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Autore: Eloise_Hawkins    20/04/2012    38 recensioni
Hermione Granger ha appena visto il bacio tra Lavanda e Ron; distrutta dal dolore e in preda alle lacrime, si rifugia nel bagno delle ragazze del terzo piano, disabitato da quando il Troll di Montagna, penetrato nella scuola durante il suo primo anno, l'aveva distrutto.
Draco Malfoy ha solo sedici anni, ma sulle sue spalle grava un peso non indifferente. Oppresso dai pensieri riguardo la missione affidatagli dal Signore Oscuro, cerca conforto nel silenzio del bagno delle ragazze del terzo piano, ignaro del fatto che qualcuno, quella sera, ha già avuto la stessa idea. Pur non conoscendo l'identità l'una dell'altro, e nonostante le iniziali reticenze, i due ragazzi accettano quell'anonima compagnia, un po' per solitudine, un po' per affinità. Parlano a lungo, e tra di loro nasce un rapporto particolare, fatto di confidenze, parole e segreti chiusi a chiave nel loro cuore.
Ma se uno dei due scoprisse l'identità dell'altro? Continuerebbe a rinnovare l'appuntamento o si tirerebbe indietro?
Tra favole dal sapore dolce-amaro e parole che sembrano non bastare mai, tra i due nascerà una relazione destinata a diventare speciale.
Si può uccidere il male seppellendolo di risate?
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger | Coppie: Draco/Hermione
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VI libro alternativo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cenerentola e altre fiabe'
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Cenerentola e altre fiabe

«Lei gli raccontava le favole, lui le insegnava a volare»

 




Capitolo 1
Cenerentola –  ovvero di favole e compromessi

 

«On ne voit bien que avec le cœur:
l’essentiel est invisible pour les yeux»
Le petit prince – Antoine De Saïnt-Exupèry

 

Per quanto si stesse sforzando, non riusciva in nessun modo a reprimere i singhiozzi che le scuotevano l’esile corpo. Come altre volte, prima di questa, in anni passati ma sempre per colpa della stessa persona, la ragazza si era rifugiata nel bagno in disuso del terzo piano. C’era un silenzio liquido e gocciolante tra i cubicoli putridi e fatiscenti di quei gabinetti; di tanto in tanto, si udiva uno squittio, o il suono ticchettante di piccoli passi rapidi ma incerti. Più spesso, qualche perdita acquosa interrompeva la quiete sinistra di quel luogo.
Quella sera, invece, era solo il pianto di Hermione Granger a risuonare per le pareti. La giovane Grifondoro singhiozzava, e le lacrime calde le scivolavano lungo le gote, arrossate per lo sforzo di trattenere dentro di sé quel fiume di dolore che, infine, aveva tracimato. Si sentiva stupida, e per una come lei sentirsi stupida era più che una novità; ma sapeva anche di essere una ragazzina, in preda tanto agli ormoni quanto a quegli stupidi sentimenti che andavano così tanto contro il suo animo razionale, che lei aveva sempre cercato di reprimerli, affogarli, ripudiarli. Sino a quando questi non erano esplosi in tutta la loro potenza distruttrice.
Erano passate appena un paio d’ore da quando aveva visto, nella Sala Comune di Grifondoro, Ron avvinghiato a Lavanda Brown, in modo così stretto e intimo che era difficile capire quali mani fossero di chi, o distinguere dove finisse l’uno e iniziasse l’altra.
Hermione non era sicura di saper spiegare con precisione cosa avesse provato in quell’esatto momento, se fosse più la rabbia o più il dolore, se sentisse tanta umiliazione quanta vergogna. Tutto ciò che sapeva, era che il mondo era diventato improvvisamente silenzioso: i rumori della festa, le grida, gli schiamazzi, i brindisi alla vittoria dei Grifondoro contro i Serpeverde, erano stati risucchiati, insieme al suo respiro. Le era mancato il fiato, per un istante così lungo che Hermione aveva temuto di morire soffocata. Poi, tutto era esploso di nuovo attorno a sé: le luci, i colori, i suoni, i sorrisi. Ed erano tornati anche Ron e Lavanda, lì, davanti a lei, una verità così incontrovertibile che persino negarla sarebbe stato impossibile. Allora era andata via. In silenzio, senza rivolgere una sola parola né ad Harry, né a nessun’altro di quelli che le avevano chiesto perché fosse così pallida. Con tutta la dignità di cui era capace, aveva sfilato a testa alta persino davanti a Ginny, che la guardava con occhi odiosamente consapevoli; e solo quando il ritratto della Signora Grassa si era aperto per lasciarla uscire, aveva concesso alle lacrime che le pizzicavano gli occhi di scivolarle sul viso.
Era stata una stupida, e tale si sentiva. Era stupida perché si era rinchiusa in quel bagno a piangere per qualcuno che non meritava le sue lacrime. Era stupida perché non aveva mai avuto bisogno che Ron fosse un bravo portiere a Quidditch, per accorgersi di lui. Era stupida perché, forse, avrebbe dovuto pensare che prima o poi qualcuna si sarebbe accorta di Ron, e lei avrebbe dovuto dichiarare prima i suoi sentimenti. Se l’avesse fatto, non sarebbe stata in quel cubicolo a vomitare lacrime e dolore, adesso. Ma il fatto è che aveva sempre pensato che Ron fosse suo, così, per un inalienabile diritto di natura; uno scettro che mai nessuno le avrebbe potuto strappare. E invece Lavanda l’aveva spodestata e si era impossessata di scettro, trono e regno.
Erano passate già due ore, e ancora Hermione piangeva, e ancora le lacrime non accennavano a diradarsi, ancora tremava con il volto affondato tra le mani, rinchiusa in quel cubicolo umido che odorava di fogna.
E sarebbe rimasta lì dentro per ore, forse per tutta la notte, magari anche per i giorni a seguire, se dei passi umani non avessero risuonato all’interno del bagno. La ragazza smise di piangere quasi istantaneamente, ma ciò non impedì al nuovo giunto di udirla: il rimbombo di quelle falcate si estinse. Poi, una voce risuonò nel bagno.
«Chi c’è?».
Hermione trattenne il fiato, soffocando un singhiozzo con la mano, e sgranò gli occhi, cercando di fare il meno rumore possibile. In un primo, folle momento, aveva sperato che Ron fosse venuto a cercarla; tuttavia, quando lo sconosciuto parlò, si rese conto che quella non era la sua voce. Con un breve sospiro, la ragazza si asciugò rapidamente il viso.
«Mirtilla?» tentò ancora lo sconosciuto, con una nota di speranza nel tono. La Grifondoro tacque ancora, acquattandosi in un angolo del cubicolo: non voleva essere scoperta, non voleva che qualcuno la trovasse lì, in quel bagno, a piangere come una bambina a cui è appena stato rubato il proprio giocattolo. Per l’ennesima volta in poche ore, si sentì una stupida: non sarebbe dovuta uscire dal suo dormitorio. Con un profondo respiro, si fece coraggio e si preparò a rispondere, mentre al di là della porta chiusa udiva i passi riecheggianti dello sconosciuto, che si muoveva per il bagno con fare apparentemente inquieto.
«No» replicò piano Hermione. La sua voce era roca e tremolante, e recava ancora le evidenti tracce del pianto di poco prima. E la presenza ignota che ora divideva con lei quel luogo non tardò ad accorgersene.
«Stai piangendo?» domandò senza preamboli, con un tono a metà tra il derisorio e il comprensivo.
«No» disse la ragazza precipitosamente, tirando su col naso e smentendo in un solo istante la sua risposta. Emise un lieve gemito, ma, con sua grande sorpresa, lo sconosciuto non disse niente su quella bugia.
«Va’ via di qui» Il tono con cui pronunciò quell’ordine era minaccioso e brusco, sicuro di sé ma con una nota di curiosa recalcitranza nella voce, come se il ragazzo non volesse davvero che lei se ne andasse, come se quelle parole si fossero aggrappate alla sua gola per non venire sputate fuori – soprattutto, non con quell’asprezza.
«Sono arrivata prima di te» gli fece notare Hermione, corrugando la fronte, quasi offesa da quell’imperativo scortese.
«Non importa. Questo è il mio bagno!» ribatté con determinazione lo sconosciuto, ostentando un tono fiero e arrogante.
«Presuntuoso» lo accusò la Grifondoro, gonfiando il petto, benché l’altro non potesse vederlo. La risata del ragazzo risuonò nel bagno, rimbalzò sulle pareti e riecheggiò per il cubicolo occupato dalla giovane. Per qualche minuto, entrambi tacquero, tanto che per un istante Hermione pensò che lui se n’era andato, lasciandola sola con le sue lacrime. Tuttavia, dopo poco tempo, la Grifondoro avvertì il suono dei suoi passi al di là della porta: sembrava si stesse avvicinando. Un tonfo le annunciò che la porta del cubicolo accanto a lei era stata spalancata con violenza. Trasalì, e tirò fuori la bacchetta, poi, in un sussurro a mezza voce, pronunciò: «Colloportus». La porta si sigillò con un lieve scatto della serratura, appena in tempo: un colpo secco alla superficie lignea la fece vibrare lievemente. Il ragazzo aveva chiaramente tentato di sfondarla con un calcio.
«Perché ti sei chiusa dentro?» domandò con arroganza e rabbia lo sconosciuto. La sua voce, adesso, era più chiara e limpida, meno rimbombante di quanto non fosse prima, quando era più lontano.
«Perché volevi aprire?» disse Hermione invece di rispondere, con tono diffidente e anche un tantino collerico.
«Chi sei?» chiese il ragazzo, e ora il suo timbro aveva una nota di curiosità malcelata, meno superba di prima ma pur sempre sospettosa. La Grifondoro si accovacciò sul pavimento sudicio del cubicolo, e abbracciò le gambe, strette contro il petto. Si prese qualche minuto, prima di rispondere, con esitazione: «Perché ti interessa?». Stava solo cercando di prendere tempo, e l’altro probabilmente se ne accorse.
«Vorrei capire perché ti nascondi con tanta cura» spiegò con tono quieto, come se si fosse improvvisamente ammansito.
«Non mi sto nascondendo!» si affrettò a rispondere Hermione, quasi urlando, mettendosi subito sulla difensiva.
«Orgogliosa» disse l’altro in un sogghigno che fece arrossire la ragazza. «Grifondoro o Serpeverde?» domandò con un divertito sarcasmo ben impresso nella voce.
«Corvonero» mentì prontamente Hermione. «E tu?» chiese subito dopo, guardando la porta senza nessun motivo apparente: non era in grado di vedere attraverso i muri, e il sottilissimo spiraglio da cui trapelava la traballante luce delle torce non era abbastanza spesso per permetterle di vedere attraverso. Ciononostante, gli occhi della ragazza rimasero fissi sulla superficie di legno.
«Perché piangevi?» domandò il ragazzo invece di rispondere alla sua domanda, come se non volesse sbilanciarsi o dire troppo di sé. Hermione sentì il rumore dei suoi passi, poi un fruscio e un rumore strisciante, come di qualcosa che veniva sfregato contro la superficie della porta. Probabilmente, il giovane si era appoggiato ad essa e si era lasciato scivolare, sino a trovarsi seduto, con la schiena aderente alla sottile parete di legno che li separava.
«Una sciocchezza» ammise timidamente Hermione, chinando il capo in segno di vergogna e sconfitta.
«Se era una sciocchezza perché sprecare lacrime?» La sua domanda era talmente ingenua e semplice, che la Grifondoro boccheggiò per un attimo, prima di trovare la risposta adatta.
«Perché anche le sciocchezze feriscono» bisbigliò come se quell’ammissione le facesse ancora più male. Il ragazzo sospirò, ma non replicò ulteriormente; sembrava essersi placato, e tutta l’iniziale irritabilità pareva svaporata in una nuvola di buffa e bislacca complicità.
Il silenzio che seguì fu incredibilmente piacevole: adesso, lo stillicidio che rimbombava sulle pareti del bagno era accompagnato e a tratti coperto dal ritmo regolare del loro respiro.
«Tu perché sei qui?» domandò dopo un po’ la Grifondoro, colmando nel momento giusto quel silenzio che si era creato, in modo da non rompere quel delicato equilibrio. Il suo tono era stanco, ma calmo e soffice; un invito a parlare, ma per nulla indiscreto o invasivo.
«Una sciocchezza» rispose, e la giovane ebbe come l’impressione che nella sua voce ci fosse l’impronta di un sorriso. «Ma molto grossa» aggiunse a bassa voce, con una punta di vergogna.
Suo malgrado, Hermione si trovò a sorridere. Era piacevole, stare lì, ad appena un metro da un ragazzo del tutto sconosciuto: era un mistero intrigante, che la Grifondoro non era sicura di voler risolvere. Perché parlare era molto più semplice.
E poi sapere di non essere sola era bello. Anche se dall’altra parte c’era uno sconosciuto, anche se lui si era dimostrato poco socievole, e interessato a lei solo per curiosità, e non per empatia. La testa le pulsava e le doleva, e lei si sentiva incredibilmente stanca, ma non aveva più voglia di piangere. Di tanto in tanto, si rendeva conto di aver persino dimenticato il motivo per cui si era rinchiusa in quel cubicolo. Sarebbe stata contenta anche se quel ragazzo fosse stato Draco Malfoy, semplicemente perché la stava ascoltando e perché si sentiva un po’ meno sola, adesso.
 
