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Autore: Lady Vibeke    10/04/2012    6 recensioni
Una donna urla, la voce frammentata da singhiozzi.
Tutto è buio.
Battiti di cuore come tamburi attorno a lei, stretta tra braccia esili. Occhi innocenti di bambina si sgranano nell’angoscia dell’incapacità di comprendere quel caos improvviso.
– Dammi la bambina – Sentenzia la persona senza volto, ed è un ordine ineluttabile che impregna l’oscurità.
C’è il terrore che spadroneggia nella bimba. Troppo piccola per capire, ma abbastanza grande per rendersi conto del pericolo. E intanto quelle braccia insistono a volerla proteggere.
– Se la consegnate a me, sarà salva. Loro stanno arrivando. Se riescono a trovarla, la prenderanno e la uccideranno sotto ai vostri occhi. Datela a me. –
– Cosa vuoi da lei? –
Un lampo squarcia le tenebre. Il volto di una donna appare per un brevissimo istante al di sotto del cappuccio.
– Voglio salvarle la vita. –
Il silenzio della tensione calca sulle loro teste, impietoso. In lontananza, nitriti selvaggi si mescolano a un rumore di zoccoli in corsa.
Le braccia della ragazza si allentano attorno al corpicino indifeso della piccola. Altre due braccia sottili si aprono in un invito. Tutto è preda di una tensione innaturale. Tutto è immobile.
Poi un lampo di luce rossa divora ogni cosa.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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27. DALLE CENERI

 

My will stands strong
I ache for inspirational and additional hearts to help me fight
Deep in my mind lies the map of my destiny
Deep in my heart lies the strength to conquer myself

– No Control, After Forever –

 

 

Era lì, inciso nella pietra da centinaia di anni, un motto che in sé riassumeva una storia che Lucius, adesso, aveva timore di scoprire. In esso i Veglianti avevano racchiuso la loro filosofia, il nucleo basilare su cui si basava tutto ciò in nome di cui la loro setta aveva operato.

Ricordati che morirai.

All’epoca della libertà di riunione, perfino grandi sovrani ed eminenze politiche e sociali avevano preso parte ad alcune sedute di queste sette, in nome della cultura e della tolleranza, ma anche per tenere sotto controllo gli sviluppi di ciascuna di esse, concentrate principalmente nell’area di Medilana, capitale culturale delle Sette Terre. Era la Vecchia Era – solo un paio di secoli prima dell’avvento di Lucifero, che avrebbe poi condotto, con la sua morte, alla dichiarazione dell’inizio della Nuova Era – quando i capi delle sette iniziarono a farsi guardinghi sospettosi, rendendo le sedute sempre più esclusive e segrete. Non potendo esercitare più un controllo diretto su queste associazioni, il monarca e il suo Consiglio vararono una legge che proibiva qualsiasi riunione non fosse stata precedentemente approvata. E, come sempre, quando qualcosa diventava proibito, il fenomeno delle sette era dilagato, trasferendosi da luoghi pubblici e case private alla riservatezza che offrivano i temuti labirinti delle antiche catacombe su cui Medilana era stata costruita. Quando le forze militari della Corona erano giunte a stanarli anche là sotto, dei vari gruppi associativi si era persa ogni traccia, sgominati completamente alcuni, terrorizzati al punto di desistere gli altri. I Veglianti, invece, a quanto pareva avevano trovato un altro posto, e molto valido, in cui continuare il loro operato.

Almeno finché gli Isfyell e la loro gente non sono venuti a spodestarli, pensò Lucius, con una punta di soddisfazione.

D’altro canto, sapere che una cellula dei Veglianti era ancora viva e attiva e stava complottando qualcosa nell’ombra, chissà dove, con chissà quali risorse a disposizione, non era affatto rassicurante.

All’interno, il covo era semideserto. Durante il giorno, raramente gli uomini di Angina restavano lì: uscivano tutti per “sbrigare le loro faccende”, come diceva lei, ossia rubacchiare qua e là, truffare ricconi abbastanza pieni di sé da lasciarsi rigirare anche da bricconi analfabeti, e soprattutto smerciare le loro refurtive in cambi di corone sonanti, o barattando con altra merce. Angina stessa non amava trascorrere troppo tempo sottoterra, amante del sole e dell’aria aperta, incapace di stare ferma, eppure quella sera Lucius la trovò nel suo salotto privato. Era in piedi accanto al camino, un calice di vino in mano e la bottiglia aperta e già vuota a metà abbandonata sul basso tavolino da the, accanto a un grosso tomo dall’aspetto molto più che antico.

Ontologia del Male.

Il volto di Angina, irrorato dai bagliori del fuoco, era tirato e marcato da ombre scure sotto agli occhi che non c’erano mai state prima, la pelle dal colorito spaventosamente spento. Non era più una ragazza, ma era sempre stata molto giovanile, complici gli insegnamenti erboristici che le aveva impartito Venena, ma adesso per la prima volta Lucius la vedeva dimostrare gli anni che aveva.

Avvicinandosi, poté distinguere anche la sagoma possente di Kael, in disparte in un angolo, e appoggiato sul bracciolo dell’alta poltrona che guardava il camino notò un braccio esile dalla mano screpolata che associò senza fatica a Venena. Il fatto che nella stanza fossero presenti le due persone di cui Angina più si fidava e nessun altro era un presagio tutt’altro che promettente.

Appena fu entrato nell’alone di luce, Angina si voltò e i suoi occhi scuri lo penetrarono come schegge, rese taglienti non dall’ostilità, ma un rammarico solido e trasparente come il vetro.

– Mi chiedevo quanto ancora avresti tardato. Lo sentivo che non c’era alcun bisogno di mandarti a chiamare. –

Un’affermazione che lasciava trapelare un sottinteso che lo colpì. Angina sapeva di avere qualcosa che a lui sarebbe interessato.

– Abbiamo trovato la famiglia di Regan. Ma i suoi genitori sono morti. –

L’espressione dell’altra non fece che aggravarsi.

