27. DALLE CENERI
My will stands strong
I ache for inspirational and additional hearts to help me fight
Deep in my mind lies the map of my destiny
Deep in my heart lies the strength to conquer myself
– No
Control, After Forever –
Era
lì, inciso nella pietra da
centinaia di anni, un motto che in sé riassumeva una storia
che Lucius, adesso,
aveva timore di scoprire. In esso i Veglianti avevano racchiuso la loro
filosofia, il nucleo basilare su cui si basava tutto ciò in
nome di cui la loro
setta aveva operato.
Ricordati
che morirai.
All’epoca
della libertà di
riunione, perfino grandi sovrani ed eminenze politiche e sociali
avevano preso
parte ad alcune sedute di queste sette, in nome della cultura e della
tolleranza, ma anche per tenere sotto controllo gli sviluppi di
ciascuna di
esse, concentrate principalmente nell’area di Medilana,
capitale culturale delle
Sette Terre. Era la Vecchia Era – solo un paio di
secoli prima
dell’avvento di Lucifero, che avrebbe poi condotto, con la
sua morte, alla
dichiarazione dell’inizio della Nuova Era – quando
i capi delle sette
iniziarono a farsi guardinghi sospettosi, rendendo le sedute sempre
più
esclusive e segrete. Non potendo esercitare più un controllo
diretto su queste
associazioni, il monarca e il suo Consiglio vararono una legge che
proibiva
qualsiasi riunione non fosse stata precedentemente approvata. E, come
sempre,
quando qualcosa diventava proibito, il fenomeno delle sette era
dilagato,
trasferendosi da luoghi pubblici e case private alla riservatezza che
offrivano
i temuti labirinti delle antiche catacombe su cui Medilana era stata
costruita.
Quando le forze militari della Corona erano giunte a stanarli anche
là sotto,
dei vari gruppi associativi si era persa ogni traccia, sgominati
completamente
alcuni, terrorizzati al punto di desistere gli altri. I Veglianti,
invece, a
quanto pareva avevano trovato un altro posto, e molto valido, in cui
continuare
il loro operato.
Almeno
finché gli Isfyell e la loro gente non sono venuti a
spodestarli,
pensò Lucius, con una punta di soddisfazione.
D’altro
canto, sapere che una
cellula dei Veglianti era ancora viva e attiva e stava complottando
qualcosa
nell’ombra, chissà dove, con chissà
quali risorse a disposizione, non era
affatto rassicurante.
All’interno,
il covo era
semideserto. Durante il giorno, raramente gli uomini di Angina
restavano lì:
uscivano tutti per “sbrigare le loro faccende”,
come diceva lei, ossia
rubacchiare qua e là, truffare ricconi abbastanza pieni di
sé da lasciarsi
rigirare anche da bricconi analfabeti, e soprattutto smerciare le loro
refurtive in cambi di corone sonanti, o barattando con altra merce.
Angina
stessa non amava trascorrere troppo tempo sottoterra, amante del sole e
dell’aria aperta, incapace di stare ferma, eppure quella sera
Lucius la trovò
nel suo salotto privato. Era in piedi accanto al camino, un calice di
vino in
mano e la bottiglia aperta e già vuota a metà
abbandonata sul basso tavolino da
the, accanto a un grosso tomo dall’aspetto molto
più che antico.
Ontologia
del Male.
Il volto di
Angina, irrorato dai
bagliori del fuoco, era tirato e marcato da ombre scure sotto agli
occhi che
non c’erano mai state prima, la pelle dal colorito
spaventosamente spento. Non
era più una ragazza, ma era sempre stata molto giovanile,
complici gli
insegnamenti erboristici che le aveva impartito Venena, ma adesso per
la prima
volta Lucius la vedeva dimostrare gli anni che aveva.
Avvicinandosi,
poté distinguere
anche la sagoma possente di Kael, in disparte in un angolo, e
appoggiato sul
bracciolo dell’alta poltrona che guardava il camino
notò un braccio esile dalla
mano screpolata che associò senza fatica a Venena. Il fatto
che nella stanza
fossero presenti le due persone di cui Angina più si fidava
e nessun altro era
un presagio tutt’altro che promettente.
Appena fu
entrato nell’alone di
luce, Angina si voltò e i suoi occhi scuri lo penetrarono
come schegge, rese
taglienti non dall’ostilità, ma un rammarico
solido e trasparente come il
vetro.
–
Mi chiedevo quanto ancora
avresti tardato. Lo sentivo che non c’era alcun bisogno di
mandarti a chiamare.
–
Un’affermazione
che lasciava
trapelare un sottinteso che lo colpì. Angina sapeva di avere
qualcosa che a lui
sarebbe interessato.
–
Abbiamo trovato la famiglia di
Regan. Ma i suoi genitori sono morti. –
L’espressione
dell’altra non fece
che aggravarsi.
–
Suppongo che questa debba
essere considerata la conclusione delle sue peripezie. –
Per tutta
risposta, Lucius si
chinò a raccogliere il libro dal tavolino.
–
Io suppongo, invece, che tu
sappia meglio di me che purtroppo abbiamo appena cominciato –
e la guardò
insinuante. Tra le sue mani, il libro pesava con una gravità
che non aveva
nulla a che vedere con il suo consistente numero di pagine ingiallite.
Era il
peso di una responsabilità impressa in ogni singola parola
tracciata, riga dopo
riga, da mani che avevano voluto raccontare, per orgoglio o ambizione,
orrori
che senza dubbio sarebbe stato meglio lasciar divorare
dall’oblio
nell’impetuoso fluire dei secoli.
–
Ciò che è racchiuso in quel
libro – disse Angina, allontanandosi dal camino. –
È quanto di più abominevole
e dissacrante io abbia mai avuto il dispiacere di leggere –
Un luccichio
liquido vibrò nel suo sguardo, riflesso di
un’emozione concreta. – Lo avrei già
dato in pasto alle fiamme, non fosse stato per certe informazioni che
ti
saranno certamente più che utili per la tua bambolina.
–
Venena si
alzò dalla sua
poltrona, Kael si fece avanti con lei. Fiancheggiarono Angina con la
medesima
aria seria che aveva lei, silenti come guardiani di pietra. Lucius non
era
stupito che anche loro due fossero presenti e sapeva esattamente a chi
dei due
imputare il ritrovamento del libro, e con esso di tutto il patrimonio
in esso
custodito.
