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Autore: Walpurgisnacht    31/03/2012    4 recensioni
Barattolo di Sangue e Spirito della Vendetta ci hanno consegnato un Ranma incolpevole spettatore di una doppia tragedia. Cosa può succedere quando arriverà allo studio del dottor Tofu?
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Genma Saotome, Ranma Saotome
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Secretception!'
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Uff. Vorrei proprio sapere chi me l’ha fatto fare di venire qui.
Era un bel po’ di tempo che non aiutavo il dottor Tofu nel suo ambulatorio. Oggi ero particolarmente annoiato, però, e non mi andava affatto di barare a shogi con Soun. Quindi ho alzato la cornetta e ho chiamato per vedere se aveva qualche faccenda da farmi sbrigare. Così, tanto per occupare le ore.
Sono quasi le sei, ormai. Sta venendo buio e la monotonia non se n’è per nulla andata. Anzi, è stata raggiunta dalla fatica e si sono messe a bere assieme, visto che Tofu mi ha messo sotto e mi ha fatto sgobbare un sacco.
Sposto ancora qualche scatolone. È arrivato giusto oggi un nuovo set di lettini, che quelli vecchi avevano ormai le molle esposte. E indovina chi deve mettere tutto a posto?
Devo ancora capire, poi, perché c’è la predilezione per la mia forma pandesca. Quando sono qui mi è velatamente proibito di esistere come essere umano. Non che sia un problema, a me piace essere grosso e nero e potermi esprimere solo tramite cartelli. Però è strano e abbastanza inspiegabile, ecco.
Risuona il campanello che annuncia l’arrivo di qualcuno.
Incredibile, oserei dire. Oggi è stata una giornata piattissima, senza l’ombra di un solo cliente.
Il dottor Tofu mi supera e va verso il disimpegno, esortandomi a finire in fretta col lavoro che potrebbe esserci bisogno di stendere il paziente. Poi si chiude la porta alle spalle, lasciandomi solo nella stanza.
Mentre mi arrabatto con pacchi e pacchetti vari sento distintamente la voce del dottore... e di Ranma? Queste pareti sono fatte di cartapesta, la ricezione è ottima. Credo di non essermi sbagliato.
Beh, non è così strano che Ranma sia qui, viene spesso e...
“Kamisama, Ranma. Cosa ti è successo? E cos’è successo... a lei?”. Il tono è agghiacciante. Sembra che abbia visto un fantasma e mezzo.
Non giunge risposta.
Che diavolo sta succedendo in quella stanza?
Senza neanche pensare se sia una buona idea o meno afferro un bicchiere e lo riempio di acqua calda. Me la verso in testa, innescando la trasformazione.
Non posso permettermi di essere un panda. Qui è successo qualcosa di grave, lo sento.
Mi avvicino quatto quatto alla porta e, mentre vado, mi chiedo se dovrei limitarmi a origliare o se al contrario dovrei rendere manifesta la mia presenza. Anche per poter vedere coi miei occhi cosa c’è al di là di questo pezzo di legno. Qualcosa che non mi piacerà, ne sono sicuro.
Poi mando a quel paese i metodi da ladro tipici di Genma Saotome, afferro il pomello e prendo più fiato che posso per cercare di farmi coraggio.
Tengo la testa bassa. Non riuscirei a reggere il crudo impatto senza un po’ di preparazione.
Da quando sono diventato così sensibile e intuitivo? Credevo che il mio istinto paterno si fosse estinto quando ho rubato i takoyaki a Ranma l’ultima volta, ormai parecchi anni fa. Invece c’è un fuoco strano nel mio petto, qualcosa di indistinguibile e poco definito. Come se percepissi l’atmosfera pesante creatasi in quella stanza.
Finalmente apro.
Desidero immediatamente non averlo mai fatto.
Ranma, pieno di acciacchi e ferite, il naso leggermente piegato verso destra, un braccio totalmente tinto di rosso come la sua blusa. Respira lentamente e si capisce con chiarezza che ogni singolo movimento gli procura dolore.
