“Mi chiamo Alex, non ho cognome, non ho storia. Non ho un posto nel mondo che mi ha accolta, derisa come l’ultima ruota del carro e ingannata nell’idea di valere davvero qualcosa. Sono una bambina nata morta, un aborto partorito e allevato per il macello, per una questione di necessità, per un Progetto ridicolo e destinato a fallire. Canta che ti passa dicono, ma più passa, più fa male e più cantare significa ringhiare di dolore e di rabbia.
Il mio calvario viaggio è iniziato da piccola, quando studiavo giocavo virus e metabolismi con le bambole, cercavo cavie nuovi amici -fratelli- per morire vivere insieme la vita che ci si spiegava davanti; ero una piccola bambolina che guardava il mondo con occhi di vetro gioia azzurri come il ghiaccio mare e capelli biondi come cenere il grano. Il mio nome, Alexandra, un bel nome, e tutte le maledizioni meraviglie della vita da assaporare.
Sarei stata una bellissima imperatrice, “Alexandra”, se solo Rasputin fosse affogato nella Neva prima del tempo: ma questa non è la mia storia. La mia è la fiaba di come sussurro dopo sussurro, goccia dopo goccia, sono cresciuta bella sì, Alexandra, ma fredda come la morte e velenosa come il fiele; le mie tacite suppliche d’aiuto tramutate in perfidia e crudeltà. Allevata alla corte del Giudice, da piccola e innocente ho imparato a soppesare alla bilancia una vita rispetto a un’altra, a cambiare le palline dell’abaco e le unità, le decine e le centinaia in tavola; ho studiato le regole e osservato morire per una A o per una C, per una T o una G.
Io, Alexandra, crescendo sono diventata sempre più piccola, il mio nome troppo pesante da portare per una stracciona che sogna di essere imperatrice. Sono cresciuta debole e malata sana e forte, ombra riflesso di un vecchio marcescente un padre buono e amorevole, distrutta formata intellettualmente dallo stesso mostro benefattore a cui tutto rinfaccio devo. Sono la figlia promettente che odia ama il padre più di ogni altra cosa, che l’inferno la misericordia ci accolga entrambi con il digrignare dei suoi denti la sua calorosa luce.
Io, Alexandra, voglio bene a mio padre, desidero servirlo e portare a termine i suoi obiettivi per compiacerlo, meritarmi la sua fiducia, voltargli le spalle al momento del bisogno e lasciarlo morire come il più bastardo dei cani. Lo assecondo in ogni suo volere e così evolvo, adorabile bambina; lascio diligentemente che mi uccida quando è l’ora per tornare in vita quando richiesto e dimostrargli orgogliosa di essere il migliore dei suoi successi, lo stabile risultato di un Progetto di distruzione di massa di rinnovamento e miglioramento dell’ordine mondiale.
Parte di un’utopia, eccellente, bellissima e spietata, a nessuno importa se Alexandra voglia davvero ciò che ha, figuriamoci se ami o meno il suo nome. Sono diventata adulta alla luce del sole dei microscopi, gli occhi sempre azzurri e pieni vuoti, nei capelli petali di fiori il bianco dei laboratori e il profumo la puzza degli anni migliori peggiori, come tutta la mia vita. Sono sadica e affamata, danzo alla musica di un virus che scandisce ogni via con un lamento; danzo su un palco di undici posti vuoti con solo un'altra ombra ad accompagnarmi. Lui soldatino zoppo, io ballerina di carta e spettatrice, al sipario un demonio che non si fa scrupoli a soffiarci nelle fiamme.
Un cuore di piombo e un lustrino, nati separati e uniti per sempre, fedeli nella gioia e nel dolore, in salute e in malattia, sempre, tutti i giorni della nostra vita, finché morte non ci separi. Ironico come proprio la morte abbia un ruolo cruciale in questa vita che è la mia fiaba mancata, nient’altro se non una ladra egoista che per ben due volte mi ha sottratta al cuore del mio soldatino; la ballerina lasciata sola a disperare nel suo castello di carta che crolla.
Ma io, #12, sono il numero perdente vincente e ho continuato a lavorare e zampettare, Alexandra, piccola Gregor Grete, suona il violino per il buon padre e accompagnalo nella caduta del bianco e del rosso, una fetta dopo l’altra, un sentimento alla volta e ogni nota dolente. Continua a seguire il padrone come sei stata programmata, ubbidiente software che riesce perfino ad evadere al proprio algoritmo: studia e ricerca, ossida e riduci, inserta e deleta fin dove riesci, poi muori difettosa e insulsa Alex, e liberaci della tua inutilità.
Il mio soldatino pensava che la ruota della fortuna sfortuna si fosse inceppata e ha deciso di farla girare a forza, l'ha aggiustata e salvato ucciso il demone al posto della sua figlia prediletta: che l’uomo dio non osi separare ciò che dio l’uomo unisce. Sono felice io, Alexandra; ho ricordato il mio nome e il mio essere grazie al 13 sulla ruota corretta: percepisco, sento, e mi basta. Lotta, sguardo arrendevole, morbido tocco e baci celati: consapevolezza, la mia vita. Una vita breve tuttavia, scandita dallo strisciare di un verme e da un’onirica Metamorfosi che viene a visitarmi sempre più spesso, che sempre più minacciosamente ci avvicina alla verità e a una perdita predestinata. Alexandra.
Io, Alex, muoio e mi chiedo il perché, come sia possibile che abbia perso senza far nulla quella pastosa felicità che ero riuscita a mendicare in una gelida giornata d’inverno. Mi accascio stremata e senza più fiammiferi, si sono esauriti nel freddo di una notte che mi aveva promesso effimeri sogni e fallaci bugie e che mi ha lasciata incapace di vivere, incapace di morire. Ciò che pensavo di riempire con l’amore -tu non dovevi nemmeno sapere cosa fosse l’amore, Alexandra, non era qualcosa di disegnato per te- ora trabocca di nulla, di rabbia e poi ancora di nulla e di rabbia. Punisco i prigionieri con la forza della mia colpa e medito terrore e vendetta per la stirpe che ci ha sfidato, giustizia sia fatta sul mondo visto da un’adulta così come lo vedeva da bambina. Dopotutto, Alexandra rimarrà sempre un nome troppo altisonante per me. Finché morte non ci separi.” (Recensione modificata il 23/12/2016 - 12:08 pm) |