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Autore: Sylphs    25/03/2012    5 recensioni
Questa è una storia di mia invenzione che si ispira a grandi linee ad uno dei miei romanzi preferiti, "Il Fantasma dell'Opera". Irene, ragazza distratta e persa nel suo mondo, si trasferisce insieme al padre nella sperduta Heather Ville, una residenza recentemente ristrutturata a seguito di un misterioso incendio. Nel corso del suo soggiorno in quell'oscuro palazzo, si rende lentamente conto di avvertire una presenza intorno a sè che una notte, all'improvviso, decide di manifestarsi a lei...attratta dalla magia e dal romanticismo della situazione, la giovane si farà trascinare suo malgrado in una spirale di follia, di morte e di pericolo, per lei e per tutti coloro che ama. Spero che qualcuno leggerà, sarebbe importante per me!
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Amore di sangue'
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LA VOCE NELLA NOTTE

 
 
 
 
 
 
Fu ugualmente abbastanza difficile per Irene abituarsi presto alla sua nuova vita ad Heather Ville. Il fatto che fosse tanto grande e vi vivessero soltanto lei, suo padre e Tommaso le procurava un curioso senso di disagio, come di chi si sente fuori posto, che non riusciva a scacciare neanche quand’era all’interno della sua stanza. Perciò aveva accantonato il suo spirito d’esploratrice e aveva sapientemente deciso di recarsi solo in determinati luoghi ogni giorno per evitare di perdersi in quelle stanze buie e polverose: la sala da pranzo al pianterreno, lo studio in cui s’era installato suo padre, il bagno al piano di sopra e la propria camera da letto. Il percorso lo memorizzò presto e smise di darle inquietudine.
I rumori sospetti che spesso si potevano sentire avevano smesso di darle fastidio: gli scricchiolii ormai sapeva che erano causati dai suoi piedi che percorrevano il pavimento instabile, lo zampettio lontano la presenza di qualche topo e qualche sparuto tintinnio i cristalli del lampadario mossi dal vento. Aveva perfino imparato a convivere col buio perenne che aleggiava su Heather Ville, e che continuava ad esserci nonostante i loro sforzi di tenere le tende aperte e le lampade accese. Inevitabilmente le trovavano di nuovo chiuse, probabilmente dall’impietoso e gelido vento di fuori. Proprio a causa di quel vento le era impossibile uscire. Soltanto suo padre osava farlo, di tanto in tanto, lasciandola sola col domestico.
Provò a portarle uno specchio che lei appese nella sua camera affinché potesse lavarsi e sistemarsi meglio, ma la sera stessa tornando per coricarsi si accorse con un trasalimento che era stato frantumato. Quando ne chiese la causa a Tommaso, lui rispose che si era trattato della scarsa solidità dello stesso specchio. Così ne fece a meno.
Provava improvvisamente l’impellente bisogno di comunicare con la gente. In città aveva avuto il problema inverso, ma adesso che era isolata dal resto del mondo nella sperduta campagna che circondava Heather Ville ripensava con rimpianto ai tempi in cui usciva con le amiche o con Stephan. Parlava con suo padre, ma per la maggior parte del tempo era sola, e passava il tempo leggendo, disegnando o suonando l’arpa nella stanza della musica. Erano attitudini che l’interessavano, ma spesso finiva per trovarle monotone, e soffriva di solitudine. Le era impossibile telefonare, poiché non c’era mai campo. Così gioiva perfino delle brevi conversazioni che intraprendeva con Tommaso, anche solo per chiedergli dove aveva messo la sua spilla.
La vita ad Heather Ville era certamente più strana di quella cittadina, ma aveva i suoi svantaggi.
E poi c’era la fastidiosa sensazione, che assai poche volte l’abbandonava, d’essere osservata. Si rendeva conto che era da paranoici, ma non poteva fare a meno di sentirsi spiata da un qualcosa che non riusciva ad identificare. Eppure non c’era niente. Questa sensazione raramente si dissipava, le restava addosso continuamente, mentre dormiva, mentre leggeva o suonava l’arpa. Si attenuava solamente quando si aggirava per la casa o andava a consumare i pasti con suo padre. Ne parlò con lui, ma l’unica risposta che seppe darle fu la seguente: “È solo una tua impressione, cara. È normale che in un luogo così…bizzarro si accusino sensazioni simili. Io stesso, a volte, non riesco ad accettare il fatto di essere completamente solo e mi stupisco che non ci sia qualcuno accanto a me”.