E, ai suoi piedi...
Ukyo.
Netto è lo squarcio nel suo ventre.
No. Che cos’è quest’incubo? Quando mi sono addormentato e perché sogno scene tanto orrende? Nodoka. Svegliami, ti prego.
“Signor Saotome...” è il timido accenno che Tofu fa nei miei confronti. Mi guarda contrito, l’espressione di chi non vorrebbe trovarsi lì in quel momento.
“Figlio... questo... questo cosa significa?” riesco a chiedere, trovandone la forza non so dove.
Lui mi guarda, diretto. Nei suoi occhi si vede solo disperazione, tanta disperazione.
Non sono gli occhi di Ranma Saotome, quelli. Sono gli occhi di un’anima fuggita dallo Yomi perché il suo tempo nel mondo terreno non si era concluso e aveva ancora degli affari importanti da sbrigare. Sono gli occhi di chi ansima per inerzia dopo aver perso la cosa per lui più importante al mondo. Sono gli occhi di chi vive da cadavere.
“Dottore... polizia...” bisbiglia.
Colmo la piccola distanza che ci separa, mentre il buon Tofu obbedisce alla richiesta e si avvia verso il telefono. Poi lui ha come un lampo di vita estemporaneo e dice semplicemente “Dottore... due...”.
“Due cosa?” chiede l’interpellato, perplesso.
“Due... morti...”.
Che? Cosa? Due... due morti?
Lo afferro al volto con entrambe le mani, impedendogli di distogliere lo sguardo, e un’orribile curiosità perversa si fa largo in me spingendomi a chiedergli di spiegarsi meglio.
“Papà... Akane...”.
Detto ciò si avventa sul mio petto e... piange.
Piange senza freni. Ricorda un bambino a cui hanno rotto il giocattolo preferito. Più di una volta. Senza chiedergli scusa. E prendendolo pure in giro.
Mi stai dicendo... che Akane... è morta?
Le sue braccia sono chiuse a mo’ di morsa in acciaio attorno alla mia vita, intesa come parte corporea. Forse anche in senso figurato, in realtà. Non si è mai mostrato così vulnerabile e prostrato con nessuno. Men che meno col suo vecchio che, colpa incalcolabile ai suoi occhi, è più debole di lui nelle arti marziali. Sento che, in questo momento, ha un estremo bisogno di un supporto, di un petto su cui sfogarsi, di una spalla su cui potersi appoggiare.
Io provo... non so cosa provo. Non avevo mai affrontato una situazione simile e non ne ero neanche lontanamente preparato. Troppe informazioni tutte in una volta: Ranma afflitto come non l’avrei mai e poi mai creduto possibile, che si piega alle contingenze e mette da parte l’orgoglio abbracciandomi; Ukyo ridotta in questo modo pietoso, trapassata da qualcosa che non riesco a immaginare tanto dev’essere stato violento per avere questi risultati; la notizia, sempre che non abbia capito male, che anche Akane se ne sarebbe andata nel mondo dei più.
Perché? Perché Akane e Ukyo... sono... sarebbero... non voglio neanche dirlo. No, non voglio pensarci. Non può essere successo. Impossibile. Mi rifiuto.
Sono paralizzato. Vorrei accarezzargli il capo, e a quel paese l'immagine di uomo duro che non si mostra sentimentale in nessuna situazione. Ma non riesco a muovere neanche la bocca per parlare. Il realizzare l'enormità di quanto sta succedendo minaccia di schiacciarmi come un gigantesco masso, e stavolta nessun calcio da supereroe dei fumetti potrà salvarmi dall'impatto.
“Ranma...”. Mi esce così strozzato e basso che io stesso fatico a sentirlo.
Lui non reagisce, ancora in lacrime contro il mio gi.
“Ranma...” riesco a ripetere, stavolta un po' più forte.