Si rivolse
senza indugi a Venena,
che stette ad ascoltare rigidamente:
–
Non so se definirla tenacia,
testardaggine o semplicemente accanimento – disse, soppesando
il grosso tomo. –
Ma ti ringrazio. –
–
Quando avrai letto quella roba
non avrai più tanta voglia di ringraziarmi. –
–
È così grave? –
–
Ci sono cose che non dovrebbero
essere sfiorate nemmeno dalla più fervida e perversa
fantasia. Il mondo esiste
perché la Madre ha posto delle leggi naturali a sorreggerlo,
e se qualche sua
creatura è riuscita a trovare il modo di sovvertirle, penso
che sia legittimo
chiedersi se esistano ancora dei limiti –
Lucius era
impressionato, in
senso positivo e negativo insieme. Venena non era il tipo di persona
che diceva
o faceva qualcosa, se non era strettamente necessario, e di rado
capitava che
si curasse di qualcosa che avveniva al di fuori del suo laboratorio.
Sentirla
parlare così, con quel tono pieno di disgusto e malcelato
timore, esprimeva in
giusta misura l’importanza di quanto lei avesse scoperto.
–
Abbiamo qualcosa da cui
partire, se non altro, quindi un ringraziamento te lo devo a
prescindere da
tutto il resto. –
Di rimando,
lei mormorò qualcosa
a denti serrati che lui non riuscì ad afferrare, ma
apprezzò comunque lo
sforzo.
Prima di
lasciarlo andare, Angina
volle sapere cosa ne fosse stato di Regan.
–
Una Edelberg… – commentò con un
mezzo sorriso, quando lui ebbe concluso. – Una vera figlia di
Norden. –
Sotto sotto,
Lucius non ne aveva
mai dubitato. La fascinazione che fin da subito Regan aveva mostrato di
subire
da parte delle foreste innevate, degli specchi dei ghiacciai sulle
montagne,
del freddo e dei sussurri silenziosi che la Terra dei Grandi Re aveva
insinuato
al suo orecchio… era stato tutto un filo annodato in una
trama precisa, un
segno dopo l’altro che lo spirito dentro di lei si era
ricongiunto a luogo a
cui apparteneva. Benché metà di lei fosse legata
al sole e al mare della Terra
di Sonnerg, dove risiedevano le radici della casata dei Dresden, Regan
era in
tutto e per tutto, come aveva detto Angina, una
figlia di Norden: sei il colore dei suoi occhi e dei suoi
capelli non era
accostabile a nulla di conosciuto, il biancore latteo della sua pelle e
i suoi
modi schivi e orgogliosi erano quasi un marchio distintivo che lasciava
poche
possibilità di sbagliarsi riguardo alle sue origini.
–
Temo il momento in cui Lord e
Lady Dresden saranno informati di questa storia. –
–
Due delle famiglie più potenti
del Mondo Occulto, rivali da sempre, a contendersi
un’erede… – Negli occhi
scuri di Angina dardeggiò un sentore di
curiosità. – Sarà guerra aperta.
–
–
Non è questa la mia maggiore
preoccupazione, al momento – rispose lui, con una stanchezza
molto vicina alla
disperazione.
–
Se vuoi un consiglio da amica,
leggi quel che devi, assimila quel che puoi, e brucia quel libro prima
che
qualcuno possa metterci le mani sopra. –
–
Farò in modo che non accada, a
costo della vita. –
Lei gli
rivolse un lieve
sogghigno che era a metà tra l’amaro e il
malizioso.
–
Non mettere in gioco una vita
che ti sei già giocato. –
Lucius le
sorrise con la stessa
amarezza, ma tralasciò la malizia.
–
Vorrà dire che sarò doppiamente
accorto, così da non perderla. –
Angina, che
in un’occasione
normale avrebbe raccolto l’invito implicito a lasciar cadere
l’argomento,
stavolta non lo graziò. Si poteva leggere la preoccupazione
nei suoi occhi come
una pennellata di rosso vermiglio a stonare in un quadro dai tenui
colori
pastello. A che la conosceva, mai Lucius la aveva vista così
ansiosa, e non
seppe se lodare o commiserare la sua estrema intuitività.
Affondò le dita con
rabbia e frustrazione nella copertina dura del libro; nessuno di loro
sapeva
con esattezza cosa stesse accadendo, ma era ormai chiaro che Regan
possedesse
ben di più di una semplice immunità ai veleni.
Un passo in
avanti, e Angina gli
fu così vicina da sfiorarlo con il proprio corpo.
Sollevò una mano e con il
dorso gli sfiorò il viso. Alle sue spalle, Venena
serrò le dita in due pugni
lividi.
–
Sento odore di guai, Lucius. –
C’era
una sorta di avvertimento
accorato nella sua voce calda, una supplica, forse, a smettere per una
volta i
panni dello scavezzacollo senza scrupoli e tenersi lontano dai
pericoli,
stavolta più seri che mai. Cosa che, per uno come lui,
equivaleva a negare la
sua stessa natura.
–
Oh, poco male – fece lui, con
una scrollatina di spalle, prendendole il mento tra due dita, mostrando
una
confidenza che nessuno degli uomini che le facevano a capo si sarebbe
mai
potuto sognare. – Sai quanto amo i guai – e le
adagiò un bacio leggero
sull’angolo delle labbra.
Nervi saldi e
sangue freddo erano
il requisito fondamentale di qualunque mestiere rischioso, ma lo erano
in
particolar modo per chi sceglieva di fare il doppio gioco.
Arith aveva
iniziato da bambino
ad avere a che fare con i criminali, quando veniva usato come esca o
insospettabile tramite, e assieme a un discreto bagaglio di conoscenze
di
quell’ambiente, si era fatto anche una certa esperienza circa
i personaggi più
importanti che ne erano parte. Sapere come pensava, ragionava e agiva
una
determinata persona era essenziale quando c’erano sotterfugi
da scoprire o
semplici informazioni da recuperare. Per questo motivo, quando aveva
sentito
che una notte Gerjen era ritornato al covo senza il suo cristallo e con
un’aria
tutt’altro che rilassata, Arith era già
consapevole che nessuno dei suoi
scagnozzi avrebbe mai saputo cosa gli fosse veramente successo, ed era
andato
quindi a cercare la verità dove c’erano
più probabilità di scovarla: direttamente
nella bocca del nemico numero uno di Gerjen.
