Un molto particolare e possibilmente fatale caso di sentimenti

di teabox
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 di 4 - Un problema di caffè ***
Capitolo 2: *** 2 di 4 - Un problema di cellulari ***
Capitolo 3: *** 3 di 4 - Un problema di baci ***
Capitolo 4: *** 4 di 4 - Un problema di bugie ***



Capitolo 1
*** 1 di 4 - Un problema di caffè ***


Nota: scusate, non voglio fare quella che scrive note chilometriche. Ci sono, però, un paio di cose che vorrei dirvi, a maniera di introduzione.
Quando ho iniziato a scrivere questa storia, l’idea era di cercare di dedicare più attenzione al punto di vista di Sherlock. Lo stile - credo - si è adattato in qualche modo di conseguenza.
Poi. La solita questione. IC? Spero di sì o, almeno, che tutto sia abbastanza IC. E spero davvero di non aver fatto casini colossali.
Finito. Grazie mille se vi fermate a leggere e, più in generale, per la gentilezza che dimostrate.

1 di 4
Un problema di caffè

Un giorno, forse, avrebbe capito.
Un giorno, forse, Sherlock si sarebbe svegliato e non solo i grandi estremi dei sentimenti gli sarebbero stati del tutto chiari, ma anche le mille sfumature tra di essi.
In quel momento, però, ancora gli sfuggivano. E non solo un po’. Praticamente del tutto.

Sedeva in una delle poltrone vicino alla finestra, le gambe incrociate e le dita puntellate sotto il mento, l’aria di chi sta cercando di decidere del destino del mondo. O meglio, in scala più ridotta, del destino di un paio di persone. Forse tre.
«John. Cellulare.»
John, seduto davanti al suo portatile, alzò gli occhi al cielo. Sbuffò. Spostò la sedia il più rumorosamente possibile, quindi portò il telefono a Sherlock. «E il tuo?»
«E’ altrove.»
«Fammi indovinare», replicò John sarcastico. «Nella tasca del tuo cappotto?»
«No», rispose asciutto Sherlock. «Altrove. Non in questo appartamento.»
John aggrottò appena la fronte. «L’hai dimenticato da qualche parte?»
«No», fu la risposta irritata di Sherlock. «Ho detto che è altrove, non che l’ho dimenticato. Adesso posso avere il tuo cellulare?»
Lui ignorò la domanda. «Aspetta. Mi stai dicendo che l’hai volutamente lasciato da qualche parte?»
Sherlock gli sorrise sarcastico. «Le tue capacità deduttive si affinano ogni giorno che passa.»
«Dove?»
«Non vedo come ti riguardi.»
John alzò un sopracciglio. «Dove?»
Lentamente e con gesti misurati, Sherlock si alzò dalla poltrona. «Al laboratorio del Barts.»
«E perché mai?», chiese John confuso. «Quando ci siamo passati non c’era nessuno, perché avresti dovuto lasciarlo lì?»
Sherlock non rispose. Allungò una mano e aspettò che gli venisse consegnato il cellulare. Quando finalmente John glielo cedette, Sherlock scrisse velocemente un messaggio, lo inviò e gli riconsegnò il telefono. Tornò a sedersi, incrociando di nuovo le gambe e tamburellando con le dita sui braccioli della poltrona.
John, ritornato davanti al portatile, esitò un istante prima di leggere il messaggio che Sherlock aveva inviato. «Cosa?», esclamò disorientato. «Non c’era. E’ in malattia, non ricordi? Ce l’ha detto quell’infermiera.»
Sherlock girò appena la testa, un’aria leggermente divertita sul volto, qualcosa che sembrava dire ah, ne sei proprio sicuro?
John rilesse il messaggio. “Molly”, diceva, “portami il cellulare. Ora. SH”. Scosse la testa. Non capiva. «Molly non c’era», sottolineò di nuovo.
Sherlock rimase in silenzio, lo sguardo fisso alla finestra e la mente bloccata su di un problema. Le dita tamburellavano un ritmo strano.
Pioveva, fuori. Pioveva terribilmente.

*

- 24 ore prima (17:00) -

Molly, francamente, non sapeva cosa pensare.
Quando aveva ricevuto il messaggio, la sua prima reazione era stata di entusiasmo. E non - solo - perché era arrivato da Sherlock. O perché si trattasse di un invito ad uscire. O di entrambe le cose. Si trattava della festa di inaugurazione di una nuova mostra che avrebbero tenuto alla Tate, evento a cui lei aveva desiderato partecipare da quando ne aveva sentito parlare un mese prima. Quindi, quando aveva ricevuto il messaggio di Sherlock che le chiedeva di presentarsi davanti all’ingresso del museo quella sera stessa - e di non preoccuparsi dell’abbigliamento, perché aveva già organizzato tutto lui - la prima reazione del suo cuore era stata di battere furiosamente di gioia.
Poi era sorto il dubbio.
La parte razionale di Molly, quella che ancora sopravviveva ai suoi stupidi voli romantici, le aveva fatto notare l’assurdità di quella richiesta. Le aveva fatto chiedere cosa volesse in realtà Sherlock. In quale ridicola situazione si sarebbe trovata. In che modo patetico avesse potuto fraintendere le sue parole.
Ma aveva riletto il messaggio di Sherlock una seconda volta. E una terza, per precauzione. E non vi aveva trovato nulla di allarmante. A parte, ovviamente, l’invito in se stesso.
Così, aveva risposto. Aveva accettato.
Non era sicura di aver fatto bene.

*

- 20 ore prima (21:00) -

Quando il taxi si fermò davanti all’ingresso della Tate, Molly aspettò un attimo prima di pagare l’autista. Non era solo nervosa, voleva assaporare quel momento.
Uscì finalmente dall’auto e tra i pochi passanti sul marciapiede vide subito Sherlock. Era vestito in modo impeccabile - come suo solito, del resto - e teneva con una certa attenzione un porta-abiti scuro. Molly, in un momento di saggia precauzione, aveva comunque indossato il suo miglior vestito nero, ma realizzò in quell’attimo che non ne avrebbe avuto bisogno. Sherlock aveva davvero pensato ad un vestito per lei.
Gli si avvicinò sorridendo, salutandolo con la mano piuttosto goffamente. «Scusami per averti fatto aspettare, il traffico era orribile.»
Sherlock la prese per il gomito e la spinse lungo il marciapiede. «Non c’è molto tempo.»
Molly lo guardò confusa. «Ma la festa sarà iniziata da meno di cinque minuti.» Notò che non stavano muovendosi verso l’ingresso, ma verso un vicolo laterale. «Dove stiamo andando?»
Sherlock non allentò la presa. «L’entrata secondaria.»
«Perché?»
«Molly», disse Sherlock indirizzandola verso una porta di metallo. «Devo chiederti un favore.»
Molly riconobbe il tono di voce.
Si preoccupò.

