Ciao.
Aprendo il tuo profilo, questa è stata la prima storia che mi è saltata all'occhio, e visto che per me c'è sempre un buon motivo per leggere di uno dei Malandrini, andare avanti è stato praticamente impossibile.
Ti rincuoro subito dicendoti che la drabble e mezza è bellissima e che, dopo averla letta per la seconda volta e averla apprezzata ancora di più, l'ho inserita tra le preferite. Perché nella sua semplicità e brevità racchiude alla perfezione tutto il personaggio di Remus. Quindi, intanto, complimenti davvero per la cura dell'IC e, in secondo luogo, per la bellezza della metafora del libro e il riferimento in chiusura alla favola di Fedro.
Adesso parto con la recensione vera e propria (altresì chiamata "le canne che si fuma il mio cervello e fino a che punto vedo allucinazioni mentre leggo"). Sì, perché a convincermi a inserirla direttamente tra le preferite non è stato solo l'IC perfetto di uno dei miei personaggi preferiti, ma soprattutto le analogie messe in campo tra lui e il libro di favole (o addirittura la favola in sé).
Partiamo col fatto che il titolo mi piace. Nella mia testa l'ho ricollegato a un altro autore romano, Ovidio. E' vero che l'opera in questione tratta la materia dei miti greci, ma è il senso iniziale e ultimo che mi ha fatto pensare a essa. Infatti a scatenare questa "metamorfosi" è proprio il sentimento dell'ira. Così come accade in alcuni miti raccontati da Ovidio, Fenrir "scaglia" la maledizione su Remus con una certa cura - ha mirato, al contrario del modus operandi degli altri lupi mannari, per i quali mordere è un atto incontrollabile - proprio perché il padre di Lupin ha osato sfidarlo. E dico che è anche il senso ultimo a farmi pensare alle metamorfosi perché alla fine è la paura il sentimento che attanaglia il piccolo Remus.
La parte che ho preferito è l'analogia con il libro, il mondo della favola e la vita di Lupin. La madre gli dice "sei solo un bambino" come quando si dice "è solo una storia", ma a volte le storie sono realtà e i mostri sono reali. il libro di favole, quindi, diventa il corpo e la vita di Remus: mutano, si trasformano, la favola "esce" dal libro, squarcia le pagine. Il mostro che sembra essere sempre stato dentro Remus prende il sopravvento sulla sua umanità, sembri voler dire, sembra Remus pensare, perché nella mente di Remus il mostro non è mai stato qualcosa che prende possesso del suo corpo e della sua mente, ma è lui il mostro, qualcosa di inscindibile da lui, la considera quasi la sua vera forma, la sua vera natura. Il libro rappresenta la sua vita che va in pezzi, che cambia e si trasforma in un incubo, in un tarlo che presto scava dentro di lui. I peli, tratto che distingue la bestia dall'uomo, diventano la forma naturale dei mostri, il tratto che li toglie ogni dubbio. E come ho detto per Severus nel post del gruppo di Rosmary, quando un tarlo scava labirinti nella nostra mente, tutto quello che è costretto a passare per di là si sporca. Così, le parole della madre di Remus non riescono veramente a riempire il vuoto, anzi vengono presto dimenticate, risuonano come echi lontani nella mente di Remus.
Mi piace che "tenebre" e "oscurità" racchiudano la drabble: le tenebre che a inizio storia fanno la conoscenza del bambino diventano una costante della sua vita e rimangono fino all'ultimo. A strabordare da questo" cerchio chiuso" è soltanto l'ultima frase, quella che suona come una sentenza e che, nella sua formula quasi "aperta", (la frase mentre la leggevo non suonava come una chiusura forte, tonante, ma più come una frase di passaggio, un commento, ecco!) riesce a chiudere con un'amarezza che fa male, perché è l'amarezza di un bambino, e un bambino non dovrebbe provare un simile sentimento, non dovrebbe conoscere un simile stato. Perché amarezza vuol dire rassegnazione, amarezza vuole dire arrendersi al dolore, all'ingiustizia. Remus scopre troppo presto che il mondo non è una favola, il lieto fine è solo una finzione, e Remus sembra dire nel finale "adesso so che le favole sono soltanto bugie, la verità è un'altra". La disillusione è una lama che si affila proprio perché è messa in bocca a un commento quasi casuale ma che chiude davvero in bellezza una drabble che ha saputo mantenere un filo logico nella sua grande metafora.
E passiamo alla caratterizzazione, che ho a dir poco adorato.
Mi è piaciuto soprattutto il particolare delle gobbiglie sotto al cuscino. Non so dirti perché, ma sapevano di un'innocenza normale, banale quasi, serena soprattutto. Il tesoro di un bambino, che sembra raccontare della chiusura di un giorno come un altro, ma che da subito si macchia di queste tenebre che avanzano verso qualcosa di puro.
Ho adorato il modo in cui si trasforma anche la paura di Remus: prima era paura del buio, la paura che tutti i bambini hanno, ed era la luce della luna, quel poco di luce che entrava dalla finestra a rassicurarlo; dopo il buio diventa metafora dell'oscurità che cala nella sua vita, risvegliarsi al mattino non cancella più gli incubi, ma mette in mostra le conseguenze del mostro che vive in lui e che si lascia dietro la notte, la paura diventa quella di un'anima tormentata, di quella che di solito vive un adulto quando viene ad affrontare i demoni che albergano in ognuno di noi, ma quando a dovergli affrontare è un bambino, diventano davvero brutti, tristi. A rendere tutto triste è il fatto che impara a contare fino a 29: non è un traguardo dato dall'imparare cose nuove, ma è sintomo di necessità. Remus è costretto a imparare a contare fino a un numero che soltanto per lui si ferma prima di raggiungere la cifra tonda. Questo particolare, non so spiegarti bene il perché, è stato quello che più mi ha rattristato e addolorato. Un numero spezzato, come Remus, un numero che viene quasi a immaginarlo contare alla rovescia (29,28,27,26...) una attesa che mette inquietudine, tremore, panico. Quel numero è un'ombra, è un blocco, è la sua condanna, la sua ossessione.
Per il resto, posso soltanto dire che io vedo Remus esattamente come lo hai descritto tu: lui non si considera umano, si ritrova a considerarsi indegno d'amore, inadatto a vivere in mezzo alla gente normale, a vedersi con gli occhi inorriditi, disgustati, impauriti. Nell'amarezza finale io sento gli echi di una solitudine, di un destino al quale se la maledizione lo ha spinto, è Remus a condannarsi a viverlo e a subirlo. Remus si crogiola nell'idea che lui è cattivo, un mostro, ma non si rende conto che la sua forza sta proprio nel non cedere a questa sua natura (qualcun altro si sarebbe lasciato andare e avrebbe abbracciato il lupo) nel combatterla, nel tenerla il più possibile lontano dagli altri. Ecco perché la sua forza è anche la sua più grande fragilità. Perché lui sceglie la solitudine, e scegliendola si priva dell'affetto che merita.
Davvero complimenti per come hai raccontato l'inizio di uno dei personaggi più complessi e belli della saga.
A presto! |