Chi mi ha salutato, questo pomeriggio?

Un'altra dose, ho bisogno di un'altra dose. Mi schiarirà la mente, troverò la soluzione.

È la seconda, oggi.

Non ho altre opzioni accettabili.

Smetto di fare avanti e indietro per la stanza e mi siedo sul divano. Non riesco nemmeno a preparare l'iniezione, mi tremano le mani.

Non so cosa stia succedendo.

 

«Al diavolo!» grido.

 

Rovescio la polvere sul piano del tavolo e abbasso la testa, l'inalo. Non so quanta, ora sono certo di non aver rispettato il 7%.

Ci mette più tempo, ma, alla fine arriva. Mi rialzo e riprendo a muovermi per la stanza, frenetico.

Analizzare.

Devo analizzare tutto.

L'ultima volta che ho visto Mycroft?

Ieri sera, abbiamo suonato insieme.

Discusso.

Non era d'accordo sulla mia linea di condotta.

Che cosa mi ha detto?

 

«Non perdere i punti di riferimento.»

 

Mi sta mettendo alla prova?

No.

No.

Sono io quello che fa esperimenti su se stesso e sulle persone. Non è il suo stile, lui è un manipolatore, non si pone interrogativi, punta solo al risultato.

Qui non c'è alcun risultato.

Lui era... preoccupato per me, a suo modo e maniera, certo, ma preoccupato. Per la precisione: seccato, ma non arriverebbe a questo.

Non metterebbe a repentaglio l'equilibrio mentale del suo stesso fratello per dimostrare di aver ragione, ripeto: non è nel suo stile e, soprattutto, è qualcosa da cui non si torna indietro.

Mi esplode la testa.

I cortisonici entrano in contrasto con la cocaina?

Non lo so. Non credo.

Non riesco a pensare a niente che non sia... James O'Neill.

Una madre, un tizio che mi conosce.

Che lo conosce.

No, no, no, no!

Devo restare concentrato, maledizione! James O'Neill è una MIA invenzione, non esiste!

Nessuno lo conosce!

Il cellulare squilla, mi fracassa i timpani. Premo il tasto di risposta, ma non pronuncio una parola.

Non voglio sapere chi c'è dall'altro capo.

Non è vero. Voglio saperlo, ma non voglio espormi.

Con chi?

Con un'ipotetica persona che, a rigor di logica, nemmeno dovrebbe esistere?

O forse non voglio espormi nei confronti di me stesso?

 

«James? Pronto, James?»

 

John, sei tu, John.

 

«Non è... un buon momento.» ti rispondo.

 

«Ti senti male?»

 

«Professionale, ma nervoso al tempo stesso. Ti senti in colpa per avermi mollato davanti all'ospedale come un povero idiota. Senso di responsabilità. Probabilmente hai una buona ragione per averlo fatto, ma sono strafatto e non riesco a seguire il filo logico di quello che penso, tanto meno se il fulcro dei miei pensieri sei tu. Sto bene? No, per niente. Sono in paranoia. Effetto collaterale, ansia, potrei persino cominciare ad avere allucinazioni.»

 

«C-Cosa?» balbetti.

 

Cristo...

Non l'ho pensato.

L'ho detto! Te l'ho detto!

 

«James, per Dio, rispondimi!»

 

Mi hai chiesto qualcos'altro? Presumibilmente sì, ma che cosa?

Non ho registrato la tua domanda, non a livello cognitivo, quanto meno, ma ti rispondo.

La mia mente funziona meglio del mio raziocinio.

O forse peggio?

 

«221B di Baker Street.»

 

«Cosa?!» gridi nel mio timpano, poi però soprassiedi. «Ne parliamo dopo, arrivo!»

 

 

 

 

John parcheggiò per traverso sul marciapiedi di fronte a 221B e scese dalla macchina.

Tremò all'idea di rimettere piede in quell'appartamento e si chiese per qualche fortuito caso del destino James abitasse proprio lì.

Suonò il campanello, ma, come prevedibile, nessuno gli andò ad aprire. Provò una seconda volta, prima di tirar fuori il mazzo delle chiavi.

Aveva ancora quelle dell'appartamento, non le aveva mai ridate a Mrs. Hudson e lei non gliele aveva mai chieste.

Suonò ancora.

 

«James, accidenti...» Sbottò, colpendo il legno con un pugno.

 

Doveva muoversi, l'altro poteva non essere in condizioni di aprire, poteva aver bisogno... e lui non riusciva ad infilare la chiave nella serratura, paralizzato dai ricordi del passato.

Deglutì e si stropicciò il volto, chiedendo a se stesso che cosa fosse più importante, se la sua etica o le sue paure irrazionali.

Tante, troppe e, fino a pochi giorni prima, insormontabili.

La verità era che James lo stava scuotendo proprio come, anni prima, aveva fatto Sherlock. Solo che Sherlock, in un modo tutto suo e, talvolta, delirante, era equilibrato, questo James, invece, sembrava essere totalmente allo sbando.

Prese un respiro profondo.

 

«Dannazione!»

 

Infilò la chiave nella toppa e la girò con un gesto deciso, poi spalancò la porta quasi con una spallata, facendo irruzione al di là della barriera di tutti i suoi terrori.

 

«James!» chiamò, sforzandosi di non farsi trascinare via dal vortice di ricordi che stavano affollando la sua mente.

 

Salì le scale di corsa, la porta interna dell'appartamento era socchiusa.

Si precipitò nello studio che, a parte il divano scoperto e la roba di James ammassata in un angolo, era esattamente come l'aveva lasciato.

James era accucciato sotto la finestra, con la fronte appoggiata alle ginocchia strette al petto, immobile come una statua.

Accorse da lui.

 

«James.»

 

«Dodici, trentasette.»

 

«Cosa?»

 

James sollevò gli occhi scuri. «Dodici minuti e trentasette secondi. Il tempo che ci hai impiegato ad arrivare qui.»

 

 

 

 

Ed io a riprendermi.

Riprendermi, parola grossa, probabilmente non sarei in grado di raggiungere il divano senza cominciare a tremare per la tensione, ma finché resto qui immobile direi che il problema non si pone.

Ho ripreso a ragionare, una mente allenata riesce a contrastare qualsiasi droga... è la volontà che manca, mi sto sforzando moltissimo.

Ho messo via la cocaina, ma credo che questo non ti fermerà dal tentare di levarmela, comunque, magari non stasera, però.

Ti inginocchi accanto a me e, per prima cosa, mi controlli il polso.

È accelerato, lo so da solo.

Poi le pupille.

A punta di spillo, anche questo lo so.

Tremi sei nervoso e questo mi offre la scusa perfetta per averti fatto venire qui.

Non rientri a Baker Street da anni.

Paura dei ricordi?

 

«Ti porto in ospedale.» mi dici.

 

Scuoto la testa e sorrido, cacciando via temporaneamente tutti gli spettri e le domande che mi affollano la mente.

 

«Sto bene.» ti rispondo.

 

«No! Tu sei un idiota!» mi urli contro.

 

Non accenno ad alzarmi, né a muovermi e tu non lo pretendi. Lo sai che ci sarà una spiegazione razionale a tutto questo.

Bene.

 

«Guarda dove sei.» ti faccio notare.

 

E allora capisci e il tuo volto diventa livido di rabbia.

 

«ERA TUTTA UNA MESSINSCENA???» gridi.

 

No, non la era, ma mi sono salvato in extremis.

Non aspetti che ti risponda e riprendi ad urlare, la mia emicrania non ringrazia, ma pazienza.

 

«TU NON PUOI GIOCARE IN QUESTO MODO CON I SENTIMENTI DELLE PERSONE! E' IMMORALE!» sei fuori di te. «MI HAI FATTO PREOCCUPARE DA MORIRE E MI HAI COSTRETTO A... COME TI SEI PERMESSO?!»

 

Ti guardo negli occhi e inclino appena la testa. «Vuoi una vita senza il fantasma di Sherlock Holmes a tirarti i piedi nel letto, la notte. Ti sto aiutando a raggiungere l'obbiettivo.»

 

Ti rialzi e ti allontani.

Presumibilmente per non mettermi le mani addosso. In effetti sarebbe un po' come sparare sulla croce rossa, in questo momento, e tu non sei tipo da farlo.

Lo sai che sono strafatto, questo non ho potuto nascondertelo.

 

«SEI... SEI UN BASTARDO!»

 

«Lo so.» ammetto con un sorrisino. «Dimmi come ti senti.»

 

«Come se volessi ammazzarti!» ringhi, senza peli sulla lingua.

 

«Molto bene.»

 

Ogni parola che esce dalla mia bocca è perfettamente calibrata per farti perdere le staffe.

La rabbia va bene, la rabbia fa bene.

Ti farà sentire di nuovo vivo e, quando ti sarai calmato, riuscirai a razionalizzare la cosa.

Ti chiudi in un silenzio furioso, mentre il tuo petto si muove rapidamente, in iperventilazione.

È curioso come “la mia scusa” si sia rapidamente trasformata in “direttiva primaria”.

