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Autore: kenjina    19/04/2012    5 recensioni
Non fu il dolore fisico che gli procurò quello strazio assordante, né la carezzevole consapevolezza che sarebbe morto in pochi minuti. Morire significava liberarsi dal peso opprimente di un fardello che non era riuscito a sopportare e che ora lo stava schiacciando, per lasciarlo finalmente libero dalle angosce e dai tormenti. Aveva sempre immaginato la sua morte e sapeva che sarebbe stato in battaglia. Sarebbe caduto da soldato, davanti le mura della sua amata città, per difendere con onore il suo popolo dalle armate nemiche che giungevano come un'ombra da Est. La sua morte sarebbe servita per salvare le terre che lo avevano visto crescere, per dare una possibilità alle future generazioni di vivere una vita lontana dalle tenebre e dalle paure.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Boromir, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Foreste di Betulle; giardini di Pietra.'
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Dopo una splendida settimana in Provenza con i miei splendidi colleghi di corso, torno ad aggiornare!

Chiedo perdono per non aver trovato il tempo di rispondere ancora alle vostre gentilissime recensioni, ma sabato ho un esame e sono in alto mare! Promesso che entro stasera recupero. :)

Intanto grazie infinite, davvero. Grazie!
Buona lettura!

 

Betulla

05.

1 Marzo 3019 T. E.

 

Il tramonto calò velocemente e infuocò il cielo di sfumature e luci rosse. Dalla finestra rivolta ad Occidente, nello Henneth Annûn, i raggi del sole filtravano come in un caleidoscopio, rifratti dall'acqua della cascata che nascondeva il rifugio dei Raminghi dell'Ithilien.

C'era un movimento di persone, vestite di verde e marrone, per l'avamposto, ma nonostante il viavai di spie ed esploratori, gli Uomini erano calmi e concentrati. Il loro Capitano era giunto quel pomeriggio da Minas Tirith, ma sembrava avere la testa altrove, lontano dai confini di Gondor, verso nord, lungo le Montagne Nebbiose, fino a Imladris. Era lì che stavano i suoi maggiori dubbi e paure, lì che suo fratello era diretto, sei mesi prima, e più aveva fatto ritorno. Due giorni prima il suo cuore aveva tremato, nell'udire il fioco suono del Corno di Gondor: la speranza di rivedere Boromir si era fatta palpabile, poiché era vicino, più vicino di quanto avesse immaginato, ma con essa era giunto anche il timore, poiché per tre volte il corno aveva suonato, e probabilmente Boromir si trovava in difficoltà - e lui non era lì, per dargli il suo aiuto. Quale periglioso viaggio aveva deciso di intraprendere, per salvare il suo amato fratello minore!

Che ne fosse di lui non poteva saperlo, ma nel suo cuore covava ancora la possibilità che fosse vivo. Un senso di inquietudine l'aveva assalito, durante le notti precedenti, ma lentamente si era affievolito, fino quasi a sparire. Nei suoi sogni continuava a guardare verso nord, nella vana speranza di rivederlo tornare, sorridente e orgoglioso, ma nella realtà questo non era ancora avvenuto.

Ora, i problemi provenienti dall'Est erano più pressanti della sorte del fratello, se ne rendeva conto, e la salvezza di Gondor precedeva d'un passo quella di Boromir; eppure non riusciva a tenere la mente troppo lontana dal fratello. Perché sebbene non fosse partito con lui, Faramir gli era costantemente accanto con il pensiero.

«Faramir, un esploratore deve fare rapporto.»

Il Capitano dei Raminghi del Sud si destò dalle sue riflessioni e seguì Damrod, suo braccio destro, verso una caverna scavata dal lavoro incessante dell'acqua e ora adibita a scarna sala delle riunioni. Lì, con un tavolo al centro e una mappa del territorio, veniva esaminata la situazione del regno e, di conseguenza, venivano prese decisioni sulla difesa e sull'attacco ai confini. Dopo aver riconquistato Osgiliath con le prodezze di Boromir, la vecchia capitale di Gondor aveva resistito fino ad allora alle incursioni sempre maggiori di Mordor, ma le difese stavano nuovamente vacillando. Se Osgiliath fosse stata conquistata dal Nemico, allora il destino di Minas Tirith sarebbe stato in precario equilibrio su una corda tesa su un baratro.

L'esploratore, accompagnato da altri tre, si fece avanti, salutando con un lieve inchino il suo Capitano.

«Mio signore, porto notizie dal sud. Un esercito di Haradrim ha passato Minas Morgul una notte fa. Sono divisi in cinque grandi gruppi, a distanza di due giorni l'uno dall'altro. E hanno mûmakil con loro, numerosi e corazzati. Hanno costruito alte torri sui loro dorsi e arcieri sono appostati su di esse.»

Faramir si accarezzò il mento, pensieroso. «Quanti sono?»

L'esploratore esitò un poco, intimorito dall'idea di quell'esercito. «In tutto almeno cinquemila, mio signore. Mille per ogni gruppo.»