Draco aveva la schiena poggiata alla porta del cubicolo, la testa reclinata all’indietro, a contatto con la superficie di legno, e le gambe stese davanti a sé, con i piedi uno sopra l’altro. Respirava piano, e in modo regolare, sereno come non lo era da tanto. Chissà perché, la presenza di quella ragazza al di là della porta lo rassicurava: si sentiva meno solo, anche se per nulla sgravato del peso che da qualche mese lo opprimeva, togliendogli il respiro e la salute. Eppure, in quei pochi minuti passati in quel bagno, era stato tanto preso dalla sorpresa di trovare qualcuno nel suo luogo di meditazione, che aveva completamente dimenticato il resto.
Si recava in quel bagno praticamente dall’inizio della scuola, e non vi aveva mai trovato nessuno dentro. Era la toilette delle femmine, ed era in disuso da quando il Troll di Montagna che era penetrato nella scuola durante il suo primo anno l’aveva distrutto. Nessuno l’aveva mai disturbato, tanto che era diventato un luogo di pace, in cui poteva venire a patti con se stesso, riflettere, dare sfogo a quel groviglio di sentimenti che giornalmente gli ostruiva la bocca dello stomaco. Nessuno l’aveva mai disturbato, almeno fino a quel giorno.
Quando aveva sentito quei singhiozzi, il suo pensiero era corso subito a Mirtilla: era diventata una presenza quasi costante, con quella sua voce stridula e la sua inquietante attrazione per tutte le persone infelici almeno la metà di quanto lei lo fosse. Inizialmente, Draco l’aveva respinta, com’era ovvio che fosse: era sgradevole e ripugnante quasi quanto una Nata Babbana. Magari, quando lo era in vita, lo era anche, una Nata Babbana; ma questo non contava più, dato che dentro di lei – se mai esistesse un dentro, in lei – non c’era più una sola goccia di sangue. Ma Mirtilla si sarebbe palesata subito, perché era sempre contenta di vederlo; perciò, chiunque fosse lì dentro, non era lei.
Per partito preso, non voleva che qualcun altro gli rubasse quel posto: un po’ perché non avrebbe saputo dove andare, un po’ perché aveva davvero bisogno di quell’angolo di pace; un po’ perché era un Purosangue, ed un Malfoy, ed era abituato ad ottenere tutto ciò che voleva, a dare ordini, a vedere eseguiti i suoi desideri subito.
Per questo motivo, al rifiuto di quella ragazza che lo fronteggiava con fierezza, aveva provato rabbia: era stata una giornata pessima, stressante più di quelle precedenti, perché aveva dovuto sopportare, oltre al nervosismo e al terrore quotidiano, l’astio dei suoi compagni di squadra, che ce l’avevano con lui perché aveva dato forfait alla partita contro i Grifondoro, permettendo loro di vincere. Lui aveva cose più importanti da fare, ma questo, naturalmente, non poteva dirlo a nessuno.
Sapere che il suo posto segreto era stato violato da qualcuno lo aveva irritato profondamente, tanto che il suo primo istinto era stato quello di Schiantare l’impudente seduta stante, così da potersi godere in santa pace il silenzio salvifico di quel bagno. Quel bagno squallido, patetico e inutile: se lo ripeteva ogni volta. Come poteva un Purosangue come lui essersi ridotto in quel modo? A scontare le sue pene in uno schifoso e putrido bagno infestato da ratti e fantasmi di adolescenti bizzose?
Era stato per questo, che Draco, alla fine, si era calmato, e aveva consentito a se stesso di accettare quella presenza. Sapere che c’era qualcuno squallido, patetico e inutile quanto lui era una buona iniezione di orgoglio, in un momento in cui ne aveva davvero bisogno.
«Prima hai chiesto di Mirtilla» gli fece notare la ragazza, con una punta di curiosità nella voce, strappandolo alle sue riflessioni. Draco emise un leggero gemito, e strinse le labbra.
«Sì» disse soltanto, arrabbiato con se stesso per essersi lasciato sfuggire quel particolare, che oltre ad essere umiliante poteva anche essere pericoloso.
«La conosci?» domandò la ragazza, che non notò il basso ringhio iracondo con cui lui rispose. «Di solito la evitano tutti. È un po’…» si fermò, esitante, non riuscendo a trovare l’aggettivo adatto a definirla.
«Invadente?» le venne in aiuto lui. La ragazza rise, e Draco non potè fare a meno di notare che aveva una bella risata: era roca e sguaiata, probabilmente a causa delle lacrime di poco prima, però era spontanea, e pertanto piacevole. Non sentiva ridere nessuno in modo così spontaneo da… da mai, più o meno.
«Stavo per dire seccante, ma immagino che anche quell’aggettivo le si addica» acconsentì, ridacchiando ancora. In modo del tutto inconsapevole, Draco si rilassò, e senza rendersene conto, lasciò che le sue labbra si increspassero in un sorriso. Non sapeva come fosse possibile, ma quella presenza, per quanto sconosciuta, cominciava a metterlo di buonumore.
«Persino lei può essere una compagnia accettabile, quando sei solo» sussurrò a bassa voce, più a se stesso che alla ragazza dall’altra parte della porta. Benché la sua intenzione fosse quella di constatare con indifferenza e distacco quella realtà in cui si trovava a vivere, il suo tono risultò impregnato di amarezza. Quando si rese conto di ciò che aveva detto, il Serpeverde strinse le labbra ed emise un lieve gemito di disappunto.
«Perché sei solo?» domandò subito la ragazza. Draco avvertì un fruscio, e dei lievissimi tonfi: sembrava che lei si stesse avvicinando, gattonando lentamente, alla porta. Il ragazzo rimase immobile, leggermente irrigidito; con la coda dell’occhio occhieggiò l’uscio, quasi si aspettasse di vederlo spalancarsi da un momento all’altro. Ma questo non avvenne: probabilmente la Corvonero aveva la stessa voglia di farsi vedere da lui, di quanta lui ne aveva di farsi scoprire da lei.
«Io…» cominciò Draco, senza sapere bene cosa dire, né come spiegarsi.
Io sono un Mangiamorte, ho una missione da portare a termine, e nessuno che mi aiuti. Mio padre è un Mangiamorte, ed è finito ad Azkaban per colpa di Potter e dei suoi amichetti, e ora tutti mi evitano. Ho paura, e forse il Signore Oscuro mi ucciderà. Ucciderà tutti.
Quelle erano i pensieri che gli attraversavano la mente in quel momento, ma per ovvi motivi il Serpeverde non poteva mica pronunciarli ad alta voce. Lei non avrebbe capito. Nessuno avrebbe capito.
«Non importa» disse con asciuttezza, schioccando la lingua all’interno del palato. Il suo tono era tornato alla brusca asprezza di poco prima.
Dietro la porta, la ragazza emise un lungo sospiro, e tacque. Per qualche minuto, gli unici suoni che riempirono quella quiete leggermente tesa, furono il gocciolio continuo del lavandino in fondo alla parete, e il respiro regolare dei due ragazzi.
«Adesso non sei solo» Fu lei a spezzare il silenzio, facendo eco con la sua voce a un fruscio che annunciava un suo invisibile movimento. «Puoi…» Un’esitazione, seguita da un lieve respiro. «Puoi parlare con me, se vuoi. Non che sia molto meglio di Mirtilla Malcontenta, piango almeno quanto lei, a quanto pare…» Fu con una risata amara e leggermente canzonatoria, che quella ragazza lo invitò a parlare. La sua voce era ironica, il suo sarcasmo sottile e leggero, e la sua capacità di autocritica spiccata: decisamente non era una Serpeverde. Sembrava avesse poca stima di sé, e questo la escludeva a priori dalla casa di Salazar.
Per la prima volta da quando era dentro quel bagno, Draco desiderò sapere chi fosse. Non aveva mai conosciuto nessuno così spontaneo, tanto altruista da addossarsi i problemi altrui, nonostante fosse evidente che lei avesse già i propri con cui confrontarsi. L’intima e degradante solitudine di cui si era circondato sino a quel momento svaporò in un istante, nello stesso identico momento in cui la risata della ragazza smise di rimbombare lungo le pareti del luogo. Una leggerezza bislacca ma incredibilmente piacevole prese possesso del suo corpo; sembrava quasi serenità, ed era una sensazione di cui aveva totalmente dimenticato il sapore.
«Allora…» La sua voce risultò odiosamente esitante. Per un istante, il Serpeverde fu tentato di raccontarle tutto e di sfogarsi con lei: aveva la sensazione che lei l’avrebbe ascoltato senza giudicare. Ma rivelare tutto a un’estranea era quanto di più stupido potesse fare; così, dopo essersi schiarito la voce, invece che sputare tutta la sua paura, inghiottì l’amarezza e il terrore, e domandò: «Cos’è la tua sciocchezza?». Dall’altro lato della porta, gli sembrò di udire un gemito. Regnò il silenzio per molto tempo, tanto che Draco aveva già rinunciato ad ottenere una risposta quando lei parlò.
«Un ragazzo» disse lei, spezzando il silenzio con un sussurro intimorito. Il Serpeverde emise una breve e bassa risata di scherno; stranamente, alle sue orecchie suonò più come una risata amara. Invidiosa anche. Gli sarebbe piaciuto trovare il tempo per piangere per una ragazza; le sue lacrime erano spese per ben altro. Stava per rispondere, ma la ragazza lo anticipò. «È patetico, lo so» si affrettò a dire, la voce venata da una nota evidente di imbarazzo. Draco ridacchiò.
«È molto da adolescente» assentì con tono divertito. «Se sei Corvonero devi essere per forza intelligente. Perché piangere per una stupidaggine simile?» considerò, voltando un poco la testa verso la porta, e ricordandosi solo un istante dopo che la superficie di legno li separava, rendendo impossibile qualsiasi contatto visivo.
«Perché oltre ad essere una… Corvonero… sono anche un’adolescente, ed una donna» spiegò la ragazza. Draco non fece caso all’esitazione nella sua voce; era più occupato a registrare la sua risposta, tanto che tralasciò quel particolare importante, forse rivelatore.
«Quanti anni hai?» chiese invece, giocherellando con il polsino della camicia. Quando riuscì a far sgusciare il bottone dall’asola, e i due lembi si aprirono, la coda nero giaietto del serpente tatuato sull’avambraccio lo fece quasi trasalire. Si affrettò a nascondere quella sozzura, ricacciando indietro il groppo che gli chiuse la gola.
«Troppi, per comportarmi così» affermò in un soffio la ragazza. «E tu?» domandò con tono curioso. Draco aveva ancora gli occhi fissi sulla stoffa bianca della manica che gli nascondeva il Marchio Nero, quando rispose.
«Troppo pochi, per questo» disse quasi meccanicamente, senza pensarci troppo. Si pentì un attimo dopo, ma troppo tardi per ritrattare. A differenza sua, infatti, la sconosciuta sembrava molto interessata a ciò che diceva, e non si lasciava sfuggire nemmeno una parola.
«Che intendi?» Sembrava confusa: nella sua voce, Draco poteva intuire la vibrante nota di perplessità che ne accese l’interesse. Il giovane rimase in silenzio per qualche istante, pensando alla risposta che avrebbe dovuto dargli.
«Si tratta della mia sciocchezza» disse lentamente, con esitazione, il volto chino come se si vergognasse profondamente di quell’ammissione. Avrebbe davvero voluto che la sua fosse una sciocchezza; avrebbe voluto dirle che una ragazza l’aveva fatto piangere, disperare, restare sveglio la notte a rigirarsi tra le coperte. Ma non era così, e lui era troppo stanco e confuso per mentire.
«Cioè?» La sua voce era una carezza candida e accogliente. Pigolò la sua perplessità come se avesse paura lei stessa della risposta, e non poteva nemmeno lontanamente immaginare quanta ragione aveva di temerla.
«Devo fare una cosa, ma non sono sicuro di volerlo fare» Contro ogni aspettativa, Draco le disse la verità, pur scegliendo con cura le parole. Nell’istante che intercorse tra la domanda della ragazza e il momento in cui le sue labbra lasciarono uscire quella risposta, il Serpeverde aveva pensato a un centinaio di scuse o possibili sciocchezze da propinarle, ma aveva come la sensazione che, non solo lei avrebbe intuito la sua menzogna, ma si meritasse sincerità, la stessa che lei gli aveva riservato. Non aveva avuto paura dell’umiliazione, e la risata che Draco si era lasciato sfuggire dopo la sua confessione era stata maleducata. Forse voleva semplicemente riscattarsi, dicendogli la verità. Come una sorta di contorta e buffa espiazione. «Credo di non esserne capace» aggiunse in un sussurro appena udibile, tanto basso che fu coperto da un improvviso squittio, che fece sobbalzare entrambi.
 