Continui a guardarti intorno, i tuoi occhi si sono fatti lucidi.

 

«Io abito qui.» ti notifico. «Quindi se stai pensando di non voler più metterci piede (lo so che lo stai pensando), sappi che non te lo permetterò.»

 

«SMETTILA!» gridi.

 

«Di fare che cosa?» ti domando, curioso.

 

«DI PARLARE DA SOLO, COME SE QUELLO CHE PENSO DAVVERO NON ABBIA ALCUNA IMPORTANZA!»

 

«Ho sbagliato la mia valutazione?»

 

Chini la testa, sconfitto. «N-no...» ammetti. «No. Era corretta.»

 

«Quindi...»

 

Ti volti a fulminarmi con lo sguardo. «Non so se sia la droga a renderti uno stronzo, o se tu lo sia di natura, ma non ho intenzione di stare qui ad ascoltarti un minuto di più!» punti alla porta come una furia.

 

«Ci vediamo domattina!» ti urlo dietro con tono allegro.

 

La porta al piano inferiore sbatte e la mia finta allegria serpeggia via. Chiudo gli occhi, esausto.

Scampato pericolo...

Per questa volta...

 

 

 

N.d.A.: Siccome le sfighe non vengono mai da sole, oltre gli impegni di vita ho anche problemi di connessione, cercherò di risolverli. Spero che il capitolo vi sia piaciuto.

Un bacione!

Ros.

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Capitolo 11
*** Capitolo undicesimo: ***


Dicono che al mattino le cose appaiono più chiare.

Lo dicono, è vero.

Ma non è affatto così, non per me.

Sono uscito di casa molto presto, devo fare diverse cose prima di andare a prender John.

Chissà se, durante la notte, è riuscito a sbollire...

Ne dubito, ma, sicuramente, si è calmato a sufficienza dal non prendermi a pugni appena gli comparirò di fronte.

Me lo meriterei?

Non so. Il fine giustifica i mezzi, sempre ed io non posso scoprirmi, non senza aver capito, prima, che cosa stia succedendo.

Torno a casa di Mycroft, o, meglio, a quella che ho sempre creduto essere casa sua.

Forse non dovrei capitolare così di fronte al dubbio.

La verità è che il panico se n'è andato, per il momento ed è subentrata la rassegnazione.

Inizio sul serio a pormi domande: se Sherlock Holmes non esistesse più nemmeno per me?

Cosa comporterebbe?

Sarebbe tanto male?

 

Spio la padrona di casa dalle finestre.

È una donna normale, come ho detto: pensionata.

Per il momento si è alzata, ha fatto colazione, guardando una squallida telenovela e ha sistemato la cucina.

Niente di sospetto.

Come previsto l'interno è completamente diverso da come la ricordavo (da come credo di ricordarlo?).

Punto primo: c'è una carta da parati di un improbabile viola, una cosa che Mycroft mai avrebbe tollerato.

È scrostata e rovinata in più punti, segnale che non può essere stata applicata di recente.

Sto cercando di convincermene?

No, mi sto semplicemente arrendendo all'evidenza.

Persino il pavimento è diverso.

Mycroft aveva il paquet, ora c'è solo una polverosa e sporca moquette grigia-fumo.

L'arredamento è un'offesa al buon gusto, mi fa pensare a una casa di bambole con quei mobili in finto legno dipinti con colori pastello.

Disgustoso, questo posto è davvero disgustoso.

Mycroft non ci metterebbe piede neanche se costretto e nemmeno io...

La signora continua a fare le sue faccende.

La vita di una casalinga pensionata è davvero drammatica...

Qualunque sia la mia condizione attuale, beh, almeno non sono in queste condizioni e, se vado avanti così, non ci arriverò mai.

Scavalco la cancellata e torno in strada.

Ah, ovviamente non c'è più traccia di nessuno degli innumerevoli sistemi d'allarme che Mycroft aveva messo.

 

Sono calmo, credo di esserlo, quanto meno.

Ritorno verso Londra, ma non è ancora il momento di andare da John.

Lascio la macchina in doppia fila e scendo, diretto al Diogenes Club, forse uno di quei misantropi saprà darmi qualche informazione.

Svolto l'angolo e noto delle impalcature, avanzo quasi correndo e inchiodo di fronte al portone.

Non...

Non c'è più nemmeno la targa...

Non c'è più nulla!

D'accordo.

Ora sono di nuovo spaventato.

 

«Ehi!» grido, rivolgendomi ad uno degli operai.

 

«Che c'è? Ho da fare! Se sei qui a lamentarti per il rumore puoi andare a farti...»

 

«No!» lo interrompo, ci manca solo di mettermi a litigare con un muratore. «Volevo solo... un'informazione.» la mia voce esce un po' stridula.

 

«Dimmi, ma datti una mossa!»

 

«Da quanto vanno avanti i lavori, qui? Che fine ha fatto il club che c'era prima?»

 

«Il cantiere è aperto da un paio di settimane. Per il tuo club, beh, che vuoi che ne sappia? Ti sembro uno che frequenta dei club? Cerca su internet.»

 

Smette di considerarmi ed io me ne torno, mesto, alla macchina.

Non c'è più nemmeno il Diogenes Club.

Poso la fronte al volante e chiudo gli occhi, cercando di riflettere.

Quando ci sono stato l'ultima volta?

Io...

Non me lo ricordo.

Non so nemmeno se ci ho messo piede in questi tre anni.

Devo calmarmi.

Niente “club dei misantropi”...

So per certo che Mycroft preferirebbe morire, piuttosto che vedere il suo prezioso circolo chiuso.

Era il suo fiore all'occhiello. La dimostrazione lampante della sua eccentricità nella banalità: un posto dove persone che detestano la compagnia, possano riunirsi insieme.

Una contraddizione in fieri.

Un controsenso che funziona.

Insomma, il suo più grande successo...

Recupero il cellulare dalla tasca e scorro la lista delle chiamate.

 

Mamma” leggo.

 

Perfetto...

So per certo di non aver mai memorizzato il numero di mia madre su questa scheda. Per lei Sherlock è morto, come per tutti gli altri.

Non avrei avuto ragione di farlo.

Controllo il numero e non corrisponde.

 

E va bene.

 

Premo il tasto di chiamata e porto il cellulare all'orecchio.

Squilla.

Prendo un respiro profondo, preparandomi ad affrontare l'inaffrontabile.

Come si può dare una spiegazione razionale quando si mette in dubbio la propria stessa mente?

 

«Pronto?»

 

Eccoci, è sempre la stessa donna.

Ho due opzioni:

 

1): fare il diavolo a quattro, minacciare questa donna e ordinarle di spiegarmi cosa sta succedendo. (Fallimentare. Non caverei un ragno dal buco in ogni caso).

 

2): Essere... beh, James...

 

«Ciao... mamma.»

 

«Oh, finalmente ti fai sentire! Era anche il caso! Ti sembra normale trattarmi in questa maniera?! Che fine avevi fatto? Ho dovuto chiedere a tutti quelli che ti conoscono per riuscire ad ottenere il tuo nuovo numero.»

 

Rimprovero, rancore, preoccupazione.

Questa donna è sincera, o, almeno, credo. Non ho elementi per capire se stia mentendo o meno.

La testa mi esplode.

Come faccio ad andare avanti in questo modo?

 

«Ho avuto... da fare. Mi dispiace.»

 

«Che cosa devo fare con te, Jim? Dove sei, adesso? Dove vivi? Come vivi? Hai bisogno di soldi?»

 

Mi sento persino in colpa.

Quanto mi sento coinvolto dal personaggio che sto interpretando? A che punto è arrivato il transfert?

Lo è davvero?

Sto davvero parlando con qualcuno o sto solo immaginando di farlo? E se fosse il mio cervello a star ricreando questa sorta di realtà alternativa in cui James O'Neill è reale?

No, da scartare.

John era con me, ieri. È stato lui a sentir qualcuno salutarmi, non io.

 

«Sono a Londra e sto bene. No, non ho bisogno di nulla.»

 

«Fai ancora il rappresentante?»

 

Sgrano gli occhi.

Lo sa!

Conosce il mio “lavoro di copertura”!

 

«S-sì... Ora devo andare, ci sentiamo.»

 

Chiudo la telefonata perché non riesco più a sostenerla.

Mi tremano le mani.

Non so più cosa pensare.

Il telefono squilla di nuovo. Controllo.

Sei tu, John. La mia ultima ancora, l'ultima cognizione di me stesso che mi rimane.

Me stesso in quanto Sherlock Holmes.

Vero sino a che punto?

Rispondo e non dico assolutamente niente.

 

«Sei solito rispondere sempre con il silenzio?» mi borbotti contro, irritato.


Come previsto non ti sei calmato a sufficienza per essere gentile con me.

Pazienza, devo essere realista: questo è l'ultimo dei miei problemi.

 

«Mi hai chiamato, quindi parto dal presupposto che sia tu quello che deve dirmi qualcosa.»

 

Una risposta impertinente ci sta sempre bene.

