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Autore: Sylphs    28/04/2012    5 recensioni
Questa è una storia di mia invenzione che si ispira a grandi linee ad uno dei miei romanzi preferiti, "Il Fantasma dell'Opera". Irene, ragazza distratta e persa nel suo mondo, si trasferisce insieme al padre nella sperduta Heather Ville, una residenza recentemente ristrutturata a seguito di un misterioso incendio. Nel corso del suo soggiorno in quell'oscuro palazzo, si rende lentamente conto di avvertire una presenza intorno a sè che una notte, all'improvviso, decide di manifestarsi a lei...attratta dalla magia e dal romanticismo della situazione, la giovane si farà trascinare suo malgrado in una spirale di follia, di morte e di pericolo, per lei e per tutti coloro che ama. Spero che qualcuno leggerà, sarebbe importante per me!
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Amore di sangue'
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LA CENA

 
 
 
 
 
 
Quando Stephan si presentò nuovamente ad Heather Ville, due giorni dopo che aveva fatto ad Irene la proposta di matrimonio, e fermò il grosso e sporco camioncino di suo padre dinnanzi alla tetra dimora, scorse la fanciulla che lo aspettava immobile come una statua accanto al portone socchiuso, tutta vestita di nero, con i capelli al vento che le sventolavano in faccia. Faceva l’effetto di una vecchia fotografia in bianco e nero. Il giovane fu insieme felice e stupito di trovarla lì ad aspettarlo. Erano stati due giorni d’inferno, quelli, passati in una costante angoscia che lei prendesse la decisione che gli avrebbe spezzato il cuore. Non solo non gli aveva gettato le braccia al collo felice come si era aspettato, ma anzi, gli era sembrata assai diversa dalla persona grintosa e decisa che aveva conosciuto in città.
Cos’aveva Irene? Stephan sperava con tutto se stesso che fosse tornata in sé e che gli avrebbe detto sì. Allora l’avrebbe finalmente baciata, l’avrebbe presa in braccio e riportata alla luce del sole. Per l’ansia non era nemmeno riuscito a lavorare.
Sceso dal camioncino, le andò incontro rigirandosi nervosamente il berretto tra le mani, e si fermò dinnanzi a lei a capo chino. Irene era spaventosamente pallida e aveva un’espressione assente. Non disse una parola, neanche un saluto. Stephan non ebbe il coraggio di stringerla, si limitò a guardarla intensamente: “Ciao” fece per entrare nella residenza, ma improvvisamente lei si animò e gli sbarrò la strada. Lo fissò ostilmente, con uno sguardo che non le aveva mai visto. Replicò con un fare interrogativo.
“Restiamo qui fuori” disse la ragazza con tono incolore. Intorno a loro, l’erba opaca si muoveva lentamente, ondeggiando, e il vento soffiava gelido, sussurrando nenie indistinte. Il nervosismo di Stephan crebbe: “Va bene, come preferisci. In effetti qui si sta meglio” tentò di scherzare, passandosi una mano tra i capelli. Poiché a star fermi si infastidivano, presero a passeggiare fianco a fianco tutt’intorno ad Heather Ville, in silenzio. Stephan moriva dalla voglia di chiederle cosa aveva deciso, dopotutto per lui era una questione di vita o di morte, ma non voleva turbare il raccoglimento di Irene, che era molto assorta e scrutava con uno sguardo vuoto le finestre buie di Heather Ville. Guardò desideroso la sua nuca delicata che i capelli mossi dal vento avevano lasciato scoperta, i radi peli biondi sul suo collo che brillavano al sole timido, e pensò che, se lei gli avesse detto sì, sarebbe stata sua moglie…per sempre.
Allora non resistette più: “Hai…hai riflettuto sulla mia proposta?”
La guardò trepidante. Lei però era più assorta dalle rose rosse che coloravano quel prato incolto e adorno di erbacce. Con le dita esili ne staccò una e se la portò al naso. Annusò profondamente e chiuse gli occhi: “Trovi possibile” sussurrò: “Che qualcosa di bello come questa rosa trovi radici in questo luogo?”
“Irene!” esclamò il giovane, disperato, cui non importava nulla delle rose: “Non è tempo di fiori! Io ti amo! Ti prego, dimmi che mi ami! Dimmi che verrai con me in città e che ci sposeremo!”
Finalmente la ragazza si riscosse. Abbassò la rosa e lo fissò. Ma nei suoi occhi azzurri non c’era alcun calore. Lo gelavano fin nel profondo: “Stephan, io non ti amo e non voglio essere tua moglie” dichiarò freddamente: “Non voglio vederti mai più. Addio”.
Gli voltò le spalle e si incamminò senza aggiungere altro verso la sua dimora. Stephan, da parte sua, era restato immobile dov’era, col viso spaventosamente pallido e contratto dallo stupore e dal dolore, ed aveva la sensazione che il mondo stesse andando in pezzi tutt’intorno. Non poteva essere vero. Dopo tutto quello che aveva faticato per realizzare l’unico sogno che si era concesso…dopo che s’era illuso di aver conquistato qualcosa di così prezioso…lei non poteva distruggerlo così, con poche parole algide, e andarsene! No!
Le andò incontro, con gli occhi gonfi di lacrime vanamente trattenute, l’afferrò per un polso e la costrinse a voltarsi a guardarlo: “Irene! Cosa stai dicendo? Mi…mi spezzi il cuore!” singhiozzò straziato: “Credevo che tu mi amassi! Me l’hai sempre fatto capire! Come puoi rifiutarmi in questo modo, senza darmi nessuna spiegazione? Cosa è cambiato?”
Lei contrasse le labbra: “Ci siamo illusi credendo di amarci, Stephan. Non potrei mai stare con te. Sei troppo razionale per darmi quello che cerco”.
“È solo questo il problema?” gridò lui stringendole il polso: “Io posso cambiare, se è questo che ti impedisce di stare con me! E poi prima non ti interessava come fossi. Ti bastava avere il mio cuore…che sarà sempre ai tuoi piedi, fino alla morte. Il mio cuore per il tuo. Perché questo non ti basta più?”
