Dalla parte deli Angeli Oscuri

di Padmini
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'Angelo Oscuro ***
Capitolo 2: *** Ricordi ***
Capitolo 3: *** I Familiari ***
Capitolo 4: *** I tatuaggi ***
Capitolo 5: *** Terminal City ***
Capitolo 6: *** Hope ***
Capitolo 7: *** In viaggio verso la verità (e qualche spiegazione più o meno imbarazzante) ***
Capitolo 8: *** L'Incontro ***
Capitolo 9: *** Arrivederci ***
Capitolo 10: *** HLH ***



Capitolo 1
*** L'Angelo Oscuro ***


In quella stanza coesistevano emozioni contrastanti.
C’erano John e Lestrade, visibilmente tesi. La tensione che deriva da un’aspettativa, un’aspettativa di speranza. Lestrade riusciva abbastanza bene a mascherare la sua soddisfazione ma John sorrideva compiaciuto e ogni tanto lanciava qualche occhiata significativa verso i due seduti al suo fianco.
Anderson e Donovan erano lì contro la loro volontà. I loro sguardi accigliati e i continui gesti di impazienza si potevano tradurre in un solo modo: “Ma questo non era considerato un caso chiuso?”
Finalmente, dopo alcuni interminabili minuti, un agente aprì la porta e annunciò che l’uomo che stavano aspettando era arrivato.
Alto, capelli brizzolati e occhi azzurri dietro occhiali rotondi, l’uomo che entrò nella saletta privata aveva uno sguardo deciso che tradiva però una certa preoccupazione. I quattro si alzarono e Lestrade gli tese la mano.
“Gregory Lestrade”
“Logan Cale”
“Mi scusi signor Cale” si intromise Donovan senza nascondere un profondo disprezzo nella voce “Perché dovremmo darle retta? Quello di cui si sta interessando è un caso chiuso” disse sottolineando l’ultima parola
“Capisco la sua preoccupazione signorina Donovan ma questo caso, che lei considera erroneamente chiuso, ha delle ripercussioni internazionali che lei può a stento immaginare.”
Donovan lo guardò con aria beffarda “Signor Cale, qui si tratta solamente del caso di uno psicopatico che per divertirsi ha inscenato un serie di casi che poi ha finto di risolvere. Non so chi sia lei ma questa faccenda non la riguarda”
“Ci vuole gentilmente spiegare chi è e perché ritiene di poter contribuire a questo caso” domandò Lestrade, guardando male Donovan
“Sono un agente dell’FBI”
“FBI?” urlò Anderson con una risata “Cosa centrano i servizi segreti degli Stati Uniti in questa storia? Il fatto si è svolto in Inghilterra!”
“Veramente” disse placidamente Cale appoggiando la schiena alla sedia e incrociando le mani sul grembo “Io mi sono chiesto la cosa opposta. Ovvero: cosa può centrare Scotland Yard in questa faccenda?”
“Credo di non seguirla” si intromise Lestrade “I fatti si sono svolti qui, non vedo cosa possa centrare l’FBI…”
“Si, in effetti i fatti si sono svolti qui” disse Cale annuendo “Ma sono partiti dagli Stati Uniti. E non sorprendetevi del fatto che sono quasi quarant’anni che questo ‘caso’ è stato aperto.”
“Quarant’anni?” chiese John sorpreso “Non è possibile!”
“Come dicevo prima, questo caso ha delle ripercussioni internazionali che vanno al di là della vostra e della mia comprensione. Una ragnatela che è impossibile definire sia dal punto di vista del tempo che dello spazio. Stiamo parlando di un’organizzazione talmente vasta e influente sul territori mondiale che ci vorrebbero almeno altri cento anni per venirne a capo.”
“Sta parlando di un qualche tipo di organizzazione mafiosa?” chiese Lestrade che forse cominciava a capire
“No” disse Cale facendosi scuro in viso. “È molto più estesa”
I quattro presenti si guardarono stupefatti.
“Inoltre” continuò tranquillamente ignorando lo sgomento che aveva procurato nei suoi interlocutori “Mi sono permesso di convocare qui una mia carissima amica che è direttamente coinvolta in questa indagine. A dir la verità sono più di trent’anni che non la vedo ma abbiamo cominciato questa indagine insieme e penso che lei sia l’unica qui a Londra in grado di aiutarci.”
“Cosa glielo fa credere?” chiese aspramente Donovan “Mi sono stufata di comuni cittadini che si immischiano in indagini senza avere la preparazione necessaria. Finalmente speravo di essermi liberata di gente come quello psicopatico di Holmes…”
John la guardò con odio ma non disse nulla.
“Si sbaglia agente Donovan” disse calmo Cale “Non si tratta di una comune cittadina. Forse adesso può esserlo (quando l’ho contattata ho saputo che ora fa l’avvocato) ma in passato faceva parte di una sezione dei servizi segreti degli Stati Uniti che era segreta perfino all’FBI. Non penso che abbiate mai sentito parlare del progetto “Menticore”, giusto?”
I quattro si guardarono con aria interrogativa.
“No” disse infine Lestrade “Ma immagino che sia qualcosa di cui non può parlarci, vero?”
“Invece ve ne parlerò perché, come vi dicevo, è direttamente collegato con questo caso. Ma ve ne parlerò a tempo debito. Per ora posso solo parlare di questa mia carissima amica. Può sembrare una comune donna, in realtà è un soldato altamente addestrato con capacità fisiche e mentali nettamente superiori alla media. So di cosa parlo. In passato, prima che entrassi a far parte dell’FBI, ero un giornalista e, grazie ad alcuni agganci che mi ero creato nella mia professione, riuscivo a fare controinformazione clandestinamente.”
“Cosa intende?” domandò Lestrade incuriosito
“Denunciavo poliziotti e politici corrotti, gestivo la protezione di testimoni in importanti casi e spesso li aiutavo a crearsi una nuova identità. Possiamo dire che se io ero la mente, Max era il braccio”
“Max? Ha parlato di una donna” intervenne Anderson
“Una donna che si chiama Max. Max, non il diminutivo di Maxine. Ve l’ho detto perché lei detesta essere chiamata così, quindi evitate di farlo.”
Non fece in tempo a finire la frase che lo stesso agente che lo aveva introdotto bussò alla porta.
“Scusi ispettore, c’è una donna chiede di lei. Dice di chiamarsi Max Guevera.
Quando la donna entrò tutti i presenti si voltarono ad ammirarla. Si poteva intuire che non fosse poi così giovane eppure nel suo viso non c’era alcuna ruga. Era vestita elegantemente, con un completo giacca e pantaloni beige e una camicia bianca. I capelli, neri e lisci, erano raccolti in un sensuale chignon che le lasciava nuda la nuca, su cui spiccava il tatuaggio di una pantera. Gli occhi, leggermente truccati erano di un nocciola intenso e lasciavano trasparire la determinazione della donna, così come le sue labbra carnose.
“Sono Max Guevera” si presentò entrando e porgendo la mano a Lestrade
“Molto piacere” rispose lui dopo un momento di esitazione. Era rimasto piacevolmente colpito dalla donna. Dopo di lui si presentarono John, Donovan e Anderson.
“Se non sbaglio” disse guardandoli dall’alto al basso con finta ammirazione senza che i due se ne accorgessero “Siete stati voi due a condurre le indagini sul caso ‘Holmes’, giusto?”
“Giustissimo” disse Anderson annuendo orgoglioso
“Bene” rispose lei con un sorriso, che subito si trasformò in un ghigno di rabbia “Sappiate che avete tutto il mi disprezzo, per questo”
Tutti la guardarono sorpresi. Non si sarebbero mai aspettati una reazione del genere.
“Max, per piacere, non cominciare” disse Logan implorandola con lo sguardo “Siamo qui appunto per chiarire questo caso, quindi…”
“Logan” lo interruppe lei bruscamente “Sapevo benissimo che mi avevi contattata per questo caso ma cerca di capirmi. Non potrò mai perdonarli”
“Perdonarci?” domandò ridendo Donovan “Per cosa dovrebbe perdonarci? Per aver smascherato un imbroglione?”
“No” rispose Max gelida “Per aver indotto al suicidio mio figlio!”
 
 
 
Nota dell’autrice: Un chiarimento: Logan Cale e Max Guevera (o Guevara) fanno parte del telefilm “Dark Angel”. Durante la storia ometterò le spiegazioni riguardanti i personaggi, dandole per scontate. Per chi non conoscesse il telefilm in questione ecco un link: http://it.wikipedia.org/wiki/Dark_Angel_(serie_televisiva).
Grazie

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Capitolo 2
*** Ricordi ***


Seattle, un mese prima
Seduto su quella poltrona, Sherlock ripercorse mentalmente gli ultimi mesi. Le abili e forti mani della parrucchiera gli massaggiavano la testa e lui si ritrovò rilassato grazie all’effetto dello Shampoo… gli ricordava una canzone che aveva sentito mentre attraversava l’Italia in nave… “Quasi quasi mi faccio uno shampo…” * In effetti aveva bisogno di rilassarsi. Di dimenticarsi, anche solo per pochi minuti, quello che gli era successo negli ultimi tempi. Doveva dare tregua al suo cervello, staccare la spina per un po’.
Non era quello il motivo vero, comunque. Stava seduto in quella poltrona in un salone di Seattle per tagliare e tingersi i capelli. Doveva sparire. Tutti dovevano crederlo morto. Fino a quando? Non ne aveva idea. Voleva… no… doveva a tutti i costi fare luce su quel mistero. Dopo la sua finta morte aveva cominciato a indagare nell’ombra, in tutta Europa e i fili che era riuscito a raccogliere lo avevano portato proprio lì, in quella città degli Stati Uniti. Erano tante le informazioni che era riuscito a raccogliere, ma erano informazioni vaghe e, a parte il tentativo di omicidio perpetrato nei suoi confronti da un’organizzazione internazionale, quello su cui voleva indagare ora era… se stesso. Non capiva bene cosa gli stava succedendo. Pensava di poter essere sempre e comunque padrone di se stesso e invece… ora tutte le sue convinzioni sembravano abbandonarlo. Qualcosa, dentro di lui, si stava risvegliando. Lui, che da sempre aveva tenuto sotto controllo le sue emozioni, sentiva nascere dentro di se un istinto primordiale, da belva feroce. Sapeva esattamente cosa doveva fare e come e si sentiva come una pantera che, con abili mosse, si avvicina pian piano alla preda. Era cominciato tutto qualche mese prima, mentre si faceva la doccia.
 