Sbuffi, spazientito.

 

«Io sono pronto. Quando vuoi degnarti.»

 

Metto in moto e parto.

Mio malgrado, sorrido pure.

 

«Sembri impaziente.»

 

«Sono le dieci, ormai. Mi hai dato il tormento per esser sempre disponibile a seguirti ad ogni ora del giorno e della notte e poi non ti presenti?»

 

La parola “infantile” mi rimbomba nella mente.

 

«Sto arrivando, ho dovuto sbrigare delle faccende.»

 

Senza risolvere nulla.

 

«Del caso?» esclami, risentito.

 

«No. Non ti sto tagliando fuori. Faccende personali.»

 

«Ah. Ok, scusami.»

 

Che fai, John? Ti sorprendi che una persona come me abbia “faccende personali” da risolvere?

Forse hai ragione tu.

Sherlock non ne aveva, per lui c'erano solo i casi.

O forse dovrei dire “per me”?

Chiudo la telefonata, anche perché, svoltato l'angolo, mi fermo di fronte al tuo portone.

Tu sali e sbatti la portiera.

 

«Mettiamo subito in chiaro una cosa: tu non sei Sherlock e non puoi permetterti di trattarmi come hai fatto ieri sera. Non ho intenzione di permettertelo!»

 

«Buongiorno anche a te.» ironizzo.

 

«Non prendermi in giro. Sono molto serio.»

 

Ti guardo con un po' di compatimento negli occhi. «Sei un dottore, lo dovresti sapere.»

 

«Dovrei sapere che cosa?»

 

«Che spesso le medicine sono amare.»

 

Incroci le braccia al petto e non mi guardi. «Non... No, lasciamo perdere. Dove stiamo andando?»

 

«In centrale. È tempo che io conosca il nostro esimio detective. A proposito: com'è andata ieri?»

 

Mi racconti del pomeriggio che hai passato e dell'ottusità di questo Moore.

Non mi aspettavo che il detective incaricato fosse una cima, questo no, ma nemmeno un tale imbecille.

Dovremo anche parlare con Lestrade, considerato che, al momento attuale siamo in un vicolo cieco.

Parcheggio di fronte a New Scotland Yard e prendo un respiro profondo.

Non entro lì dentro da tanto tempo...

Presumo che sia come andare in bicicletta.

Tu mi precedi, John, quasi a volermi indicare la strada. La conosco, ma è gentile da parte tua.

Bussi alla porta del nostro detective ed entri prima di ricevere risposta.

 

«Ancora lei?!» esclama, nervoso, il nostro uomo.

 

Mi fermo sulla soglia, mentre tu entri, ti accomodi e cominci a battibeccare.

Non vi sto nemmeno a sentire, quello che dite non ha alcuna importanza.

Osservo Moore, invece, e non riesco a non trattenere uno sbuffo. Scotland Yard va sempre peggio in quanto ad assunzioni.

Per l'amor del cielo, non sono mai stati dei geni, ma ora stiamo precipitando sempre più in basso, o forse è solo il mondo che si sta progressivamente abbassando a livelli standard sempre più vergognosi?

Non lo so, ma non è importante.

Il detective è: giovane.

Single, non ha segni di anelli sulle dita e, ovviamente, non ne porta.

Stressato, posso riconoscere i segni di un orticaria da stress spuntare dalla pelle sotto il polsino e sotto il colletto.

Arrogante, la sua stessa postura lo dimostra, petto in fuori, posa marmorea, aggressiva, sguardo saldo e deciso.

Forse avrebbe potuto essere un buon venditore.

No, rettifico, anche per quello ci vuole cervello e il nostro uomo, qui, non ne ha molto.

Continua a ripetere in modo quasi compulsivo le stesse frasi:

 

«Abbiamo già preso l'assassino, dottor Watson, non ho alcuna intenzione di stare ad ascoltare le farneticazioni di uno squilibrato come lei!»

 

I suoi abiti sono ben stirati e ben lavati, probabilmente vive ancora con i genitori ed è la madre ad occuparsene. La gonnella di mammina è il suo tallone d'Achille, forse si fa comandare a bacchetta.

Plausibile. Sfoga la sua frustrazione sul posto di lavoro e sono anche certo che, di fronte a persone diverse da noi, Moore riesca anche a spuntarla, ma con John...

Sorrido.

John lo mette in discussione, parla velocemente e non gli da nemmeno il tempo per ribattere.

Sono... fiero di lui.

All'improvviso il detective solleva lo sguardo.

 

«E lei chi è?!» mi abbaia contro. «Quando è arrivato?»

 

Però, che occhio! Sono qui immobile dall'inizio della conversazione.

 

«A ben vedere ci sono sempre stato.» ridacchio, mentre avanzo e mi siedo accanto a John.

 

Scambio uno sguardo con lui che sembra divertito quanto me.

Decido di rincarare la dose.

 

«E dire che “l'osservazione” dovrebbe essere uno dei requisiti fondamentali per fare il suo lavoro.»

 

Moore diventa livido e incrocia le braccia al petto. Ha capito di essere in netta minoranza.

 

«Agente O'Neill.» mi presento, posandogli il distintivo sulla scrivania.

 

«L'unico 007 che si fa quasi ammazzare da dei calabroni! Bene, vedo che è una cospirazione! La manda quel Mycroft Holmes?»

 

Al nome di Mycroft sussulto, tanto che tu, John, mi guardi, confuso.

Lascio perdere la provocazione sui calabroni, anche se sarei curioso di scoprire come si sarebbe comportato lui al mio posto.

 

«Chi mi manda non ha importanza. Voglio vedere il corpo di Sofia Lestrade e quello del suo amante, Adam Roberts.»

 

Si alza dalla sua sedia e mi fa cenno di seguirlo.

Lo faccio, ma, a un certo punto mi fermo.

 

«Il dottor Watson lavora con me.» esclamo, voltandomi verso di te, che già ti eri arreso alla prospettiva di dovermi aspettare.

 

«E lo porti...» bofonchia Moore.

 

Tu ti alzi e mi sorridi.

 

«Grazie...» mi sussurri a mezza voce.

 

Ti do una pacca sulle spalle e insieme raggiungiamo il nostro amabile ospite.

 

 

N.d.A.: Scusate il ritardo, ho problemi al pc sempre più invalidanti, oltre che pochissimo tempo, in questo periodo! Per chi mi segue anche sull'altra storia in corso, sto per aggiornare anche quella!

Ancora mille scuse!

Ros.

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Capitolo 12
*** Capitolo dodicesimo: ***


Gironzolo attorno al tavolo metallico dell'obitorio, ascoltando annoiato le risoluzioni del coroner.

 

«John?«» Ti interpello, sono davvero stanco di sentire la voce saccente di questa mummia da museo.

 

Ti schiarisci la voce ed esiti. Di che hai paura?

Ho un dejavu, piacevole: hai la stessa espressione di quando ti interpellai la prima volta per il caso della “Signora in Rosa”.

Ti senti sotto pressione e, nonostante tu sappia bene di essere un professionista, hai paura di sbagliare.

Mi chiedo se questo tuo timore sia fine a se stesso o se, al contrario, tu abbia paura che io ti faccia sfigurare di fronte al detective Moore e al coroner (di cui non ricordo il nome).

 

Al di là di questo, un altro dubbio mi attanaglia la mente: ricordo davvero di averti visto fare quell'espressione in mia compagnia, oppure è solo una ricostruzione mentale di James O'Neill?

 

«James?» Mi fai.

 

Precipito di nuovo sulla cruda realtà e ti guardo, perplesso.

 

«Come?»

 

Temo di non aver sentito nemmeno una parola e non è la prima volta, in questi ultimi giorni.

Distrazione.

Troppe cose mi distolgono, ma questo lo sapevo già e quasi rimpiango i momenti in cui non riuscivo a ragionare perché il mio intero flusso mentale era concentrato su di te.

I dubbi che mi attanagliano adesso sono molto peggio.

Questa volta non solo sono impreparato, ma sono io per primo a mettermi in dubbio.

Ma in dubbio su cosa, di preciso?

 

«James, stai bene?»

 

No, per niente.

Ho mal di testa.

 

«Sì, scusa. Mi ero distratto un attimo.»

 

Sei apprensivo forse inizi ad intuire cosa ci fosse sotto alla scenetta di ieri sera.

Non sei stupido.

Dovevo aspettarmi che non credessi del tutto alla storia del “farti tornare a Baker Street”.

Inizi a porti domande sui reali problemi di James O'Neill, i miei problemi.

Quanto riesci a scrutare al di sotto della superficie?

Mi guardi ancora, come se, d'improvviso, potessi dire: “No, non sto bene. Ho bisogno di aiuto. Guardami, John, guardami. Sono io...”.

Ma non lo farò e nemmeno tu.

Ti schiarisci ancora la voce e mi fai il riassunto.

Fastidioso.

