Recensioni per
Giardini di Pietra
di _Unmei_

Questa storia ha ottenuto 12 recensioni.
Positive : 12
Neutre o critiche: 0


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Nuovo recensore
15/06/21, ore 18:09
Cap. 12:

Con tono nostalgico e melanconico, Riccardo ci accompagna in un viaggio nel tempo e nello spazio. Nel tempo: nelle atmosfere ottocentesche che respiriamo con vividezza, evocate dalle magnifiche descrizioni che ci proiettano negli ambienti come se noi stessi, lettori, ci trovassimo accanto ai personaggi a inalare gli stessi odori, ascoltare i suoni aggraziati dei violini e del pianoforte, godere dei medesimi paesaggi, assaporare altrettante sensazioni. Nei luoghi: da Genova a Venezia, “antiche nemiche”, da Piazza San Marco al Cimitero Monumentale di Staglieno, dove per Riccardo è sepolta la sua vita.
Siamo lì insieme a lui e Florent nello stesso locale dal pavimento cosparso da un sottile strato di segatura il giorno in cui si sono incontrati, siamo con loro al Florian nell’epoca d’oro della giovinezza, prima che i ricordi, tanto più dolorosi quanto più dolci gli attimi in cui li si è costruiti, impediscano di trascorrere una serena vecchiaia.
La nostra empatia si allinea più volte con i sentimenti di Riccardo. A lui concediamo una compassione che però, poco a poco, si trasforma in una sorta di più distaccata pena, condita a tratti da un certo disprezzo nel momento in cui leggiamo le righe lucidamente delatrici delle sue colpe. Impossibile non biasimarlo, impossibile non provare la sua stessa mortificazione, senza tuttavia perdonarlo davvero.
Di lui tolleriamo la difficoltà ad accogliere un nuovo amore, reduce da due relazioni che devono entrambe avergli lacerato il cuore, l’una strappatagli “dalla morte”, l’altra “dalla vita”. La prima provoca sgomento per la fine così ingiusta di Ludovico, che avrebbe potuto rappresentare il vero amore - spregiudicato, edonista, libertino; la seconda desta soltanto rabbia per l’indegno comportamento di Patrizio.
“Il terzo volto dell’amore, il suo!”, quello di Florent, scolpito nel marmo e descritto con tale grazia che al lettore non serve googlare l’immagine per ricomporne le sublimi fattezze nella propria immaginazione... il terzo volto dell’amore: Riccardo non può sapere che sarà quello che gli farà più male; forse ne avverte istintivamente la perdita, ma non immagina che sarà egli stesso artefice della propria rovina.
Non si parla di “rovina” in termini di fama, né di onori, certo. Il futuro continuerà a riservagli ricchezza, celebrazioni, amanti... ma la verità è che la sua vita si è fermata lì, quel giorno in cui Florent se ne è andato. Tutto il resto è un nuvolone rumoroso e pieno di confusione, è un vivere nel passato, un perdersi in una continua miriade di congetture. È un ricalcare strenuamente i luoghi che appartengono al suo perduto amore, arrivando finanche ad acquistarne la residenza veneziana, un rimanere ancorato a lui e alla sua immagine, un cullarsi nella vana speranza, forse, che la vita sia così misericordiosa da preparare per loro un secondo incontro e permettergli di fare ammenda. Di fronte a queste considerazioni diventano ancor più cocenti le parole nella lettera di Florent, che lascerebbe tutto alla sorte:

“Cercami, se vuoi; forse mi troverai, se il destino lo vorrà, e forse quel giorno avrai compreso. E se così sarà, allora potrei tornare da te, ricostruire la nostra felicità, suonare di nuovo per te… suonare di nuovo insieme, violino e pianoforte, nella loro perfetta armonia.”

Siamo desolati, dunque. Con Riccardo e per Riccardo, e sinceramente soffriamo leggendone i rimpianti per l’amore e la giovinezza perduti, e narrativamente magistrale risulta la descrizione fisica comparata tra la forza del passato e la debolezza del presente, che impedisce al corpo di realizzare opere d’arte che la mente ancora concepisce e desidera condividere:

“Le mie mani, un tempo così forti, quanto le odio ora che sono inutili, deformate dall’artrite, avvizzite e doloranti, deboli!”

Nessuno stupore che, come qualsiasi sanguigno vecchio che si rispetti, se la prenda col giovane medico che per di più somiglia a Gabriele e che egli annovera nel numero delle punizioni che la vita gli infligge. A maggior ragione se si considera che sia rimasto tanto lucido e pronto al sarcasmo anche in età avanzata:

“Di questi tempi addestrano i medici all’arte del ricatto, pare. Che stranezza. Quand’ero giovane si limitavano a insegnar loro l’arte di far morire la gente anche solo per un’unghia incarnita.”