E finalmente riesco a muovermi e cerco di dargli un po' del conforto che cerca disperatamente. La mia mano passa lieve sui suoi capelli, mentre tento di assembrare qualche parola adatta. Rimanendo totalmente asciutto.
“Figliolo... cos'è successo? Spiegami, ti prego. Perché Ukyo... e Akane... o kami...”.
Alza appena la testa per guardarmi negli occhi. Il suo volto è totalmente sommerso dal pianto, che continua a fluire come un fiume in piena che ha rotto gli argini.
Credo di essere la prima e unica persona al mondo che può dire di aver visto l'invincibile Ranma Saotome ridotto in questo stato pietoso.
“Pa... papà... io... io...”.
Non ce la può fare. Non riesce ad articolare più di tre parole consecutive di senso compiuto. Lo esonero dal compito, al momento impossibile per lui da svolgere.
Tofu rientra, chiudendosi piano la porta alle spalle. Si ferma alla nostra destra, le mani nervosamente nascoste dietro la schiena. Dalla sua faccia si vede che vorrebbe sentire delle spiegazioni in merito a quanto è successo, ma buon senso e rispetto lo trattengono dal fare domande inopportune.
Rimaniamo in queste posizioni. Non so dire quanto tempo è passato quando arriva un poliziotto. Dall'esterno non filtra luce, se non quella artificiale dei lampioni. Sarà sera oramai.
Sta per dire qualcosa quando si accorge del povero corpo, ancora riverso per terra nello stesso punto in cui è stato lasciato. Gli occhi gli si spalancano come due fanali. Si avvicina incerto e si china, tastando con cautela la pancia di Ukyo. La sua faccia si trasforma istantaneamente in una maschera noh, di quelle che ritraggono la tristezza.
“Mi avete chiamato per questo, mi pare di capire” sentenzia rialzandosi, e nessuno si premura di fargli notare l'ovvietà. Non mi sembrerebbe opportuno.
Si passa una mano fra i capelli radi e ingrigiti e assume l'atteggiamento di chi ha vissuto scene del genere molto spesso, anche se non ne rimane indifferente.
“Ne ho viste tante, ma un cadavere conciato così è una novità per me. Posso chiedere se sapete come è stato possibile?”.
Ranma si scosta dal mio petto e si volge nella sua direzione, cercando di rendersi un minimo presentabile.
“Sono stato io”.
...
...
...
...
Tu... non devi farmi questi scherzi... il mio cuore non regge...
“Ragazzo, non prendermi in giro. Come avresti potuto? Usando una sega elettrica?”.
Lui non si scompone. Se non fosse un momento tragico scommetto che ora si starebbe disegnando un sorriso sornione sul suo volto, desideroso di smentire la stupida incredulità di chi ha osato fare un'uscita così. Ma naturalmente non è questo il caso.
Va verso la porta d'ingresso e la chiude. Carica il pugno, concentrando il ki sulle nocche. Noto, con la coda dell'occhio, lo sguardo meravigliato di Tofu. Mi chiedo il perché. Non è la prima volta che lo vede in azione, dopotutto.
Il colpo sfonda il legno con impressionante facilità e il suo braccio si incastra nel buco. Cerca di estrarlo ma non ci riesce, quindi espande ancora la sua aura fino a che non sbriciola tutto.
Per avergli disintegrato un pezzo d'arredamento rivolge scuse silenziose al dottore, il quale risponde con un leggero increspamento delle labbra. Il poliziotto, che leggo ora sulla targhetta si chiama Kazuo Asakura, si porta una mano alla bocca. Come ogni civile non abituato allo spettacolo la meraviglia per quello di cui è appena stato testimone lo soverchia, potente.
“Mi crede, ora?”.
Il movimento della testa è affermativo. Non avrebbe potuto fare altrimenti.
Ora che questo aspetto è stato chiarito, però, devo capire un'altra cosa.
“Vede, io e mio figlio siamo maestri di arti marziali. Ci riesce facile compiere simili prodezze. Però, le assicuro, Ranma non è un assassino”.
