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Autore: Callie_Stephanides    06/04/2012    7 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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9.
Per il tuo sangue

Vinus non mi aveva mentito: Niktos possedeva la memoria dell’Eisenthar e della via che già una volta il padrone aveva percorso.
Stretta al suo collo, il viso sferzato dalla lunga criniera, pensavo a quanto straordinario fosse il mio destino: figlia di un uomo di pace, signora della guerra, madre del nemico. Eppure c’era il quel pensiero tutto l’orgoglio che credevo di aver perso.
Forse cedere non era sempre annaspare nella polvere; forse dovevi concederti il diritto d’inghiottirne manciate, per scoprire che la vita non aveva un buon sapore, ma che di quel veleno ti nutrivi.
Forse dovevo fermarmi, pietrificata dalla paura e dal rancore, per capire che ero nata per correre.
Come Niktos.
 
“Avanti, ti prego,” lo imploravo, mentre il paesaggio svaniva tra pietrisco e neve e nebbia.
L’esercito dei Falesi era un’ombra che inghiottiva quanto restava dell’orizzonte visibile; due o tre leghe di distanza mi davano la sicurezza d’osservare senza essere vista e misurarne l’immensità.
Koiros non aveva bisogno dei demoni della Faglia per piegare l’Eumene, ma cercava testimoni per la carneficina che avrebbe consacrato il suo avvento.
La paura saliva in lente, inarrestabili onde, ma a vincerla era la determinazione con cui ora speravo: per me, per Vinus, per Trier.
Per il figlio che desideravo conoscere.
La stanchezza mi vinse quando la Capitale distava ormai un battito di ciglia: cedetti al buio e l’ambigua lingua dei sogni cantò le ultime ore del mio uomo.
Di quel che accadde nel ventre oscuro e rovente del Norn, nessuno saprebbe dire, perché, se il Mito diventa Storia, non sono profeti o martiri che cerca, ma eroi. Eppure, per quella strana empatia che nasce come l’amore si trasforma nel tuo dolore più profondo, io sono certa di aver visto: visto con gli occhi di Vinus; patito sulla pelle del mio uomo la più terribile delle battaglie e delle metamorfosi.

*

Immagina: il cielo è pece, quando il principe di Lephtys raggiunge la vetta incoronata.
Il suo sguardo naufraga nel nulla, mentre le dita sfiorano muschi e pietrame corroso dal gelo. Ha restituito al suo ultimo liocorno la libertà, poiché sa che nessuna creatura viva oserebbe mai sfidare quei luoghi.
Sono già morto mille volte, pensa di sé. Non conosce, tuttavia, morto più vivo e determinato a restarlo.
Il richiamo che ha già avvertito è ora un brontolio flebile. È una lingua senza parole, che tuttavia intende con una chiarezza che non manca d’impressionarlo.
Pensa a quanto gli ho raccontato; al fatto che è bianco, come l’eroe di un’antica canzone.
Pensa che forse sono pazza, ma che sono i pazzi a cambiare la Storia, perché non si piegano alle regole del Destino.
Era pazza Dendre, quando baciò il drago.
Pazzo Amon, nel rinunciare alle ali e al sacro fuoco.
 
Pazzo io, che pretendo di essere un dio.
 
Il cammino è accidentato, né si vedono grotte.
Se la leggenda dice il vero, la Bestia dorme nel profondo del Norn – dorme, poi: si è svegliata e lo sta aspettando.
Vinus si muove circospetto e ascolta il silenzio: è quello che gli ha insegnato a fare Gordon, quando era solo un cucciolo affamato e rabbioso.
 
Fermati e ascolta: tutto parla, se trova un orecchio attento.
 
