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Autore: _Shantel    10/05/2012    30 recensioni
Liceo scientifico L.
Prendete Alice, liceale di diciotto anni che vive in un mondo fantastico; aggiungete Davide, il bello-e-dannato della scuola che è il suo sogno proibito: sommate anche Federico, il migliore amico di Alice, di cui lei si invaghisce; infine moltiplicate per Edoardo, il fidanzato immaginario della ragazza che assume le fattezze dell'affascinante "Blaine", uno gigolò. Risultato?! Un gran pasticcio per la povera Alice da lei stessa creato, senza immaginarsi quello che poteva succedere. Ma in questo caos riuscirà anche a scoprire l'amore per la prima volta. Già perchè, come dice lei stessa...
Mi chiamo Alice Livraghi e non ho mai baciato un ragazzo
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Epilogo

Love is a losing game

betato da nes_sie

 

Odiavo gli ascensori, soprattutto quelli lenti che mi facevano marcire di fronte alle loro porte metalliche, nella vana attesa che si aprissero. Guardai l’ora sul mio Blackberry ed imprecai a denti stretti. Erano già dieci minuti che avevo prenotato quell’aggeggio infernale e non c’erano segnali di vita da parte sua. Non che avessi qualche appuntamento, ma l’attesa era sempre stata snervante per me, in qualunque caso, dall’attendere le ore che una donna si presentasse ad un appuntamento, al caricamento “lumaca” dei film in streaming.
Mi guardai intorno, circospetto, e quando notai che nessuno mi stava fissando, tirai un calcio contro le porte metalliche. Non che quello avrebbe accelerato la corsa del trabiccolo, ma almeno mi ero sfogato. Il tonfo, però, aveva fatto sobbalzare qualche segretaria e addetto ai suoni che passavano da quelle parti, che mi guardarono straniti e con un’espressione di rimprovero. Sfoggiai un sorriso di sbieco, la mia arma infallibile, il mio cavallo di battaglia brevettato in anni ed anni della mia carriera di latin lover. Le donne si sciolsero davanti al mio sguardo, gli uomini mi mandarono a cagare con un gesto della mano. Avevo come l’impressione di non essere loro molto simpatico e di certo io non avevo mai fatto nulla per apparire come tale. La simpatia era un gene mancante nel mio DNA, purtroppo.
L’ascensore finalmente arrivò, dopo circa un quarto d’ora che ero rimasto a fare le ragnatele di fronte a lui. Salutai rapidamente e con un sorriso la gente che c’era e mi appoggiai allo specchio, in attesa che quello shuttle giungesse al piano interrato. Mi passai indice e pollice sugli occhi, poi una mano sul mento liscio. Era da qualche mese che avevo smesso di farmi crescere la barba e mi mancava parecchio. Così sembravo un adolescente glabro impaziente di entrare nella pubertà.

Contro le mie aspettative, lo shuttle giunse senza troppi intoppi e con velocità al piano interrato. Raggiunsi la mia Mito e mi immisi tra le strade scure di Milano. La riunione del giorno era durata più del previsto ed erano già le sette passate.
Appena imboccai una strada abbastanza libera, premetti sull’acceleratore e permisi all’adrenalina e all’eccitazione di invadere le mie vene, il mio corpo ed inebriarmi i sensi. Superare i cento chilometri all’ora era quasi come avere un orgasmo. Quasi, ovviamente. Evitai qualche macchina, improvvisando alcuni sorpassi pericolosi e beccandomi qualche vaffanculo e un sacco di suonate di clacson. Il bello di correre in macchina era anche fare perdere le staffe ai poveri automobilisti. Mi divertiva vederli infuriati e urlare come delle scimmie contro di me, appellandomi in qualsiasi modo poco gentile.
