Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: _Nalushka_    29/04/2012    3 recensioni
*STORIA PRIMA CLASSIFICATA AL CONTEST 'La Voce dell'Amore'
Premio miglior personaggio femminile.
>Innamorarsi non fa parte dei piani di Michele. Ma le cose succedono quando meno te lo aspetti e allora non si può mettere un freno alle proprie emozioni, anche quando ci si sente persi in una vita priva di significato. Il 'significato' arriverà con Elisa e il mondo cambierà sotto i suoi stessi occhi, riempiendosi di una dolcezza che riuscirà a fargli perdonare le proprie debolezze.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
[ You’re not an enemy anymore

STORIA PRIMA CLASSIFICATA AL CONTEST  ‘La Voce dell’Amore’ di Martuzza97 e giudicata da EmmaWright98

PREMIO MIGLIO PERSONAGGIO FEMMINILE

 

Nickname: _Nalushka_

Titolo: Sotto la pioggia e dentro il tuo cuore

Raiting: Verde

Canzone: Rainbow di Elisa Toffoli

Introduzione alla storia:

Innamorarsi non fa parte dei piani di Michele. Ma le cose succedono quando meno te lo aspetti e allora non si può mettere un freno alla proprie emozioni, anche quando ci si sente persi in una vita priva di significato. Il significato arriverà con Elisa e il mondo cambierà sotto i suoi stessi occhi, riempiendosi di una dolcezza che riuscirà a fargli perdonare le proprie debolezze.

 

 

 

 

Sotto la pioggia e dentro il tuo cuore

http://im2.freeforumzone.it/up/28/76/491125920.jpg

 

http://i48.tinypic.com/317fp6c.jpg

 

 

 

 

 

[ You’re not an enemy anymore

There’s a ray of light upon your face now

I can look into your eyes

And I never thought

It could be so simple]

 

 

Distesi sul letto, in una mattina qualunque. Il cuscino è caldo sotto la pelle, dolce, e sa di noi.

Alzando appena la testa: nel chiarore del giorno vedo un raggio di luce dentro i tuoi occhi e so che la guerra è finita.

Per la gioia, una piccola lacrima brilla sulla mia guancia. È calda anche lei, si mescola al cotone del cuscino ma non sento altro che il tuo respiro vicino, e il sole che vince su entrambi, svegliandoci con i suoi baci tiepidi e dorati. Le tue mani non sono più fredde e il sorriso nasce spontaneo, timido ma sereno, e non capisco come possa essere tutto così semplice ora, dopo tutto quello che abbiamo vissuto. Che hai vissuto.

Mi scosti una ciocca di capelli, lo so che non li sopporti quando mi invadono il viso, ma il tocco è leggero, quasi mi sfiori come se fossi di cristallo.

E mi sento un cristallo, sotto il tuo sguardo, sotto le tue mani, dentro i tuoi abbracci che non finirebbero mai. Ma questo lo sai già. Come so con precisione disarmante che adesso non parlerai, no, lascerai che il calore del tuo corpo diventi il mio, che il tuo respiro tocchi il mio. E su questo letto banale, in mezzo al sole d’inverno, in una mattina qualunque, io e te saremo noi, senza se o ma. Saremo noi, e basta.

 

Prima parte

 

Una ragazza strana. Con capelli strani, lunghi e pazzi, con ricci così stretti da sembrare eredità di un altro mondo, neri come carbone.

“Ma sono così belli” , diceva sempre la mamma, passandoci le dita a mò di pettine. E io, la ragazza strana, alla fine ci ho anche creduto. Di quel nero assoluto ho fatto un marchio, sulla pelle bianca risalta ancora di più, e in nero e bianco mi sento, come un’istantanea moderna scattata distrattamente da una macchina fotografica polverosa e vecchia.

“Ma non sei strana. Se solo ti levassi tutto quel nero dagli occhi, però…” continuava la mamma, con uno sguardo di disapprovazione per il rimmel e l’eyeliner che uso senza parsimonia. Ma ero quasi sicura che anche senza il mio trucco deciso ci sarebbe stato sempre qualcosa in me, qualcosa di indefinito che mi avrebbe fatta individuare come una strana. Perciò alzavo le spalle ai suoi commenti che avevano l’unico scopo di non farmi sentire troppo strana. Non mi interessava più di tanto.

Ero nel mio mondo fatto di bianco e nero, consolante e deciso. Forse monotono è vero, ma alla fine i colori annoiano. Il bianco e il nero invece sono così assoluti che esisteranno sempre senza annoiare mai. Frequentavo corsi di fotografia da anni ormai, e quelli che mi venivano meglio erano scatti di secondi rubati con la bellezza di altri tempi, bianco e nero, l’essenza della vita nei suoi due colori più puri. Da dietro l’obiettivo della macchina fotografica vivevo in sintonia con me stessa.

Fu una mattina di settembre, quella in cui incontrai Michele. Camminando per il parco in cerca di ispirazioni, mettevo un passo dopo l’altro senza pensare veramente a qualcosa. Il giorno era ancora caldo, una bellezza di sole splendeva nel cielo di mezzogiorno ed io ero distratta. Mi capitava spesso di rimanere intrappolata nel silenzio della mia mente mentre tenevo la Nikon tra le mani. Se qualcosa attirava la mia attenzione allora era lui, lo Scatto, e la mano automaticamente si muoveva per immortalarlo. Quando inciampai in Michele la mia testa era per aria, guardavo il cielo seguendo l’orma di una nuvola sbarazzina e non mi sarei accorta di lui nemmeno volendolo. Sentii solo lo scontro dei nostri corpi, l’impatto dei libri di lui che cadevano a terra. Prima di vedere la sua faccia controllai con ansia che la Nikon fosse uscita indenne dallo scontro e tirai un sospiro di sollievo trovandola dondolante ma sana e legata ancora al mio polso dal laccio nero. Poi mi concentrai sul ragazzo alto e imbranato che mi era venuto addosso. Smilzo e rigido, con un’imprecazione si sbrigò a raccogliere i libri da terra.

“Potresti stare attenta quando cammini in un parco pubblico. Così non finisci addosso alla gente” sbottò seccamente, lanciandomi un’occhiataccia. Mi irritai al suono della sua voce.

“Non c’è bisogno di arrabbiarsi. La prossima volta scansati te, invece di venirmi addosso” risposi, tirando indietro i capelli che mi erano finiti quasi tutti sul viso. Percependo l’elettricità del momento, erano impazziti. Cosa che mi fece ulteriormente irritare.

Lui sbuffò e finì di raccogliere il Manuale di Matematica. Quando si alzò non mi degnò di un’occhiata e se ne andò senza nemmeno scusarsi. Rimasi incredula di fronte a tanta scortesia e me ne tornai a casa nervosa e senza la mia foto.