Damrod si mosse nervosamente dietro la schiena di Faramir. «Ogni giorno aumentano le schiere di Mordor. Ogni giorno la nostra terra viene calpestata e deturpata dai loro sudici piedi. Non possiamo permetterlo.»

«Capisco la tua rabbia, amico mio, ma non possiamo fermarli. Non tutti. Sono troppo numerosi e noi troppo pochi.» disse il Capitano dei Raminghi, alzandosi e chinandosi sulla carta della regione. «Viaggiano lungo la Via di Harad, protetti dall'incombenza delle Montagne dell'Ombra. Ma se non possiamo fermarli, possiamo disperderli e diminuire il loro numero.» Indicò la loro posizione con un dito. «Ci nasconderemo lungo il cammino, in quest'area lontana dalle montagne; la vegetazione sarà la nostra migliore alleata per celarci ai loro occhi. Dovranno forzatamente attraversarla, se sono diretti al Morannon. Inizieremo dalla parte più a nord, e nei prossimi giorni scenderemo, per evitare che scorgano le carcasse dei loro compagni e stiano in allerta. Li coglieremo tutti di sorpresa.»

Damrod si rivolse a Anborn e Mablung, buoni condottieri e guide per i loro uomini. «Radunate i vostri arcieri, ci mettiamo in marcia tra mezzora.» I due annuirono e si diressero ad organizzare le loro truppe. «Faramir, fermeremo gli Haradrim, ma non possiamo abbattere i mûmakil con così pochi uomini.»

«Non li abbatteremo, infatti. Mireremo alle loro torri.» rispose il Capitano, con un sorriso rassicurante. «Il disordine farà il resto.»

Durante la mezzora successiva ci fu un gran movimento nella caverna: Uomini che rifornivano la loro faretra di frecce, che affilavano le lame delle spade e delle lance, che ascoltavano gli ordini dei propri comandanti, che riempivano le bisacce di cibi e acqua necessari per i giorni seguenti. Quando furono pronti a partire, quattrocento Uomini, ricoperti da un mantello verde come la vegetazione e da abiti marroni, si mossero verso nord-ovest, tra quelle terre un tempo brulicanti di vita e luminosità, e ora costantemente minacciate dall'ombra proveniente da est. Il viaggio non durò a lungo, poiché il primo appostamento non era distante più di dieci miglia da Henneth Annûn. Si muovevano in silenzio, e in silenzio si scambiavano ordini. L'unico strumento di segnalazione che avrebbero usato al momento giusto era un piccolo ramo cavo, lavorato affinché producesse un suono simile a quello di un uccello, se soffiato come un corno.

Faramir e Damrod fecero schierare gli arcieri da una parte all'altra della Via e attesero, nascosti tra le fronde dei cespugli alti. In lontananza sentirono il ritmico rumore dei passi in marcia, che si faceva via via più vicino. Non dovettero attendere molto per individuare con lo sguardo il primo, numeroso gruppo di Haradrim. Erano Uomini molto alti e robusti, scuri e forti; nelle mani guantate tenevano salde lance puntute, scimitarre lucenti o archi lunghi, e alcuni - probabilmente i loro comandanti - reggevano anche scudi, decorati con zanne di mûmakil, simbolo d'onore e rispetto; molti dei loro volti erano coperti da fazzoletti scuri come la loro pelle, che tenevano liberi solo gli occhi neri, e i capelli dello stesso colore erano intrecciati di fili d'oro, dove era possibile vederli; le loro vesti erano scarlatte e dorate, rivestite di pelle sulle spalle e sul petto, così come sugli stinchi, per proteggersi dalla forza di frecce e lame nemiche.

I Raminghi non capirono le loro grida, ma non sbagliarono a pensare che fossero canzoni in vista della vicina guerra. E quando i mûmakil fecero la loro comparsa, i Raminghi sussultarono davanti a tale maestosità. Erano animali altissimi ed enormi, resi ancora più imponenti dalle torri di legno costruite sulla loro schiena; e le zanne bianche, lunghe e ricurve fin quasi a toccare il terreno, erano state armate di speroni e lance, di modo che fosse pressoché impossibile avvicinarli a piedi o a cavallo.

Faramir alzò una mano dal pugno chiuso, per intimare ai suoi di attendere ancora qualche istante. Erano fuori dalla gittata delle loro frecce per il momento. Scambiò una rapida occhiata con Damrod, che era posizionato non lontano da lui, e questo annuì. Sollevò il pugno sinistro e così fecero anche Anborn e Mablung, dall'altra parte del cammino, che avevano gli occhi ben puntati verso i loro compagni.

Attesero in perfetto silenzio e immobili come statue che gli Haradrim iniziassero a scorrere sotto i loro occhi. E allora Faramir portò alla bocca il piccolo fischietto e diede il segnale. Nel giro di pochi secondi altri gli risposero, e notarono che alcuni degli Uomini del Sud si guardarono intorno, nel sentire quei strani suoni. Ma nessuno fece in tempo a dare l'allarme, perché una pioggia di frecce cadde sulle loro teste, improvvisa come un lampo a ciel sereno. Il caos tra il nemico si diffuse velocemente e gli Haradrim iniziarono a difendersi rispondendo al fuoco, senza saper bene che bersaglio colpire. I Raminghi erano ben nascosti per essere avvistati, anche se gli Uomini del Sud potevano indovinare la traiettoria delle loro frecce e, quindi, la loro posizione. Molti caddero, presi alla sprovvista, ma molti si armarono per difendersi.