Quando parcheggiai e spensi il motore, tutto il mio entusiasmo si smorzò. Fu come essere svuotato di qualsiasi gioia, essere catapultato nuovamente nella grigia realtà che vivevo. Salii verso il mio appartamento piano e con la stessa lentezza aprii la porta. Il buio e la solitudine mi diedero il benvenuto, quasi come fossero loro i padroni di casa. In fondo eravamo coinquilini da un anno, ormai. Dopo la fine della storia con Alice, era tornato tutto come prima. Ero solo in una città che non mi apparteneva e le mie lenzuola erano state riscaldate da donne di cui conoscevo a malapena il nome. Facevo sesso perché alleviava il mio dolore. Facevo sesso per dimenticare che ero solo. Facevo sesso e basta. L’amore era un gioco troppo complicato per me. Avevo più volte cercato di capirne le regole, ma ancora mi erano sconosciute. Ed intanto mi aveva inflitto due sonore sconfitte, una più dolorosa dell’altra, e ora rideva di Dario Vitrano, di quel povero sfigato che si era fatto prendere per il culo così facilmente e che ancora tentava di districarsi tra i suoi fili ingarbugliati. Perché, che lo volessi o meno, ero ancora innamorato di Alice a distanza di un anno. Avevo provato a dimenticarla, avevo provato ad innamorarmi di qualcun altro, ma le mie relazioni duravano qualche mese e fallivano miseramente per colpa mia. Alice riempiva ancora la mie mente e il mio cuore, il sangue mi ustionava le vene ogni qualvolta la pensassi e la gelosia mi logorava da dentro quando la immaginavo tra le braccia di un altro. Se avessi potuto, avrei dato tutto pur di tornare indietro nel tempo e sistemare le cose. Ma era impossibile, purtroppo.
Mi tolsi il maglione e lo buttai sul divano, poi mi lasciai cadere stancamente sullo stesso. Tenni gli occhi chiusi per qualche secondo, poi ascoltai i messaggi lasciati sulla segreteria.

«Ciao, tesoro,» storsi il naso nel sentire la voce di Sabrina, la ragazza con cui mi stavo frequentando da due mesi e mezzo, «ho voglia di vederti, di stringerti, di baciarti. Appena senti questo messaggio richiamami. Ho bisogno di te.»
Ci fu un tintinnio, poi la voce registrata della segreteria mi informò di un altro messaggio ricevuto il 17-novembre-alle-ore-diciassette-e-quarantadue-minuti.
«Ehi, fratè! Nun te fai più sentì! Che, sei morto? Se nun rispondi entro domani chiamo la polizia e pure il CSI! Damme un segno e ‘na risposta soprattutto. Ciao, coglione!»
Sorrisi e cancellai entrambi i messaggi.
Tornare a Roma avrebbe significato risvegliare tutti i ricordi che avevo cercato di assopire in quell’ultimo anno. Subito dopo essermi lasciato con Alice, avevo fatto la valigia e me n’ero andato, salutando la mia amata Consuelo e lasciando qualche riga a mio padre, l’unico che aveva sempre dimostrato un po’ d’affetto nei miei confronti. Il dolore per aver perduto Alice era stato talmente tanto che non avevo avuto nemmeno la forza di prendere a pugni mio fratello. Ci eravamo solo guardati quando stavo fuggendo da Roma ancora una volta e mi ero stupito dello sguardo di Mauro. I suoi occhi avevano perso la loro caratteristica freddezza e quasi pensai che fosse dispiaciuto. Respirai a fondo e mi passai una mano tra i capelli, appoggiando i gomiti alle ginocchia. Pensai a lungo, guardando la parete davanti a me. Erano passati circa una ventina di minuti quando presi finalmente la mia decisione.
Avevo, dunque, un paio di cose in sospeso da sistemare, sia con Sabrina che con Adriano. Chiamai prima la mia ragazza, anche se tale non era ancora e, dopo quasi mezz’ora di moine da parte sua, la invitai a casa mia. Non se lo fece ripetere due volte e dopo una ventina di minuti era già attaccata al citofono a suonare come una pazza. Indossai velocemente il maglione e la feci salire. Mi abbracciò e mi baciò a fior di labbra, stringendomi poi le mani e guardandomi dritto negli occhi con i suoi grandi color nocciola.

«Hai già mangiato, tesoro?» chiese, togliendosi la giacca e appoggiandola sull’appendiabiti.
«No, non ancora,» risposi, con un sorriso stiracchiato e quasi forzato.
«Ti preparo qualcosa di veloce? Oppure ordiniamo una pizza?» mi domandò, accarezzandomi il viso con entrambe le mani.
Scossi la testa e la presi per mano, conducendola verso il divano. Ci sedemmo uno accanto all’altra e la sua stretta, così come il suo sorriso, si fecero più intensi.
«Devi mangiare qualcosa,» disse apprensiva.
«Dopo mangio, prima però devo dirti una cosa,» risposi serio e lei si illuminò.
«Anche io,» mormorò.
Si avventò su di me e mi baciò con foga, affondando una mano tra i miei capelli mentre con l’altra esplorò, per l’ennesima volta, il mio corpo sotto il maglione. Dapprima ricambiai quel bacio, ma subito la mia passione si spense. Era ingiusto continuare ad ingannarla e scoparmela solo per il gusto di appagarmi. Ero stufo del sesso senza cuore e soprattutto non volevo ridurmi agli infimi livelli raggiunti l’anno precedente. Anche se l’amore aveva una sorta di antipatia verso di me, c’era sempre la speranza di potergli far cambiare idea. Ero riuscito ad acciuffarlo quando meno me l’aspettavo, quando ero solo un poveraccio che si prostituiva e che aveva anche rinunciato a cercare di dare una nota positiva alla sua vita.