Chiude gli occhi.
La Bestia tace, ma sussurra il vento: è un alito tiepido, che proviene da una fenditura della parete, a pochi passi dalla morena su cui si è inerpicato. È il segno che aspettava: ora sa dove si trova la grotta.
Comincia a scavare, senza curarsi dei tagli che la roccia gli apre sui palmi, delle falangi scorticate, delle unghie che si sfaldano, mentre le dita perdono sensibilità.
Raspa come un cane, come un predatore, come un disperato: la breccia che cerca è una via per la morte, ma è l’unico cammino che gli è rimasto da percorrere.
In braccio alla fine, affinché suo figlio abbia la speranza di un inizio.
L’aria, satura di zolfo, è velenosa; gli lacrimano gli occhi, gli manca il respiro, eppure va avanti. Il cunicolo dal quale è penetrato riverbera bagliori rossastri, perché il cuore bollente dell’Icengard è una vena che qui scorre quasi in superficie.
Si spoglia dei quattro stracci che gli sono rimasti, ma conserva la spada: il drago bianco non è pazzo, vuole mordere e vuole combattere e vuole salvare l’ultima regina di Venusya.
L’ultima guerriera dell’Eumene.
Il budello si allarga in una grotta tanto ampia che – pensa – il palazzo reale di Lephtys potrebbe entrarvi senza difficoltà. Di quella rocca austera, ornata da gargolle di pietra, tuttavia, non resta altro che polvere: il presente è un lago di lava, per aggirare il quale non serve la dolcezza del ricordo ma nervi tesi e vigili.
Concrezioni laviche, come inquietanti stalagmiti, gli sbarrano il passo. Le aggira prudente, senza perdere mai di vista la volta, perché è da lì che, goccia a goccia, continua a cadere catrame bollente. Una nebbia mefitica sale dal suolo: sono vapori sulfurei, che ustionano la gola e i polmoni.
Speriamo almeno di durare abbastanza da vederlo, il drago, pensa.
Vinus è un buon giocatore, ma questo non è un gioco: è una scelta fatta quando di scelte non ne rimane che una, una scommessa che lo vedrà perdente, quale sarà il risultato.
Mi ha seminato di sé, eppure quel pensiero fa male, poiché sa per esperienza che dalle rovine del ricordo non nascono mai fiori.
Meglio morire soli come si vive.
 
“Coraggio…”
 
La spada assorbe il calore innaturale del luogo e maneggiarla è uno strazio; nei suoi palmi sfregiati si gonfiano dolorose vesciche, ma non allenta la presa.
È sopravvissuto nel nome di Zauror e morirà cercando l’approvazione di un fantasma che è, tuttavia, anche quanto resta del suo orgoglio di dracomanno.
 
Vedrete, padre; vedrete come combatte vostro figlio.
 
La leggendaria bestia del Norn lo aspetta acciambellata sul fondo di una conca d’ossidiana.
Barbagli di lava ne lambiscono la coda, vestendo il giaciglio di riflessi sanguigni.
Ha la testa di un serpente e il corpo di un leone, le ali membranose terminano con affilate cuspidi cornee.
È una creatura splendida e orribile al contempo: al suo cospetto, almeno, Vinus sa di essere inconsistente.
“Sono arrivato,” mormora, e la sua voce incontra il riverbero di mille echi. La Bestia si solleva: è alta come il dongione di Trier.
Le tre corna che gli orlano il capo grattano la volta e ne fanno piovere acuminate schegge.
Vinus ne fissa il petto liscio e indifeso, perché là, sotto uno strato di pelle traslucida, palpita il cuore attraverso il quale, al contempo, otterrà e perderà tutto: diventerà un dio, ma dimenticherà i colori della vita e il calore di un abbraccio.
 
Il Destino è una libra spietata; l’equilibrio che cerca, infatti, pare nutrirsi solo di perdita. Oppure no, perché nascerà un cucciolo con il suo sangue e quel sangue sarà futuro: è a questo che pensa, mentre si cala nell’abisso che lo divorerà?
Non c’è modo di dirlo. Non potrei nemmeno io che ora vivo nel suo cuore.
 
La Bestia schiude le fauci e mostra i denti lustri: ognuno misura quanto la spada di Vinus, ma è un dettaglio che coglie appena, intento com’è a calibrare ogni movimento e ad anticipare le scelte dell’avversario.
Il drago ha il passo lento delle fiere nobili; non ha fretta di mordere, perché l’assassinio è un capolavoro che richiede tempo.
Vinus lo sa, come sa che, questa volta, suo sarà il sangue in cui il Destino intingerà il calamo – un sangue che costerà carissimo.
I palmi sono carne viva, ma non abbandona l’elsa; nella sua ultima ora vuole che i mille morti di Venusya combattano al suo fianco, sotto le insegne di chi l’ha fatta grande.
E allora eccolo, Zauror suo padre, e Freil, occhi d’oro e cuore di lava; eccola, Geowyn delle rocche, regina dei Draghi, sposa di re; e poi Gordon, il Drago Nero, l’ultimo maestro.
Ecco gli spettri di una vita troppo breve per l’oscurità che l’ha vestita, troppo lunga, per il veleno che ha sorbito.
“Sono pronto.”
 