Doveva ammettere che cercare di infilzare quel maiale con la fiocina** era stato molto divertente ma, una volta tornato a casa, per quanto noioso potesse essere, nessuno poteva evitargli di lavarsi dal sangue. Così si era spogliato e poi abbandonato sotto lo scroscio dell’acqua piacevolmente calda. Cominciò lavandosi il viso, guardandosi allo specchio del lavello per riuscire ad eliminare ogni singola macchia. Poi passò al corpo e, quello che vide, lo sorprese. Inchiostro? Quando mai si era macchiato di inchiostro? Eppure era lì… alcune macchioline nere erano apparse sul suo avambraccio. Guardò meglio e cercò, con la punta del dito, di cancellarle. Non venivano via. Avvicinò l’avambraccio al viso, per vedere meglio. Non sembravano macchie. In effetti non poteva essersi sporcato di inchiostro. Sembravano… tatuaggi. Pian piano, cominciò a delinearsi una scritta. Non sembrava un alfabeto conosciuto… dove l’aveva già visto? Si sforzò di ricordare, cercando per un momento di scacciare il sentimento di sorpresa di fronte a quell’apparizione… ecco! Minoico antico? Dove aveva visto prima, segni del genere? Non se lo ricordava eppure… eppure… nella sua memoria quei segni c’erano già. Li aveva già visti.
Non voleva parlarne con John così, una volta uscito dalla doccia, si vestì accuratamente nascondendo i segni neri che erano comparsi. Nonostante tutto, era assorto nei suoi pensieri. Cercava di ricordare dove avesse visto quei segni prima. John non avrebbe sospettato nulla. Molto spesso lo trovava in quelle condizioni e ormai aveva rinunciato a porgli domande in proposito.
Camminava su e giù per la stanza, con la fiocina in mano cercando di ricordare. John leggeva il giornale ma ogni tanto lo guardava, pensieroso. Tentò di mascherare la sua frustrazione con la noia che lo affliggeva ogni volta che non aveva un caso per le mani. John ci sarebbe cascato come un pero. Fumo. Aveva bisogno di nicotina, subito, altrimenti sarebbe stato il suo cervello a fumare per lo sforzo.
Aveva bisogno di distrarsi, di concentrare la sua attenzione altrove e presto il pretesto arrivò. Partirono per Baskerville e Sherlock, preso dal caso, quasi si dimenticò dei tatuaggi, poi improvvisamente, ne apparvero altri. Sul petto e sulla schiena. Sentiva che li aveva già visti eppure non riusciva a focalizzare dove. Cercò invano testi su cui basarsi per tentare una traduzione ma fu una ricerca infruttuosa.
Poi era ritornato Moriarty. Sapeva che da un po’ lo teneva d’occhio e aveva anche avuto a che fare con lui. Certamente non si sarebbe mai aspettato in che modo i fatti si sarebbero evoluti. Simulazione di suicidio a parte, sembrava quasi che quei tatuaggi, comparsi chissà come, avessero risvegliato in lui abilità che nemmeno sapeva di possedere. Da sempre si era esercitato nei travestimenti, sapeva perfettamente come pedinare un obiettivo, come ottenere le informazioni che voleva e anche come nascondersi se non voleva essere trovato. Eppure, da qualche mese tutte queste abilità sembravano essersi accentuate. Aveva una consapevolezza nuova. Moriarty e la sua stramaledettissima organizzazione erano presenti nel suo cervello ma ormai erano in secondo piano. Per primo veniva lui. Aveva sempre investigato fuori da se stesso. Sapeva tutto di tutti. Gli bastava uno sguardo per capire appieno chi si trovava di fronte a lui. Ma cosa poteva dire di se stesso? I tatuaggi, il fatto che aveva dovuto fingersi morto, le nuove emozioni mai provate prima che pian piano si facevano strada dentro di lui… tutto questo lo aveva portato ad aprire un nuovo caso, un caso che consisteva in un lungo viaggio nella sua anima. Un viaggio che, tra spionaggio e qualche furtarello di documenti riservati, lo aveva portato a Seattle.
“Ho finito, signore” gli disse la parrucchiera tenendo dietro di lui uno specchio per permettergli di vedersi anche dietro. Quasi non si riconosceva. Ora i suoi capelli scuri e ricci erano corti e di un bel rosso tiziano. La parrucchiera glielo aveva consigliato perché secondo lei si intonava con i suoi occhi. Va bene, vada per il rosso.
Si alzò e pagò la ragazza che, notò uscendo, non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. ‘In effetti’, ammise con un sorriso guardando il suo riflesso su una vetrina, ‘Non sono poi così male…’
Mentre camminava per le strade di Seattle cercava di mantenere una certa disinvoltura. Non poteva permettersi di essere scoperto. Non ora. Se i mandanti del suo omicidio erano partiti da Seattle, doveva stare attento ora più che mai. Aveva dovuto abbandonare il suo amato cappotto lungo ma lì non faceva così freddo. Indossava una semplice camicia bianca con una giacca chiara di pelle e un paio di jeans scoloriti.
Girò l’angolo e assistette ad una scena che lo fece andare un po’ avanti nelle sue indagini. Non era una scena particolare, cose che succedono tutti i giorni, ma a lui fece venire in mente un episodio che gli era successo la settimana prima del suo finto suicidio.
Un bambino camminava per strada, tenendo la mano alla madre mentre con l’altra sorreggeva un cono gelato. Improvvisamente inciampò e il gelato precipitò sulla maglietta, lasciandoci una enorme macchia.
“Kevin!” lo riprese la madre “vedi di stare più attento! Questa maglietta te la sei messa pulita stamattina”
Il bambino, prevedibilmente, si mise a piangere. Non tanto per le parole dure per la madre ma per il gelato che, ormai, era andato perduto. Sherlock sorrise vedendo la scena ma subito il ricordo affiorò alla sua mente.
Stava camminando con John lungo una strada affollata del centro. Era impegnato con tutto se stesso nella risoluzione di un caso così non si accorse che un bambino, con un gelato in mano, era inciampato proprio davanti a lui. Il gelato, con un elegante piroetta in aria, era atterrato giusto sulla camicia di Sherlock. “Dannato ragazzino” pensò il detective fulminandolo con lo sguardo. Non fece in tempo a dire nulla che dal negozio davanti al quale si trovavano uscì una donna che, evidentemente, aveva assistito alla scena.
“Mi scusi” cominciò imbarazzata e aggiunse, rivolta al bambino “Mark, chiedi scusa e fila dentro a lavarti le mani”
“Si mamma” disse il bambino e poi, rivolto a Sherlock, con il chiaro intento di togliersi il più velocemente possibile da quella situazione“Mi scusi signore” e corse dentro.
“Lo scusi, la prego” proseguì la donna “Venga dentro il mio negozio. Ho una merceria. Per scusarmi dell’incidente mi permetta di regalarle una camicia nuova per cambiarsi così potrò portare i suoi abiti sporchi in tintoria”
Sherlock guardò John disorientato. Non si sarebbe mai aspettato tanta premura da parte della donna. John si strinse nelle spalle come per dire “Accetta, che ti costa?”
Così entrò nel negozietto. La signora lo accompagnò nel camerino e gli porse la camicia. Lui si premurò che la porta fosse ben chiusa e cominciò a spogliarsi. Mentre si sfilava le maniche il suo sguardo cadde nuovamente sui tatuaggi. Sospirò. Chissà se avrebbe mai capito il loro significato. Poi successe qualcosa che, al momento, il suo cervello registrò di striscio, senza darci troppo peso. Gli parve di essere osservato e addirittura gli parve di vedere un piccolo bagliore alle sue spalle, come di un flash.
Ora capiva. Finalmente aveva compreso cosa significava. Il gelato… il regalo della camicia… tutto era stato un diversivo per farlo spogliare e... verificare la presenza dei tatuaggi? La situazione aveva cominciato a sfuggirgli dalle mani esattamente una settimana dopo. Troppo poco tempo per considerarla una coincidenza. Ma cosa centravano i tatuaggi con tutto quello?
 
 
 
*”Lo Shampoo” di Giorgio Gaber (http://www.youtube.com/watch?v=ccqcpOLaMk8). Mi piace pensare che Sherlock, fuggito da Londra via nave, abbia ascoltato per caso questa canzone alla radio italiana e si ritrovi a canticchiarla mentre la parrucchiera gli lava i capelli.
** Capitan Ovvio: Vedi l’inizio de “Il Mastino di Baskerville” di Sherlock (BBC) e il racconto di Sir Arthur Conan Doyle “Il capitano di lungo corso”

 

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Capitolo 3
*** I Familiari ***


L’atmosfera nella stanzetta di Scotland Yard era tesa.
“Suo figlio?” chiese John guadandola attentamente in viso. In effetti, ora che lo sapeva, non poteva fare a meno di notare le somiglianze tra la donna e il suo migliore amico. Lo stesso viso affilato, lo stesso sguardo fiero, lo stesso colore di capelli. A parte il colore degli occhi, si vedeva che dovevano essere imparentati in qualche modo.
“Max…” iniziò Logan a disagio “Non sapevo che avessi avuto un figlio… questo spiega molte cose…”
“Due” puntualizzò Max “C’è anche Mycroft. Ma tra i due, Sherlock è sicuramente quello che più aveva ereditato il mio DNA, su questo non c’è alcun dubbio” si bloccò un istante, come per ricordare il figlio morto poi, cercando di nascondere l’emozione, proseguì “Comunque Logan, se mi hai chiamata significa che sai che posso esserti d’aiuto. A dirla tutta mi sono già fatta un’idea della situazione ma, ti prego, illuminami!”
Si sedette e incrociò le braccia. Anderson e Donovan la guardavano a disagio. Non si sarebbero mai aspettati di trovarsi davanti la madre dell’uomo che era morto anche per causa loro.
“Aspetta un momento, Max”  le chiese Logan sopreso “Se sei sposata, perché hai mantenuto il tuo vecchio cognome? Se White ti sta ancora cercando…”
“… non mi cercherà certo con il cognome ‘Guevara’, no?” rispose lei “Se vuoi nascondere una cosa, mettila in evidenza. Così come non ho voluto cambiare nome, non voglio cercare di nascondere il tatuaggio. L’ho semplicemente modificato” disse indicando la pantera sulla sua nuca “Sarebbe stato più sospetto se avessi cercato costantemente di nasconderlo, non trovi?”
Logan sospirò e si preparò per spiegare la sitazione.
 “ ‘Loro sono ovunque.’ “ recitò Logan “ ‘Non si può sapere se qualcuno ne fa parte’ Ti ricordi? C.J. ti disse così quella volta a Terminal City, o sbaglio?” domandò Logan
“Si, disse proprio così” disse Max annuendo
“Bene. Come sai, l’unico cognome che conoscevamo degli appartenenti alla setta era ‘White’ ma dal momento che se l’era cambiato per potersi distaccare dalla famiglia Sandman, era come un vicolo cieco. Ti ricordi l’infermiera che tentò di ucciderti all’Harbor Lights a Seattle?”
“Ucciderla?” chiese John sconvolto
“Si” rispose Max senza dare peso all’intervento del dottore “Mi pare si chiamasse Rebecca Greenwood”
“Esatto. Quando si avvicinò a te con l’intento di ucciderti non riteneva necessario nascondere il proprio nome, visto che l’unica persona che avrebbe potuto danneggiarla sarebbe morta. Ma così non fu. E questo fu il suo errore”
I presenti ascoltavano questo scambio di battute con vivo interesse. Non capivano di cosa parlavano e si chiedevano se i due si sarebbero spiegati.
“Mi dispiace di non avertene parlato prima” continuò Logan “ma dopo quell’episodio ho effettuato una serie di ricerche che, a partire dal cognome Greenwood, mi hanno permesso di identificare circa una cinquantina di famiglie, sparse in tutto il mondo, che fanno parte della setta. Ormai erano anni che quel fascicolo giaceva inutilizzato nel mio archivio… quando ho sentito parlare di quel Jim Moriarty…”
“Vuoi dire….?” Chiese Max piena di speranza “Vuoi dire che anche la famiglia Moriarty fa parte della setta?”
“Esatto” rispose Logan tranquillamente
“Un momento” li interruppe Lestrade alzando le mani “Di quale setta state parlando?”
“Una setta che ha più di mille anni di vita” rispose Logan guardandolo negli occhi “Che celebra rituali e iniziazioni utilizzando il sangue dei serpenti e che ha le mani in pasta nelle principali organizzazioni mafiose mondiali. Ho ragione di credere che Sherlock si sia imbattuto in un loro agente, questo Jim Moriarty. Non so perché abbiano ritenuto necessario ucciderlo né perché fosse entrato in contatto con lui. La cosa importante, per ora, è questa: Jim Moriarty esisteva veramente. Faceva parte di una setta criminale e vi ha fregati come allocchi mascherando da suicidio l’assassinio di un detective che evidentemente era troppo scomodo.”
John piangeva silenziosamente. Lestrade era impassibile ma si vedeva che era teso e i sensi di colpa cominciavano a farsi strada. Donovan e Anderson erano sconvolti. Quelle parole erano come uno specchio per loro. Per la prima volta si vedevano per quello che erano. Due invidiosi dell’intelligenza di Sherlock.
“Max” disse Logan guardandola “Tu sei l’unica qui a Londra a conoscenza di tutta la storia. Dobbiamo agire in fretta”
“Lo so” rispose lei girando per la stanza pensierosa” prima di tutto voglio risolvere la situazione della reputazione di mio figlio”
“Come pensa di fare?” domandò John
“Chiamami pure Max e dammi del tu, per piacere” rispose lei guardandolo dolcemente “Mycroft mi ha detto quanto tenevi a mio figlio. Per quanto riguarda la sua reputazione, basta fare qualche comunicato stampa… convicente”
“Che vuoi dire?” disse Lestrade poco convinto “              Sarà molto difficile che l’opinione pubblica cambi idea cosi facilmente”
“Basta conoscere le persone giuste. Mi basta contattare Mia”
“Mia?” chiese Logan ridendo “La Psico-operativa?”
“Proprio lei”
“Psico-operativa?” domandò John sorpreso “Cosa volete dire?”
“Non mi dirai che sei ancora in contatto con Terminal City!” chiese Logan ignorando la domanda del dottore
“In effetti si, lo sono. In realtà è da più di cinque mesi che non riesco a mettermi in contatto con loro. Se non è un problema, potrei provare ora. Avete un collegamento Skype? Seattle non è proprio dietro l’angolo…”
Fu predisposto un portatile con un collegamento Skype. Max era davanti allo schermi e digitava velocemente sui tasti per mettersi in contatto con Seattle. Gli altri erano dietro di lei.
“Forse dovrei lasciar perdere la videocamera” disse Max incerta “Non so come potrebbero reagire vedendo Mole”
“No, no” disse Logan ridendo “Sarebbe divertente”
“Se lo dici tu…” rispose lei premendo il tasto di chiamata. Trattenne il respiro. Negli ultimi cinque mesi aveva provato e riprovato senza alcun risultato. E se fosse fallito anche questa volta? Invece no. Qualcuno rispose dall’altra parte e comparve la faccia scura e poco rassicurante di Mole.
“Max!” esordì il transgenico vedendola “È da un po’ che non ci si vede”
Tutti, esclusi Max e Logan, urlarono alla vista di Mole.
“Un mostro! Un mostro!” urlò Donovan impazzita
“Mostro?” chiese Mole “Chi è quella racchia che urla così? Signorina Racchia, deve chiamarmi ‘Signor Mostro, ha capito? Oppure mi chiami col mio nome: Mole”
“Va… va bene… Mole….” Rispose lei con una risatina isterica
“Mole” riprese Max ridendo “Hai notizie di Ames?”
“Si, molte.” Rispose lui serio “Per cominciare…. È stato assassinato”