 

Una settimana dopo tornai al parco, ma l’estate, che prima si respirava a pieni polmoni, si era presa qualche giorno di vacanza. Faceva freddo, tirava un vento bizzarro ma non avevo voglia di stare in casa. Avevo un po’ di tempo libero prima di andare al corso, che tanto veniva dato in un istituto poco lontano da lì, quindi afferrai la cartella dei miei lavori e la Nikon, e misi tutto nella borsa. Mi armai di felpa e ripercorsi buona parte della camminata naturale che faceva del parco una vera delizia per i passanti. Ma di passanti, oltre me, nemmeno l’ombra e sospirai di sollievo. Non mi piace la confusione. Se posso, preferisco godermi in solitudine i momenti di tranquillità. Su una panchina non lontana vidi l’unico altro esploratore casuale della camminata e per poco non soffocai. Con lo sguardo perso nel vuoto e le braccia incrociate, sedeva quel ragazzo maleducato che aveva attentato al mio equilibrio. Mi stavo per girare e cambiare strada quando pensai alla sua sfrontatezza, alla durezza dell’occhiata che mi aveva lanciato. Non era giusto. Non so cosa mi prese, so solo che alla fine mi trovai di fronte al suo sguardo perplesso, con le mani sui fianchi e l’espressione da dura che non frega mai nessuno.

“Prima di tutto volevo dirti che sei stato un gran maleducato. È vero, probabilmente dovevo stare più attenta a dove mettevo i piedi, ma nessuno ti da il diritto di comportarti come hai fatto. È maleducazione non chiedere nemmeno scusa, senza contare il tono! In secondo luogo, il parco è immenso. Con tutto il posto che c’è, perché mi sei finito addosso? Non sarà per caso che anche te non stavi guardando a dove stavi andando? Mh?”

In vent’anni non credo di essermi mai trovata in una situazione simile. Ma già che c’ero sottolineai il mio disappunto con uno strano movimento della mano che disegnò sulle labbra dell’assalito un sorriso divertito.

“Vuoi sederti e calmarti?” mi chiese. Io lo guardai imbarazzata.

“Volevo solo dirti che non mi è piaciuto il tuo comportamento” borbottai, scostando i capelli, liberi al vento, dal viso.

“Penso di averlo intuito dalla tua predica. Emozionante, se non altro.”

“Non era una predica.”

“Ah, no? Aveva tutta l’aria di esserlo.”

“Sei stato…”

“…maleducato?” concluse con un altro sorriso. Questa cosa iniziava a mettermi a disagio. Avevo previsto un altro tipo di reazione, non certo una risposta quasi amabile.

“Di nuovo, penso di averlo compreso.”

Nonostante tutto la sua voce manteneva un che di pedante, quasi di canzonatorio.

Poi, come per magia, sentii la sua risata ed ebbi la forza di distogliere lo sguardo dalle scarpe da tennis nere logore che avevo ai piedi. Era stata tanto spontanea che mi aveva colto di sorpresa.

“ Scusa. In effetti un po’ sgarbato lo sono stato. Ma non immaginavo questa reazione. Mi hai pedinato fino a trovare il momento giusto per colpire la tua preda o è stato il caso a farci ritrovare qui?”

“Ti ho pedinato, ovvio.”

“E hai aspettato una settimana per assalirmi?”

“La vendetta è un piatto che va servito freddo.”

“Ovviamente. Ma ancora non conosco il nome della mia aguzzina.”

Era carino, nonostante i lineamenti non fossero di quelli forti e comuni per un ragazzo. Aveva linee delicate, i capelli ricadevano ordinati intorno al viso in onde soffici e gli occhi erano di uno strano colore verde-grigio. Avrà avuto la mia età, se non qualche anno in più e l’espressione era tranquilla, ma lo sguardo era fin troppo sveglio. Era riuscito a trasformare una situazione spiacevole in una conversazione quasi amichevole. Per quanto potesse risultare forzato, era stato abile.

Divertita da questo cambiamento di toni, risposi con un mezzo sorriso.

“Non posso rivelarlo, altrimenti potrei essere perseguibile per stalking.”

Altra risata, che mi fece quasi arrossire.

Mi porse la mano e io la strinsi automaticamente. Era fredda, liscia ma fredda, e repressi un brivido.

“Michele.”

“Elisa.”

“È il tuo vero nome?” chiese divertito.

“Forse. Non lo saprai mai” dichiarai, sorprendendomi per le risposte che stavo dando. Tanta confidenza non era da me, non ero proprio il tipo. Eppure stavo rispondendo con una disinvoltura che un po’ mi spaventava.

Con un gesto elegante rimise le braccia nella posizione iniziale, nascondendo i polsi fasciati di spugna bianca.

“Giochi a tennis?” chiesi, senza sapermi frenare. Lui mi guardò perplesso.

“I polsini” aggiunsi, a mò di spiegazione.

Michele si irrigidì un attimo, e temetti di aver fatto una gaffe enorme. Poi riassunse il solito aspetto rilassato, anche se negli occhi qualcosa era cambiato.

“Sono stata inopportuna” dissi, arrossendo leggermente.

“Certo. Sei una stalker. Dovrebbero condannarti, sai?”

Aveva ripreso il tono di prima, quindi mi ero calmata un po’.

“Mpf. Certo.”

Controllai l’orologio, se non mi fossi sbrigata avrei fatto tardi alla lezione.

“Devo andare. Mi ha fatto piacere aver chiarito la situazione.”

“Se è servito a tranquillizzarti, ben venga.”

C’era simpatia nel suo sguardo, leggera come una sfumatura colorata quasi impercettibile. Un tocco di giallo, forse? Con i colori ero una frana, avrei dovuto ripassarmi l’ultima lezione su come, ad ogni emozione e sensazione, venivano affiancate determinate sfumature. Ma da quel ragazzo non provenivano forti onde emozionali. Sembrava immerso in un grigio indefinito.

“Beh, grazie. Sei stato gentile.”

“Meno male. L’idea di essere nuovamente traumatizzato da una che si fionda a darmi del maleducato non mi entusiasmava poi tanto.”

“Meglio, anche perché penso non capiterà mai più. A parte tutto, non è stato terribile conoscerti.”

“Grazie.” Trattenne un altro sorriso.

“Ciao.”

Feci qualche passo, domandandomi cosa mi fosse successo. Poi sentii la sua voce.

“Elisa?”

Pronunciato da lui il mio nome aveva un ché di incerto.

Mi girai verso la panchina.

Michele si era alzato e non sorrideva più.

“Scusami, davvero. A volte so di essere poco cortese. Comunque, vengo spesso qui. Forse potremo rivederci.”

 

Era elegante, nessuno avrebbe saputo ribadire a questo. Per quanto fosse alto e smilzo e vestisse dei banali jeans scoloriti e una felpa azzurra, aveva un certo portamento. Con le mani nelle tasche e lo sguardo serio sembrava quasi più vecchio dell’età che dimostrava all’inizio.