Spinsi via Sabrina da me e non ebbi nemmeno il coraggio di guardarla negli occhi per leggervi dentro la perplessità di quel mio gesto. Solitamente ero sempre io quello la spogliava per primo e che fremeva per poter avere il suo corpo morbido e dannatamente eccitante.
«Scusa, Sabri,» bisbigliai.
«Non ti senti bene?» chiese e mi prese il volto tra le mani.
Mi dispiaceva doverla scaricare, così come avevo fatto con tutte le altre. Sabrina era una brava ragazza. Intelligente, solare e sempre ben disposta verso gli altri. Un po’ troppo apprensiva e appiccicaticcia, ma di sicuro la fidanzata ideale.
«Ho deciso di partite per Roma,» le dissi con un filo di voce.
«Vai a trovare i tuoi genitori?» domandò con un pizzico di dubbio nella voce.
Sabrina non sapeva nulla di me, se non che fossi di Roma solo perché il mio accento mi aveva tradito più di una volta. Credeva che mi fossi trasferito là per lavoro e non aveva idea che io fossi scappato da Roma quando avevo appena diciotto anni, pur di allontanarmi dalla mia odiata famiglia. Non le avevo mai raccontato nulla, non avevo mai voluto che lei entrasse a far parte del mio mondo e non avevo mai condiviso la mia sofferenza con lei. Solo con Alice avevo avuto il coraggio di sfogare tutta la mia frustrazione e ancora non avevo trovato nessuno che potesse condividere con me il mio passato.
Sorrisi e scossi la testa.
«Ho deciso di trasferirmi lì.»
Era strano da dire. Avevo sempre detto a me stesso che non sarei mai più tornato a Roma. Ma ne sentivo la nostalgia. Sapevo di appartenerle, così come lei apparteneva a me. Roma era stata la madre che non avevo mai avuto. Mi aveva visto piangere, rannicchiato in qualche via poco illuminata e mi aveva consolato con la sua luminosa e rara bellezza. Una passeggiata tra le sue strade era sufficiente per farmi smettere di piangere e farmi sorridere, anche se solo per pochi istanti. Milano, invece, non mi era mai appartenuta. Avevo cercato di renderla mia per sei lunghi anni, ma la sua freddezza ed il suo distacco, il suo grigiore mi aveva allontanato sempre più da lei. L’unica persona che mi aveva tenuto legato a lei era stata Alice, l’unica che fosse stata in grado di farla sentire un po’ mia. Ma ora che lei non c’era più, era anche inutile rimanere lì. Così avevo accettato la proposta di Adriano di tornare nella mia meravigliosa città e di condividere l’appartamento con lui.
«Come?» alzò il tono della voce.
«Lì c’è Adriano, il mio migliore amico, la mia squadra di calcetto, la mia vita,» risposi. C’era anche la mia famiglia, ma avrei fatto di tutto pur di star lontano da loro. «Qui non ho nessuno. I miei colleghi sono tutti famosi ed io mi sento un pesce fuor d’acqua tra di loro…»
«Ci sono io, qui!» sbraitò stizzita, scattando in piedi. «Non conto niente, io?»
«Sabri, mi dispiace. Non volevo dire che tu non conti nulla…»
«Me lo hai fatto capire, non ti preoccupare!» urlò di nuovo.
Indossò la giacca, togliendosi i capelli dal colletto con furia. Mi alzai e cercai di fermarla. Era mia intenzione chiudere quella relazione, ma non farla piangere. Vedere una donna in lacrime, per colpa mia, era sempre una tortura. Ne erano state versate troppe e io non le meritavo.
«Sabrina…» la richiamai.
Lei si voltò di scatto, con gli occhi lucidi e un dito puntato contro di me; tremava per la rabbia e tentai di abbracciarla per consolarla, ma lei non mi fece avvicinare.
«Stammi lontano, Dario,» urlò con la voce rotta dal pianto. «Perché? Perché mi devo innamorare sempre degli stronzi?»