Lei sedeva in
mezzo ai suoi
uomini, sorseggiando vini rossi tra un pezzo di arrosto e
l’altro: Sesen, la
sola donna a comando di una banda di Ladri di Anime che i tempi moderni
conoscessero, e anche una delle più potenti e spietate.
Addirittura si diceva
che la sua età fosse molto più matura di quella
che effettivamente dimostrasse
e che Sesen di mantenesse giovane grazie a un filtro creato
appositamente per
lei da uno speziale che lei si era premurata di assassinare una volta
ottenuti
i suoi servigi, tanto per essere certa che nessun altro potesse
beneficiare del
prezioso elisir di eterna gioventù.
Arith era
sicuro che una donna
vanitosa e arrogante come lei non avrebbe perso un’occasione
di umiliare un
rivale.
Trovarla non
fu difficile: tutti
sapevano che Sesen andava dove c’era il vino migliore, e non
c’erano poi tante
opzioni tra cui scegliere, nei dintorni di Helgrad. Mauercast, del
resto, era
famosa per molte ragioni, ma non certo per la produzione vinicola.
–
Tu chi sei? – volle sapere lei,
quando lui si presentò al suo cospetto.
Occhi acuti
di un blu glaciale,
screziato di toni più chiari che ricordavano
l’acqua di un fiume in inverno,
schegge ambrate a incoronare la pupilla sottile. Una bellezza spietata,
resa
ancora più tagliente dal rosso cupo della chioma, onde di
seta del colore delle
ciliegie mature. Il viso aguzzo, la pelle nivea punteggiata di efelidi
attorno
al naso fine, aveva la dura inespressività di una maschera
teatrale, la stessa
impressione di un volto di porcellana senz’anima.
Gerjen, in
confronto a lei, aveva
un aspetto quasi rassicurante.
Era
impossibile capire come in
uno sguardo così freddo si potessero scorgere tutte le
fiamme della dannazione.
–
Arith, ma non ho la pretesa che
il mio nome vi dica qualcosa. – la accontentò lui,
esibendosi in un ossequio
abbastanza profondo da mettere in chiaro la sua consapevolezza di
esserle
inferiore, ma non tanto da poter passare per un gesto di scherno.
Lei parve
restarne soddisfatta.
–
Infatti. Chi sei, esattamente?
E soprattutto che cosa vuoi? –
–
Sono al servizio di Gerjen. –
Le
sopracciglia di Sesen si
arcuarono scetticamente mentre i suoi occhi si posavano sul cristallo
che lui
aveva al collo. Gli uomini attorno a lei erano all’erta, ma
non osavano muovere
un muscolo senza prima un cenno da parte della loro signora.
Arith non
aveva paura. Nessuno
avrebbe osato torcere un capello a un uomo di Gerjen, effettivo o
presunto che
fosse.
–
Davvero? Sei molto giovane. –
–
Tanto giovane quanto abile. –
–
Sei venuto a farti ammazzare? –
grugnì un uomo, con una risata sguaiata.
–
Sono sicuro che nessuno di voi
ha tempo ed energie da perdere per disturbarsi ad ammazzare qualcuno
venuto
semplicemente a chiedere notizie. –
–
Che notizie puoi cercare da noi
che il tuo capo non possa darti? –
–
Notizie che compromettano la
sua immagine e la sua rispettabilità, suppongo. Gerjen ha
perduto il suo
vecchio cristallo. Nessuno sa come sia accaduto e lui sostiene che si
sia
rovinato. Io e molti miei compagni siamo di diverso avviso e vogliamo
sapere la
verità, e se qualcuno può saperla, quel qualcuno
non potete che essere voi,
Sesen. –
–
Non dubitavo che quel vigliacco
di Gerjen avrebbe mentito pur di salvarsi la faccia. Siediti, mio
giovane
straniero, e ascolta quello che è veramente successo a quel
sempliciotto a cui
rispondi. Poi deciderai tu se continuare a prendere ordini da lui.
–
Si vedeva un
lago, dai piani alti
del palazzo degli Edelberg, e il balcone della stanza di Regan si
affacciava
proprio sul punto in cui l’acqua scivolava giù in
una serie di larghe e basse
cascatelle, diretta verso il fiume. Le era sembrato nero per tutta la
notte,
immobile come uno specchio, con spettrali brandelli di nebbia a
indugiare sulla
superficie mentre i raggi di luna si sforzavano invano di raggiungere
l’acqua,
finendo per perdersi nel rincorrersi della foschia. Ancora una volta la
sua
tentazione era stata di uscire e correre verso il bacino in cerca delle
sensazioni che la sola immagine lontana non era in grado di darle. Era
strano
persino per lei trovarsi di fronte a una simile vista e bramare con
tutta sé
stessa di toccare con mano il gelo dell’acqua, la
ruvidità degli alberi, e a
volte si spaventava nello scoprirsi a desiderare di restare prigioniera
tra
quei flutti. Immaginava di scivolare sul fondo buio e guardare in su,
mentre la
luce scompariva e l’aria si estingueva, svuotandola di tutto.
Scomparire.
Come era
scomparso Derian, e
coloro che lei non aveva mai potuto chiamare mamma e papà.
Era e
rimaneva, comunque, un
desiderio fatuo. Se un tempo non avrebbe fatto un gran differenza per
lei
vivere o morire, ora, suo malgrado, si sentiva attaccata a quella vita
iniziata
da poco come una foglia d’autunno al suo esile ramo: una
brezza appena più
forte avrebbe potuto strapparle via la determinazione a non cedere.
Quella
mattina, richiamata
dall’acciottolio delle porcellane e dai rumori della casa che
si risvegliava,
si era riscossa dai suoi densi pensieri, si era vestita ed era scesa di
malavoglia per la colazione. Le era già capitato un paio di
volte di fermarsi a
dormire lì e sapeva che gli Edelberg erano gente mattiniera.