“Okay. Ci vediamo.”

 

 

[ You can hear the music with no sounds

You can heal my heart without me knowing

I can cry in front of you

‘cause you’re not afraid to face my weakness]

 

 

Come fai a guardarmi sempre così? Come se fossi una persona migliore di ciò che sono. Eppure nei tuoi occhi vedo solo una dolcezza che mi disarma. Le cicatrici spariscono sotto il tuo sguardo, e mi sento migliore di ciò che sono. Forse è niente, forse è tutto, e questa sensazione che mi scalda potrà essere la svolta che mi farà amare la vita. Non ci sono parole che possano esprimere quello che sento, non posso spezzare l'incantesimo che ci sta vincendo. Sdraiati sul tuo letto, mi sembra che niente sia stato tanto bello nella mia intera esistenza. Hai il rimmel che si è fatto strada sul tuo viso bianco, sembri un piccolo panda spaesato, con le guance rosse e i capelli neri come una bandiera di pirati che sventola sul candido lucore delle lenzuola. Detesto quando ti coprono gli occhi, perché è come se interrompessero la strada che mi porta verso te. Ma questo lo sai già. Senti i miei pensieri muti come se fossero nella tua testa e questo mi spaventava un po', prima. Ora invece la trovo una cosa divertente. Divertente. Non ho mai provato niente di simile. Sorridi? E' bello quando sorridi, ti vengono le fossette ai lati della bocca rosa come quelle dei bambini. C'è così tanto di puro in te, che ho quasi paura di insozzarti con la mia presenza. Non merito la tua compagnia. Come fai ad essere così bianca? Sfioro con la mano la tua fronte calda e anche le mie mani sono calde, ma a mala pena me ne accorgo. Sei bianca come lo zucchero filato, di un bianco dolce e delicato. Capelli neri e pelle bianca, un contrasto che ti ha sempre resa bellissima. Poi ci sono questi improvvisi sprazzi di colore di cui non ti rendi conto, quando le guance si pizzicano di rosso e le labbra risaltano di un rosa porcellana. Gli occhi scuri si confondono con tutto quel trucco pesante che ti metti addosso, ma nel tuo essere bianco e nero c'è qualcos'altro e io l'adoro, credo. Non ho mai adorato niente, è una delle altre sensazioni nuove che hai portato con te nella mia vita. Sei spiazzante. E profumi di primavera, mentre assaporo il collo che esce dalle coperte. Le piccole cicatrici prudono un po', crepitano cercando di richiamare l'attenzione che non hanno più da parte mia. Adesso ho altro a cui pensare.

 

Seconda parte

 

Fa male capire che non c'è niente di interessante attorno a te. Vedere come l'esistenza si srotola di fronte in un tappeto grigio e immobile. Non c'è niente che provochi in me una reazione. Stupore? Nah, niente. Non esiste. O meglio, non esisteva. Mi sono stupito per la prima volta quando mi sono trovato di fronte un tornado bianco e nero e rosso di imbarazzo che mi chiedeva spiegazioni. Al parco, come tutti i giorni, rovistavo tra le macerie che mi trovavo dentro stringendo le mani a pugno sotto le ascelle per impedirmi di grattare le ferite nuove che si erano aggiunte alle piccole cicatrici bianche, frutto di anni di disperazione.

Era un'emozione anche la disperazione? Allora non tutto era perduto, mi dicevo, quando guardavo con disgusto quelle linee perlacee e rosse.

Poi era arrivata lei, a stupirmi. Lei che con i capelli assurdi impazziti al vento e la tracolla nera, vestita di nero da capo a piedi, mi faceva capire quanto ero stato maleducato. Lei, minuta e con le guance rosse per l'assurdità della situazione, muoveva avanti e indietro le mani con gesti strani e buffi. Ero stato sgarbato, ma non ci avevo riflettuto molto. Ero sgarbato per il novanta per cento della mia vita, ma nessuno aveva mai provato a farmelo notare con tanta enfasi. Mi era venuto spontaneo sorriderle, sembrava un cartone animato in bianco e nero, con le guance e le labbra rosse come unico colore concesso al suo stato d'animo alterato. A dire il vero mi erano venute spontanee tante cose, oltre al sorriderle. Ad esempio, non mi ero mai soffermato con lo sguardo sui capelli di una persona, sulla sua postura, sul suo modo di parlare. Niente era interessante, figuriamoci le persone. Elisa, questo è il suo nome, era diversa. Gli occhi mi scivolavano addosso come a inquadrarmi e comprendermi, a caccia di particolari. Era andata così vicina a rovinare tutto con le sue osservazioni spontanee e maldestre, ma, mentre la mia testa mi ordinava di lasciarla stare, qualcosa nel petto si muoveva in cerca di un respiro nuovo. Invece di marcire nell'aria squallida che inglobavo ogni giorno in più che mi costringevo ad alzarmi dal letto, avevo sentito la necessità impellente di non separarmi dalla sua stranezza vivace. E non ero riuscito ad allontanarla senza gettarle un'ancora. Avevo bisogno di salvezza? Dentro di me ne ero quasi certo, ma non sono mai stato bravo a capire certe cose. Per quanto mi fosse facile leggere equazioni come italiano fluido e scorrevole, il mondo che avevo dentro mi era per lo più sconosciuto. L'unica cosa di cui ero sicuro era l'inquietudine che non mi lasciava mai, come un cane rabbioso che fiatava sul collo: non sentivo altro che la sensazione stringente di essere perso in un luogo senza via di uscita.

 

[ I was looking for a place to stay

Are you looking for a place to stay?]

 

 

Rividi Elisa qualche giorno più tardi. Seduto sulla solita panchina, mi chiedevo con ansia se avessi sbagliato i calcoli. Sarebbe stata la prima volta. Ma Elisa non si era fatta vedere da nessuna parte e, forse, avevo frainteso tutto. Poi, quel pomeriggio, intercettai la piccola statura della ragazza, una figura in nero con i fitti ricci afro che cercavano in tutti i modi di eludere la legge di gravità. In quel momento nascosi bene i polsi sotto le maniche del giubbotto e continuai a seguirla con gli occhi, mentre teneva in mano una macchina fotografica e scattava furiosamente appena trovava qualcosa che reputava interessante. Fece scivolare l'obiettivo davanti a sé e alla fine mi vide. Il sorriso che seguì mi immobilizzò il cuore.

Era una sensazione diversa dalle solite che mi obbligavo a provare. Fresca e calda contemporaneamente, del tutto spontanea; pareva che niente fosse più colorato di lei, più vistoso di lei, mentre mi veniva incontro.

“Ciao” disse, e contai due fossette ai lati della bocca che facevano capolino come due monelle.

Risposi con un cenno del capo, troppo preso da ciò che mi stava accadendo per parlare.