Ma lo sconforto e il rimpianto li sentiamo così dolorosi anche noi lettori. Chi di noi non ha desiderato svegliarsi una mattina e ritrovarsi anni o decenni prima, in un’epoca più semplice e comprensibile, quando ogni tassello della nostra vita si trovava incastrato al posto giusto e avevamo accanto le persone più care? Chi non lo ha provato? È vero, abbiamo odiato Riccardo nei momenti del suo furore, ma adesso che è canuto e fragile ci allineiamo alla sua pena e possiamo soltanto trarne un lapidario insegnamento.
In queste stupende, disperate e accorate parole finali nelle memorie di Riccardo sta tutto il senso di questa storia e dei suoi personaggi:

Florent… se è vivo, adesso anche lui è vecchio, però non riesco a immaginarlo canuto e fragile, ammalato. Per me sarà sempre l’angelo splendido del Sonno Eterno, dall’espressione dolce, misteriosa e un po’ irridente, e se Dio e gli angeli esistessero davvero, vorrei che fosse lui a chiudermi gli occhi, ad accogliermi, quando morrò.

Florent... io credo che abbia pensato spesso a Riccardo in questi anni, e che infine lo abbia perdonato, e che in qualche modo conservi dei bei ricordi di lui. Credo che, se davvero si fossero rincontrati per caso, sarebbe stato disposto a offrirgli un’altra possibilità.
Probabilmente Florent ha imparato a credere nel destino proprio per la sorte beffarda che ha coinvolto la sua famiglia lasciandolo escluso da essa. Interrogativi oziosi e inutili, quelli sul motivo per cui il padre non lo avrebbe “aspettato” per compiere la sua strage, ma indubbiamente comprensibili. Quasi naturali, in verità, e non “insani” come vengono definiti da Riccardo.
Insana è invece, a ragion veduta, la gelosia di quest’ultimo. Ancor più penoso è constatare come egli pienamente se ne renda conto senza riuscire a razionalizzarla. Tentando in tutti i modi, invano.
Tristi pronostici della tragedia finale, forse di recente inserimento, si ritrovano random durante la lettura, specie se si è già edotti della prima stesura:

“Perché i polsi sono importanti, per un violinista. E perché la tua nobiltà d’animo splende come i riflessi di questa pietra… e perché la speranza illumini sempre il tuo cuore.”

La frase che accompagna il regalo può sembrare composta dalle più commoventi parole d’amore, ma in realtà rappresenta un desolante pronostico di come Riccardo sia riuscito a distruggere, con la propria gelosia, ciò che più ama.
Per tutto il racconto sono disseminati infinitesimali indizi delle piccole ipocrisie, preconcetti, alibi psicologici di Riccardo, ancor prima che Gabriele faccia la propria comparsa menzionato o in scena:

“[...] forse, poiché era povero e più giovane di me, mi aspettavo da lui deferenza e soggezione.”

“Avevo immaginato, in quella che era un’ulteriore prova della mia presunzione, che si sarebbe avventato sul cibo come un lupo affamato [...]”

“Esultavo della rovina che aveva distrutto la sua famiglia, che gli aveva tolto tutto, rendendolo solo mio.”

“Avevo carezzato l’idea di presentarlo alle persone che avrebbero potuto introdurlo a una carriera da violinista. [...] Invece decisi che non avrei mai fatto niente del genere, perché la notorietà me l’avrebbe rubato, e io volevo che Florent fosse solo mio.”


Il desiderio latente sarebbe quello di rendere Florent dipendente da lui, cosa che striderebbe pienamente con il carattere dell’altro. Entrambi lo sanno.
Riccardo appare geloso di Gabriele nel momento stesso in cui apprende della sua esistenza, dicendo di biasimarlo per aver permesso a Florent di compiere un gesto avventato e da lui disapprovato, auto-contraddicendosi di fatto, perché se non avesse iniziato una vita raminga non sarebbe giunto fino a lui. Almeno non nel modo in cui ciò è avvenuto. Insomma: alla strage della famiglia il merito, a Gabriele la colpa.
Non lo assolve neppure dopo aver realizzato che bella persona sia, né dopo avergli consapevolmente riconosciuto dei meriti:

“E sì che non solo per la musica meritava la mia gratitudine, ma anche per avergli insegnato un modo per esprimersi, per aver contribuito a renderlo quel giovane splendido che era”.

Ormai il sentimento è incontrollabile, è cresciuto in lui come un tumore maligno che si nutre delle sue insicurezze e quasi lo rende “bipolare”:

“Ma il tarlo rideva delle mie proteste, insisteva, continuava a rodere; mi parlava, ed era una voce maligna. Era un demone.”