– Suppongo che questa debba essere considerata la conclusione delle sue peripezie. –

Per tutta risposta, Lucius si chinò a raccogliere il libro dal tavolino.

– Io suppongo, invece, che tu sappia meglio di me che purtroppo abbiamo appena cominciato – e la guardò insinuante. Tra le sue mani, il libro pesava con una gravità che non aveva nulla a che vedere con il suo consistente numero di pagine ingiallite. Era il peso di una responsabilità impressa in ogni singola parola tracciata, riga dopo riga, da mani che avevano voluto raccontare, per orgoglio o ambizione, orrori che senza dubbio sarebbe stato meglio lasciar divorare dall’oblio nell’impetuoso fluire dei secoli.

– Ciò che è racchiuso in quel libro – disse Angina, allontanandosi dal camino. – È quanto di più abominevole e dissacrante io abbia mai avuto il dispiacere di leggere – Un luccichio liquido vibrò nel suo sguardo, riflesso di un’emozione concreta. – Lo avrei già dato in pasto alle fiamme, non fosse stato per certe informazioni che ti saranno certamente più che utili per la tua bambolina. –

Venena si alzò dalla sua poltrona, Kael si fece avanti con lei. Fiancheggiarono Angina con la medesima aria seria che aveva lei, silenti come guardiani di pietra. Lucius non era stupito che anche loro due fossero presenti e sapeva esattamente a chi dei due imputare il ritrovamento del libro, e con esso di tutto il patrimonio in esso custodito.

Si rivolse senza indugi a Venena, che stette ad ascoltare rigidamente:

– Non so se definirla tenacia, testardaggine o semplicemente accanimento – disse, soppesando il grosso tomo. – Ma ti ringrazio. –

– Quando avrai letto quella roba non avrai più tanta voglia di ringraziarmi. –

– È così grave? –

– Ci sono cose che non dovrebbero essere sfiorate nemmeno dalla più fervida e perversa fantasia. Il mondo esiste perché la Madre ha posto delle leggi naturali a sorreggerlo, e se qualche sua creatura è riuscita a trovare il modo di sovvertirle, penso che sia legittimo chiedersi se esistano ancora dei limiti –

Lucius era impressionato, in senso positivo e negativo insieme. Venena non era il tipo di persona che diceva o faceva qualcosa, se non era strettamente necessario, e di rado capitava che si curasse di qualcosa che avveniva al di fuori del suo laboratorio. Sentirla parlare così, con quel tono pieno di disgusto e malcelato timore, esprimeva in giusta misura l’importanza di quanto lei avesse scoperto.

– Abbiamo qualcosa da cui partire, se non altro, quindi un ringraziamento te lo devo a prescindere da tutto il resto. –

Di rimando, lei mormorò qualcosa a denti serrati che lui non riuscì ad afferrare, ma apprezzò comunque lo sforzo.

Prima di lasciarlo andare, Angina volle sapere cosa ne fosse stato di Regan.

– Una Edelberg… – commentò con un mezzo sorriso, quando lui ebbe concluso. – Una vera figlia di Norden. –

Sotto sotto, Lucius non ne aveva mai dubitato. La fascinazione che fin da subito Regan aveva mostrato di subire da parte delle foreste innevate, degli specchi dei ghiacciai sulle montagne, del freddo e dei sussurri silenziosi che la Terra dei Grandi Re aveva insinuato al suo orecchio… era stato tutto un filo annodato in una trama precisa, un segno dopo l’altro che lo spirito dentro di lei si era ricongiunto a luogo a cui apparteneva. Benché metà di lei fosse legata al sole e al mare della Terra di Sonnerg, dove risiedevano le radici della casata dei Dresden, Regan era in tutto e per tutto, come aveva detto Angina, una figlia di Norden: sei il colore dei suoi occhi e dei suoi capelli non era accostabile a nulla di conosciuto, il biancore latteo della sua pelle e i suoi modi schivi e orgogliosi erano quasi un marchio distintivo che lasciava poche possibilità di sbagliarsi riguardo alle sue origini.

– Temo il momento in cui Lord e Lady Dresden saranno informati di questa storia. –

– Due delle famiglie più potenti del Mondo Occulto, rivali da sempre, a contendersi un’erede… – Negli occhi scuri di Angina dardeggiò un sentore di curiosità. – Sarà guerra aperta. –

– Non è questa la mia maggiore preoccupazione, al momento – rispose lui, con una stanchezza molto vicina alla disperazione.

– Se vuoi un consiglio da amica, leggi quel che devi, assimila quel che puoi, e brucia quel libro prima che qualcuno possa metterci le mani sopra. –

– Farò in modo che non accada, a costo della vita. –

Lei gli rivolse un lieve sogghigno che era a metà tra l’amaro e il malizioso.

– Non mettere in gioco una vita che ti sei già giocato. –

Lucius le sorrise con la stessa amarezza, ma tralasciò la malizia.

– Vorrà dire che sarò doppiamente accorto, così da non perderla. –

Angina, che in un’occasione normale avrebbe raccolto l’invito implicito a lasciar cadere l’argomento, stavolta non lo graziò. Si poteva leggere la preoccupazione nei suoi occhi come una pennellata di rosso vermiglio a stonare in un quadro dai tenui colori pastello. A che la conosceva, mai Lucius la aveva vista così ansiosa, e non seppe se lodare o commiserare la sua estrema intuitività. Affondò le dita con rabbia e frustrazione nella copertina dura del libro; nessuno di loro sapeva con esattezza cosa stesse accadendo, ma era ormai chiaro che Regan possedesse ben di più di una semplice immunità ai veleni.

Un passo in avanti, e Angina gli fu così vicina da sfiorarlo con il proprio corpo. Sollevò una mano e con il dorso gli sfiorò il viso. Alle sue spalle, Venena serrò le dita in due pugni lividi.

– Sento odore di guai, Lucius. –

C’era una sorta di avvertimento accorato nella sua voce calda, una supplica, forse, a smettere per una volta i panni dello scavezzacollo senza scrupoli e tenersi lontano dai pericoli, stavolta più seri che mai. Cosa che, per uno come lui, equivaleva a negare la sua stessa natura.