Finalmente scorse qualcosa di umano farsi strada sul volto di lei: il rimorso. Abbassò gli occhi, probabilmente incapace di guardarlo. Stephan si chinò su di lei amorevolmente e le prese il viso fra le mani, determinato a capire: “Cosa è cambiato? Mi merito una spiegazione. Non intendo costringerti a stare con me. Ma se devo soffrire così…che almeno sappia perché!” lei l’aveva fatto a pezzi, letteralmente, ma che almeno scoprisse cosa gli mancava, cosa diavolo le impediva di amarlo!
Irene emise un lungo sospiro. Le tremarono le labbra, poi disse con uno strano tono: “E va bene. Te lo dirò. In nome di quello che c’è stato tra noi. C’è un altro”.
Stephan spalancò gli occhi, sconvolto e nauseato: “Un altro?” le fece eco: “Ma cosa…com’è possibile…dove puoi averlo incontrato…cos’è questa storia?!”
“È stato il destino ad unirmi a lui” sussurrò la fanciulla con un tono trasognato e un’espressione assente: “Lui ha tutto quello che ho sempre sognato. È intelligente, è erudito, è fuori dal comune, mi ama…”
“È bello?” la aggredì Stephan. Lei gli gettò un rapido sguardo: “Non lo so. Non l’ho mai visto in faccia. Ma una persona come lui dev’esserlo per forza”.
No, questo era assolutamente assurdo: “Cioè, fammi capire…getti al vento tutti i bei momenti passati insieme e ti innamori di un uomo che non hai mai visto in faccia?!”
“Sì” rispose lei con semplicità. Stephan era a bocca aperta, totalmente allibito: “Tu…tu sei…sei…pazza! Come puoi pretendere di conoscere qualcuno che non sai nemmeno com’è fatto?!”
“Conosco il suo cuore” ribatté Irene con grande serenità, come se per lei fosse ovvio. Il povero ragazzo aveva gli occhi fuori dalle orbite per lo stupore: “E dove l’hai conosciuto? Chi è quest’uomo? Qual è il suo nome? Come ha fatto a celarti il suo aspetto?”
Lei gli raccontò la storia di R, e mentre parlava, Stephan era sempre più inorridito, non solo per il contenuto della storia, ma anche perché Irene aveva negli occhi una luce fanatica e un’espressione istupidita, come se le avessero fatto completamente il lavaggio del cervello. Il tono adorante con cui descriveva quell’ R lo faceva vomitare. Ancor prima che finisse l’aveva afferrata per le spalle e le aveva incollato addosso uno sguardo infiammato d’angoscia e di orrore: “Questo non può essere vero! Non posso credere che tu ti sia lasciata stregare da un pazzo che passa ventiquattrore su ventiquattro strisciando in un buco immondo, che ti spia mentre sei in camicia da notte e ti parla al buio senza neanche farsi vedere! Non capisci che è un maniaco, che è un mostro? Non capisci che se si nasconde deve avere per forza un motivo? Io ti porterò via da lui, non gli permetterò di inquinare il tuo animo!”
“No!” gridò Irene furiosa, liberandosi della sua presa e vibrandogli un sonoro schiaffo. Aveva gli occhi fiammeggianti di rabbia: “No, Stephan, tu non ci separerai! Vattene ora che te lo dico io, o R ti ucciderà. Sei tu a non capire che io ti sto salvando la vita. Starò benissimo senza di te, senza mio padre. R si prenderà cura di me. Diventerò la sua sposa e saremo l’uno dell’altra per sempre. Perché lui mi ama più di ogni altra cosa al mondo, me l’ha detto” un sorriso estatico le illuminò il viso: “Io ho trovato il mio principe tenebroso”.
“Principe tenebroso?! Ma ti senti?! È un folle, Irene, credimi! Sono io che ti amo, io che mi prendo cura di te! Vieni via con me ora che sei in tempo, lascia questo posto maledetto! Lascia quel pazzo, prima che ti faccia del male”.
“R non mi farebbe mai del male” dichiarò Irene sicura. Stephan scosse la testa disperato: “Sì, invece. Ti ha incantata con la sua voce, ma puoi ancora liberarti dall’incanto. Vieni con me. Amore, ti scongiuro, lascia che io ti salvi”.
Per tutta risposta lei scoppiò a ridere: “Io non ho bisogno di essere salvata, Stephan. R è il mio amore. Non mi importa cosa pensi di lui, perché io so che è meraviglioso. Non mi importa di non averlo mai visto, perché lo conosco meglio di chiunque altro. Questa è la mia casa. L’intruso sei tu. Vattene. E non farti rivedere mai più. Tu non puoi capire…vattene”.
Stephan provò a stringerla nuovamente: “Irene, ti prego…non posso permettere che lui ti faccia del male…”
“Vattene, ho detto!” gridò lei con tutta la forza che aveva. Il giovane indietreggiò in modo scomposto, gli occhi colmi di lacrime fissi sulla ragazza che lo fissava disgustata. Era finita. Irene era definitivamente perduta. Non sarebbe mai riuscito a portarla via. Neanche con tutto il suo amore. R era riuscito a legarla a sé con una doppia corda, una corda stretta come un cappio che le serrava pericolosamente il collo delicato.
“Dimenticami, Stephan” sibilò Irene: “Il mondo è pieno di biondine pronte ad innamorarsi di te. Sono sicura che nel giro di un mese ne avrai trovata una che saprà fare buon uso del denaro che hai guadagnato. Il mio posto è qui, per sempre. Il mio compagno è R”.
Lo sventurato giovanotto, col cuore spezzato, con l’orrore in viso, barcollò lontano da lei, verso il camioncino fermo sul prato di erbacce. Gli pareva di sentire, all’interno di quelle oscure finestre, una risata sardonica e sguaiata che lo derideva e festeggiava il suo trionfo, ed era certo la risata di R, di quel maledetto che nascondeva il suo volto dietro le ombre di cui era il padrone. Ma Stephan aveva solo perso una battaglia. La guerra era appena cominciata.
“Non permetterò che ti ferisca” sussurrò alla ragazza che amava, prima di gettarsi, in preda ai singhiozzi, dentro il camioncino, e di mettere in moto con le mani che tremavano.
