“É veramente necessario che queste cose succedano, o sono solo possibili? Intendo, se gli uomini cambiano le loro vite cambia anche il loro futuro? É questo che vuoi insegnarmi?”
(Canto di Natale, Charles Dickens)
If we were villains ha del mordente, è diversa, il Canto di Natale attraverso gli occhi di Scrooge -e sai perché? Perché è una storia di Natale, pubblicata per Natale, che parla di Natale raccontando di Eve.
Eve.
Questa storia ha un sacco di mordente -come la sua protagonista.
Ogni anno è sempre la stessa storia: finisce novembre, inizia dicembre, le luminarie si moltiplicano, la corsa ai regali, la disperazione del pranzo coi parenti e l’immancabile, meraviglioso, celeberrimo A Natale siamo tutti più buoni.
Ah.
Rewind: il 25 è alle porte, l’avvento agli sgoccioli, ci riuniamo davanti al presepe e celebriamo la nascita del bambinello -e intanto che ci siamo incartiamo un regalo qui e là, perché l’attesa non è mai troppa e non si muore dalla voglia di ricevere quel capo d’abbigliamento all’ultimo grido, quella diavoleria tecnologica appena sfornata, quel super televisore da 100 pollici e un’unghia (smaltata di Chanel) che tanto pare adorabile in pubblicità. Oh sì, a Natale siamo assolutamente tutti più buoni -tanto che ormai non ne possiamo più fare a meno.
Ma se non sapessimo cosa fosse, il Natale?
Se nessuno ci avesse mai raccontato del buon vecchietto che porta i regali perché siamo stati buoni, cosa ce ne faremmo del 25 dicembre?
…
Niente?
Ma allora, senza Natale, cosa saremmo? A conti fatti, saremmo tutti un po’ Eve.
If we were villains fa un po’ pensare al fondente -amaro, certo, ma la qualità è la stessa- e allo stesso tempo richiama il freddo, il lontano, il ghiacciato -l’inverno, immagini tutte apparentemente scollegate che l’occhio un po’ eclettico saprà associare (con un pizzico di fortuna) a chi di dovere. Perché Eve è strana in questo contesto, ma non avulsa -piuttosto ossimoro, la figura del paradosso in una situazione che non le appartiene.
Eve non sa cos’è il Natale e tanto meno vuole essere più buona -al massimo il contrario. Eve è speciale, che tutto sommato pare un buon aggettivo da attribuire a qualcuno, ma non è così -non per lei. Eve nasce fuori posto, un particolare di una certa scomodità, a onor del vero, nella vita di tiranni già troppo ingombranti per se stessi -figuriamoci quindi se poteva esistere qualcuno, per lei, che raccontasse del giocondo e volubile Natale, che ogni anno puntualmente si diverte a guardare i normali scambiarsi regali; figuriamoci se poteva esserci uno Stuart, per Eve, che la considerasse realmente una bambina e le facesse un regalo. Una pantera, un Roscoe come tanti -l’unico, il solo capace di accompagnarla nel momento in cui tutti l’hanno abbandonata. Tenera Eve, che a sei mesi scarta un pacchetto, ne mangia la carta, riceve un regalo da un Babbo Natale che è stato il primo a pensare anche a lei; tenera Eve, che da quel momento in poi percorrerà una via in sola discesa.
Eppure la prima volta (Anno 0, innocenza) non è stata così male (ma Eve non ne ha memoria, troppo indifesa per ricordare ciò che fa star male): riceve Roscoe, l’unico vero regalo, e uno sguardo rinnovato da parte di sua madre.
"Questa bambina […] è un tyrant, Stuart. Una B.O.W. alpha. La prima nel suo genere."
"Ma è pur sempre una bambina."
Com’è bella, Eve, mentre agita le piccole braccia e ride contenta; com’è bella, Alex, quando sorride e vede in sua figlia qualcosa di diverso da sé. Ci voleva Babbo Natale perché potesse riuscirci, ci voleva una sciocca festività per dirottare la storia -perché se gli uomini cambiano le loro vite cambia anche il loro futuro*.
E sarebbe stato tutto bellissimo, se fosse durato. Il problema è che solo quando è cresciuta Eve ha potuto scorgere cosa fosse davvero il Natale. Natale è chiedere, imporsi, Natale è volere, battere i piedi a terra ed egoisticamente frignare per ottenere un tutto che nel giro di un giorno varrà niente. Ma, almeno inizialmente, Eve opta per una strada diversa. Risponde a una richiesta (Anno I, Uroboro -fine di un rapporto) tanto normale quanto anomala per una bambina di due anni -per un piccolo giudice già capace di distinguere ciò che è bene
Io... io vorrei andare in Africa.
da ciò che è male.
sei un idiota, un idiota. Fallirai, e morirai, e nessuno potrà riportarti indietro.
E’ un tyrant, Eve, una BOW di prima categoria -ma è anche una figlia che il giorno di Natale vorrebbe sentire la Voce del padre.
Un padre. Eve ce l’ha e non ce l’ha, lo trova e non lo trova. E’ una presenza scostante, un silenzio quasi indifferente a cui non importa della Vocina che lo chiama. Non è da tutti avere Wesker come padre e Eve fa i conti fin da subito con le conseguenze: gli altri lo cercano, gli altri soffrono, gli altri muoiono della sua mancanza. Eve può solo subire (Anno II, passività) e la prima cosa che perde è proprio sua madre.