“Non mi inviti a sedere?” chiese, indicando la panchina. Scrollai le spalle e si mise a sedere sull’altro bordo della panchina fredda. Quando la visuale mi fu occlusa dalla massa di capelli neri iniziai a ridacchiare. Alzò il viso appuntito verso il mio e arrossì.

“Sono un po’ eccentrici, lo so, ma a me piacciono così.” Allungò distrattamente un ricciolo.

“Non c’è niente di male, ma non riuscivo a vederti con tutti questi capelli.”

Gli occhi neri erano incorniciati da pesanti linee scure, come le sue iridi. Sembravano grandi e profondi come pozzi di tenebra, ma in tutta la luce che aveva il suo viso, sembrava una tenebra amica e non qualcosa di cui aver paura. Un salto nel vuoto, pericoloso forse, ma eccitante.

“Ciao” sussurrai, affascinato.

Si armò della Nikon che teneva ancora tra le mani e mi guardò attraverso l’obiettivo. Mi aspettavo un flash e il click dello scatto, ma si limitò a squadrarmi da dietro la macchina fotografica.

“Che fai?” chiesi, incuriosito.

“Ti studio.”

“Non voglio essere studiato” replicai a disagio. Mi mossi un po’ sul posto, ma non sembrava aver recepito il messaggio.

“Non importa. Ho bisogno di conoscerti, e per farlo questo è il modo migliore.”

“Studiarmi come...cosa?”

“Come uno dei miei soggetti. Faccio la fotografa. Cioè, no, non ancora. Sto studiando per diventare una buona fotografa. E uno dei miei compiti è studiare i soggetti da immortalare.”

Parlava con tranquillità, non c’era imbarazzo da dietro la Nikon. Solo curiosità analitica, all’insegna della scoperta di particolari interessanti. Mi sfiorai la punta del naso.

“Perché sono diventato uno dei tuoi soggetti?”

Tolse la Nikon di fronte agli occhi e mi rispose con una serietà che mi lasciò di sasso.

“Perché sei strano.”

“Posso assicurarti che in questo momento, tra i due, la più strana sei tu.”

“Siamo strani entrambi.”

“Vorrei replicare, se mi è concesso.”

“Non ti è concesso: sei strano. Non c’è da vergognarsi di questo.”

“E perché sarei strano, scusa?”

Si mordicchiò il labbro rosa.

“Perché sei il primo ragazzo che incontro che non ha colore. È come se lo stessi nascondendo da qualche parte.”

Rimasi paralizzato. In qualche modo mi sentii violato nella mia sicurezza, nella mia corazza. Come poteva dire una cosa del genere?

“Non mi conosci. Cosa ne puoi sapere?” Avevo la mascella serrata: non era così che immaginavo potessero mettersi le cose. Non avevo bisogno di qualcuno che cercasse di capirmi.

“Nulla. Per questo ti sto studiando” disse, e i suoi occhi rimasero nei miei abbastanza per far salire il disagio che già provavo.

“Non mi sembra il caso.”

“Io dico di sì invece.”

“Se lo dici te.”

Rise del modo in cui mi uscì la frase dalle labbra, come un sbuffo esasperato.

“Di solito non mi sbaglio. Quando guardo qualcosa è normale per me assimilarne i lati essenziali, come catturare la sua anima. E vedo che tu sei diverso.”

Non sai quanto, pensai. Ma non credo che sarebbe stata pronta per sentirmi dire fino a quanto aveva visto giusto.

Risi forzatamente.

“E come avresti fatto a capirlo? È solo la terza volta che ci vediamo.”

“Sensazioni. Poi i tuoi occhi. Per quanto mi riguarda è vero che sono lo specchio dell’anima, come dicono in molti.”

Si alzò con uno scatto leggero e mi si fece di fronte. Sentii il cuore cedere un battito e il respiro fermo in gola.

“Tremi dentro e fuori sei immobile. Troppo immobile, non so se mi spiego. La tranquillità è solo apparenza, una forzatura. Non so chi tu sia, è vero. Di te conosco il nome e so che studi all’università, probabilmente Matematica, sicuramente materie scientifiche. Ma guardandoti in faccia si capisce molto di più. So che ho ragione, non serve smentirmi”, aggiunse con un sorriso strano mentre mi preparavo a contraddirla. Adesso, oltre che dentro, tremavo anche fuori. Mi maledissi e maledissi lei, che con tanta disinvoltura mi spogliava di tutto.

“Credo di aver fatto abbastanza danni per oggi. Io vado, ci...vediamo.”

Non riuscivo a staccare gli occhi dalla sua figura, anche quando fu lontana continuai a seguirla finché non mi rimase da guardare altro che il vuoto. Ero abituato ad avere le mani fredde, ma non mi sono mai sentito così gelido. Iniziò a farmi male la vista e distesi le palpebre sul bruciore insistente.

Poi venne la frustrazione.

Mi alzai sentendo le spalle che premevano in giù, come se un peso si fosse messo a gravare su di esse, e ogni passo verso casa si faceva sempre più faticoso. Arrivai al portone dell’appartamento che condividevo con altri studenti della mia età, tutti di facoltà diverse, col fiatone.

Mi pareva di essere invecchiato di vent’anni di colpo.

Non incontrai nessuno nel breve percorso fino in camera mia, entrai nella penombra della stanza e chiusi a chiave. Non avevo più forze. Schiacciai la schiena contro la porta ruvida, vecchia almeno quanto me, e pian piano mi lasciai scivolare a terra. Alzai le maniche della maglia, tolsi bruscamente i polsini che mi fasciavano. L’interno della spugna era macchiato di marrone in alcuni punti, dove la crosta delle ferite si era staccata e aveva fatto uscire piccole gocce di sangue. L’intreccio delle cicatrici perlacee si intuivano appena sulla pelle chiara degli avambracci, ma sui polsi la cosa era differente. Piccoli tagli sottili si confondevano con quelli più recenti, era disgustoso. Alcuni punti si erano rimarginati male, la crosta faticava a ricostruirsi. Con freddezza seguii la linea azzurra della vena, che miracolosamente usciva indenne da quel massacro. Non avevo mai avuto il coraggio di sfiorarla, nonostante mi divertissi a giocare costantemente col fuoco. Un millimetro in più e il gioco era fatto. Ma dovevo guardare in faccia la realtà. Ero un vigliacco. In qualche modo non mi sentivo pronto per andarmene definitivamente. La mediocrità della mia esistenza, così squallida e grigia, era diventata comoda. Sentii il disgusto dipingersi sulla mia faccia, ed ebbi pietà di me stesso. Poi pensai a Elisa, che sembrava così pura e bella.

Mi domandai per giorni come avesse fatto a leggermi così facilmente, mentre gli altri a mala pena si accorgevano della mia esistenza.