Irene restò immobile mentre lui se ne andava e si sentiva più debole che mai. Allorché la sagoma della vettura scomparve una lacrima le rotolò sulla guancia e bisbigliò: “Addio, Stephan…”
 
Mentre avveniva questo dialogo animato tra i due giovani, il signor Giorgio Lancaster era entrato nel suo studio, come faceva ogni giorno, e con sorpresa aveva trovato, sulla scrivania, un biglietto chiuso in una busta ingiallita dal tempo. Poiché ricordava chiaramente di non averlo mai visto prima, s’era accomodato in poltrona e con un tagliacarte aveva aperto la busta per scoprire cosa contenesse. Dentro c’era un unico foglio con alcune righe scritte in inchiostro rosso sangue:
 
Gentilissimo signor Lancaster,
sono sicuro che sarà sorpreso nell’aver ricevuto questa mia missiva così tempestivamente, e senza aver mai sentito parlare di me, ma, ahimè, mi son trovato costretto a mettermi in contatto con lei al più presto. Devo informarla, con mio intenso rammarico, che deve partire immediatamente, senza portare nulla con sé, soprattutto sua figlia, per la città in cui ha vissuto finora, e rimanervi fino alla fine dei suoi giorni, se non vuole che questa fine arrivi prima di quando ha deciso il destino. Immagino che la sua prima reazione sarà di sdegno. La capisco. Ma vede, ho la presunzione di considerarmi il vero proprietario di Heather Ville, e scoprire che si era permesso di acquistarla come se non appartenesse a nessuno mi aveva lasciato…interdetto. Ora che conosco la storia della sua perdita, però, la perdono.
Ciononostante ripeto che la sua presenza qui non mi è gradita, perché anche se non ne ha intenzione intralcia certi miei progetti che riguardano sua figlia. Oh, non deve temere in alcun modo per lei: non ha amico migliore e più premuroso di me. Lasciandola nelle mie mani, può star certo che la tratterò con tutto il riguardo che merita e che non le mancherà mai nulla. Le permetterò di scrivere a sua figlia una volta al mese e le farò avere la risposta. Ma non deve mai più tornare qui ad Heather Ville, per il suo bene e quello di Irene.
Spero che si dimostrerà ragionevole e che la vedrò fuori di qui nel giro di due ore, così che possa prepararsi. Fare affari con lei è quanto di più gradito possa fare.
Le porgo i miei più sinceri addii,
                                                                                R

 
“Questo è inammissibile! Inconcepibile!” strepitò Giorgio con la faccia paonazza e la lettera stretta convulsamente tra i pugni chiusi. Quelle parole di una cortesia minacciosa, e quella R svolazzante alla fine, rossa come il sangue…chi diavolo era quell’uomo così impertinente che si permetteva di scrivergli cose simili? Che Irene si stesse dilettando a fargli uno scherzo? Ma no, la calligrafia era assai diversa da quella di sua figlia. Il pover’uomo afferrò il fazzoletto e si deterse la fronte zuppa di sudore. Quella frase, “se non vuole che questa fine arrivi prima di quando ha deciso il destino” lo terrorizzava più di ogni dire.
“Andarmene?” sbraitò ad alta voce: “Lasciar sola Irene? Giammai! Non mi lascerò certo spaventare da questo mascalzone che si diverte a mandare lettere impertinenti! Ce ne andremo tutti e due, altroché! Questa casa è maledetta! Sissignore! Maledetta! E non ci dobbiamo restare un minuto di più”.
“Io non sono dello stesso avviso” commentò una voce pacata e raschiante alle sue spalle. A Giorgio prese un tale spavento che saltò sulla poltrona e si girò di colpo con un grido terrorizzato. La grata che aveva dietro alla scrivania, e cui non aveva mai fatto caso, era stata scardinata delle sue sbarre, ed ora era un buco di tenebra assoluta. Il corpo di un uomo ne stava uscendo con movimenti goffi e intorpiditi come di chi non cammina in posizione eretta da molto tempo. Si stiracchiava, e le sue ossa mandavano scricchiolii sordi: “Aah” disse sollevato: “Mi ci voleva proprio una bella sgranchita!”
Giorgio Lancaster sgranò gli occhi, si fece pallido come un morto e cadde dalla sedia come un sacco di patate, indietreggiando con gemiti di patetico terrore per sfuggire a quell’apparizione. Il cuore gli batteva troppo forte, era prossimo all’infarto. Cercò freneticamente una qualsiasi arma intorno a sé, ma le sue dita si strinsero solo sul tappeto polveroso svolto a terra. Intanto davanti a lui l’apparizione era saltata fuori dal buco e gli si stava avvicinando lentamente, come a godere della sua paura. Giorgio andò a sbattere contro il muro e si trovò in trappola. Allora si rannicchiò, tutto tremante, e cacciò un urlo: “Chi…chi sei?”
L’apparizione si fermò ad alcuni metri da lui e lo contemplò con compatimento. Poi fece un ghigno orribile e, invece di rispondere, esclamò: “Signore, non mi sono spiegato. Se non se ne va di qui all’istante, troverò il modo io di liberarmi della sua presenza”.
Gli avesse ringhiato contro, avrebbe ottenuto lo stesso effetto. Completamente dominato dalla paura Giorgio strillò, balzò in piedi e si precipitò fuori dallo studio agitando le braccia come un forsennato, dimentico di sua figlia e di tutti i suoi propositi.
Neanche cinque minuti dopo era già in macchina.
 
Quando finalmente Irene si chiuse in camera sua, tirò un profondo sospiro e s’abbandonò contro l’uscio, scivolandovi contro fino a sedersi sul pavimento scricchiolante. Si tirò le ginocchia al petto e ci premette il viso, scossa da un singhiozzo.
Stephan…nonostante tutto, trovava orribile averlo ferito così. Non lo meritava. L’unica sua colpa era quella di amarla. E lei l’aveva crudelmente ferito, l’aveva scacciato con parole dure, come se per lei non contasse più nulla e non fosse altro che un ostacolo. Anche se portava ancora al dito l’anello che le aveva regalato. Lo rimirò accarezzandolo lievemente. Avrebbe dovuto toglierselo, in quanto non più impegnata con lui…ma, per qualche strana ragione, non riusciva. Provava troppo rimpianto.
Era stata così presa dal suo scoramento che non aveva notato la lettera appoggiata al suo letto. Allorché l’ebbe vista, sobbalzò e subito si tirò in piedi, afferrandola. Ancor prima di tirarne fuori un foglio, ancor prima di dare un’occhiata a quelle righe in inchiostro rosso, seppe che l’aveva scritta R. Era impregnata della sua magia. Con movimenti frenetici la ragazza la dispiegò e prese a passeggiare angosciosamente per la stanza, leggendola rapidamente.