*

- 18 ore prima (23:00) -

La stoffa era morbida. E il vestito era comodo, a modo suo. Di ottima qualità.
Colse il suo riflesso in uno degli specchi che avevano messo nella sala. Ovviamente mi dona, pensò amaramente.
Spostò con attenzione il vassoio da una mano all’altra e riprese il suo giro tra gli invitati, offrendo cortesemente bicchieri di champagne.
Era stata una stupida. Di nuovo, aggiunse. Avrebbe dovuto capirlo, avrebbe dovuto dar retta a quella parte del suo cervello che ancora sembrava funzionare.
In un primo momento, quando aveva aperto il porta-abiti che Sherlock le aveva consegnato, non aveva capito cosa avesse tra le mani. Poi aveva realizzato. Una divisa da cameriera. Quale ironia, pensò amaramente.
Sapeva di star aiutando Sherlock, sapeva che quello che stava facendo era importante - quasi fondamentale - per risolvere un caso su cui lui stava lavorando. Eppure, nonostante tutto, non riusciva a togliere il sapore della delusione dalla bocca.
Come avesse potuto credere - e non solo per un attimo, ma per ore intere - che Sherlock l’avesse davvero invitata ad uscire, era un mistero. Anche per se stessa, a quel punto.
Continuò a camminare con cautela tra le persone, il vassoio in bilico su di una mano. Intravide John a pochi metri da lei, la sua unica consolazione in quella ridicola situazione. Perché - ovviamente - anche lui era vestito da cameriere. Povero John.
«E io che credevo che fossi una dottoressa», disse all’improvviso qualcuno alle sue spalle.
Molly si pietrificò. Chiuse gli occhi un istante, prima di riaprili e voltarsi. «Salve», disse cercando di non far tremare la voce.
Irene Adler le sorrise ferocemente. «Tesoro, lascia che te lo dica. La divisa da cameriera ti dona molto. Ma se avessi voglia di divertiti un po’, allora preferisco giocare alla dottoressa e l’ammalata.»
«La mia specializzazione è la patologia forense. Mi dedico ai cadaveri.» Molly non aveva voluto farla suonare come una minaccia, ma in qualche modo fu quello il modo in cui le uscì dalla bocca.
Per un attimo il volto di Irene si dipinse di un’espressione sorpresa. «Cielo, questa gattina ha delle unghie. E non ha paura di usarle.»
Molly arrossì. Avrebbe voluto dirle che aveva frainteso, ma forse era meglio che Irene Adler pensasse che lei non fosse del tutto indifesa. «Devo continuare a...», Molly non riuscì a finire la frase. Indicò il vassoio e la sala, sperando che il messaggio fosse chiaro.
«Certo, dolcezza», replicò Irene con un sorriso quasi lascivo. «Mi accontenterò di guardarti da lontano, nella tua graziosa divisa nera. E di consolarmi con il caro Mr. Holmes.»
Molly abbassò gli occhi. E non le piacque. Provava una ridicola soggezione nei confronti di Irene Adler, arricchita da una nota di invidia. Riprese a camminare lentamente. Vide Sherlock ai bordi di un piccolo gruppo di persone. Ascoltava. Non la notò. Poi, come se avesse istintivamente capito che lei era lì, spostò lo sguardo direttamente su Molly. Accennò con la testa ad una persona.
Molly sospirò. Poi, con un sorriso falso sulle labbra si diresse verso l’uomo che Sherlock le aveva indicato.

*

- 15 ore prima (2:00) -

«E questo è tutto», concluse Molly con un tono di voce stanco.
Sherlock era entusiasta. «Perfetto. Benissimo. Andiamo John, non abbiamo molto tempo.»
John scosse la testa. Guardò Sherlock avvicinarsi al bordo del marciapiede e fermare un taxi. Rivolse a Molly uno sguardo imbarazzato. «Grazie, Molly. E scusa
Molly sorrise debolmente. «Non c’è di che. Buona fortuna con il caso.»
Improvvisamente si trovò da sola sul marciapiede davanti alla Tate. Un attimo prima Sherlock e John erano stati al suo fianco e un attimo dopo erano spariti dentro un taxi, diretti chissà dove in quella notte londinese.
Molly sospirò. Era stanca. Terribilmente stanca. Di Sherlock, soprattutto.

*

- 13 ore prima (4:00) -

Erano tornati all’appartamento da meno di mezz’ora. John, esausto, era andato direttamente nella sua camera da letto. Quindi, quando Sherlock sentì la porta aprirsi alle sue spalle, seppe fin da subito che non era lui la persona che era entrata nel salotto.
«Mr. Holmes», disse la voce piacevole di Irene Adler. «Non so se il fatto che non mi hai dedicato più di uno sguardo questa sera mi offenda terribilmente, o mi ecciti terribilmente.»
Sherlock aspettò un attimo prima di rispondere. «Non m’interessa.»
Irene si mosse quasi languidamente, accarezzò le curve del violino abbandonato sul divano e prese l’archetto. Si avvicinò a Sherlock, fermandosi di fronte a lui. «Dovrebbe, Sherlock caro.»
Lui la guardò annoiato. «E perché mai?»
Irene gli sfiorò la guancia con l’archetto, fermandosi sotto il mento. «Non è stancante pretendere sempre di non essere attratto, curioso, interessato?» Si inginocchiò, facendosi spazio fra le sue gambe, e inclinò appena la testa. «O forse il punto è un altro, caro? Vuoi che mi tolga il trucco, mi tagli i capelli corti e inizi a camminare come un bravo soldatino? O forse», aggiunse con l’ombra di un sorriso cattivo sulle labbra, «mi preferiresti con i capelli sciolti e un bel camice bianco? E’ questo quello che t’interessa?»
Sherlock le rivolse uno sguardo gelido, le dita presero a tamburellare sulla poltrona.
Irene scoppiò in una risata deliziata. «Caro Mr. Holmes, sei così graziosamente prevedibile, a volte.» Lasciò cadere l’archetto e appoggiò le mani sulle ginocchia di Sherlock, facendole risalire con lentezza lungo le gambe. «Posso essere tutto quello che desideri, Sherlock. E molto di più.»
Lui le afferrò i polsi e strinse la presa fino a farle male. «Te l’ho già detto. Non m’interessa.»
Irene si liberò con un gesto brusco e si rimise in piedi. Rimase in silenzio per un istante, lisciandosi il vestito. Gli rivolse un nuovo sorriso, freddo e distante. «Rispondi ad un paio di domande, allora. Almeno questo, Mr. Holmes. E prometto, niente di terribilmente personale.»
Sherlock raccolse l’archetto del violino e si alzò dalla poltrona. «Chiedi.»
«Come prende il caffè il caro dottor Watson?»
Lui la guardò confuso. «Perché lo vorresti sapere?»
«Rispondi, Sherlock.»
«Nero, niente zucchero.»
«E quel grazioso topolino di Molly Hooper?»
Sherlock aggrottò la fronte. «Latte, due zollette di zucchero.»
Irene gli sorrise. «E come fai a saperlo?»
«John ed io siamo coinquilini. E’ ovvio che sappia come prende il caffè.»
Irene rise divertita. «Oh no, Sherlock caro, non mi riferivo al dottor Watson. Mi riferivo al topolino. Come fai a sapere come le piace il caffè?»
Nessuna emozione trapelò dal volto di Sherlock. «Osservo tutto. Dovresti saperlo.»
Lei si avvicinò e gli appoggiò una mano sul petto, accarezzandolo fino all’altezza del collo e fermandosi sulla nuca. Gli fece abbassare un po’ la testa, sfiorandogli la bocca con le labbra. «Allora come lo prendo io il caffè?»
Sherlock esitò un attimo. «Non lo so.»
Irene sorrise. «Risposta sbagliata.» Catturò con i denti il labbro inferiore di Sherlock e lo morse. Lui si ritrasse di scatto, la bocca macchiata di sangue.
«Forse osservi tutto, Sherlock caro, ma evidentemente», concluse Irene con un tono gelido, «tieni a mente solo quello che ritieni importante ricordare.»
Lui la osservò avvicinarsi alla porta e fermarsi un attimo sulla soglia dell’appartamento. Gli rivolse un ultimo sguardo, prima di uscire.
«Buona notte, Mr. Holmes. A presto.»