Faramir incoccò una freccia e puntò ad una delle corde che sostenevano le torri sui mûmakil. La colpì con precisione, e subito ne tagliò altre tre. La torre vacillò sotto il suo peso e per il movimento dell'animale, per poi piegarsi su un lato e trascinarsi giù tutti gli Uomini a bordo. Il mûmak venne trascinato dalle corde strette intorno al suo largo collo e perse il controllo, andando a calpestare qualunque cosa e chiunque si trovasse sulla sua traiettoria. Colpì con le zanne armate alcuni Uomini e un altro mûmak al suo fianco, prima di cadere sulle zampe, incapace di risollevarsi. I Raminghi proseguirono con l'attacco, uccidendo un buon numero di Haradrim; i superstiti pensarono bene di scappare più velocemente possibile, sperando che gli assalitori non li seguissero. E così fu.

Faramir non voleva decimarli, perché erano numericamente inferiori, e se si fossero esposti in campo aperto avrebbero perso per certo. L'attacco durò finché tutti gli Haradrim sopravvissuti non fossero fuori dal loro campo di tiro, e attesero che si allontanassero per uscire allo scoperto e tornare ad Henneth Annûn.

«Quasi la metà sono caduti.» disse Damrod a Faramir. «Se anche i prossimi appostamenti daranno questi frutti dimezzeremo le loro truppe.»

«È vero. Ma non dimentichiamo che dobbiamo coglierli di sorpresa. Oggi sembravano molto spauriti, e probabilmente perché era il gruppo in testa e non sapevano bene che tipo di resistenza avrebbero incontrato. Domani potrebbe essere più difficile.»

«Per questo dobbiamo agire come oggi. Silenziosi e letali.» proseguì Anborn, affiancandosi. «Ottimo lavoro, Capitano.»

Faramir sorrise, rincuorato dalla mano dell'Uomo che si congratulò con lui. Non aveva mai amato combattere; non provava piacere nel togliere la vita al nemico, ma solo la soddisfazione di proteggere la sua amata terra. Se avesse potuto avrebbe trovato altre vie più diplomatiche, ma era ovvio che di quei tempi non era possibile. Eppure sapeva tirare di arco con la precisione di un Elfo ed era anche era un ottimo stratega. I Raminghi dell'Ithilien avevano trovato in lui un ottimo Capitano e ne andavano orgogliosi, poiché era buono e rispettoso di chiunque, persino dei suoi prigionieri più sgradevoli. Faramir pensò che se Boromir fosse stato presente, quel giorno e i seguenti, sarebbe stato fiero del suo fratellino.

 

2 Marzo 3019 T. E.

 

Non poteva credere a ciò che sentiva. Dopo essersi ripromesso di averlo seguito ovunque, per combattere al suo fianco fino alla morte, dopo aver depositato la sua spada ai suoi piedi per giurargli eterna fedeltà, ora Aragorn lo stava allontanando. Aveva preso l'argomento con molta delicatezza, parlando del periglioso viaggio che avrebbero intrapreso con Re Théoden verso i Guadi, poi gli aveva domandato che intenzioni avesse di fare e, quando aveva risposto che avrebbe volentieri affiancato il Re del Mark in battaglia, gli aveva chiesto con gentilezza di riconsiderare le sue priorità. Inizialmente Boromir non aveva capito dove volesse andare a finire con quel discorso, ma appena aveva sentito "Il tuo posto non è qui", tutto era diventato più chiaro e lo aveva fatto ribollire di frustrazione.

Ora era davanti al suo amico, con i pugni stretti lungo i fianchi e lo sguardo contrariato di uno che non accettava una sconfitta come quella - perché era evidentemente una sconfitta, per lui.

«Boromir.» gli stava dicendo, il viso che tentava di rassicurarlo con un sorriso. «Vorrei averti accanto in questa battaglia, come amico e come uno dei migliori soldati che abbia mai conosciuto. Ma Gondor ha bisogno di te. Sei stato troppo a lungo lontano dalla tua amata terra, e ora più che mai devi farvi finalmente ritorno.»

Boromir scosse il capo, senza capire. «Hai già dimenticato le tue parole? Proprio ieri mi dicesti che avremmo varcato il cancello di Minas Tirith insieme, come Re e Sovrintendente! Ho giurato di servirti fino alla morte!»

«E lo faremo, te lo prometto. Ma non posso tornare ora, amico mio, lo sai bene. Non ho il diritto di sconvolgere Gondor e le sue genti comparendo dal nulla e dichiarandomi erede al trono.»

«Lo faresti con il pieno diritto, invece!»