I ragazzi avevano
avuto un permesso speciale per assentarsi dall’Accademia per
un paio di giorni:
tutti avevano concordato che sarebbe stato più agevole per
Regan avere loro in
casa che alleggerissero l’atmosfera, e in parte era
così, ma non del tutto.
Non appena
l’aveva vista entrare
in sala da pranzo, Donna Melyor, che d’abitudine sedeva al
tavolo come una
della famiglia assieme al marito, le era corsa incontro tutta premurosa
e, con
occhi umidi, la aveva accompagnata alla sua sedia mormorando fra
sé in tono
commosso: “La bambina del mio Ardal… grazie,
Madre, per questo conforto”.
Vedere la
famiglia Edelberg
riunita a tavola non avrebbe mai smesso di farla sorridere: Tristan, a
capotavola, consumava austero la sua colazione senza emettere un suono,
limitandosi solamente a lanciare qualche occhiata di rimprovero ai
gemelli, il
cui comportamento non era tanto diverso da quello che abitualmente
tenevano in
qualche osteria assieme ai compagni di bisbocce, ma, pur nel
disappunto, la sua
espressione restava sempre velata di soddisfazione. Arista era il
ritratto
vivente dell’orgoglio materno: guardava i suoi ragazzi con
gli occhi amorevoli
di chi sapeva di non poter chiedere di più dalla vita e
intanto imboccava la
piccola Luce con cucchiaiate di pappa d’avena a cui la
bambina insisteva
costantemente ad aggiungere altro miele. Anneli e Aeden, seduti
l’uno accanto
all’altra, stavano battibeccando sottovoce su qualcosa che
riguardava qualche
insegnante indisponente dell’Accademia. Mancava solo Prince,
che probabilmente
era già uscito da un pezzo. Fare il Cacciatore non era uno
dei mestieri più
semplici e Regan si era spesso domandata se Prince avrebbe dedicato
tutta la
sua vita alla Lega o se prima o poi avrebbe seguito le orme del padre,
accostando alla carriera anche una famiglia da cui ritornare. Chiunque
nell’alta società, in qualunque angolo delle Sette
Terre, sapeva che Prince era
celibe e molto corteggiato sia dalle fanciulle che dalle loro famiglie,
ma
finora nessuna aveva avuto fortuna.
Regan
abbracciò con un solo
sguardo l’intera tavolata: vedeva in tutto ciò il
suo piccolo angolo di
stabilità. Ci sarebbe stato un posto anche per lei, un
giorno, in mezzo a loro,
come parte integrante, e non come l’ospite che ancora si
sentiva. Era casa sua,
ormai, dopotutto, e avrebbe dovuto abituarsi all’idea.
Benché
si sentisse piuttosto
affamata e le pietanze che fossero tutte più che invitanti,
non riuscì a
mandare giù molto. La servitù doveva essere stata
tempestivamente informata
degli ultimi sviluppi, perché all’improvviso tutti
la trattavano in modo
diverso: non con la discreta reverenza che era buona norma riservare
agli
ospiti, ma con la calda, rispettosa affettuosità che
concedevano ai membri
della famiglia.
A parte
questo, c’era un evidente
sforzo da parte di tutti di non farla sentire soffocata
dall’eccesso di
attenzioni: le venne chiesto come stava, se avesse dormito bene, se ci
fosse
qualcosa di cui avesse bisogno, e così via, e lei rispose
come una signorina
perbene avrebbe dovuto, quando invece avrebbe solo voluto poter essere
maleducata e ingrata e pregare tutti loro di lasciarla stare. La
malcelata
ansia di farla sentire la benvenuta a tutti i costi la disturbava quasi
quanto
l’avrebbe disturbata un interesse soffocante.
È
strano
per tutti, si disse, mentre la cameriera le serviva del latte
caldo. Passerà quando ci saremo
abituati…
Lei, in
realtà, avrebbe solo
voluto riavere il suo letto e la sua stanzetta a casa di Lucius,
sentire
Eleonora canticchiare mentre preparava la colazione, bisticciare con
Calien su
chi si meritasse l’ultima fetta di torta, e tutte quelle
piccole cose che
avevano contribuito, giorno dopo giorno, a dare un sapore di serena
quotidianità
alla sua vita.
Il giorno
seguente era domenica,
e Regan scoprì che le famiglie notabili di Kauneus avevano
l’abitudine di
trovarsi nelle sale da the del centro per consumare la colazione in
compagnia e
aggiornarsi sulle novità della settimana appena trascorsa.
Per
l’occasione, Anneli le fece
provare metà del proprio guardaroba, fino a che non
trovarono un abito adeguato
che non le stesse troppo largo là dove lei, invece, avrebbe
di gran lunga
preferito sentirselo stretto.
–
Va benissimo così. – le aveva
detto Anneli, subito prima di infilarle un cappotto di velluto verde
scuro e
spingerla fuori di casa. – Tanto nessuno farà caso
a te. –
Le cose non
stavano proprio così.
Mentre sedeva
a un tavolo in
un’elegante salone di un locale chiamato Bottondoro,
Regan sentiva sguardi sconosciuti posarsi sporadicamente su di lei e
rimanere a
osservarla a lungo, prima di decidere che fissarla, per quanto
insistentemente,
non avrebbe dato loro alcuna spiegazione riguardo a chi lei fosse e
cosa ci
facesse assieme agli Edelberg.
Lord Tristan
(a Regan proprio non
riusciva di chiamarlo zio) si era
appartato assieme agli uomini in un’altra sala attigua, da
cui proveniva un
brusio sommesso e profondo, mentre Arista sedeva a un altro tavolo in
fondo al
vasto locale, su un piano rialzato a cui si accedeva tramite tre
scalini di
marmo, la piccola Luce in braccio, in compagnia di una dozzina di altre
gentildonne, alcune impegnate a loro volta a badare ai bambini che
avevano con
sé.