La sua domanda echeggiò nella mia casa, anche dopo che Sabrina ebbe sbattuta la porta alle sue spalle. Mi passai una mano sul viso e sospirai rumorosamente. Non mi sarei mai aspettato che Sabrina si fosse innamorata di me. Erano solo due mesi che ci frequentavamo e lei non sapeva nemmeno chi fosse Dario in realtà. Aveva visto solo una parte di me, non il Moro. Lui era morto e sepolto dalla litigata che avevo avuto con Alice a Roma. Le avevo mostrato solo il lato forte del mio carattere, nascondendo in una parte del mio animo la mia fragilità di cristallo già fin troppo incrinata. Forse, se avessi cercato di far venire fuori questo lato di me senza paura, sarei stato in grado di giocare ad armi pari con l'amore. Mi stravaccai sul divano e non riuscii a trattenere un sorriso spontaneo. Tutto sommato, mi era mancato sentirmi dare dello stronzo.

 Attesi che Radio Deejay accettasse la mia proposta di trasferimento alla sede di Roma per partire per la mia città natale. Il ventiquattro Ottobre ero pronto a lasciare la casa che mi aveva accolto per quasi sei anni. Mi dispiaceva dovermi chiudere la porta di quell'appartamento alle spalle. Era come se stessi dicendo addio ai momenti vissuti con Alice lì dentro. Diedi un'ultima rapida occhiata al salotto, al divano dove si era consumata la nostra passione per la prima volta e strinsi istintivamente la maniglia della porta, scosso. Rimasi paralizzato lì, davanti alla porta, per un tempo che mi parve infinito e mi decisi a chiudere la porta. Caricai la macchina con le valigie e riconsegnai le chiavi dell'appartamento affittato al proprietario della casa, che viveva sopra di me. Era un signore anziano, molto carino e cortese, con gli occhi azzurri ingranditi dai fondi di bottiglia che aveva come occhiali. Sembrava uscito dal cartone animato Up.
«Fa buon viaggio, Daniele,» mi disse stringendomi forte.
Lo ringraziai, senza correggerlo. Avevo tentato più di una volta di inculcargli in quella testa canuta che il mio nome fosse Dario, ma senza successo.
Montai in macchina e, con la radio sintonizzato su un canale a caso, mi diressi verso l'autostrada che mi avrebbe fatto lasciare Milano alle spalle per sempre, che mi avrebbe fatto abbandonare Alice per sempre. Appena avessi imboccato l'autostrada, avrei dovuto dirle addio davvero. Fino ad allora avevo sempre nutrito una piccola speranza di incontrarla di nuovo. Il destino ci aveva fatto ritrovare al Limelight, perché non avrebbe potuto fare un'altra pazzia e concederci un'altra possibilità? Non era stato così, però. Per un anno intero avevo cercato il suo volto in quello delle estranee, senza trovarlo. Strinsi con forza il volante della macchina e feci una pazzia. Se il destino non mi aveva dato nessun'altra occasione per rivederla, me la sarei presa da solo. Feci inversione ad U, rischiando di creare un incidente di proporzioni cosmiche. Per fortuna gli automobilisti che venivano nel senso contrario avevano avuto i riflessi per frenare e non venirmi addosso. Alzai una mano in segno di scusa e pigiai l'acceleratore più che potevo. Ero stato un imbecille e volevo rimediare finché ero in tempo. L'avevo lasciata scappare senza muovere nemmeno un dito, senza nemmeno chiarire. Non che ci fosse molto di cui discutere, visto quello che avevamo fatto. Ma ormai avevo seppellito il suo tradimento con Mauro, lo avevo digerito, anche se con parecchie difficoltà, e ora volevo solo lei. Speravo che anche lei avesse messo una pietra sopra a quello che avevo fatto con Sole e che, vedendomi ritornare da lei dopo un anno, le avrebbe fatto capire quanto l'amassi e quanto la volessi. E se mi avesse chiesto di non tornare a Roma, non l'avrei fatto, anche se avevo già richiesto il trasferimento, anche se avrei dato un dispiacere ad Adriano.
Arrivai al paese ed accostai distante qualche metro rispetto al portone del suo condominio. Lei era sul marciapiede proprio in quel momento. Aveva le cuffiette nelle orecchie e il cellulare tra la mani. Indossava un cappotto rosso e un basco dello stesso colore. Sorrisi e mi vene la tentazione di scendere di corsa dalla macchina e raggiungerla per stringerla tra le mie braccia. Ma repressi il mio istinto ed attesi, non volevo spaventarla. Alice attraversò la strada distrattamente e si diresse verso il parco, sparendo dietro qualche albero. Scesi dalla macchina e la chiusi mentre correvo per raggiungerla. Arrivai al vialetto che si immetteva nel parchetto e mi guardai intorno. Si era seduta su una panchina e si era tolta il basco, ravvivandosi i capelli. Mi avvicinai a lei lentamente, ma mi immobilizzai quando la vidi alzarsi e gettarsi tra le braccia di un ragazzo a me sconosciuto. Non mi soffermai sulla sua fisionomia, ma sul bacio che si scambiarono subito dopo. Mi ero illuso di poterla avere di nuovo, di poterla amare di nuovo. Se il destino non mi aveva dato nessuna possibilità, significava che ormai avevo sprecato tutte le mie chance e che non ne meritavo più. Affondai le mani nelle tasche del giubbotto e rimasi a guardarli. Alice sembrava felice, l'importante era quello. Era un boccone amaro, difficile da mandare giù, ma avrei dovuto farlo, avrei dovuto ingoiare quella delusione così come avevo fatto con tutte le altre innumerevoli che avevo ingurgitato.