– Oh, poco male – fece lui, con una scrollatina di spalle, prendendole il mento tra due dita, mostrando una confidenza che nessuno degli uomini che le facevano a capo si sarebbe mai potuto sognare. – Sai quanto amo i guai – e le adagiò un bacio leggero sull’angolo delle labbra.

 

 

Nervi saldi e sangue freddo erano il requisito fondamentale di qualunque mestiere rischioso, ma lo erano in particolar modo per chi sceglieva di fare il doppio gioco.

Arith aveva iniziato da bambino ad avere a che fare con i criminali, quando veniva usato come esca o insospettabile tramite, e assieme a un discreto bagaglio di conoscenze di quell’ambiente, si era fatto anche una certa esperienza circa i personaggi più importanti che ne erano parte. Sapere come pensava, ragionava e agiva una determinata persona era essenziale quando c’erano sotterfugi da scoprire o semplici informazioni da recuperare. Per questo motivo, quando aveva sentito che una notte Gerjen era ritornato al covo senza il suo cristallo e con un’aria tutt’altro che rilassata, Arith era già consapevole che nessuno dei suoi scagnozzi avrebbe mai saputo cosa gli fosse veramente successo, ed era andato quindi a cercare la verità dove c’erano più probabilità di scovarla: direttamente nella bocca del nemico numero uno di Gerjen.

Lei sedeva in mezzo ai suoi uomini, sorseggiando vini rossi tra un pezzo di arrosto e l’altro: Sesen, la sola donna a comando di una banda di Ladri di Anime che i tempi moderni conoscessero, e anche una delle più potenti e spietate. Addirittura si diceva che la sua età fosse molto più matura di quella che effettivamente dimostrasse e che Sesen di mantenesse giovane grazie a un filtro creato appositamente per lei da uno speziale che lei si era premurata di assassinare una volta ottenuti i suoi servigi, tanto per essere certa che nessun altro potesse beneficiare del prezioso elisir di eterna gioventù.

Arith era sicuro che una donna vanitosa e arrogante come lei non avrebbe perso un’occasione di umiliare un rivale.

Trovarla non fu difficile: tutti sapevano che Sesen andava dove c’era il vino migliore, e non c’erano poi tante opzioni tra cui scegliere, nei dintorni di Helgrad. Mauercast, del resto, era famosa per molte ragioni, ma non certo per la produzione vinicola.

– Tu chi sei? – volle sapere lei, quando lui si presentò al suo cospetto.

Occhi acuti di un blu glaciale, screziato di toni più chiari che ricordavano l’acqua di un fiume in inverno, schegge ambrate a incoronare la pupilla sottile. Una bellezza spietata, resa ancora più tagliente dal rosso cupo della chioma, onde di seta del colore delle ciliegie mature. Il viso aguzzo, la pelle nivea punteggiata di efelidi attorno al naso fine, aveva la dura inespressività di una maschera teatrale, la stessa impressione di un volto di porcellana senz’anima.

Gerjen, in confronto a lei, aveva un aspetto quasi rassicurante.

Era impossibile capire come in uno sguardo così freddo si potessero scorgere tutte le fiamme della dannazione.

– Arith, ma non ho la pretesa che il mio nome vi dica qualcosa. – la accontentò lui, esibendosi in un ossequio abbastanza profondo da mettere in chiaro la sua consapevolezza di esserle inferiore, ma non tanto da poter passare per un gesto di scherno.

Lei parve restarne soddisfatta.

– Infatti. Chi sei, esattamente? E soprattutto che cosa vuoi? –

– Sono al servizio di Gerjen. –

Le sopracciglia di Sesen si arcuarono scetticamente mentre i suoi occhi si posavano sul cristallo che lui aveva al collo. Gli uomini attorno a lei erano all’erta, ma non osavano muovere un muscolo senza prima un cenno da parte della loro signora.

Arith non aveva paura. Nessuno avrebbe osato torcere un capello a un uomo di Gerjen, effettivo o presunto che fosse.

– Davvero? Sei molto giovane. –

– Tanto giovane quanto abile. –

– Sei venuto a farti ammazzare? – grugnì un uomo, con una risata sguaiata.

– Sono sicuro che nessuno di voi ha tempo ed energie da perdere per disturbarsi ad ammazzare qualcuno venuto semplicemente a chiedere notizie. –

– Che notizie puoi cercare da noi che il tuo capo non possa darti? –

­– Notizie che compromettano la sua immagine e la sua rispettabilità, suppongo. Gerjen ha perduto il suo vecchio cristallo. Nessuno sa come sia accaduto e lui sostiene che si sia rovinato. Io e molti miei compagni siamo di diverso avviso e vogliamo sapere la verità, e se qualcuno può saperla, quel qualcuno non potete che essere voi, Sesen. –

– Non dubitavo che quel vigliacco di Gerjen avrebbe mentito pur di salvarsi la faccia. Siediti, mio giovane straniero, e ascolta quello che è veramente successo a quel sempliciotto a cui rispondi. Poi deciderai tu se continuare a prendere ordini da lui. –

 

 

Si vedeva un lago, dai piani alti del palazzo degli Edelberg, e il balcone della stanza di Regan si affacciava proprio sul punto in cui l’acqua scivolava giù in una serie di larghe e basse cascatelle, diretta verso il fiume. Le era sembrato nero per tutta la notte, immobile come uno specchio, con spettrali brandelli di nebbia a indugiare sulla superficie mentre i raggi di luna si sforzavano invano di raggiungere l’acqua, finendo per perdersi nel rincorrersi della foschia. Ancora una volta la sua tentazione era stata di uscire e correre verso il bacino in cerca delle sensazioni che la sola immagine lontana non era in grado di darle. Era strano persino per lei trovarsi di fronte a una simile vista e bramare con tutta sé stessa di toccare con mano il gelo dell’acqua, la ruvidità degli alberi, e a volte si spaventava nello scoprirsi a desiderare di restare prigioniera tra quei flutti. Immaginava di scivolare sul fondo buio e guardare in su, mentre la luce scompariva e l’aria si estingueva, svuotandola di tutto.