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Capitolo 2
*** 2 di 4 - Un problema di cellulari ***


Nota: grazie mille per esservi fermati a leggere e grazie mille per le opinioni su cosa vi è piaciuto e cosa no. Sono davvero molto importanti per capire dove e cosa sbaglio.
Avrei dovuto dirlo nel primo capitolo, ma ci sono qua e là un paio di riferimenti alla storia precedente, spero che non sia un problema.
Ultima cosa. Mi rendo conto che i personaggi sono strani. Soprattutto Irene che, come minimo, è psicotica. Ma mi serviva una "regina del dramma" per far girare la storia come volevo e, be', la scelta è caduta su di lei. Scusate e mille grazie per la pazienza.

*

*

*

2 di 4
Un problema di cellulari

- 9 ore prima (8:00) -

Qualcuno stava bussando alla porta del suo appartamento.
Molly alzò la testa dal cuscino e guardò l’ora sulla sveglia. Aveva ancora un’ora e mezza prima dell’inizio del suo turno all’ospedale e aveva intenzione di passare almeno un’altra ora a letto. I colpi alla porta tornarono ad insistere. Molly sospirò, prima di trascinarsi fuori dalla camera.
Quando finalmente raggiunse la porta e guardò dallo spioncino, perse del tutto la voglia di dormire. Inspirò profondamente prima di aprire, la catenella di sicurezza ancora appesa a bloccare il battente.
«Buongiorno, tesoro.»
Irene Adler, vestita in qualcosa che aveva l’aria di costare almeno come metà dello stipendio annuale di Molly, le sorrise radiosa. «Caffè?»
Lei guardò il bicchiere di carta che le stava porgendo. «Veramente, io...»
«Oh, Molly cara. Non ti hanno forse insegnato che non è educato far aspettare i tuoi amici sul marciapiede e non invitarli ad entrare?»
Molly non pensava che “amica” fosse il termine che avrebbe scelto per descrivere Irene, ma del resto sembrava che Miss Adler amasse dare alle parole significati non convenzionali. Come “cena”, per esempio. Sospirò. E nonostante tutto, si trovò a chiudere la porta, togliere la catenella e riaprire la porta.
Irene entrò un attimo dopo, spingendole in mano il bicchiere di caffè. «Latte, due zollette di zucchero. Come piace a te, dolcezza.»
Molly la seguì lungo il corridoio, genuinamente sorpresa. «Come fai a saperlo?»
Irene si fermò nel centro del piccolo salotto, togliendosi un paio di occhiali da sole che le coprivano quasi metà del viso. Sorrise, come se ritenesse la domanda divertente. «Me l’ha detto un uccellino, sciocchina.» Poi rise, riuscendo in qualche modo a farlo con una nota di superiorità. «Ovviamente se per “uccellino” intendiamo un uomo alto, magro, pallido e con una certa affascinante attitudine ad essere fastidiosamente intelligente.»
Molly la guardò confusa. «Sherlock...Sherlock ti ha detto come mi piace il caffè? Perché avrebbe dovuto?»
Irene si fece così vicina che Molly fu costretta a fare nervosamente un passo indietro. «Perché, Molly, Sherlock si apre con me. Mi parla. Si fida.» Sorrise senza neanche provare a nascondere il sarcasmo. «Pensavi forse di essere l’unica, cara Miss Hooper?»
Molly spostò lo sguardo. «Non capisco dove tu voglia arrivare. Se stai cercando di dirmi che per Sherlock io non sono importante...non in quel senso...io già lo so.»
Irene si avvicinò di nuovo. Molly rimase ferma. «Oh, tesoro. Non sono qui per questo, so benissimo cosa Sherlock pensa di te e so altrettanto bene che anche tu lo sai. Sono qui per farti un favore, dolcezza. Sono qui per fare in modo che tu non dimentichi nemmeno per un istante qual’è il tuo posto nella scacchiera. Quale animaletto sei in questo gioco, Molly Hooper. Un piccolo, insignificante topolino. Ecco cosa sei. E indovina un po’ chi è il gatto, qui?» Le sorrise ferocemente. «E lo sai quanto ai gatti piaccia mangiare i topolini, specialmente quando sono graziosi come te.»
Molly la guardò, incapace di trattenere il fremito delle mani. «Se sei così sicura di quello che dici, allora perché mi stai minacciando?» L’espressione sul volto di Irene si fece gelida, ma Molly non si fermò. «Se sei così sicura dei sentimenti di Sherlock, allora perché senti il bisogno di venire da me e assicurarti che io lo sappia?»
Lo schiaffo arrivò all’improvviso e il dolore riempì di lacrime gli occhi di Molly.
«Molly Hooper», sibilò Irene facendosi così vicina che i loro corpi si sfioravano. «Non vuoi giocare questo gioco con me. Ti ho avvisato. Dovresti sapere di cosa sono capace. Non deludermi e dimostrami che hai un pizzico di cervello. Non metterti sulla mia strada.»
Irene si allontanò di qualche passo e Molly riprese a respirare. Non si era nemmeno accorta di aver trattenuto il fiato fino a quel momento.
«Ora bevi il tuo caffè prima che si raffreddi, cara dottoressa», continuò con un tono di voce quasi dolce. «E rifletti su quello che ti ho detto. Conosco la strada, non c’è bisogno che mi accompagni alla porta.»
Molly rimase immobile, ascoltando il suono ritmato dei tacchi di Irene sul pavimento dell’appartamento. E quando sentì la porta chiudersi, si lasciò cadere per terra.

*

- 4 ore prima (13:00) -

«Mi dispiace, oggi non c’è», disse l’infermiera invitandoli ad uscire dal laboratorio del Barts. «La dottoressa Hooper ha chiamato questa mattina per avvisare che non si sentiva molto bene e non sarebbe venuta a lavoro oggi.»
«Niente di grave, spero», disse John.
«Non penso», replicò l’infermiera lentamente.
Sherlock non aveva detto nulla, limitandosi ad osservare l’infermiera con interesse. «Potrei rientrare solo un attimo, per favore?», domandò dopo un momento, usando uno tono cortese che già di per sé rappresentava una rarità. «Credo che mi sia caduto qualcosa», continuò ignorando lo sguardo sorpreso di John. Aggiunse un sorriso, per sicurezza.
L’infermiera scosse la testa, provando ad opporre resistenza. «Mi dispiace, non è proprio poss-»
Ma Sherlock l’aveva già aggirata ed era rientrato nel laboratorio. L’infermiera gli fu subito dietro e lo raggiunse al tavolo delle analisi. «Signore, mi scusi. Come lo ho già detto, non è possibile. Ora, se volete uscire.»
Sherlock sorrise nuovamente all’infermiera. «Nessun problema.»

Quando uscirono dal Barts, John finalmente parlò. «Cos’è successo?»
«Cosa vuoi dire?»
«Non ci provare con me, Sherlock», replicò John infastidito. «Cos’era quella storia del “potrei”, “per favore” e tutti quei sorrisi? Ovviamente non hai perso nulla, quindi perché sei voluto rientrare?»
Sherlock non rispose subito. «A volte, John, nella vita bisogna fare qualcosa di sciocco, per fare qualcosa di intelligente.»
«Scusa?», domandò John con una mezza risata. «E questo cosa vorrebbe dire?»
«Vorrebbe dire», replicò Sherlock pacatamente. «Che c’è un problema, di cui non conosco l’origine o la motivazione, ma ho tutte le intenzioni di scoprire entrambe le cose.»
John scosse la testa. Era completamente confuso.