 

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Capitolo 4
*** I tatuaggi ***


“Assassinato?” domandò Max preoccupata “E da chi? Dai suoi?”
“Esattamente” rispose Mole “Scusami se in questi mesi non abbiamo risposto alle tue chiamate ma eravamo impegnati in alcune ricerche e intercettazioni”
“Fa nulla” rispose lei scuotendo la testa “Avete trovato quello che cercavate?”
“Si, ma alla fine è risultato essere uno dei tanti buchi nell’acqua di White”
“Che vuoi dire?”
“I Familiari si erano stufati di lui. Negli ultimi anni aveva collezionato un fallimento dietro l’altro. Così hanno deciso di eliminarlo. Prima di morire, però, è riuscito a lasciare un’ultima informazione ai suoi. Eravamo molto preoccupati per te, per questo non ti abbiamo contattato. Speravamo di poter gestire la cosa qui a Seattle senza che i Familiari arrivassero a Londra ma, come ti dicevo, era solo un altro fallimento del caro Ames”
“Perché avreste dovuto preoccuparvi per me? Cosa doveva succedere a Londra?”
“Ames, prima di morire, aveva chiesto alla famiglia Moriarty di uccidere un X5 residente a Londra. Come sai, rintracciare un X5 non è così difficile per chi sa come fare. White immaginava che tu avresti cambiato nome, cosa che invece non hai fatto. Ma lui non voleva un X5 qualsiasi. Voleva te. Così ha dato a loro il tuo nome, Max Guevera, e il fatto che ti avrebbero riconosciuta per via di quegli strani tatuaggi in minoico antico…”
Max sgranò gli occhi. Evidentemente le parole di Mole le stavano facendo capire la gravità della situazione.
“Così” continuò Mole serafico “hanno cercato a Londra un X5 che portasse quei tatuaggi. Il problema è che Ames si è scordato di dirgli che tu, anche se ti chiami Max, sei una donna. Così, quando hanno concluso le loro indagini, hanno individuato l’obiettivo sbagliato. Non so cosa potesse centrare in questa storia, visto che tu sei l’unica che porta quei tatuaggi, ma hanno stabilito di uccidere un certo Sherlock Holmes. Così ci siamo tranquillizzati. Sapendo che non eri in pericolo non abbiamo ritenuto di avvisarti. Avremmo solo corso il rischio di farci scoprire”
“Mole…” iniziò Max con la voce che le tremava. Tutti la guardarono incuriositi. Non sapevano come avrebbe reagito alla notizia. John, che nel frattempo si era lavato il viso dalle lacrime, guardava Max con apprensione. Anche Lestrade era teso, i sensi di colpa sempre più prepotenti. Donovan e Anderson si guardarono per qualche istante e arrossirono pesantemente. Logan fece per toccare la spalla di Max ma, inspiegabilmente, rinunciò.
“Mole…” riprese Max dopo qualche istante “Avete ancora la documentazione delle intercettazioni e degli ordini dei Familiari?”
“Si, certamente.”
“Bene. Tra qualche giorno verremo a prenderle a Seattle. Non voglio che le mandi per posta. Non mi fido. Ora che Terminal City è stata bonificata possiamo vederci direttamente lì, vero?”
“Si, mi sembra più sicuro. A presto Max. Fammi sapere quando arriverai”
“Quando arriveremo, Mole. Con me ci sono anche Logan e alcuni funzionari di Scotland Yard. Come hai detto tu, il Familiare è arrivato a Londra e ha portato a termine la sua missione per questo la polizia locale vuole chiudere definitivamente il caso e gli servono quei documenti”
“Come vuoi Max. Ti aspettiamo. Joshua sarà felicissimo di rivederti”.
Una volta che la comunicazione fu interrotta, Max scoppiò in lacrime. Sherlock, il suo Sherlock era morto al suo posto! Era lei che i Familiari cercavano! Non riusciva a smettere di piangere, le lacrime le offuscavano la vista e per qualche minuto si dimenticò di tutto e di tutti. Per lei, in quel preciso istante, c’era solo Sherlock. Con le sue stranezze, il suo chiedere sempre una spiegazione per tutto… le ricordava tanto Ben… per questo aveva scelto come suo secondo nome Benedict… *Troppe volte aveva visto persone a lei care morire e aveva l’impressione che non sarebbe mai finita, che avrebbe dovuto scappare per sempre senza poter mai avere veri legami con le persone. Quei trentacinque anni che aveva vissuto a Londra con Julian, con Mycroft e Sherlock le erano sembrati un angolo di paradiso. Ogni tanto riaffioravano alla sua mente i ricordi di Manticore. Quando, per esempio, aveva uno di quei suoi attacchi convulsivi e, ancora peggio, quando la vittima di questi attacchi era proprio Sherlock. Sapeva che non era colpa sua, ma non poteva non rimproverarsi per aver trasmesso al figlio quel suo difetto genetico per il quale il suo corpo non produceva serotonina, compensato dall’assunzione del triptofano. Fortunatamente Mycroft non aveva quel problema ma quando era nato Sherlock le cose erano cambiate. Succedeva che gli attacchi avvenissero di notte, mentre lui era a letto. E allora era tremendo. Si rivedeva ancora bambina, nei dormitori di Menticore, mentre osservava uno dei suoi fratelli che in quel momento stava male. Ma poi pensava che non era vero. Quello che tremava davanti a lei era il suo bambino, suo figlio. Lo abbracciava, gli dava il triptofano e un bicchiere di latte e lo cullava finché non si addormentava.
Appena riuscì a calmarsi, si girò verso le persone dietro di lei. John le porgeva un fazzoletto e lei, dopo essersi asciugata gli occhi, lo abbraccio e ricominciò a piangere. Non aveva mai pianto tanto in vita sua. Neanche quando era morta Tinga. Sapeva che sua sorella era morta per proteggere il figlio e ora lei era viva mentre suo figlio era morto.
Mentre scioglieva l’abbraccio si ripulì il viso e, ritrovata una certa compostezza, si rivolse a Logan.
“Logan, quello che ti ho detto prima… ” iniziò
“Max, non ti preoccupare, ora andremo a Seattle e, vedrai, la memoria di tuo figlio sarà vendicata”
“Logan, io so perché lo hanno ucciso. Quando prima ho detto che Sherlock aveva ereditato molto dal mio DNA dicevo la verità. Ha ereditato il mio difetto genetico, quello per cui mi devo imbottire di triptofano. Ha perfino ereditato i miei geni felini…”
“Geni felini?” la interruppe John sopreso “Cosa vuol dire?”
“Non è il momento, mi scusi, dottor Watson. Ora non c’è il tempo di spiegare tutto ma vedrà che presto avremo il tempo di raccontarvi ogni cosa. Per ora devo prenotare l’aereo per Seattle. Quei documenti sono troppo importanti per essere trasportati su un comune aereo di linea. Viaggeremo su un jet privato dell’FBI.”
“Logan…” continuò Max, che ancora non aveva finito il discorso “Ha ereditato da me anche un’altra cosa. Lui, come me, non aveva DNA di scarto.”
John aprì la bocca per domandare cosa intendesse dire ma si trattenne. Avrebbero avuto tutto il tempo, durante il viaggio aereo, per le spiegazioni.
“Vuoi dire che aveva davvero i tatuaggi? A te erano comparsi quando avevi 28, sbaglio?”
“No. Non sbagli. Avevo compiuto da poco 28 anni quando… be’, lo sai anche tu cosa successe quell’anno. Sherlock ha compiuto da poco 23 anni. Sapevo che presto o tardi i tatuaggi sarebbero comparsi anche su di lui ma… non avrei mai sospettato che White avesse mandato qualcuno per uccidermi… non avrei potuto saperlo… Volevo contattarlo per spiegargli l’origine di quei segni… ma non ho fatto in tempo”
“Può sempre spiegarlo a noi, non crede?” disse Lestrade leggermente infastidito “Noi di tutta questa faccenda non ci abbiamo capito un’acca. Volete per cortesia essere più chiari?”
“Lo saremo” lo rassicurò Max “ma non ora. Vado a prepararmi per il viaggio. Logan, a quando la partenza?”
L’uomo prese il cellulare e, dopo una breve conversazione, si rivolse ai presenti.
“Domani mattina alle otto e mezzo. Ci troveremo di nuovo qui poi una macchina ci porterà in aeroporto”
“Bene” disse Lestrade “Verremo io e il dottor Watson. Voi” aggiunse rivolto a Donovan e ad Anderson “rimarrete qui. Non servirà la vostra presenza. Nel frattempo potrete riflettere sulle vostre azioni e su come la vostra invidia abbia interferito con la ricerca della verità e abbia portato alla morte di un uomo. Ve l’ho sempre detto. Le emozioni in questo lavoro sono deleterie. Sherlock aveva portato questo assioma all’estremo ma voi non vi ci siete mai nemmeno avvicinati”
Freddati da quelle parole, i due uscirono dalla stanza senza aprire bocca.
“Venga… no, vieni con me Max” disse John rivolgendosi alla donna “Voglio presentarti la signora Hudson. Sarà felice di conoscerti”
Max sorrise e seguì il dottore fuori dalla porta. Quando fu sulla soglia, si voltò di profilo.
“A domani… Logan” disse in un sussurro
“A domani… Max” rispose lui alzando leggermente la mano
John non poté non notare una pesante malinconia tra i due. Guardò la donna e capì che in un passato non troppo lontano i due si erano amati.
 