Era un posto
bianco dalle
rifiniture dorate, pieno di specchi e superfici riflettenti che
sembravano
ingigantire gli spazi e moltiplicare la folla e le luci centinaia e
centinaia
di volte. C’era un aroma di zenzero e cannella a dominare
nell’aria, e ad
annusarlo sembrava quasi di sentire la consistenza granulosa dei
biscotti
sbriciolarsi sulla lingua. Tutti chiacchieravano e consumavano con
tranquillità
la loro colazione, e talvolta qualcuno abbandonava per un momento il
proprio
tavolo per andare a salutare qualcuno a un tavolo vicino, o alzava
educatamente
la mano per richiamare con un cenno discreto l’attenzione di
uno dei tanti
camerieri che si aggiravano zelanti per la sala.
–
Sono vecchie eredità della
tradizione della nostra Terra. – le aveva sussurrato Ember,
mentre tutti
insieme si dirigevano verso il centro, una piacevole passeggiata in una
mattinata invernale irrorata di sole. – Un tempo Kauneus era
la capitale del
regno, ci abitavano per lo più i reali e la loro corte. La
domenica in città
arrivavano emissari da tutte le città principali delle
Terre, portando notizie
e pettegolezzi, e venivano organizzati dei banchetti, a corte,
perché se ne
potesse discutere. La tradizione del convito
è sopravvissuta fino a oggi, solo che al posto dei
banchetti, ci limitiamo alla
colazione. –
Il resto del Bottondoro era invece riempito da
ragazzi: adolescenti e giovani
adulti affollavano una trentina di tavolini rotondi disposti a raggiera
attorno
a un buffet, chiacchierando del più e del meno nei loro
abiti eleganti.
–
Quasi tutti sono nostri
compagni alla Domus. – le rivelò Aeden, versandole
del the al limone.
–
Tranne le ragazze. La maggior
parte delle ragazze nobili o benestanti pensa solo a sposarsi e fare a
gara per
chi ostenta di più – precisò Ember.
Anneli si
raddrizzò nella sua
sedia e gli rivolse un’occhiata in tralice mentre mescolava
lo zucchero nel suo
the.
–
Non tutte sono così. –
–
Infatti ho detto la maggior parte.
–
–
Ognuno pensa ad accaparrarsi il
meglio per sé, e meno ha il prossimo, meglio è. – bofonchiò Prince
amareggiato. Era rincasato tardi dal turno di
pattuglia della notte prima e i suoi occhi erano stanchi e opachi.
–
Frequentare la Domus Aurea è
una specie di status sociale – spiegò poi, notando
probabilmente l’espressione
vacua di Regan. – Molta di questa gente è
contraria al fatto che i figli delle
famiglie più umili abbiano accesso ai corsi di
addestramento. –
Regan trovava
la conversazione un
po’ fuori dalla sua portata: la interessava sapere come
funzionassero le cose
nella società, ma ne sapeva ancora troppo poco per
partecipare.
– E
perché mai? – chiese con
ingenuo stupore.
–
Figli di braccianti a comando
di un esercito? Figli di fornai o pastori a occupare i seggi del
Consiglio? –
Aeden scambiò un’occhiatina cinica con i fratelli.
– Sovvertirebbe l’ordine
naturale delle cose – disse, con un tono scimmiottante.
– La società è basata
sulla gerarchia, e secondo loro è sbagliato che chi
appartiene a caste
inferiori possa elevarsi. E nostro padre è tra questi.
–
–
Il che è un segno di grande
stoltezza, perché alcuni dei migliori elementi addestrati
alla Domus provengono
proprio dai ceti più bassi – commentò
Prince.
–
Stavate parlando di me? –
La testa di
Regan e di tutti e
cinque i fratelli Edelberg si voltarono per ritrovarsi di fronte a un
viso
noto: le mani sui fianchi, Lisandra li fissava con un sogghigno giocoso
pennellato sulle labbra.
–
Grenet, quale sorpresa! –
esclamò Mariek, facendole cenno di accomodarsi in una sedia
libera. – Cosa vi
porta qui dalla lontana Torresco? –
Prima di
sedersi, Lisandra si
guardò intorno, come se temesse che qualcuno potesse
rimproverarla.
–
Nulla di particolare – rispose
poi, e intanto i suoi occhi vagarono da una parte all’altra
del tavolo, fin
dove sedeva Prince, intento a spalmare del burro su una fetta di pane.
– Ma non
avevo niente di meglio da fare, e ho pensato di passare a vedere come
se la
passa la nostra Regan – Un sorriso veleggiò verso
la chiamata in causa. – Ma
guardati, piccola Lady Edelberg… hai l’aria di un
pulcino in mezzo a un branco
di lupi. –
Era vero, ed
era esattamente così
che Regan si sentiva: braccata. La sala era gremita di persone a lei
del tutto
sconosciute, facce mai viste la fissavano e voci sommesse parlavano di
lei.
Qualcuno addirittura osava alzarsi e andare a domandare di lei
direttamente ai
suoi zii, e lei preferiva non pensare a cosa potessero rispondere loro.
Ancora
non si era discusso di cosa avrebbero raccontato alla gente, ma aveva
avuto
l’impressione che, benché da un lato la
verità fosse piuttosto spinosa da
rivelare, Lord Tristan intendesse fare le cose per bene e presentarla
degnamente in società esattamente per quella che era: una
Edelberg. Questo,
tuttavia, sarebbe accaduto solo una volta che Lucius avesse
interpellato gli
altri parenti che Regan aveva, Lord e Lady Dresden, ossia in un
imprecisato
futuro imminente.
Lisandra
intanto si era sfilata i
guanti di semplice lana nera e un cameriere era accorso a prenderle il
cappotto, non senza risparmiarsi una fugace smorfia di sufficienza di
fronte
alla modestia dell’indumento.
–
Allora, pecorella smarrita,
come ti senti? –
Regan non
seppe cosa rispondere.
Alla fine optò per una sana, vaga diplomazia:
–
Ancora un po’ scossa, ma tutto
sommato bene, grazie. –
Dato che la
notizia che lei era
nipote di Lord Tristan Edelberg non era ancora stata diffusa, i pochi
che ne
erano a conoscenza avrebbero mantenuto la debita discrezione fino al
momento in
cui non si fosse deciso di rendere la questione di pubblico dominio.
Regan si
augurava che questo succedesse in un futuro il più lontano
possibile, visto che
al momento aveva già abbastanza cose a cui pensare.
