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Autore: Miss_Nothing    09/05/2012    1 recensioni
Questa One-shot è tratta da una storia vera, un grazie a chiunque la leggerà.
Charlotte, 25 anni e un buco nero che la inghiotte. La fobia che prova verso il mondo, la voglia di lasciarsi morire e di ritrovare suo figlio.
Charlotte, dopo la morte del figlio non riesce più a uscire fuori di casa, solo sfiorare l'erba con le scarpe le da i brividi.
Ps: odio la fine, l'ho scritta veramente male
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho vissuto fino all’età di 25 anni e sono esistita per un tempo che mi sembrava infinito.
 
 
Quando puoi vivere per sempre la vita si trasforma in esistenza.
Sarebbe potuto essere l’inizio dei libri fantasy che adoro leggere. La  mia vita non sarebbe stata immortale masi era già trasformata in una placida esistenza.
Sentivo il peso del mondo sulle mie gracili spalle e tutte le vie d’uscita erano chiuse a chiave.
L’alba stava colorando il cielo. Mi misi seduta sul letto ancora sotto le morbide coperte, i primi raggi illuminavano la stanza. Rivolsi il palmo verso un raggio, era caldo. Quando ero piccola pensavo che i primi raggi di sole fossero la speranza delle persone, lì essi racchiudevano tutto ciò in cui credevano, poi sono cresciuta, ho perso mio figlio, ho smesso di credere e sperare, ho capito che il mondo era troppo crudele per uno spiraglio di luce.
Appoggiai i piedi al pavimento in legno lucido, era freddo al tatto. Sospirai, un nuovo giorno e come sempre la ferita che avevo nel cuore si riapriva. Solo la notte la guariva perché era il portale che consentiva a me e a mio figlio di vederci, di nuovo.
Avanzai verso la cameretta con passo incerto ed aprì la porta. Il letto era fatto, di nuovo. Spero sempre che lui torni, che la sua morte non sia mai avvenuta. Le lacrime cominciarono a scivolare sul viso rigato dal pianto. Il dolore lascia sempre un segno indelebile nella nostra anima, la strappa portando con sè parte di essa.
Una mano mi accarezzò delicatamente la schiena.
<< manca anche a me >> sussurrò con voce strozzata.
<< Non riesco ad accettarlo Alessandro, non posso >> dissi con voce carica di dolore e singhiozzi.
Lui mi fece voltare per poi abbracciarmi. Cercava di darmi calore, di fare guarire la ferita ma non poteva e lo sapeva anche lui. Mi diede un bacio leggero sulle labbra imperlate di lacrime.
<< Devo andare al lavoro a dopo >> mi disse per poi scomparire.
Entrai nella stanza con le pareti blu come il mare in estate. Era decorato da figure di pirati e di mostri che amava disegnare. Mi sedetti sul suo letto, le coperte coi gormiti erano fredde, fredde come la notte che era passata troppo in fretta. Presi dal comodino una fotografia, eravamo io e lui.
I miei capelli biondi come l’oro facevano risaltare i suoi neri come la pece e gl’occhi azzurri d’entrambi erano come luci nell’oscurità. Lui teneva in mano quelle stelle che si accendono a capodanno, sorrideva,era felice. I singhiozzi si fecero sempre più insistenti mentre stringevo la fotografia al petto. Ed ecco la consapevolezza che non sarebbe più tornato, che non avrei più potuto abbracciarlo, che non avrei potuto vederlo crescere.
Il campanello suonò interrompendo i miei pensieri e il cane cominciò ad abbaiare.
Mi alzai e rimisi a posto la fotografia. Mi affacciai alla finestra, era il panettiere e aveva lasciato il pane fuori dal cancello.
Il giardino ci separava, un giardino che mi appariva immenso, cominciai a tremare per la paura, non c’è la facevo a varcare la porta che sembrava mi volesse risucchiare nella realtà.
Mi sedetti sul divano aspettando mio marito.
 
Due settimane dopo
 
<< È  da più di cinque mesi che sei chiusa in casa devi uscire, riprenderti in mano la tua vita >> gridava Alessandro.
Io rimanevo a capo chino seduta sul divano cercando di trattenere le lacrime.
<< È  successo Charlotte: non uscire di casa non lo renderà meno reale >> mi disse mentre si chinava su di me.
<< No, tornerà vedrai >> dissi tra i singhiozzi.
<< on lo farà, lo sai >> ribatte lui. Mi alzai di scatto facendolo indietreggiare e scappai nella mia stanza.
 Presi tra le mani un foglio di carta e una biro. Le lacrime bagnavano il foglio bianco e immacolato, cominciai a scrivere.
 