Scomparire.

Come era scomparso Derian, e coloro che lei non aveva mai potuto chiamare mamma e papà.

Era e rimaneva, comunque, un desiderio fatuo. Se un tempo non avrebbe fatto un gran differenza per lei vivere o morire, ora, suo malgrado, si sentiva attaccata a quella vita iniziata da poco come una foglia d’autunno al suo esile ramo: una brezza appena più forte avrebbe potuto strapparle via la determinazione a non cedere.

Quella mattina, richiamata dall’acciottolio delle porcellane e dai rumori della casa che si risvegliava, si era riscossa dai suoi densi pensieri, si era vestita ed era scesa di malavoglia per la colazione. Le era già capitato un paio di volte di fermarsi a dormire lì e sapeva che gli Edelberg erano gente mattiniera. I ragazzi avevano avuto un permesso speciale per assentarsi dall’Accademia per un paio di giorni: tutti avevano concordato che sarebbe stato più agevole per Regan avere loro in casa che alleggerissero l’atmosfera, e in parte era così, ma non del tutto.

Non appena l’aveva vista entrare in sala da pranzo, Donna Melyor, che d’abitudine sedeva al tavolo come una della famiglia assieme al marito, le era corsa incontro tutta premurosa e, con occhi umidi, la aveva accompagnata alla sua sedia mormorando fra sé in tono commosso: “La bambina del mio Ardal… grazie, Madre, per questo conforto”.

Vedere la famiglia Edelberg riunita a tavola non avrebbe mai smesso di farla sorridere: Tristan, a capotavola, consumava austero la sua colazione senza emettere un suono, limitandosi solamente a lanciare qualche occhiata di rimprovero ai gemelli, il cui comportamento non era tanto diverso da quello che abitualmente tenevano in qualche osteria assieme ai compagni di bisbocce, ma, pur nel disappunto, la sua espressione restava sempre velata di soddisfazione. Arista era il ritratto vivente dell’orgoglio materno: guardava i suoi ragazzi con gli occhi amorevoli di chi sapeva di non poter chiedere di più dalla vita e intanto imboccava la piccola Luce con cucchiaiate di pappa d’avena a cui la bambina insisteva costantemente ad aggiungere altro miele. Anneli e Aeden, seduti l’uno accanto all’altra, stavano battibeccando sottovoce su qualcosa che riguardava qualche insegnante indisponente dell’Accademia. Mancava solo Prince, che probabilmente era già uscito da un pezzo. Fare il Cacciatore non era uno dei mestieri più semplici e Regan si era spesso domandata se Prince avrebbe dedicato tutta la sua vita alla Lega o se prima o poi avrebbe seguito le orme del padre, accostando alla carriera anche una famiglia da cui ritornare. Chiunque nell’alta società, in qualunque angolo delle Sette Terre, sapeva che Prince era celibe e molto corteggiato sia dalle fanciulle che dalle loro famiglie, ma finora nessuna aveva avuto fortuna.

Regan abbracciò con un solo sguardo l’intera tavolata: vedeva in tutto ciò il suo piccolo angolo di stabilità. Ci sarebbe stato un posto anche per lei, un giorno, in mezzo a loro, come parte integrante, e non come l’ospite che ancora si sentiva. Era casa sua, ormai, dopotutto, e avrebbe dovuto abituarsi all’idea.

Benché si sentisse piuttosto affamata e le pietanze che fossero tutte più che invitanti, non riuscì a mandare giù molto. La servitù doveva essere stata tempestivamente informata degli ultimi sviluppi, perché all’improvviso tutti la trattavano in modo diverso: non con la discreta reverenza che era buona norma riservare agli ospiti, ma con la calda, rispettosa affettuosità che concedevano ai membri della famiglia.

A parte questo, c’era un evidente sforzo da parte di tutti di non farla sentire soffocata dall’eccesso di attenzioni: le venne chiesto come stava, se avesse dormito bene, se ci fosse qualcosa di cui avesse bisogno, e così via, e lei rispose come una signorina perbene avrebbe dovuto, quando invece avrebbe solo voluto poter essere maleducata e ingrata e pregare tutti loro di lasciarla stare. La malcelata ansia di farla sentire la benvenuta a tutti i costi la disturbava quasi quanto l’avrebbe disturbata un interesse soffocante.

 È strano per tutti, si disse, mentre la cameriera le serviva del latte caldo. Passerà quando ci saremo abituati…

Lei, in realtà, avrebbe solo voluto riavere il suo letto e la sua stanzetta a casa di Lucius, sentire Eleonora canticchiare mentre preparava la colazione, bisticciare con Calien su chi si meritasse l’ultima fetta di torta, e tutte quelle piccole cose che avevano contribuito, giorno dopo giorno, a dare un sapore di serena quotidianità alla sua vita.

Il giorno seguente era domenica, e Regan scoprì che le famiglie notabili di Kauneus avevano l’abitudine di trovarsi nelle sale da the del centro per consumare la colazione in compagnia e aggiornarsi sulle novità della settimana appena trascorsa.

Per l’occasione, Anneli le fece provare metà del proprio guardaroba, fino a che non trovarono un abito adeguato che non le stesse troppo largo là dove lei, invece, avrebbe di gran lunga preferito sentirselo stretto.

– Va benissimo così. – le aveva detto Anneli, subito prima di infilarle un cappotto di velluto verde scuro e spingerla fuori di casa. – Tanto nessuno farà caso a te. –

Le cose non stavano proprio così.

Mentre sedeva a un tavolo in un’elegante salone di un locale chiamato Bottondoro, Regan sentiva sguardi sconosciuti posarsi sporadicamente su di lei e rimanere a osservarla a lungo, prima di decidere che fissarla, per quanto insistentemente, non avrebbe dato loro alcuna spiegazione riguardo a chi lei fosse e cosa ci facesse assieme agli Edelberg.