«Sì, è vero. Ma voglio guadagnarmi la fiducia del mio popolo e aiutarlo a risollevarsi da questo periodo di oscurità, prima ancora di avere una corona sul capo. Voglio essere degno del titolo che porterò per il resto della vita.» Aragorn sperò vivamente che il Capitano della Torre Bianca comprendesse le sue ragioni.

«Il ritorno del Re porterebbe speranza.»

Il Ramingo gli mise le mani sulle spalle, stringendogliele. «Ho fatto una promessa, Boromir, e intendo rispettarla. Attraverseremo Minas Tirith fianco a fianco, tra le bianche strade di pietra e la musica di benvenuto delle chiare trombe d'argento. L'ho promesso. Ma spetta a me scegliere come e quando tornare a Gondor. Vorrei solo che mi appoggiassi: te lo domando come amico.»

L'altro annuì, una mano sul braccio del Dùnadan. «Lo sai che lo farò sempre, Aragorn, a meno che non mi chieda di rimanere rinchiuso tra le mura della mia città mentre tu vai in guerra.» L'Uomo sospirò. «E sia! Tornerò a Minas Tirith, perché non posso negare che una gran parte del mio cuore lo desideri ardentemente; infine il mio viaggio sarà davvero in solitudine, come avevo temuto prima ancora di partire da Imladris. Ma accetto la tua richiesta, perché ha buoni fondamenti. Solo, non farti ammazzare, nel frattempo.»

L'erede di Isildur rise, abbracciandolo. «La cosa deve essere reciproca, amico mio. Sei ancora indebolito, non sfruttare troppo il tuo corpo.»

L'altro annuì. «Arrivederci, Aragorn. Abbi cura di te, e dei piccoletti, se dovessi rincontrarli.» Boromir esitò un poco. «Porta i miei saluti anche a Brethil, ti prego. Non sarei qui se non fosse stato per lei.»

«La ringrazierai ancora una volta di persona, quando vi rincontrerete. Ricorda una cosa, Boromir: non perdere mai la speranza, anche se sembra che abbia abbandonato questo mondo.»

L'Uomo di Gondor annuì. Poi salutò Legolas, Gimli e per ultimo Gandalf, che gli sorrise con fare paterno. «Bada alla tua vita, amico mio. Ci rivedremo molto presto.»

«Arrivederci, Gandalf.»

Li osservò partire poco dopo, accompagnando il Re e suo nipote Éomer verso la battaglia. Fu quando non riuscì a distinguerli più tra tutti quei cavalli e corazze, che montò sul suo cavallo, lo stesso che lo aveva accompagnato in quel lungo viaggio verso Nord, e fece rotta verso Gondor, verso la sua casa; e lo fece con qualche preoccupazione in meno e qualche nuova. Quando aveva rivisto Gandalf, incorniciato da quel candore, era caduto in ginocchio, con gli occhi lucidi per la commozione; ma quando aveva raccontato loro di Merry e Pipino, al sicuro da qualche parte in quella foresta inquietante, il suo cuore pareva essersi sollevato da un peso che gli gravava sulle spalle e lo appesantiva. Avrebbe voluto vederli con i suoi occhi, assicurarsi che stessero veramente bene, sentire la loro voce e le loro risate, il calore dei loro corpi tra le braccia. Ma per il momento si accontentava della parola dello Stregone.

Eppure, se quelle notizie gli avevano portato gioia, provava ancora irritazione per essere stato abbandonato anche da Brethil, anche se l'idea che fosse in mezzo ad una battaglia gli faceva dimenticare ogni astio e non lo tranquillizzava affatto. Aveva capito che sapesse difendersi, perché da una vita non faceva altro, ma continuava a chiedersi: sarà viva? Starà ancora combattendo? È ferita? Chi la curerà?

Erano tutte domande che non potevano avere ancora risposta e che lo preoccupavano; ma si rese conto che pensando a lei e al destino di Aragorn e dei suoi amici, la sua mente risultava abbastanza occupata da non essere disturbata da pensieri più cupi. Nonostante fosse lontano dalle persone che più l'avevano capito in quel buio periodo della sua vita, sentiva che fossero vicino a lui, accanto a lui, in ogni istante, nella sua testa, nei suoi ricordi. Era un pensiero confortante, del resto, alzare lo sguardo al cielo stellato e pensare che probabilmente, ovunque fossero, anche loro stessero osservando lo stesso spettacolo.

 

3 Marzo 3019 T. E.

 

Si trovava nel buio totale, a galleggiare nel vuoto di quel nero abissale e spaventoso. Tentava di rimettersi in piedi, per trovare un equilibrio che non c'era, ma non trovò alcun appiglio, né terreno che i suoi piedi potessero toccare.

E non riusciva a respirare, perché in quel vuoto non c'era ossigeno. Sentiva solo la pressante presenza della paura invaderle la mente come un miasma, che la stordiva e le impediva di muoversi.

Poi qualcosa, da quel buio infinito, apparve. Qualche piccolo luccichio, come dell'argento sotto la luce flebile della luna. Un imponente massa, in quel nero come la pece, che la fece sentire piccola come un Hobbit nel castello del più grande Re di sempre.