 

«La signora Lestrade è morta per un colpo d'arma da fuoco alla testa, sparato a distanza ravvicinata, preceduto da altri due colpi, uno al pube e l'altro al petto. Sul corpo ci sono segni di percosse e di lacerazioni inflitte prima della morte. Che cosa stai cercando?»

 

Non rispondo e sollevo il corpo della donna, provo ad esaminare il collo, ma come avevo previsto, il colpo è stato sparato con un'angolatura molto precisa che mi rende impossibile stabilire se sia stata tramortita, prima di essere portata nella stanza da letto.

Io SO che è così, ma non posso provarlo.

Ci sarebbero le tracce di sangue sul divano e quelle sulle lenzuola, ma dubito che questi ritardati di Scotland Yard mi darebbero credito.

Lestrade lo avrebbe fatto, ma, ops!

Lestrade dobbiamo scagionarlo.

 

«Che mi dici dei polsi?»

 

«Ci sono segni...» Comincia il coroner.

 

«Non l'ho chiesto a lei.» Lo zittisco bruscamente. La realtà è che nemmeno vorrei qui lui e il sedicente detective.

 

«E' stata legata, ma questo si vede anche dalle foto della scientifica...» Rispondi tu, John, come se il “tu” potesse avere altri significati, nelle mie condizioni attuali.

 

«Guarda meglio» Insisto.

 

Ubbidisci, ma non vedi.

Come al solito.

 

«Le ferite sono molto simili. Quasi identiche, il che indica due cose.»

 

«Tutto questo è privo di senso!» Esplode il detective Moore.

 

Curioso, l'ha detto a priori.

Tutte le altre volte, almeno, mi lasciavano parlare. Certo, Sherlock Holmes questo diritto se l'era meritato.

Prendiamo come ipotesi che io non sia Sherlock Holmes. Ipotesi legittima, dato lo stato attuale delle cose...

Perché mi troverei così in sintonia con lui?

Stessa mente?

Stesso metodo deduttivo di ragionamento?

Sto cercando qualcuno come me?

Sono un mitomane?

 

Quest'ultima spero di no.

 

John ha ripreso a battibeccare con Moore e dobbiamo ancora guardare un altro cadavere.

Sarà una lunga mattinata...

 

«Posso parlare?»

 

Sherlock Holmes non l'avrebbe chiesto.

L'avrebbe fatto e basta.

 

«No!» Tuona Moore. «Sono stanco di tutta questa faccenda, mi faccia parlare con il suo superiore!»

 

Questo potrebbe essere un problema.

Anche a me piacerebbe tanto parlare con “il mio superiore”.

Penso che, non appena potrò, farò una visita al palazzo del governo e cercherò di capire meglio la situazione.

 

«Temo sia impossibile.» Rispondo schiettamente.

 

Del resto, lo sarebbe anche se Mycroft fosse disponibile, per cui...

 

«Ora, vuole farmi fare il mio lavoro o forse preferisce che dica che si fa ancora stirare le camicie da sua madre? Probabilmente le prepara la colazione al mattino, mi chiedo se le rimbocchi anche le coperte.»

 

Un po' d'impertinenza fa sempre bene.

Il detective Moore arrossisce di rabbia ed ha tutta l'aria di volermi prendere a pugni (non adesso, non ne ho voglia...), tu sghignazzi apertamente. Nemmeno cerchi di dissimularlo con un colpo di tosse.

Il coroner, invece, non ha capito niente e passa lo sguardo da me a te a Moore senza alcuna cognizione logica.

Che torni a tediare i suoi cadaveri, loro non possono subire gli influssi della sua stupidità.

Ok, fine della ricreazione.

 

«Indica due cose, come stavo dicendo. La prima che la vittima è stata legata simultaneamente o quasi, altrimenti uno dei due polsi risulterebbe più livido dell'altro. Ora, detective Moore, facciamo un piccolo esperimento...» Mi avvicinò a te, John e, con uno strattone m'impossesso del cordino del cappuccio della tua felpa.

Lo divido in due con un bisturi da laboratorio

 

«Ehi!» Protesti.

 

«Zitto, John. Allora, Detective, provi a legarmi.» Lo sprono. «Non opporrò più resistenza di quanta sia necessaria.»

 

Moore sbuffa. «E' una buffonata.» Sentenzia.

 

«Quale modo più diretto di provare una tesi se non una dimostrazione pratica a prova d'imbecille?» Lo provoco.

 

Tu mi guardi perplesso, chiedendoti dove voglia andare a parare.

E dire che è così semplice...

Beh, mi consolo, tu lo capiresti se te lo spiegassi a parole.

 

«E va bene.» Moore si leva la giacca e mi si scaglia contro.

 

La cosa lo soddisfa, come prevedibile.

Così può mostrare a tutti il suo testosteronico bisogno di attenzioni.

Come da accordi non oppongo più resistenza di quanto serva, calcolo approssimativamente la forza che potrebbe aver avuto la signora Lestrade in base al peso e alla muscolatura e mi confronto con i tentativi del nostro detective.

Ha un vantaggio dalla sua: la schiena mi fa male.

Comunque sia, fatica molto a trascinarmi verso uno dei vassoi per i cadaveri e, ne fa ancora di più per costringermici sopra.

L'impatto con il metallo è rude e la schiena mi manda una fitta d'avvertimento, frastornandomi un poco.

Il detective riesce a fissarmi un polso ad una delle aste per gli strumenti. Tiro uno strattone per cercare di liberarmi.

Fa male, ma è proprio questo il punto.

Continuo ad insistere e a divincolarmi, mi muovo, scalcio e Moore fa molta fatica per riuscire a legarmi anche l'altro polso.

 

«E ora?» Mi domanda il detective.

 

«Ora immagini di rifarlo da ubriaco.»

 

Ammutolisce, confuso.

 

«Penso sia piuttosto inutile farle notare le difficoltà che ha incontrato nel legarmi. Ora, secondo la ricostruzione da lei svolta, il commissario Lestrade, dopo essere stato a casa di John, si sarebbe ubriacato, sarebbe tornato a casa dalla moglie, l'avrebbe legata, torturata e infine le avrebbe sparato per ben tre volte con un'arma che non è stata rinvenuta.»

 

«Potrebbe averla tramortita.» Avanza Moore.

 

«Corretto.» Sorrido. «E potrebbe anche averlo fatto d'istinto. Ora prendiamo in esame la corporatura del commissario Lestrade. È un uomo abbastanza massiccio, quindi sicuramente in grado di sollevare un corpo, in condizioni normali, ma da ubriaco? Non ci sono segni di trascinamento nell'appartamento. Possibile che, già barcollante per via dell'alcool e con un carico approssimativo di sessantacinque chili, Lestrade non abbia urtato niente lungo il corridoio? E che non ci siano tracce di sangue sul pavimento, sulle pareti o sugli abiti dell'assassino?»

 

Mentre parlo continuo a tirare degli strattoni per cercare di liberarmi.

 

«Magari ha avuto fortuna, oppure la vittima era già in camera.»

 

«La fortuna non esiste, esiste solo la legge delle probabilità. Per l'altra ipotesi: improbabile, considerate le gocce di sangue sulle lenzuola e quelle sul divano.»

 

«Quali tracce sul divano?»

 

«Oh, quelle che lei e i suoi uomini non avete trovato.»

 

«Cosa?» Moore sembra infastidito, ma sento gli ingranaggi del suo cervello da primate iniziare a cigolare.

 

John si fa avanti. «Smettila di divincolarti, ti libero io.»

 

Scuoto la testa e sorrido. «Oh, no, fa tutto parte della dimostrazione. Ancora qualche minuto.»

 

«Stai sanguinando.» Mi fai notare.

 

Scrollò le spalle e guardo di nuovo Moore. «Credo sia il caso che lei faccia fare dei rilevamenti più accurati.» Lo provoco.

 

«Non ha importanza se la vittima fosse già in camera, o in salotto, o in Cina! Il colpevole è Gregory Lestrade, le prove sono schiaccianti!»

 

«Ora puoi slegarmi, John.»

 

Lo fai immediatamente e guardi i miei polsi con aria preoccupata. Ti ignoro, ma mi fa piacere questa tua premura.

Mi avvicino al corpo e sollevo un polso della vittima. Un po' del mio sangue gocciola a terra, ma non mi preoccupo nemmeno di quello.

 

«Guardate i miei polsi e guardate i suoi.»

 

«Non ci sono segni di strofinamento...» Commenti tu. «C'è solo il segno del laccio.»

 

«Bravo, John.»

 

Al complimento ti ringalluzzisci un po' e sorridi, compiaciuto.

 

«E questo che vorrebbe dire?» Domanda Moore.

 

«John?» Ti interpello.

 

«Che la vittima non ha... tentato di liberarsi...» Dici, esitante.

 

«Perché?» Insisto.

 

«Perché era svenuta, suppongo.»

 

«Corretto.» Sorrido di nuovo.

 

Moore fa per dire qualcosa, ma lo precedo.