“Papà, taci”.
Proprio adesso dovevi tornare a essere il solito testone esaltato? Io ti conosco, non sei capace di privare qualcuno della vita. Figurati la tua cara amica d'infanzia.
Perché ti stai addossando qualcosa che so non hai commesso? Perché?
Lo afferro per il colletto e lo sollevo di qualche centimetro.
“Non essere assurdo. Tu non puoi aver fatto questo ad Ukyo. Vero, dottor Tofu? Dica anche lei al comandante Asakura che mio figlio non uccide”.
Lui si affretta a sostenere la mia posizione, per fortuna. Non ne dubitavo ma averne la conferma mi solleva.
“Fate silenzio!” prorompe lui, irato “C'eravate quando è successo, per caso? Potete dire con assoluta certezza che non sia stata colpa mia? No, non potete! Ora fatemi il piacere di star zitti, per favore”.
Ranma... io non voglio crederci... questa serietà mi inquieta. Non vorrai dirmi... che...
Con una manata si libera dalla mia presa, ringhiando. Sembra poco felice del mio colpo di testa, ma io vorrei vedere un qualunque altro padre nella mia situazione come avrebbe reagito.
Dopo avermi omaggiato con un'occhiata aggressiva, ritorna verso il poliziotto e ribadisce la propria farlocca ammissione di colpevolezza.
Quello lo osserva spaventato. Evidente come gli pesa sul groppone il precedente sfoggio di forza. E nonostante questo trova il coraggio di dichiarare: “Signori, di fronte a una confessione in piena regola il codice mi impone di trarre in arresto il reo e di tradurlo al più vicino commissariato, almeno per accertamenti su quanto dice. Peraltro la ringrazio, ma io non sono comandante. Sono un semplice agente scelto”.
Qualcuno mi tolga l'incudine dalla schiena, per favore. Pesa troppo.
“Lei... non può arrestarlo... che prove ci sono?” chiedo, facendo una fatica boia a comporre una frase comprensibile.
Quello mi riserva un’espressione corrucciata, e ancora impanicata. Contrae i muscoli delle braccia e delle spalle, come se stesse raccogliendo tutta la propria risolutezza. Considerato quello a cui assistito, riferito sia alla piccola Kuonji sia alla dimostrazione di Ranma, non lo biasimo.
“Prove concrete ancora nessuna, ma non posso proprio ignorare una persona che si proclama autrice di un omicidio. Cerchi di capirmi, signor...”.
“Saotome. Genma Saotome. Lui è Ranma”.
E l’interpellato scuote la testa e alza la mano destra, con l’indice e il medio a formare una V.
No, basta mazzate fra capo e collo. Fanno un male insopportabile.
“Due omicidi. Oggi ho commesso un altro delitto. Akane Tendo, la mia fidanzata”.
...
...
...
...
...
...
...
...
...
...
...
Mio figlio è completamente uscito di senno, non vedo altra spiegazione plausibile.
La testa prende a tamburellarmi forsennatamente, come se ospitasse la riunione mondiale di tutti i suonatori di tamtam del globo.
Subconscio, perché non attivi i tuoi sistemi di difesa per farmi richiamare alla realtà? La soglia del momento traumatico è stata superata da parecchio. Sin da quando è entrato qui.
Alza le mani, chiuse a pugno, verso Asakura. Lo sta invitando a mettergli le manette.
Senza nemmeno pensarci mi antepongo a lui, sbarrando la strada.
“Non può farlo! Non può! Non glielo permetto! Ranma è innocente, lo so!”.
Gli occhi scuri dell’agente, che si era già avviato per compiere il proprio dovere, non si staccano dalla mia faccia sudata. Si nota limpidamente che è dispiaciuto per quanto ha sentito, ma altrettanto limpidamente sa quel che il suo ruolo gli impone di fare.
“Signor Saotome, la prego. Si scansi. Devo portarlo via”.