D'un tratto, Alice sollevò lo sguardo dal suo nuovo amore ed incontrò i miei occhi. Il suo viso s'incupì ed io le rivolsi un sorriso. Sollevai una mano e la sventolai, dicendole di nuovo addio con una morsa al cuore che lo stava divorando. Lei non era più la mia piccola. Era la piccola di qualcun altro.

 

Il professor Perri stava parlando da circa un'ora di storia contemporanea e il mio cervello aveva deciso di staccare la spina. Già di per sé, la materia era abbastanza noiosa, in più si aggiungeva la voce soporifera del professore che conciliava il sonno fin troppo bene. Dopo mesi di indecisione, alla fine avevo deciso di iscrivermi alla facoltà di Lingue e letteratura straniere. Un diploma di liceo scientifico non mi aveva aiutata granché durante le prime lezioni del corso, ma la mia passione per la lingua francese mi aveva spinto ad iscrivermi, nonostante tutto. Galeotta fu la vacanza a Parigi con Federico, avvenuta a settembre dell'anno prima. Mi ero lasciata con Dario da neppure due mesi e il mio cuore era in frantumi, ridotto ad un ammasso di polvere pronto a disperdersi nell'aria con una debole sferzata di vento. Federico si era presentato a casa mia due settimane prima del volo, con due biglietti aerei per Parigi.
«Non dovevi andare con Cristina?» gli chiesi subito, stupita e dubbiosa al tempo stesso.
Lui si era stretto nelle spalle e si era scompigliato i capelli biondi. Aveva esitato, poi aveva stiracchiato un sorriso non del tutto gioioso.
«Mi ha lasciato,» mi aveva risposto. «Ieri. Ha detto che siamo troppo diversi e che si era stancata di dover sopprimere la sua personalità per me.»
Gli avevo accarezzato una guancia, poi lo avevo stretto a me. Avevo dubitato fin da subito della loro relazione. Conoscevo fin troppo bene Federico e sapevo che Cristina era il suo completo opposto. Lui era il giorno, lei la notte. Si rincorrevano, senza però incontrarsi mai. Mi era dispiaciuto vederlo così abbattuto ed accettai quell'invito, anche per cercare di dimenticare Dario. Non ci ero riuscita, ma mi ero goduta una settimana in una delle città più belle d'Europa, condividendo il mio tempo con il mio migliore amico. Avevo sentito la necessità di trascorrere qualche giorno con lui, solo noi due e basta, senza fidanzati gelosi di mezzo, senza scazzottate, senza incomprensioni. Quella settimana, da soli, aveva rafforzato ancora di più il nostro rapporto e ormai non potevo più fare a meno di lui, dei suoi consigli e delle sue battute senza il minimo senso dello humor, che, tutto sommato, riuscivano a strapparmi un sorriso.
Quando eravamo stati sulla Tour Eiffel, Federico mi aveva confessato che era stato difficile per lui dimenticarmi. Si era veramente innamorato di me e non aveva mai sopportato vedermi tra le braccia di Dario, non perché lui fosse uno stronzo, ma solo per una profonda ed insana gelosia. Aveva rimpianto il fatto di avermi lasciata andare quel giorno al lago, quando l'avevo baciato e aveva sofferto nei giorni a seguire più di quanto io potessi immaginare. Gli avevo spezzato il cuore e lo avevo calpestato ripetutamente senza nemmeno rendermene conto. Avevo appoggiato la testa sulla sua spalla e lui mi aveva cinto un fianco con un braccio, stringendomi a lui.
«Mi ami ancora?» gli avevo domandato, mentre il mio sguardo era perso verso la Senna e la città che si mostrava in tutta la sua incantevole bellezza.