 
 
 
*Sono riuscita a fare un collegamento sia con il fratello di Max che con il caro Benedict Cumberbatch. Non male, eh?

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Capitolo 5
*** Terminal City ***


Sempre un mese prima
Sherlock, con il suo nuovo look, camminava lungo le strade di Seattle. Era arrivato lì la sera precedente e non aveva ancora trovato un alloggio. Si era procurato alcuni documenti falsi. Hamish Black, questo era il nome che aveva scelto per se stesso. Gli ricordava John. Chissà quando avrebbe potuto rivederlo. Ma… lo avrebbe rivisto? Gli era pesato tantissimo, più di quanto fosse disposto ad ammettere perfino a se stesso, dover abbandonare l’amico. C’era riuscito unicamente perché sapeva che l’aveva fatto per il suo bene. La sera, però, si sentiva triste. Gli piaceva suonare il violino per John e ora non avrebbe più potuto farlo. Almeno non per un lungo e imprecisato periodo di tempo. Già quei pochi mesi gli erano sembrati un’eternità.
Quello che accadde in seguito fu così veloce e incomprensibile per lui che capì solo dopo, con calma, ripensandoci. Stava camminando lungo la strada, cercando una camera in affitto. Mentre stava attraversando un viottolo tra due palazzi qualcuno lo afferrò per un braccio e lo trascinò lontano dalla strada principale. Cadde a terra, confuso. Sopra di lui, con dei mitra spianati, c’erano due uomini. Occhiali scuri e completo nero, i due lo fissavano con un ghigno compiaciuto.
“Non lo sai che per voi transgenici è pericoloso girare lontano da Terminal City?” lo apostrofò uno dei due
“Penso che abbia sbagliato persona” disse Sherlock anzi, Hamish, con la sua solita calma distaccata
“Non ci prendere per il culo!” urlò l’uomo “Sappiamo che sei un transgenico. La telecamera termica non mente mai*. La tua temperatura corporea supera i 38°. Devi per forza essere un transgenico!”
Sherlock sapeva che era vero. Sua madre lo aveva sempre confortato a riguardo. Lui era così e basta. Quando gli altri bambini avevano quella temperatura significava che avevano la febbre. Lui no. Lui aveva sempre quella temperatura. Per lui era normale. Come il dover prendere il triptofano. Un giorno sua madre gli avrebbe spiegato tutto, ma aveva dovuto abbandonarla a Londra. Forse lo avrebbe capito lo stesso, in un modo o nell’altro.
All’improvviso, un violento istinto di sopravvivenza si impadronì di lui. Con due calci ben assestati disarmò i due e, approfittando della loro confusione, cominciò a correre. Correva lungo i vicoli di quella città che ancora non conosceva bene. Di una sola cosa era certo. Scappava per mettersi in salvo.
Non conosceva nulla di quella città, così nuova per lui, eppure si muoveva con agilità. Non aveva una meta precisa, sapeva solo che doveva scappare. Non aveva tempo di chiedersi perché i due lo avessero definito “transgenico” o perché a Seattle degli individui, chiaramente non appartenenti a qualche servizio segreto ufficiale, usassero apparecchiature come le telecamere termiche.
I vicoli, sempre più stretti e intricati, lo costringevano a zigzagare continuamente. I suoi inseguitori sparivano continuamente dietro gli angoli ma poteva chiaramente sentire il loro respiro. Non era affannato. Era come se i due stessero semplicemente camminando. In effetti, constatò sorpreso, nemmeno lui si sentiva stanco. Strano. Non aveva il fiatone, nonostante stesse correndo da buoni dieci minuti ad una velocità discreta. Doveva fare qualcosa per cambiare la situazione. Vide, in lontananza, un vicolo cieco. Ormai era alla frutta. Davanti a lui c’era solo un muro alto più o meno tre metri e senza appigli. I due lo stavano raggiungendo. Senza pensare che quello che stava facendo forse era impossibile, non appena raggiunse la base del muro piegò le gambe e si diede una spinta, come per saltare. Incredibilmente, arrivo in cima e, aiutandosi con le braccia, scavalcò il muro e passò dall’altra parte. Cadde malamente sull’asfalto ma si rialzò subito perché i due lo guardavano da sopra il muro. Continuò a correre disperatamente ma ora gli faceva male il ginocchio e fu costretto a rallentare. La strada ora si apriva e si ritrovò in una specie di piazzetta. Il dolore alla gamba lo fece inciampare e, prima che potesse rendersene conto, una pallottola lo colpì al polpaccio. Cadde sbattendo violentemente la testa. Quel che riuscì a percepire poco prima di perdere i sensi, fu il rombo di due moto che si avvicinavano da due vicoli. Poi, il nulla.
 
Quando si svegliò, era disteso su un letto comodo. Qualcuno gli aveva medicato la gamba e fasciato la testa, dove compariva un bel bernoccolo. Si mise a sedere e si guardò attorno. Si trovava in una stanzetta semplice ma arredata con gusto. La gamba gli faceva ancora male ma notò che, chi lo aveva curato, aveva avuto la premura di appoggiare una stampella al lato del letto. Si alzò e, lentamente, uscì. Dopo aver percorso alcuni corridoi, simili a quelli che si trovano negli alberghi, arrivò a quella che doveva essere la hall.
In realtà non aveva nulla a che fare con un albergo. Sembrava piuttosto il centro di un’organizzazione segreta… l’FBI? Eppure… si guardò in giro e quel che vide lo spaventò non poco. C’erano alcune persone normali… normali nel senso che avevano un viso degno di un essere umano. Ce n’erano altri, invece, che sembravano deformi. Non avevano quasi nulla di umano. Una voce presto lo distrasse dai suoi pensieri.
“Ti sei svegliato, finalmente!” gli disse un essere simile ad una lucertola umana che fumava un sigaro con evidente gusto.
“Si” rispose lui esitante “Grazie per avermi salvato” Non era da lui esprimere così facilmente la propria gratitudine, figuriamoci davanti ad un uomo-lucertola! Eppure sentiva che poteva fidarsi. Che lui, come gli altri presenti nella stanza, potevano capirlo, proteggerlo e aiutarlo.
“Ragazzino” riprese lui in tono di rimprovero “Sei stato imprudente!”
“Imprudente?” chiese Sherlock sorpreso “Perché?”
L’uomo-lucertola si tolse il sigaro dalla bocca e sospirò massaggiandosi la fronte.
“Lo sai che noi transgenici non possiamo andare in quella zona della città. Quello è territorio dei Familiari!”
“Familiari?” chiese nuovamente Sherlock sempre più sorpreso. Si era sempre vantato della sua intelligenza ma ora, di fronte a quel rimprovero di cui non comprendeva il significato, si sentiva un stupido… ‘Ecco cosa si prova a vivere con un cervello come quello di Anderson’ pensò preoccupato
“Ragazzino” riprese lui “Ma dove vivi?”
“Vivevo a Londra, fino a poco tempo fa. Una serie di motivi mi ha costretto a trasferirmi qui. Sono arrivato ieri sera”
La lucertola lo guardò piegando leggermente la testa, come se quella rivelazione lo sorprendesse.
“Dimmi un po’, ragazzino. Quanti anni hai?”
“28”
“28 anni… sei troppo giovane per… come si chiama tua madre? O tuo padre? Dimmi.”
“Se non ti dispiace, preferirei non dirtelo. Sai, sono sotto copertura. Ma posso dirti il mio nome. Sono Hamish”
“Piacere Hamish” disse lui con un sorriso “Io sono Mole. Benvenuto a Terminal City”
 
*Vedi penultimo episodio della seconda serie di Dark Angel

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Capitolo 6
*** Hope ***


Per Maky:
 Grazie come sempre per le tue recensioni. Per sapere cosa sono gli X5, Manticore e tutto quello che riguarda Dark Angel visita la pagina di wikipedia http://it.wikipedia.org/wiki/Dark_Angel_(serie_televisiva). Baci e buona lettura a tutti.
 
 
 
Sherlock osservava Mole. Tutto era nuovo per lui e tutto lo incuriosiva.
“Immagino che tu debba essere figlio di un o una X5” disse lui osservandolo “I tuoi genitori non ti hanno mai parlato di Manticore… di Terminal City…”
“No” rispose secco Sherlock “Mai”
“Sarà bene che tu sia informato, allora. Purtroppo” aggiunse cominciando a camminare e guardandosi in giro mentre Sherlock lo seguiva “io non potrò aiutarti. Sono troppo impegnato in alcune ricerche che stiamo effettuando sui Familiari… scusa” aggiunse “Presto saprai chi sono i Familiari. Comunque non posso parlarti delle ricerche che stiamo facendo…” disse vedendo che il ragazzo probabilmente si era interessato e stava per porgli domande in proposito “Roba segreta, capisci? Ce ne stiamo occupando noi del quartier generale. Gli altri transgenici vivono qui, a Terminal City o in giro per il mondo, ma siamo solo noi a gestire certe faccende. Non posso dirti nulla. Hey! Hope!” urlò rivolto ad una ragazza.*
Hope si girò. Era una bella ragazza. Mora, snella e con un bel viso su cui spiccavano un paio di occhi verde scuro. Stava riparando una moto “Dimmi, Mole”
“C’è qui il ragazzo che abbiamo salvato dai Familiari, Hamish. Lui è figlio di un X5 ma probabilmente non sa nulla. Forse i genitori o il genitore ha preferito tenerlo all’oscuro. Puoi fargli fare un giro turistico con annessa spiegazione?”
“Con piacere” rispose lei appoggiando gli attrezzi da lavoro “Piacere, sono Hope” disse rivolta a lui
“Hamish” rispose Sherlock ammirato. Non aveva mai visto una donna più bella. Un momento, da quando si interessava alle donne? Non era mai stato attratto dalle donne tanto che, quando i suoi coetanei avevano cominciato a provare desiderio per il sesso opposto, avevano cominciato a soprannominarlo “Frocetto”. Lui non se la prendeva mai per questo, anche perché non sentiva giusta quella definizione. Né donne né uomini lo attiravano. Spesso, osservando gli altri, pensava di essere asessuato. Tanto meglio. A parte alcuni periodi, nei quali provava un fortissimo desiderio sessuale verso ogni donna che si trovava a passare davanti a lui e che lo costringeva a chiudersi letteralmente in casa con aggiunta di numerose docce fredde.
Eppure Hope lo colpì. Era così bella… sentì che si sarebbe lasciato volentieri andare tra le sue braccia. Aveva bisogno di sentirsi protetto. Per una volta nella sua vita si sentiva fragile e Hope sembrava la persona giusta per aiutarlo.
Lo guidò lungo le strade di Terminal City, raccontandole di Manticore, di come erano fuggiti, dei Familiari… Ora Sherlock cominciava a capire tante cose strane della sua vita. Non se la sentiva però di raccontarle degli strani tatuaggi che erano comparsi sul suo corpo. Per il momento gli bastava così. Erano troppo le cose che stavano entrando nella sua vita. Voleva prendersela con calma.
La consapevolezza di essere un uomo fuori dal comune ce l’aveva da sempre, ma scoprire di essere addirittura figlio di un o… no. Era sicuro quasi al 100% che fosse sua madre la transgenica. Mentre ascoltava Hope parlare di codici a barre impressi nel DNA, capì improvvisamente dove aveva già visto i suoi tatuaggi.
Sua madre! Quando andavano al mare la vedeva quasi nuda in costume da bagno e le chiedeva sempre cosa fossero quei segni neri che aveva sulle braccia, sul petto e sulla schiena. Lei gli rispondeva che un giorno, quando sarebbe stato più grande, glielo avrebbe spiegato. Lui insisteva sempre però, col tempo e con la comparsa di altri stimoli per la sua mente, l’argomento era caduto nel dimenticatoio insieme al sistema solare.
 