 

Terza parte

 

Michele entrò nella mia vita, giorno dopo giorno. Era diventato il mio miglior amico: la confidenza che si era instaurata tra di noi era particolare. Era fatta di sguardi, occhiate franche e sensazioni che entrambi non capivamo da dove venissero. Quando stavo con lui ero me stessa, senza sentirmi a disagio. E lui si sentiva a disagio perché capiva che riuscivo a vederlo per quello che era. Un ragazzo fragile e impaurito. Mi sfuggiva ancora, però, da cosa fosse impaurito. E non sembrava il caso di approfondire l’argomento. A volte arrivava ai nostri incontri con gli occhi vuoti e le occhiaie a segnargli lo sguardo. Sembrava perso in qualcosa di così lontano e incomprensibile che metteva ansia anche a me. Cercavo di lasciar perdere però: non era ancora pronto per parlarmene, non era giusto forzare la mano. Tenevo a lui? Per com'ero fatta io, tanto abituata a pensare a me stessa, anche troppo. Per la prima volta ero completamente presa da una persona che non fossi io.

A novembre l’azzurro del cielo aveva dato forfait, liberando su di noi un grigio piombo che niente aveva di naturale. Sembrava una cappa pesante, immobile, soffocante. Eppure non sentivo la depressione che normalmente accompagnava questo tipo di clima. Metereopatica di natura, ero abituata a sentire l’umore che si accordava al cielo che vedevo fuori dalla finestra. Invece, sentivo solo un brivido d’eccitazione mentre camminavo veloce fino all’appartamento di Michele. Era sera, il buio aveva un po’ coperto i nuvoloni che avevano minacciato pioggia per tutto il giorno e per evenienza l’ombrello era finito in borsa insieme al materiale nuovo su cui avevo lavorato. Mi sentivo euforica, quasi. Anzi, senza quasi. Per la prima volta ero soddisfatta di ciò che avevo tra le mani. E non vedevo l’ora di mostrarlo a Michele, che mi aveva gentilmente invitato a casa sua per un film. Mi ci volle un po’ per ricordarmi la strada che mi aveva descritto qualche tempo prima, ma alla fine riuscii a trovare l’edificio squadrato e vecchio nel quale condivideva l’appartamento con altri ragazzi. Il portone antico di legno era lasciato aperto, entrai e guardai con stizza le scale che facevano capolino dall’angolo illuminato a destra. Niente ascensore, ovvio. E lui abitava al quinto piano, ovvio. Quando mi trovai di fronte alla porta ero senza fiato. Suonai il campanello e mi aprì un ragazzo che non avevo mai visto, alto quanto me e ben messo. Mi sorrise come se non riuscisse a credere ai suoi occhi.

“Sei l’amica di Michele. Entra, vieni pure.”

L’ingresso era un corridoio stretto e lungo, da lì si accedeva a sei porte – contai- tutte abbastanza vecchiotte. C’era un forte odore di patatine fritte e panni appena stesi, e la cosa mi fece sorridere. Il ragazzo si girò e indicò una porta alla sua sinistra.

“Michele sta lì. Comunque io sono Giovanni.”

Aveva una stretta decisa e la faccia simpatica.

“Io sono Elisa.”

Giovanni si grattò il mento, ridacchiando.

“Sei la prima persona che Michele si porta a casa. E ci conosciamo da parecchio. Non so, è strano.”
Risi apertamente.

“È un male?”

“Beh, è solo...strano. Ma sono contento per lui. Se ne sta sempre per i fatti suoi, non da molta confidenza alle persone.”

Non so come, arrossii. Era il modo in cui mi guardava, come se avessi qualcosa di speciale, che mi metteva in imbarazzo. Forse capì il mio disagio, fatto è che lanciò uno sguardo alla porta da dove veniva il suono della tv accesa, e mi salutò.

“Speriamo di rivederci” mi disse, e mi fece un cenno col capo prima di sparire.

Bussai alla porta che mi aveva indicato, stringendo la borsa con l’altra mano. Michele aprì e mi salutò con un sorriso divertito.

“Chi ti ha aperto?”

"Giovanni. Un tizio simpatico.”

La camera non era grande, ma i soffitti erano alti e bianchi, come in ogni vecchia casa che si rispetti. Invece del letto c’era un divano rosso, un po’ consunto, e sotto la finestra c’era una scrivania nera, col pc e una catasta assurda di libri. L’armadio era piccolo, discreto, nascosto in un angolo e nel complesso la stanza non era male.

“Non c’è letto. Non mi dirai che alla fine ti riveli l’Edward Cullen della situazione, ti prego”, dissi preoccupata.

Lui rise e si accasciò sul divano con un aspetto da vero vampiro. Era pallido, ora che lo squadravo meglio, sotto la luce del lampadario sembrava più vecchio che mai.

“Chiamasi divano letto: è abbastanza comodo a dire il vero. Comunque non si sa mai nella vita. Ma non credo che sarò tentato dalla tua tenera carne.”

“Dovresti essere tentato dal mio sangue, per essere precisi.”

“Già. Chi erano quelli che squartavano le loro vittime per mangiarsele?”

“Zombie? Non ne ho la minima idea” ammisi, scrollando le spalle. Appoggiai la borsa a terra, con molta attenzione, e mi sedetti accanto a lui.

“Tutto bene?” chiesi. Altro che occhiaie, quelli che aveva sotto gli occhi erano veri e propri solchi. Iniziai a preoccuparmi.

“Sì. Sono solo un po’...stanco” disse, accennando con un sorriso rigido ai libri sulla scrivania.

Ma avrei scommesso la mia Nikon che non era solo questione di studio.

Capì che non gli credevo e si sbrigò a cambiare argomento.

“Il film è già nel pc. Ma se non vuoi vedere ‘Quarto Potere’ possiamo sempre ripiegare su qualcosa di più leggero.”

Sorrisi.

“Tipo?”

“Dovrei avere una copia del Re Leone, da qualche parte.”

“Non puoi mettere ‘Quarto Potere’ e ‘Re Leone’ a confronto!” esclamai divertita.

“È ovvio che vinca il Re Leone!”

Michele si mise le mani nei capelli, arruffandoli.

“Abbiamo vent’anni. Non penso sia legale vedere ‘Re Leone’ alla nostra età.”

Incrociai le braccia al petto con aria bellicosa.

“Ci provino a dirmi una cosa del genere! Io voto per il ‘Re Leone’.”

Mi guardò e mi parve di scorgere una luce tenera nei suoi occhi. Ma forse mi sbagliavo. Lui non era mai stato tenero. Al massimo gentile. Quell’espressione era una novità che mi fece arrossire. Non ero immune al suo cambiamento d’umore. E la cosa iniziava seriamente a turbarmi. Non ero davvero abituata a tenere così tanto ad una persona.