 

«Arrivati alla dimostrazione empirica di questo, le pongo un'altra domanda. Il delitto che ci troviamo di fronte dovrebbe passare come un delitto passionale: un marito tradito che, accecato dalla rabbia, tortura e uccide la moglie. Quale piacere, o rivalsa, se preferisce, si può provare nel picchiare e torturare una donna svenuta?»

 

Ammutolisce ed io mi sento soddisfatto.

 

«Possiamo vedere l'altro corpo?» Domando al medico legale.

 

«Forse prima dovrei medicarti.» Mi fai notare.

 

Afferro un paio di asciugamani dal carrello e me li avvolgo attorno ai polsi.

 

«Non perdiamo tempo.» Sbotto.

 

L'analisi del corpo di Roberts non porta a risultati salienti.

È morto di shock anafilattico, ma non c'è modo di convincere Moore che il nido di calabroni nel suo garage non fosse accidentale.

A ben vedere non posso provarlo, ma è il solito discorso delle leggi sulla probabilità.

 

Prima di uscire dalla centrale hai insistito per medicarmi, John.

Non hai detto una parola, temo tu voglia aspettare di essere rimasto solo con me per aprire un discorso pesante.

Sei cocciuto, ben più di Mycroft e non lascerai perdere, temo...

 

«James...» Cominci a parlare ancora prima di raggiungere la macchina.

 

«Dovremmo parlare con il detective Lestrade e cercare di capire chi potesse avercela con sua moglie. Dubito fortemente che questo servirà a darci delle risposte, tuttavia, almeno un tentativo dobbiamo farlo...» Ti interrompo prima che tu possa iniziare.

 

Sfortunatamente non ho molto altro da dire, sul caso.

Potrei spremermici le meningi per ore, ma se non trovo qualche altro indizio, la verità è una: siamo ad un vicolo cieco.

Non ci sono dubbi che l'omicidio sia stato compiuto da un professionista, ma manca del tutto il movente.

Il movente...

Il movente...

Il movente...

Devo focalizzare, trovare l'elemento che stona.

Dio, di nuovo il mal di testa...

 

«Mi stai ascoltando almeno un po'?!» Mi sbraiti contro ed io sussulto.

 

La risposta, ovviamente, è: no, non ho sentito nemmeno una parola.

 

«Ero sovrappensiero. Puoi ripetere?»

 

«Sei totalmente fuori controllo e con una preoccupante propensione al masochismo.» Hai uno sguardo così torvo che quasi rimpiango il primo giorno in cui ci siamo incontrati.

 

Il primo giorno in cui hai incontrato James O'Neill, quanto meno.

Giusto, ho anche questo problema di cui occuparmi.

 

«E con ciò?» Chiedo, distrattamente.

 

«Vogliamo parlare di quanto eri fatto ieri sera?» Il tuo tono è accusatorio, mi disapprovi.

 

«Non cominciare.»

 

Ho ben altre cose per la testa per preoccuparmi della mia tossicodipendenza. Non mi vergogno a chiamare le cose con il loro nome, ma, davvero, è l'ultimo dei miei problemi.

 

«Non cominciare?!»

 

Trovo sempre il modo di farti infuriare.

Ho un vero talento.

 

«Mi aiuta a lavorare.» Chiarifico.

 

«La cocaina?!»

 

«Mh mh e no, non ho alcuna intenzione di smettere. Ora, comunque, ho da fare. Pomeriggio libero, Dottor Watson, va' a svagarti con la tua famigliola.»

 

Mi siedo in macchina e chiudo la portiera

 

«Come sarebbe a dire “pomeriggio libero”?! JAMES!!!» Mi urli contro, ma sparisco dietro la curva prima di ripensarci.

 

Un problema alla volta: ora devo pensare a Mycroft.

 

 

 

John guardò la macchina sparire e scalciò via una lattina.

James era insostenibile.

Per molti versi era molto più accomodante di Sherlock, ma per altri...

Si chiese che bisogno avesse di aprirsi i polsi a quel modo solo per dimostrare che Sofia non aveva opposto resistenza. Certo, nemmeno così era riuscito a convincere il detective Moore dell'innocenza di Lestrade, però...

Però gli era parso un gesto eccessivo, proprio come il fatto che utilizzasse addirittura la cocaina per lavorare e in dosaggi pericolosi, dato quel che aveva visto solo la sera precedente.

Si ritrovò a pensare che, se al posto di James ci fosse stato Sherlock, questa volta gli avrebbe seriamente messo le mani addosso.

 

«Sherlock ha fatto di peggio...» Mormorò a se stesso.

 

Una parte di lui gli poneva quasi l'imperativo morale di aiutare James, qualunque fosse il suo problema.

Un'altra, invece gli suggeriva con una certa insistenza di non immischiarsi, di lasciar perdere perché una cosa era certa: James, esattamente come Sherlock, sapeva trascinarlo via dalla sua vita ordinaria, ma non era per nulla convinto che il baratro di James fosse, in qualche modo, contenibile.

Combattuto dall'indecisione chiamò un taxi, sarebbe riuscito a pranzare a casa e anche a portare Trisha al parco.

Si augurò che, almeno il “Signore Triste” sarebbe stato meno triste di lui.

 

Durante il viaggio ripensò al caso.

James era stato bravo a trovare tutti quegli indizi, ma non erano sufficienti. Greg era ancora in prigione e, da come si stavano mettendo le cose, probabilmente ci sarebbe restato ancora a lungo.

Venne colto da un pensiero sconfortante: James aveva lo stesso formidabile acume di Sherlock, ma, così allo sbando, sarebbe stato in grado di arrivare a una soluzione?

Non ne era per nulla convinto.

Prese il cellulare e scorse la rubrica, indugiando un poco prima di premere il tasto di chiamata per sentire Mycroft.

Anche solo l'idea di parlare ancora con lui gli metteva rabbia, tuttavia, voleva delle spiegazioni o, forse, delle rassicurazioni.

Portò il cellulare all'orecchio.

 

«Il numero da lei chiamato è inesistente.»

 

Corrugò le sopracciglia, confuso.

In passato, quando Sherlock era ancora vivo, gli era capitato spesso di chiamare Mycroft e trovarlo “non raggiungibile”, ma addirittura inesistente...

Scrollò le spalle e si augurò che si facesse vivo, poi chiamò Denise per informarla che sarebbe andato lui a prendere Trisha all'asilo.

 

 

 

 

Entro nel palazzo del governo e punto a colpo sicuro verso l'ufficio di mio fratello.

 

«Jim!»

 

Sussulto e irrigidisco la schiena.

È una voce che non conosco.

Mi volto e un altro agente accorre, sorridente e mi da una pacca sulle spalle.

 

«Come stai? Non sapevo che ti avessero rimesso in servizio! Ti sei ripreso da quella brutta storia?»

 

Sono sgomento e credo che la mia espressione non lo nasconda affatto.

Deglutisco e cerco qualcosa da dire, ma non riesco a formulare un pensiero che non sia: ma cosa diavolo sta succedendo?!

 

«Jim, stai bene? Sei pallido come uno straccio! Cristo, forse non avrei dovuto parlare di...»

 

Ignoro quest'uomo e spalanco la porta dell'ufficio di Mycroft. Ho tutta l'intenzione di spaccargli la faccia, come minimo.

Solo che, dietro la scrivania di un ufficio che non somiglia nemmeno da lontano a quello di Mycroft, c'è un altro uomo, sulla sessantina, stempiato.

 

«Non le hanno insegnato a bussare, agente O'Neill?» Mi apostrofa con fare scocciato.

 

Mi appoggio allo stipite, boccheggiando come un pesce preso all'amo e guardo alternativamente l'uomo alla scrivania e l'agente.

Non so più nulla, nemmeno chi sono, a quanto pare...

 

 

 

 

 

N.d.A.: Come detto su FB, ho intenzione di riprendere a scrivere, nonostante tutte le mie perplessità in merito ad alcune storie, questa compresa. Mi scuso per il ritardo nel postare, ma ho avuto mesi intensi. Spero che il nuovo capitolo vi piaccia.

Un abbraccio,

Ros.

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Capitolo 13
*** Capitolo tredicesimo ***


«Allora, che cosa vuole? Se è qui per farsi riammettere in servizio, la risposta è no.»

 

Il mio... capo, credo si possa dire così, ha un'aria annoiata e, vagamente scocciata.

Ci metto qualche istante a razionalizzare la sua frase.

 

«Tornare..» Mi interrompo perché non so cosa dire, ma, per fortuna, o sfortuna lui ha qualcosa da dire.

 

Lancia un'occhiata al mio “amico/collega” e quello se ne va, seguendo un ordine implicito.

 

«Si sieda, agente O'Neill.»

 

Ubbidisco e respiro profondamente per placare la tachicardia. Sono spaventato, mi sudano le mani, ma, almeno un poco, riesco ancora a ragionare, quindi aspetto che sia il mio capo a parlare.

 

Devo raccogliere elementi per poter costruire non dico un discorso, ma almeno per smettere di boccheggiare come un pesce nel secchio di un pescatore.

Lui mi scruta, poi fa ruotare la sedia (comoda, da ufficio, classica) e apre uno schedario. Scorre le etichette con calma e naturalezza, come se non fosse mai stato in altro posto che qui.