*

- 3 ore e 45 minuti prima (13.15) -

«Dottoressa?», chiamò l’infermiera cautamente. «Se ne sono andati, può uscire adesso.»
La porta della stanza dei prodotti chimici si aprì lentamente. Molly ne uscì imbarazzata. «Grazie mille, infermiera. Mi dispiace di averla-»
L’infermiera la fermò con un cenno della mano. «Non c’è bisogno di ringraziare, dottoressa. Capisco benissimo. Certe volte non si vuole avere a che fare con nessuno.» Le rivolse uno sguardo appena preoccupato. «Ha bisogno di qualcos’altro? Le posso essere di aiuto in qualche modo? Magari vuole un tè o un caffè?»
Molly rabbrividì involontariamente. «No, ma grazie mille. Sto benissimo. Torno...torno al mio lavoro. Di nuovo, grazie per l’aiuto.»
L’infermiera annuì e uscì dal laboratorio, chiudendosi la porta alle spalle. Molly rimase per qualche instante ferma ad osservare la stanza vuota e silenziosa, le dita delle mani intrecciate e un sospiro bloccato nel petto.
Non le piaceva mentire e le piaceva ancora meno doversi nascondere. Ma quando aveva visto Sherlock e John avvicinarsi, non le era venuto in mente nient’altro. Non voleva incontrarli, non voleva vedere Sherlock. Non ancora, era troppo presto.
Aveva allora approfittato dell’infermiera che le aveva portato dei documenti e le aveva chiesto di mentire, nel caso John e Sherlock avessero chiesto di lei. E un attimo prima che entrassero nel laboratorio, lei si era chiusa nella stanza dei prodotti chimici.
Sembrava che avessero creduto alla storia che l’infermiera aveva raccontato, rifletté indecisa tra il sollievo e il rimorso. Ma Sherlock era rientrato una seconda volta, poco dopo essere uscito. Una piccola onda di panico la invase, avvicinandosi al tavolo delle analisi.
Forse aveva capito. Forse aveva colto la bugia. Forse l’aveva vista. Ma allora, pensò sedendosi su di uno sgabello, perché non ha fatto nulla?
Poi Molly lo vide. E capì.
Il cellulare di Sherlock, nero e lucido, era appoggiato accanto al microscopio.
Ecco perché era rientrato. Per lasciare il suo cellulare. Perché Molly lo trovasse. Perché Molly capisse. “So che sei qui”, sembrava accusarla quel cellulare, “so che ci sei, Molly Hooper”.
Cosa sarebbe successo, a quel punto, era un punto di domanda.
Appariva evidente, però, quanto fosse inutile cercare di nascondersi da Sherlock.

*

- Mezz’ora ora prima (16.30) -

«Perché le persone mentono, John?»
John alzò lo sguardo dal portatile. Quella era la prima cosa che Sherlock aveva detto nelle ultime due ore. «Per nascondere qualcosa?»
«Ma presumiamo che una persona non abbia niente da nascondere. Perché dovrebbe mentire?»
John pensò alla domanda. «Non saprei. Forse per non fare preoccupare qualcun’altro.»
Sherlock si richiuse nel suo silenzio. La luce del pomeriggio andava spegnendosi e le prime nuvole che annunciavano l’arrivo di un temporale iniziavano a coprire il cielo di Londra.
Puntellò le dita sotto il mento e chiuse gli occhi. Il profumo di caffè riempiva l’appartamento. Ripensò alle domande di Irene Adler.
Sapeva esattamente il giorno e il momento in cui aveva scoperto e registrato come John amasse il caffè. Ma quando pensava a Molly, non riusciva a tracciare un attimo preciso. Domande come “quando era successo?” e “dove?” e - soprattutto - “perché?” si affollavano nella testa e lui non aveva risposte.
Sherlock Holmes era un uomo dai molti problemi, questo lo sapeva e non lo allarmava. Ma generalmente quei problemi avevano a che fare con casi complicati e solo marginalmente con persone. Le persone, in effetti, non erano mai stati problemi per Sherlock. In generale li classificava in due categorie: fornitori di casi da risolvere e chiavi per risolvere i suddetti casi.
Molly Hooper - stranamente - cadeva in entrambe le categorie, in quel momento. Non che fosse davvero un “caso”, ma si trattava di un problema e della chiave del problema stesso. E se la cosa fosse finita lì, Sherlock probabilmente non si sarebbe sentito così infastidito. Per qualche tempo Irene Adler si era trovata nella stessa posizione e una volta decodificata, era stata riposta in un’area grigia del suo cervello, a memento. Ora, quando la incontrava, sapeva cosa aspettarsi da lei. Sapeva leggerla.
Molly Hooper, invece. Molly cambiava. Molly seguiva un tracciato preciso, per poi stravolgerlo totalmente - o anche solo un po’ - all’improvviso. Sherlock non capiva.
Molly Hooper lo aveva baciato. Si era scusata. Era tornata a comportarsi come se nulla fosse successo. Molly Hooper si era nascosta da lui, quel giorno. Aveva volontariamente e razionalmente scelto di non incontrarlo. Di non vederlo. Non era mai successo prima. Molly Hooper rappresentava una costante che cambiava, un concetto illogico di per sé, qualcosa di strano.
Le prime gocce di pioggia cominciarono a cadere, infittendosi velocemente. Sherlock aprì gli occhi. «John. Cellulare.»

*

- Mezz’ora dopo (17.30) -

Molly stava salendo gli scalini velocemente, Sherlock poteva sentire i passi affrettati. E avvertì anche un attimo di esitazione davanti alla porta dell’appartamento, prima di bussare.
John andò ad aprire e la guardò sorpreso. «Molly. Non eri malata?»
Molly arrossì. Spostò gli occhi su Sherlock e arrossì un po’ di più. «Sto...sto meglio. E comunque sono venuta solo, sai...»
Era agitata. Era evidente. Sherlock la osservò con una certa curiosità. Abbandonò la poltrona per avvicinarsi alla porta e la guardò cercare nervosamente dentro la borsa. Allungò una mano verso di lei e attese senza dire una parola.
Molly estrasse il cellulare di Sherlock e con una vaga aria di colpevolezza glielo appoggiò sul palmo della mano.
John aggrottò la fronte. «Aspetta un attimo. Ma questo...ma allora-»
«Non ora, John», lo interruppe Sherlock pacatamente.
Molly rimase in silenzio per un attimo. «Allora io vado», disse poi, quasi sussurrando.
Fece un passo indietro e si voltò, ma la voce di Sherlock la fermò sul posto. «Aspetta, Molly. Lascia che ti accompagni.»
John lanciò uno sguardo sorpreso a Sherlock. «Cosa sta succedendo, qui?», domandò a nessuno in particolare, o forse particolarmente a se stesso. Molly sembrò esitare. Girò appena la testa, lanciandogli uno sguardo veloce. «Non c’è bisogno.»
Ma Sherlock aveva già indossato il cappotto e la stava spingendo verso le scale.
John, sulla soglia dell’appartamento, li osservò allontanarsi con la netta sensazione che qualcosa di strano sarebbe presto accaduto. Che genere di strano era ancora tutto da decidere.