Mia diletta Irene,
posso ritenermi più che soddisfatto nei tuoi confronti. Hai trattato quel giovanotto nel modo che meritava e ti esprimo tutta la mia solidarietà. Non che avessi mai dubitato di te, ma la tua freddezza è stata esemplare. Sei fantastica. Ho fatto in modo da prendere congedo anche dal tuo rispettabile padre: non temere, sta bene, non gli avrei mai fatto del male sapendoti contraria, e poiché non mi aveva fatto alcun torto, l’ho semplicemente esortato a tornare in città. Sono certo che lì si troverà assai meglio e che trascorrerà in serenità gli ultimi anni che gli restano. Non provare nostalgia: potrai scrivergli una volta al mese e informarti della sua salute.
Ora che siamo finalmente soli e che nessuno intende disturbarci, voglio conoscerti più a fondo e poter finalmente stringere le tue piccole mani e accarezzare i tuoi morbidi capelli. Non ho dimenticato il nostro patto: mi hai dato la prova che cercavo. Questa sera mi prendo la libertà di invitarti a cena. Dopo che avrai provveduto alla tua toletta personale, apri la cassaforte di fianco al letto, ci ho infilato uno splendido vestito che conservo da tempo e che su di te starà d’incanto. Vorrei che lo indossassi per stasera. Alle otto in punto scendi in sala da pranzo. Troverai ad aspettarti una gustosa cena. Io sarò già lì.
Con tutto il mio amore,
                                                                 R

Allorché giunse alla fine della lettera, Irene levò gli occhi lucidi di emozione e si portò il foglio al seno. Non temeva per suo padre, R non le avrebbe mai mentito circa la sua salute. Era dispiaciuta che se ne fosse andato, ma in quel momento era troppo presa dall’invito di R per pensarci. Quella sera finalmente avrebbe visto il volto del suo promesso sposo! Quella sera il suo segreto sarebbe svanito, e avrebbero cenato insieme come due persone normali che si amano…oh, che meraviglia! Aveva fatto bene a cacciare Stephan, se quella era la ricompensa.
“Verrò, R” sussurrò: “Verrò con tutto il cuore!”
Andò subito alla cassaforte e l’aprì piena di aspettativa. Possibile…oh, sì! Protese le mani e le strinse su una seta morbidissima. Tirò fuori dal baule uno stupendo abito rosso stile primi del novecento, con una generosa scollatura con una rosa scarlatta al centro, lunghe maniche strette, e una gonna che frusciava sul suolo. Era la cosa più bella che avesse mai visto, e profumava di rose. L’accompagnava un cerchietto sempre rosso, percorso da una coroncina di rose finte. Irene si appoggiò il vestito addosso e fece una giravolta. La gonna si gonfiò come un palloncino. R aveva ragione: le sarebbe stato d’incanto.
Passò il resto del pomeriggio fantasticando su come sarebbe stata quella cena. Dopo essersi dedicata ad un lungo bagno, indossò il vestito rosso con le rose, che le andava a pennello, e raccolse i capelli lavati e profumati dietro il cerchietto. Mentre si passava un rossetto scarlatto sulle labbra e dava gli ultimi ritocchi, gettò uno sguardo alla finestra: era calato il buio. Un’enorme luna piena la sbirciava dal cielo illuminandola col suo chiarore argenteo. Il volto di R…avrebbe scoperto qual era il volto di R. Doveva certamente essere magico come la sua voce e le sue promesse.
Quando, tutta sistemata, Irene uscì dalla sua stanza per scendere nel luogo dell’appuntamento, fu presa da uno strano timore, da un pizzicore alla nuca. Dopo che il suo rapporto con R era stato unicamente un parlarsi al buio per tanto tempo, discorrere con lui faccia a faccia sarebbe stato quasi…innaturale. Ormai s’era abituata a considerarlo una sorta di fantasma, un abitatore del buio, e considerarlo un uomo come altri le riusciva strano. Ma in una cosa Stephan aveva ragione: non poteva sposare qualcuno che non aveva mai visto. Parlarci sì, entrarci in intimità sì, ma non sposarlo! Era tenuta a recarsi al convegno.
Allorché discese la scalinata con le sue scarpette rosse, vide che la tavola era stata preparata con gran cura: il drappo scarlatto che la copriva era privo di polvere e di sporcizia, completamente rinnovato, ed era stato apparecchiato per due con fini piatti di porcellana, bicchieri di cristallo e ben quattro posate scintillanti di diversa forma e aspetto, tutte ordinatamente in fila. Al centro della tavola v’erano i due candelabri d’oro che, con la luce soffusa delle candele, rischiaravano le splendide portate messe in mostra: polli croccanti, patate cotte a puntino, pasticci che non avrebbe saputo definire, pani fragranti e soffici. Le venne l’acquolina in bocca solo a vedere tutto quel ben di Dio. Tuttavia non c’era nessuno tutt’intorno.
Perplessa, giunse alla fine della scalinata e si fermò accanto alla tavola apparecchiata, tormentando la gonna rossa con le dita: “R?” chiamò, allarmata. Che le avesse mentito? Che avesse cambiato idea all’ultimo momento? Se così fosse stato, si sarebbe sentita enormemente presa in giro.
Udì un fruscio alle proprie spalle e si girò. Anche in sala da pranzo c’era un’apertura nel muro. Era stata privata della grata irta di sbarre, ed era solo un buco nero. Una forma umana ne stava uscendo a tentoni, con movimenti grevi. Irene sentì salire l’emozione. Le mani le tremarono, s’immobilizzò, con gli occhi fissi sul corpo che si stava rivelando dalle ombre. Perché non si sbrigava? Perché la faceva penare così?
Infine R uscì dal buco con un sospiro e atterrò in piedi sul pavimento cigolante, dove restò qualche attimo a oscillare leggermente come un bambino che si tira su per la prima volta. Indossava un completo da gentiluomo dell’antichità alquanto malridotto, con i merletti ingialliti e flosci che sporgevano dalle lunghe maniche ricamate e dai pantaloni impolverati. Sul collo era appuntato un farfallino. Era piuttosto alto, e magro di corporatura, ed era ingobbito in se stesso come se portasse sulle spalle un grosso peso. Irene lo fissò in volto, e non riuscì ad impedirsi di assumere una smorfia di profonda delusione.