Certo, solo che, a quel che ricordo, questo era l'ufficio di Mycroft!

Tira fuori un fascicolo e lo posa sul piano, tornando a guardarmi.

Non lo apre.

Perché non lo apre?

Sulla cartellina non c'è nulla che possa aiutarmi a intuire cosa vi sia all'interno, è una comune cartellina da ufficio, ma non è nuova.

Mi correggo: non è nuovissima. Gli angoli sono leggermente piegati e la filigrana del cartoncino ha qualche macchietta.

È ben tenuta, ma è lì almeno da qualche anno.

Ora, in teoria, io sono James O'Neill solo da pochi giorni, com'è possibile che esista un fascicolo che contenga, a livello d'ipotesi, del materiale su di me vecchio di anni?

 

«Ho, di recente, parlato con il suo terapista, agente. Può spiegarmi perché ha ritenuto opportuno smettere le sedute senza informarmi?»

 

La domanda mi coglie del tutto impreparato.

Se mi aspettavo di avere qualche elemento su cui basare un'argomentazione, beh, devo scordarmelo.

Sento una goccia di sudore colare giù dalla tempia sinistra.

Provo ad esaminare il mio interlocutore e... mi sento come di fronte ad Irene: non vedo niente, ma il motivo è ben lontano dall'essere lo stesso...

Non è che gli elementi manchino, è la mia concentrazione che è inesistente.

 

Mi schiarisco la voce e mi agito, questa sedia sta diventando sempre più scomoda.

 

«Vorrei parlare con Mycroft Holmes...» E' l'unica cosa che riesco a dire.

 

Che sia come mio fratello o come mio superiore, a questo punto non fa alcuna differenza.

È l'unica persona in grado di fare chiarezza.

L'uomo di fronte a me stringe le labbra in segno di evidente fastidio.

Ho la certezza di aver fatto la domanda sbagliata, ma non capisco il perché.

 

«Il signor Holmes non ha altro tempo da perdere con lei!»

 

Mi sbatte in faccia questa, a quanto pare, ineluttabile verità e fa male.

Lo afferro per un polso, con forza.

So perfettamente di apparire come un folle, in questo momento.

 

«Lei non capisce! Io ho bisogno di vederlo!»

 

Lui si divincola e mi guarda con ancor più severità.

 

«Non ho alcuna intenzione di affrontare, ancora, questo discorso con lei, O'Neill. Se, come immagino, è qui per farsi riammettere in servizio, la mia risposta è sempre no, non finché non avrò ricevuto un parere positivo dal suo terapista. Ora si levi dai piedi.»

 

Rimango immobile per qualche secondo, incerto se insistere in questa lotta contro i mulini a vento, oppure valutare l'ipotesi di un'indecorosa ritirata strategica.

Decido per la seconda, quanto meno per prendere il tempo di leccarmi le ferite per poi cercare di avere chiarimenti.

Sino ad ora non ho avuto alcun successo.

 

Mi alzo ed esco dalla stanza senza nemmeno salutare.

Non ho alcuna intenzione di essere gentile o rispettoso.

Svicolo fuori prima che qualche altro amico/collega possa tentare un approccio e mi rifugio in macchina.

La testa mi esplode e, se non fossi più che convinto che non servirebbe proprio a nulla, mi metterei persino a piangere.

No.

No.

Non è il momento.

Devo restare lucido.

Apro il cruscotto e guardo la cocaina e le siringhe.

È pieno giorno e sono in un parcheggio pubblico, la gente va e viene.

Non è decisamente il caso di usare la siringa.

Afferro la bustina con circospezione e ne verso un po' sul primo fogliaccio che mi capita a tiro.

Questa macchina è un vero porcile, pur di distrarmi potrei persino decidermi a pulirla.

Arrotolo una banconota e mi prendo la mia dose.

 

7%?

 

No, non direi... Ne prendo un altro po', brucia, ma dura poco, giusto il tempo che faccia effetto.

Rimetto tutto nel cruscotto e reclino la testa sul sedile. Cerco di richiamare alla memoria qualsiasi dettaglio possa essermi utile, ma ho solo una gran carrellata d'immagini caotiche e psichedeliche.

Quella di John si stabilizza, diventa nitida al di qua delle mie palpebre chiuse.

 

Perché?

Perché proprio John?

Cosa stai cercando di dirmi?

 

Oh, non essere idiota, James!

È la tua mente che sta cercando di dirti qualcosa, non John!

Ma cosa?

Abbigliamento, devo focalizzarmi sul suo abbigliamento e sul luogo.

Quello è il portone di casa Lestrade...

Ma certo!

Come ho potuto essere così dannatamente stupido?!

 

Spalanco gli occhi e metto in moto.

Devo andare da John.

Immediatamente.

Afferro il cellulare e lo chiamo.

 

Non invidio l'ipotetico vigile che potrebbe fermarmi, in questo momento, avrebbe solo l'imbarazzo della scelta: senza cintura, al cellulare senza auricolare e, cosa ben più rilevante, strafatto di cocaina e con una bella scorta formato famiglia della suddetta nel cruscotto.

Il cellulare è occupato, quindi faccio diversi tentativi, prima che tu mi risponda con un prevedibile:

 

«Pronto?»

 

C'è qualcosa che non va nella tua voce, è roca, come se stessi piangendo, o fossi sul punto di farlo.

Metto da parte i miei problemi e mi concentro su di te.

Anche perché, lo ammetto, sono curioso di sapere che cosa, nella tua vita perfetta da sitcom tedesca di serie z, possa averti addolorato tanto.

 

«Che cos'hai? È successo qualcosa?» Mi sforzo di non parlare troppo velocemente e di articolare i suoni in modo comprensibile.

 

Mi fermo al semaforo rosso e riparto con il verde, facendo uno sforzo di concentrazione titanico.

Tu non rispondi, ma posso sentire il tuo respiro pesante dall'altra parte del ricevitore.

Sei ancora lì.

 

«John?» Cerco di incentivarti, in qualche modo.

 

Prevedo chiaramente che, comunque saranno, saranno brutte notizie.

 

«Sto bene...» Borbotti.

 

Mi fa piacere, ma non è quel che ti ho chiesto.

Non solo.

Quindi ripeto la seconda domanda, quella che tu hai cercato maldestramente di evitare.

 

«Che è successo?»

 

Ancora respiri pesanti e qualche singhiozzo soffocato.

 

«Dove sei? Vuoi che ti raggiunga?» Continuo a fare domande come un cretino e, davvero, gradirei una risposta.

 

Una morsa di panico mi attorciglia le viscere.

Forse John sta facendo così perché ha scoperto che io non sono James O'Neill.

Certo, questo risolverebbe in un soffio la voragine in cui mi ha gettato questa crisi d'identità, ponendo delle solide basi da cui partire.

Ma le cose non sarebbero dovute andare in questo modo...

Cristo, Cristo, Cristo!

Non so nemmeno cosa dirgli...

 

«J-John?» Ora anche la mia voce trema.

 

«Sto bene...» Ripeti. «E' solo morta una persona che conosco, tutto qui...»

 

Il sollievo fa quasi più male del terrore cieco.

Se, poi, di sollievo si può parlare, nelle mie condizioni...

Dio mio, John, ma cosa mi sta succedendo..?

Aspetta un attimo!

Che hai detto?

 

E' solo morta una persona che conosco”.

 

Una persona che conosci, quindi che, con tutta probabilità conosco anche io.

Escludo a priori che possa trattarsi della tua compagna o della bambina, saresti molto più distrutto di così.

Non credo nemmeno che si tratti di qualche amico nato dalla tua nuova vita.

Non ti sei mai legato a nessuno di loro, quindi non piangeresti.

 

No, no, deve appartenere alla tua vecchia vita, alla tua vita con Sherlock.

Meglio non dire “con me”, non fino a quando non avrò chiarito chi sono in realtà.

 

Perché conosco tanti particolari, se non sono Sherlock?

 

Quante domande...

Troppe...

Troppe persino per il mio grottesco piacere nel risolvere enigmi.

 

«Sei ancora lì?»

 

Sono rimasto in silenzio per troppo tempo, ti sei insospettito.

 

«Sì. Sono qui.» Mi affretto a chiarire.

 

Dunque, se fosse Lestrade me lo avresti detto, quindi escludo anche che sia lui.

Poi è in carcere...

Sì, certo, ma come ex-detective.

Quanti altri detenuti li ha spediti lui, lì dentro?

O forse dovrei dire: quanti li ha spediti lui grazie a Sherlock?

 

Ininfluente, ho già scartato l'ipotesi che possa trattarsi di Lestrade.

Ma, allora, chi?

 

La mia mente focalizza il nome di Mycroft e il panico si fa di nuovo strada dentro di me. Gli occhi lacrimano al di là della mia volontà.

Mi trincero dietro alla convinzione che le sensazioni che sto provando siano dovute alla cocaina, o anche al disagio che la mi condizione mi provoca.