E d'improvviso sentì grida, grida da ogni dove, possenti e terrificanti come il suono di tanti corni, che le fecero vibrare le vene ai polsi. Il clangore di una battaglia, il cozzare di spade contro altre spade, il sibilo di frecce che le sfioravano le orecchie.

Lentamente la visione si fece più nitida. Un esercito infinito la circondava. Nere montagne sovrastavano quel luogo, dove la battaglia si combatteva aspramente, ma la sagoma di quella che pareva la chiglia di una nave, chiara e splendente, si stagliava sul campo di guerra.

E poi ci fu il gelo mortale che la vista di tanto sangue le provocò. Era sulle vesti di qualcuno, davanti a lei, ma non riuscì a vedere di chi si trattasse, perché le dava le spalle. Reggeva qualcosa in mano, ma quando tentò di gridare per richiamarlo all'attenzione, alcun suono uscì dalle sue labbra.

Brethil si ritrovò a respirare con affanno, la schiena poggiata sul dorso di Nerian, placidamente sdraiato dietro di lei. Sbarrò gli occhi, per rendersi conto che non si trovava nel vuoto nero, né una battaglia si stava combattendo nelle vicinanze, né quella figura era stata colpita da un'ascia sul petto. E, più importante, non c'era sangue intorno a lei, né addosso a lei. Tentò di riprendersi dallo spavento, guardando le nuvole cariche di pioggia, e rimase immobile, con una mano sul petto, come a calmare il battito impazzito del suo cuore.

Era stata in viaggio da sola per due giorni e aveva combattuto per una notte contro gli Isengardiani, provenienti da nord. Erano arrivati dalla riva occidentale, che ormai era quasi del tutto sguarnita di protezione, e si erano riversati sui Rohirrim, schierati sull'altra sponda, con la stessa forza dell'Isen dopo una cascata. Ora si trovava all'accampamento di Erkenbrand, Comandante del Mark Occidentale, situato poco più a sud dalla battaglia sui Guadi, stanca e spossata; ma ogni volta che aveva arrischiato a chiudere gli occhi quel sogno prendeva immediatamente possesso della sua mente, tormentandola e lasciandola senza fiato. Si risvegliava con le lacrime agli occhi, sudata e paralizzata dal terrore. Eppure non sapeva cosa avesse potuto provocarle tanta paura; forse quel buio, forse quel sangue... ma il sangue di chi?

Bevve un sorso d'acqua, per rinfrescare la bocca arsa, e attese qualche minuto prima di mettersi a sedere. Il pensiero volò subito ai quattro compagni in cerca dei loro piccoli amici, e si domandò se li avessero trovati. Avevano sicuramente incontrato Éomer e la sua éored, e sperò vivamente che avesse dato loro delle notizie rassicuranti. E inevitabilmente il viso di Boromir si affacciò davanti ai suoi occhi grigi, triste e amareggiato dalla sua scelta di partire. Eppure lui non era solo, poiché Aragorn era con lui, e così gli altri suoi due strani amici. Per quanto si fosse affezionata a quell'Uomo, lui non aveva bisogno di lei, ora che aveva ritrovato il Ramingo. In realtà lei non serviva a nessuno, perché qualsiasi cosa di bello avesse tra le mani finiva per rovinarla e non voleva più macchiarsi di simili errori. Ora la sua via era verso una battaglia dura, da cui difficilmente sarebbe uscita viva. Gli Isengardiani erano forti e risoluti, e giungevano contro gli scudi dei Rohirrim con la stessa forza di una mareggiata, e sebbene i Cavalieri resistessero, molti dei soldati e dei loro capitani erano consapevoli che non avrebbero retto oltre.

Guardò i soldati dell'Ovestfalda ancora in piedi, perché non riuscivano a dormire, incuranti della pioggia scrosciante che quella notte inzuppava tutte le terre e le loro teste; c'era inquietudine nell'aria, era palpabile. Brethil, che restava più in disparte, con il cappuccio calato sul viso, strinse la spada di fattura elfica tra le dita, accarezzando la fodera con riverenza. Ripensò a quando Aragorn, di ritorno da Lothlórien, gliel'aveva data, accompagnando il gesto con le parole che ricordava perfettamente: "Questa è una spada dei Noldor, una lhang' *, e si chiama Celeboglinn**. Mi è stata data dalla Bianca Dama di Lórien, da donare a te, con la speranza che il suo suono limpido possa essere una luce di destrezza e forza contro le armi del nemico". Era stato un vero onore per lei ricevere un simile dono e, pur non abbandonando la spada del padre, posta sulla schiena insieme all'arco e le frecce, da quel giorno Celeboglinn pendeva sul suo fianco sinistro, fida compagna di ogni battaglia. Era una spada a due mani, con l'impugnatura molto lunga e ricurva, di un legno argentato come gli alberi di Lothlórien, intarsiato delle preghiere dei Noldor, così come la lama, incisa con i lineari caratteri elfici che ne narravano la storia. E nonostante i colpi e il sangue che aveva visto, era luminosa e liscia come se fosse stata appena forgiata, e grazie agli allenamenti dei gemelli Elladan ed Elrohir, amici e compagni dei Raminghi del Nord, ora sapeva combattere alla maniera degli Elfi, con la loro grazia e la loro spietatezza.