I suoi tratti erano completamente nascosti sotto ad un drappo nero che s’era calato sulla testa come un sipario e che gli scendeva fino al petto e sulla schiena, dando al suo capo solo una vaga rotondità e un accenno di naso. Ma per il resto non si vedeva nulla dei suoi lineamenti, se non appunto un pezzo di stoffa nera piantato su un corpo avvolto in un completo malridotto. Perfino le mani erano inguainate in un paio di guanti di cuoio scuro.
Irene si sentì prendere dalla delusione. Aveva davvero creduto di poter vedere il suo volto…doveva accontentarsi della sua presenza in carne ed ossa. Provò tuttavia una certa emozione, nel constatare che era davvero un uomo alto e ingobbito, un uomo che poteva toccare e accarezzare. Sebbene fosse così coperto, sembrava che lui potesse vederla, e la fissasse con intensità. Se era capace di vedere al buio, di certo poteva anche scorgere attraverso la stoffa. Le si avvicinò con un’andatura ancora un po’ barcollante, cercando di darsi un contegno. Irene lo attese con un’espressione di timore e di attrattiva.
“Irene” disse la voce che l’aveva conquistata, uscendo dal drappo nero, mentre R le tendeva la mano guantata: “Non posso esprimere l’emozione che provo ad averti qui davanti a me. Sei bellissima”.
Con un breve ansito, la fanciulla si gettò su di lui. Voleva strappare il drappo, voleva vedere il suo volto. R reagì prontamente, come se si fosse aspettato una mossa simile: le intercettò la mano in tempo, stringendole dolcemente il polso, e lei si sentì percorrere da un fremito sentendosi toccata da lui. Le allontanò il braccio: “Non essere curiosa, Irene. Ho detto che sarei uscito allo scoperto. Come non era specificato. Accontentati di avermi vicino, non bramare di vedere cose futili”.
“Credevo che volessi mostrarmi il tuo volto” confessò Irene, con un evidente accento accusatorio. R levò le mani guantate, l’espressione sepolta sotto al drappo di stoffa nera: “Perché dovresti volerlo vedere? Non trovi che parlarsi così, senza che tu possa indovinare i miei tratti, sia enormemente romantico? Posso essere chi vuoi tu. Puoi darmi i lineamenti che preferisci e trasformarmi nell’uomo che più brami. Io penso che sia la cosa migliore in un rapporto. Alla lunga dopo molti anni il mio aspetto potrebbe annoiarti. Ma in questo modo mi rinnoverò sempre e scatenerò la tua immaginazione”.
“E se fossi tu ad annoiarti di me?”
R emise una forte risata, per nulla smorzata dalla stoffa, e con le lunghe dita le accarezzò appena i capelli, con un certo timore come se toccarla lo intimidisse: “Io non potrei mai annoiarmi di te, Irene!”
Rassicurata e lusingata, la ragazza sorrise appena, raddrizzandosi. Per un attimo restarono fermi l’uno di fronte all’altra, un drappo nero e un vestito rosso, ad osservarsi reciprocamente, un po’ imbarazzati d’essere faccia a faccia dopo settimane di conversazioni al buio. A Irene riusciva strano parlare con quel lugubre pezzo di stoffa. Infine R si riscosse, le porse galantemente il braccio e le si accostò: “Vogliamo accomodarci a tavola?”
Irene sorrise, annuì e accettò il suo braccio. Sotto la manica della giubba era caldo e solido. Lo seguì mentre la scortava alla tavola imbandita e si sorprese profondamente avvinta da quella situazione. La luce soffusa delle candele creava un’atmosfera soporifera e risvegliava tutta la sua immaginazione. R le scostò la sedia e la fece sedere, poi prese tra le mani una brocca di cristallo piena di vino rosso sangue: “Bevi. Questo sta invecchiando da anni, dev’essere ottimo”.
La fanciulla esitò un attimo, presa da una morsa di paura: “È che io…non bevo mai”.
Sebbene non potesse vederlo, capì che R stava sorridendo divertito: “Sei proprio una bambina! Non temere, non ne verserò troppo. Ma devi assaggiarlo assolutamente” inclinò la coppa e le riempì a metà il bicchiere di quel liquido vermiglio. Irene lo ringraziò con un nervoso cenno del capo e prese il bicchiere, guardandoci timorosamente dentro. L’odore non prometteva un granché. Intanto R aveva fatto il giro della tavola e aveva riempito generosamente il proprio calice. Notò che si muoveva in modo assolutamente silenzioso, come un serpente, senza produrre il minimo rumore.
Lui sedette e levò il bicchiere: “Propongo un brindisi!”
“A cosa?” domandò lei ancora esitante. Lui si sporse in avanti e picchiò il calice contro il suo: “A noi due, cara Irene. A noi due” detto questo, fece un movimento rapidissimo che Irene non riuscì neanche a seguire, e nel giro d’un secondo aveva vuotato il bicchiere e si era risistemato il drappo, che era stato costretto a sollevare un po’. S’era mosso così velocemente che lei non era riuscita a vedere nulla. Batté le palpebre. R depose il bicchiere e le fece cenno di imitarlo. Con un sorrisino nervoso, la giovane accostò alle labbra il bicchiere e bevve un sorso. Era buonissimo, aveva un sapore inebriante, che le riempiva le vene di torpore. Subito inclinò il calice e ne vuotò il contenuto. Di colpo si sentì molto audace. Se lo allontanò dalla bocca, guardò R che osservava dall’altro capo del tavolo e gli lanciò un’occhiata provocante e un mezzo sorriso, come a dimostrargli che non era poi così innocente come poteva sembrare. Afferrò la caraffa e se ne versò un altro bicchiere.
“Ti piace?” le chiese lui, intrecciandosi le dita all’altezza del viso coperto. Irene annuì convinta: “Non ho mai provato nulla di così buono”.