Irene, angosciata, non si prese il disturbo di spiegargli che non si trattava di nulla del genere. Era un vago malessere, uno strano pizzicore alla nuca che l’induceva a girare intorno uno sguardo atterrito. Era la chiara impressione che uno sguardo estraneo fosse fisso su di lei. Ma d’altronde era impossibile che qualcuno la spiasse, in primo luogo perché nella casa non c’era nessun altro, in secondo perché era sempre chiusa in camere prudentemente vuote, e troppo piccole perché qualcuno potesse nascondersi.
Circa una settimana dopo il suo arrivo ad Heather Ville, in un uggioso pomeriggio che suo padre era uscito per i suoi affari e delle spese, Irene era seduta al lungo tavolo della sala da pranzo, tra i candelabri accesi, intenta a leggere “Orgoglio e Pregiudizio” per la terza volta di seguito, con i morbidi capelli biondi raccolti in una treccia e indosso un pesante completo nero, avvolta in uno scialle consunto che aveva trovato su di una poltrona in libreria. Era a tal punto concentrata nella lettura che il grido di Tommaso la colse di sorpresa, facendole balzare il cuore in petto. Immediatamente depose il libro sul tavolo e si alzò in piedi: “Tommaso!” chiamò allarmata: “Cos’è successo?”
Lo trovò nella stanza della musica, intento a fissare il vuoto con gli occhi spalancati pieni di spavento. Lo richiamò e lui ebbe un sobbalzo, come se in qualche modo lei l’avesse preso di sorpresa. La fissò, pallido, detergendosi il sudore dalla fronte: “Oh, signorina Irene, sei tu” ansimò: “Perdonami di averti spaventata, ma ho avuto la netta impressione che qui dentro ci fosse qualcuno!”
Irene sgranò gli occhi azzurri: “Cosa intendi dire?”
“Ecco…” cominciò esitante lui: “Stavo passando di qui, quando ho visto la porta chiusa di questa stanza e mi è parso di sentire dei movimenti all’interno, come se ci fosse qualcuno. All’inizio ho pensato che fossi tu, dato che sei andata spesso qui, così ho aperto la porta per raccomandarti di fare più piano…ma dentro era tutto buio, non si vedeva niente, tutte le luci erano spente. Ho chiesto se c’era qualcuno, ma non mi ha risposto nessuno. Eppure io avevo udito! Ho acceso la luce, ma la stanza era deserta. Ho paura che questa casa faccia strani scherzi alla mia mente. Ora però è passato. Vedo che non c’è nessuno”.
Irene rifletteva trepidante sulle sue parole. Dunque non era solo lei ad avere udito degli strani movimenti. Però la stanza della musica era vuota, e non c’erano né porte secondarie né botole da cui qualcuno sarebbe potuto fuggire mentre Tommaso accendeva la luce. L’unica uscita era l’uscio da cui lui era entrato…dunque, era tecnicamente impossibile che ci fosse stato qualcuno. Tommaso, ansioso di andarsene, la prese per un braccio: “Torniamo alle nostre occupazioni, signorina”.
“No” replicò lei: “No, lasciami qui. Voglio restare un altro po’. E chiudi la porta!”
Il domestico la guardò come se la ritenesse poco sana di mente, ma finì per alzare le spalle e fare quello che gli aveva detto. Una volta sola, Irene esaminò più attentamente la stanza della musica, ma persistette a non trovare nessun nascondiglio di qualche tipo. Con un pesante sospiro, si lasciò cadere sullo sgabello davanti all’arpa. Scorrendola con uno sguardo distratto, s’accorse di colpo che la corda che le era sempre mancata e che le aveva impedito di suonare con le sue piene capacità ora era al suo posto, insieme alle altre. Si tese verso di essa, l’espressione sbalordita, e la toccò. Un suono argentino si diffuse per tutta la stanza, amplificato.
La ragazza, colpita da un tale inspiegabile mistero, raccolse le gonne, uscì e tornò da Tommaso, nella sala da pranzo: “Scusa, Tommaso, per caso sei stato tu ad aggiungere la corda mancante all’arpa?”