Stava ripensando ai suoi allenamenti, quando un soldato anziano, ma ancora alto e possente, le si avvicinò, cautamente. L'armatura lucente era rigata da innumerevoli gocce, ma nonostante l'assenza di luna, quella notte, splendeva ugualmente.

«Mia signora Ceorfan, non riesci a dormire neppure tu?» disse Erkenbrand, in piedi a pochi passi da lei. Era l'unico, tra i Rohirrim, che usasse quell'appellativo rispettoso nei suoi confronti, perché non poteva non badare al fatto che fosse una donna, sebbene in battaglia tutti la scambiassero per un uomo. Ceorfan, d'altronde, era un nome in Rohirric che aveva imparato ad accettare, sebbene richiamasse ai tagli sul suo viso.

Brethil scosse il capo. «Cupe sono queste notti, per sperare di trovare riposo.»

«Eppure dovresti, non sappiamo con certezza se Saruman attaccherà nuovamente e con quante forze. Dobbiamo tutti riprendere le energie, tu specialmente.» Il vecchio Comandante sorrise, percependo uno sguardo inceneritore sotto quel cappuccio. «Hai combattuto valorosamente, la scorsa notte, sarai stanca.»

«Lo sono, davvero. Ma vorrei cadere in un sonno così profondo da non aver la possibilità di sognare.»

Erkenbrand annuì, comprendendo le sue parole. «Gli incubi afferrano tutti i nostri animi, perché vivono delle nostre paure. Ma i sogni sono fatti anche per avere una fine, come tutte le cose, prima o poi. Non lasciare che ti turbino.»

L'Uomo si allontanò poco dopo e lei sperò che le sue parole potessero avere un fondo di verità. I sogni terminavano nel momento in cui si svegliava, non doveva averne timore. Eppure l'idea di rivedere ancora una volta quel vuoto e quel sangue la terrorizzava.

Un esploratore giunse trafelato dal suo superiore, ridestandola dai suoi pensieri turbolenti. «Mio signore, Comandante! Un cavaliere bianco si avvicina al campo!»

Brethil si alzò, per sgranchirsi le gambe, e allacciò la cintura della fodera di Celeboglinn alla vita, stringendola sul mantello grigio. Posò una mano sull'elsa e una sulla criniera di Nerian, che sonnecchiava ancora. L'agitazione e l'eccitazione si diffuse per tutto l'accampamento, ma non si avvicinò ad Erkenbrand e ai suoi uomini finché non vide con i suoi occhi il cavaliere in arrivo. Bianco come la prima neve di dicembre era il suo mantello, così come candidi erano capelli e barba lunga, e il manto del suo destriero, che pareva risplendere nonostante l'assenza delle stelle; teneva un lungo bastone nella mano destra, anch'esso bianco, e una spada sul fianco sinistro. Si accorse di aver gridato il suo nome solo quando iniziò a correre verso di lui.

«Gandalf!»

Il vecchio Stregone si voltò verso il suono della sua voce e, nel riconoscerla, i suoi occhi penetranti si rallegrarono e brillarono sotto le folte sopracciglia. «Ben incontrata, Brethil.»

«Gandalf... notizie orribili mi dicevano che fossi morto!»

Lui ammiccò. «Lo ero, infatti. Ma non è questo il momento né il luogo per parlarne. Sono qui per avvisarti, Erkenbrand, che urge l'aiuto dei tuoi uomini al Fosso di Helm. Isengard è completamente svuotata e il suo esercito lo assedia.»

Immediata fu la reazione del Comandante del Mark Occidentale, che gridò ai suoi Rohirrim di sellare i cavalli e prepararsi alla battaglia. Il via vai di soldati che correvano da una tenda ai loro destrieri fu intenso, ma né Gandalf né Brethil se ne curarono.

«Vieni, amica mia, cavalca al mio fianco.» le disse lo Stregone. «Potremo discorrere nel breve viaggio che ci separa dalla battaglia.»

Brethil corse a destare Nerian e lo montò con velocità, raggiungendo Gandalf pochi istanti dopo.

«Lesti, cavalieri di Rohan! Il Re ha bisogno delle vostre lance!» gridò lo Stregone.

Mille uomini sui loro destrieri seguirono i tre di testa, Gandalf, Erkenbrand e Brethil, e marciarono al galoppo verso lo scontro. La prima mezzora di viaggio fu silenziosa, tra Brethil e lo Stregone, quest'ultimo più preoccupato di dire a Erkenbrand della grandezza dell'esercito di Saruman. «Non so se le mura del Fosso di Helm siano ancora ben difese, ma ho visto con i miei occhi quale esercito si sia mosso da Isengard. Orchi, Uruk-hai e Dunlandiani, armati delle più nere intenzioni, oltre che di metallo e di tanta forza fisica.»