“Dovrà passare sul mio corpo! Non sono al suo livello, ma le assicuro che sono perfettamente in grado di impedirglielo”.
E, appena finisco, mi arriva un colpo sulla nuca.
Maledetto... ragazzino... impertinente... e pazzo...
Svengo.

*


La vicenda di Ranma Saotome, duplice omicida a soli sedici anni, fece in rapido tempo il giro dell’intero Giappone.
Per qualche settimana divenne l’argomento più dibattuto nei bar, nelle scuole, nelle aziende. Non potevi svoltare angolo senza sentire due o più persone che ne discutevano, spesso con pareri contrastanti. Perché sì, una persona si era addossata le due morti ma era pur vero che non c’era nessun elemento schiacciante a suo carico. Niente testimoni, e la lama del coltello responsabile della morte di Akane presentava altre impronte digitali sconosciute oltre alle sue.
Nerima fu trasformata in un circolo mediatico a cielo aperto. Ogni due per tre team di giornalisti assaltavano le case dei Tendo e dei Saotome, assomigliando in maniera paurosa a branchi di lupi affamati in cerca di carne fresca. Da parte loro le famiglie si trincerarono in un silenzio ostinatissimo e imperforabile, non rilasciando alcun tipo di dichiarazione pubblica. Nel loro privato, però, le posizioni erano in netto contrasto: Nodoka e Genma difendevano a spada tratta il figlio, ritenendolo giustamente incapace di simili atti da squilibrato; invece Soun e le figlie, pur riconoscendogli molte attenuanti, erano accecati dal desiderio di vedere Akane vendicata in qualche modo e si rifiutarono categoricamente di mostrargli una qualunque forma di perdono, convincendosi irrimediabilmente della sua colpevolezza. L’antica amicizia fra i due patriarchi si ruppe come un fuscello schiantato dal maestrale.
E poi c’era Ryoga.
L’eterno disperso era, come suggerisce il suo soprannome, disperso. Si era ritrovato, più incosciente che lucido, in una zona isolata del Kansai, non troppo lontano da Kyoto. Ancora disperato per quanto aveva fatto a Ukyo si era categoricamente rifiutato di usare il suo braccio destro per qualunque cosa e aveva sviluppato un blocco psicologico nei suoi confronti. Non riusciva neppure a guardarlo e ormai gli penzolava inerte sul fianco.
Primo caso al mondo di mancino per necessità.
Fu una coincidenza se venne a sapere quanto succedeva a Tokyo, a parecchi chilometri di distanza. Aveva sentito dei pastori chiacchierare con nonchalance del tema del giorno, di quel ragazzo che era in gattabuia attendendo il giudizio perché sospettato di aver ucciso due coetanee. Una nientemeno che con un pugno.
Persino Hibiki, con il suo quoziente intellettivo non proprio da Harvard, capì subito di cosa stavano parlando.
Il buco nero che si aprì sotto ai suoi piedi lo inghiottì intero.
“Non... Ranma, ti sei bevuto il cervello? Io... io... c’è una sola persona che andrebbe condannata per quella morte orrenda... e non sei tu...”.
Glielo avrebbe impedito.
Poteva farcela. Ce l’avrebbe fatta.
Si disse che prendere un treno per la capitale era possibile anche per un disgraziato come lui.
Trovandosi davanti il cartello della stazione che recitava “Shimonoseki” si gettò per terra e cominciò a battere i pugni fino a provocare due piccole crepe nel cemento.
Dover andare a nord-est e finire nella punta dell’estremo sud, volendo escludere il Kyūshū, era un’impresa che in pochi sarebbero riusciti a compiere.
Tentò altre volte. Le sue visite a Matsuyama, Sapporo, Nagoya e Osaka furono accompagnate da alti ululati e maledizioni verso il patrono dell’orientamento.
Non si diede per vinto. Si grattò la testa ritrovandosi su una nave, ma era sicuro di star facendo la strada giusta. Ne fu meno sicuro quando si accorse che non riusciva a comunicare con la gente del posto. D’altronde a Shanghai non parlano giapponese.