Hermione aveva come l’impressione che quell’ammissione fosse costata moltissimo al ragazzo. Corrugò la fronte, e con un leggero sorriso sul volto, fece spallucce.
«Perché devi? Se non vuoi farla, non farla e basta» disse, concisa e lineare com’era abituata ad essere.
«Non è così semplice» rispose lentamente il ragazzo. La sua voce era soffocata, come se lui avesse seppellito il volto tra le braccia.
«Allora forse dovresti solo credere un po’ di più in te stesso. Se pensi di poterlo fare, allora riuscirai a farlo» disse con tono incoraggiante. Non aveva la più pallida idea di cosa si trattasse, ma non indagò ulteriormente, anche perché aveva come l’impressione che lo sconosciuto non avesse nessuna intenzione di dirlo proprio a lei.
Da qualche parte nel castello, risuonò la mezzanotte: i rintocchi limpidi della campana risuonarono per le pareti del castello, raggiungendo anche quell’isola di pace lontana che i due ragazzi avevano creato. Un topo squittì spaventato, e sgusciò via dalla sua tana con piccoli passetti inquieti e rapidi. Una tubatura sfrigolò. Un’armatura scricchiolò con un singhiozzo metallico.
Al di là della porta, Hermione avvertì un sospiro, e dei fruscii, seguiti da un tintinnio metallico: sembrava che lo sconosciuto si fosse appena alzato.
«Devo andare» decretò con un lieve sbuffo, come se l’idea non gli piacesse più di tanto.
«Aspetta» La Grifondoro si trattenne dallo scattare in piedi, spalancare la porta e trattenerlo per un polso. Quella richiesta, che suonava quasi come una supplica, gli sfuggì dalle labbra prima che potesse fermarla, prima di poterla anche solo pensare; era semplicemente scivolata fuori in modo spontaneo.
«Se Gazza mi becca fuori a quest’ora, chi lo sente Pito-ah» Il ragazzo si rimangiò quel nome non appena si rese conto di essersi esposto troppo, e di aver rivelato più di quanto volesse. Ma era già troppo tardi, perché Hermione l’aveva colto immediatamente, elaborando quell’informazione e giungendo alla conclusione più ovvia.
«Sei un Serpeverde» non potè esimersi dal commentare. Il cuore le balzò in petto, quando quella verità, dopo essergli sfuggita dalle labbra, si concretizzò nella sua mente. Per un minuto lungo un’eternità, regnò il silenzio, e lei pensò che probabilmente quel ragazzo stava riflettendo sul modo più rapido di eliminarla, senza destare sospetti e senza lasciare tracce. Invece, con sua grande sorpresa, lui emise una breve e bassa risata.
«E tu sei proprio una Corvonero» sancì. Poi, i suoi passi echeggiarono lungo le pareti del bagno, diventando sempre più lontani. Infine, scomparvero del tutto, ed Hermione rimase di nuovo sola. Però, adesso non piangeva più.
Con un lunghissimo e profondo respiro, si rialzò in piedi, facendo leva sulle mani e strofinandole sulla divisa una volta raggiunta la posizione eretta: il pavimento era bagnato e sudicio, e lei, suo malgrado, si ritrovò i palmi sporchi. Spinse la porta del cubicolo in cui si era rifugiata con lentezza; con un cigolio, l’uscio si spalancò. Prima di mettere anche un solo piede fuori, lanciò uno sguardo intorno e, tanto per essere sicura che il ragazzo se ne fosse andato davvero, pronunciò un flebile Incantesimo Rivelatore. Solo quando Hermione si fu assicurata di essere davvero sola, uscì dal suo nascondiglio. Lo specchio di fronte al cubicolo in cui si era rifugiata restituiva l’immagine del suo viso: era pallida, e gli occhi erano ancora un po’ gonfi, ma non c’era più la stessa profonda tristezza di quando era entrata lì dentro. Il pensiero di Ron e Lavanda era così lontano, in quel momento; la ragazza riusciva solo a pensare a quanto fosse stato strano quell’incontro. Era riuscita a parlare con naturalezza, anche se non sapeva l’identità dell’altro; anzi, forse proprio per questo. E ora, benché non potesse fare a meno di domandarsi chi fosse quel ragazzo all’apparenza così umano, aveva il desiderio di ripetere quell’esperienza mantenendo anonime le loro identità.
Una cosa era certa: non era Draco Malfoy. Anzi, Hermione era stata piuttosto sorpresa di scoprire che quel ragazzo era un Serpeverde, perché dal suo comportamento non l’avrebbe mai immaginato. Non era viziato, non era arrogante, se non a tratti; ma persino la superbia talvolta dimostrata era umile e dignitosa. No, quel ragazzo non poteva essere Draco Malfoy, e lei ne era certa. In un certo senso, era rassicurante saperlo.
Hermione mosse un passo verso l’uscita: il suo piede urtò qualcosa di piccolo, che produsse un rumore metallico e tintinnante impattando contro il pavimento. Chinò il capo, e notò una piccola moneta sul suolo, dimenticata nel punto esatto in cui lei si era immaginata il ragazzo. Si piegò e se la rigirò tra le mani, e, con sua grande sorpresa, notò che era un galeone incantato. La Grifondoro corrugò le sopracciglia, incerta: quella era una delle monete che l’anno prima avevano usato per comunicare con gli altri membri dell’ES. Ma se quel ragazzo con cui si era intrattenuta era un Serpeverde, non poteva averne una.
Quella domanda, tuttavia, si perse ben presto nella nebbia del sonno, tra nuvole di dolcezza e serenità che non avevano un volto nitido o delineato. Quella notte, Hermione dormì sonni tranquilli.
 