Lui aggrottò le sopracciglia, confuso: “No, signorina. Sei sicura che sia stata aggiunta?”
Irene annuì ammutolita. Ma allora, se non era stato Tommaso, e suo padre era fuori, chi aveva aggiunto la corda? Di certo non lei! È vero, si era sempre lamentata di quella mancanza, e non aveva potuto suonare la “Serenata triste” che le piaceva tanto proprio per la sua assenza, ma non le era mai venuto in mente di cercarne una e di applicarla allo strumento. Tornò a passi lenti nella stanza della musica e sedette accanto all’arpa: “Per caso sei stregata e ti ripari da sola?” sussurrò. Istintivamente, accarezzò tutte le corde e le pizzicò per suonare la serenata. Grazie alla fortunosa quanto impossibile aggiunta riuscì ad intrecciare dolci suoni e a creare malinconiche e dolenti note, e per un attimo, presa dalla sua esibizione, dimenticò quel mistero.
Più tardi fantasticò su di una presenza fantastica rimasta intrappolata tra quelle mura capace di attraversare le pareti e rendersi invisibile, un fantasma che non si rivelava mai ed era venuto a donarle la corda. Sapeva, però, che nel mondo reale non esistevano né presenze né fantasmi, e che quindi c’era una diversa spiegazione.
“C’è un’unica spiegazione” si disse: “Papà ha comperato la corda e l’ha applicata all’arpa ieri, ed io non me ne sono accorta perché non sono andata nella stanza della musica. Ecco come sono andate le cose”.
 
“Corda? Io non ho preso nessuna corda!” sentenziò sorpreso Giorgio la sera stessa a cena. Lui e Irene erano seduti al tavolo della sala da pranzo, con la sola luce delle candele nei candelabri, e stavano consumando un parco pasto a base di roast beef e patate. Oltre il tavolo illuminato dalle fiammelle si diramava il buio, diventato ormai una fastidiosa consuetudine.
Irene posò la forchetta: “Eppure devi essere stato tu!” esclamò: “Se io non l’ho aggiunta e neanche Tommaso, allora chi è stato?”
Giorgio si grattò la testa: “È possibile che quella corda ci sia sempre stata”.
Un bagliore di rabbia attraversò gli occhi chiari della fanciulla: “Mi credi una stupida che non nota una cosa del genere? Mi hai sempre sentita lamentarmi proprio a causa di quella corda. Non c’è mai stata prima di oggi!”
“Hai chiesto a Tommaso se per caso non l’avesse aggiunta distrattamente?”
“Diverse volte. È sicuro di non aver fatto nulla del genere”.
Giorgio aprì la bocca, ma alla fine la utilizzò solo per masticare un pezzo di roast beef. Irene si sentì indispettita che non sembrasse molto spaventato. Semplicemente, quando non sapeva trovare una spiegazione, si chiudeva nel silenzio e parlava d’altro. Lei però era affascinata da ogni mistero e d’altra parte qualcosa in quella faccenda esercitava su di lei uno strano fascino. Si girò intorno all’anulare l’anello d’argento di Stephan e si chiese cosa avrebbe fatto lui se fosse stato con lei. Di sicuro le avrebbe creduto e l’avrebbe aiutata. Ma no, cosa pensava? Stephan era così razionale che avrebbe ritirato fuori la vecchia tiritera del “è solo una tua impressione”. Ad ogni modo, meglio questo che ritrovarsi sola con un padre cieco all’evidenza e un domestico così pavido da non affrontare mai l’argomento.
“Papà, quando hai comperato Heather Ville, il tale che te l’ha venduta ti ha assicurato che era disabitata?” gli chiese col tono più soave che le riusciva, per spingerlo a confidarsi. Giorgio gonfiò il petto: “Per chi mi hai preso? Certo che me l’ha assicurato! E puoi vederlo tu stessa, Irene, che non c’è nessuno. Perché me lo chiedi?”
“Una curiosità femminile…” commentò lei, costringendosi a sorridere con un po’ di timidezza: “Sai quanto adoro queste cose. Ecco, saresti così gentile da confidarmi se il vecchio che ti ha venduto questa casa ti ha parlato di qualcuno che ha abitato qui precedentemente?”