Hope possedeva un grazioso appartamento a Terminal City. Un tempo quella era una zona altamente tossica (tranne che per i transgenici) ma dopo i fatti della Jem Pony** era stata bonificata e destinata specificatamente ad ospitare gli ex “manticoriani” ma anche gli abitanti di Seattle ci andavano. Era diventata una specie di quartiere etnico, con i suoi negozi, i suoi ristoranti, due cinema, locali dove divertirsi e tante case dove vivere, abitante anche da gente normale. Esistevano però a Seattle delle zone tenute sotto controllo dai Familiari. Il governo sapeva della loro esistenza ma preferiva lasciar perdere. I transgenici sapevano bene le zone dove non dovevano andare per non mettersi nei guai e questo bastava alle autorità per sentirsi tranquille.
Sherlock, che nel frattempo si era trasferito a casa di Hope, visse le successive settimane conoscendo i suoi simili, umani e transumani. Alec, un altro X5, gli insegnò a suonare il piano e lui per riconoscenza gli insegnò a suonare il violino. Insieme componevano e suonavano, spesso anche tutta la notte. Joshua, un uomo-cane, gli aveva insegnato a dipingere. Dipingeva spesso, soprattutto quando era triste. Quando Joshua cominciò a insegnargli le basi del ritratto, lui pensava a John. Non lo vedeva da mesi ma il suo viso era sempre presente nella sua mente. Così, giorno dopo giorno, i lineamenti del dottore emergevano pian piano dalla tela. Mentre erano lì con i pennelli in mano Sherlock si apriva con Joshua. Senza entrare troppo nei particolari, gli raccontava della sua vita con John, il suo migliore amico. Il primo vero amico che avesse mai avuto e lui lo capiva, lo aiutava a non sentirsi triste.
Gli piaceva stare lì e, soprattutto, gli piaceva stare con Hope. Era così intelligente, così bella, così gentile… Aveva quasi dieci anni più di lui ma… cosa importava? Si sentiva travolgere dalle emozioni. Come quella volta a Baskerville aveva provato paura e poi dubbio, ora provava… Amore, poi paura di non essere ricambiato. Gli piaceva. Voleva godersi quelle emozioni una ad una, lasciarsi pervadere dalla loro dolcezza come l’acqua di un bagno caldo nel quale si sentiva immerso perennemente.
Sicuramente Hope, intelligente com’era, aveva notato questo in lui. Una sera, infatti, mentre stavano fuori a fumare (si, grazie al cielo almeno lì poteva permettersi di fumare una vera sigaretta, ogni tanto!) lei cominciò a guardarlo in modo strano. Spense la sigaretta sul posacenere e, mentre lui faceva lo stesso, si mise comoda, con le braccia incrociate e la schiena appoggiata al balcone.
“Hamish…” cominciò senza alcuna traccia di imbarazzo nella sua voce “So cosa provi per me, ma non potrà mai funzionare”
“Lo sai eh?” rispose lui guardandola cercando di non tradire le sue emozioni “Come sai che non potrebbe funzionare?”
“Ho quasi dieci anni più di te, Hamish. Cerca di capire”
“Dieci anni… cosa vuoi che siano?” chiese lui sbuffando “Hope, sai come mi chiamavano al liceo? Frocetto”
“Come come?” chiese lei sgranando gli occhi
“Si, Frocetto. Sai perché? Perché non mi interessavano le ragazze. Alcune si erano dichiarate ma io le avevo sempre respinte. Non capivo il perché di quel soprannome però. Non mi piacevano neanche i ragazzi. Ma in queste ultime settimane penso di averlo capito”
“Sentiamo” disse lei ridendo
“Aspettavo te”
Hope lo guardò. Ripensò alla sua vita. Certo, nessuno l’aveva mai chiamata lesbica, ma in effetti poteva dire che il racconto di Hamish poteva adattarsi perfettamente anche alla sua esperienza. Lo guardò meglio. Capelli di un bellissimo rosso, occhi azzurro chiaro, un viso sottile dalle linee gentili… non aveva mai visto nessuno bello come lui. L’aveva notato subito, dal primo momento. Aveva ringraziato e maledetto Mole allo stesso tempo per averla nominata ‘babysitter’ del nuovo arrivato. Anche lei, come lui, aveva capito fin da subito che lo avrebbe amato, ma la consapevolezza di quei dieci anni che li dividevano l’aveva sempre bloccata. Ora sapeva che a lui non importava. Benissimo. Benissimo. Si avvicinò lentamente. Lui le porse la mano e le loro dita si intrecciarono. In un momento i loro corpi e le loro labbra erano vicini.
Non fecero l’amore quella sera. Non volevano bruciare un momento così delicato. Il loro rapporto era simile ad un fiore appena sbocciato. La gemma era stata percepita subito da entrambi appena i loro occhi si erano incrociati e quella sera era spuntato un timido fiore. Non volevano mettersi fretta. Ci sarebbe stato tutto il tempo, più avanti, per godere del frutto.
 
Il giorno seguente Hope accompagnò Sherlock al quartier generale. Ormai anche lui si era guadagnato la fiducia di Mole che gli permetteva di andare lì, anche solo per lasciarlo immergersi in quel mondo, così nuovo per lui.
Improvvisamente arrivò una chiamata, via Skype, che sconvolse tutta la sua giornata. Era sua madre. Aveva fatto centro, allora!! Era sua madre la transgenica! Restando fuori dalla portata della webcam, ascoltò per filo e per segno la chiamata. Sentì perfino la voce di Donovan che urlava “Al mostro”. ‘Quella oca’ pensò.
Però una cosa lo sconvolse. Sua madre stava andando lì. Lo avrebbe rivisto. Lo avrebbe riconosciuto, nonostante la tinta ai capelli. Doveva parlarne a qualcuno. Subito. Sapeva perfettamente con chi. Hope, prima di tutto, in privato. Poi con Mole.
“Hope” cominciò titubante “ho bisogno di parlarti”
“Dimmi Amore” gli rispose lei. Ormai aveva cominciato a chiamarlo così, dalla sera precedente e, già dal primo mattino, tutti gli altri avevano capito cosa era nato tra i due. Non che non se l’aspettassero. Aspettavano solo il momento in cui i due si fossero decisi a dichiararsi.
“In privato” aggiunse, guardandosi in giro
Appena i due furono tornati a casa, Sherlock fece una cosa che mai, mai nella sua vita aveva fatto. Neanche quando Mycroft lo aveva fatto cadere dalla bicicletta e si era trovato le ginocchia coperte di sangue e terra. Sul tetto del Barth’s c’era andato vicino, ma mai come quel momento. Pianse. Pianse portandosi le mani sul viso, come per arginare tutte le lacrime che scendevano copiose dai suoi occhi. Non serviva spiegare nulla. Anche Hope aveva assistito alla telefonata, quindi sapeva tutto di Sherlock Holmes e di Max. Quando si riprese, la guardò negli occhi. Lei gli porgeva un fazzoletto.
“Dimmi Amore” ripeté per incoraggiarlo
“Hai sentito la telefonata di prima, giusto?”
“Si”
“Bene…. Io… Hope. Ti ho mentito”
“Cosa?” urlò lei arrabbiata. Si calmò subito. Gli occhi arrossati e colmi di lacrime di Hamish la commuovevano
“Il mio vero nome… il mio vero nome non è Hamish Black. In realtà mi chiamo Sherlock Holmes”
“Sherlock… Sherlock Holmes? Il tizio che i Familiari volevano uccidere? Ma come…”
“Hanno tentato di uccidermi, in effetti. Per questo mi sono trasferito qui a Seattle. Per capire. Ero riuscito a rintracciare i contatti di quel Moriarty fino qui a Seattle, ma non sapevo che voi stavate investigando proprio sul mio caso… altrimenti vi avrei detto la verità subito”
“Una cosa non capisco” disse lei seria. Evidentemente aveva assimilato la verità con estrema facilità “Perché i familiari volevano uciderti?”
Lui non rispose. Semplicemente si sbottonò la camicia. Lei non capiva quel gesto ma presto fu chiaro. Le stava mostrando i tatuaggi.
“Questi tatuaggi sono comparsi sul mio corpo circa quattro mesi fa e… Max è mia madre” spiegò lui ricominciando a singhiozzare “E presto verrà qui. A Londra ho dovuto simulare il mio suicidio per poter scappare e proteggere tre persone a cui tenevo”
“Si, l’ho letto nel rapporto di Mole” disse lei seria “Sei stato molto coraggioso”
“Il fatto è che non so se avrò la forza di rivederla. Le ho spezzato il cuore…”
“Capirà. È un X5. È forte. E poi ti ama. Sei suo figlio. Non potrà non essere felice di saperti vivo. In effetti mi era sembrato di vedere un’ombra nei suoi occhi quando Mole ha fatto il tuo nome. Vedrai. Si sistemerà tutto”
Detto questo, lo trascinò sul divano vicino a sé e lo abbraccio, lasciandolo sfogare tra le lacrime.
 
 
 
*Hope è la figlia di Gem, l’X5 che partorisce nell’ultima puntata della seconda serie
**Vedi sempre l’ultima puntata della seconda serie di Dark Angel

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Capitolo 7
*** In viaggio verso la verità (e qualche spiegazione più o meno imbarazzante) ***