“Re Leone sia, allora” proclamò, con l’aria di un uomo che andava al patibolo. E si mosse dal divano per accendere il pc e caricare il film.

Non penso di essermi mai divertita tanto come quella sera. Il film fece riemergere ricordi d’infanzia che entrambi avevamo rimosso, e anche Michele alla fine si unì alle mie risate. Eravamo spensierati come due ragazzini, e non c’era cosa che mi facesse più piacere che vederlo libero per una volta dai suoi problemi. Per la contentezza non riuscii a reprimere un brivido che lui colse subito.

“Ti fa freddo?” domandò.

Negai col capo, sorridendo, ma lui si alzò ugualmente e recuperò con la solita compostezza elegante una coperta di pile celeste che mi drappeggiò sulle spalle.

Ecco, forse avrei dovuto aggiungere che non ero più immune nemmeno al suo fascino discreto.

“Grazie”, dissi, mentre affondavo col naso nel tessuto soffice e profumato.

Si rimise a sedere e finimmo di vedere il film con lo stesso stato d’animo di prima dell’interruzione.

Quando arrivarono i titoli di coda allungai le braccia stiracchiandole un po’.

“Hakuna matata” dissi allegra e Michele ridacchiò.

“Ridi come una bambina, te l’ha mai detto nessuno?”

“Dici se qualcuno è mai stato tanto scortese da farmelo notare prima di te? No, sono sicura di no” risposi soavemente.

Si limitò ad osservarmi e quando stava per dire qualcosa bussarono alla porta: Giovanni fece capolino con un sorriso divertito, interrompendolo.

“Ehm, Michele, io e Dario andiamo a farci un giro. C’è la festa della facoltà di Economia, non se la vuole perdere e io lo accompagno. Mi sa che non torneremo prima di domani mattina.”

Michele lo guardò perplesso.

“Va bene, certo” disse, educatamente.

“Okay. Allora a domani. Ciao Elisa.”

La testa scomparve alla stessa velocità con cui era entrata. Il mio sguardo si posò sulla tracolla che avevo lasciato a terra.

“Ti devo far vedere una cosa” dissi, aprendo con entusiasmo la borsa. Presi la cartellina spigolosa e gliela sbandierai di fronte al viso. Un altro sorriso dolce, e il mio cuore perse un colpo. Dovevo calmarmi.

Mi rimisi sul divano e lui fece lo stesso, guardandomi con curiosità. Quando è tranquillo gli occhi prendono una sfumatura più limpida, come se il grigio si diluisse fino a diventare trasparente. È impossibile non rimanerne incantati. Aprii la cartellina, sfilando con sicurezza la foto. Lasciai che me la togliesse di mano e che restasse per qualche secondo in silenzio ad osservarla. Più la vedevo e più rimanevo soddisfatta del mio lavoro. Non mi sfuggì la sua espressione esterrefatta, il pomo d’Adamo che fece un balzo prima di tornare a scendere al suo posto.

“Questo sono io” sussurrò.

Era stato un momento prima che lui si era accorto della mia presenza, al nostro ultimo appuntamento al parco. Lo scatto era venuto fuori così spontaneo che mi aveva fatto paura. Era seduto sulla panchina, leggermente piegato in avanti come a scrutare il suolo, il profilo risaltava perfetto e delicato proprio come l’ho sempre visto. I capelli gli coprivano gli occhi, ma la bocca aveva l’inclinazione distratta e persa che aveva sempre cercato di nascondere. Ma era il gioco dei grigi che rendeva quella figura viva. Sembrava vero il vento che gli scompigliava le onde dei capelli, che gli strattonava la giacca. Mi ci era voluto un po’ prima di capire quali toni fossero adatti ad una figura del genere, volevo provare col colore, ma alla fine era stato il solito contrasto bianco/nero a darmi ragione. Traspariva la sua delicatezza, la sua vulnerabilità, ma anche la sua eleganza d’altri tempi, nel modo in cui teneva incrociate le braccia o nelle gambe piegate come in un dipinto del Settecento. Speravo che a lui arrivassero tutte quelle sensazioni, e, dalla faccia che fece, avrei scommesso di sì.

“È così che ti vedo. Volevo che tu capissi...”Mi si spezzò la voce.

“Cosa? Che io capissi cosa?” chiese, bruciandomi con gli occhi.

Abbassai la testa, confusa. Non sapevo cosa dire. Sapevo solo che i battiti del cuore erano diventati troppo dolorosi e non avevo idea di come si facesse a farli smettere.

La sua mano fredda scostò i capelli che mi nascondevano, con una delicatezza quasi commovente.

“Mi fanno impazzire, sai? Quando prendono il sopravvento, non riesco proprio a sopportarli questi riccioli” sussurrò divertito.

Ebbi la forza di alzare lo sguardo ma me ne pentii quasi subito. Il viso di Michele era a pochi centimetri dal mio, sentivo il leggero profumo di dopobarba che usava tutti i giorni pizzicarmi il naso.

“Sono eccentrici ma..”

“A te piacciono così. Lo so” concluse con un sorrisetto che non riuscì a stemperare la situazione.

Deglutii a fatica.

“È così che ti vedo. Ed è così che mi piaci” sussurrai con una spontaneità che mi spiazzò, facendomi sprofondare nel rossore infinito del mio imbarazzo. Mi sentivo soffocare.

Repressi un brivido quando mi posò leggermente due dita gelide sul volto, disegnando il profilo dello zigomo.

E un altro, quando le sue labbra si posarono sulle mie.

E smisi di respirare quando mi prese tra le braccia, schiacciandomi contro la seduta del divano, toccandomi come se fossi stata di cristallo, colmando tutta la solitudine che avevo provato nei giorni prima di lui, prima del nostro scontro al parco. Prima che ce ne rendessimo conto giacevamo sdraiati sul divano letto, la foto dimenticata a terra, a guardarci negli occhi come non avevamo mai avuto il coraggio di fare, a baciarci come se tutto il resto fosse niente. Sentivo la giustezza di quel momento nel petto gonfio di calore. Le sue mani mi accarezzavano la schiena in cerchi ampi, le dita che affondavano un po’ di più ad ogni nuovo giro, nel maglioncino nero che indossavo. Tremavo, e non c’era freddo: non c’era nient’altro che lui accanto a me.

Sentii l’abbraccio farsi più forte e risi davvero come una bambina, ma stavolta lui non mi seguì. Affondò la testa nel mio collo e mi sfiorò col naso.

“Non scappo, non c’è bisogno di stringermi così” sussurrai, immergendo una mano tra i suoi capelli.

Lo sentii irrigidirsi e l’incantesimo di quel momento appena passato cessò d’improvviso. Quando alzò la testa e mi guardò non c’era più nulla di dolce nel suo sguardo.

“Devi andare.”

Aveva un tono di voce così duro che per poco non impallidii.