In quel
momento una risatina
collettiva si levò da un tavolo interamente occupato da
ragazze. Tutte loro
guardavano in giro per la sala, alcune meno opportunamente discrete di
altre,
facendo commenti sottovoce su questo e quell’altro ragazzo.
Lisandra,
schifata, fece
schioccare la lingua.
–
È la moda del momento. –
–
Che cosa? –
–
Giocare a indovinare chi era il
piacente giovanotto con cui Madame Vane ha varcato i cancelli del
castello al
ricevimento del Solstizio d’Inverno di quest’anno.
Molte vaneggiano che fossi
tu, Prince – ridacchiò, scoccando
un’occhiatina al diretto interessato. –
Oserei dire che si è spezzato qualche cuore quando ho fatto
notare a un nugolo
di pettegole dell’ultimo anno che tu non hai gli occhi verdi.
E poi perché mai
avresti dovuto indossare la divisa dell’Accademia, visto che
ormai sei un
ufficiale fatto e finito? –
–
Non finito davvero, spero
– sorrise l’interpellato.
–
Non capisco per quale assurdo
motivo appare un affascinante giovane misterioso e tutte vanno subito a
pensare
a Prince – sbuffò Mariek, offeso.
–
Primo, perché il giovane in
questione era moro, e voi e gli altri vostri fratelli, milord,
siete decisamente biondi. E poi, se non ricordo male,
Prince era il grande favorito di Madame Vane, ai tempi della Domus, no?
–
–
Togliti quel sorrisetto
sfacciato dalla bocca, Grenet – disse Prince a Lisandra in
tutta calma, gli
occhi fissi nei suoi. – A Madame Vane piacevo solo
perché imparavo in fretta. –
Lei
accettò distrattamente il
piatto con la fetta di torta che Anneli le stava offrendo e rivolse a
Prince un
sorrisetto malizioso:
–
Stupida lei, allora – mormorò a
voce bassa, ma abbastanza nitidamente da far sì che lui la
sentisse e potesse
conseguentemente ricambiare il sorrisetto.
Regan,
però, aveva smesso di
seguire la conversazione. Stava ripensando a quel ragazzo che la aveva
invitata
a ballare la sera del Solstizio, e si era poi comportato in quel modo
strano.
Non lo ricordava perfettamente, ma di tre cose era sicura: era
piacente, era
moro, aveva gli occhi verdi.
Le venne da
voltarsi e
sottolineare la cosa a Lucius o a Shin, ma nessuno dei due era
lì. Nessuno dei
due si era fatto vivo, ancora, e lei sperava che lo facessero presto.
Se avesse
saputo che cosa
l’aspettava, forse si sarebbe augurata diversamente.
Regan sedeva
sul letto – il suo letto,
nella sua stanza.
Erano stati
il suo letto e la sua
stanza anche quelli a casa di Lucius, ma ormai sembravano un
ricordo lontano, anche se solo pochi giorni la separavano
dall’ultima volta che
vi aveva dormito. Non che le dispiacesse abitare nel maniero degli zii
– anzi,
le sembrava quasi di essere quasi tornata bambina, rifugiata in
un’infanzia
ovattata fatta di coccole e premure – ma il distacco da
Lucius non era stato
semplice. Si sentiva come una barca abbandonata in un porto senza una
cima di
sicurezza che la tenesse a riva. Senza di lui, aveva
l’impressione di essere in
balia del destino.
Fuori
diluviava. Nuvoloni
violacei si erano addensati nel cielo quella stessa mattina e da
qualche ora
erano esplosi in una tempesta i cui tuoni scuotevano i vetri grondanti
di
acqua.
Le piaceva
vedere i lampi
squarciare le tenebre attraverso le tende spalancate alle sue spalle, e
poi
aspettare il rombo del tuono che immancabilmente seguiva. La furia del
temporale era qualcosa di unico che la affascinava al punto da farle
venire la
pelle d’oca, e non lo sapeva nemmeno lei cosa la stesse
trattenendo dallo
spalancare le imposte e uscire sul balcone per godersi meglio lo
spettacolo.
Fissava il
vuoto come uno
specchio della propria mente, ombre dense e poca luce che riverberava
nella
tranquillità della notte già scesa, e intanto si
spazzolava i capelli. Non li
legava più; le fanciulle nubili usavano tenerli sciolti
sulle spalle e
trattenerli soltanto con qualche pettine o fermaglio. Le aveva
insegnato Anneli
come usare quegli aggeggi e a lei non piacevano, ma si era adeguata,
perché era
ciò che ci si aspettava da lei, e in fondo non le importava
granché di come
erano acconciati i suoi capelli.
Posò
la spazzola sul comò e si
avvicinò al candeliere per spegnere le cinque candele che
esso ospitava. Le sue
labbra si bloccarono appena prima di soffiare. Se avesse avuto un
minimo di
padronanza verso il proprio potere, le sarebbe bastato guardare le
fiammelle
per poterle estinguere in un baleno, e le avrebbe potute resuscitare
altrettanto rapidamente.
Strizzò
gli occhi e si concentrò,
determinata perlomeno a ottenere un qualsiasi risultato, ma due lievi
colpi
alla porta la distrassero quasi subito.
Era tardi,
ormai perfino i
domestici si erano ritirati nei loro alloggi, quindi non poteva essere
Donna
Melyor.
–
Avanti. –
Non era Donna
Melyor, infatti.
Sulla soglia
apparve Arista.
Portava una vestaglia celeste sopra la lunga camicia da notte, i
capelli
arrotolati e intrecciati in un’elaborata pettinatura che non
lasciava sfuggire
nemmeno una ciocca. In una mano aveva una tazza bianca, che nel buio
emanava un
debole alito perlaceo, nell’altra una piccola lampada a olio.
Arista si
sedette accanto a Regan
e le porse la tazza, avvertendola di fare attenzione a non scottarsi.
–
Latte e miele con un petalo di
rosa – disse poi. – Latte per lenire le ansie,
miele per addolcire i sogni, e
un petalo di rosa per profumare la notte. –
Regan
inspirò con piacere la
fragranza delicata che saliva alle sue narici.