Lord Tristan (a Regan proprio non riusciva di chiamarlo zio) si era appartato assieme agli uomini in un’altra sala attigua, da cui proveniva un brusio sommesso e profondo, mentre Arista sedeva a un altro tavolo in fondo al vasto locale, su un piano rialzato a cui si accedeva tramite tre scalini di marmo, la piccola Luce in braccio, in compagnia di una dozzina di altre gentildonne, alcune impegnate a loro volta a badare ai bambini che avevano con sé.

Era un posto bianco dalle rifiniture dorate, pieno di specchi e superfici riflettenti che sembravano ingigantire gli spazi e moltiplicare la folla e le luci centinaia e centinaia di volte. C’era un aroma di zenzero e cannella a dominare nell’aria, e ad annusarlo sembrava quasi di sentire la consistenza granulosa dei biscotti sbriciolarsi sulla lingua. Tutti chiacchieravano e consumavano con tranquillità la loro colazione, e talvolta qualcuno abbandonava per un momento il proprio tavolo per andare a salutare qualcuno a un tavolo vicino, o alzava educatamente la mano per richiamare con un cenno discreto l’attenzione di uno dei tanti camerieri che si aggiravano zelanti per la sala.

– Sono vecchie eredità della tradizione della nostra Terra. – le aveva sussurrato Ember, mentre tutti insieme si dirigevano verso il centro, una piacevole passeggiata in una mattinata invernale irrorata di sole. – Un tempo Kauneus era la capitale del regno, ci abitavano per lo più i reali e la loro corte. La domenica in città arrivavano emissari da tutte le città principali delle Terre, portando notizie e pettegolezzi, e venivano organizzati dei banchetti, a corte, perché se ne potesse discutere. La tradizione del convito è sopravvissuta fino a oggi, solo che al posto dei banchetti, ci limitiamo alla colazione. –

Il resto del Bottondoro era invece riempito da ragazzi: adolescenti e giovani adulti affollavano una trentina di tavolini rotondi disposti a raggiera attorno a un buffet, chiacchierando del più e del meno nei loro abiti eleganti.

– Quasi tutti sono nostri compagni alla Domus. – le rivelò Aeden, versandole del the al limone.

– Tranne le ragazze. La maggior parte delle ragazze nobili o benestanti pensa solo a sposarsi e fare a gara per chi ostenta di più – precisò Ember.

Anneli si raddrizzò nella sua sedia e gli rivolse un’occhiata in tralice mentre mescolava lo zucchero nel suo the.

– Non tutte sono così. –

– Infatti ho detto la maggior parte. –

– Ognuno pensa ad accaparrarsi il meglio per sé, e meno ha il prossimo, meglio è. – bofonchiò Prince amareggiato. Era rincasato tardi dal turno di pattuglia della notte prima e i suoi occhi erano stanchi e opachi.

– Frequentare la Domus Aurea è una specie di status sociale – spiegò poi, notando probabilmente l’espressione vacua di Regan. – Molta di questa gente è contraria al fatto che i figli delle famiglie più umili abbiano accesso ai corsi di addestramento. –

Regan trovava la conversazione un po’ fuori dalla sua portata: la interessava sapere come funzionassero le cose nella società, ma ne sapeva ancora troppo poco per partecipare.

– E perché mai? – chiese con ingenuo stupore.

– Figli di braccianti a comando di un esercito? Figli di fornai o pastori a occupare i seggi del Consiglio? ­– Aeden scambiò un’occhiatina cinica con i fratelli. – Sovvertirebbe l’ordine naturale delle cose – disse, con un tono scimmiottante. – La società è basata sulla gerarchia, e secondo loro è sbagliato che chi appartiene a caste inferiori possa elevarsi. E nostro padre è tra questi. –

– Il che è un segno di grande stoltezza, perché alcuni dei migliori elementi addestrati alla Domus provengono proprio dai ceti più bassi – commentò Prince.

– Stavate parlando di me? –

La testa di Regan e di tutti e cinque i fratelli Edelberg si voltarono per ritrovarsi di fronte a un viso noto: le mani sui fianchi, Lisandra li fissava con un sogghigno giocoso pennellato sulle labbra.

– Grenet, quale sorpresa! – esclamò Mariek, facendole cenno di accomodarsi in una sedia libera. – Cosa vi porta qui dalla lontana Torresco? –

Prima di sedersi, Lisandra si guardò intorno, come se temesse che qualcuno potesse rimproverarla.

– Nulla di particolare – rispose poi, e intanto i suoi occhi vagarono da una parte all’altra del tavolo, fin dove sedeva Prince, intento a spalmare del burro su una fetta di pane. – Ma non avevo niente di meglio da fare, e ho pensato di passare a vedere come se la passa la nostra Regan – Un sorriso veleggiò verso la chiamata in causa. – Ma guardati, piccola Lady Edelberg… hai l’aria di un pulcino in mezzo a un branco di lupi. –

Era vero, ed era esattamente così che Regan si sentiva: braccata. La sala era gremita di persone a lei del tutto sconosciute, facce mai viste la fissavano e voci sommesse parlavano di lei. Qualcuno addirittura osava alzarsi e andare a domandare di lei direttamente ai suoi zii, e lei preferiva non pensare a cosa potessero rispondere loro. Ancora non si era discusso di cosa avrebbero raccontato alla gente, ma aveva avuto l’impressione che, benché da un lato la verità fosse piuttosto spinosa da rivelare, Lord Tristan intendesse fare le cose per bene e presentarla degnamente in società esattamente per quella che era: una Edelberg. Questo, tuttavia, sarebbe accaduto solo una volta che Lucius avesse interpellato gli altri parenti che Regan aveva, Lord e Lady Dresden, ossia in un imprecisato futuro imminente.

Lisandra intanto si era sfilata i guanti di semplice lana nera e un cameriere era accorso a prenderle il cappotto, non senza risparmiarsi una fugace smorfia di sufficienza di fronte alla modestia dell’indumento.

