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Autore: MegamindArianna    24/04/2012    1 recensioni
Roxanne, in giro, si imbatte in un'orribile vicenda. Chi la aiuterà? Spero vi piaccia...
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: Spoiler!
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“Ciao Roxy! Ci vediamo domani in ufficio!” gridò Laura avvicinandosi alla sua decappottabile. Risposi alzando la mano.
 
-Che serata!- pensai tra me e me mentre alzavo gli occhi al cielo stellato. Una brezza leggera mi passò nella giacca, costringendomi a stringerla contro il mio corpo. Feci qualche passo qua e là senza alcuna meta, passando da una via all’altra di Metro City.
 
Pensai alla giornata di sole donne passata insieme alle mie compagne di lavoro. Avevamo deciso di fare shopping fuori città, di andare in un bar per un cocktail per poi cenare in uno dei più lussuosi ristoranti di Metro City. Naturalmente non tutto era andato per il verso giusto, anche perché Megamind aveva cercato di rapirmi usando lo spray addormentante per farmi perdere i sensi. Fortunatamente era finito e si era anche scordato di prendere il Bastone-Dimenticami. Così ebbi la possibilità di contrattare con lui per uno spostamento di data del rapimento.
 
Certe volte quell’alieno mi fa ridere, ma anche un po’ pena. A parte Minion non ha nessuno al mondo e l’unica cosa che sa fare è essere cattivo in modo ridicolo.
 
Entrai in un bar per prendere un caffè da portar via. Avevo deciso di fare una passeggiata fino a casa senza usare l’auto. Camminare fa bene, ma quel fresco che aumentava sempre di più mi faceva venire i brividi. Qualcosa di caldo mi avrebbe fatto bene.
 
“Salve bellezza!” mi urlò un uomo appoggiato al banco. Si teneva in piedi per miracolo da quanto era alticcio. “Le va una serata da far paura insieme al sottoscritto?” e mi mise un braccio intorno alle spalle. Puzzava come una fogna aperta. Trattenendo il respiro lo allontanai spingendolo sul petto. Afferrai la tazza di cartoncino e, stretta la giacca intorno al corpo, uscii dal bar urlando un sonoro “NO!”.
 
Guardai di nuovo il cielo che in quel momento si faceva cupo, oscurato dalle nuvole grigiastre. Una pioggerella fine si disperdeva, ricoprendomi.
 
La serata che fino a poco prima pensavo fosse magnifica si stava trasformando in un incubo.
 
“Dove vai? Stai un po’ con me!” sentii alle mie spalle. Accellerai il passo. “Andiamo! Lo so che vuoi dire si!” e si mise a ridere da solo. Mi voltai un momento, vedendo quell’uomo del bar disteso a terra che ancora sghignazzava. Andai a sbattere contro un muro. “Ahi!” strillai. Ciò che però trovai avanti ai miei occhi non era un muro, ma una persona alta, oscurata alle spalle dalla luce di un lampione ad intermittenza.
 
“Dove va, Miss Ritchi?” chiese con la voce roca da uomo poco raccomandabile. Mi bloccò con le mani le spalle. Sorrise compiaciuto. Altri comparvero dietro di lui, tutti malconci. Ce n’erano di tutti i tipi: ubriachi, sani, mezzi addormentati e troppo eccitati.
 
“Sa… l’ammiro molto e penso che questa sia la mia ultima possibilità di vederla…” disse qualcuno da dietro quel mostro che mi teneva sospesa in aria. Uscì fuori un uomo di circa quarant’anni dal volto sfregiato da ferite e bruciature. Spalancai gli occhi. Buttai uno sguardo alle mie spalle. Non c’era nessuno. Riportai lo sguardo sull’uomo.
 
“Oh… lo so cosa sta guardando… la mia faccia, non è vero?” e sospirò mentre mi passava una mano lungo i fianchi. “Svignarsela dal carcere sta diventando sempre più difficile e a volte ci si può fare molto molto male, lo sa?” e sfiorò le sue ferite. Deglutii.
 
“Cosa vuoi da me?” domandai il più sicura possibile, ma senza alcun successo.
 
“Servizio del 31 agosto 2009. Rapina in banca. Tutto andava per il meglio ma…” e mi strinse un polso “…una reporter ficcanaso di nome Roxanne Ritchi ci scopre e insieme al suo fidato cameraman riprendono la scena approfittando anche di chiamare la polizia e il suo eroico fidanzato. Così riescono a catturarci spedendoci direttamente in carcere.”
 
Ricordavo perfettamente quella giornata. Uno dei miei primi successi. Fissando meglio negli occhi socchiusi quell’essere lo riconobbi subito. La paura invase il mio corpo.
 
“Lasciami!” urlai. Lui mi tappò la bocca.
 
“Non fare la cattiva. Se stai tranquilla, per non farti soffrire tanto, ti uccido, ok?” e alzò un sopracciglio folto. Mi irrigidii. Guardai di nuovo indietro. Non c’era ancora nessuno. Buttai il bicchiere con il caffè ancora caldo in faccia all’uomo che mi sosteneva. Urlò mentre mi lasciava e si teneva il volto scottato dalla bevanda bollente.
 
“Perché l’hai fatta scappare!?” disse mentre mi allontanavo correndo con il cuore in gola.
 