–
Quando i miei figli erano
piccoli e per la prima volta venivano trasferiti dalla stanza mia e di
mio
marito a una tutta loro, io ogni sera, prima di andare a letto, portavo
loro
una tazza come questa, fino a che non si abituavano a dormire da soli.
Luce è
stata la più brava: ci ha messo solo una settimana. Quei due
ruffiani di Ember
e Mariek, invece, se capitano temporali come questo, qualche volta la
esigono
ancora. –
Regan
pensò che, in cambio di un
gesto così, portare i capelli in modo diverso da come
avrebbe voluto era un
nonnulla.
–
Grazie. –
–
Fare parte di questa famiglia
può non essere la cosa più semplice del mondo per
molte ragioni, e mi rendo
conto che per te non sia facile ritrovati qui dopo quello che hai
passato. Ma
essere una Edelberg ha i suoi vantaggi. Io ero la sola figlia dei miei
genitori
e ho solo due lontani cugini che ho visto una volta sola. Quando ho
sposato
Tristan, ho scoperto quanto sia bello vivere in una famiglia numerosa.
Siamo
tutti degli impiccioni, sai? – Arista sorrise. –
Qui dentro tutti sanno sempre
tutto di tutti e ficcano il naso negli affari altrui. Non sai quante
zuffe ha
dovuto sedare Donna Melyor, per questo… –
Regan rise
con la zia, mentre
fuori il rumore scrosciante della pioggia imperversava senza sosta.
Parlare di
aneddoti famigliari
buffi con una tazza di latte in mano sembrava proprio quel genere di
cosa che
qualsiasi sua coetanea avrebbe fatto con la madre in una nottata
così.
–
Non è decoroso che dei ragazzi
della loro età si comportino ancora così,
soprattutto per una giovane
gentildonna come Anneli, ma io ne sono felice, perché
significa che si
preoccupano ancora l’uno dell’altro come quando
erano bambini, e sarò felice
quando anche tu inizierai a bisticciare con loro: allora sapremo che
finalmente
ti sentirai a casa. –
La mano
fresca di Arista salì ad
accarezzarle il viso. Regan prese un sorso di latte e lo
deglutì piano,
assaporandone ogni goccia.
Era
esattamente il sapore giusto
da abbinare al tempo burrascoso di quella sera.
D’un
tratto si udì un tramestio
confuso proveniente dal corridoio.
–
Un momento! Voi cosa ci fate
qui? –
–
Cosa ci fate voi qui! –
–
Zitto, Ember, sveglierai tutta
la casa! –
–
Sono Mariek, idiota! –
–
Ma che cos’è, una riunione
notturna? –
–
Aeden? È uno scherzo? –
Arista si
alzò lesta e andò ad
aprire la porta.
–
Che cosa sta succedendo qui? –
Un tuono
proruppe nel medesimo
istante in cui la porta di spalancava e al di là di essa si
levò uno strillo di
spavento collettivo. Fuori, colti di sorpresa, c’erano Aeden,
Mariek, Ember ed
Anneli, e Prince con Luce in braccio, tutti già pronti per
andare a dormire.
Avevano portato altre tazze come quella che aveva portato Arista. Regan
ne
contò quattro: una in mano a Luce, una a Aeden, una ad
Anneli e un’altra ce
l’aveva uno dei gemelli.
–
Mamma! – esclamò il gemello a
mani vuote. Il suo sguardo si allungò verso Regan e si
fermò sulla tazza che
teneva tra le mani. – Oh, non vale! –
–
Pare che abbiamo avuto tutti la
stessa idea – sorrise Prince, mentre entrava seguito dagli
altri.
La stanza era
tutt’altro che
piccola, ma parve restringersi a causa dell’insolita piccola
folla che si trovò
ad ospitare. Era raro che i ragazzi Edelberg si trovassero a casa per
la notte
tutti e sei contemporaneamente: Prince aveva parecchi turni di ronda
notturna e
Aeden, Anneli e i gemelli durante la settimana rimanevano alla Domus
Aurea.
Arista si
portò le mani ai
fianchi e scosse il capo divertita.
– A
quanto pare i tuoi cugini
sono più sentimentali di quel che vorrebbero far credere,
Regan. E Melyor
tirerà le orecchie a tutti quanti, domattina… le
abbiamo saccheggiato le scorte
di latte per la colazione. –
Il gemello
con la tazza scrollò
le spalle.
–
Vorrà dire che per una volta ci
accontenteremo di un the. –
–
Ho la sensazione che Regan non
abbia voglia di scolarsi cinque tazze di latte, vero? – disse
l’altro gemello.
Avevano entrambi i capelli sciolti e distinguerli era impossibile.
Tutti risero.
Un altro tuono fece
vibrare i vetri delle finestre. Luce, anziché intimorita,
sembrava cullata
–
Oh, be’, a questo punto… alla
salute! –
Chi aveva una
tazza in mano si
avvicinò a Regan per scontrarla con la sua in un bizzarro
brindisi di
mezzanotte.
Sorseggiarono
latte e miele,
dividendosi i bicchieri, e chiacchierarono di pochezze come il brutto
tempo
fino a che Arista sottolineò quanto fosse tardi e
intimò a tutti quanti di
filare a letto immediatamente, a partire dalla piccola Luce, la cui
testolina
bionda ciondolava dalla stanchezza tra le braccia del fratello maggiore.
Appena furono
usciti, Regan
spense le candele e si rifugiò nel calore delle coperte. Si
addormentò quasi
subito.
Per una
volta, non sognò le
ferite insanguinate della pelle martoriata di Derian.
Sognò
una ninnananna, e carezze
profumate di rose.
Quando, il
mattino seguente,
Lucius si presentò a chiedere di lei, le sembrò
fin troppo bello per essere
vero, e pensò che era una fortuna che Tristan non fosse in
casa, perché
difficilmente gli avrebbe permesso di portarsela via. Era uscito
presto,
dicendo che si sarebbe recato ad Aurin, a visitare la tomba di Ardal, e
vedendo
l’espressione dei suoi occhi, Regan si era dolorosamente resa
conto che lui
aveva accusato il duro colpo di quella perdita molto più
intensamente di lei:
perdere un padre mai conosciuto non era la stessa cosa che perdere un
fratello
con cui si era cresciuti per tutta la vita.