Seduti sui comodi sedili del jet privato,John e Greg ascoltavano rapiti il racconto di Max. Si sentivano come due bambini che ascoltano una favola dalla mamma. Questo perché tutto quello che gli veniva detto era così incredibile e misterioso da suonare impossibile, ma la donna era sincera. Su questo non c’era alcun dubbio. Non avevano mai sentito parlare di quella che, con il passare degli anni, era diventata una vera e propria etnia. I transgenici o meglio, i manticoriani, erano già tanti quando fuggirono dalla base che successivamente diede loro il nome come gruppo etnico. Con il passare del tempo ci furono nuove generazioni. Sherlock apparteneva a una di queste.
Max parlava tranquillamente ora. La decisione di vendicare suo figlio aveva preso il posto della disperazione. Era determinata. John notò che aveva lo stesso sguardo di Sherlock prima di affrontare una missione. Era chiaro da chi avesse preso il suo carattere e la sua intelligenza.
“Max…” cominciò a disagio John “Prima parlavi del fatto che Sherlock aveva ereditato il tuo DNA… felino, giusto? Cosa vuol dire?”
“Vuol dire” rispose lei “che io e i miei ‘simili’ siamo delle chimere”
“Come prego?” disse Greg sgranando gli occhi
“Quando hanno giocato con i miei geni, ormai tanti anni fa, hanno deciso di arricchirli con una spruzzatina di DNA felino” spiegò lei come se stesse parlando di un cocktail “Per questo ho un’ottima vista anche al buio e un fisico perfetto. Nel mio codice genetico c’è DNA di pantera*” disse indicando il tatuaggio “C’è un piccolo inconveniente, però” aggiunse arrossendo leggermente. “Ma di questo parleremo più avanti”
“Eh no” disse Logan ridendo “Ora glielo dici!”
“Hem…” cominciò, diventando sempre più rossa “John, tu che vivevi con Sherlock, hai mai notato niente di strano?”
“Strano?”chiese John ridendo “Di strano ho notato tante cose. Dovrei dire cosa ho notato di normale: nulla”
“Sapete perché Sherlock era così terrorizzato dal sesso?” chiese lei con un sorriso malizioso
John e Greg si guardarono. In effetti lo avevano sempre sospettato.
“Non avete idea di quante volte ho cercato di affrontare l’argomento con lui” disse nostalgica “Ma si è sempre rifiutato. Il problema sta proprio nel DNA felino. Mycroft non ne ha, ma lui si e questo portava a delle conseguenze sulla vita non indifferenti. Il fatto è che noi chimere abbiamo le caratteristiche sia dell’uomo sia dell’animale del nostro ‘cocktail genetico. Io sono in parte pantera. Per questo, almeno due o tre volte all’anno…be’, ecco… vado in calore”
Non si può facilmente descrivere la reazione dei due interlocutori alla notizia. Greg sputò in faccia a John il succo d’arancia che stava bevendo e quest’ultimo, shockato dalla rivelazione, non se ne accorse neppure.
“Quindi anche Sherlock…” disse Logan sorridendo
“Si. Per me è sempre stato un problema relativo. Ne conosco la causa e so come gestirlo ma lui… lui non sapeva nulla. Sapeva solo che il desiderio sessuale che provava in quei periodi era così intenso e così distante dal suo carattere che lo spaventava. Per questo è sempre stato ben lontano dalle donne. Per paura.”
I due si misero a ridere.
“Non mi sarei mai aspettato una cosa simile” disse John “Sarebbe stato bello vederlo in quei periodi, almeno una volta. A dirla tutta” disse poi abbassando lo sguardo “Mi basterebbe rivederlo. Mi manca”
“Anche a me” disse Gret “Mi sento in colpa per quello che è successo”
“No” gli rispose Max sporgendosi verso di lui e prendendogli un polso “Non devi. Non è stata colpa tua. Ora, però, possiamo fare qualcosina per rimediare, non credi?”
“Si” rispose lui asciugandosi una lacrima
“A proposito” intervenne Logan “Mi spieghi i loro nomi? I nomi dei tuoi figli, intendo”
“Va bene” disse lei rimettendosi comoda “Innanzitutto i primi nomi. Mycroft Sherlock Sandman* era il fondatore di Manticore”
“Si chiamava così?” chiese Logan, cadendo dalle nuvole
“Si. Noi lo abbiamo sempre chiamato per cognome, per comodità. Joshua lo chiamava ‘Il Padre’. Era l’unico tra di noi che lo avesse conosciuto. Così un giorno, mentre eravamo nella sua vecchia casa, gli chiesi il suo nome. Quando mi disse quei due nomi mi piacquero così tanto che decisi subito che li avrei dati ad eventuali figli. Così è stato”
“Hai parlato di ‘primi nomi’. Hanno un secondo nome?” chiese John
“Si. Mycroft Zachariah. Logan, tu non dovresti avere problemi per capire come mai l’ho chiamato così. Zack era mio fratello, il nostro comandante quando eravamo a Manticore. È ancora vivo nonostante, per una serie di motivi troppo lunghi da spiegare, non ricorda nemmeno di essere un X5. Ma per lui è meglio così. Invece Sherlock Benedict in onore di un altro mio fratello, Ben. Devo dire che non gli ha portato fortuna. Anche Ben è morto giovane. Aveva 22 anni” disse poi con gli occhi lucidi “Era un sognatore. Si inventava sempre delle storie che ci raccontava la sera, prima di dormire. Voleva sempre sapere il perché di ogni cosa, perché eravamo lì, cosa c’era fuori… una volta uscito, però, non riuscì a trovare risposte alle troppe domande che il mondo gli ispirava. Impazzì. Commise una serie di omicidi e… si tolse la vita**. Non fraintendetemi” aggiunse poi in fretta “Non ho chiamato mio figlio così per trasmettergli qualcosa di negativo. L’ho fatto solo per l’immenso amore che provavo per mio fratello”
Il viaggio proseguì tranquillamente. John e Greg continuavano a chiedere a Max aneddoti sull’infanzia di Sherlock e Mycroft e lei li esaudiva, ricordando i suoi bimbi con sorrisi che le bucavano le guance.***
Era ormai buio, quando atterrarono a Seattle.
 
 
*Questo l’ho inventato io, così come i prossimi riferimenti a nomi.
** In realtà lo ha ucciso lei, ma ho preferito modificare
*** In futuro potrei fare una serie di storielle su questi famosi aneddoti… per ora non me ne viene in mente neanche uno ma… un doman…. Non se sa mai…

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Capitolo 8
*** L'Incontro ***


Sherlock aveva pianto tanto così, dopo essersi sfogato tra le braccia di Hope, si addormentò profondamente. Era pomeriggio inoltrato quando si svegliò. Si mise bruscamente a sedere. Hope lo aveva portato a letto e ora riposava al suo fianco.
Avevano parlato così tanto quella notte e il pianto lo aveva talmente stancato che aveva dormito tutte quelle ore.
“Hope” sussurrò guardando l’orologio “Hope, svegliati!!”
“Mh…” borbottò lei ancora mezza addormentata. Lui la guardò con tenerezza.
“Dormi pure. Io vado a parlare della mia situazione anche con Mole e Joshua”
“No, aspetta” disse lei, svegliandosi completamente “Vengo anch’io”
I due si diressero verso il quartier generale. Mole si stava preparando per andare all’aeroporto a prendere Max. Con lui c’era anche Joshua, ansioso di rivedere la sua Cucciolina.
“Mole” lo chiamò Sherlock “Ho bisogno di parlarti”
“Non ora Hamish, scusa” gli rispose lui senza guardarlo “Dobbiamo andare in aeroporto a prendere Max. ieri hai sentito la telefonata, no?”
“Si. Per questo devo parlarti. Ti ricordi che quando ci siamo conosciuti ti ho dato un nome falso perché ero sotto copertura?”
Mole lo guardò piegando la testa, come faceva quando qualcosa lo colpiva o lo incuriosiva.
“Il mio vero nome è Sherlock Holmes. Sai tutto della mia storia quindi non perderò tempo a raccontartela. Per quanto riguarda i tatuaggi… li ho anche io. Per questo hanno tentato di uccidermi”
“Vorresti dire che tu…” cominciò lui sopreso
“Si” rispose Sherlock guardandolo negli occhi, tentando di nascondere l’emozione “Sono il figlio di Max”
Joshua lo guardò. Poi cominciò ad annusarlo.
“Avevo ragione!” disse dopo un lungo esame “Mi sembrava di aver sentito prima il tuo odore. È l’odore della mia Cucciolina!”
“Il mio problema è, come vi dicevo, che ho simulato la mia morte. Mia madre mi crede morto!”
Mole e Joshua si guardarono preoccupati. Hope stringeva forte la mano di Sherlock, sempre più teso.
“A quest’ora sarà arrivata” disse guardando l’orologio “Tu aspetta qui. È meglio che arrivino sani e salvi a destinazione prima di svenire. Joshua” disse rivolgendosi all’uomo-cane “Andiamo”
I due si incamminarono verso il furgoncino e sparirono dietro l’angolo. Sherlock era nel panico più totale. Cosa avrebbe detto a sua madre? E a John? C’era un’altissima possibilità che, insieme al funzionario di Scotland Yard (Lestrade, al 100%) arrivasse anche John. Non poteva esserne sicuro, però se lo sentiva.
 
Non passò più di mezz’ora da quando il furgoncino era partito ma a Sherlock sembrò un’eternità. Andava avanti e indietro per la stanza sotto lo sguardo di Hope che tentava invano di calmarlo.
“Capiranno, una volta letta la documentazione” gli diceva “C’è scritto di come quel Moriarty ti ricattasse perché ti buttassi dal palazzo. Tu hai agito solo per salvare le persone che ami!”
Dopo alcuni momenti di silenzio, riconobbe il suono del motore. Si aprirono alcune portiere e si richiusero. Mole parlò per primo. Sherlock sentì la sua voce, al di là della porta scura.
“Ascoltatemi voi tre” disse evidentemente rivolto agli ospiti “Prima di entrare devo avvisarvi di una cosa. Mezz’ora fa, giusto prima di partire per venire a prendervi, sono venuto a conoscenza di una cosa da un ragazzo che vive con noi sotto copertura da circa un mese. Ha sentito la telefonata via Skype di ieri e così ha deciso che era meglio dirmi il suo vero nome”
Nessuna risposta.
“Cercate di non svenire, per piacere” proseguì cominciando ad aprire la porta.
Sherlock trattene il respiro. La porta si aprì… Lentamente, quasi al rallentatore, entrarono Max, poi Greg, poi John. Li vide. Loro lo videro…
Max lo riconobbe subito. Subito. Capì all’istante perché aveva i capelli rossi. Ma lei non gli guardava i capelli. Gli guardava gli occhi. Erano lucidi, un sentimento tra felicità e preoccupazione si scioglieva tra le lacrime che gli rigavano il viso. La donna alzò le mani poi, lentamente, le protese verso di lui. Un istante dopo lo stava abbracciando piangendo. Anche lui, rassicurato dal calore di sua madre, si lasciò andare ulteriormente.
John e Greg si guardarono. John non sapeva se essere arrabbiato o felice. Felicemente arrabbiato. Come ogni volta in cui Sherlock rischiava la vita. Lo faceva arrabbiare perché lo preoccupava ma alla fine era sempre felice che lui fosse in salvo. Ora provava quella sensazione, sperimentata già diverse volte e che tanto gli mancava da quando era andato al suo funerale. La differenza era che ora quella stessa emozione era dieci volte più potente. Si avvicinò quando vide che madre e figlio si stavano staccando. Sherlock lo guardò, il volto lucido per le lacrime, e lo abbracciò. John non aveva mai visto Sherlock in quello stato. Gli piaceva. Finalmente aveva scoperto che il suo migliore amico era umano e che aveva, a dispetto di quello che gli diceva sempre, un cuore bellissimo e pieno d’amore. Stava solo aspettando le persone giuste a cui donarlo. Lui e (ma ancora non poteva saperlo) Hope, erano quelle persone.
Greg guardò rasserenato la scenetta. Non aveva un rapporto così confidenziale con Sherlock da fargli desiderare di abbracciarlo ma dentro di lui qualcosa si sciolse. Stava bene ora. Il senso di colpa non svanì completamente. Si tramutò in un dolce ricordo che serviva per aiutarno a capire che doveva avere più fiducia nel suo istinto e nelle persone che gli stavano accanto. Incrociò le braccia, soddisfatto, quando Sherlock si avvicinò anche a lui e lo abbracciò. Fu un abbraccio breve e dolcissimo che lo fece arrossire.
Successivamente ci fu il tempo per le spiegazioni. Mole illustrò a Max la documentazione mentre John e Greg diventavano consapevoli del sacrificio che Sherlock aveva fatto solo per proteggerli.
“Una cosa vorremmo sapere” disse Greg rivolgendosi a Max “Puoi spiegarci il significato dei tatuaggi?”
“È una storia che tutti i menticoriani conoscono e ha anche a che fare col fatto che ho nascosto la verità sulle mio origini alla mia famiglia e l’esistenza di quest’ultima alla mia gente”
Sherlock la ascoltava con vivo interesse. Si era seduto e aveva congiunto le mani sotto il mento. Aveva gli occhi chiusi, come quando era veramente concentrato.
“A quanto pare Sandman, il fondatore di Manticore, faceva parte della setta dei Familiari. Quando decise di staccarsene a causa di suo figlio, questi cominciarono a perseguitarlo. Lui voleva cambiare le cose. lasciando perdere i riti antichi con il sangue del serpente, voleva modernizzare e rendere più sicura e scientifica l’evoluzione umana. Ben presto, però, si rese conto che anche lì non sarebbe venuto nulla di buono. Il governo si impossessò del progetto e lo indirizzò verso scopi militari. A questo punto possiamo solo fare delle supposizioni. Quello che so è che Sandman mi creò appositamente senza DNA di scarto proprio perché, in un certo momento, comparissero questi tatuaggi”
“A cosa servivano?” chiese Sherlock, sempre tenendo gli occhi chiusi “Erano un messaggio?”
“Non so dirti come Sandman sapesse quello che poi sarebbe successo. So solo che voleva indicarmi il mio destino. Non potete sapere che noi qui presenti” disse indicando Mole, Joshua e Logan “più Alec che in questo momento non c’è, siamo il nucleo fondatore dell’etnia manticoriana. È partito tutto da noi. Siamo noi che abbiamo organizzato e gestito la resistenza, all’inizio”
“Tu però eri speciale” intervenne Joshua “Quei tatuaggi indicavano che saresti stata tu la leader della nostra nazione. La nostra Musa Ispiratrice”
“Per questo ero in pericolo. Ames White voleva uccidermi a tutti i costi così, dopo un anno dall’inizio della resistenza, mi trasferii a Londra.Non solo per sfuggire ai miei potenziali assassini. Volevo anche dimenticare Logan perché, quando lui era ‘eyes only’, il cyber giornalista, i Familiari avevano trovato un modo per ucciderlo. Sfruttando il fatto che eravamo innamorati, mi avevano iniettato un virus mirato sul suo DNA. Toccandolo, lo infetterei con il virus che è mortale”
A quelle parole, John si ricordò del fatto che Logan stava per toccare la donna e poi non lo aveva fatto. Doveva esserci ancora un amore profondo da parte sua nei suoi confronti.
“Ero già a Londra quando, qualche anno dopo, seppi che lui era riuscito a rifarsi una vita con un'altra donna” riprese Max “Così mi misi il cuore in pace e mi dedicai alla costruzione di una vita tutta mia. Ho sempre saputo che era una bugia” aggiunse quando vide che Logan stava per parlare “Ma avevo capito il messaggio. Volevi che io fossi felice. Julian mi ha aiutato molto in questo. Lo amo, Logan, come amavo te. Come amo i miei figli” aggiunse accarezzando la spalla di Sherlock “Dovremo dare alcune spiegazioni a Mycroft, una volta tornati a casa, non pensi?” chiese al figlio, che si limitò a sorridere in segno di assenso.
“Ora” disse Max sfregandosi le mani “Possiamo risolvere la questione definitivamente”
“Ma mamma” disse Sherlock “A Londra tutti mi credono un imbroglione morto! Come pensi di risolvere questo problema?”
“Non dirmi che sei qui da un mese e non hai ancora conosciuto uno psico-operativo!”
“Un cosa?” chiese lui, sorpreso
“Evidentemente no. Comunque non è così strano. In effetti sono rari.” riprese lei ridendo “Gli psico-operativi sono persone che riescono a manipolare la mente degli altri. Io ne ho conosciuta solo una: Mia. Se venisse a Londra e facesse un comunicato stampa a reti unificate, riuscirebbe a convincere tutti i londinesi che tu sei ancora vivo, che Moriarty esisteva e che tu sei veramente intelligentissimo. Può addirittura fargli dimenticare di aver mai ascoltato quel comunicato. L’informazione resterebbe nel loro cervello come qualcosa di inconscio.”
“Mi sembra che possa andare bene” disse John rassicurato “Quindi tornerai a Londra, giusto?”
Lo guardò con occhi pieni si speranza che si spense subito, quando vide che Sherlock esitava a rispondere.