“Certo che hanno abitato qui precedentemente, Heather Ville ha più di cent’anni. Però non ho ritenuto necessario informarmi su questo. Cosa ti importa? Non dovresti essere così curiosa. Non staremo qui per sempre. È solo un periodo per goderci un po’ di solitudine”.
Con un sospiro, la fanciulla tornò alla sua cena. Da suo padre non avrebbe ottenuto nulla di più. Era ovviamente intestardito ad ignorare quello che lei sosteneva di sentire, e quel vigliacco di Tommaso davanti al padrone aveva negato di avere udito i movimenti nella stanza della musica. Così, oltre che a tediarlo con le sue continue domande, aveva anche fatto la figura della bugiarda e della paranoica. Prese la decisione di ignorare gli strani fenomeni che si manifestavano ad Heather Ville e di continuare la sua vita tranquillamente. Come suo padre aveva specificato, non sarebbero restati lì per sempre. Forse Stephan le avrebbe chiesto di sposarlo, quando avrebbe avuto una posizione solida con l’attività del padre. Anche se Irene non era certa di accettare, quel futuro la allettò, anche se era un futuro tracciato con la matita.
Sbadigliando, si alzò in piedi: “Scusami, papà, avrei un gran sonno. Voglio andare a dormire”.
Giorgio addolcì lo sguardo e le sorrise: “Ritirati pure, mia cara. Ci vediamo domani mattina” si batté un colpetto sulla guancia rugosa e lei, ubbidiente, si chinò e vi depose un bacio. Poi, salutato Tommaso che era accorso a sparecchiare, si recò nella sua stanza e accese la lampada di fianco al letto, respirando a fondo l’aria stantia che vi regnava. In qualche modo lì si sentiva sicura, ed era diventata il suo piccolo rifugio privato. Si sciolse i capelli e si tolse gli abiti da giorno, rabbrividendo quando fu nuda. Volse la schiena al muro di fronte al letto e indossò in fretta la camicia da notte bianca, con un pudore improvviso, anche se era sola.
Si infilò in fretta a letto e si tirò addosso le pesanti coperte. Brividi di piacere le corsero su per la schiena quando fu raggomitolata al caldo. Mormorò le sue preghiere ubbidientemente, poi spense la lampada e la stanza calò nella tenebra più nera, in cui neanche ad occhi spalancati riusciva a vedere nulla. Irene si strinse di più nelle coperte e si sforzò di prendere sonno. Era davvero stanca, comunque. Tutte quelle novità le avevano messo addosso un pesante torpore, che solo una bella dormita avrebbe dissipato.
“Sì” pensò rassicurata: “Una bella dormita e domani sarà tornato tutto alla normalità”.
Ma in quell’attimo, nel silenzio assoluto e nell’oscurità densa della stanza risuonò all’improvviso una voce maschile che sembrava provenire da un punto imprecisato: “Così bella…”
Quella voce fu così inaspettata e così terrorizzante che alla povera ragazza prese un vero e proprio colpo. Balzò a sedere sul letto pallida come una morta, coi capelli scarmigliati e gli occhi pieni di terrore, e cacciò un urlo: “Chi c’è?! Chi ha parlato?!”
“Così pura…” proseguì la terribile voce. Chi c’era nella stanza? Quale orribile individuo era venuto a farle del male? Completamente obnubilata dal terrore, Irene si gettò sulla lampada e l’accese tremando come una foglia. Subito dopo, girò sulla stanza uno sguardo carico d’isteria. Vuota. La stanza era totalmente vuota. La fioca luce della lampada illuminava le pareti spoglie, la cassapanca dove teneva i vestiti, ma alcuna presenza che potesse giustificare la voce che aveva udito, e che aveva taciuto di colpo, non appena aveva acceso. Per diversi istanti restò seduta immobile sul letto, ansimando, col viso pallido e madido di sudore e gli occhi spalancati e impauriti: “Chi c’è?” gemette. Non rispose nessuno. Eppure lei aveva sentito quella voce!
Anche nel terrore e nell’angoscia aveva conservato una certa lucidità, e una specie di istintiva fascinazione verso quel che le stava succedendo. Era forse la luce accesa che aveva fatto fuggire la voce? Lentamente, con la convinzione di stare per fare una sciocchezza, tese la mano in direzione della lampada, e, con un movimento lieve, la spense. La camera ripiombò nelle tenebre dense e pastose. Non si udiva altro rumore che il suono angosciato del suo respiro. Quasi si convinse d’avere avuto un gigantesco abbaglio.
