Da quando era rimasta sola con il suo destino beffardo, Kurenai si era più volte interrogata sul possibile esito della sua esistenza, trattenendo delle profonde scosse di paura, di risentimento verso il carnefice della sua felicità.
La notte era diventata sinonimo di un'apparente serenità, quasi cristallina e dannata, come quella di un film: forse come quella dei suoi defunti genitori.
Eppure, nessuno sembrava capire cosa provasse davvero, non riuscendo a chiarire con se stessa le emozioni forti dei suoi sentimenti.
Ma Kurenai smetteva di torturarsi quando sentiva il piccolo dentro di sè, con una forza simile a quella che aveva già conosciuto in Asuma.
Non c'era spazio a nessuna possibile domanda, a nessuna tortura fisica e del cuore: erano lei e il piccolo, in un mondo opposto a quello che viveva.
Se sognare un poco è pericoloso, la sua cura non è sognare meno ma sognare di più, sognare tutto il tempo.
[Marcel Proust]
Quello che voleva ardentemente Kurenai era semplicemente che il figlio fosse felice di vivere, fosse orgoglioso di sognare con parsimonia tutte le sue ambizioni, in modo che diventasse un uomo fiero e ricco già da una tenera età.
Che diventasse come lei e Asuma, come i loro sogni erano diventati una volta che divennero una coppia da far invidia a chiunque.
E se non ce l'avesse fatta, la madre lo avrebbe protetto con una determinazione latente, quasi distruttiva.
Oltre a coccolare e riscaldare il suo cuore con il ricordo del suo amato, Kurenai viveva anche per altro: l'unico obiettivo della donna – in quel momento – era la felicità del suo piccolo, che sarebbe nato a momenti.
Momenti duri, momenti felici, momenti unici.
Di solito la madre, più che amare il figlio, si ama nel figlio.
[Friedrich Nietzsche]
E quando Kurenai sentì che la nascita era incombente, sorrise, trattenendo un urlo che sapeva di nuova felicità.