“Perché?” chiesi, sentendo il peso delle lacrime ostruirmi la gola.

Michele si allontanò da me, lasciandomi indifesa contro il freddo dell’aria attorno a noi.

Senza guardarmi, si ricompose e sospirò forte.

“ Non posso stare con te.”

Aveva le spalle piegate come se una mano invisibile le stesse premendo giù, fino a farlo affondare nel pavimento, e percepii con chiarezza una disperazione che non era mia.

“Michele...”

“Va via, ti prego.”

“Non puoi mandarmi via, così. Non dopo...questo” mormorai, buttando i capelli indietro per non perderlo di vista.

Il silenzio che seguì mi lasciò una tristezza amara che mi portai dietro per molti giorni.

Me ne andai senza una parola, afferrai il giubbotto e corsi per le scale come una forsennata. Una volta fuori, sentii il cuore così piccolo da fare male.

 

Quarta Parte

 

[You’re not my enemy anymore

there’s a ray of light upon your face now

It will be all new again

There is something else

Just round the corner]

 

Mi girai credendo che fosse ancora lì, con gli occhi grandi e luccicanti di lacrime, invece se n'era andata lasciandomi in silenzio e con il suo sapore sulla lingua. Non credevo di essere capace di provare tante emozioni insieme. Da che aveva suonato il campanello era stato un susseguirsi di immagini e toni via via sempre più intensi, e mi aveva mandato fuori di testa. Vederla lì, sul divano, così vicina da poterne sentire il calore, sentirla ridere spensierata e bella come non mai mi aveva dato l'illusione di essere cambiato. Tutto era così leggero quando stavo con lei, tutto così naturale. Era stato naturale avvicinarmi, sfiorarla con il braccio mentre si distendeva e si rilassava guardando il film. Era stato bello.

Quando aveva tirato fuori la foto ero rimasto impressionato. Quello ero io. Io, senza difese, io. E c'era tanta cura nell'immagine da farmi venire i brividi.

I suoi occhi erano di un nero liquido, sembrava caffè, e il volto era bianco e rosso come quella prima volta che ci eravamo parlati al parco. Sentivo che c'era qualcosa di pericoloso nella nuova vicinanza in cui ci trovavamo, ma era lì, così invitante, con le labbra ad un soffio dalle mie. Con gli occhi neri, le guance color fragola e i capelli impazziti, era lì che mi guardava come se non ci fosse niente di sbagliato in me. Era lì.

Non avevo mai baciato una ragazza come Elisa. Ad ogni bacio mi perdevo sempre un po' di più in lei, nella morbidezza del suo calore; nel suo abbraccio stavo dimenticando anche il mio nome. Non c'era altro nel mondo se non la necessità di toccarla e sentirla un po' più mia. I suoi capelli erano morbidi, più di quello che immaginavo, e ci circondavano in una nuvola calda e rassicurante. Avrei voluto che quel momento non finisse mai. Mi ero aggrappato a lei, ma sapevo che non era cambiato nulla. Non potevamo stare insieme per lo stesso motivo per cui non mi aveva mai visto con le braccia scoperte, o per cui non mi aveva mai sentito dire cosa mi turbava. Non ero pronto a portarla nella mia esistenza incasinata. Era una persona troppo pura per poter stare con me e condividere i miei momenti di disperazione. Guardai la stanza libera della sua presenza: la tracolla era afflosciata a terra, vicino al divano, la foto era sul pavimento. Tolsi con rabbia i polsini e mi chiesi per la prima volta nella vita perché non potevo essere come lei. Perché non potevo smetterla di sentirmi inutile? Perché non potevo smetterla di sentirmi vuoto? Elisa mi aveva dimostrato che erano tante le emozioni che mi aspettavano, appena fuori dalla porta di casa. Dovevo smetterla di nascondermi, ma...Ma. Non ero ancora pronto. Sbuffando di frustrazione mi lasciai andare sul divano, guardandomi i polsi. Quando sarei stato pronto, solo allora, avrei potuto abbandonarmi all'idea di avere una vita normale. Mi addormentai così, tra un pensiero e l’altro, con la sensazione di aver appena iniziato davvero a vivere.

 

Quando mi aprì la porta non sorrise. Semplicemente, si scostò dall'entrata e mi fece un segno silenzioso per farmi entrare. Non ero mai andato nel quartiere dove abitava, una zona residenziale ben tenuta e tranquilla, con casette dai color pastello e giardini verde smeraldo anche d'inverno. Era passato un mese dal nostro ultimo incontro e ancora non ero riuscito a portarle la borsa che mi aveva lasciato. Non c'era niente di che, se non qualche foglio e la cartella che mi aveva fatto vedere. Entrammo nel salotto in ordine, in casa oltre a noi non c'era nessuno.

“Non ci sono i tuoi?” chiesi per stemperare il silenzio che ci avvolgeva. Nella tuta più grande di un paio di taglie sembrava più piccola e fragile che mai.

Scosse la testa, sorridendo amaramente.

“Vivo da sola da un po' ormai.”

“Oh. Beh, ti ho portato la borsa.”

Misi il sacchetto che la conteneva sul tavolino di fronte alla televisione.

“Grazie.”

Mi guardava come se fosse in difficoltà e sospirai a disagio.

Misi le mani a coprirmi il viso stanco, cercando di non pensare a quanto fosse bella e immobile in quel momento, seduta a pochi metri da me.

“Non farmi questo, ti prego.”

Strinse le labbra che avevano preso a tremare, sbattendo gli occhi grandi.

“Non sto facendo nulla” sussurrò, e mi si spezzò il cuore sentendo la sua voce.

“Va bene, parliamo un po'. Ti va?”

Silenzio.

Sospirai.

“Non doveva succedere quello che è successo. Ma non è tua la colpa. Non c'entri te. Sono io che...non vado bene.” Passò qualche secondo prima che mi dicesse qualcosa.

“Ci siamo baciati. Anzi, tu mi hai baciato. E poi mi hai buttato fuori di casa.”

“Detta così sembra peggio di quanto pensavo.”

“Così è andata. E sono abbastanza arrabbiata da chiedermi cosa ci fai ancora in casa mia.”

Mi alzai, in difficoltà. Percorsi avanti e indietro la distanza che ci separava, fermandomi prima di sbatterle addosso. Poi parlai.

“Cosa credi? Che non abbia pensato a quella sera? Sono stato ogni santo giorno a chiedermi cosa potevo fare per migliorarmi, perché non posso sopportare l'idea di perderti. Solo oggi mi sono sentito pronto a rivederti e adesso sto mandando a puttane tutto ciò su cui ho lavorato!”

Alzai le maniche della felpa, mostrandole le braccia senza più paura. Gli occhi neri di lei si allargarono ancora di più e parve un pulcino di fronte ad un mostro.