– Allora, pecorella smarrita, come ti senti? –

Regan non seppe cosa rispondere. Alla fine optò per una sana, vaga diplomazia:

– Ancora un po’ scossa, ma tutto sommato bene, grazie. –

Dato che la notizia che lei era nipote di Lord Tristan Edelberg non era ancora stata diffusa, i pochi che ne erano a conoscenza avrebbero mantenuto la debita discrezione fino al momento in cui non si fosse deciso di rendere la questione di pubblico dominio. Regan si augurava che questo succedesse in un futuro il più lontano possibile, visto che al momento aveva già abbastanza cose a cui pensare.

In quel momento una risatina collettiva si levò da un tavolo interamente occupato da ragazze. Tutte loro guardavano in giro per la sala, alcune meno opportunamente discrete di altre, facendo commenti sottovoce su questo e quell’altro ragazzo.

Lisandra, schifata, fece schioccare la lingua.

– È la moda del momento. –

– Che cosa? –

– Giocare a indovinare chi era il piacente giovanotto con cui Madame Vane ha varcato i cancelli del castello al ricevimento del Solstizio d’Inverno di quest’anno. Molte vaneggiano che fossi tu, Prince – ridacchiò, scoccando un’occhiatina al diretto interessato. – Oserei dire che si è spezzato qualche cuore quando ho fatto notare a un nugolo di pettegole dell’ultimo anno che tu non hai gli occhi verdi. E poi perché mai avresti dovuto indossare la divisa dell’Accademia, visto che ormai sei un ufficiale fatto e finito? –

– Non finito davvero, spero – sorrise l’interpellato.

– Non capisco per quale assurdo motivo appare un affascinante giovane misterioso e tutte vanno subito a pensare a Prince – sbuffò Mariek, offeso.

– Primo, perché il giovane in questione era moro, e voi e gli altri vostri fratelli, milord, siete decisamente biondi. E poi, se non ricordo male, Prince era il grande favorito di Madame Vane, ai tempi della Domus, no? –

– Togliti quel sorrisetto sfacciato dalla bocca, Grenet – disse Prince a Lisandra in tutta calma, gli occhi fissi nei suoi. – A Madame Vane piacevo solo perché imparavo in fretta. –

Lei accettò distrattamente il piatto con la fetta di torta che Anneli le stava offrendo e rivolse a Prince un sorrisetto malizioso:

– Stupida lei, allora – mormorò a voce bassa, ma abbastanza nitidamente da far sì che lui la sentisse e potesse conseguentemente ricambiare il sorrisetto.

Regan, però, aveva smesso di seguire la conversazione. Stava ripensando a quel ragazzo che la aveva invitata a ballare la sera del Solstizio, e si era poi comportato in quel modo strano. Non lo ricordava perfettamente, ma di tre cose era sicura: era piacente, era moro, aveva gli occhi verdi.

Le venne da voltarsi e sottolineare la cosa a Lucius o a Shin, ma nessuno dei due era lì. Nessuno dei due si era fatto vivo, ancora, e lei sperava che lo facessero presto.

Se avesse saputo che cosa l’aspettava, forse si sarebbe augurata diversamente.

 

 

Regan sedeva sul letto – il suo letto, nella sua stanza.

Erano stati il suo letto e la sua stanza anche quelli a casa di Lucius, ma ormai sembravano un ricordo lontano, anche se solo pochi giorni la separavano dall’ultima volta che vi aveva dormito. Non che le dispiacesse abitare nel maniero degli zii – anzi, le sembrava quasi di essere quasi tornata bambina, rifugiata in un’infanzia ovattata fatta di coccole e premure – ma il distacco da Lucius non era stato semplice. Si sentiva come una barca abbandonata in un porto senza una cima di sicurezza che la tenesse a riva. Senza di lui, aveva l’impressione di essere in balia del destino.

Fuori diluviava. Nuvoloni violacei si erano addensati nel cielo quella stessa mattina e da qualche ora erano esplosi in una tempesta i cui tuoni scuotevano i vetri grondanti di acqua.

Le piaceva vedere i lampi squarciare le tenebre attraverso le tende spalancate alle sue spalle, e poi aspettare il rombo del tuono che immancabilmente seguiva. La furia del temporale era qualcosa di unico che la affascinava al punto da farle venire la pelle d’oca, e non lo sapeva nemmeno lei cosa la stesse trattenendo dallo spalancare le imposte e uscire sul balcone per godersi meglio lo spettacolo.

Fissava il vuoto come uno specchio della propria mente, ombre dense e poca luce che riverberava nella tranquillità della notte già scesa, e intanto si spazzolava i capelli. Non li legava più; le fanciulle nubili usavano tenerli sciolti sulle spalle e trattenerli soltanto con qualche pettine o fermaglio. Le aveva insegnato Anneli come usare quegli aggeggi e a lei non piacevano, ma si era adeguata, perché era ciò che ci si aspettava da lei, e in fondo non le importava granché di come erano acconciati i suoi capelli.

Posò la spazzola sul comò e si avvicinò al candeliere per spegnere le cinque candele che esso ospitava. Le sue labbra si bloccarono appena prima di soffiare. Se avesse avuto un minimo di padronanza verso il proprio potere, le sarebbe bastato guardare le fiammelle per poterle estinguere in un baleno, e le avrebbe potute resuscitare altrettanto rapidamente.

Strizzò gli occhi e si concentrò, determinata perlomeno a ottenere un qualsiasi risultato, ma due lievi colpi alla porta la distrassero quasi subito.

Era tardi, ormai perfino i domestici si erano ritirati nei loro alloggi, quindi non poteva essere Donna Melyor.

– Avanti. –

Non era Donna Melyor, infatti.

Sulla soglia apparve Arista. Portava una vestaglia celeste sopra la lunga camicia da notte, i capelli arrotolati e intrecciati in un’elaborata pettinatura che non lasciava sfuggire nemmeno una ciocca. In una mano aveva una tazza bianca, che nel buio emanava un debole alito perlaceo, nell’altra una piccola lampada a olio.

Arista si sedette accanto a Regan e le porse la tazza, avvertendola di fare attenzione a non scottarsi.

– Latte e miele con un petalo di rosa – disse poi. – Latte per lenire le ansie, miele per addolcire i sogni, e un petalo di rosa per profumare la notte. –

Regan inspirò con piacere la fragranza delicata che saliva alle sue narici.