Tempo. Aveva tempo. Il sistema legale nipponico, considerando l’ipotesi peggiore, non prevedeva l’esecuzione prima dei diciotto, anche diciannove anni. Poteva riuscire a riattraversare il mare e finalmente giungere dov’era diretto.
Purtroppo la sua innata capacità di perdersi andò in overdrive come mai prima. Ma di brutto brutto brutto.
A Hong Kong ebbe un leggero scoramento. A Macao cominciò a dubitare della propria sanità mentale. A Taipei rischiò di far affondare un cargo dopo averlo preso a legnate.
I susseguenti tentativi furono altrettanto sfortunati. Evitò di prendere l’aereo per Karachi, Pakistan solo all’ultimo momento, illuminato da una folgorazione divina.
La sua immensa determinazione non venne mai premiata. Perlomeno rientrò in patria, dopo parecchie vicissitudini. Ma per un motivo o per l’altro non poté approdare là dove anelava di giungere, sempre bloccato da imprevisti di varia natura o dal suo mostruoso penchant per girare a destra quando invece avrebbe dovuto girare a sinistra.
Ryoga Hibiki si sarebbe tenuto sul groppone la verità, una delle tre persone sulla faccia dell’intera Terra a saperla e una delle due ancora viva per poterla raccontare. La verità e un senso di colpa pesante come un’intera schiera di mammuth ammassati uno sopra l’altro.

*


Due anni e mezzo dopo.
La burocrazia è peggiore di qualsiasi oni.
Ho ottenuto il permesso per mezz’ora di colloquio con mio figlio solo ora. È in galera da trenta mesi e non ho potuto visitarlo una sola, maledettissima volta.
Sua madre non ha avuto l’energia di accompagnarmi. Povera Nodoka, la capisco sin troppo bene. Aveva ritrovato da poco il suo Ranma, dopo anni di separazione, e vederselo portar via per un così sconsiderato colpo di testa suicida...
Non so da dove la tiri fuori io, l’energia. Presumo che questa volta tocchi a me fare il forte della situazione.
Eppure bramavo con ansia questa occasione. Non fosse altro per poterlo rivedere almeno in un’ultima circostanza, per quanto funerea.
Vengo fatto accomodare in una stanzetta spoglia. La classica camera per gli incontri da telefilm, di quelle sempre oscure e tetre.
Attendo qualche minuto.
Poi arriva, dalla porticina opposta a quella da cui sono entrato.
Non sono abituato a non vederlo vestito con la sua solita casacca rossa, bensì con un tristissimo completo da carcerato di un grigio anonimo. Camicia sbottonata, sotto la quale c’è una canottiera macchiata, e un paio di pantaloni sgualciti.
Lo strattonano mentre si siede e uno dei due secondini che l’hanno accompagnato gli ricorda in tono ruvido “Mezz’ora, Saotome. Non un secondo di più”.
Il Ranma che conosco gli avrebbe demolito la faccia in tempo zero. Questo Ranma, invece, mugugna qualcosa di poco comprensibile.
Mi schiarisco la gola.
Mi stropiccio le dita.
Mi tolgo gli occhiali e me li rimetto.
Patetico. Non vedo mio figlio da due anni e mezzo e non so assolutamente cosa dirgli.
“Papà, perché hai voluto questa visita?” mi toglie dagli impicci.
Osservandolo mentre mi pone questa domanda non posso fare a meno di notare che i suoi occhi... quegli occhi mi terrorizzano.
Hanno ancora l’afflizione totale di quel giorno. Ma ciò che realmente mi inquieta è la durezza che mi trasmettono. Ogni suo movimento, ogni sua posa, tutto in lui mi fa capire che non sono ben accetto, che lo sto disturbando.
Si gratta l’accenno di barba sul mento mentre aspetta che apra bocca.