Riccardo cerca inutilmente di gestirlo, questo demone: si sforza di comportarsi in modo educato - senza però darla a bere a Florent -, invita Gabriele ad alloggiare presso la sua abitazione e addirittura accetta di recarsi da solo fuori città, pur con un macigno sul cuore, ma al suo ritorno poche circostanze mal interpretate provocano il declino della sua già labile razionalità.
“Galeotto fu il profumo”, mi viene da dire. A distanza di pochi secondi, l’orologio. Ma è stato quell’incantesimo olfattivo, evocativo di atmosfere e presenze, a costruire l’equivoco e ad avvelenare la labile emotività di Riccardo: mi sembra quasi di sentirlo, il contrasto tra il fougère di Gabriele e il profumo di Florent, composto, quest’ultimo, da alcune note tra le mie preferite. Credo che lo amerei e che sia perfetto per lui, con la dolcezza dell’iris stemperata dalla lavanda e dalla profondità dell’ambra.
Non sento di voler spezzare lance in favore di Riccardo, ma riconosco che le circostanze non hanno giocato a suo favore: se Florent avesse potuto usare la propria voce per comunicare con lui sarebbe stato più semplice guardare tutto con lucidità e comprendere la verità dei fatti. Per spegnere il suo furore e il suo pur involontario atto di violenza sarebbe servita una comunicazione molto più veloce e immediata, che per Florent sarebbe stato impossibile esprimere. Anche questo viene riconosciuto solo con il senno di poi:

“Oh, se solo lui avesse potuto parlare! Se a sua volta avesse potuto urlare, darmi del maledetto imbecille, mandarmi al diavolo… forse le sue parole avrebbero penetrato i fitti veli in cui mi dibattevo. [...]”

La verità è che viene fuori una bestia. Tutta la parte ferina dell’animo di Riccardo erompe in quelle offensive e taglienti parole figlie della rabbia, che hanno distrutto, a buona ragione, ogni capacità di perdono nell’animo di Florent. Di queste parole Riccardo si vergogna così tanto da non trovare neppure il coraggio di riportarle con un discorso diretto nel suo memoriale:

“Gli rinfacciai crudelmente di averlo raccolto dalla miseria, di averlo preso in casa mia, ripulito, rivestito, di averlo riempito di doni e di aver esaudito ogni suo desiderio, di averlo fatto vivere negli agi, amato e adorato. E lui mi ringraziava con l’infedeltà!”

Sono accuse forti da sbattere in faccia a qualsiasi persona, soprattutto se quest’ultima non ha neanche il tempo e la possibilità di ribattere.
Anche troppo buono, Florent, nella sua lettera... che è una delle parti più straordinarie dell’intera storia, nell’assoluta perfezione del suo finale che ancora adesso, rileggendolo, torna a darmi qualche brivido:

“Sì, in parte questa è anche una vendetta, una ripicca: sono orgoglioso, e tu lo sai. Ma sicuramente sai anche che se tu avessi avuto fede, avrei preferito morire che lasciarti. Sono io, il tuo Florent.”

Ma forse i passi più belli sono quelli in cui compaiono le riflessioni sulla bellezza, sull’arte e sulla smania legata alla creazione artistica, sulla potenza trasposta in atto dal blocco di marmo che acquisisce forma e armonia dalla sapiente opera delle mani dello scultore:

“[...] sentivo la grazia e il calore pulsare sotto il freddo marmo, in attesa che io li liberassi; così come il pittore vede sulla tela ancora immacolata splendere la sua opera, così come lo scrittore brucia notti e candele per raccontare di personaggi che non esistono e che tuttavia sono più vivi di lui.”

“E non posso comunicare a parole ciò che significava per me dare forma al marmo, prendere la pietra e trasformarla, dare l’illusione che sia lieve come merletto, cedevole come carne, soffice come capelli riccioluti.”


Di fronte a queste considerazioni non ci troviamo forse tutti, davanti agli occhi, alcuni tra i più pregevoli capolavori di Bernini, citato nei libri di retorica come esempio lampante di ossimoro, con il suo “marmo morbido”? Non pensiamo forse ad artisti dalla mano strabiliante e il cuore colmo di tormento come Caravaggio e, ancor più precisamente, scultori come Michelangelo o Benvenuto Cellini?
Non pensiamo forse all’altissimo livello dello stile di questo racconto stesso, perfettamente trasposto alla malinconia dolceamara della storia in cui ci coinvolge? Pieno, opulento e tuttavia mai eccessivo o sovrabbondante, scorrevole e limpido ma tutt’altro che scarno, ricco di figure retoriche delicate ed evidenti: similitudini, metafore, preterizioni, anafore, climax, antitesi e altre ancora impreziosiscono la narrazione e le descrizioni affascinando il lettore senza confonderlo, guidandolo con tono lieve e cadenzato, più che piacevole, confortante e mai invadente.
Neanche nelle numerose apostrofi al lettore in cui Riccardo, in prima persona, cerca forse una vana assoluzione o, per contro, una definitiva condanna: lo porta in causa, chiede il suo parere, fornisce consigli, lo invita ad andare a visitare la statua e la sua stessa tomba. Lo spinge a piangere e a soffrire con lui, a disprezzarlo come egli stesso si disprezza.
Ma in fondo in fondo, questa storia dalle tinte di un verde-grigio fumoso e malinconico e l’atmosfera un po’ cimiteriale, di fasto perduto e quieta desolazione presente, rappresenta anche un inesorabile memento mori.

* * *
Capolavoro, e non dire che esagero.
Ti mando un immenso abbraccio.
(Recensione modificata il 15/06/2021 - 06:18 pm)
(Recensione modificata il 15/06/2021 - 11:44 pm)