“Serviti pure” la invitò lui alludendo ai cibi prelibati con un ampio gesto della mano. Stavolta la giovane non si fece pregare. Trasse a sé un vassoio con sopra un enorme pollo dorato, ne tagliò un’ala e la sistemò sul proprio piatto. Poi afferrò una forma di pane alle olive e delle patate croccanti. Cominciò a mangiare famelica. Era tutto buonissimo, il pasto più gustoso che aveva mai mangiato. Quando interrompeva per un attimo la sua cena, la innaffiava con generosi sorsi di vino rosso. R non toccava cibo: per farlo avrebbe dovuto togliersi il drappo, e certo non sarebbe stato altrettanto veloce come col vino. Si limitava a osservarla, in silenzio e immobile, con avidità possessiva, dal suo seggio, attraverso la sua maschera di stoffa. Era visibilmente soddisfatto di averla lì davanti.
“Dimmi, R” disse infine Irene continuando a mangiare. Incominciava a sentirsi vagamente leggera e persa, e a non distinguere i contorni delle cose: “Tu hai sempre vissuto ad Heather Ville? Come hai scoperto questo posto?”
“No, non sono sempre vissuto qui” replicò lui con tono piatto: “Ma a volte mi sembra che la parte della mia vita che si è svolta fuori da queste mura sia al più…commiserevole”.
“Che intendi dire? Ti è capitato qualcosa di brutto?” gli chiese Irene dispiaciuta. Avrebbe tanto voluto poter vedere la sua espressione. R si sistemò meglio sulla sedia, con palese insofferenza: “Tu hai un padre buono e affezionato, Irene. Il mio era…d’una diversa pasta. Era il tipo d’uomo che sacrifica il futuro dei figli per salvarsi la pelle. Fin da quando sono nato, l’ho visto sì e no tre volte. Ma in qualche modo lui era sempre presente” volse la testa alla finestra che dava sulla luna piena e un lungo sospiro gli sollevò  il petto. La ragazza lo osservava con un’espressione di benevola pietà: “Mi dispiace”.
“Non è colpa tua”.
“Ma è comunque una storia triste. Avevi fratelli, sorelle…”
“Più d’un fratello. Ma…” R scosse la testa e sbuffò, sarcastico: “Ma anche loro mi erano più che sconosciuti. Bambini che giocavano all’aria aperta sotto alla mia finestra. Solo uno saliva spesso a farmi visita. Avrei preferito che non lo facesse. E la mia povera miserabile madre…tutt’al più vedendomi piangeva”.
“Non…non correva buon sangue tre te e lei?” azzardò Irene con delicatezza. Era la prima volta che R le confidava qualcosa di sé, e lei desiderava capire più che poteva. Lui continuava a fissare assorto fuori dalla finestra: “Oh, no, quando nacqui stava sempre a baciarmi e a stringermi. L’unica donna che l’abbia mai fatto. Ma dopo…dopo la facevo solo piangere. Penso che qualche volta ci abbia provato, a venire da me, ma le mancava il coraggio. Non ho niente contro mia madre. È un donnino tanto fragile ed emotivo. Non vuole male a nessuno, lei. Ma le è sempre mancato il coraggio”.
Irene abbassò gli occhi sul proprio piatto vuoto, senza sapere bene cosa dire. R da parte sua era perso nei suoi pensieri. Infine la giovane disse: “Ma ora hai me”.
Lui le gettò una rapida occhiata e il suo tono si addolcì: “Oh, sì. Tu sei la mia redenzione, Irene. Credevo di non essere in grado di amare…ma tu mi hai fatto scoprire cosa significa tenere a qualcuno e lottare per lui. Quando saremo sposati, diventerò buono. Diventerò una persona come tutti gli altri.”.
“Cos’è che ami in me?” lo interrogò Irene, intorpidita dal vino e dalla voce insinuante del suo compagno senza volto: “Se fosse venuta qui un’altra ragazza, avresti scelto lei come tua sposa?”
“No, non credo” replicò R: “Sei tu la donna adatta a me. La tua immaginazione e i tuoi sogni sono per me come una medicina benefica. Il tuo attaccamento per Heather Ville, così simile al mio, mi rassicura. Sei tu quella che voglio, Irene, non ti cederei mai per un’altra. Le donne sono al più stupide e superficiali. Non è la tua grazia, che pure incanta chiunque la guardi, ad avermi conquistato, bensì le cose che dici e il tuo modo di porti. Sei una ragazza eccezionale, Irene. E capisci le mie ragioni, perché non hai tentato ancora di togliermi il drappo”.
Un rossore adorabile le infiammò le gote. Quei complimenti erano per lei motivo di così grande gioia che le si illuminarono gli occhi. Dunque c’era qualcuno capace di apprezzare un carattere che in città avevano sempre disprezzato, e di mettere in secondo piano quella bellezza che alla fine era stata la sua unica fonte di attrattiva per gli altri. Per la seconda volta, rivolse al drappo nero un tenero sguardo. Voleva prendergli la mano, ma non osava, per timore d’essere respinta.
R venne percorso da un fremito. Di colpo s’alzò dalla sedia, attraversò il tavolo e si fermò accanto a lei. Le porse la mano: “Vieni” le ordinò. Irene, turbata dall’interruzione, non osò obiettare e si lasciò prendere per mano e trarre in piedi. R la guidò oltre la sala da pranzo, nell’oscurità assoluta di Heather Ville, tenendole una mano sulla nuca. Esercitava una lieve pressione quando voleva che si fermasse, la spingeva delicatamente quando desiderava che andasse avanti, dava una tiratina a destra o a sinistra se era il momento di svoltare. La stava portando in luoghi oscuri che lei non aveva mai osato esplorare in precedenza, in anticamere polverose dalle ragnatele che scendevano come drappi di stoffa dal soffitto, rompendosi al loro passaggio, e travi traballanti che oscillavano pericolosamente sopra le loro teste. Tende sottili come carta velina ondeggiavano sotto la spinta del vento e creavano strane forme.
Impaurita dagli ambienti ancor più macabri in cui lei ed R stavano penetrando, Irene si fermò leggermente. R si chinò su di lei finché non sentì la stoffa del drappo pizzicarle la guancia: “Non avere paura” le sussurrò dolcemente: “Ci sono io” allorché le intimò di procedere, lei lo fece, fiduciosa.
Si fermarono di fronte ad una piccola porta di legno rimpiattata in una parete di gelida pietra. R infilò una mano nella giacca e ne tirò fuori una piccola chiave argentata che mise a colpo sicuro nella serratura. La porta rispose docilmente alla sua spinta e si aprì con un cigolio, rivelando una stretta scala a chiocciola che saliva girando su se stessa un cunicolo di pietra pervaso da un potente sentore di umidità. R tornò a chinarsi su di lei: “Questo è un luogo che è sempre rimasto segreto. Voglio mostrartelo. Andiamo!”