“Questo è ciò che ti ho nascosto per tanto tempo. Faccio schifo, vero? Come potevo avvicinarmi a te in quel modo continuando con tutta questa merda?”

Mi rimisi a sedere, poggiando la testa sulle mani. Stavo per scoppiare. Passai qualche minuto fermo, credendo di aver combinato un bel casino. Dovevo andarmene. Poi sentii le sue dita alzarmi il viso e incontrai il suo sguardo umido vergognandomi della mia povertà d’animo.

“Sono un mostro”, ammisi, sorridendo debolmente.

Lei toccò le mie braccia con delicatezza, soffermandosi sui polsi.

“Sono tutte rimarginate.”

Mi sorprese? No. Non è mai stata una ragazza come le altre.

Incredibile il suo occhio critico, riusciva sempre a cogliere ogni sfumatura. Era per questo che era una brava fotografa. Aveva un dono tale e io la stavo per perdere.

“Ho smesso la sera stessa in cui te ne sei andata. Ho smesso. Adesso sono solo delle brutte cicatrici.”

Lei sorrise tra le lacrime, bella e bianca come un angelo.

“Bene. Perché non avrei sopportato di starti lontana ancora per molto.” E mi abbracciò forte, sommergendomi con i capelli neri svolazzanti, annullando la mia vergogna col suo amore.

“Non ti faccio schifo?” sussurrai incredulo.

Per tutta risposta lasciò che le nostre labbra si unissero, finalmente in pace.

“Non mi hai mai fatto schifo. Ho sempre saputo che avevi qualcosa che ti turbava e non sapevo fino a che punto eri...coinvolto. L'importante è che sia tutto passato.”

Le accarezzai la fronte, pieno di gratitudine.

“Ero solo e non riuscivo a vivere. Mi sentivo immobile e invisibile. Non riuscivo a cambiare e...poi sei arrivata te.”

La baciai con forza, assaporando le labbra che sapevano di lampone, imprimendo in quel gesto tutto il bisogno di lei che sentivo e che avevo patito in quel mese di separazione.

Se avessi avuto Elisa accanto sin dall’inizio sarebbe stato diverso, pensai. Ma dopo tutto quello che avevo passato, annullarmi in lei perdendomi tra i suoi baci portava una pace dal sapore ancora più dolce.

 

 

[When we’ll wake up

some morning rain

will wash away our pain

‘cause it never began for us

It’ll never end for us]

 

 

Epilogo

 

“Smettila di guardarmi così, mi farai arrossire di nuovo.”

Mi sposto i capelli di fronte agli occhi per schermarmi dai suoi sguardi ammirati. È  la prima volta che qualcuno mi guarda come se fossi una stella o un miracolo vivente che cammina su una terra troppo insulsa per i suoi piedi.

“Smettila di metterti i capelli di fronte al viso.”

Le sue proteste hanno il tono delle carezze con cui ci siamo riempiti le mani questa notte, e il rossore sale spontaneo al ricordo dei nostri momenti insieme.

Mi toglie un ricciolo sbarazzino giusto in tempo per vedere la fiamma del mio viso e la cosa lo fa sorridere. Rabbrividisco e lui aumenta la presa sull’abbraccio, come ad assorbirmi completamente e non farmi più sentire freddo. Ma non è il freddo a farmi rabbrividire, è la magia di quella mattina di sole d’inverno, è la certezza che non mi dirai di nuovo Vattene. I fantasmi sono spariti dai tuoi occhi che brillano di una limpidezza quasi innaturale. Tu ovviamente non lo sai, preso come sei dalla tua contemplazione adorante che mi strappa un’altra risata. Alzi la testa e ti volti verso la finestra e riesco ad infilarmi meglio nell’incavo del tuo petto.

“Piove” sussurra lui, e mi giro anche io.

Dalla finestra la luce non è la sola cosa che si vede. Gocce di cristallo scendono con leggerezza dal cielo che non è scuro come al solito. Meravigliata, scendo pian piano dal letto, malgrado il brontolio sommesso del suo corpo che si trova denudato della mia presenza fisica accanto. Apro il balcone che si affaccia sul terrazzo della mia camera e osservo lo spettacolo senza fiato. C’è una sorta di delicatezza arcana nel modo in cui ogni goccia si stende al suolo, come un piccolo bacio o una lacrima silenziosa. Non mi rendo conto di essere completamente uscita fino a quando non sento la pioggia appiattirmi i capelli e bagnarmi la sottoveste di raso, troppo leggera anche d’estate.

Inizio a ridere e non so perché. È l’aria forse, che sa di vita, d’amore, di pace. Sarà che mi sento una bambina innamorata, soddisfatta del bianco e del nero che mi sono trovata di fronte e mi viene da pregare come la credente che non sono mai stata. Giro in tondo, allargo le braccia e trovo Michele che ride perché rido come una bambina, perché anche lui è felice e innamorato, perché l’aria è fredda e stiamo ballando come due scemi mezzi nudi sul terrazzo di camera mia. Non abbiamo bisogno di altri perché. Mi appoggio a lui in preda alle vertigini e sento il bisogno di baciarlo e baciarlo ancora, mentre le sue mani calde scacciano la pioggia dalla mia pelle e si appropriano dei miei capelli bagnati e innocui.

La pioggia ha smesso di cadere, ma noi non abbiamo smesso di baciarci e quando rientriamo nel calore intimo della stanza da letto sappiamo entrambi come andrà a finire. Ridiamo come degli sciocchi, tiriamo su le coperte ed eccoci lì, pronti ad amarci ancora come la prima volta.

 

 

 

Fine.

 

 

 

 

Angolo dell’autrice:

 

Salve a tutti!

Che dire, questa storia mi ha presa un po’ alla sprovvista, lo ammetto. I personaggi sono spuntati dal nulla mentre ascoltavo la canzone di Elisa e mi hanno chiesto di dar loro voce e come potevo rifiutarmi? La fotografia è stato un elemento che mi ha molto ispirata, sarà che la adoro ma non sono capace di prendere in mano una macchina fotografica e scattare una foto senza ritrarre anche il solito dito che spunta di lato, brutto e nero e che sciupa tutta l’immagine!

Oltre a demolire le mie doti di fotografa, volevo approfittare di questo piccolo spazio per poter ringraziare la ‘giudicia’ del contest a cui ha partecipato la storia EmmaWright98 e il suo giudizio che oltre a farmi sciogliere in lacrime, ha dato una sferzata di energia in più alla mia autostima traballante. Grazie grazie ^^.

Elisa e Michele sono grati di tutto e chiedono timidamente se sarebbe possibile per voi cari lettori lasciare una piccola recensione sulle loro avventure. Sono giovani e innocenti, che ci volete fare. Ma non voglio negare a loro qualche commento, quindi mi aggiungo anche io alle loro suppliche J! Alla prossima!

La vostra commossa

_Nalushka_

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: _Nalushka_