Senza Mycroft non sarò mai in grado di capire quel che mi sta accadendo e che ne sarà della mia vita...

Ma, forse, non è solo questo...

 

Tutte le vite finiscono...

 

Mi tappo la bocca per soffocare un conato di vomito e cerco di tornare in me.

 

«Mi dispiace...» Ti dico.

 

In fin dei conti è questo quel che si dice in certe circostanze.

Tuttavia devo sapere a chi ti stai riferendo.

Ho BISOGNO di sapere, perché il terrore che sia Mycroft mi paralizza, impedendomi di poter fare altre ipotesi.

 

«Era una persona che conoscevi bene?» Chiedo, sperando di strapparti qualsiasi tipo d'informazione.

 

Prendi un respiro profondo e io cerco di guidare dritto e di non superare i limiti di velocità, ma mi rendo drammaticamente conto che non riesco a seguire tutto contemporaneamente.

 

«Sì... la conoscevo bene...»

 

John!

Per la miseria, dimmi chi è!

 

«Era la mia ex padrona di casa...»

 

Resto imbambolato e tutto, intorno a me, si fa distaccato.

Mi sento come se fossi finito sott'acqua.

 

Mrs. Hudson..?

 

CRASH

 

Il suono del parafango che si schianta contro l'auto di fronte a settanta chilometri all'ora mi riporta alla realtà.

La spinta mi sbalza in avanti. L'impatto del petto con il volante è violento, ma appena lo avverto.

Il cellulare mi vola via dalla mano e finisce chissà dove tra i sedili.

Non m'importa.

Tutto quello che riesco a sentire è la mancanza d'ossigeno dovuta al colpo. Dura solo qualche secondo, poi sopraggiunge il dolore.

Spalanco la portiera e scendo su gambe malferme.

Tutto vortica attorno a me.

Altri conati, mi piego e riverso succhi gastrici sull'asfalto.

La signorina della macchina che ho urtato già avanza verso di me con il libretto dell'assicurazione, ma la sua espressione muta, quando mi vede e accorre rapidamente.

 

«Signore si sente bene?»

 

 

 

 

N.d.A.: Capitolo un pochino più breve, ma, nonostante vari arrovellamenti, mi sono resa conto che non poteva proprio essere più lungo di così.

Spero che vi sia piaciuto! Ah, se avete trovato qualche strafalcione, chiedo perdono, ma ho postato alle tre del mattino.

Un bacione,

Ros.

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordicesimo: ***


 

No, non sto bene. Non sto bene per niente.

La signorina è ferma di fronte a me, incerta su cosa fare. Non osa nemmeno toccarmi per non rischiare di far peggio.

Meglio che mi concentri sul quanto mi fa pena, perché se ancora penso a tutto quel che è successo nell'ultima mezz'ora non credo che il mio equilibrio mentale riuscirebbe a reggere.

Mi risollevo e barcollo nel maldestro tentativo di reggermi ancora in piedi.

 

Quanti colpi può sopportare un uomo, prima di stramazzare al suolo?

 

Prima della sua caduta l'Inghilterra, no, il mondo, giudicava Sherlock Holmes quasi come un essere intoccabile, qualcosa di superiore, immune al dolore, alla sofferenza.

Era vero?

Eppure anche lui è caduto.

Io sono caduto?

 

«Signore..?»

 

«Sto bene...» Il mio tono non è convincente, ma non mi sto nemmeno sforzando.

 

Mi porto una mano al costato per controllare i danni, non credo di aver nulla di rotto, ma, a ben vedere, non m'importa nemmeno.

 

«Non volevo urtarla, mi dispiace.»

 

«Vuole che chiami un ambulanza?» Non mi ha creduto e continua ad essere preoccupata.

 

Scuoto la testa. Ci mancherebbe giusto un'altra giornata dentro un ospedale.

 

Mrs Hudson...

 

No, non voglio, non DEVO pensarci.

 

«Sto bene, davvero. Ho solo... ricevuto una brutta notizia...»

 

Mi sto giustificando e non so perché lo sto facendo. Forse ho anch'io bisogno di conforto umano?

Non credevo fosse possibile.

L'unica certezza che ho e che, comunque io mi chiami, James, Sherlock... sono solo e la consapevolezza di questo fa male.

 

«Mi dispiace.» La signorina continua ad essere gentile.

 

Mi sarei comportato allo stesso modo se qualcuno avesse tamponato me?

In fin dei conti le ho causato un danno da (guardo il parafango posteriore della sua auto) almeno duemila sterline...

Un tempo nemmeno il denaro era un problema o, forse, questo era solo un mio desiderio insoddisfatto?

Doveva essere bello crogiolarsi nel sogno di non aver altra preoccupazione che il proprio piacere... un piacere malato, con tutta probabilità, il piacere di un folle nel risolvere enigmi.

Forse è questo che mi accomuna con Holmes, ma da quanto tempo, ormai, ho smesso di provare piacere per quello che faccio?

Sarebbe più corretto dire: per quello che dovrei fare. Il caso è a un punto morto, l'ho già detto.

Non sono in grado.

Tutto il mondo, attorno a me, vacilla.

No.

No.

E' un pensiero presuntuoso sono io l'unico a vacillare.

 

Scuoto la testa e mi concentro sul momento presente. Scambio i dati con la signorina e, finalmente, me la levo di torno.

Mi stava facendo girare i...

 

Molly! Molly Hooper!

 

Come ho fatto a non pensarci prima?!

 

Risalgo in macchina e riparto, correndo, se possibile, ancor più di prima. Sono davvero un pessimo autista e gli altri, in strada, non esitano a farmelo notare con clacson e frenate brusche.

Lascio la macchina di fronte al Bart's e mi rendo conto solo dopo esser sceso che questo è proprio il marciapiede da cui John...

Oddio, John! Il telefono!

Alzo la testa per guardare il tetto, proprio quel tetto e mi coglie un capogiro, le gambe tremano.

Difficile stabilire quale sia la sensazione che sto provando in questo momento.

 

Paura?

Smarrimento?

 

Mi sento soffocare, quindi mi affretto ad attraversare la strada, rischiando di venir travolto da un povero tassista che mi ha evitato all'ultimo momento. Ignoro i suoi insulti e proseguo verso l'ingresso tenendo gli occhi puntati a terra.

In portineria c'è un tizio che non conosco e già questo mi induce all'insano desiderio di scappare via.

Potrei sopportare un'altra mazzata?

Mi avvicino e prendo un respiro profondo.

 

«Vorrei parlare con Molly, Molly Hooper.» La voce mi esce in un sibilo incerto.

 

Il portinaio solleva lo sguardo dal cruciverba con fare annoiato. «Chi?»

 

Chiudo gli occhi e faccio appello a una calma che so di non avere. «Molly Hooper.»

 

Scorre una breve fascina di fogli. «Nessuna Molly Hooper, mi spiace.»

 

Ogni barlume d'autocontrollo viene meno. Non ragiono e non ho ben chiaro come mi ritrovi ad afferrare questo tizio e a trascinarlo fuori dalla portineria. Lo sbatto con la faccia contro il pavimento e poi... poi tiro fuori la pistola e gliela punto dritta in faccia.

 

«Voglio-parlare-con-Molly-Hooper!» Lo scandisco con aria minacciosa, tirando indietro la sicura.

 

Non ho realmente intenzione di sparargli in faccia.

Spero di non averla.

Lui striscia indietro e solleva le mani. È visibilmente terrorizzato.

 

«N-Non so chi sia questa Molly! Lo giuro!» Geme.

 

Trema e non sta recitando.

Di colpo mi sento uno stupido e metto via la pistola. Mi afferro le tempie e mi rendo conto che sono sudato.

Il portinaio non accenna a scappare. Ha troppa paura che io possa ripensarci e gli spari.

 

«Sono un agente.» Chiarifico. «Sto seguendo un'indagine.»

 

Il suo terrore si tramuta in rabbia e subito comincia a urlarmi contro tutte le ingiurie che gli passano per la testa.

Inutile dire che non vi presto alcuna attenzione. Quando, finalmente, si placa per riprendere fiato, ne approfitto:

 

«Lavorava qui qualche anno fa... Ho bisogno di rintracciarla...»

 

Non accenna ad essere collaborativo e mi chiede il numero del mio superiore per potermi fare rapporto.

Gli do quello di Mycroft e tanti auguri.

 

Una volta placati i suoi istinti vendicativi, fa una ricerca sul computer ed è così che scopro che Molly è stata trasferita, ha ottenuto un nuovo posto in un laboratorio governativo nel nord dell'Irlanda.

Mi faccio lasciare il suo numero, mi accontenterò di sentirla per telefono e spero, prego che almeno lei riesca a fare chiarezza.

Abbandono il poveraccio a cui ho rovinato la giornata e torno in macchina. Frugo nelle tasche alla ricerca del telefono e mi ricordo, per la seconda volta, che ho lasciato in sospeso la conversazione con John.

Comincio a cercare il telefono sotto i sedili e, alla fine, riesco ad afferrarlo. Ci sono ben tredici chiamate senza risposta.