«Il primo amore non si scorda mai,» mi aveva risposto con un filo di voce. «Ma ho sempre saputo che tu non saresti mai potuta essere mia e me ne sono fatto una ragione. È stato complicato, all'inizio, ma ora sto bene. Sono felice di essere il tuo migliore amico.» Mi avevo sorriso, guardandomi negli occhi.
«Scusa se ti ho fatto del male. Non volevo,» gli avevo detto con rammarico e lui mi aveva abbracciato ancora più forte, tranquillizzandomi.
Per l’ennesima volta, avevamo chiarito le cose tra di noi. Quello che ci legava era solo un’amicizia, una stupenda amicizia, il mio tesoro più grande.
Sfogliai pigramente le foto di Parigi sul mio computer portatile – che se non fossi stata troppo assonnata ed annoiata sarebbe dovuto servire per prendere appunti – e ricordai tutto ciò che era successo in quella città. Sorrisi e chiusi la cartella delle fotografie delle vacanze, ritrovandomi davanti il mio sfondo del desktop, la mia bellissima nipotina Elisa. Aveva un cappellino rosa in testa e sorrideva alla macchina fotografica, mostrando le gengive ancora prive di denti. Fortunatamente, somigliava a sua madre e non a quello scimmione di mio fratello. Sarebbe stato un mostro, in tal caso.
Appoggiai la guancia al pugno e sospirai. Chi volevo prendere in giro? Criticavo sempre mio fratello, ma ora che non era più a casa con me sentivo la sua mancanza. Mi mancava sentirlo sbraitare per ogni minima cosa, mi mancava sentire le sue ciabatte strascicare pesantemente sul pavimento, mi mancavano i poveri panini che mi preparava per pranzo. Dopo il matrimonio, avvenuto quell’estate, Smell si era trasferito a casa di Claudia. Non era stato per nulla contento di dover condividere la casa con i suoceri. Avrebbe voluto godersi sua moglie e sua figlia senza l’impiccio dei signori Faustini. Ma aveva da poco un lavoro fisso in farmacia ed era necessario che, prima di comprare una casa tutta per sé, mettesse da parte un po’ di soldi per avere un minimo di stabilità economica. Per cui aveva dovuto accettare a malincuore quella sistemazione temporanea.
Riuscii a recuperare un pizzico d’attenzione proprio quando Perri stava anticipando gli argomenti della lezione del giorno successiva. Mi riscossi dal mio torpore e mi sorpresi di vedere che fosse già passata un’ora senza che me ne accorgessi. Spensi il computer e sistemai la borsa per sgattaiolare subito via.

«Ehi, Alice, aspettami!»
Mi voltai di scatto e Luca mi corse incontro. Si sistemò la tracolla dell'Eastpack, che gli era scivolata lungo la spalla spiovente e gli occhiali Rayban dalla montatura nera.
«Volevi andartene senza di me?» chiese con un sorriso.
«No, scusa. È che sono ancora assonnata per la lezione di Perri,» mi giustificai.
Luca era uno dei pochi ragazzi con cui avevo fatto amicizia, dopo esserci incontrati alla fermata dell'autobus fuori dalla metropolitana di San Donato. Abitavamo nello stesso paese, così avevamo iniziato a fare la strada insieme sia all'andata che al ritorno.
«Pensavo di essere l'unico a non reggere quell'uomo,» ridacchiò, mentre ci avviavamo verso la metropolitana.
Luca si schiarì la voce un paio di volte, passandosi nervosamente una mano tra i capelli castani. Sembrava nervoso ed imbarazzato, ma non ci badai molto. Continuai a parlare di quanto noioso fosse Perri e la storia contemporanea e Luca annuiva, poco convinto, forse annoiato dai miei discorsi senza senso e troppo ripetitivi. Parlare, però, mi aiutava a spezzare l'imbarazzo che si era instaurato tra di noi, senza alcun motivo apparente.
Dopo aver macinato un bel po' di metri, raggiungemmo finalmente la fermata di piazza Piola della metropolitana.
«Tutti questi metri per una pigrona come me sono una tortura!» osservai, ridacchiando e sperai che anche Luca si sciogliesse un po', ma era sempre più assente. «C'è qualcosa che non va?» gli chiesi, preoccupata.
Lui sembrò soppesare le mie parole per un lungo periodo di tempo. Rimase in silenzio finché non salimmo sul vagone. I suoi occhi blu si posarono sui miei, sostennero il mio sguardo confuso e, quando mi strinse la mano con la sua un po' paffuta, il mio cuore prese a battere troppo velocemente. Temevo quello che stava per accadere e se avessi potuto gettarmi giù da vagone lo avrei fatto.