“Ranma... come va?”. Complimenti imbecille, inizio da Nobel.
“Va come sempre. Mi alzo all’albeggiare, lavoro come un mulo tutto il giorno, un paio d’ore di pausa per la sigaretta e per sgranchire le gambe, a nanna subito dopo cena. Vita da carcerato. Dal momento in cui sono stato condannato, poi, le guardie hanno preso l’abitudine di marcarmi più stretto”.
“Hai... hai cominciato a fumare?”.
“Si fa quel che si può per mantenere un equilibrio. Questo è un posto difficile, anche per uno come me. La violenza psicologica ti salta addosso da ogni lato e serve un buon modo per scaricare lo stress e la frustrazione. E poi, vuoi che me ne freghi qualcosa se fa male? Fra non molto mi impiccheranno, quindi i miei polmoni possono sopportare un po’ di catrame”.
“Sai... quando?”.
“No. Ma non ci dovrebbe volere ancora tanto. Ho compiuto diciotto anni da cinque mesi oramai, i tempi sono maturi”.
“Ranma... sentirti parlare così... mi distrugge...”.
“E tu cosa credi, che io non sia già marcito dentro da quel giorno di ottobre? Che abbia provato gioia mentre riportavo Akane a casa Tendo, o Ukyo nello studio del dottor Tofu? Che non mi sia sentito lacerato come un pezzo di carta straccia quando le ho viste morte entrambe ai miei piedi?”. Sbatte una mano sul tavolo, iracondo. Gli agenti afferrano in fretta i manganelli e gli sono subito addosso, ma una semplice gomitata nella loro direzione li spaventa a sufficienza da farli retrocedere.
“Genma, non azzardarti a pensare di chiedere la revisione del processo o stronzate simili. Io so cosa ho fatto e una giuria è stata abbastanza saggia da capirlo. Quel che sto scontando non è nulla in confronto alla disgrazia abbattutasi su quelle due sfortunate. È giusto che espii, niente di meno sarebbe equo ai loro occhi”.
Il tono. Il tremore mentre parla. Le lacrime che non escono.
Questo non è un assassino. Questo è un martire.
Non ho mai avuto più certezza in vita mia: Ranma non ha torto un solo capello né ad Akane, né ad Ukyo. E al diavolo le rimostranze, al diavolo i “non c’eri e non hai visto!”, al diavolo tutto.
Dev’essere accaduto qualcos’altro e lui, dimenticandosi del proprio istinto di autoconservazione, se l’è accollato sulle spalle. Che hanno ceduto, nonostante la buona volontà.
Mi alzo di scatto dalla sedia e, proprio come in quell’amara occasione, lo afferro per il bavero sdrucito: “Ascoltami bene, ragazzino. Io so. So. Tu sei innocente, te lo si legge in faccia. Prima ero obbligato a fidarmi di quanto affermavi, ora mi hai appena dato la dimostrazione che mi serviva per convincermene definitivamente. Sogna pure altrimenti, se ti fa piacere, ma tuo padre non può, non vuole e non deve lasciarti in questo schifo di posto attendendo il momento in cui una corda si stringerà ingiustamente attorno alla tua gola. Non succederà, hai la mia parola”.
“Mollami, vecchio. O potrei diventare manesco”.
I secondini tornano alla carica, uno per me e uno per lui.
Basta un misero pugnetto di media potenza per stenderli.
“E così mi hai beccato. Non ti facevo tanto perspicace”.
“Ranma! Andiamocene! La libertà è a un passo, non lasciartela sfuggire!” esclamo gesticolando.
“Libertà?” mi apostrofa acidamente “Che libertà ci sarebbe nel dover vivere da fuggiasco? Io, agli occhi della nazione, sono un omicida. Batterebbero a tappeto l’intero Giappone pur di trovarmi. Torchierebbero la mamma, i Tendo, forse persino i Kuno e i pochi amici che mi restano pur di ottenere qualche informazione utile. E io ho già dato abbastanza fastidi a tutti voi. No papà, non ne vale la pena”.