–
Ve la riporterò tutta intera,
lo prometto – disse Lucius ad Arista prima di andarsene.
– Scusati con tuo
marito da parte mia, quando tornerà e si
arrabbierà per questo. –
Una carrozza
nera attendeva di
fuori, nera e lustra, il blasone di Norden – una falce di
luna sormontata da una
corona – impresso in lamine d’argento sui lati e
ricamato sulla divisa
dell’austero cocchiere. Quello, assieme
all’espressione insolitamente seria di
Lucius, le suggerì qualcosa che avrebbe preferito
risparmiarsi: stavano andando
al castello di Soile.
Lord Tristan
Timant Edelberg III
era sempre stato visto e definito come un uomo di buon cuore, ma
estremamente
burbero e poco incline a lasciar trapelare le emozioni.
Possedeva un
ferreo senso
dell’onore e della famiglia e talvolta forse gli si sarebbe
potuta rimproverare
una severità eccessiva nei confronti dei suoi figlioli, ma
non si poteva dire
che non fosse un padre amorevole e comprensivo. Entro opportuni limiti.
Il mantello
nero ondeggiava nel
vento come uno stendardo di lutto, mentre i suoi occhi, di un nero
ancora più
profondo, fissavano assenti la lapide grigia.
Jarlath,
così diceva l’incisione. Ma era Ardal –
suo fratello – quello che
risposava in quel
lembo di terra, un ragazzo che aveva appena
cominciato a
diventare un uomo.
Tra le
sterpaglie giallastre
spiccavano vivaci macchie di perpetuini, le fioriture perenni che
sbocciavano a
vegliare là dove giacevano i resti mortali di coloro che per
la Madre erano
stati prediletti.
Cosa ironica,
poi, che un figlio
ripudiato dai genitori fosse stato onorato da una così rara
benedizione.
Forse era il
solo modo che la
Madre avesse trovato per comunicare a tutti loro chi fosse davvero nel
torto e
chi nel giusto.
La piccola
Aranel – Hel, recitava la
sua inscrizione –
sorrideva serena nel suo ovale di vetro, come se in cuor suo avesse
saputo di
non portare macchie di peccato sulla coscienza. Era poco più
che una bambina. Sia
lei che Ardal sembravano così felici e spensierati che
nessuno avrebbe mai
potuto avere il coraggio di biasimarli per le scelte che avevano
compiuto.
Era
così che sarebbero stati
ricordati per sempre: due ragazzi che si erano amati, e che per
quell’amore
avevano dato tutto. Anche la vita.
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A/N: mi prostro umilmente implorando perdono per averci messo, ancora una volta, un'eternità ad aggiornare. Non ho scusanti, sono un'inetta!
Vorrei ringraziare tutti voi lettori per l'invidiabile pazienza che portate nei miei confornti, e in particolare ringrazio
Dantalion (gentilissimo, soprattutto con i suggerimenti e le osservazini!)
Rosa Blu (dici bene, la speranza è l'ultima a morire... ma tu ricorda che siamo solo al primo dei cinque libri che ho in mente... la strada è così lunga che tutto può cambiare! Cosa non si sa. ;) )
Ariana_Silente (il rancore che tu hai percepito da parte di Lord Edelberg era rivolto a quello che la famiglia aveva fatto ad Ardal diseredandolo e cancellandolo dalla loro vita, visto che era molto legato al fratello minore. :) Ma era un'ambiguità voluta, quindi tutto ok. :D Il legame tra Regan è Shin non è nulla di personale, ma c'è e ci vorrà un po' per arrivare a svelarlo, perchè legato ad altri aspetti. Se in futuro troverai ancora frasi che ti colpiranno particolarmente, mi farebbe piacere che le riportassi, anche solo per farmi un'idea di che cosa ti ha colpita. :) )
Milou_ (la domanda che mi poni sul motivo per cui Regan avverte dolore nel toccare o essere toccata da Shin purtroppo non può ancora avere risposta, ma ti posso dire che non si tratta di quel che pensi tu. Ci sono altre implicazioni che riguardano questo mistero, e verrà tutto svelato un po' più avanti. ;) )
OdeToSolitude (ti avevo già fatto in complimenti per il nickname? Se no, allora te li faccio adesso, da eterna amante della solitudine. ;) Il mistero che aleggia tra Lucius è Soile è legato a qualcosa di molto serio e molto profondo che li lega e allo stesso tempo li allontana... ma non è ancora il momento di scoprire di cosa si tratta. :) Dimenticavo che sei una Shigan! Ebbene, credo che non ti mancheranno le piccole soddisfazioni, continuando con la storia, come del resto non mancheranno le frustrazioni alle fan di Lucius/Regan. XD Ma sono una mamma sadica per questi poveri personaggi e non si può mai dire dove io intenda andare a parare. :D)
Quindi, grazie mille a tutti e spero di rirovarvi nelle recensioni a questo capitolo, con osservazioni, dubbbi, domande e qualunque cosa vi passi per la testa. :)
Nel prossimo capitolo...
Avevano
oltrepassato la metà del
ponte quando Regan avvertì qualcosa. Cosa, non seppe
distinguerlo. Era come un
fremito nella terra, qualcosa che dalle profondità del lago
si stava propagando
fino a lei, strisciandole sulla pelle in un formicolio pruriginoso.
Stava per
succedere qualcosa.
–
Che cos’è? – fece appena in
tempo a chiedere, ma fu interrotta e sovrastata da un improvviso rombo
ovattato.
Il cuore le
balzò in gola.
Alle sue
spalle si era sollevato
una parete d’acqua spumosa alta quasi quanto le mura
dell’arena che si
stagliavano sullo sfondo. Sembrava di trovarsi di fronte a una cascata
al
contrario.
Fu un
attimo.
L’acqua
si abbatté sul ponte, una
frusta ruggente che scosse la pietra e la fece vacillare fino a far
perdere
l’equilibrio alle gambe di Regan, paralizzate non dalla
paura, ma da una
soverchiante fascinazione.
Un paio di
mani la afferrarono
con una violenza stranamente piena di gentilezza e si sentì
trascinare via
mentre l’impeto dell’acqua si precipitava impetuoso
verso di lei in un turbine
di vortici e candide schiume.