«È difficile da dire,» cominciò e guardò verso l'alto, con una smorfia. «Da dove cominciare?» indugiò ancora, cosa che peggiorò ulteriormente la mia attività cardiaca. «Mi piacerebbe uscire con te, un giorno di questi,» trovò il coraggio di dire.
Si passò la lingua sulle labbra carnose e deglutì. Riuscii a vedere il suo pomo d'Adamo muoversi su e giù nervosamente, attraverso il lieve accenno di barba.
«Insomma. Tu mi piaci, Alice. Sei simpatica, sempre solare, un po' poco sveglia a volte...» mi lanciò un'occhiata divertita ed io lo fulminai con lo sguardo, «e bellissima. Non ho mai conosciuto nessuna come te.»
Quegli ultimi complimenti furono il colpo di grazia. Il viso cominciò a ribollire, le orecchie diventarono bollenti e le gambe molli come burro. Era da quando mi ero lasciata con Dario che un ragazzo non si avvicinava a me e mi dedicava parole così belle e spontanee. Cristina aveva sempre provato ad appiopparmi qualche suo amico, ma nessuno di loro mi era mai interessato particolarmente. Troppo bellocci per me. Troppo superficiali e troppo poco seri.
In realtà la verità era ben altra. Molti dei ragazzi che mi erano stati presentati erano interessanti e brillanti, ma nessuno di loro era Dario. Avevo sempre cercato nei loro occhi quelli di Dario, la stessa luminosità che avevano le sue iridi nere, le stesse emozioni che mi provocavano e quando mi accorgevo che nessuno di loro poteva essere come Dario, li lasciavo scappare. Più mi imponevo di dimenticarlo, più il mio cuore si rifiutava di farlo. Purtroppo lo amavo ancora e non sapevo per quanto tempo mi sarei crogiolata in quel sentimento finito ormai da un anno. Avevo sperato che il destino avesse potuto darci un ulteriore possibilità, che me lo avesse fatto incontrare ancora per poter mettere da parte i rancori e ricominciare tutto da capo, senza tutte quelle insicurezze che avevano distrutto il nostro rapporto. Ma avevamo sprecato il tempo a nostra disposizione e non si poteva tornare indietro.
«Bene, lo sapevo che sarei dovuto stare zitto!» esclamò d'un tratto Luca, riportandomi sulla terra. «Facciamo così. Fingi che io non ti abbia mai detto nulla. Anzi, dimenticalo e non ci pensiamo più, ok?» continuò nervoso, con un sorriso tremolante.
«No! Insomma, mi ha fatto piacere sentire quelle cose,» mi affrettai a rispondere. «Ma, vedi, sono appena uscita da una storia che si è conclusa male...»
«Non sapevo che avevi un ragazzo.»
«In realtà ci siamo lasciati l'anno scorso,» ammisi con un po' d'imbarazzo. «Però è stata una storia importante. Ci siamo amati davvero molto,» annuii ed ingoiai un magone che mi stringeva la gola, impedendomi quasi di respirare.
«Ma è passato così tanto! Smettila di torturarti pensando a lui.»
«Più che altro ho paura di rimanere ancora scottata,» era una mezza verità, perché in realtà Dario continuava ad essere il mio pensiero fisso.
«Capisco...» disse sovrappensiero.
La metropolitana si fermò in Stazione Centrale e scendemmo per poter raggiungere la linea  gialla. Luca si immobilizzò in prossimità delle scale mobili ed io lo presi per un braccio, cercando di trascinarlo su.
«Sbrigati, che prediamo la metro!» esclamai.
Lui puntellò i piedi per terra e scosse la testa.
«Io mi fermo qua. Un mio amico viene da Padova e lo aspetto in stazione,» disse mestamente.
Lo guardai negli occhi e vi lessi dentro tutta le delusione ed il rammarico per quello che avevo detto.
«Probabilmente non sono all'altezza del tuo ex...» disse, camminando all'indietro per poter rimanere fisso nel mio sguardo.
Ebbi la prontezza di scattare e di fermarlo prima che fosse troppo lontano. Quanti altri ragazzi avrei fatto scappare per colpa di Dario? Per quanto tempo avrei vissuto alla sua ombra, con la vana speranza che tornasse? Per quanto ancora doveva rovinare la mia vita?
Luca era un ragazzo splendido e anche estremamente carino. Se non fossi stata così tanto ossessionata da Dario, mi sarei sicuramente invaghita di lui.
Capii che non potevo continuare così, che dovevo finalmente andare avanti, chiudere finalmente con il mio passato e di riprendere la mia vita in mano. Ci guardammo negli occhi e gli sorrisi.
«Non è vero che non sei alla sua altezza,» gli dissi.