“AIUTO!” gridavo alle finestre in alto sigillate, ma soprattutto al cielo. Metro Man non sarebbe arrivato, ma speravo in un soccorso divino. Niente.
 
Continuai a correre. Le gambe irrigidite dalla paura non si muovevano scattanti come nei giorni di allenamento al parco. I tacchi alti erano solo di impiccio e, per puro miracolo, riuscii a lanciarle avanti a me. Mi voltai un momento. Cinque o sei uomini mi correvano alle calcagna con l’aria divertita. Alcuni erano lenti a causa delle bevande alcoliche, altri, come il rapinatore del mio servizio, erano agili come leoni a caccia. Io ero la povera gazzella sfortunata; la preda.
 
“Vi siete divertiti abbastanza! Lasciatemi andare a casa!” gridavo con le lacrime che mi rigavano le guance. Sapevo cosa volevano farmi, ma non era il momento adatto per fermarmi a pensarci.
 
“Tranquilla, tesoro! Vogliamo solo accompagnarti!” e sghignazzavano agitando le braccia.
 
Riportai lo sguardo avanti a me. Bussai ad una porta, poi ad un'altra e ad un’altra ancora. Nessuno rispondeva. Dopo tutto, alle tre di notte, chi poteva rispondere.
 
Ad un tratto mi ritrovai a terra. L’uomo che poco prima avevo lasciato strisciante a terra mi afferrò una caviglia, costringendomi a buttarmi in avanti. Provai a scollarmelo di dosso, ma mi teneva come una morsa. Le calze trasparenti, al contatto con l’asfalto, si erano bucate.
 
Mi afferrarono per i capelli. Un urlo mi si strinse in gola. Tutti risero. –Vi prego… vi prego se dovete torturarmi… uccidetemi subito dopo…. Vi prego…-  pensavo senza riuscire a dirlo. Un sudore freddo sulla mia fronte colava, mischiandosi con le lacrime amare. Perché doveva proprio accadere a me? Perché esiste un mondo con persone così crudeli? E soprattutto: perché Metro Man non c’era più? Odio Megamind! Lo odio per aver distrutto l’eroe della città! Al minimo lamento lui sarebbe accorso in aiuto di chiunque avesse difficoltà, dal gatto sull’albero alla donna rimasta bloccata nell’auto capovolta in un burrone vicino all’autostrada. Ora nessuno poteva più occuparsi di quelle atroci disgrazie.
 
“Vediamo…ich… che indossi di bello per questa serata…” disse un uomo ubriaco del gruppo. Cominciai a singhiozzare in modo frenetico, doloroso, tanto da farmi male la gola. Ma quel dolore non riusciva a sovrastare la paura di quel momento.
 
Mi strapparono dalle spalle la giacca, scoprendo il mio vestito da cocktail lilla con scollatura a cuore: uno dei miei preferiti. Era adatto per dei cani bastardi affamati di sesso, no? Cercai di coprirmi controllando il mio corpo per quel che potevo.
 
“Oh, come siamo belle!” disse l’ex carcerato dal volto sfregiato. “Sapeva del nostro improvviso appuntamento, Miss Ritchi?” chiese spavaldo ordinando di mettermi giù. Indietreggiai, toccando con le mani un cemento di marmo. Il cuore mi usciva dal petto, risuonando come il tamburo di una batteria a suon musica Heavy Metal. Mise le sue mani rozze appoggiate al muro, poco lontano dalle mie spalle. Avvicinò il suo volto al mio, grattando il mento con la barba poco curata.
 
“Su, su…” disse poi alzandomi la testa. “non piangere. Nessuno ti sentirà. Siamo solo io e te… e gli altri. Ma non ti preoccupare. Quando mi sarò vendicato a dovere non dovrai più pensare a ciò che ti è successo qui, chiaro?” e tentò di baciarmi, stringendo il suo petto al mio.
 
Per un attimo riuscii a concentrare un minimo di autocontrollo, ma l’unica cosa che riuscii a fare fu quella di gettare all’infuori di me ciò che provavo per quell’uomo: gli sputai dritto in un occhio. Mi pentii subito di ciò che avevo fatto.
 
“Ah… è così…” disse asciugandosi il volto. “Vedo che vuoi soffrire… ti accontento…” e tirò fuori dalla tasca un paio di forbici da cucina belle affilate. Urlai. Mi bloccò e, con l’aiuto dell’attrezzo che aveva con sé, tagliò lentamente un lembo del vestito e godendosi la mia disperazione. Lanciò a terra quell’arnese spaventoso, afferrando allo stesso tempo quella parte strappata e tirandola via con calma e desiderio.
 
“Ci siamo quasi… tra poco avrò la mia vendetta… vero ragazzi?” disse alla sua compagnia. Tutti esultarono. Con uno strappo netto riuscì a scoprire più della metà del mio corpo, coperto solamente dalla biancheria intima. Mi gettai a terra piangendo e portandomi le mani alla testa, che sembrava volesse scoppiarmi da un momento all’altro. Era la mia fine.
 
Penso che il vostro divertimento sia finito…” disse una voce computerizzata alle spalle di tutti.
 
Alzai lo sguardo ad un’ombra che ci sovrastava. Il rumore di un jet pack mi invase come un’aura di speranza. 
  
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