“Non devi aver paura…”
Sobbalzò nuovamente, povera e atterrita, e urlò, con la stessa foga di prima, perché la voce maschile era tornata, bassa e gravosa, insinuandosi nel suo animo come un veleno. Sembrava vicina, ma allo stesso tempo non troppo. “Fatti vedere!” strillò, accendendo di nuovo la luce. La presenza tacque in contemporanea alla resurrezione della lampada. Niente! Oh, stava forse impazzendo? Era Heather Ville ad averle inculcato dentro quelle visioni? Era Heather Ville che, oltre al terrore, le stava facendo provare una sorta di interesse morboso per quello strano fenomeno?
“Se c’è qualcuno qui intorno” si disse, guardandosi intorno con scatti nervosi degli occhi azzurri: “E se voglio scoprire chi è, devo stare al gioco e tenere la luce spenta. Ma sarà vero che non devo aver paura?”
Qualcosa, nel tono di quella terribile voce, la spingeva a fidarsi, qualcosa di inspiegabile e magico, come se fosse vittima di un incantesimo. Timorosa ed esitante, spense di nuovo la lampada e stavolta parlò subito, nel buio completo: “Chi…chi sei?”
La voce le rispose con un tono che voleva quasi essere gentile, ma che in qualche modo, impresso in quell’accento, aveva un che di minaccioso e malsano: “Un amico”.
Irene non poteva impedirsi di avere un balzo al cuore non appena la sentiva. Era sempre spinta inspiegabilmente a fidarsi, ma una parte lucida della sua mente le suggeriva di star cauta e manteneva vivo il terrore. I capelli biondi le piovevano sul petto, madido di sudore dentro la camicia da notte: “Un amico?” ripeté, con un tono tremante e isterico insieme. Alzò la voce: “Come fa a dire d’essere mio amico, chiunque lei sia, se mi parla nel bel mezzo della notte, nella mia camera, senza mostrarsi? Cosa è venuto a fare qui? Vuole uccidermi, torturarmi, farmi impazzire?”
“Non voglio farti del male” replicò la voce, sincera, che, ora Irene se ne accorgeva, proveniva proprio da un punto davanti al letto, anche se non percepiva alcuna presenza nella stanza. Ansimò più forte, nel panico e nell’interesse. C’era qualcosa di profondamente affascinante in quella situazione: “Se non vuole farmi del male” disse coraggiosamente la fanciulla: “Si faccia vedere, se ha la pretesa d’avere un viso onesto!”
La presenza emise un lungo sospiro, che assomigliava ad una folata di gelido vento invernale: “No, non credo” commentò pacato: “Preferisco rimanere da dove posso guardarti senza che tu guardi me”.
Irene digrignò i denti e ripeté, lottando col terrore e con quello strano fascino: “Chi è? Dove si trova? Se non risponderà adesso, urlerò e chiamerò mio padre e il domestico, che la cercheranno fino a trovarla e le faranno pagare d’avere importunato una ragazza nella sua stanza da letto!”
Per tutta risposta la presenza scoppiò in una risata agghiacciante, che le fermò il sangue nelle vene e la fece tremare: “Ah, non credo che mi troveranno” disse infine, con un tono tra il divertito e il minaccioso: “So come nascondermi, Heather Ville mi appartiene molto più che a loro. Quelle fragili cose non sapranno mai di me”.
“Dunque, se è così deciso a restare nascosto” disse Irene, che suo malgrado abbandonava lentamente il terrore, mentre cresceva in lei la voglia folle di conversare con quell’uomo invisibile e pericoloso che la spiava nella notte, per scoprire qualcosa in più su di lui: “Perché s’è fatto sentire da me? Sa bene che io potrei denunciarla seduta stante”.
Ci fu una lunga pausa di silenzio, e Irene s’accorse, con un trasalimento d’orrore, che le sarebbe dispiaciuto se la presenza se ne fosse andata. Stava accadendo nel suo animo qualcosa di inquietante, s’era risvegliata in lei una passione di mistero oltremodo malsana. Quando la voce parlò, la ragazza provò quasi sollievo: “Per quanto riguarda la tua prima domanda, ti basti sapere che ti ho osservata molto, e che tu mi hai illuminato. In quanto alla seconda questione, mi fido di te, Irene. Sono certo che non mi denunceresti mai. Non hai l’aria d’una che andrebbe a denunciarmi”.