Tutte di John.

Lo richiamo e il semplice gesto di premere il tasto verde mi riporta alla realtà.

 

Mrs Hudson è morta.

 

In un secondo mi arriva addosso uno sconforto che non credevo fossi in grado di sentire.

Non per la dipartita di una persona.

Non in questo modo.

Io non conoscevo Mrs Hudson.

Questo dolore non ha il minimo senso...

Sherlock avrebbe saputo come razionalizzarlo...

 

«James! Alla buon'ora!» La tua voce, John, mi arriva come una doccia fredda. Devo ricompormi.

 

«Ho avuto un incidente...»

 

Nemmeno mi lasci finire che già m'interrompi.

 

«Cosa? Dove sei? Vengo a prenderti?»

 

«Sto bene, ho solo tamponato...»

 

La tua preoccupazione m'infonde una strana sensazione. Tu sei l'unica persona per cui esisto, come dimenticarlo?

Gli occhi mi pizzicano.

 

«Ti sei fatto male?»

 

Me lo chiedi ma, in un certo senso, lo sai che la risposta è sì. Il tuo essere retorico è curioso. Sembra quasi che tu sia molto più acuto di me in tutto, ormai, John.

Che senso ha vivere ancora in questa maniera?

Non è un discorso da depresso cronico, non provo alcun desiderio di suicidarmi perché sto troppo male...

No...

La verità è che non sento di avere un posto, un ruolo, un senso.

Quando una qualsiasi creatura non ha più ragion d'esistere si estingue, perché per me dovrebbe essere diverso?

Mi guardo nello specchietto e vedo un uomo che non riconosco e per cui non c'è spazio in questo mondo.

Forse è solo la droga a parlare.

 

«James?»

 

«Sì. Cioè, no, non mi sono fatto male.»

 

«Vieni da me.» Un ordine perentorio.

 

«No, John. Hai già i tuoi problemi...»

 

«Non mi era parso di aver posto una domanda.»

 

«Ho da fare.»

 

«Non me ne frega niente!»

 

Non so come oppormi, quindi, va bene, mi arrendo.

 

«Arrivo.»

 

Metto in moto e provo a chiamare Molly. Non sono fortunato e il telefono squilla a vuoto per ben cinque volte di fila.

Il tempo che mi occorre per raggiungere casa tua, a ben vedere.

Ora che ci penso, non ci sono mai entrato...

Indugio di fronte al campanello, devo essere sicuro di poter reggere, di non crollare di fronte a te.

 

Altra cocaina?

No, non è il caso.

 

Premo il bottone e apri il portone senza nemmeno premurarti di chiedere. Una cosa un po' incauta, ma non starò qui a farti la predica. Sarebbe ridicolo.

Non mi stupisco che tu non mi abbia detto il piano e il numero dell'interno, hai supposto nelle mie deduzioni.

Prendo l'ascensore, sono stanco di fare scale, in realtà so quale sia il tuo appartamento. Suppongo di aver fatto delle ricerche.

Il mio passato o presunto tale appare sempre più confuso.

Arrivato al piano non devo nemmeno chiedermi quale sia il tuo appartamento, visto che sei sulla soglia.

Appena mi vedi corrughi le sopracciglia sei preoccupato e sdegnato al tempo stesso.

 

«Hai un aspetto terribile.»

 

«Brutta giornata.» Taglio corto.

 

Ti sposti di lato e mi fai entrare, ma mi fermi prima che possa superare l'attaccapanni.

 

«Girati.» Mi ordini, poi volti lo sguardo verso una porta sulla sinistra. «Trisha, va' nella tua camera.»

 

«Ma papà!» Una debole protesta.

 

«Su, appena ho finito vengo a giocare con te.»

 

Piccoli passi di corsa, prima sul pavimento, poi sulle scale.

Ho un aspetto così terribile che non vuoi nemmeno mostrarmi a tua figlia, John?

 

«Vieni in bagno.»

 

Mi lascio scortare sino a un piccolo bagno di servizio, non credo che sia quello principale.

 

«Hai un'epistassi.»

 

Mi porto le mani appena sotto le narici, quella parte di pelle è come insensibile. Confermo, il mio naso gocciola sangue.

Non c'è bisogno di parlare, anche se m'inventassi qualche scusa improbabile non riuscirei a sradicare la convinzione che sia stata la droga. A ben vedere non ho nemmeno voglia di inventare...

Mi chino sul lavandino per evitare di sporcare il pavimento, tampono il naso con l'acqua fredda e non commento.

 

«Hai intenzione di dire qualcosa?» Mi apostrofi.

 

«Se tu hai intenzione di chiedere.»

 

«Perché?»

 

«Non sono affari tuoi.» Una risposta secca e decisa per ovviare al fatto che non lo so il perché.

 

Prima credevo fosse per via della noia, poi della depressione, adesso la droga c'è e basta, senza ulteriori scuse.

 

«Quanta?» Il tuo tono è severo.

 

«Non lo so.»

 

Prendi un respiro profondo per placare la tua irritazione. Non ho bisogno di una paternale.

 

«Ascoltami...»

 

Mi volto di scatto e lascio perdere il naso. «No. La droga NON è un problema, John! Abbiamo cose più importanti di cui occuparci, dobbiamo incontrare il detective Lestrade. Parlare con lui potrebbe fornirci nuovi elementi. Quando hai il funerale?»

 

Sei confuso, poi realizzi e il tuo volto s'intristisce. «Domani pomeriggio alle tre.»

 

Torno al lavandino, dandoti le spalle e mi premuro che tu non possa vedermi in volto nemmeno dal riflesso.

 

«Com'è successo?» Mi tappo di nuovo le narici, mentre lo chiedo, per soffocare il tremore nella mia voce.

 

«Un infarto, niente che tu possa ritenere interessante.»

 

Niente che io possa..?

Hai ragione, ma pagherei per poterti smentire...

Mrs Hudson...

 

«La conoscevi bene?»

 

Stai annuendo, lo sento dal fruscio del maglione.

 

«Non ha mai sofferto di cuore.» La tua frase mi sorprende, cosa stai cercando di dirmi?

 

«Pensi che ci sia qualcosa di sospetto nella sua morte?»

 

Non ti basta un solo vero caso in cui brancolare nel buio? Vuoi inventartene un altro, John?

Era una donna anziana, è plausibile che sia morta d'infarto.

Questo chiude la questione.

 

«No, non penso niente.» Confessi. «Suppongo che si tratti di deformazione professionale.»

 

Buona risposta.

Riesco, finalmente, a placare il sangue.

Voglio andare via.

 

«Devo andare.» Sguscio fuori dal bagno prima che tu riesca ad impedirmelo.

 

«James!» Mi rincorri sin sul pianerottolo. «Non abbiamo finito!»

 

A ben vedere non abbiamo neanche cominciato.

 

«Ci vediamo domani, quando torni.»

 

Non ho chiaro il come sono riuscito ad rientrare a casa, il tragitto si perde in una nebbia di ricordi confusi.

Varcata la soglia vengo assalito da ricordi che non sono sicuro siano miei.

 

«Non sono la governante!»

 

«Mrs Hudson via da Baker Street?

L'Inghilterra cadrebbe.»

 

No.

Non l'Inghilterra, solo io, solo lui.

Mi accascio sulle scale e piango, piango come credo di non aver mai fatto in tutta la mia vita.

Piango perché non c'è più niente, mi sento soffocare. Non riesco nemmeno a pensare.

Tutto questo non è per la morte di Mrs Hudson, non solo...

Mi costringo ad alzarmi e a raggiungere l'appartamento.

È uguale a come l'ho lasciato: vuoto e freddo. Afferro il borsone e infilo una mano dentro, ho bisogno di coprirmi, poi voglio solo dormire, spegnermi.

Le dita sfiorano qualcosa di rigido, lo afferro, istintivamente e lo tiro fuori è un raccoglitore.

Ho quasi paura di scoprirne il contenuto. Sarei pronto a dire che non l'ho mai visto, ma...

Sollevo la copertina e deglutisco alla vista di un articolo: un articolo su Sherlock Holmes. Cominciò a scorrere le pagine, ci sono centinaia di articoli, migliaia di appunti.

 

Sono un mitomane...

 

 

N.d.A.: Eccoci qui, alla fine del capitolo quattordici. Ho una comunicazione importante da fare: avevo detto che questa storia sarebbe stata slash, ma, ancora una volta, non riesco a figurarmela tale. Siccome non voglio distruggere le speranze di nessuno, ho deciso di lasciare la decisione nelle vostre mani, se volete che lo slash ci sia, o non ci sia, o “fa lo stesso”, comunicatemelo. A seconda del responso e del numero di sì/no, io mi muoverò di conseguenza. Chiedo scusa per quest'indecisione ad oltre metà storia, ma proprio non riesco ad immaginare come potrei renderla slash, ma visto che siete da sempre così gentili nel leggermi, non posso arbitrariamente decidere di toglierlo senza interpellarvi.

Ros.

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