Un sibilo acuto spezza il silenzio: la Bestia ha accolto il suo desiderio. Il capo rostrato si muove in avanti, per ghermirlo quasi fosse un ratto.
Vinus ripara tra colonne di lava e ciottoli roventi, fissando avido la massa pulsante sotto scaglie giallastre.
Sembra un frutto maturo, pronto a sgranarsi: ne sente già la polpa tra i denti e l’umore viscoso inondargli il palato.
La coda del drago abbatte ogni difesa e apre la via alla macellazione. Se solo lo raggiungesse – Vinus lo sa – morirebbe sul colpo, le ossa polverizzate dall’urto. Non sarà così pazzo da offrirgli il fianco.
Sposta il peso sulle gambe, cerca un angolo cieco.
La sensibilità del drago è straordinaria; polle di sangue rappreso, gli enormi occhi da serpente lo seguono bramosi.
I polsi di Vinus tremano in modo impercettibile, la Bestia quasi sorride e gode dell’odore salso della paura.
Colpire e sopravvivere: non ci sono altre vie.
Vinus scatta in avanti e salta – salta come se avesse le ali e salta come non ha mai fatto, perché si muore una volta sola, proprio come si vive.
Il drago schiude le fauci per accoglierlo ed è lì che colpisce la spada di Zauror: penetra la polpa molle del palato e paralizza la lingua in un grido di sorpresa e di agonia.
Vinus non si ferma: usa la lama come un cuneo, scala il muso del drago e affonda, di nuovo, nel globo traslucido che lo fissa pieno d’odio.
Il bulbo esplode e lo bagna, mentre la bestia scuote il capo vulnerato per scrollarsi di dosso il parassita.
Vinus perde l’equilibrio – ma non la presa dalla spada di Zauror – e cade in terra da un’altezza buona ad ammazzare.
Il dolore gli annebbia la vista, eppure non spegne la voglia di combattere: è la sua ultima guerra da uomo e vuole che sia memorabile.
Si puntella sulla lama e striscia in una rientranza della grotta.
Si è procurato l’angolo cieco che gli serviva e tanto basta a riaccendere la speranza.
Ora uccidere sarà più facile.
Ora Leya può davvero trasformarsi in un ricordo.

*

Mi svegliai con gli occhi pieni di lacrime e la consapevolezza di non poter accusare la polvere sollevata dal furioso incedere di Niktos. Avevo respirato il suo odore selvatico tanto a lungo che a riuscire estraneo era ora quello della mia Eleutheria: ero tornata a casa, ma non me n’ero accorta.
Il liocorno aveva costeggiato sul fianco destro l’esercito di Koiros, riunendosi alla mostruosa cavalleria dell’armata in caccia. Nessuno avrebbe mai riconosciuto nel cencio che portava in groppa una creatura umana, men che mai la Magistra di Trier: era un bestione intelligente, oltre che vorace.
Mi asciugai le ciglia e spiai un orizzonte che la polvere rendeva fumoso e inconsistente.
In lontananza, Trier era mura nere e silenzio.
Alle mie spalle, i Falesi ululavano il loro desiderio di vittime.
Non riuscivo a individuare Koiros, né il suo crudele luogotenente, ma non era quella una conoscenza che potessi fare senza patirne un danno: al momento, piuttosto, dovevo ritrovare la mia gente e rispettare la promessa che Vinus mi aveva estorto.
 
Sì, sarò una rocca. Inespugnabile.
 
Sferzai il fianco di Niktos, perché accelerasse l’andatura.
Il liocorno obbedì, sebbene stremato: me ne accorgevo dal suo collo sempre più teso, dalle froge dilatate e dalla bava che schiumava copiosa dalle sue fauci.
“Ti farò avere tutta la carne che vorrai… Ma non tradirmi, ti prego…”
La Capitale non era più un miraggio, ma ogni passo guadagnato aveva il sapore di un’agonia.
La neve che già vestiva l’Icengard ci raggiunse, trasformandosi in una pioggia tanto violenta da zupparti l’anima. Prima la volta illividita si incendiò, poi i tuoni percossero l’atmosfera con una successione prolungata di schianti. Una folgore centrò un cavaliere alla mia sinistra: prese fuoco come una torcia, tra le urla ilari dei demoni.
L’odore della carne bruciata mi entrò nelle narici, rovesciandomi lo stomaco; mi piegai sul fianco e vomitai con tale violenza da pensare che ne sarei morta.
“Che fai, soldato?” berciò un Falesio somigliante a una gargolla butterata.
Sollevai il capo e il vento mi sottrasse la protezione del mantello. Per un pugno d’istanti restammo a fissarci, poi la sua debole intelligenza si mise in moto e divenne allarme.
“Signore, signore! Tra le nostre fila…”
“Crepa,” sibilai, piantandogli in gola una quadrella che avevo tratto dal tascapane.
Non mi ero preoccupata di caricare la balestra, ma avevo stretto tra le dita legno e disperazione, determinata com’ero a resistere: mancava il tempo persino per cedere al terrore.
Niktos non aspettò che gli impartissi l’ordine, ma raccolse le ultime forze per trasformarsi in un lampo. Lo fece per devozione a Vinus o perché gli piacevo al punto che mi avrebbe marchiato a suo modo? Era impossibile rispondere, ma, a sapere come sarebbe finita, forse avrei persino accettato l’offerta di un bagno poco convenzionale.
 