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Capitolo 3
*** 3 di 4 - Un problema di baci ***


Nota: nuovamente mille grazie per esservi fermati a leggere e per i commenti!
Segue colossale punto di domanda per quanto riguarda Sherlock/Molly, che ho provato a spiegare (all'incirca, suppergiù) da entrambi i punti di vista. Quindi, ancora una volta, grazie per la pazienza.

*

*

*

3 di 4
Un problema di baci

Molly si schiarì la voce. Erano arrivati all’angolo di Baker Street senza che lei e Sherlock si fossero scambiati una parola. «Ho dimenticato l’ombrello nell’ingresso», disse alla fine. Una sciocchezza qualsiasi pur di riempire quel silenzio snervante.
Sherlock non rispose.
«Forse dovresti tornare indietro.»
Sherlock non rispose di nuovo.
«Ti stai bagnando, finirai per ammalarti.»
Lui finalmente si fermò a guardarla. «Vuoi dire com’eri ammalata tu oggi?»
Molly arrossì e spostò lo sguardo di lato. «Scusa.»
«Non m’interessano le scuse, Molly Hooper», replicò Sherlock forse anche più freddamente di quanto avesse voluto. «Voglio un perché.»
«Non c'è davvero niente da spiegare.»
«Dimmi», ripeté lui lentamente, con un tono di voce che non ammetteva mezze risposte o bugie, «perché ti sei nascosta.»
Molly, a disagio, spostò il peso del corpo da un piede all’altro. Quindi commise un errore molto grosso. Guardò Sherlock. «Irene. Adler. Sai. La donna. Quella del cellulare. Tra le altre cose.»
Per un attimo Sherlock sembrò confuso, ma il momento svanì subito. «So benissimo chi è Irene Adler, Molly», replicò irritato. «Quindi è passata anche da te.»
«Anche?»
«Ha fatto visita all’appartamento ieri notte.»
«Perché?», si trovò a domandare lei con una nota di gelosia nella voce.
«Niente d’importante», replicò Sherlock distrattamente, seguendo i percorsi complicati dei suoi ragionamenti. «Ti ha fatto qualcosa?»
Molly scosse la testa. «No. Abbiamo solo...parlato. Sai. Niente di più. Vuole che me ne stia al mio posto.»
Sherlock alzò un sopracciglio. «Il che equivarrebbe ad evitarmi?»
«No. Non lo so. Forse?» Molly alzò le mani, quasi si stesse arrendendo. «Non l’ho fatto per lei. Intendo, nascondermi oggi. Non l’ho fatto per lei. Mi dispiace. Era per me.»
Sherlock non capì. «Cosa vorresti dire?»
Molly sospirò. «Lo sai.»
«Cosa?»
«Sherlock», disse lei infine con un tono di voce quasi sconfitto. «E’ difficile. A volte. Lo sai, per me. Stare vicino a te.»
E se Molly aveva pensato che pronunciare quelle parole fosse stato imbarazzante, sostenere lo sguardo di Sherlock le aprì un nuovo mondo di imbarazzo.
«Perché?», le domandò lui dopo un istante di silenzio.
Molly lo guardò stupita. «Sai perché.»
«Dillo. Dimmelo. E spiegami perché.»
«Vuoi davvero che ti spieghi perché sono innamorata di te?», domandò confusa. Poi arrossendo si portò le mani alla bocca. «Oh cielo.»
«Perché?», domandò Sherlock con un tono di voce infastidito. «Cosa ho fatto per...»
Lei scosse la testa. «Non è qualcosa che hai fatto. O...o detto. E’...», mosse le mani in un gesto vago e confuso. «Sei tu. Sei tu.»
Sherlock allontanò lo sguardo, lasciando che il silenzio si allungasse fra di loro. La pioggia continuava a cadere.
«Ho bisogno di un favore.», disse all’improvviso Molly. «Ho bisogno che tu mi dica una cosa.»
Sherlock riportò lo sguardo su di lei, aspettando.
Molly sembrò esitare, intrecciando le dita delle mani nervosamente. «Ho bisogno», riprese a parlare lentamente, «che tu mi dica che non mi ami.»
Lui la guardò sorpreso.
«Per favore», aggiunse Molly alzando gli occhi su di lui. «Dimmelo.» Sherlock fece passare un attimo. Poi, quando si decise a parlare, fu senza emozione sul viso o nella voce. «Non ti amo, Molly Hooper.»

Se fosse stato possibile, se quello fosse stato un mondo diverso, tutto si sarebbe fermato in quel momento. I rumori, la pioggia, le persone, le macchine.
Invece fu solo Molly a trattenere il respiro, assorbire il dolore che - per quanto si fosse preparata - la colpì e la lasciò per un istante cieca e muta. Gli occhi si riempirono di lacrime, nonostante tutto.
«Grazie», riuscì a mormorare. Riuscì anche a sorridere, in qualche modo. «Ora vado.»
Un passo, si disse, era tutto quello che doveva fare. Un passo e tutti gli altri sarebbero arrivati da sé. Non ci riuscì. Pensò che le sue gambe, che tutto il suo corpo la stesse tradendo. Le servì un momento per capire che era la mano di Sherlock chiusa sul suo gomito a trattenerla.
«Aspetta», aveva detto.

E Molly aspettò.
Aspettò quando lo vide avvicinarsi. Aspettò quando la fissò per pochi lunghi istanti. Aspettò quando cercò qualcosa - non sapeva cosa - nel suo viso. E quando, poi, le sfiorò le labbra, smise di aspettare.
Si chiese perché, ma da qualche parte conosceva già la risposta. Era in quello stesso bacio, che sapeva di chiusure e capitoli finiti. Era un “grazie” e un “mai più”. Un “so che mi ami” e “mi dispiace”.
Era in quel suo stupido, stupido cuore, che aveva donato ad un uomo che non sapeva cosa farne. E che forse non avrebbe mai saputo cosa farne.
E quando lui la lasciò finalmente libera di andare, Molly seppe che era anche in quel gesto e in quello spazio fra loro due.
Non disse nulla. Cercò un sorriso e ne trovò solo uno, piccolo e un po’ triste.
Si allontanò allora sotto la pioggia, senza guardarsi indietro. Cos’altro poteva fare, a quel punto. Andava bene così. Davvero. Andava bene così.

*

Quando Sherlock tornò all’appartamento, John alzò gli occhi dal giornale e lo guardò incuriosito. «Allora?»
Lui ignorò la domanda, sparendo nella camera da letto per togliersi i vestiti bagnati e cambiarsi.
«Avanti, cos’è successo?», lo raggiunse la voce divertita di John.
Sherlock tornò nel salotto e si lasciò cadere sulla poltrona. «Niente. Ho solo detto a Molly quello che voleva sentirsi dire.»
John gli lanciò un’occhiata curiosa. «E ne è stata contenta?»
Le dita di Sherlock presero a tamburellare sul bracciolo della poltrona. «Direi di no.»
«E come mai?», domandò John disorientato.
Sherlock considerò la domanda. «Perché mi ha creduto.»
«Ma...non è esattamente questo il punto?»
Sherlock allungò il braccio e prese il violino e l’archetto. Suonò un paio di note esitanti. «Non so quale sia il punto, John. Non con Molly Hooper.»
«Ah», rispose lui sorridendo, prima di tornare a dedicarsi al giornale con l’aria di capiva fin troppo bene.
Sherlock pretese di non averlo notato ed evitò di chiedere a John cosa avesse voluto intendere con quel “ah”. Aggiustò invece la posizione del violino sul collo e si preparò a suonare. Un attimo prima di cominciare, ripensò al bacio che aveva dato a Molly.
Non era sicuro del perché l’avesse fatto. Forse aveva voluto ringraziarla. Forse, egoisticamente, non aveva voluto farsi mettere da parte. O forse era stato qualcos’altro.
Qualcos’altro che forse aveva a che fare con quello strano gioco dei sentimenti di cui Sherlock non sembrava afferrare le regole.
Forse un giorno le avrebbe capite.
Non quella sera, però.
Si dedicò alla musica, allora.