– Quando i miei figli erano piccoli e per la prima volta venivano trasferiti dalla stanza mia e di mio marito a una tutta loro, io ogni sera, prima di andare a letto, portavo loro una tazza come questa, fino a che non si abituavano a dormire da soli. Luce è stata la più brava: ci ha messo solo una settimana. Quei due ruffiani di Ember e Mariek, invece, se capitano temporali come questo, qualche volta la esigono ancora. –

Regan pensò che, in cambio di un gesto così, portare i capelli in modo diverso da come avrebbe voluto era un nonnulla.

– Grazie. –

– Fare parte di questa famiglia può non essere la cosa più semplice del mondo per molte ragioni, e mi rendo conto che per te non sia facile ritrovati qui dopo quello che hai passato. Ma essere una Edelberg ha i suoi vantaggi. Io ero la sola figlia dei miei genitori e ho solo due lontani cugini che ho visto una volta sola. Quando ho sposato Tristan, ho scoperto quanto sia bello vivere in una famiglia numerosa. Siamo tutti degli impiccioni, sai? – Arista sorrise. – Qui dentro tutti sanno sempre tutto di tutti e ficcano il naso negli affari altrui. Non sai quante zuffe ha dovuto sedare Donna Melyor, per questo… –

Regan rise con la zia, mentre fuori il rumore scrosciante della pioggia imperversava senza sosta.

Parlare di aneddoti famigliari buffi con una tazza di latte in mano sembrava proprio quel genere di cosa che qualsiasi sua coetanea avrebbe fatto con la madre in una nottata così.

– Non è decoroso che dei ragazzi della loro età si comportino ancora così, soprattutto per una giovane gentildonna come Anneli, ma io ne sono felice, perché significa che si preoccupano ancora l’uno dell’altro come quando erano bambini, e sarò felice quando anche tu inizierai a bisticciare con loro: allora sapremo che finalmente ti sentirai a casa. –

La mano fresca di Arista salì ad accarezzarle il viso. Regan prese un sorso di latte e lo deglutì piano, assaporandone ogni goccia.

Era esattamente il sapore giusto da abbinare al tempo burrascoso di quella sera.

D’un tratto si udì un tramestio confuso proveniente dal corridoio.

– Un momento! Voi cosa ci fate qui? –

– Cosa ci fate voi qui! –

– Zitto, Ember, sveglierai tutta la casa! –

– Sono Mariek, idiota! –

– Ma che cos’è, una riunione notturna? –

– Aeden? È uno scherzo? –

Arista si alzò lesta e andò ad aprire la porta.

– Che cosa sta succedendo qui? –

Un tuono proruppe nel medesimo istante in cui la porta di spalancava e al di là di essa si levò uno strillo di spavento collettivo. Fuori, colti di sorpresa, c’erano Aeden, Mariek, Ember ed Anneli, e Prince con Luce in braccio, tutti già pronti per andare a dormire. Avevano portato altre tazze come quella che aveva portato Arista. Regan ne contò quattro: una in mano a Luce, una a Aeden, una ad Anneli e un’altra ce l’aveva uno dei gemelli.

– Mamma! – esclamò il gemello a mani vuote. Il suo sguardo si allungò verso Regan e si fermò sulla tazza che teneva tra le mani. – Oh, non vale! –

– Pare che abbiamo avuto tutti la stessa idea – sorrise Prince, mentre entrava seguito dagli altri.

La stanza era tutt’altro che piccola, ma parve restringersi a causa dell’insolita piccola folla che si trovò ad ospitare. Era raro che i ragazzi Edelberg si trovassero a casa per la notte tutti e sei contemporaneamente: Prince aveva parecchi turni di ronda notturna e Aeden, Anneli e i gemelli durante la settimana rimanevano alla Domus Aurea.

Arista si portò le mani ai fianchi e scosse il capo divertita.

– A quanto pare i tuoi cugini sono più sentimentali di quel che vorrebbero far credere, Regan. E Melyor tirerà le orecchie a tutti quanti, domattina… le abbiamo saccheggiato le scorte di latte per la colazione. –

Il gemello con la tazza scrollò le spalle.

– Vorrà dire che per una volta ci accontenteremo di un the. –

– Ho la sensazione che Regan non abbia voglia di scolarsi cinque tazze di latte, vero? – disse l’altro gemello. Avevano entrambi i capelli sciolti e distinguerli era impossibile.

Tutti risero. Un altro tuono fece vibrare i vetri delle finestre. Luce, anziché intimorita, sembrava cullata

– Oh, be’, a questo punto… alla salute! –

Chi aveva una tazza in mano si avvicinò a Regan per scontrarla con la sua in un bizzarro brindisi di mezzanotte.

Sorseggiarono latte e miele, dividendosi i bicchieri, e chiacchierarono di pochezze come il brutto tempo fino a che Arista sottolineò quanto fosse tardi e intimò a tutti quanti di filare a letto immediatamente, a partire dalla piccola Luce, la cui testolina bionda ciondolava dalla stanchezza tra le braccia del fratello maggiore.

Appena furono usciti, Regan spense le candele e si rifugiò nel calore delle coperte. Si addormentò quasi subito.

Per una volta, non sognò le ferite insanguinate della pelle martoriata di Derian.

Sognò una ninnananna, e carezze profumate di rose.

 

 

Quando, il mattino seguente, Lucius si presentò a chiedere di lei, le sembrò fin troppo bello per essere vero, e pensò che era una fortuna che Tristan non fosse in casa, perché difficilmente gli avrebbe permesso di portarsela via. Era uscito presto, dicendo che si sarebbe recato ad Aurin, a visitare la tomba di Ardal, e vedendo l’espressione dei suoi occhi, Regan si era dolorosamente resa conto che lui aveva accusato il duro colpo di quella perdita molto più intensamente di lei: perdere un padre mai conosciuto non era la stessa cosa che perdere un fratello con cui si era cresciuti per tutta la vita.