Irene esitò un istante sul fondo della scala a chiocciola, poi appoggiò il piede sul primo gradino. Era gelido e scivoloso. Percepì le mani sinuose di R stringerle i polsi e, rassicurata che fosse dietro di lei, cominciò a salire. Via via che si inerpicava lungo la chiocciola freddo e umidità crescevano, insieme al buio, cosicché non vedeva quasi nulla. Andava avanti alla cieca, attenta a non scivolare, in quel mondo di ombre. Quando vide una finestrella che gettava sui gradini qualche fascio di luce lunare, sospiro di sollievo. E tuttavia, subito dopo, qualcosa di piccolo e di peloso le passò sul piede. Cacciò un urlo e rischiò di cadere, spaventata e schifata. R la sostenne prontamente per i fianchi ed esclamò: “Non avere paura! È solo un topo” si chinò e afferrò la bestiola grigia senza ribrezzo apparente. Si raddrizzò sempre col topo che si dibatteva nella mani e lo contemplò per un po’. Poi guardò lei: “Vedi? Solo uno stupido topo”.
Disgustata, Irene gli voltò le spalle e si coprì gli occhi: “Mandalo via, ti prego!”
“Come desideri” replicò R cortese. Si voltò di scatto verso la finestra, la spalancò e buttò di sotto l’animale senza la minima esitazione. Si sfregò le mani soddisfatto: “Bene. Così non darà più fastidio a nessuno. Andiamo?”
Irene aveva seguito il volo mortale del topo con un certo sbalordimento. Ma quando il suo sinistro accompagnatore la esortò a proseguire, non pensò affatto a dirgli di no e, un po’ tremante, riprese a salire.
Incominciava a intravedere una debole luminescenza provenire da sopra. Volse ad R uno sguardo incuriosito, ma la stoffa che gli nascondeva il viso le impediva di coglierne la minima espressione, e lui non l’aiutò con le parole. Non le restò che andare avanti. Come aveva immaginato, la scala terminò dopo alcuni gradini e si trovarono di fronte un’altra porta, sempre di legno. Dalla fessure di sotto usciva una debole luce dorata. Nuovamente guardò R, che le mise nella mano aperta un’altra chiave, d’ottone: “Aprila”.
Irene si voltò verso la porta. Infilò la chiave nella serratura e fece come lui le aveva chiesto.
Era un salone da ballo. Un vecchio, vecchissimo salone da ballo. L’immenso pavimento d’un legno che un tempo era stato dorato scricchiolava ed era grigio di polvere, le splendide tende di broccato rosso che circondavano le ampie finestre erano pregne di ragnatele, e l’alto soffitto interamente affrescato era reso indistinto dalla semioscurità. C’erano moltissime candele accese, candele grosse come ceri pasquali, disposte tutt’intorno alla pista da ballo, che creavano con le loro luci aranciate un’atmosfera soffusa. Nell’angolo destro della sala era stato posto un pianoforte imponente, e accanto ad esso c’era un grammofono. La presenza di R lì si avvertiva molto fortemente: doveva essere un luogo in cui si recava spesso.
Irene ammirò la sala dalla soglia, colpita per l’ennesima volta dalle meraviglie di Heather Ville. Un tempo quel salone doveva essere stato bellissimo e vivace, pieno di colori e di luci, e pieno di coppie che danzavano. R si fece avanti e volse il capo coperto verso di lei: “Non è meraviglioso?” le chiese, con un’inflessione eccitata come quella d’un bambino intento a mostrare i propri regali. A passi svelti raggiunse il pianoforte. Suonò un breve e lugubre motivo che rimbombò per tutto il salone. Irene lo raggiunse a passi lenti, con la gonna rossa che frusciava al suolo, e passò le dita con nostalgia sui tasti dello strumento: “Mi sarebbe piaciuto saperlo suonare…”
“È più facile di quanto sembri” replicò R che continuava a muovere rapidissime le dita ricurve sui tasti, senza neanche vedere quello che faceva. Irene le muoveva nel senso contrario, così di colpo s’incontrarono, sospinte le une verso le altre dall’impeto dei proprietari. Lei arrossì e distolse il viso. Lui, invece, le prese il mento e le sollevò la testa perché guardasse quel pezzo di stoffa nera: “Vuoi ballare con me, Irene Lancaster?”
Il rossore di lei aumentò: “Non credo di saperlo fare”.
“Lascia che sia io a guidarti” ribatté R. Azionò il grammofono mettendovi dentro un grosso disco nero, con gesti rapidi ed esperti. Ne provenne una musica classica, di violini e di arpe, che sembrava un valzer. Al che tornò a rivolgersi a lei e le porse la mano. Irene esitò. Ma in fondo perché rifiutare? La luce di quelle candele, quel salone da ballo, il vino che le annebbiava la mente…perché non perdersi del tutto? Lasciò che R l’attirasse a sé e che le circondasse la vita con un braccio. Ora gli era così vicina che per strappargli il drappo avrebbe dovuto solo tendere le dita…lui parve indovinare cosa le passava per la testa: “Irene” disse gravemente: “Devi giurarmi sulla tua anima che non toglierai mai questo drappo, qualunque siano le circostanze. Anche se io dovessi, un giorno, essere così folle da chiederti esplicitamente di farlo, devi giurarmi che non mi darai ascolto e che non lo toccherai. Giura!”
“Lo giuro” mormorò lei vinta. In quel momento le importava solo la danza e l’ebbrezza. R si rilassò: “Grazie. Mi fido di te. Ora so che non mi tradirai”.
Irene si strinse a lui, timorosa ed eccitata insieme, e guardò in modo diretto laddove immaginava ci fossero i suoi occhi. Gli prese il viso fra le mani, appiattendo il drappo cosicché sentiva la forma del naso e delle guance. Gli sorrise: “Balliamo, R”.