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Capitolo 9
*** Arrivederci ***


Quando John gli chiese se avesse intenzione di tornare a Londra, Sherlock esitò. Gli piaceva così tanto stare lì. Si sentiva come a casa. Voleva vivere, anche se per pochi anni, l’ebbrezza di trovarsi completamente circondato da i suoi simili. Guardò John e poi si rivolse a sua madre. Lei lo capì al volo.
“Ti capisco Sherlock” disse “Anch’io mi comporterei nello stesso modo”
John la guardò disorientato. Capiva che la madre poteva intuire con facilità i pensieri del figlio.
“John” cominciò Sherlock avvicinandosi “Penso proprio che, almeno per qualche anno, non tornerò a Londra”
Per il dottore fu come una doccia fredda.
“Ma come!” urlò “Sei vivo, stai bene, tra poco anche la tua reputazione sarà a posto … perché restare qui! Non devi più nasconderti!” disse afferrandogli una ciocca di capelli rossi
“Infatti, da oggi smetterò di nascondermi” rispose lui serafico “Semplicemente questo posto mi piace. Voglio vivere qui per un po’. Non troppo” aggiunse vedendo l’espressione triste dell’amico “Due, al massimo tre anni. Scommetto che riuscirai finalmente a trovare una donna da sposare, senza di me tra i piedi per un po’, giusto?”
“Giusto” disse John ridendo “Comunque ti aspetterò per ricominciare insieme le nostre avventure”
“Anch’io ti aspetterò” aggiunse Greg avvicinandosi “Cercherò di cavarmela anche senza il tuo prezioso aiuto. Se te lo stai domandando. No. Non sono sarcastico. Lo credo davvero”
“Grazie Greg” disse lui stringendogli la mano e chiamandolo, per la prima volta, per nome.
“Che ne dite di fare un giro turistico?” chiese Max per allentare la tensione
 
La proposta fu accettata con piacere. Sherlock accompagnò i suoi amici attraverso Terminal City con la stessa disinvoltura che avrebbe avuto a Londra. Ormai quel posto non aveva più segreti, per lui. Li accompagnò attraverso le stradine piene di gente, di colori, di attività. sembrava veramente un piccolo quartiere etnico molto particolare. Pian piano John e Greg si abituarono alla vista di strane creature vicino agli umani. John si sentì come catapultato in un set di ‘Star Trek’.
“Andiamo a casa nostra” propose Hope prendendo la mano di Sherlock
“Casa vostra?” chiese John stupito
“Si. Quando mi sono trasferito qui Mole ha affidato a Hope il compito di farmi da guida. In fin dei conti, non sapevo nulla di questo mondo”
“A proposito, Hope” disse Max “Tua madre per caso è Gem?”
“Si, è proprio lei” rispose la ragazza
“Mi ricordo quando sei nata. Hope si chiama così per un motivo, sapete?” disse rivolgendosi agli altri “È nata il giorno in cui abbiamo formalmente iniziato l’occupazione di Terminal City. Non che prima non la usassimo come base operativa, ma il giorno in cui lei è nata è iniziato un percorso che ci ha portato fino ad oggi e a quello che vedete ora intorno a noi. Hope come speranza per il futuro. Speranza ben ripagata, per fortuna. Non sapevamo come sarebbe andata a finire. Ci siamo semplicemente messi in gioco e abbiamo vinto”
Camminando raggiunsero l’appartamento dei due. Era abbastanza grande, arredato con gusto. John notò immediatamente un angolo dove regnava il caos del suo ex coinquilino. Evidentemente Hope aveva abbastanza autorità su di lui da impedirgli di sparpagliare in giro per casa le sue cianfrusaglie. D’altra parte non ne aveva a sufficienza per evitare totalmente che lo facesse, almeno in un angolino. Appeso affianco ad una finestra, notò subito il suo ritratto.
“Sherlock” disse indicandolo stupito e compiaciuto “Quello sono io?”
“Si” rispose il detective ridendo “Joshua mi ha insegnato a dipingere. Alec invece mi ha insegnato a suonare il piano. Non preoccuparti” aggiunse poi notando l’espressione sgomenta dell’amico “Non abbandonerò mai il violino. Il piano mi piace ma non pensò che lo approfondirò più di tanto. Tra l’altro” aggiunse guardando Hope “quando tornerò a Londra non penso che vivremo di nuovo insieme”
“Cosa te lo fa supporre?” chiese lui un pochino triste “Sai già che in questi tre anni troverò una moglie?”
“Questo non lo posso sapere” rispose lui stringendosi nelle spalle “Quello che posso sapere con certezza è che l’avrò io”
A quell’affermazione i presenti si voltarono e ci fu la stessa reazione di quando, in aereo, Max parlava degli ‘attacchi di calore’.
“Tu? Sposato? E con chi?” chiese John allibito
Max sorrise. Guardò il figlio e poi Hope.
“Tesoro” disse poi rivolta al figlio “Lo sai, vero, che ha quasi dieci anni più di te?”
John si voltò verso Max.
“Chi?” chiese. Poi guardo Sherlock e Hope che si guardavano “Ah, capisco! Be’, congratulazioni”
“Mi fa piacere per te” disse Greg “Ma con una moglie riuscirai a seguire di nuovi i casi che tanto ti appassionano?”
“Anche Hope è figlia di una, anzi, di due X5. Non penso che ci saranno problemi. Per quanto riguarda i dieci anni di differenza… non sono importanti. L’importante è che ci amiamo, no?”
“Dette da te queste parole suonano un po’ strane” disse John imbarazzato “A parte il fatto che la parola ‘strano’ con te assume ogni giorno un significato di verso, sei sicuro di essere lo Sherlock Holmes che conoscevo?”
“No. Quello è morto buttandosi dal tetto del Barth’s. Sul serio” aggiunse vedendo il viso preoccupato degli altri “Buttandomi da lassù avevo agito, per la prima volta, per qualcun altro. Per proteggere tre persone importanti per me. Da quel momento ho cominciato a pormi in modo diverso con gli altri. Non che sia completamente cambiato. Non illuderti, John. I miei difetti sono rimasti tutti, chiedilo pure a Hope. Semplicemente ho scoperto che, tra tutti i difetti, c’era anche qualche pregio che ancora non conoscevo nemmeno io”
Mentre ritornavano al quartier generale, John e Sherlock rimasero leggermente indietro. “Noi andiamo a fare un salto al Crash” disse il detective all’improvviso “Ci vediamo tra un po’”
 
“Tua madre mi ha raccontato tutto, sai?” chiese il dottore quando furono seduti davanti ad una birra
“Si, lo immagino. Io ho saputo la verità da Hope, invece”
“Mi ha raccontato anche del motivo per cui sei, o eri, terrorizzato dal sesso”
“Ero” rispose lui tranquillamente “Hope mi ha spiegato tutto. Non ho avuto ancora uno di quei periodi da quando sono qui, ma la prossima volta saprò come gestirlo”
“Senti” cominciò lui malizioso “Ne hai avuti mentre vivevamo insieme?”
“Si. Due. Fortunatamente la prima è successo mentre io non ero impegnato in indagini che inevitabilmente mi avrebbero portato fuori casa e tu eri troppo impegnato con la fidanzata di turno. Non ti nego che, quando hai portato Elisabeth a casa per la prima volta, ero proprio in quel periodo e c’è voluto un gran autocontrollo da parte mia per non saltarle addosso prima che foste usciti”
“E la seconda” domandò lui, lievemente preoccupato
“Be’, la seconda…” cominciò lui arrossendo leggermento “Ecco, è cominciata così…”
John ascoltava incredulo quello che l’amico gli stava raccontando, così preso dal racconto che quasi si dimenticò di respirare. Vedere Sherlock piangere aveva dell’incredibile, ma il suo ex coinquilino sembrava avere sempre nuovi modi per stupirlo.
“Quindi sei attratto dalle donne!” disse ridendo quando ebbe terminato il racconto.
“Evidentemente si, visto che mi sposerò con Hope” rispose lui con un sorriso
Parlarono a lungo. Erano passati solo pochi mesi eppure sembrava un’eternità. Forse perché vivendo intensamente come facevano loro, anche un giorno di lontananza era pesante. John era felice che Sherlock avesse esaudito il suo desiderio, pronunciato sull’orlo delle lacrime davanti alla sua tomba.
“Ora dovrò andare in quel cimitero e, con l’aiuto di una mazza, distruggere personalmente quella lapide nera” disse John con sguardo deciso, poi si rivolse a Sherlock con un sorriso “Che ne dici?”
“Penso che sia un’ottima idea” rispose lui
 
Max, Logan, John e Greg restarono a Terminal City ancora qualche giorno. Mia sarebbe tornata con loro a Londra per un periodo, giusto il tempo di sistemare la situazione di Sherlock.
“A presto” disse semplicemente Sherlock mentre il gruppetto si avviava verso il jet che li aspettava sulla pista.