*

Irene Adler era quel tipo di donna che otteneva quello che voleva. Sempre e comunque.
Certo, c’erano state eccezioni, ma quel genere di circostanze non erano mai affiorate fino all’ingresso in scena di Sherlock Holmes.
Ma era stata comunque con una certa sorpresa che Irene aveva constatato che non era poi così male avere quella eccezione nella sua vita.
Poi le cose si erano complicate. In parte per colpa del dottor Watson e soprattutto, ora, per colpa della ridicola Molly Hooper.
E Irene Adler, davvero, era allibita.
Comprendeva il fascino dell’innocenza e della timidezza. Comprendeva anche quanto bene facesse al proprio ego avere qualcuno che ti venera e ti adora. Ma la sua comprensione finiva lì.
Molly Hooper era, in altre parole, l’equivalente di una borsa di tela comprata sulla spiaggia. La prendi perché è carina e colorata, e perché sei al mare e va bene per quella situazione. Ma quando torni a casa e vedi la tua Gucci o la tua Prada, è quella la borsa che vuoi. E Sherlock doveva pur saperlo.
Irene osservò il suo riflesso nello specchio. Le suole rosse delle Louboutin l’unico tocco di colore nel suo abbigliamento altrimenti completamente nero.
Sherlock doveva pur saperlo, si ripeté.
Che lei era quello di cui lui aveva bisogno, l’unica alternativa applicabile allo stato attuale delle cose. E, per carità, non che avesse alcun problema a condividere Sherlock con il caro dottor Watson, se questo era quello che Sherlock voleva. O anche voleva.
Era proprio il pensiero di Molly Hooper, della piccola insignificante timida ridicola Molly Hooper, ad infastidirla. Una borsa di tela. Un topolino. Un pedone che la regina avrebbe mangiato, prima o poi.
Presto, si disse. Molto presto.

*

John, ogni tanto, si fermava ad osservare Molly e Sherlock con una certa curiosità.
Anche se, per il beneficio di tutti, certe cose non erano state più discusse, menzionate o nemmeno accennate.
Quindi, John finiva sempre con il scuotere la testa e tornare al suo lavoro. Era impossibile, si diceva tra sé e sé, che fosse davvero successo qualcosa tra quei due. Certo, Sherlock amava ripetergli che vedeva ma non osservava, eppure - e John ne era ormai convinto - non c’era niente da osservare in quel caso. Sherlock e Molly non si comportavano in maniera diversa dal solito, non c’era nulla di nuovo nelle loro dinamiche. Assolutamente nulla. Era tutto normale. Più che normale.
Ne era completamente sicuro, e perfettamente irremovibile nelle sue convinzioni.

Poi, Irene Adler tornò in scena.

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Capitolo 4
*** 4 di 4 - Un problema di bugie ***


Nota: ultima parte! Quattro capitoli di giri e rigiri di parole per poter scrivere, alla fine, quello che ho messo qui in conclusione.
E lo so che mi ripeto, ma davvero mille grazie per la gentilezza, i commenti, le opinioni, le letture e la pazienza. A presto, spero!

Lo aggiungo qui, ora, perché non so dove altro metterlo. Avete assolutamente ragione, il personaggio di Irene non è reso bene e ho fatto un gran pasticcio con lei. Scusatemi.

*

*

*

4 di 4
Un problema di bugie

Quando John andò ad aprire la porta dell’appartamento, accolse Molly con un sorriso sorpreso. «Molly. Cosa ti porta qui?»
Lei gli sorrise di rimando. «I piedi.»
«Sei venuta a piedi dal tuo appartamento? E’ una lunga camminata.»
«Oh no, John», replicò Molly scuotendo la testa. «Non sono venuta a piedi, sono venuta per i piedi
John alzò le sopracciglia, quindi notò il contenitore termico che Molly teneva con una mano. «Oh cielo. Una consegna per Sherlock, immagino.»
Lei annuì vagamente imbarazzata. «Al tassista ho detto che avevo delle birre. Non credo che mi avrebbe fatto salire, altrimenti.»
Sherlock comparve in quel momento dalla cucina. «Li hai trovati?»
«Sì», disse lei con una nota di entusiasmo. «Esattamente come li volevi.»
Sherlock prese il contenitore termico e lo aprì cautamente. «Perfetto. Molto bene, Molly.»
«Non c’è di che.»
John si strofinò le mani. «Un tè, Molly? O magari un caffè?»
«Molto gentile.»
John, Sherlock e Molly si guardarono spaesati. Non era stata la voce di Molly a rispondere.
Si girarono, allora, verso l’ingresso dell’appartamento e con una certa sorpresa si trovarono a fissare l’elegante figura di Irene Adler appoggiata allo stipite della porta. «Un caffè sarebbe perfetto, dottore caro. Io lo preferisco nero, un cucchiaino di zucchero. Grazie mille.»
E con i loro sguardi ancora appuntati su di lei, Irene si mosse lentamente nell’appartamento, sfilandosi dei guanti neri con una certa disinvoltura, accomodandosi in una delle poltrone come se le appartenesse e sorridendo come se fosse del tutto normale il fatto che fossero tutti insieme lì, in quell’appartamento.
John si schiarì la voce. «Sì, dunque.» Esitò. «Caffè per tutti?»
«Non per me», replicò Molly velocemente. «Ero passata solo per...sai...», indicò nella direzione generale di Sherlock, per poi correggersi e puntare al contenitore. «Quello. Per quello. E’ meglio che vada, adesso.»
«Rimani dove sei, Molly», replicò secco Sherlock.
Molly e John lo fissarono stupiti. Irene sorrideva.
Sherlock raggiunse la poltrona che fronteggiava quella in cui si era accomodata Irene. Quando si sedette, le mani presero automaticamente a tamburellare sul bracciolo.
«Che piacevole piccola riunione, vero?», domandò Irene con evidente sarcasmo. «Certo avrei preferito trovarti da solo, Sherlock caro, ma va bene anche così. Non sono particolarmente timida. Anzi, trovo che avere un pubblico possa essere...eccitante
John si schiarì di nuovo la voce e Molly spostò lo sguardo. «Io credo proprio che dovrei and-»
«Ti ho già detto di rimanere dove sei», la interruppe Sherlock freddamente. «Ora, Irene. Cosa vuoi?»
«Sherlock, tesoro», replicò lei con una piccola risata. «Che domanda sciocca. Tutti in questa stanza sanno esattamente cosa voglio.»
«Mi pare che Sherlock abbia già reso chiaro che non è interessato», s’intromise John con un tono infastidito.
La frase gli valse uno sguardo divertito di Irene. «Allora forse, caro dottore, potresti dirmi tu a cosa è interessato Sherlock? O a chi
Spostò platealmente lo sguardo da John a Molly, per riportarlo quindi su John.
«Non vedo come la cosa ti riguardi», disse Sherlock catturando nuovamente l’attenzione della donna, «dato che tu non sei parte della formula.»
Irene alzò un sopracciglio, il volto trasformato in una maschera di ghiaccio. Gli sorrise freddamente. «Oh, Sherlock. Menti. E posso provarlo.»
Molly guardò Irene alzarsi dalla poltrona e avvicinarsi a Sherlock. Con un movimento fluido si lasciò scivolare sulle sue ginocchia, incrociando le gambe. Le dita di Sherlock smisero di tamburellare. Irene gli prese il viso tra le mani e avvicinò il suo con studiata lentezza. «Lo so che mi vuoi», sussurrò sulle sue labbra. «Dillo. Solo una volta. Dillo.»
Molly si era istintivamente avvicinata a John e osservava la scena terrorizzata. Non era solo quello che Sherlock avrebbe potuto dire a farle paura, a farle venire voglia di uscire da lì e scappare. Era soprattutto la gelosia, quella terribile sensazione che voleva farle gridare ad Irene Adler di alzarsi - subito, immediatamente - e sparire per sempre dalle loro vite.
«Quello che voglio», disse alla fine Sherlock lentamente, «è che tu te ne vada. Ora.»
Molly trattenne il fiato e si accorse vagamente che John aveva fatto lo stesso.
Irene, invece, sembrava essersi cristallizzata nella sua posizione, il viso di Sherlock ancora fra le mani. «Non dici sul serio», sussurrò.
Sherlock la prese per le braccia e la sollevò, alzandosi a sua volta in piedi. «John, porgi a Miss Adler i suoi guanti, ci sta lasciando.»
John fece come chiesto, ma Irene lo ignorò. «Non dici sul serio», ripeté con un tono che suonò ferito.
Sherlock prese i guanti da John e li spinse senza grazia nelle mani di Irene. «Sai qual’è l’uscita.»
Irene trattenne per un attimo il respiro, lo stupore e l’incredulità ancora dipinti in volto. Abbassò gli occhi sui guanti, guardandoli come se non fosse del tutto sicura di cosa farne, prima di infilarvi con gesti meccanici le mani appena tremanti. Alzò di nuovo lo sguardo su Sherlock. «Un giorno rimpiangerai tutto questo.»
Molly, vicino alla porta, non osò muoversi. Nemmeno quando la vide avvicinarsi, nemmeno quando la vide fermarsi accanto a lei.
«E anche tu, caro il mio topolino», le disse Irene freddamente.
Poi la porta si chiuse ed Irene Adler scomparve.