Il cuore della giovane palpitò come un uccellino spaventato, di desiderio e paura: “Come conosce il mio nome?” disse allarmata. Ma poiché lui non rispondeva, pensò alle sue parole. Aveva affermato di fidarsi di lei, ma lei di sicuro sarebbe corsa subito da suo padre per dirgli che Heather Ville era infestata da quella presenza. Improvvisamente le venne un dubbio. Era davvero la cosa giusta da fare? La presenza aveva detto che non l’avrebbero mai trovata, e Irene le credeva, assurdamente, ma le credeva. Dunque, se si faceva sentire solo da lei, lei non doveva forse stare al gioco, per incastrarla e scoprire la sua identità? Si disse che era questo che la spingeva a tacere, anche se una parte di lei invece era convinta che fosse una vera crudeltà tradirlo e che per questo doveva tenere la bocca chiusa.
“È un fantasma?” chiese infine, tremante. Nuovamente la presenza fece la sua risata folle e incontenibile: “Buona questa! No, bella Irene, non sono un fantasma, anche se a volte penso che sarebbe meglio così”.
“Allora…” fu presa da un’esitazione, combattuta tra la curiosità e la paura: “Allora chi…cosa è?”
Questa volta la voce suonò leggermente irritata, rimbombando nel silenzio e nel buio: “Sono un uomo. Ma ora smettila di fare domande, non mi piacciono le domande. Se avessi saputo che facevi tante domande, avrei continuato ad osservarti, senza farmi sentire!”
“No!” gridò Irene, atterrita. Le parve che a pronunciare queste accorate parole fosse un’altra persona, e non lei: “No, mi perdoni, la prego! Non le chiederò più nulla, stanotte! Ma continui a parlare!” subito dopo si premette una mano sulla bocca, inorridita. Perché aveva detto così? Avrebbe dovuto essere terrorizzata! Avrebbe dovuto urlare e cercare dappertutto e impazzire di paura! E invece era profondamente affascinata e in preda alla malia e qualcosa in quella voce l’aveva catturata e rapita.
Il tono della presenza si venò di un malcelato trionfo e tornò a sforzarsi d’essere gentile: “Che belle parole hai detto! Sapevo che tu eri diversa dagli altri, Irene. L’ho visto. Tu sola saresti degna di star qui, nella mia Heather Ville…ed è così bello guardarti. Non avevo posato gli occhi su qualcosa di tanto bello da troppi anni. Dimmi di te. Parlami di come sei”.
Irene esitò. Quella sola, prima notte, aveva forgiato le basi di un legame oscuro tra lei e quell’uomo misterioso senza nome che le parlava al buio, senza rivelarsi, e non era certa di volerlo. In qualche modo continuava a desiderare di urlare ed uscire da quel sogno. Ma allo stesso tempo, era curiosa, furiosamente curiosa di scoprire il mistero, e per scoprire il mistero doveva parlare con lui: “Io…amo la musica”.
“Lo immaginavo” ribatté la presenza: “Ti ho sentita suonare l’arpa più volte. Le tue mani creano incanti sulle corde. Ora su tutte le corde”.
“Tu!” esclamò lei spalancando gli occhi stupefatti: “Sei stato tu ad aggiungere la corda mancante! Tu sei stato nella stanza della musica!”
La presenza fece una risatina bassa e suadente, che somigliava al fruscio di qualcosa di viscido che scivola sul pavimento: “Sei intuitiva, Irene. Bene. Mi piacciono le persone intuitive. Odio la gente vuota e priva di intelligenza. La trovo così noiosa, così poco incline al suscitare interesse! Il tuo domestico, per esempio. È un uomo così prevedibile! Passa tutto il tempo svolgendo i suoi doveri, senza mai fare qualcosa di interessante. Mi sono stancato quasi subito di seguirne i movimenti”.