Era una Voce calda quella di Alex, improvvisamente congelata in ghiaccio; era una Voce liquida, suadente, che ora non canta più -perché le Voci in realtà erano due, ma una è morta e l’altra si è spenta. La mamma tace, ed è un Natale che non è più Natale -perché a soli due anni Eve è già persa, sola su una scala degli affetti che non si autosostiene quando un gradino si spezza e il successivo collassa; perché la mamma muore e Eve non comprende la vastità della perdita, la voragine aperta dall’intemperanza di un uomo tramutato in bestia. Eve non sa, perché non è questo il suo ruolo, non è questa la sua storia -e può solo affiancarsi al dolore di sua madre e disilludersi nell’attesa.
In attesa di cosa?
Di un altro Natale, di un gesto, di una parola e dell'ultimo lascito di sua madre. Perché Albert Wesker infetta e spacca, distrugge e strappa -e Alexandra si piega, condanna e allontana; consegna a Eve il tutto, per rimanere nulla. E’ nell’ultimo Natale insieme che Eve ritrova i resti del padre, è troppo tardi che scopre quanto sia pesante la stanchezza di ascoltare voci mute -che languono, e non l'accogono in un sistema nato solo per due. E’ così che Alex sceglie di ritrarsi (Anno III, sterilità), è così che ancora una volta s’inaridisce -perché le parole non hanno più suono e la memoria è un acuto osceno, che nemmeno per una figlia è sopportabile e superabile.
A quattro anni (Anno IV, immaturità -potere schiavo di se stesso) il Natale per Eve acquista un altro sapore, o forse quello che in fondo aveva sempre avuto: l’acido della sconfitta, l’amaro della tristezza, il dolce del quando? al limite del MAI dietro le spoglie di una famiglia felice. Thomas e Allison sono brave persone e non vogliono davvero farle mancare nulla -eppure a Eve già manca tutto, l’unica cosa che vorrebbe la sola che non può avere. Eve muta, perché in silenzio il Progenitore racconta: Eve smette di chiedere, e ora vuole, pretende e si prende, perché aspettare fa solo perdere. Il Natale acquisisce una sfumatura differente, deviata da quella che una bambina di nemmeno dieci anni dovrebbe vedere -Eve (Anno V, intolleranza -falso profeta) non attende l’arrivo di alcun bambinello, ne crea uno a Sua immagine e somiglianza
Sotto le sue mani prende forma un dio spietato e dagli occhi di sangue
ricuce i pezzi che perde ogni giorno (Anno VI, libero arbitrio), li nutre di crudeltà e odio
Nel cuore un rivolo nero di sangue e rabbia
di un solo ricordo (Anno VII, squilibrio) in cui valga la pena credere.
Madre...?
A Natale la gente muore (Anno VIII, legge), ma Eve non se ne fa una colpa -perché suo padre la rassicura di come non abbia fatto nulla di diverso da ciò che ci si aspetta da lei; perché sua madre la protegge dai lupi (Anno IX, chiusura) -perché Stuart le ricorda che un posto nell’umanità esiste anche per lei.
Esiste, anche se nessun pare volerla, anche se nessuno sembra capirla. Eve soffre i sintomi di una vita in un luogo al quale non appartiene, dove quella che dovrebbe essere gioia diventa fardello, flagello per chi nulla ha mai avuto da festeggiare. Allora diventa difficile la vita di Eve, lo diventa davvero: da una parte Megan, bambina taciturna segnata dalla guerra, dall’altra la Bestia, una serpe che i bambini li divora squarta nel bagno della scuola. Ma quale delle due è realmente Eve? Entrambe, forse, e gli anni che scorrono lo dimostrano -X (fato)
Mi hanno abbandonata, in fondo, no?
XI (contrapposizione)
Ne sono stati felici; orrendamente contenti
XII (trascendenza)
Tutto diventa rumore e preda del Progenitore.
Eve non ha mai potuto passare un Natale normale perché lei non è normale -non per i nostri canoni, non per quelli di genitori umani. E’ per questo che Eve ha bisogno di una figura materna adatta(ta), è per questo che ha semplicemente bisogno di una figura paterna -perché l’Anno XIII non sia solo termine, ma anche trasformazione, e l’eco di un vecchio progetto non torni ancora a suonare di nuovo.
E’ una storia antica If we were villains, perché nasconde in quattro parole un grido d’aiuto lungo sessant’anni, che da voce ai pensieri di un uomo vissuto a metà e restituisce a una donna ciò che le ha donato e poi tolto. Eppure in fondo si tratta anche di una storia semplice, che racconta di un giorno di Natale davvero giunto per tutti: per Eve, che riceve in dono i suoi genitori; per Albert, a cui è stato fatto un regalo inaspettato; per Alex, che ha ritrovato la sorpresa più bella. A loro ora decidere se scartare o meno il pacco, e come farlo -perché a Natale siamo tutti più buoni, giusto?
No? (Recensione modificata il 02/01/2018 - 02:00 am) |