***

 
Draco camminava velocemente, marciando lungo il corridoio con il mantello della divisa che fluttuava dietro lui. Sfilò velocemente di fronte agli ultimi gruppetti di studenti, che si intrattenevano sin troppo oltre l’orario consentito, e salì a due a due i gradini dell’enorme scalinata d’ingresso. Aveva il volto contratto da una smorfia di rabbia, e respirava pesantemente, borbottando tra sé parole incomprensibili. Tanto era il suo disappunto, che lungo il corridoio diede uno spintone a una minuscola Tassorosso che gli ostruiva il cammino.
«Dieci punti in meno a Tassorosso. I mocciosi a quest’ora dovrebbero essere a letto da un pezzo» sputò acido, e la bambina squittì e poi corse via in lacrime. Draco non provò il minimo rimorso mentre, con un ghigno sul volto, spalancava la porta del bagno del terzo piano, ed entrava all’interno con falcate decise e rumorose.
«Dove si è cacciata quella dannatissima…?» La voce gli morì sulle labbra quando lui udì un leggero pigolio provenire dall’ultimo cubicolo.
«Sei tu?».
Era lei.
Draco riconobbe la sua voce soffice, il timbro incerto, il tono delicato. Gli sembrava quasi di vedere, nella sua mente, le labbra morbide che avevano appena pronunciato quell’unica domanda. Era tornata.
Il ragazzo si bloccò, incerto e confuso, al centro del bagno, distante di qualche metro da quel cubicolo abitato.
«Sei tornata» constatò, boccheggiando incredulo quelle parole.
«Sì» rispose semplicemente lei.
Entrambi tacquero, come se avessero bisogno di un po’ di tempo per abituarsi l’uno alla presenza dell’altro, come se qualche minuto fosse necessario per capire cosa significasse quell’unica sillaba. E poi, non per altro: ma è sempre un qualche meraviglioso silenzio che porge alla vita il minuscolo o enorme boato di ciò che poi diventerà inamovibile ricordo.
Nessuno dei due poteva saperlo, ma quello sarebbe stato l’inizio di uno strano rapporto, fatto di parole e confessioni in punta di piedi, di timide ammissioni e sfoghi impossibili da serbare nel cuore.
Quell’unica affermazione significava così tante cose che loro nemmeno potevano saperlo, e un giorno, guardandosi indietro, forse se ne sarebbero pentiti. Ma adesso, nel silenzio assordante di quel bagno, tra gocce d’acqua capricciose e tubature sinistre e arrabbiate, l’unica cosa che entrambi riuscirono a fare fu tacere. Accogliere nel silenzio tutte le implicite conseguenze di ciò che lei aveva appena detto, di ciò che lui aveva fatto; e trasformarle, modellarle al suono dei loro respiri, al ritmo dei loro battiti – perché solo così sarebbero sopravvissuti.
Hermione si sentiva tradita, ferita da una persona che per anni aveva ritenuto essere solo sua, per un diritto scritto nell’aria, ma mai nei suoi occhi; Draco aveva paura, e viveva la sua solitudine con colpevolezza. Entrambi avevano il cuore instabile, e in quella bislacca complicità avevano trovato il sentiero di una strada che stavano costruendo da soli, come una caccia al tesoro il cui premio finale era tanto prezioso da non poterselo lasciar scappare.
E così, Draco ed Hermione, rimasero zitti; lei nascosta in un cubicolo, lui immobile al centro del bagno. Rimasero zitti, e fermi, a respirare l’uno il silenzio dell’altra, in quel posto squallido su cui mai nessuno avrebbe scommesso sarebbe nata una storia – qualsiasi cosa narrasse, quella storia. Magari sarebbe stata un’avventura, forse un racconto dell’orrore. O forse una fiaba, di quelle che terminano con “e vissero tutti felici e contenti”. Ma rimasero in silenzio, a contemplare la sconcertante scoperta di quanto sia silenzioso, il destino, quando, d’un tratto, esplode.
 
«Ieri hai perso questa» La sua voce era asciutta, non conteneva più quella nota acquosa che il giorno prima l’aveva irrigata; niente più lacrime, niente più tristezza, forse solo una sfumatura di selvaggia, incomprensibile speranza.
A seguito di quelle parole, Draco avvertì il suono metallico di qualcosa che cozzava contro il pavimento, e che veniva trascinato brevemente. Abbassò il capo, e vide, al di sotto della piccola fessura tra la parte inferiore dell’uscio e il pavimento, le sue dita, piccole e sottili, stringere la moneta che il giorno prima aveva perso. Il motivo per cui si trovava in quel bagno, quella sera, era contenuto in quella mano affusolata, che alla luce fioca delle torce sembrava quasi risplendere di luce propria, tanto era bianca e delicata. Mentre allungava il braccio per raccogliere la moneta, il Serpeverde le sfiorò involontariamente la pelle: era morbida e tenera, ma sotto i polpastrelli Draco avvertì un piccolo callo sul medio, segno imperituro lasciato, probabilmente, dalla piuma d’oca. Era una che scriveva molto, a quanto pareva.
«Non è mia» si affrettò a dire, dopo essersi riappropriato della moneta. La ragazza ignorò quelle parole: sapeva che erano una menzogna.
«Facevi parte dell’ES? Ma non è possibile, tu sei Serpeverde. Nessun Serpeverde faceva parte dell’ES» considerò ad alta voce, il timbro soffuso di curiosità. Draco strinse le labbra, mordendosi la lingua e maledicendosi per la sua stupidità.
«Infatti» disse solo, secco e conciso, tornando ad essere brusco ed indisponente. Bastò poco perché anche quell’irritabilità scemasse: quel tono soffice, apparentemente privo di giudizi o critiche, era un invito a denudarsi.
Draco non potè fare a meno di pensare che erano più simili di quanto pensassero. Perché altrimenti non si sarebbero trovati lì, a parlare, senza sapere nulla l’uno dell’altro: né il nome, né il volto, né niente.
«Ma allora come l’hai avuta?» domandò lei perplessa.
Oh, al diavolo; ci sono più di mille studenti, ad Hogwarts, perché dovrebbe capire che sono proprio io?
«L’ho stregata io» affermò con una certa dose di superbia nella voce.
«A che ti serve?» chiese lei, modulando il tono perché non trasparisse la sua accesa curiosità.
«Perché?» Draco non potè fare a meno di risultare sospettoso: la sua diffidenza era evidente, perché pronunciò quella domanda in modo scontroso.
«Curiosità» replicò lei, e sembrava davvero sincera. «Sai, vorrei saperlo se qualche studente ha organizzato un club esclusivo contro… che so, il professor Piton» butto lì con ironia, ridacchiando alla sua stessa battuta. L’angolo della bocca del Serpeverde si arcuò appena in un pallido sorriso.
«Piton non è poi così male» la contraddisse, emettendo anche lui una lieve, bassissima risata. Da qualche parte all’altezza dell’addome, il suo stomaco si contrasse. Cosa lo avesse spinto a pronunciare quelle parole, non lo sapeva nemmeno lui. Piton era stato quanto di più simile a un mentore, durante quell’estate; l’aveva aiutato, gli aveva insegnato un sacco di cose – incantesimi, Occlumanzia, Maledizioni – ma poi era diventato avido, e ora i suoi occhi penetranti non facevano altro che seguirlo ovunque andasse. Voleva rubargli la gloria, era ovvio; ma lui non gliel’avrebbe permesso.
«Lo dici solo perché sei un Serpeverde. Piton detesta tutti gli studenti eccetto i suoi» C’era una leggera sfumatura di divertimento, nella voce della ragazza, adesso, ma nemmeno un pizzico di astio nel suo timbro. Se mai Draco avesse dovuto definirla in qualche modo, l’avrebbe detta leggera, leggera dentro.
«Piton detesta solo quei palloni gonfiati dei Grifondoro. Potter e i suoi amichetti in primis» Senza che lo volesse, il Serpeverde aveva intriso quelle parole di rancore e avversione. Se ne accorse solo quando il silenzio tra loro si fece pesante, come se un’improvvisa cappa di imbarazzo fosse calata tra i due. Lo folgorò il vago presentimento che lei potesse conoscere Potter o qualcuno dei suoi amici; magari, era addirittura legata a loro. Non aveva forse parlato dell’ES, prima?
Per Merlino, non sarà Lunatica?
«Allora, a cosa ti serve quella moneta?» Dopo qualche minuto di pausa, la ragazza tornò all’attacco; ma adesso il suo tono conteneva una nota di stanca distanza.
«Per comunicare» rivelò allora Draco, che non voleva perdere l’unica compagnia degli ultimi mesi, e che riteneva che parlare sarebbe stato un modo di ammorbidirla e impedirle di andarsene.
«Questo è evidente. Ma con chi?» chiese con pacatezza.
«Con qualcuno che è fuori da Hogwarts» ribattè il giovane Serpeverde, che evidentemente non aveva troppa voglia di discutere proprio di quell’argomento. Era un anello fondamentale del suo piano, e se qualcuno lo avesse scoperto questo si sarebbe potuto ritorcere contro di lui. Involontariamente, Draco rabbrividì al solo pensiero del fallimento, ma imputò la colpa alla rigida temperatura di ottobre, e agli spifferi che si insinuavano tra le fessure dei muri, sfiorandogli la pelle con le loro gelide dita. Ma il freddo che sentiva lui, era molto più interno. Eppure, stranamente, per qualche motivo che lui non riusciva a intuire, in quel preciso istante si sentì più al sicuro di quanto non fosse mai stato.
«Non potresti usare i gufi?» considerò la ragazza, la perplessità ben evidente nella voce.
«I gufi vengono controllati» replicò laconico Draco, emettendo un lieve sospiro.
«Cos’hai da nascondere?» chiese allora lei, cambiando posizione e appoggiando il volto alla superficie della porta. La sua voce ora sembrava appena più vicina, quasi capace di toccare il cuore.
«Non sapevo che una delle caratteristiche dei Corvonero fosse la curiosità» disse il Serpeverde, sulla difensiva, cercando di evitare quella domanda senza sembrare che lo stesse facendo in modo volontario. La ragazza non rispose, ma lui ebbe come l’impressione che stesse sorridendo, senza una ragione ben precisa.
«L’hai persa proprio a mezzanotte, quella moneta. Non è buffo?» Il silenzio venne riempito dal tintinnio brillante della voce della ragazza, apparentemente divertita da quella che riteneva una curiosa coincidenza. Ma Draco non riusciva a comprendere l’oscuro e contorto collegamento che lei aveva fatto nella sua testa, perciò, aggrottando le sopracciglia, chiese: «Cosa c’è di buffo?».
«Non hai mai sentito parlare di Cenerentola?» ribatté la ragazza, abbandonando il tono leggero e divertito di poco prima, in favore di uno più perplesso e a tratti consapevole. «Certo che no, tu sei un Serpeverde, e quindi un Purosangue» disse con una nota di esasperazione nella voce.
Draco trasalì, e, seppur involontariamente e in modo inconsapevole, si allontanò un poco dalla porta.
«Tu… tu non lo sei?» domandò con tono fortemente esitante, lanciando un’occhiata nervosa all’uscio.
«Serpeverde o Purosangue?» replicò lei in risposta. Benché il suo tono fosse volutamente sarcastico e retorico, il Serpeverde rispose.
«La seconda» affermò, la voce ancora tentennante e incerta. Ci fu un attimo di pausa, durante la quale Draco si immaginò quella ragazza, gli incisivi a tormentare il labbro inferiore nel contemplare l’ardua difficoltà del decidere cosa dire.
«No» pronunciò in un soffio esasperato alla fine. Quell’unica sillaba aveva poco della leggerezza con cui lei soleva parlare; sembrava che quell’ammissione le fosse costata davvero cara, ma non per il peso del significato in sé, quanto piuttosto per un implicito ragionamento che li vedeva separati alla luce di quelle differenze. Aveva cercato di mascherare il suo improvviso disagio, ma lo aveva fatto tanto goffaggine e disattenzione che non ci era riuscita.
Draco non aveva nemmeno preso in considerazione l’idea che quella ragazza non potesse essere come lui; se così fosse stato, se avesse anche solo immaginato che lei potesse essere Mezzosangue o, peggio, Nata Babbana, non si sarebbe trattenuto un solo istante a parlare. Invece stava cominciando ad aprire il suo cuore a un essere chiaramente inferiore, e non solo lui non aveva notato alcuna sostanziale differenza, ma aveva addirittura trovato piacevole la sua compagnia.
«Oh» disse, senza riuscire a modulare o nascondere la delusione nella sua voce. Tuttavia, non si mosse dal suo posto. Sembrava che le sue gambe si stessero rifiutando di ascoltare gli ordini impartiti dal cervello, da quella parte razionale di sé che gli suggeriva di andar via e di non mischiarsi con certa plebaglia. L’altra parte di sé, però, quella più vicina al petto, continuava  a ripetere che se un fantasma era una compagnia accettabile, allora poteva esserlo anche una Mezzosangue.
«Deluso?» domandò la ragazza, con un tono che lasciava trasparire una certa ansia. Draco sospirò.
«Un po’» ammise sinceramente, non riuscendo a trovare nient’altro da dire se non la verità – cosa già di per sé strana, per lui, abituato a mentire, ingannare, raggirare. Quasi si pentì di averlo fatto, perché per qualche minuto, la ragazza non disse niente, come se stesse riflettendo sul peso di quella scomoda sincerità. Dopo un po’, però, il Serpeverde avvertì fruscii leggeri e appena udibili, seguiti subito dopo dalla sua voce candida, priva di critica ma colma di una saggezza che non era ostentata.
«Vedi qualche differenza?». Draco corrugò la fronte, e voltò il capo verso la porta: solo allora si accorse che lei aveva spinto il suo indice al di sotto della fessura tra la porta e il pavimento. Sul suo polpastrello brillava una minuscola goccia di sangue.
Il giovane si trattenne dallo scoppiare a ridere: quell’ingenuità, per quanto dolcissima, non riuscì a intaccare le sue convinzioni.
«Sono differenze che non si possono notare» spiegò con superbia, il tono algido e pungente. Lei sospirò, rassegnata.
«Darei tutto quello che ho per capire il motivo per il quale voi Purosangue vi ritenete tanto superiori. Cos’avete in più, rispetto agli altri maghi?» domandò con una sfumatura di esasperazione nella voce. Il suo timbro, per quanto morbido, conteneva una nota di orgoglio difficile da soffocare, e una fierezza che la rendeva quasi simile a una regina. Per un attimo, Draco vacillò; l’istante dopo era tornato in sé.
«Generazioni di sangue puro alle spalle» rispose con albagia e sicurezza.
«E con questo?» replicò lei, con tutta la disarmante semplicità di cui era dotata.
Il giovane aprì la bocca per rispondere, ma non trovò nulla da dire. Già, e con questo? Aveva il sangue puro, e allora? Questo lo rendeva più furbo, più intelligente? Per un istante, dubitò delle sue certezze; e lo fece in un momento in cui ogni sua sicurezza stava franando sotto i colpi implacabili della paura. Cosa significava il suo nome, se non un peso troppo grande da gestire? Cosa significava il suo sangue, se non ideali che non era più sicuro di voler seguire?
Un ricordo si affacciò alla sua mente, antica memoria seppellita tra le nebbie di ideali che avevano radici troppo profonde per poter essere estirpati; così, Draco semplicemente lasciò che quelle immagini si avvicendassero confusamente nella sua testa, per poi soffocarle alla minima avvisaglia di cambiamento.
«Facciamo così» propose, la voce che da esitante si faceva via via più sicura di sé, quasi altera «Tu non cerchi di convincermi delle tue stupide teorie sull’equità, e io non me ne vado» concluse soddisfatto, schioccando la lingua sul palato.
«Molto diplomatico» Nonostante queste parole, e sebbene il tono fosse venato da una sfumatura di rimprovero, la ragazza rise. «Cos’è, una minaccia?» lo provocò, ma nella sua voce c’era il sorriso di chi sapeva che quella era solo la tregua di un vinto.
«Chiamiamolo compromesso» la corresse lui tronfio, volutamente altero, come a volersi risollevare dopo quella breve caduta indolore. Draco si sorprese nel constatare che nonostante lui avesse perso quel breve confronto verbale, lei non sembrava volerlo deridere, né affermare la sua superiorità. Era solo contenta perché era riuscita, almeno un po’, almeno per un attimo, a fargli vedere il suo personale punto di vista. E lui non ne era rimasto scottato, né ferito.
 