Irene tacque, il cuore che le martellava convulso nel petto. Ciò significava che la presenza non aveva spiato solo lei, ma anche Tommaso e suo padre. Percepì di colpo un forte senso di minaccia: se era così, voleva dire ch’era ovunque, nascosta nell’ombra, e che controllava ogni loro minimo movimento! Erano, in qualche modo, suoi prigionieri. Questo la spaventò, ma non tanto quanto avrebbe dovuto. Perché la presenza, tra tutti e tre, aveva scelto di rivelarsi a lei, era rimasta colpita da lei.
“Oh, povera me!” pensò, sul viso una smorfia disperata: “Questo non dovrebbe lusingarmi!”
“Irene?” domandò la presenza dopo diversi minuti che restavano in silenzio. La ragazza rabbrividì: il suo nome, impresso in quella voce, la faceva fremere d’un insieme di desiderio e paura: “S-sì?” balbettò. Si sforzò di carpire da dove provenisse la voce, quando le rispose, ma tal fatto restò un mistero: “Hai paura di me?”
Irene sussultò a quella domanda così insolita. La presenza l’era parsa molto sicura di sé finora, anzi, avrebbe osato dire si fosse comportata in modo quasi sardonico, eppure nel porle quella questione il suo tono s’era velato d’un’improvvisa insicurezza. Fu presa dalla pietà, e rimase sconvolta poiché non avrebbe mai pensato di poterla provare per un uomo di cui non conosceva nemmeno il volto: “…” non riuscì a rispondere nulla. Non lo sapeva nemmeno lei.
“Me l’aspettavo” disse la presenza, o l’uomo, con voce nuovamente sicura: “È normale che tu abbia paura di me. Chiunque al tuo posto l’avrebbe. Trovo strabiliante che tu ne mostri così poca. Ma questo non mi spaventa. No. È un problema facilmente risolvibile”.
“Cosa…cosa intende dire?” bisbigliò la fanciulla, con un presentimento improvviso. Che si rivelò fondato: “Intendo dire, Irene Lancaster, che d’ora in poi, ogni notte” la voce calcò bene su quelle parole: “…verrò a parlarti senza mai mostrarmi a te. Oh, intraprenderemo delle conversazioni così interessanti, ne sono certo! Così, col passare del tempo, tu avrai sempre meno paura di me e alla fine imparerai ad apprezzarmi”.
Un tremito la scosse. L’uomo non scherzava: era davvero intenzionato ad insinuarsi nella sua vita in quel modo. Era terribile…oh, ma che tentazione, però! Che magnifico mistero, che situazione fantastica e irripetibile! Lasciarsi sfuggire l’occasione di svelare l’identità della presenza? Di poter conversare con un fantasma? Se non le aveva fatto del male quella notte, significava che non l’avrebbe mai fatto. Tirarsi indietro a causa d’uno stupido timore, quando avrebbe potuto imbarcarsi in un legame così pieno di magia e di segreti? Ormai era già stregata. La proposta era troppo allettante perché la rifiutasse.
“So di non poterti impedire di portare a termine i tuoi piani” mormorò infine, misurando attentamente le parole. Assecondarlo le sembrava il modo migliore di spingerlo a svelarsi: “E devo ammettere di essere tentata dalla prospettiva di parlare con te. Devi essere un uomo interessante” soggiunse con tono elogiativo: “Ma è proprio necessario conversare così, al buio, senza vedersi? La cosa mi mette piuttosto a disagio. Perché invece non vieni fuori e parliamo faccia a faccia? Mi piacerebbe conoscerti meglio!”
Aveva usato un fare molto persuasivo, che aveva sempre funzionato con suo padre, Tommaso e anche Stephan, e rimase sinceramente delusa quando la presenza le rispose senza nessuna indecisione: “Temo di dover declinare la tua offerta, Irene. Sto bene dove sto e non intendo spostarmi. Sono sicuro che alla fine farai l’abitudine a questo modo di conversare e imparerai a conoscermi anche senza vedermi”.
Vedendosi così categoricamente respinta, Irene si sentì indispettita: “Ma così non è valido!” obiettò, alzando un po’ la voce: “Perché tu puoi vedere me, ed io non posso vedere te? Un buon rapporto si basa sull’equità!”
“In effetti è così” replicò l’uomo, divertito dal suo buon senso: “Ma io sono fatto a modo mio e penso che il nostro rapporto si evolverà molto meglio se non avrai occasione di vedermi. E ora basta! La faccenda è chiusa!”