«Le Mura Fossato sono ben resistenti e sono in piedi da centinaia di anni. Deve essere un esercito immenso se Saruman spera di conquistare il Trombatorrione

«E lo è, credimi. Per questo è importante muoversi. Giungeremo all'alba e caricheremo il nemico dalla cresta orientale, se tu sei d'accordo.»

Il Comandante annuì, stringendo tra le dita il suo scudo rosso. «Per il Re! Per Rohan!»

In risposta ricevette grida e canti di guerra, e sotto i rapidi lampi che illuminavano di quando in quando il loro cammino, galopparono il più velocemente possibile, accompagnati da tuoni e dal sibilare del vento.

Gandalf si affiancò alla donna e a lei parve che i raggi della luna si fossero spostati sulla sua veste candida e sui suoi capelli bagnati.

«Aragorn è in battaglia accanto a Re Théoden.» le disse, spiando la sua reazione con la coda degli occhi.

«Perché si trova lì? Era alla ricerca di due Hobbit.»

«Ha trovato me, invece!» fece Gandalf, calmo. «I nostri piccoli amici sono più che al sicuro. Molto più di quanto non lo siamo noi.»

Un senso di sollievo la tranquillizzò. «Boromir sarà felice di saperli vivi.»

«Ah, Boromir!» esclamò lo Stregone, come se si fosse appena ricordato qualcosa. «Aragorn mi ha detto di come gli hai salvato la vita, sono fiero di te, Brethil. Ma mi è sembrato piuttosto contrariato dal fatto che te ne sia andata.»

«Aragorn?»

«No, no, Boromir. Aragorn, nei pochi istanti che ci siamo potuti concedere, mi ha detto che ha accettato la tua scelta e non ti ha fermato. Anche lui ha bisogno del tuo stesso tempo, bambina mia.»

«Sì, lo capisco.» rispose in un sospiro. «Boromir è con lui, dunque?»

Gandalf scosse il capo. «No, lui si è diretto ieri verso la sua città. Aragorn lo ha pregato di raggiungere Minas Tirith prima possibile, perché di lui ha bisogno. E quando dico che lo ha pregato, intendo che ha dovuto insistere parecchio prima di riuscire a convincerlo.»

Brethil non poté trattenere un sorriso. «Il suo desiderio più grande è quello di combattere accanto al suo Re.»

«Ma se la sua città cade non ci sarà alcun re.» notò Gandalf. «È un miracolo che Boromir sia ancora vivo, dopo quello che è successo. Dama Galadriel mi ha confidato di aver visto oscurità davanti al suo cammino, e io stesso continuo a vederla ancora ora. Ma non può permettersi di temporeggiare in una battaglia che non è la sua. Gondor ha bisogno del suo Capitano.»

«Mi spiace che sia dovuto partire da solo.» sussurrò la donna, asciugandosi gli occhi dalla pioggia battente. «Il silenzio non è un buon compagno di viaggio.»

«No, non lo è, specialmente per lui.» Gandalf abbandonò il suo sguardo preoccupato, per rivolgerle un caloroso sorriso. «Ma deve compiere questa parte del suo percorso con le sue forze. Tu e Aragorn sarete i suoi sostenitori, ma non per ora. Quindi non preoccuparti di lui, per il momento.»

La cavalcata proseguì per le ore successive, e Brethil apprese come Gandalf fosse riuscito a lasciare il buio e le fiamme di Moria, rinascendo a nuova vita. Gli parve più saggio ma anche più ringiovanito; agile cavalcava senza sella Ombromanto, il capo dei Mearas, che da lui si era lasciato domare, ma nonostante la nuova veste, rimaneva pur sempre il Gandalf che aveva conosciuto, e saperlo al suo fianco, a calpestare la terra come lei, la tranquillizzava parecchio e la faceva sentire meno sola. Lui, che non aveva mai dubitato né dei suoi buoni propositi né delle sue parole. Doveva molto a quello Stregone.

Raggiunsero i declivi che circondavano la fortezza di Helm prima dell'alba e udirono distintamente i clamori della battaglia, dall'altra parte. Nessuno sapeva cosa aspettarsi una volta superata la barriera dei colli, ma mai immaginarono la distruzione che videro con i loro occhi. C'erano ancora migliaia di Orchi, Uomini Selvaggi e Uruk-hai, che continuavano a combattere, oltre una marea di cadaveri. Parevano tante formiche che prendevano d'assedio un formicaio nemico. Ma ciò che più li lasciò sgomenti furono i detriti enormi di roccia sparpagliati per il campo di battaglia: le mura del Fossato erano state fatte saltare in aria, con quale diavoleria nessuno seppe dirlo.