“Maledizione. Se solo fossi al tuo livello potrei sopraffarti e portarti fuori di peso”.
“Non pensarci nemmeno. Per quanto io sia arrugginito resti un panzone quasi cinquantenne. Non avresti la minima possibilità”.
Quanto sei testardo. E va bene, niente carambolesca evasione ammantati dal buio della notte. Ma almeno...
“Ranma, devi dirmi una cosa”.
“Sarebbe?”.
“Come sono morte. Ora devo saperlo”.
“Questo lo posso fare”.
Si risiede, molto più calmo. Quasi... rassegnato.
“Tutto è cominciato quando Mousse ha sfidato Shan-Pu a duello, quella mattina...”.
Più racconta e più le narici mi si riempiono di un odore disgustoso. È come se potessi inalare il terrore che quelle due poverette devono aver provato nei loro ultimi istanti. Specialmente Ukyo e il suo folle sacrificio d’amore.
“Io... non... che posso dire che non suoni stupido o superficiale?”.
“Niente, papà. Niente. In quelle ore si sono assommate fatalità, malasorte e congiunzioni astrali negative. Il risultato è questo: due sventurate ragazze trapassate per torti non loro. Tu non hai idea, non hai la minima idea di come mi sono sentito nell’istante in cui il coltello di quel cinese orbo è entrato per tutta la sua lunghezza nel collo di Akane. Hai mai avuto la sensazione che il mondo ti si sbriciolasse davanti? Ecco, allora puoi forse averne una pallida impressione. Ma pallida, molto pallida. Nel mio caso senso di colpa non comincia a coprire neanche un miliardesimo di quanto mi è caduto addosso”.
“Posso... posso provare a intuire, sì. Dev’essere questo ciò a cui si riferiva il dottore per la faccenda del tuo ki anomalo...”.
“Non mi meraviglierebbe. La recita da maniaco senza cuore che ho dovuto imbastire per quel brizzolato poliziotto era l’ultima cosa che avrei voluto realmente fare. Il mio corpo chiedeva solo di poter piangere, sfregiato da tutto quello di cui era stato testimone. Non mi avrebbe restituito la fidanzata e la migliore amica, ma forse un poco di conforto sì. Ora capisci perché mi sono comportato così?”.
“Lo capisco ma non posso approvarlo. Un genitore non può approvare quanto hai fatto, specialmente ora che so della tua innocenza più completa. Ed è per questo che, te lo giuro sul nome del Buddha, farò tutto quello che è in mio potere per tirarti fuori di qui legalmente. Io e tua madre non potremmo reggere al dolore di saperti giustiziato neanche se fossi stato colpevole”.
Di nuovo in piedi, gira attorno al tavolo e mi abbraccia fortissimo.
Beh dai, non posso dire di riconoscerlo ma almeno non devo temere un suo schizzo di pazzia.
“Nonostante tutti i tuoi difetti sei appena diventato il padre migliore del mondo. Quel che hai detto mi rende onorato e orgoglioso di essere tuo figlio. Ora sarà meglio che tu vada, panda sovrappeso. I due ceffi potrebbero svegliarsi da un momento all’altro. E non temere, non ci saranno ripercussioni per quanto hai fatto qui. Mi prenderò io tutto il demerito”.
“Come al solito, vero scavezzacollo che non sei altro?”.
“Come al solito”.
Esco dalla prigione e, per la prima volta da due anni e mezzo a questa parte, l’aria che respiro mi fa sentire realmente vivo.
Uscirai di lì, Ranma. Uscirai. Sulle tue gambe e non dentro una cassa da morto.

Mentre il cappio faceva la conoscenza del collo di Ranma Saotome, a Funabashi (prefettura di Chiba) un ragazzo con una bandana maculata fra i capelli ebbe come un flash di sventura e cadde per terra intontito, perdendo il treno che l’avrebbe condotto a Fukuoka.
   
 
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