Caro Michele,
sono sicura che tornerai, anche se il papà dice che non lo farai, so che tu tornerai. Non m’importa se nel cimitero c’è una lapide con il tuo nome, tu vivi ancora. Dove ti sei nascosto? Ti piace troppo nascondino ma sai che prima o poi devi venire fuori.
Sai questi mesi senza di te sono stati difficili vuoi far soffrire così la tua mammina?
Anche se tornerai dopo anni e anni rimarrai per sempre il mio bambino.
                                                                                                         Tua madre
 
Guardai la lettera tra le mie mani, la carta ingrigita nel punto dove le lacrime erano cadute, le sbavature della penna.
Ma chi volevo prendere in giro? Strappai la lettera lasciando cadere i pezzi sul pavimento e mi sdraiai mentre sentivo il mio cuore strappato dal petto.
 
Quattro settimane dopo
 
La nebbia inghiottiva le case e nascondeva il cielo azzurro. Quanto avrei voluto esserlo anche io sparendo per sempre. La casa era vuota tranne per il cane che si aggirava per casa. Era ancora una cucciolona. Michy l’aveva chiamata Gina come la gallina di un cartone che amava tanto.
La cucciolotta cominciò a correre intorno a me mentre la musica malinconica riempiva la stanza.
Il campanello, la spesa che avevo ordinato. Uscii senza neanche farci caso mentre i miei piedi camminavano meccanicamente sull’erba tagliata con cura. Poi mi accorsi di essere fuori, ero a metà strada tra la porta di casa e il cancello e il mondo sembrò girare mentre il mio cuore sussultava, la paura s’impossessò del mio cuore togliendomi il fiato.
I rumori della strada erano attenuati dal battere accelerato del mio cuore, fu come in uno di quei film a rallentatore dove il mondo sembra fermarsi, mi voltai e corsi in casa, al sicuro, lontano dalla realtà.
 
 
Pochi giorni dopo
 
Mentre sentivo i bambini dei vicini ridere, lo spettro di mio figlio si tratteneva in casa. Una volta quel piccolo e pallido fantasma aveva varcato la soglia della porta ed era scomparso bruciato dalla realtà. Preferivo esistere con mio figlio che uscire e vivere senza di lui.
Come poteva chiedermi mio marito di sorridere ancora? Di ricominciare a vivere? Sembrava che il dolore fosse scivolato su di lui come pioggia su un tessuto impermeabile lasciando solo piccole gocce in superficie.
Meglio così, almeno uno dei due poteva andare là fuori e combattere per entrambi.
<< Sono tornato >> disse la sua voce stanca mentre entrava nel soggiorno.
Si tolse lentamente la giacca quasi come se la sua schiena trasportasse qualcosa di pesante. Mi salutò con un bacio sulla fronte.
<< Non pensi che sarebbe meglio chiamare un psicologa tesoro? >> mi chiese con voce incerta.
<< Non sono matta >> dichiarai con voce fredda.
Lui mi sorrise per poi abbracciarmi. << Lo so, ma forse può aiutarti, almeno puoi provare a parlarci >> mi disse con voce dolce sostenendo con fiducia nella sua idea.
Rimasi in silenzio, stringendomi a lui.
<< Ti prego >> aggiunse con voce implorante.
<< Ci proverò >> dissi con un sussurrò quasi impercettibile.
Si staccò da me e mi sorrise accarezzandomi il viso appiccicoso per le lacrime che quel pomeriggio erano cadute a fiotti.
<< Andiamo ho fame >> mi disse per poi andare in cucina. Ormai i nostri discorsi erano così, semplici, servivano solo per piccole cose. Mi mancavano le vecchie e lunghe chiacchierate che facevamo prima dell’incidente.
 