«Di solito i compromessi portano vantaggi per entrambe le parti» gli fece notare Hermione, la voce saccente ma ironica.
«Bè, tu sei sola, no?» Sfacciato, con la lingua biforcuta, senza il minimo scrupolo per i sentimenti altrui: quello era un Serpeverde, senza ombra di dubbio. Aveva pronunciato quelle parole come se la sua schiettezza non fosse in grado di ferirla; e lei si rese conto, con sua grande sorpresa, che in effetti quelle parole non l’avevano scalfita più di tanto.
Benché quella fosse una domanda, la sua voce trasudava sicurezza. Era retorica, dolorosa come un coltello in pieno petto, e nulla poteva essere più lontano dalla realtà di quell’unica parola – sola.
Cosa significava essere sola? Hermione avrebbe potuto giurare, solo pochi giorni prima, che non sarebbe mai stata sola: c’erano Harry e Ron con lei, c’erano Ginny e Neville, persino la presenza di Luna era diventata rassicurante, alla luce dell’affetto e delle avventure che le avevano legate – per quanto non approvasse affatto certe sue strambe teorie. E lei era certa che la loro amicizia sarebbe durata per sempre. Ma da quando nei suoi occhi era entrata l’immagine di quel bacio – Ron e Lavanda, avvinghiati con quel furore con cui lei, solo lei, avrebbe avuto il diritto di baciarlo – aveva cominciato a circolare nel suo corpo una strana sostanza sino a quel momento sconosciuta. Un veleno che aveva intossicato ogni rapporto.
Hermione non avrebbe saputo definirla: che fosse invidia nei confronti di Lavanda, gelosia nei confronti di Ron, delusione nei confronti di Harry o Ginny, che non c’erano stati al momento giusto perché troppo occupati a scoprire i loro, di sentimenti, lei si era ritrovata, improvvisamente, sola. Non nel senso proprio del termine: i suoi amici le erano sempre accanto, ma per quanto si sforzasse di essere naturale, Hermione sentiva tra di loro una distanza difficile da colmare, come se molta della loro antica complicità fosse andata perduta, sgretolata sotto i colpi di una chiusura che la Grifondoro si era autoimposta.
Quell’intimità che sino a quel momento aveva condiviso con Harry e Ron, e negli ultimi anni anche con Ginny, era convinta di non poterla ritrovare da nessuna parte, perché per legare delle persone in modo così indissolubile e inevitabile ci vogliono un caleidoscopio di sentimenti ed esperienze condivise impossibili da rintracciare altrove, o da vivere di nuovo. E invece, con sua grande sorpresa, si era resa conto che bastava avere poco in comune persino con uno sconosciuto, per ritrovare la serenità: solitudine, fragilità, un motivo per cui piangere.
In quel momento, così come la sera prima, Hermione si rese conto che quel privato angolo di vita che quei due, pur senza conoscersi, si erano ritagliati nel tessuto del tempo, sarebbe stato un universo privatissimo dedicato a loro due soltanto. L’idea la attraeva e rassicurava al tempo stesso, perché lei, ancora giovane, era senz’altro affascinata dalle assurde coincidenze che legano l’animo umano.
In quel momento, entrambi avevano bisogno di qualcuno con cui parlare, solo di questo: qualcuno a cui raccontare tutte le emozioni frastagliate e contrastanti dell’adolescenza, una spalla su cui piangere, un pensiero a cui appigliarsi per non precipitare giù. Un rifugio sicuro a cui far ritorno la sera, dopo il temporale.
Il dolore dovuto alla consapevolezza di aver perso qualcosa – un legame, un’emozione – venne rapidamente colmato e assorbito da quella nuova sensazione di completezza e rassicurazione.
«Non è che tu abbia poi tanta compagnia…» rispose lei, sulla difensiva, consapevole che quella era la verità. Perché altrimenti nessuno dei due sarebbe stato lì, in quel bagno squallido che odorava di fogna, con la sola compagnia di loro stessi.
 
«Allora… chi era questa Polvedella?» domandò Draco, tanto per sviare l’argomento e lasciar scivolare tra le pieghe del tempo e di altre parole quella contrapposizione che era nata tra loro.
«Cenerentola» lo corresse lei, ridendo. Trasse un lungo e profondo respiro, come se si stesse preparando a narrare una lunghissima storia, poi riprese: «Era una sguattera che un bel giorno ha avuto la fortuna di incontrare un principe che le ha fatto conoscere l’amore». Il Serpeverde arricciò il naso, sinceramente disgustato da tutto quel buonismo.
«Patetico» affermò in tutta sicurezza, il disprezzo ben evidente nella voce. «Non dirmi che vorresti anche tu un principe, è un cliché schifosamente svenevole e melenso» Il suo timbro era di nuovo acceso da una sfumatura di collera che lo rendeva riottoso, quasi propenso a una sfida. Ma lei non parve colpita da quell’atteggiamento.
«È quello che sognano tutte le donne, no?» constatò con semplicità, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Diventare principesse?» intuì lui, traendo le sue – errate – conclusioni. Lei emise une leggera risata, che rimbalzò per qualche istante tra le pareti del bagno, coprendo il suono agonizzante della morte di una goccia particolarmente bisognosa d’attenzioni.
«Qualcuno che le salvi» lo corresse con il tono consapevole e un po’ saccente di chi sa già che avrebbe dovuto spiegare le sue parole. Ma Draco era troppo occupato a riflettere sulla risposta per notare la curiosa inflessione della sua voce, un po’ stanca e un po’ malinconica.
«Non solo le donne» ribadì il Serpeverde, contraddicendola, con enorme sorpresa di entrambi.
 