E allora Erkenbrand, non sopportando oltre la vista di quella rovina, portò alle labbra un corno nero e lo fece suonare con tutto il fiato di cui disponeva. Dai loro alleati fino alle schiere nemiche, si voltarono occhiate di sorpresa, gioia e nuovo terrore. E Aragorn riconobbe Gandalf, sul suo bianco destriero, e Brethil al suo fianco, che aveva sfoderato Celeboglinn e scintillava alla luce dell'alba come una stella d'argento. Il nemico vacillò e tremò quando Gandalf e il Comandante spronarono i loro destrieri alla carica, e il migliaio di soldati alle loro spalle faceva lo stesso. La loro carica fu devastante e s'infransero sul nemico come le onde sulle rocce. E altri corni di vittoria risposero a quello di Erkenbrand, quando i pochi superstiti di Saruman abbandonarono i loro posti e le armi per trovare rifugio in quella foresta apparsa dal nulla dietro le loro spalle. Nessuno di quelli che vi entrarono fecero più ritorno.

Brethil portò la sua attenzione verso quel bosco che non ricordava di aver mai visto, e ne rimase impressionata. Le chiome degli alberi si muovevano, nonostante la mancanza di vento, e qualche urlo soffocato proveniva dal suo interno, per poi svanire nel nulla. Sentiva i Rohirrim domandarsi che nuova diavoleria fosse, e molti si rivolsero a Gandalf come se fosse opera sua. Ma, enigmatico come sempre, lo Stregone rinviò ogni spiegazione ad un altro momento, quando avrebbero raggiunto Isengard. A tempo debito, disse, tutto sarebbe stato più chiaro.

«Brethil, ben ritrovata!» la salutò Éomer, dopo essere rimasto parecchi giorni senza vederla. «Mi domandavo che fine avessi fatto.»

«Sono stata un poco occupata.» replicò lei, stanca ma appagata dal risultato della battaglia. «Ma ora sono qui, nuovamente al servizio del Re.»

Théoden, che era nei paraggi con Aragorn, si avvicinò. «Allora lascia che ti ordini di andare a riposarti, amica mia. Perché questa non è la prima battaglia che combatti, in questi giorni. Dico il vero, Erkenbrand

«Assolutamente, sire! Senza contare il fatto che non abbia chiuso occhio per quasi tutta la notte.»

«Suvvia, non trattiamola come una ragazzina, miei signori.» disse Éomer, mentre lei lo ringraziava con lo sguardo. «Ella combatte con la grazia appresa dagli Elfi, ma ha il coraggio e la forza di un Uomo. Ognuno di noi dovrebbe prendere esempio da lei.»

Brethil chinò il viso, nascondendo il rossore di quelle guance sfregiate. Quando sollevò lo sguardo si accorse che Aragorn la stava osservando con quello che pareva orgoglio. La salutò con un cenno del capo e lei non poté frenare un timido sorriso.

«Andiamo, Re Théoden!» disse Gandalf. «Tu e la tua scorta necessitate di riposare, così la mia. Andiamo a desinare e a rilassarci, così da essere freschi per la partenza di questo pomeriggio.»

Così, mentre il Re e i suoi uomini si ritiravano per riposare prima della partenza, Éomer e Erkenbrand si occuparono degli ultimi sopravvissuti nemici. I soldati di Rohan catturarono Uomini del Dunland in particolare, che vennero spogliati delle loro armi e costretti a scavare fosse per seppellire i caduti e per spostare le carcasse dei nemici.

Aragorn, Legolas e Gimli aiutarono per un poco i soldati di Rohan a rimuovere i cadaveri dei caduti, un numero spaventosamente alto, tra cui parecchi ragazzini e uomini che avevano veduto troppi inverni o troppo pochi.

«Se non fosse giunto l'aiuto di Gandalf le difese non avrebbero retto oltre.» disse il Ramingo.

«Quella diavoleria esplosiva... non avevo mai visto niente di simile prima d'ora.» fece Gimli, ancora scosso. «Disintegrare con così tanta facilità pietra solida come questa su cui ho ben saldi i piedi! Solo uno Stregone come Saruman poteva compiere una cosa simile.»

«Nessuno di noi aveva mai visto una cosa simile, amico mio.» disse Aragorn. «Ma d'altronde non ci si poteva aspettare onestà da un uomo infido come lui, soprattutto in battaglia.»

«Per questo dovremo stare in guardia quando andremo ad Isengard.» disse Gandalf, avvicinandosi a loro e poggiandosi sul suo bastone. «Saruman si sentirà alle strette, ora più che mai; non ha solo perso la battaglia al Fosso di Helm, ma sta per perderne anche quella contro la natura che lui stesso ha risvegliato. Sarà pronto a tutto pur di risollevarsi.» Poi lo Stregone sorrise, gli occhi limpidi che s'illuminarono di sollievo. «Ma ora mettiamo da parte le preoccupazioni imminenti e lasciamo riposare la nostra stanca mente per un'ora. È quasi tempo di pranzo!»

 

 

 

 

*

Note: *La lhang' è un tipo di spada che non viene menzionato nei libri del Professore, ma è stata inventata appositamente dalla Weta Workshop per il film. Mi piacciono troppo, quindi ho deciso di ficcarcele dentro!

Ceorfan è un nome inventato da me, in Rohirric significa taglio.

**  Glinn o Celeb, significa Suono d'argento.

 

 

Grazie a tutti i lettori!

A presto,

Marta.

   
 
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