*

«Bene, sì», disse John dopo un attimo, cercando di riempire il silenzio. «Immagino allora che non la vedremo per un po’. Possibilmente mai più.»
Sherlock tornò a sedersi senza dire una parola.
Molly intrecciò le dita delle mani e abbassò lo sguardo sul pavimento. «Credo che sia meglio che vada.»
«Pensi che sia sicuro?», le domandò John, prima di rivolgersi a Sherlock. «Non pensi che sarebbe meglio se Molly rimanesse qui ancora per un po’? Non che ci sia veramente qualcosa da temere», continuò ritornando ad indirizzarsi a Molly. «Ma Irene sembra essersi fissata in qualche modo con te. Anche se non capisco davvero perché. Voglio dire, non è come se tu e Sherlock foste...» La voce di John andò lentamente spegnendosi. Spostò lo sguardo da Molly a Sherlock un paio di volte. «Perché tu Sherlock non siete...giusto? Voi non...»
Molly alzò le mani imbarazzata. «No,no,no. Assolutamente no. Noi non...certo io...Sherlock mi...ma non lui. Sherlock non...»
«Quello che Molly sta cercando inutilmente di dire», la bloccò Sherlock infastidito, «è che fra lei e me non c’è niente di quello che immagini tu, John.»
«Esatto», replicò Molly arrossendo. «Nulla. E quello che c’è stato, è stato solo uno sbaglio.»
«Ah, oka-...aspetta, cosa? Quello che c’è stato
Sherlock, dalla poltrona, alzò gli occhi al cielo. «Lo sai che ci siamo baciati.»
«Io. Io l’ho baciato», s’intromise Molly cercando di chiarire la situazione. «Sherlock non ha fatto assolutamente nulla. E’ stata colpa mia.»
«Molly Hooper», disse Sherlock pacatamente, «devo forse ricordarti che ci siamo baciati una seconda volta?»
«Oh cielo», mormorò lei abbassando la testa.
John, totalmente sconcertato, non poté fare altro che fissarli in silenzio per qualche istante. Quindi, piuttosto inaspettatamente, guardò Sherlock con rimprovero. «Non è uno dei tuoi esperimenti questo, vero? Non ti stai prendendo gioco di Molly o usando i suoi sentimenti per qualche stupido scopo?»
Sherlock, vagamente offeso, alzò un sopracciglio. «No.»
Molly appoggiò una mano sul braccio di John, richiamando la sua attenzione. «E’ stato uno sbaglio. Due volte uno sbaglio. Tutto qui. Niente di importante. Non li chiamerei neanche baci, davvero.»
John non sembrò del tutto convinto, ma l’aria di rimprovero sembrò comunque dissolversi un po’. «Quindi adesso cosa...?»
«Adesso torno a casa», rispose Molly semplicemente. «E ci vediamo al Barts quando avete bisogno.»
John la guardò perplesso. «Puoi fermarti, se vuoi. O se preferisci ti accompagno a casa.»
Molly fece per rispondere, ma Sherlock fu più veloce. «L’accompagno io.»
«Cosa?», domandarono lei e John nello stesso istante.
Sherlock ignorò la reazione stupita di entrambi e prese il cappotto. «Andiamo.»
«Ma io...», provò ad obiettare inutilmente Molly.
John li seguì fino alle scale e li guardò scendere al piano inferiore e uscire dalla casa. Scosse la testa, pieno di dubbi. C'erano due soli possibili scenari, dal suo punto di vista. O quella cosa non avrebbe portato nulla di buono, o non avrebbe portato nulla di nulla.
Non era sicuro cosa augurarsi.