Hermione si mosse irrequieta, appiattendosi contro la porta, come se non volesse perdersi un solo attimo di quell’improvvisa voglia di confessione.
«Da cosa vuoi essere salvato?» domandò, sperando che il suo tono non risultasse troppo invadente. Passarono lunghi di minuti di silenzio, durante il quale lei immaginò che il ragazzo stesse calcolando dentro di sé quanto era disposto a concederle, senza per questo esporsi troppo. La Grifondoro aveva già rinunciato a una risposta, quando il sussurro flebile e incerto dello sconosciuto la raggiunse, attutito dallo spessore del legno fradicio.
«Da mio padre» soffiò via quella confessione come se fosse impaurito anche solo a pronunciare un’eresia del genere, con un reverenziale timore nella voce, che però conteneva anche una certa dose di astio rancoroso, e la sicurezza impossibile di chi scopre per la prima volta di essere capace di far qualcosa in cui non pensava di riuscire.
Hermione assorbì ogni sfumatura di quella tonalità, facendola sua; poi, con la voce tremante, per paura riflessa, e lieve come una carezza a un bambino in una notte di temporale, chiese: «Cos’ha tuo padre di tanto terribile?».
Seguì altro silenzio. Un silenzio più lungo degli altri, ma in qualche modo meno teso. Tra di loro scorrevano pensieri impalpabili e nebulosi; in quel bagno colmo di rumori gocciolanti e squittii sinistri, si era creato qualcosa di più del semplice scambio d’informazioni reciproco. Non era più un gioco, quello. Forse era nato come tale – scopriamo qualcosa di più di questo sconosciuto, giochiamo a Indovina-chi – ma poi si era trasformato in altro, nello spazio di un minuto. Forse era successo prima di quel preciso momento, forse era semplicemente destino che fosse così; forse le lacrime di Hermione avevano impietosito quel ragazzo al pari di come la solitudine di lui aveva destato la sua compassione. Magari era solo un errore del caso, quello che li aveva condotti entrambi lì; ma l’estraneità con cui si erano accolti era svaporata ben presto tra parole e pensieri che si erano trovati in fondo simili, discordanti in modo così armonioso da uscirne indissolubilmente legati. Non conoscevano nulla l’uno dell’altra, nemmeno i loro volti; forse proprio per questo era così facile parlare. Un viso senza lineamenti non ha occhi per giudicare, né labbra per criticare, e quello era forse l’aspetto più piacevole del loro strano rapporto.
«Vivo sotto la sua ombra»cominciò il ragazzo, la voce un mormorio appena percettibile, al di sotto dello sfrigolare ticchettante delle tubature. «Mi ha costretto fin da quando ero piccolo a seguire le sue orme, senza darmi possibilità di scelta. Se lui diceva che dovevo comportarmi bene, io mi comportavo bene. Se mi diceva che non dovevo provare pena per i Mezzosangue, io non provavo pena per loro. Se mi diceva di…» La voce gli morì in gola prima che si potesse fermare, e tutto ciò che gli uscì dalle labbra fu un singulto di paura, strozzato ancor prima di poter raggiungere la gola.
 
Draco si afferrò l’avambraccio sinistro con la mano destra, e lo strinse forte, sino a quando le nocche non diventarono bianche: sentiva dolore, ma non sapeva se era il Marchio Nero in sé che doleva perché il Signore Oscuro si divertiva a far soffrire i suoi seguaci, oppure se era lui che stava serrando la presa così intensamente da ferirsi. Il peso di quella confessione piombò sulle sue spalle in modo così improvviso e doloroso, che il giovane boccheggiò, vinto dalla spiacevole sensazione che lei avrebbe capito tutto e sarebbe corso a denunciarlo.
Se mi diceva di ricevere il Marchio Nero, io lo facevo. Io l’ho fatto.
«Non voglio diventare principessa, se questo significa non accettare la diversità» dichiarò la ragazza, di punto in bianco.
Draco corrugò la fronte, e batté le palpebre un paio di volte, cercando di mettere a fuoco quella macchia di umidità sotto il lavandino che aveva di fronte. In un primo momento, non riuscì a intuire il motivo di quell’affermazione. Subito dopo, però, si ricordò di aver taciuto troppo a lungo; e allora lei aveva riempito il suo silenzio. Un po’ per timore che lui se ne andasse per la vergogna di essersi mostrato così debole, un po’ per ricucire e sanare la ferita che lui aveva aperto, seppur involontariamente, parlando di cose che faticava ad accettare e che pertanto non riuscivano ancora a prender forma in parole, lei gettò tra di loro la prima cosa che le venne in mente. Che però era ancora una volta una provocazione.
Era furba, quella Corvonero, pensò Draco, non riuscendo a trattenere un sorriso. Lo distraeva con discorsi in cui sapeva che lui sarebbe stato al sicuro. Forte.
«Non diresti così se fossi nata Purosangue» obiettò il Serpeverde, con un ghigno sarcastico e altezzoso sul volto bianco.
«Sono fiera delle mie origini» ribatté la ragazza, e nella sua voce era intrisa tutta la fierezza di una donna che non poteva essere domata.
«Io, se fossi nato Mezzosangue, penso che mi sarei ucciso per la vergogna» affermò Draco, arricciando il naso alla sola idea. Annuì un paio di volte, per dare a se stesso conferma delle sue stesse parole, e per imprimersi quel concetto bene in mente. Perché quella Corvonero, per quanto fosse una compagnia accettabile, stava un po’ facendo vacillare le sue convinzioni; solo un pochino, è ovvio, ma in un momento in cui davvero non se lo poteva permettere.
«Impari ad amare quello che hai» osservò con voce stanca. Il Serpeverde tacque un attimo, prima di rispondere.
«Allora forse dovresti smetterla di amare quel ragazzo che ti fa piangere, no?» disse con ovvietà.
 
La sottointesa implicazione di quelle parole fiorì nella mente di Hermione come un fuoco d’artificio in una notte buia e priva di stelle. Ci fu una lunga pausa di silenzio, durante la quale lei fu certa di aver sentito distintamente il cuore del ragazzo, immobile al di là della porta, che accelerava i battiti, come se avesse intuito la crudele verità che si era lasciato sfuggire, e temesse che lei fuggisse per non tornare più. Invece, Hermione rimase. Boccheggiò per qualche istante, annaspando alla ricerca d’aria, mentre quelle parole, tanto reali da far male, riecheggiavano nella sua mente. Nella sua semplice ovvietà, quella sincerità fu in grado di aprirle gli occhi e farla anche sorridere per la sua infantile stupidità. C’era ancora il dolore impresso in quegli occhi, vivido e lucente al di sotto delle ciglia brune, quando lei parlò.
«Sei un po’ stronzo, te l’hanno mai detto?» gli fece notare, e nella sua voce c’era un sorriso, amaro e appena accennato, ma sincero.
«Un sacco di volte» Lui scoppiò a ridere, dopo aver pronunciato quelle parole, con una sincerità disarmante e per questo bellissima. Anche la sua risata era bellissima, ed Hermione, per un attimo, desiderò aprire la porta e gettargli le braccia al collo. Quel pensiero svaporò nella sua mente un istante dopo. Scosse il capo, e corrugò la fronte, folgorata dalla stupidità di quell’idea: la magia stava proprio nel non conoscersi, e nello scoprirsi così, lentamente, parola dopo parola.
«Cosa c’entra la moneta a mezzanotte?» domandò lui dopo un po’, come per alleggerire l’atmosfera e farsi perdonare di quella mancanza di tatto poco prima dimostrata.
Hermione si prese un po’ di tempo prima di rispondere: scelse con cura le parole, e poi, come una madre premurosa, gli raccontò la prima favola che ogni bambina ascolta prima di andare a dormire, quella che la fregherà per tutta la vita, intrappolandola in un sogno che non si avvererà mai, con ogni probabilità.
«Cenerentola chiede alla sua fata madrina di andare al ballo organizzato dal principe…» cominciò, ma fu interrotta dalla voce petulante del ragazzo, bambino curioso e anche un po’ scettico.
«Cos’è una fata madrina?»chiese con voce evidentemente perplessa. Hermione ridacchiò.
«Una specie di strega» rispose con naturalezza, paziente come solo una madre poteva essere. Aprì la bocca per continuare a narrare la storia di Cenerentola, ma lui intervenne di nuovo.
«Deve per forza chiedere a questa strega? Non può andarci e basta?»domandò, come se gli sfuggisse un passaggio fondamentale.
«Senti da che pulpito»ribattè la Grifondoro, e nonostante le sue parole il tono non era derisorio o sarcastico. «Ti ricordo che Cenerentola è una sguattera: non ha niente. Così la fata madrina usa la magia per procurarle un vestito, una carrozza e delle scarpette di cristallo…»
«Le streghe non possono usare la magia davanti ai Babbani, figuriamoci per i Babbani… questa fata madrina dovrebbe essere denunciata all’Ufficio per l’Uso Improprio delle Arti Magiche!»si lamentò lui, la voce impregnata di tutto il gelido disgusto di cui era capace.
«Serpeverde fino in fondo»lo prese in giro Hermione, ma con dolcezza. «È solo una favola» gli ricordò, ridendo con naturalezza e spontaneità. Lui tacque, probabilmente infastidito e colpito al tempo stesso dalla verità. Respirava profondamente, come se stesse cercando di venire a patti con quella strana, distante realtà che erano le fiabe che lei narrava.
Forse loro stessi erano una favola.
«Continua…»la invitò con una nota di vaga arrendevolezza nella voce. Hermione si concesse un sorriso, prima di proseguire.
«La fata madrina, però, avverte Cenerentola che l’incanto sarebbe durato solo fino a mezzanotte» Per l’ennesima volta, il ragazzo la interruppe.
«Perché?» chiese con titubanza. La Grifondoro non ebbe bisogno di tempo per riflettere sulla risposta.
«Per ricordarle che tutte le cose belle, prima o poi, finiscono» disse con un po’ di amarezza nella voce. Qualcosa in fondo al suo stomaco si aggrovigliò, per poi distendersi nell’udire il ghigno divertito del giovane Serpeverde.
«Crudele, questa fata madrina»commentò lui con sarcasmo, senza che dalla sua voce trasparisse nient’altro che approvazione. Ma per qualche strano motivo, Hermione era certa che fossero ben altri i suoi pensieri.
«Solo molto realista»ribatté lei serenamente. Allungò le gambe davanti a sé, e cominciò a giocare con un ricciolo crespo, mentre la voce del ragazzo nuovamente la raggiungeva.
«Cosa succede poi? Cetenellira si ritrova vestita di stracci davanti al principe?»domandò lui, che evidentemente cominciava ad apprezzare quella storia.
«No. Balla con lui tutta la notte. Poi, al primo rintocco della mezzanotte, scappa. Ma nella fuga perde una delle sue scarpine di cristallo. È grazie a quella che il principe la ritrova»conclude dolcemente, il timbro soffice e delicato.
«Non dirmi che la prova a tutte le ragazze del mondo»Il ragazzo ridacchiò, la voce venata di scetticismo e il dubbio a sfumargli il tono.
«Solo a tutte quelle del suo regno»lo contraddisse Hermione ridendo con leggerezza, e trovando la cosa, in effetti, piuttosto ardua da credere o realizzare. Ma era una favola, e come tutte le favole non rispecchiava la realtà.
Il Serpeverde tacque per qualche momento, e quando poi parlò, la sua voce era tornata seria, modulata in modo che nessuna emozione trasparisse da essa.
«Forse avresti dovuto chiedere a tutta la scuola se qualcuno aveva perso una moneta stregata. Magari mi avresti trovato»Non c’era traccia di ironia in quelle parole, per cui Hermione si fece più attenta. Raddrizzò le spalle, lasciò che il ricciolo con cui stava giocando rimbalzasse sulle sue gote delicate e tornasse dai suoi ribelli compagni, si appiattì contro la porta e rispose: «Chi ti dice che io voglia trovarti?».
 