Lui ricambiò lo sguardo attraverso la stoffa con uguale intensità, le braccia avvolte intorno alla sua vita. Lasciò che lo toccasse, senza temere che potesse smascherarlo: “Balliamo, Irene” acconsentì. Allora si mossero. Irene non conosceva i passi, e all’inizio era goffa e imbarazzata, terrorizzata di inciampare o di fare qualcosa di sbagliato. Si fissava i piedi che si muovevano timorosi dietro a quelli spediti ed eleganti di R, che invece la trascinava volteggiando da un lato all’altro del salone, e la teneva stretta come se temesse che gliela portassero via. Era posseduto dall’estasi dei movimenti e delle giravolte e volteggiava da una candela accesa all’altra. Ben presto la ragazza cominciò a seguire il ritmo e ad uniformare i propri movimenti a quelli di lui. Lasciava che la trascinasse, e gli rispondeva prontamente. Ora non fissava più il suolo, ma il sinistro pezzo di stoffa nera, estasiata, avvinta, intontita dal vino e dalla musica. Le sembrava di essere dentro una favola, non pensava più a nulla.
Gli si fece più vicina, per godere del suo calore, della sensazione sublime di essere sua per sempre. R la prese al volo e la sollevò da terra. Irene rise, eccitata, sbattendo i piedi. Lui le fece compiere una mezza giravolta a mezz’aria, poi la rimise a terra, e ripresero a danzare per il salone con nuova audacia. Ormai erano perfettamente sincronizzati, i loro piedi si muovevano in contemporanea, i volti, uno coperto e l’altro scoperto, erano ad un soffio l’uno dall’altro, e i loro passi avevano acquistato una nuova difficoltà. Irene si voltò e premette la schiena contro il suo petto, intrecciando la mano a quella di lui, che la stringeva alla vita, percorsero un tratto in questo modo, poi con una giravolta lui la fece nuovamente girare verso di sé, e riassunsero la posizione iniziale.
Lentamente rallentarono. Erano assorti l’uno dall’altra. Ormai Irene non faceva più caso a quel drappo: aveva comunque la sensazione di vederlo, e di leggere la sua anima. Si sciolse dal suo abbraccio e gli posò le mani sulle braccia: “Aspetta. Mi…mi gira un po’ la testa”.
Lui rise nervosamente, fermandosi. Per la prima volta sembrava imbarazzato e in difficoltà quanto lei: “Anche a me” ammise.
Irene aspettava qualcosa, che non sapeva neanche lei cosa fosse. Qualsiasi cosa, forse. Era come quando si era congedata da Stephan prima di andare ad Heather Ville, e, mentre camminava affranta e infuriata lontano da lui, aveva pregato chiunque fosse in ascolto di farlo correre da lei per dirle ti amo oppure prenderla tra le braccia e baciarla. Adesso voleva che R facesse qualcosa, che desse un significato a quel silenzio prolungato e a quell’invisibile scambio di sguardi.
Lui, confuso, sembrava cercare qualcosa da dire: “Irene, io…non so, mi sento strano”.
“Strano?” ripeté lei, che da parte sua voleva solo che smettesse di parlare. R annuì. Aveva perduto tutta la sua sicurezza: “Sì. È come se tutto quello che ho fatto finora mi apparisse sotto una luce diversa. Quello che ti ho detto di fare con quel…con quel ragazzo…ecco, mi sembrava così giusto…ma adesso…adesso di colpo mi sembra così…egoista. Quello che ti ho detto quella notte che ero così fuori di me…oh mio Dio, all’improvviso è così… orribile, e io…”
Irene sorrise e gli posò un dito sulle labbra coperte dal drappo nero, azzittendolo. Avvicinò lievemente il viso al suo: “Non devi fare questi pensieri. Sei tu ciò che voglio!”
R rimase a lungo in silenzio, stringendole le mani con tanta forza che quasi le faceva male. Poi le sussurrò: “Chiudi gli occhi. E…non li aprire. Non li aprire per nessun motivo”.
La fanciulla non si chiese il significato di quella richiesta. Anzi, era lieta che finalmente fosse giunta. Chiuse gli occhi e una patina oscura le calò sulle pupille. Si protese verso di lui, ma la sua voce, che tante volte le aveva fatto compagnia in oscurità ben più profonde di questa, ripeté concitata: “Irene… non aprirli”.
“Non li apro” gli assicurò. Dopodiché, nello stato di trance in cui era caduta, lo udì sollevare il drappo che gli nascondeva il volto con palese lentezza, pronto a lasciarlo ricadere se lei avesse accennato ad aprire gli occhi. Ma restò con le palpebre abbassate, poiché il desiderio di lui era più forte di quello di scorgere quel viso famoso. Mentre se ne stava ancora ad occhi chiusi, improvvisamente fu travolta dalla sensazione di due labbra che si posavano, timorose e timide, sulle sue. Rimase senza fiato per la sorpresa e per l’eccitazione. Era la prima volta che qualcuno la baciava sulla bocca.
R l’aveva baciata timidamente, incontrando con un tocco lieve le sue labbra, ma Irene subito gli circondò il collo con le braccia e si strinse a lui con tutte le forze. Ricambiò quel bacio fugace e inatteso con una passione che stupì lei stessa. Incoraggiato dalla sua reazione, R affondò le mani tra i suoi capelli ed emise un suono roco dal profondo della gola. Si strinsero l’uno all’altra mentre continuavano a baciarsi con sempre maggior passione. Irene stava baciando un uomo che non aveva mai visto in faccia, ma in quel momento le pareva di non aver mai conosciuto nessuno meglio di lui, e di aver raggiunto un’intimità completa. Per guardarlo le sarebbe bastato aprire gli occhi, ma era troppo presa dalle sue labbra per pensarci.
Fu lui a staccarsi per primo. Prendendola delicatamente per le spalle, la allontanò da sé e le loro bocche si separarono. Irene restò con la testa inclinata all’indietro e le labbra dischiuse, ancora travolta dal bacio. Allorché socchiuse le palpebre, R s’era di nuovo coperto col drappo. Lo fissò con un’occhiata soffusa per qualche secondo, poi con un lungo sospiro s’abbandonò priva di sensi tra le sue braccia, che subito la sorressero lievi. Alla fine il vino che aveva bevuto, l’atmosfera, e poi quel bacio inebriante l’avevano vinta del tutto.
R restò per qualche secondo immobile al centro del salone da ballo, con la ragazza palpitante stretta tra le mani. Poi la prese delicatamente in braccio, dove restò abbandonata immobile, e a passi lenti e soddisfatti uscì e incominciò a scendere la scala a chiocciola.

 
  
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