“Bravo, bello… Coraggio!”
 
Un drappello di cavalieri si staccò dall’armata e puntò deciso nella nostra direzione.
Frugai ancora nel tascapane, alla ricerca di frecce e olio, spinsi i dardi nella guida della balestra e li incendiai prima di caricare la noce: solo uno dei colpi andò a segno, ma rallentò i miei inseguitori.
Fissavo la porta di Trier crescere davanti ai miei occhi, mentre familiarizzavo con l’unica evidenza che non avessi ancora preso in considerazione: nessuno mi stava aspettando. Quell’uscio, che solo il mio arbitrio tanto a lungo aveva governato, forse non si sarebbe mai aperto per me.
Ero sola tra la nuda pietra e le legioni dell’Icengard.
“Oh, no… No…” mormorai, pervasa da una sensazione d’impotenza umiliata. Non era così che volevo morire: non come uno stupido topo in trappola.
“D’accordo, ma io non cedo.”
Una freccia mi trapassò la scapola, sbilanciandomi in avanti. Serrai la presa sui finimenti e restai in sella; gli occhi velati dal dolore fissi a un arco cieco.
“Che io sia maledetta, se accetto di morire,” bestemmiai a mezza voce, prima di caricare di nuovo la balestra. Ero sola e stanca e disperata, ma non arresa.
Non questa volta.

“Perché non aprite? Cosa aspettate, ancora? Non vedete che è la Magistra?”
 
E poi quella voce, profonda e calda, piena del passato che avevo distrutto per trasformarmi nel fantasma inquieto di un’impossibile vendetta.
 
“Caricate!”
 
 
I dardi degli arcieri di Trier oscurarono il cielo sul mio capo e caddero sull’avanguardia di Koiros.
Mi portai la mano alla clavicola e percorsi con cautela i bordi della piaga: no, non sarei morta per tanto poco.
 
“Leya! Nel nome della dea…”
 
Dalla porta socchiusa, Jail mi venne incontro correndo, quasi ci fossimo lasciati appena il giorno prima – ragazzi – nella piazza del Mercato.
Niktos, al contrario di quel che mi aspettavo, non scoprì le zanne.
“Attento… Potrebbe pisciarti addosso.”
Jail mi fissò interdetto.
“È una lunga storia,” sospirai, “ma preferirei raccontarla dove non piovono frecce.”
Fu allora che si accorse della mia ferita e si affrettò a portarmi al riparo.
“Non credo che avremo il tempo di parlare,” disse, mentre mi aiutava a smontare.
Stremato, il liocorno si piegò sui garretti e scivolò sul fianco. Incurante delle stilettate che salivano dalla spalla malmessa, mi accucciai davanti a quel muso che mi pareva ora solo desolato e fiero, non più mostruoso.
“Sei stato bravo, bello… Proprio bravo.”
Il sollievo, la paura, la rabbia pungevano sotto le ciglia: ero viva e quella era la prova.
“Quanto è successo, Leya… Quello che Rael ed io volevamo…”
Chiusi gli occhi e sorrisi. “… Era per me, ora lo so. L’ho capito. Sono io che devo chiedere perdono.”
“Non importa. Voglio…”
“Dov’è mio fratello?”
“Prima ti porto da un guaritore. Devi…”
“Devo assicurare un futuro a mio figlio, Jail. L’ho promesso a suo padre. Vinus di Venusya.”
 
Era per il suo sangue che ero tornata.
Per riunire il sangue.

   
 
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