Draco si mosse irrequieto, cercando di trovare una posizione più comoda: improvvisamente, quel freddo pavimento di marmo, umido, marcio e putrido, gli sembrò quanto di più scomodo potesse esserci. Eppure mentre lei gli raccontava quella stramba favola irreale, non aveva nessun tipo di problema: la schiena era poggiata sulla superficie morbida del legno, le natiche agiatamente accomodate sul suolo, le gambe distese davanti a sè. Adesso la porta era diventata spigolosa, il pavimento troppo freddo e le gambe cominciavano a dolergli.
«Non saresti qui altrimenti, no?»disse, tentando di apparire sicuro di sé; tuttavia, nella sua voce v’era solo un’ombra di incertezza, forse persino la sfumatura lontana e irraggiungibile di un timore impossibile da raccontare ad alta voce.
Per qualche minuto lei non rispose. Regnò il silenzio, e il Serpeverde si trovò a domandarsi cosa mai stesse pensando o facendo quella ragazza al di là della porta che li divideva; si rese conto che stava trattenendo il respiro solamente quando lei parlò.
«Sono qui perché mi piace parlare con te»rispose con sincerità. Draco avrebbe voluto chiedergli cos’è che le piacesse tanto, che gusto ci fosse nel parlare con qualcuno senza poterlo vedere, senza poter osservare le sue espressioni, perché lui stava già fremendo dal desiderio di conoscere la proprietaria di quella voce delicata, di quelle parole sagge, di quelle storie irreali ma forse proprio per questo autentiche. Invece non disse niente di tutto ciò, perché in fondo la risposta già la sapeva: lui non aveva mai aperto il suo cuore a nessuno, ma discutere con lei era semplice, era vero, era giusto, in qualche strano modo, e per qualche contorto motivo. Era bello.
«Non sei curiosa di scoprire chi sono?»domandò quindi, osservando con la coda dell’occhio la superficie lignea che li divideva, quasi sperasse di vederci attraverso.
«Tu lo sei?»rispose lei, la voce flebile e tremante. Forse temeva che lui avrebbe sfondato la porta da un momento all’altro, perché non sapeva che, per quanto curioso, Draco teneva a quell’anonimato molto più di lei.
«Un po’ sì»ammise lui con incredibile e inaspettata sincerità. La ragazza rise, di una risata leggera e divertita che echeggiò per le pareti del bagno anche dopo che lei ebbe finito di dire: «Un po’ di meno ora che sai che sono una Nata Babbana».
Il sorriso che era nato sulle labbra di Draco nel sentire quell’esternazione di serenità sparì nel momento in cui quelle parole scivolarono fuori dalle labbra della ragazza. Il Serpeverde rimase un attimo attonito, a contemplare la stranezza della sua sensazione, quel sentirle dire quella definizione che per anni era stato motivo di denigrazione e risate, e che ora, invece, per una ragione che gli sfuggiva, non era altro che una notizia in più su di lei.
Con estrema sorpresa, Draco si rese conto che non gli importava. Giustificò quel comportamento con se stesso pensando che la solitudine fa brutti scherzi, e che il silenzio di cui si era nutrito fino alla notte precedente, quando lei l’aveva spezzato, interrotto e poi riempito con parole dolci e incoraggiamenti luccicanti, era l’unico colpevole di quell’improvviso cambio di prospettiva. Non è che avesse definitivamente accettato i Mezzosangue; era più che altro una sorta di compromesso con se stesso: accettare la diversità pur di non stare da solo. L’uomo è un animale sociale, ed ha bisogno tanto di attenzioni quanto di gratificazioni.
«Nata Babbana. Dio, se lo sapesse mio padre»disse scuotendo il capo. Non c’era traccia di disgusto nella sua voce, né di derisione o sarcasmo; sembrava più una mera constatazione.
 
«Non devi fare tutto quello che dice lui, sai?»Dalle labbra di Hermione sfuggì una vaga nota di disapprovazione che il ragazzo non tardò a riconoscere.
«Tu non lo conosci»replicò, emettendo un lieve sbuffo di impazienza.
«No, è vero»acconsentì la Grifondoro. Piegò le gambe, e le abbracciò con le mani, stringendosele al petto come se sentisse bisogno di calore, o affetto; poggiò il mento sulle ginocchia, perciò quando parlò la sua voce era un po’ falsata, ma pur sempre delicata e sincera. «Ma un padre dovrebbe volere solo il bene di suo figlio» gli ricordò. Si morse il labbro un attimo dopo, pentendosi delle sue parole, perché le venne in mente che, in fondo, non tutti i padri provano quell’amore cieco che tante volte si da per scontato ma che invece tale non è.
«Dovrebbe, infatti»E lui, come leggendole nel pensiero, tramutò in parole il suo timore. Hermione emise un rumoroso sospiro di dispiacere.
«Tua madre non si oppone a questo?»chiese, sperando di potersi appigliare a quell’unica speranza per risollevare il morale del giovane, il cui tono era diventato tetro e malinconico.
«Mia madre è troppo debole per opporsi»dichiarò, la voce un basso ringhio di fastidio. La Grifondoro tacque per qualche istante, per consentirgli di aggiungere altro o venire a patti con la verità appena pronunciata; poi, disse: «Allora dovresti opporti tu». Pronunciò quell’affermazione lentamente, per concedere al Serpeverde il tempo di metabolizzare e capire cosa lei volesse dire. Non aggiunse altro, ma rimase con l’orecchio teso per captare qualsiasi suono o rumore proveniente dall’esterno.
«Sogno di farlo da quando ho undici anni»Il sussurro del ragazzo fu talmente flebile, da essere a tratti coperto dal tamburellare dei piccoli artigli di qualche abitante delle tubature.
«Questo è il problema di molta gente: sogna quello che vorrebbe fare invece di farlo davvero» disse Hermione in un sospiro rassegnato. Inevitabilmente, i suoi pensieri volarono verso Ron, verso quel bacio che avrebbe dovuto dargli, ma che invece non avrebbe mai potuto concedergli, perché qualcun altro aveva avverato il sogno della ragazza al posto suo.
«Tu non conosci mio padre. Lui… infrange qualsiasi sogno prima ancora di poterlo anche solo pensare» Il ragazzo, ignaro dei pensieri di Hermione e dell’improvvisa morsa al cuore che le aveva stritolato il muscolo cardiaco in un’implacabile stretta tanto dolorosa da farle mancare il fiato, emise una risata amara, priva di gioia, prima di lasciar intercorrere lo spazio muto di un minuto, tra di loro.
 
Un’immagine, fulminante e avvolta dalle nebbie del tempo, riaffiorò nella mente di Draco. Aveva i contorni nebulosi e poco nitidi di un ricordo a lungo soffocato, ma dolcissimo. Senza un motivo preciso, in un sussurro e con voce sognante, il ragazzo prese a raccontare la sua, di favola.
«Sai, quando ero piccolo, una volta, mi sono messo a giocare con un elfo domestico. È stato…»fece una breve pausa, pescando tra le memorie quella sensazione a cui non sapeva dare un nome «Credo sia stato divertente. Dolce, in qualche strano modo»ammise, un sorriso ad arcuargli le labbra. Il Draco bambino della sua infanzia gli velò per un attimo lo sguardo: gli occhi erano vacui, lontani, perduti in una dimensione che non apparteneva a quella dei presenti, e forse nemmeno a quella dei vivi; il Draco di quegli istanti nel bagno non era uguale a quello che era entrato all’inizio della serata, e non sarebbe stato uguale a quello che di lì sarebbe uscito. Il ragazzo che in quel momento narrava quei ricordi, ritrovando la dolcezza di un miele a lungo negato e conservato tra le memorie più belle, non era un Serpeverde, non era un Purosangue e men che meno era un Malfoy. Non era nemmeno un Mangiamorte, non era solo, e non aveva una missione suicida sulle spalle. «Quando mio padre mi ha visto è andato su tutte le furie»Il tono si affievolì ancora, divenne un tetro e malinconico sussurro, doloroso persino «Ha detto che non avrei dovuto comportarmi in quel modo, che gli elfi domestici sono feccia, immeritevoli di stare in questo mondo, figuriamoci di farci compagnia. Disse che sono utili solo a servirci, e spesso nemmeno quello. Io non riuscivo a crederci, perché quell’elfo mi aveva trattato bene; aveva giocato con me, e quando mi ero sbucciato un ginocchio cadendo, mi aveva anche curato con la magia»Si fermò, cercando di ingoiare il dolore che gli aveva chiuso la gola, all’improvviso. Quella che lui le stava raccontando era una favola che aveva il sapore amaro delle medicine date con la forza; più un incubo, che la fiaba antica e imperitura dalla morale sempre attuale.
La ragazza aveva ascoltato in silenzio, con il fiato sospeso, ma a quel silenzio non potè impedirsi di parlare.
«L’hai spiegato a tuo padre?»domandò in un sussurro fievole quanto quello del Serpeverde, probabilmente per timore di rompere quel delicato equilibrio; o forse per paura di rompere proprio lui.
«Sì»rivelò piano. «E ho aggiunto che da grande sarei voluto diventare come quell’elfo domestico: fedele con gli amici»Un’altra breve risata eruppe dalle sue labbra, beffarda ed amara quanto il suo racconto. Quando Draco udì quel suono echeggiare nel bagno, quasi rabbrividì, perché non ricordava nemmeno di averlo emesso.
«E lui che ha detto?»bisbigliò la Corvonero con il fiato sospeso.
Il giovane non rispose subito. Come se quei ricordi fossero fin troppo dolorosi per riportarli a galla, lasciò scorrere altro tempo muto tra di loro; poi, con il tono più incolore che riuscisse a pronunciare, disse: «Mi ha Cruciato».
Il silenzio che seguì fu talmente gelido e teso, così sospeso, che per un attimo Draco pensò che la ragazza, terrorizzata, si fosse Smaterializzata.
«Ti ha…» Quel flebile sussurro, boccheggiato a fior di labbra, si interruppe all’improvviso nel bel mezzo della frase. Incapace di ripetere quell’orrore che lui aveva vissuto sulla sua pelle, la ragazza domandò, ancora senza fiato: «Ma quanti anni avevi?».
«Cinque»rispose meccanicamente Draco. Il dolore e l’amarezza provata poco prima, la paura e l’ansia che avevano riempito e impregnato la sua voce, erano scivolate via; sembrava che stesse raccontando qualcosa che era successo ad un altro, ma con la leggerezza che si riserva ad argomenti banali e privi di interesse. Era distante, ma non da lei: solo da se stesso. «Ha detto che gli elfi domestici non sono amici, solo servi; che la fedeltà è per gli esseri inferiori, e che noi Purosangue, noi M…» stava per dire Malfoy, ma si bloccò appena in tempo «…maghi non dobbiamo abbassarci a certi livelli. E che avere degli amici è un male, perché gli affetti rendono solo deboli. Mi ha torturato fino a quando quel concetto non mi è entrato in mente»concluse in un soffio.
Il sussurro del ragazzo si estinse piano, lentamente, prolungandosi nell’aria fredda del bagno come una nota restia a morire. Si spense insieme al dolore del Serpeverde, che tornò ad essere indifferente e gelido, che indossò ancora una volta la maschera di superbia di cui soleva vestirsi, che si alzò in piedi per prepararsi ad andare via e non tornare mai più, perché dopo una confessione del genere si sarebbe sentito solo troppo esposto, troppo debole, troppo patetico e stupido.
 