 
Una settimana dopo…
 
La psicologa sedeva di fronte a me, la gonna lunga e nera, la camicia di una tonalità più chiara. Sorrideva, un sorriso professionale poco rassicurante. Teneva gl’occhiali quasi sulla punta del naso ed questi erano legati da una catenella all’estremità.
I capelli lisci e secchi della donna erano tagliati in un caschetto. Il biondo faceva risaltare la pelle abbronzata e gli occhi verde muschio.
Teneva tra le mani un blocchetto e scriveva come un robot,tutto quello che dicevo.
<< Che cosa prova quando esce? >> mi chiese con la un tono di voce calmo.
Deglutisco, che cosa provavo? Come se potevo spiegarlo, era la cosa più brutta del mondo.
<< paura, paura del vuoto e del nulla >> dissi a mezza voce mentre lei scriveva.
Speravo avesse capito, abbassai lo sguardo e i capelli mi coprirono il viso. Era la mia protezione, adesso potevo ricominciare a respirare.
<< Charlotte ti va di affrontare con me quel nulla? >> mi chiese, alzai lo sguardo.
No! Ecco cosa avrei voluto risponderle. “No, non voglio e non perché è lei ma perché non voglio combattere.”
Mi voltai lentamente per vedere mio marito che mi fissava, aspettava una risposta.
Tic, tac le lancette dell’orologio continuavano a scorrere. In fondo a chi importava della morte del mio bambino?
Tic, tac il tempo scorreva, il mondo andava avanti con o senza di me.
Ma c’era qualcosa che mi reclamava. Qualcosa che voleva tirarmi fuori da quelle ombre.
Tic, tac dovevo rispondere.
<< No, non voglio ma so che non accetterà un no come risposta. >> risposi con flebile sussurro.
Lei sorrise, un vero sorriso, un sorriso pieno di compassione.
<< Andiamo Charlotte c’è un mondo che ti aspetta >> mi disse mentre si avvicinava per aprire la porta. La luce entrò riscaldando il mio viso e lo spettro di mio figlio cominciò a scomparire piano piano. Mi alzai dal divano lentamente, le gambe mi tremavano. La stanza aveva cominciato a girare.
Andai avanti verso a quella porta fatta di luce.
Sfiorai i raggi con le dita quasi come se ci fosse un vetro che mi separava dal mondo esterno.
<< Coraggio >> aggiunse quella donna.
Avanzai di un passo, poi di un altro. Mi trovai fuori e la luce mi feriva gli’occhi. Me li coprì con la mano, mentre lasciavo fare alle mie gambe.
Un passo, un altro, e poi ancora un altro.
Ero fuori, il mondo non poteva aspettarmi ancora.
 
 
Qualche mese dopo…
 
La terapia continuò finchè non fui capace di uscire da sola.
Adesso era tutto diverso, uscivo a fare lunghe passeggiate, andavo perfino con la macchina.
Ero tornata alla normalità, almeno per alcuni aspetti. Sentivo ancora quell’immenso dolore ma sapevo che non se ne sarebbe mai andato via.
Se prima ero una foglia portata dal vento ora ero io il vento stesso.
La strada era trafficata ma ormai la mia paura si era sciolta come neve al sole. Conoscevo bene quelle vie di cemento.
Parcheggiai e scesi dalla macchina. Presi un grosso respiro, mi avrebbe perdonata?
Bussai la porta con un tocco leggero, speravo che non ci fosse ma allo stesso tempo volevo vederla.
La porta si aprì rivelando il viso abbronzato, i capelli scuri e setosi di Asia.
<< Charlotte >> disse sorpresa mentre l’espressione stanca del suo viso cambiava.
Feci un piccolo sorriso.
Forse era stato un errore. Ma non ebbi il tempo di parlare che lei mi abbraccio.
<< Mi sei mancata Charlie >> mi disse mentre sentivo delle gocce bagnarmi i capelli. Stava piangendo.
<< Puoi perdonarmi per la mia assenza? Per come ti ho trattata? >> le chiesi mentre la stringevo.
<< ma certo Charlie, io ti ho perdonata dal primo istante >> dichiarò mentre faceva sparire il suo viso tra i miei capelli.
Il cuore si fermò per un attimo mentre una lacrima, una sola, mi rigava il viso.
La strinsi più forte.
Se anche lei era riuscita a perdonarmi forse potevo perdonare anche io la vita per quello che mi aveva fatto.
Forse era avvenuto per un bene più grande.
Una frase prese vita nella mia mente.
“la vita è una battaglia. Inutile scappare ti trova sempre, ma questa volta è stato non come brezza leggera ma come un uragano”.
 Se stava così allora mi sarei preparata per vincerlo.
  
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