La fanciulla si morse insoddisfatta il labbro. A quanto pare svelare il mistero si prospettava più difficile di quanto aveva immaginato: la presenza era inamovibile come una roccia. Avrebbe dovuto imparare a parlare al buio senza vedere nulla: “Almeno” tentò per l’ultima volta, il tono contrito: “Puoi dirmi il tuo nome? Tu conosci il mio. Sarebbe scomodo rivolgermi a te chiamandoti uomo o voce”.
Percepì una breve esitazione nell’altro e osò sperare che le desse quell’informazione. Alla fine l’uomo disse seccamente: “Puoi chiamarmi R”.
“R?” ripeté Irene, le sopracciglia aggrottate: “Uno strano appellativo. Forse il tuo vero nome comincia con questa lettera?”
Non rispose nessuno, la stanza era tornata nel silenzio più totale. Irene stava per ripetere la domanda, quando la porta s’aprì con un cigolio improvviso, strappandole un mezzo grido. Accese immediatamente la luce e girò spaventata gli occhi alla soglia dove era apparso Tommaso, in pigiama e berretto da notte, gli occhi gonfi di sonno. Nel riconoscerlo si tranquillizzò solo in parte. Era a dir poco stupita dalla prontezza di riflessi dell’uomo chiamato R: aveva smesso di parlare appena pochi secondi prima che il domestico si materializzasse lì. Doveva avere tutto sotto controllo!
Tommaso diede un’occhiata inquisitoria al suo colorito pallido, all’espressione spaventata e al petto ansante e domandò, guardandosi sospettosamente intorno: “Và tutto bene, signorina Irene?”
Ad Irene occorsero diversi minuti per recuperare la piena padronanza di sé. Raddrizzò le spalle, assunse una posizione decorosa e parlò con tono normale: “Sì, Tommaso. Perché sei venuto qui? Non è molto educato entrare nella camera di una ragazza nel bel mezzo della notte!”
“Sta diventando un’abitudine di molti” pensò tra sé e sé.
Tommaso continuava a guardarsi intorno circospetto, come un cane da caccia messo in all’erta da un odore sospetto: “Mi era parso di aver sentito una voce”.
“Una voce?” disse Irene con faccia da gnorri: “Che voce, Tommaso? Io non ho sentito niente”.
“Eppure l’ho sentita!” insistette il domestico: “E ho sentito anche la tua, signorina! Stavi parlando con qualcuno?”
Lei scoppiò in una risata falsa, stupita dal proprio nascosto talento di attrice: “Parlare con qualcuno? E con chi avrei potuto parlare? Non vedi che qui non c’è nessuno?”
Lui diede un’occhiata alla stanza e dovette ammettere che era così. Arrossì e si ingobbì, già meno sicuro di sé: “In effetti…”
“Probabilmente è stato il sonno” spiegò lei con fare accondiscendente: “Và a dormire tranquillo, non preoccuparti per me. Sono sicura che domani ti sentirai assai meglio!”
Adesso Tommaso era paonazzo per l’ipotetica svista in cui era incappato. Sembrava non riuscire a guardarla in faccia: “Mi scuso, signorina Irene” borbottò contrito. Lei gli fece un cenno bonario: “Sei scusato. Ora và!”
Quando si fu ritirato scuotendo la testa, ancora vergognoso per il disturbo inutile che aveva arrecato, Irene si permise di ripensare alla presenza. Aveva fatto come le aveva chiesto, non l’aveva denunciata. S’era consegnata nelle sue mani di sua spontanea volontà. Spense piano la luce e chiese, dubbiosa: “R? Ci sei sempre?”
Le rispose solo il silenzio. Cupa delusione si impadronì di lei. R se n’era andato, scomparendo nel nulla come se la loro conversazione non fosse mai esistita e lasciandole il dubbio d’essersi sognata tutto. Ma il fatto che anche Tommaso avesse sentito significava che era stato tutto vero, che lui c’era davvero. E lei non vedeva l’ora di potergli parlare di nuovo per scoprire dove si nascondeva e com’era fatto.
“Se mantieni le tue promesse, R” pensò, raggomitolandosi sul letto: “Allora domani notte tornerai. Forse non te ne sei mai andato, forse mi osservi da qualche punto segreto a me ignoto”.
Quel pensiero non l’impauriva. Cadde addormentata.

 
  
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