Invece Hermione lo riteneva solo troppo umano. Aveva il cuore che gli batteva forte come non aveva mai fatto, gli occhi colmi di lacrime e il cuore gonfio di emozione.
«Sai cosa mi piace di Cenerentola?»domandò. I passi del ragazzo si estinsero: lui si fermò, rimanendo in ascolto, incuriosito.
«Cosa?»chiese, cercando di tenere nascosta la nota di speranza che, invece, Hermione intuì, al di sotto dell’indifferenza che lui cercava di ostentare.
«Lei non ha mai smesso di sperare»affermò la Grifondoro, sorridendo.
«La speranza è per i perdenti»affermò lui con sicurezza, il tono quasi derisorio per quella ingenuità. Ma lei lo ignorò, e continuò a sproloquiare, imperterrita, arroccata nelle sue convinzioni.
«Cenerentola veniva ogni giorno maltrattata dalle sue sorellastre. Loro non facevano altro che dirle cosa doveva fare, e non le permettevano mai di trovare un attimo per sé. Ma lei sorrideva ogni giorno, continuava a credere che le cose sarebbero cambiate. Non trattò mai male né la sua matrigna, né le sue sorellastre, e quando poi sposò il principe, diede loro una casa e dei mariti»Fece una breve pausa, quindi riprese: «Lei ha avuto il suo riscatto, dimostrando che persino una serva che non ha nobili origini può cambiare il suo destino. E che qualsiasi temporale passa, prima o poi»concluse in un sussurro dolcissimo.
Ben presto, il primo rintocco della mezzanotte risuonò per il castello, spezzando la quiete muta che riempiva il bagno, e sfiorando come un’eco lontana e sfocata le orecchie dei due ragazzi.
Don.
Cenerentola e il principe.
Don.
Hermione e lui, chiunque egli fosse.
Don.
Sguattera e principe.
Don.
Mezzosangue e Purosangue.
Don.
Era buffo come quelle somiglianze si avvicendassero nella sua testa, ora che la pausa di silenzio che stava intercorrendo tra i due aveva sostituito ogni pensiero o rumore esterno.
Don.
Hermione sorrise tra sé.
Don.
Per Cenerentola il rintocco della mezzanotte significava la fine di una magia: ogni volta che la campana suonava, parte dell’incanto svaniva. Invece, alla Grifondoro pareva che, per quei due ragazzi, ogni rintocco rinnovasse il prodigio del loro legame, tanto strano quanto speciale.
Don.
«Scapperai anche stanotte, Cenerentola?»
Don.
«Conosci altre favole?»
Don.
«Tantissime»
Don.
«Allora credo che resterò un altro po’»
Don.

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Note dell’autrice:
Lo so: ho appena concluso una Dramione, ed ecco che subito ne comincio un’altra. Sono proprio incorreggibile! È che da quando ho cominciato a scrivere di questi due mi è venuto un vizio difficile da sopprimere.
Per prima cosa, do il benvenuto a tutti i lettori, vecchi e nuovi.
Questa storia mi frulla per la testa da tantissimo tempo, ma non ho mai cominciato a scriverla perché avevo l’altra in corso, e non mi andava di cominciare più di una fanfiction per poi lasciarle incomplete tutte. Ma ora che ho concluso “Il Fante di Picche e la Dama di Cuori”, posso finalmente dedicarmi a questa. So che molti di voi aspettano il seguito della prima, ma preferisco prendermi una pausa da quei Draco ed Hermione. E poi ho voglia di scrivere questa.
Cenerentola e altre fiabeè nata molto tempo fa, ma è stata creata solamente la sera del 14 aprile, quando la nostalgia del non poter scrivere di Draco ed Hermione perché il giorno prima avevo concluso la mia fic si è fatta così intensa da spingermi a lanciarmi in questa avventura. L’idea iniziale era ben diversa da questa.
Il fatto è che mi sono sempre domandata: qual è l’unico modo in cui Draco può accettare Hermione, considerando che di lei odia tutto, a cominciare dal suo nome per finire con il suo sangue? E mi sono risposta: l’unico modo è non conoscerne l’identità, ma solo l’interiorità. In tempo moderni sarebbe stato ovvio scrivere di una relazione telematica, ma nel mondo di Harry Potter internet e pc non esistono, per cui ho dovuto trovare un altro stratagemma.
Sfogliando il Principe Mezzosangue ho ricordato che Draco, durante il sesto anno, si reca spesso in bagno, a piangere o sfogarsi (la stessa Mirtilla lo consola – da qui il suo nominarla in questo primo capitolo – e rivela poi a Harry che discute spesso con un ragazzo “sensibile; anche con lui gli altri fanno i prepotenti”). Per di più, sempre nel sesto libro, Harry più volte insiste sul fatto che Malfoy è un Mangiamorte, ma si scontra sempre con l’ostinazione di Hermione, che lo reputa innocente. Perché?, mi sono domandata. Ed ecco che ho voluto dare la mia personale giustificazione: e così è nata questa storia.
Vorrei farei alcune precisazioni.
Innanzitutto, la storia è ambientata, come si è già capito (ma meglio specificare) durante il sesto anno di Harry, Ron ed Hermione: la vicenda prende inizio da quel famoso bacio tra Ron e Lavanda, da cui Hermione è tanto rimasta scottata. Fino a questo momento, le vicende narrate dalla Rowling sono immutate; da quel bacio in poi, la mia intenzione è quella di incastrare la mia storia nel tessuto del manoscritto originale de “Il principe mezzosangue”. Non so se la cosa mi riuscirà, perché sfogliandolo mi sono resa conto di alcune incongruenze con la trama che ho cominciato a stilare.
In tutta onestà, non ho la più pallida idea di dove questa storia andrà a finire: a differenza del Fante di Picche e la Dama di Cuori, pubblicata solo dopo che la trama era stata interamente buttata giù, almeno a grandi linee, questa storia, per quanto l’idea ci sia da tempo, non ha ancora una fine, né un proseguo. Questo non significa che la lascerò incompiuta a vita, ma solo che ci metterò un po’ più di tempo a scriverla, e quindi ad aggiornare. Per chi di voi avesse letto l’altra storia, sa che pubblicavo i nuovi capitoli più o meno una volta a settimana: questa velocità non mi sarà permessa sia per il motivo sopra specificato, sia perché si avvicina la sessione estiva, e i libri di studio chiamano a gran voce.
Infine, e concludo questa lunghissima nota, vorrei giustificare il titolo della storia, perché non è esattamente preciso, ma mi piaceva come suonava per cui l’ho lasciato tale. La prima favola narrata da Hermione è Cenerentola, che oltre ad essere, in linea generale, una delle prime favole raccontate alle bambine, è anche calzante per la situazione (la moneta persa a mezzanotte, come la scarpetta di cristallo, penso sia evidente; il fatto che lui sia un Purosangue, quindi in un certo senso un nobile, un principe, e lei invece una Mezzosangue, quindi in un certo senso “inferiore”, un po’ meno, ma confido nella vostra attenzione nel saper leggere tra le righe). Per cui il titolo recita “Cenerentola e altre fiabe” dove per altre fiabe non si intendono davvero le tradizionali favole, ma solo storie che Hermione racconta a Draco. Via via che posto gli altri capitoli sarà più chiaro.
L’avvertimento OOC non è messo a casaccio: Draco non sarà molto Draco, perché per quanto io ci provi non riesco mai a mantenerlo abbastanza IC. Inoltre, le atmosfere saranno un po’ più cupe. Per di più, come avrete notato, tra i personaggi vi sono solo Draco ed Hermione. Questo perché compariranno esclusivamente loro, e gli altri personaggi saranno solo citati come sfondo.
Questo è un capitolo in un certo senso introduttivo, per cui è abbastanza lungo; gli altri saranno più corti. Per di più, ci saranno un bel po’ di sbalzi temporali in questa storia.
Concludo avvertendovi che “non ci saranno sbaciucchiamenti di sorta o stupide smancerie” in questa storia! (Frase rubata al nostro Severus Always Piton, e abilmente riadattata all’esigenza). Come avrete visto, il rating è giallo (ma potrebbe anche cambiare, dubito comunque che diventerà rosso). Per chi si aspetta un bacio dopo la prima riga, mi spiace deludervi; per chi si aspetta che verrà dopo, mi dispiace ancora di più. In questa storia non sono previsti baci se non nell’epilogo. (Ho perso tutti i lettori mi sa…)
Vi auguro buona lettura, sperando che questa storia piaccia anche solo la metà di quanto l’altra vi sia piaciuta. Fatemi sapere cosa ne pensate di questa pazza idea :)
Ho creato una pagina Facebook: per qualsiasi avviso, aggiornamento o, perchè no?, qualche domanda e anticipazione, potete cercarmi qui: Eloise.
Tantissimi baci a tutti!

Citazioni:
- Non per altro: ma è sempre un qualche meraviglioso silenzio che porge alla vita il minuscolo o enorme boato di ciò che poi diventerà inamovibile ricordo. (Alessandro Baricco – Castelli di Rabbia)
- L’uomo è un animale sociale (Aristotele)

Questa storia si è classificata prima al "Flash Contest - Solo per Dramione Edite", indetto da IvanaEfp sul forum di Efp.

   
 
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