*

A Molly piaceva Sherlock, quella era una cosa ovvia.
Però davvero non riusciva a comprendere quel lato della sua personalità che gli faceva fare cose come quella che aveva appena fatto - offrirsi di accompagnarla a casa - per poi far seguire il tutto dal più totale e imbarazzante silenzio.
O forse era colpa del taxi. Forse Sherlock era quel genere di persona che non parlava in macchina, ma preferiva osservare il mondo scorrere al di là del finestrino e perdersi nei propri pensieri.
O forse, più semplicemente, non c’era nulla di dire.
Un altro lato della sua personalità che le era difficile da comprendere era l’abitudine di Sherlock di mormorare parole - le sue note mentali - che francamente solo lui riusciva a capire, dato che emergevano da ragionamenti che molto spesso teneva per sé.
«Sbaglio», mormorò per l’appunto in quel momento.
Molly si voltò a guardarlo. «Scusa?»
Lo sguardo di Sherlock rimase appuntato sul finestrino. «Sbaglio», ripeté.
«Se hai cambiato idea e non vuoi accompagnarmi...»
L’espressione di Sherlock, quando si girò a guardarla, fu sufficiente a farla interrompere. Sembrava irritato. «Non mi riferisco a quello, Molly. Parlo di “è stato uno sbaglio”. “Niente di importante”. “Non li chiamerei neanche baci”.»
«Oh», disse Molly. Si morse un labbro. «Oh.»
«Spiegami, dunque, Molly Hooper», riprese lui sarcastico, «tu cosa esattamente chiameresti un bacio? Perché io ho questa assurda ed evidentemente errata nozione secondo la quale è quel momento in cui tocchi qualcosa o qualcuno con le labbra.»
Molly si spostò a disagio sul sedile del taxi. «Ah. Sì. Credo...credo che sia corretta. La tua definizione, intendo.»
«Felice di saperti concorde», replicò lui secco.
«Solo che...», sussurrò Molly incerta. Sherlock non disse nulla e lei lo prese come un invito a continuare. «Non ero sicura di come...sai, di come tu vedessi la cosa. E John, lui sembrava, non so...non volevo creare problemi.»
«Nessuno ti ha chiesto spiegazioni, Molly», disse Sherlock tornando a spostare lo sguardo al di là del finestrino. «E soprattutto nessuno ha detto che crei problemi.»
Molly alzò gli occhi su di lui, sorpresa da quelle ultime parole. Lo fissò un istante, prima di di girarsi a sua volta verso il finestrino, nascondendo un sorriso.

*

Quando Sherlock scese dal taxi subito dopo di lei, Molly lo guardò con un grado di panico negli occhi. «Cosa stai facendo?»
Lui le rivolse uno sguardo annoiato. «Ti seguo?»
«Sì, ma perché?»
«Per assicurarmi che Irene Adler non ti stia aspettando nel tuo appartamento», rispose lui come se la cosa fosse ridicolmente ovvia.
E forse, pensò Molly, la cosa sarebbe stata davvero ridicolmente ovvia, se lui fosse stato una persona normale. Ma era di Sherlock che si stava parlando, per l’amor del cielo. E comunque dubitava fortemente che persone normali si trovassero in situazioni come quelle.
«Pensi di poter aprire la porta o preferisci entrare con metodi più creativi?», domandò lui sarcastico.
Molly cercò nervosamente le chiavi nella borsa e aprì la serratura. Rimase in silenzio guardando Sherlock entrare per primo e muoversi con attenzione nell’appartamento. C’era qualcosa di sconcertante nel vederlo lì. Reale, in tutta la sua altezza e intelligenza e drammaticità. Con la falda del cappotto alzata e quei capelli scuri e quello sguardo che sembrava mettere a nudo tutto. Era come osservare un evento storico nel momento della sua creazione.
«Smettila di guardarmi a quel modo, Molly Hooper.»
Molly spostò lo sguardo, reprimendo di nuovo un sorriso.
«Cosa trovi divertente?»
«Nulla. Niente», rispose lei tornando a guardarlo.
Sherlock la raggiunse e quando Molly pensò che lui fosse abbastanza vicino, Sherlock fece un ulteriore passo, entrando a tutti gli effetti in una zona che lei avrebbe definito “troppo vicino”.
«Da quando hai iniziato a dire bugie, Molly Hooper?»
«Co-cosa?»
«Sembra che ultimamente tu ne dica parecchie.»
Molly arretrò di un passo e Sherlock la seguì. «Se è ancora per quella volta al laboratorio, ti ho già spiegato che-»
«No, Molly», la fermò lui freddamente. «Non mi riferisco solo a quello. Parlo di un attimo fa, quando hai risposto “nulla”. Parlo di prima, quando hai detto a John che sei stata solo tu a baciarmi. E soprattutto parlo di prima ancora, quando ti ho chiesto se Irene ti avesse fatto qualcosa e tu hai risposto di no. Il segno dello schiaffo era piuttosto evidente, sai.»
Molly arrossì e spostò nervosamente lo sguardo lungo l’appartamento, non sapendo cosa rispondere. Fece un altro passo indietro. Sherlock la seguì di nuovo.
«Allora, Molly, perché racconti bugie?»
«Non...», si fermò per schiarirsi la voce, la gola improvvisamente secca. «Non erano...non sono cose importanti.»
«E sta solo a te deciderlo?»
«Si...?», replicò lei sentendosi ridicola, un attimo dopo, per aver fatto suonare la risposta come una domanda.
Sherlock fece un altro passo verso di lei e Molly finì con la schiena contro la parete.
«Spiegami, è questo il genere d’uomo che ti attrae, Molly? Qualcuno che ti terrorizza, ti usa, ti manca di rispetto?»
Lei, forse per la prima volta, lo guardò con una certa durezza. «No. E’...è vero, c’è qualcosa di te in quello che hai appena detto, ma tu sei anche altro.»
Sherlock, se fosse stato diverso, forse avrebbe riso. Invece si limitò a guardarla senza nessuna espressione particolare. «E cos’altro sarei?»
«Chiedilo a John», replicò secca Molly. «O chiedilo a Gregory o a Mrs. Hudson. Lo vediamo tutti, sei solo tu che...», la voce andò spegnendosi.
Sherlock esitò un istante, quasi sorpreso da quelle parole. «Sei tu che vedi cose che non ci sono, Molly. Perché sei innamorata di me.»
La frase, consegnata con la stessa pacatezza di un’affermazione ovvia, ferì in qualche modo Molly. Abbassò la testa un poco e si lasciò sfuggire un sospiro. «Non...non sono solo io, Sherlock. Siamo tutti un po’ innamorati di te. Ti amiamo tutti, in modi diversi. Io...il mio è solo il modo più stupido di dimostrarlo.»
Sherlock esitò di nuovo. Alzò il braccio lentamente, con un movimento quasi incerto e goffo, e appoggiò la mano sulla testa di Molly. Il pollice, sulla linea che segnava l’attaccatura dei capelli, prese distrattamente ad accarezzarle la fronte.
Molly alzò cautamente lo sguardo e lo osservò. Per un attimo non seppe cosa aspettarsi, ma quando lui si allontanò senza dire una parola, capì che non c'era nulla davvero da aspettare.
«Sembra tutto a posto, qui», disse infine Sherlock avvicinandosi alla porta.
Molly lo seguì nell’ingresso in silenzio. Aprì la porta per lui e alzò una mano salutandolo impacciata. «A presto.»
Sherlock fece passare un attimo, quindi annuì di rimando e uscì.
Quando chiuse la porta e si appoggiò al battente, Molly rilassò le spalle e lasciò scappare un piccolo sospiro. Era strano, si trovò a riflettere tornando verso il salotto, come si sentisse più leggera. Anche se forse non era riuscita a dire tutto o dirlo bene, aveva comunque la sensazione di aver fatto un passo avanti, di essersi finalmente liberata di qualcosa - non era ancora sicura cosa.
Colse il suo riflesso in uno specchio del salotto e inclinò appena la testa. Certo, c'era molto in lei che poteva essere cambiato, migliorato o semplicemente essere diverso. Ma il punto era proprio che poteva, non che doveva. Perché lei - impacciata, romantica e tendenzialmente timida - si andava bene così com'era, grazie mille. Ed evidentemente andava bene anche a Sherlock, e grazie mille di nuovo.
Sherlock che, tra l'altro, come suo solito entrava e usciva dalla sua vita lasciandosi sempre una certa dose di confusione alle spalle.
Un giorno, forse, Molly avrebbe imparato a fare ordine.
Un giorno, forse, lo avrebbe fatto.
Non quel giorno, però. Non ancora.

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