– Ve la riporterò tutta intera, lo prometto – disse Lucius ad Arista prima di andarsene. – Scusati con tuo marito da parte mia, quando tornerà e si arrabbierà per questo. –

Una carrozza nera attendeva di fuori, nera e lustra, il blasone di Norden – una falce di luna sormontata da una corona – impresso in lamine d’argento sui lati e ricamato sulla divisa dell’austero cocchiere. Quello, assieme all’espressione insolitamente seria di Lucius, le suggerì qualcosa che avrebbe preferito risparmiarsi: stavano andando al castello di Soile.

 

 

Lord Tristan Timant Edelberg III era sempre stato visto e definito come un uomo di buon cuore, ma estremamente burbero e poco incline a lasciar trapelare le emozioni.

Possedeva un ferreo senso dell’onore e della famiglia e talvolta forse gli si sarebbe potuta rimproverare una severità eccessiva nei confronti dei suoi figlioli, ma non si poteva dire che non fosse un padre amorevole e comprensivo. Entro opportuni limiti.

Il mantello nero ondeggiava nel vento come uno stendardo di lutto, mentre i suoi occhi, di un nero ancora più profondo, fissavano assenti la lapide grigia.

Jarlath, così diceva l’incisione. Ma era Ardal – suo fratello – quello che risposava in quel lembo di terra, un ragazzo che aveva appena cominciato a diventare un uomo.

Tra le sterpaglie giallastre spiccavano vivaci macchie di perpetuini, le fioriture perenni che sbocciavano a vegliare là dove giacevano i resti mortali di coloro che per la Madre erano stati prediletti.

Cosa ironica, poi, che un figlio ripudiato dai genitori fosse stato onorato da una così rara benedizione.

Forse era il solo modo che la Madre avesse trovato per comunicare a tutti loro chi fosse davvero nel torto e chi nel giusto.

La piccola Aranel – Hel, recitava la sua inscrizione – sorrideva serena nel suo ovale di vetro, come se in cuor suo avesse saputo di non portare macchie di peccato sulla coscienza. Era poco più che una bambina. Sia lei che Ardal sembravano così felici e spensierati che nessuno avrebbe mai potuto avere il coraggio di biasimarli per le scelte che avevano compiuto.

Era così che sarebbero stati ricordati per sempre: due ragazzi che si erano amati, e che per quell’amore avevano dato tutto. Anche la vita.



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A/N
: mi prostro umilmente implorando perdono per averci messo, ancora una volta, un'eternità ad aggiornare. Non ho scusanti, sono un'inetta!
Vorrei ringraziare tutti voi lettori per l'invidiabile pazienza che portate nei miei confornti, e in particolare ringrazio
Dantalion (gentilissimo, soprattutto con i suggerimenti e le osservazini!)
Rosa Blu (dici bene, la speranza è l'ultima a morire... ma tu ricorda che siamo solo al primo dei cinque libri che ho in mente... la strada è così lunga che tutto può cambiare! Cosa non si sa. ;) )
Ariana_Silente (il rancore che tu hai percepito da parte di Lord Edelberg era rivolto a quello che la famiglia aveva fatto ad Ardal diseredandolo e cancellandolo dalla loro vita, visto che era molto legato al fratello minore. :) Ma era un'ambiguità voluta, quindi tutto ok. :D Il legame tra Regan è Shin non è nulla di personale, ma c'è e ci vorrà un po' per arrivare a svelarlo, perchè legato ad altri aspetti. Se in futuro troverai ancora frasi che ti colpiranno particolarmente, mi farebbe piacere che le riportassi, anche solo per farmi un'idea di che cosa ti ha colpita. :) )
Milou_ (la domanda che mi poni sul motivo per cui Regan avverte dolore nel toccare o essere toccata da Shin purtroppo non può ancora avere risposta, ma ti posso dire che non si tratta di quel che pensi tu. Ci sono altre implicazioni che riguardano questo mistero, e verrà tutto svelato un po' più avanti. ;) )
OdeToSolitude (ti avevo già fatto in complimenti per il nickname? Se no, allora te li faccio adesso, da eterna amante della solitudine. ;) Il mistero che aleggia tra Lucius è Soile è legato a qualcosa di molto serio e molto profondo che li lega e allo stesso tempo li allontana... ma non è ancora il momento di scoprire di cosa si tratta. :) Dimenticavo che sei una Shigan! Ebbene, credo che non ti mancheranno le piccole soddisfazioni, continuando con la storia, come del resto non mancheranno le frustrazioni alle fan di Lucius/Regan. XD Ma sono una mamma sadica per questi poveri personaggi e non si può mai dire dove io intenda andare a parare. :D)

Quindi, grazie mille a tutti e spero di rirovarvi nelle recensioni a questo capitolo, con osservazioni, dubbbi, domande e qualunque cosa vi passi per la testa. :)

Nel prossimo capitolo...


Avevano oltrepassato la metà del ponte quando Regan avvertì qualcosa. Cosa, non seppe distinguerlo. Era come un fremito nella terra, qualcosa che dalle profondità del lago si stava propagando fino a lei, strisciandole sulla pelle in un formicolio pruriginoso.

Stava per succedere qualcosa.

– Che cos’è? – fece appena in tempo a chiedere, ma fu interrotta e sovrastata da un improvviso rombo ovattato.

Il cuore le balzò in gola.

Alle sue spalle si era sollevato una parete d’acqua spumosa alta quasi quanto le mura dell’arena che si stagliavano sullo sfondo. Sembrava di trovarsi di fronte a una cascata al contrario.

Fu un attimo.

L’acqua si abbatté sul ponte, una frusta ruggente che scosse la pietra e la fece vacillare fino a far perdere l’equilibrio alle gambe di Regan, paralizzate non dalla paura, ma da una soverchiante fascinazione.

Un paio di mani la afferrarono con una violenza stranamente piena di gentilezza e si sentì trascinare via mentre l’impeto dell’acqua si precipitava impetuoso verso di lei in un turbine di vortici e candide schiume.

L’aria fredda nei capelli, l’assenza di terra sotto i piedi, i suoni lontani e inibiti da un inspiegabile senso di alienazione… era come volare.

   
 
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