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Capitolo 10
*** HLH ***


Quella mattina a Scotland Yard era insolitamente tranquilla. Donovan sedeva nel suo ufficio cercando di sistemare alcuni fascicoli che aveva in sospeso. Anderson era alla sua scrivania e ascoltava una donna che gli raccontava di come, durante la notte, avesse visto un ladro nella casa di fronte alla sua. Fuori, nella sala d’aspetto, c’erano due o tre persone, ansiose di raccontare le loro storie.
Greg, in piedi vicino alla finestra del suo ufficio privato, osservava la strada sottostante con una tazza di tè in mano. Si era preso una piccola pausa dopo aver passato la notte a leggere e rileggere alcuni fascicoli su un omicidio avvenuto la settimana prima. Non voleva essere assolutamente disturbato perché, da quando non c’era più Sherlock, si era impegnato al cento per cento nella risoluzione dei casi utilizzando, non sempre in modo eccellente, il metodo di indagine del suo amico. Ogni tanto lo chiamava via Skype e gli chiedeva qualche suggerimento e molto spesso anche John si univa a lui nelle indagini. Ma quella mattina qualcuno sarebbe andato a disturbarlo e la cosa non lo avrebbe reso più felice.
 
La porta di Donovan si aprì lentamente. Lei sobbalzò. Non c’era nessuno sulla soglia eppure … come aveva fatto ad aprirsi da sola? La risposta le venne da una vocina, al di là della scrivania.
“Ciao signora” disse la vocina.
Donovan si sporse oltre il bordo e vide un bambino. Era incredibilmente bello. Capelli castano scuro, leggermente mossi e due occhi azzurro chiaro, limpidi e cristallini.
“Ciao bel bambino” rispose lei dolcemente “Come ti chiami?”
“Hamish” rispose lui con la voce flautata “Ho tre anni”
“Tre anni? Caspita! Io mi chiamo Sally. Dimmi, cosa ci fai qui tutto solo? Vuoi che ti accompagni dal tuo papà e dalla tua mamma?” chiese premurosamente la donna, pensando che fosse figlio di qualche cittadino venuto lì per una denuncia.
Prima che il bimbo potesse rispondere Anderson entrò ridendo.
“Sally, sai chi è tornato?” chiese tra le risa
“Dimmelo tu” rispose lei sospirando
“Lo Strambo!” disse l’uomo con un ghigno irrispettoso. Nonostante tutto quello che era successo, non aveva ancora perso il disprezzo e l’invidia che provava nei suoi confronti.
“Non chiamarlo così” disse accigliata rivolta al collega. Fortunatamente Sally era un po’ cambiata e aveva cominciato a stimarlo profondamente.
“Lo chiamo come mi pare e piace” rispose lui canzonandola “Comunque è qui fuori” continuò indicando la porta.
I due si affacciarono e anche il bambino guardò, curioso di vedere chi fosse lo strambo.
“Guardalo là” riprese Anderson indicando l’uomo che parlava con Lestrade con lo stesso ghigno di poco prima “Avevo sperato di essermi liberato di quello psicopatico invece è ancorahia!!” urlò quando sentì una fitta dolorosissima allo stinco sinistro. Era il piccolo Hamish che gli aveva sfoderato un potente calcio.
“Quello è il mio papà, scemo!” gli aveva urlato, rosso in viso dalla collera. Dopodiché, aveva trotterellato verso l’uomo e, attirando la sua attenzione con un leggero strattone ai pantaloni, si fece prendere in braccio. Da come parlava, Anderson intuì che stava riferendo al papà l’offesa subita.
Sherlock alzò lo sguardo per cercare il colpevole e, tornando a guardare il figlio, sembrò rassicurarlo. Non valeva la pena di perdere tempo con elementi del genere.
“Però” commentò Sally con un fischio “Non sapevo che avesse avuto un figlio. È proprio un bel bambino … e ha anche un bel carattere, per la sua età! Devo dire che te lo sei proprio meritato, quel calcio nello stinco Hai sentito come parla bene? Ha solo tre anni eppure riesce a parlare benissimo! Certo, con un padre così …
Anderson grugnì mentre si avvicinavano a Greg e a Sherlock, che teneva ancora Hamish tra le braccia.
“Hai conosciuto questi due signori, Hamish?” chiese Sherlock guardando i due.
“Si papà!” rispose il bimbo ridendo “Sally è simpatica, ma quello lì” disse indicando con rabbia Anderson “è brutto e cattivo” e, detto questo, gli mostrò la lingua
“Non si fa, Hamish” lo riprese il padre “Non è educato fare le linguacce. Scusalo, per favore”
“Si, certo” rispose l’interessato con leggero imbarazzo. Non vedeva Sherlock più di cinque anni e fu sorpreso di notare quanto il suo atteggiamento nei suoi confronti fosse cambiato. Traspariva lo stesso il fatto che lo considerasse un idiota, ma ora era più pacato e meno incline all’esibizionismo.
“Sherlock ha deciso di trasferirsi nuovamente a Londra” disse Greg ai due
“Si” confermò il detective “Abbiamo già trovato un appartamento spazioso vicino a Baker Street. Purtroppo il 221b è troppo piccolo per tre persone”
“Non sapevo che fossi sposato, Sherlock” disse Sally sorpresa
Lui la guardò con altrettanto stupore. Per la prima volta lo chiamava per nome, invece di usare quei nomignoli offensivi.
“Si chiama Hope” spiegò “L’ho conosciuta a Seattle e ci siamo innamorati praticamente subito. Scusate se non vi ho invitato” disse a Sally e ad Anderson “Non sono mai stato molto in confidenza con voi. È stata una cerimonia molto intima. I miei genitori e mio fratello, i genitori di lei e qualche amico, tra cui anche Greg. John e Molly mi hanno fatto da testimoni.
“Senti Hamish” chiese Greg “Anche tu vuoi fare il detective come il tuo papà da grande?”
“No” disse il piccolo scuotendo la testa deciso “Voglio fare il pittore come lo zio Joshua!”
“Lo zio Joshua?” chiese Sally
“Joshua Sandman” precisò Sherlock “È abbastanza quotato. Espone in molte gallerie d’arte in tutto il mondo”
“Non ci posso credere!” disse la donna ammirata “Adoro quel pittore! È veramente tuo cognato?”
“A dir la verità è fratello di mia madre. Quindi sarebbe suo prozio”
“Capisco … me lo presenterai, un giorno?”
“Si” rispose il piccolo Hamish “Quando verrà a Londra per fare una mostra con i suoi nuovi quadri”
“Ora però dobbiamo andare a casa. La mamma sarà preoccupata. Siamo fuori da più di due ore”
“Si papà. Andiamo” rispose lui abbracciandolo
“Abbiamo fatto un giretto per Londra per visitare gli amici” spiegò Sherlock “Hope non aveva voglia di venire qui, così l’ho lasciata a casa di John. Ve la presenterò, un giorno”
Detto questo uscì dalla stanza.
 
Gli piaceva passeggiare per Londra con suo figlio. Fino a pochi anni prima non passeggiava nemmeno. Al massimo correva di qua e di là in cerca di indizi per le sue indagini e, anche quando camminava, il suo cervello era immerso nei dettagli dei casi di cui si occupava. In quel momento, invece, si stava semplicemente godendo l’abbraccio del piccolo Hamish. Lo stringeva a sé amorevolmente. Sentiva di volerlo proteggere e amare come gli era capitato poche persone nella vita. John e Hope erano due di queste. Anche Mycroft, adesso. Pian piano avevano ricucito i rapporti. Il fratello maggiore aveva tolto quella cappa protettiva che da sempre lo soffocava e gli faceva voglia di scappare. Si sentiva libero, degno della fiducia del suo fratellone e per questo aveva ricominciato a provare affetto nei suoi confronti. Forse non sarebbe tornato ad essere il Dio in terra che Sherlock adorava quando era piccolo… ma ci andava vicino.
 
“Siamo tornati” annunciò il detective.
Quando i due arrivarono a casa di John, trovarono anche la sua famigliola riunita. Mary, di cui Sherlock parlava come sua cognata (visto che John era per lui come un fratello), teneva in braccio la piccola Amélie, di appena un anno, che dormiva placidamente. La bambina assomigliava tantissimo al papà, bionda con gli occhi azzurri. Si vedeva che Hamish le voleva già tanto bene. Ogni volta che un amico dello zio andava a trovarli e lui si trovava lì si metteva in piedi vicino alla cuginetta, vigile, come per proteggerla.
Sherlock lo fece scendere e si avvicinò a Hope, sfiorandole dolcemente le labbra con un tenero bacio. Il bambino, dopo aver salutato tutti, si avvicinò a Mary e, sollevandosi sulle punte dei piedi, diede un bacio sulla guancia alla piccola. Lei aprì lentamente gli occhi e, dopo averlo riconosciuto, gli sorrise
 
 
 



  
20 anni dopo
“Sei teso, Hamish?” gli chiese Amélie appoggiandogli una mano sulla spalla
“Teso?” chiese lui sarcastico “Secondo te come potrei sentirmi?
“In effetti…” rispose lei sorridendo “Non ti devi preoccupare, secondo me. Vedrai che andrà tutto bene”
“Non lo so” disse lui pensieroso “Lo sai chi verrà qui, oggi?”
“No, non me lo hai detto”
“Verranno alcuni dei più famosi e influenti critici d’arte di New York. È stato mio zio Joshua a contattarli e a segnalarli la mia mostra”
“Sul serio?” chiese lei stupita
“Si. Una loro critica può essere decisiva per la carriera di un pittore alle prime armi. Può lanciarti o stroncarti per sempre!”
 
Nonostante le preoccupazioni di Hamish, la mostra andò benissimo. Tutti gli si avvicinarono per fargli i complimenti. I suoi genitori se ne stavano in disparte ma continuavano a guardarlo, come per fargli sentire la loro presenza senza essere troppo invasivi. Le critiche sui giornali, sia di Londra che di New York, furono stupefacenti. “Questo ragazzo ha un futuro davanti a sé” dicevano.
Stava leggendo il giornale con Amélie nel suo studio. I due erano amici fin dalla più tenera infanzia. Lei passava tutte le mattine da lui per bere il caffè prima di andare al lavoro. Tutti, a parte i loro genitori, pensavano che prima o poi si sarebbero fidanzati. In realtà loro non ci pensavano neanche lontanamente. Si consideravano cugini, amici, confidenti. Provavano un profondo affetto l’uno per l’altra, ma non di più. Lo avrebbero saputo se fosse stato vero amore dopo tutti quegli anni passati insieme.
Restarono in silenzio per qualche minuto poi, all’improvviso, la loro quiete fu interrotta da un urlo. Si precipitarono fuori dalla stanza e corsero per i corridoi dell’edificio per raggiungere la voce.
La donna delle pulizie era davanti alla porta di un ufficio con la scopa in mano e osservava impietrita una figura davanti a lei, riversa a terra e coperta di sangue.
Dopo pochi minuti arrivò la polizia. L’ispettore, block notes alla mano, avanzava per la stanza guardandosi attorno. Hamis, che nel frattempo era rimasto dov’era ad osservare, sentì crescere in lui un istinto sopito. L’adrenalina cominciò a salire e sentì l’impellente desiderio di fare qualcosa.
“È sicuramente un suicidio” concluse l’ispettore chiudendo bruscamente il libricino che aveva in mano
“Suicidio?” disse Hamish a voce alta, senza riuscire a trattenersi “Come fa a dire una cosa del genere? È evidente che si tratta di omicidio! Guardi il tipo di ferite!”
Oooopss! Cosa stava combinando?
“Vuole spiegarsi meglio, giovanotto?” gli chiese l’uomo
Ecco. Troppo tardi. Ormai era iniziata anche per lui.
Un mese più tardi, ritirò in tipografia due tipi di bigliettini da visita. Uno per la sua carriera di pittore. L’altro recitava

 

Hamish Lawliet* Holmes
Consulente detective
 

 
 
 
 
*Chi conosce Death Note capirà! Hihihihihihi
 
Bene! Questa storia delirante è finita. Mi è piaciuto molto scriverla e penso che ne farò altre collegate. Ne ho già alcune in mente. Presto prenderanno forma…
Intanto voglio condividere le sigle dei telefilm che hanno ispirato questa storia:

Voglio anche inserire due musiche di Death Note.
 
 
A presto!
Campanellino

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