Mi sporsi verso di lui e lo baciai sulla guancia.
«Mi piacerebbe davvero uscire con te.»
Quella sera stessa uscimmo per la prima volta insieme e dopo una settimana ci scambiammo il nostro primo bacio. Dopo un anno, finalmente, avevo trovato il coraggio di lasciarmi tutto alle spalle e di buttarmi di nuovo in quel gioco meraviglioso e crudele al tempo stesso che era l’amore.

 

«Mamma! Dove sono i miei orecchini a forma di coccinella?» urlai dalla mia camera da letto, nervosa perché mia madre aveva messo tutto in ordine, spostando i miei oggetti.
Tra meno di dieci minuti dovevo incontrarmi con Luca al parco, per passare la serata insieme. Eravamo fidanzati da un mese ed era da tanto, troppo tempo che non mi sentivo così bene. Luca era riuscito a rendermi di nuovo felice.
«Li ho messi nella borsetta bianca, dentro al cassetto nell’armadio,» rispose.
Sbuffai e presi la maledetta borsetta in cui mia mamma aveva messo tutti i miei monili. Le collane erano intrecciate ai bracciali, gli orecchini incastrati tra loro. Era diventato tutto un enorme groviglio d’oro e di bigiotteria quasi impossibile da sbrogliare. Versai il contenuto della borsetta sul pavimento e cercai, nel nodo di fili dorati, i miei orecchini a forma di coccinella. Uno era incastrato lì in mezzo, tra una quantità indefinibile di collane e bracciali. Cominciai a sbrogliare il tutto, cercando di trattenere tutta la pazienza che possedessi. Già mi innervosiva dover sciogliere le cuffiette, figurarsi quel disastro.
Liberai qualche braccialetto e due collane. Una di quelle mi rimase in mano e la osservai un attimo prima di rimetterla nervosamente nella borsetta. Mi raggelai, con il braccio a mezz’aria quando vidi il ciondolo a forma di fata che pendeva dalla fine catenina d’oro bianco. Il mio cuore sussultò, il mio corpo tremò. Dario tornò prepotente ad invadere i miei ricordi proprio quando credevo di essere quasi riuscito a dimenticarlo. Luca era stato essenziale da quel punto di vista. Mi aveva ricoperto d’affetto, mi aveva fatto sentire di nuovo importante ed amata. Ed una parte del mio cuore era riempita totalmente da lui. Ma ciò che rimaneva apparteneva ancora a Dario e in quel momento voleva schizzarmi fuori dal petto. Tutto ciò che avevamo vissuto insieme cominciò a scorrermi davanti agli occhi come un meraviglioso film con un triste epilogo. Il giorno in cui ci eravamo lasciati, ero rimasta in stazione per circa sette ore in attesa che arrivasse il mio treno per Milano. Ero rimasta rannicchiata su una panchina tutto il tempo, piangendo, sotto lo sguardo stupito della gente. Il viaggio era stato troppo lungo ed ogni chilometro che mi allontanava da lui era una stilettata al cuore che allargava la ferita lasciata dal nostro tacito addio. Un taxi, poi, mi aveva riportata a casa dalla stazione e appena messo piede in casa mi ero accasciata tra le braccia di mia madre. Lei ebbe l’accortezza di non chiedermi nulla, immaginando già che cosa fosse successo. Tutt’ora non sapeva il motivo per cui io e Dario ci fossimo lasciati e non aveva voluto nemmeno saperlo. Erano stati giorni strazianti, in bilico tra la disperazione per la fine della nostra storia e la speranza che fosse tutto solo un incubo, che un giorno Dario sarebbe venuto a prendermi di nuovo fuori dalla scuola, che mi chiamasse e mi dicesse Ti amo ancora una volta.

Sentii gli occhi inumidirsi, ma non cedetti alle lacrime che volevano uscire copiose. Mi passai una mano sugli occhi per impedirmi di piangere. Mi ero ripromessa che non avrei più versato una lacrima per lui. Sarebbero state solo sprecate. Perché ormai era passato un anno ed era insano che io lo amassi ancora. Perché lui aveva sicuramente trovato un’altra ragazza d’amare più di quanto aveva fatto con me. Perché, sebbene il nostro fosse stato un sentimento impetuoso e travolgente, ormai si era concluso, anche se la fiamma dell’amore ancora mi bruciava dentro.
Lanciai la collanina dentro la borsetta, come se scottasse, insieme al resto dei gioielli. Richiusi la borsa e la rimisi dov’era. Presi velocemente il cappotto rosso dal letto e il basco dello stesso colore, uscendo dalla mia stanza.
«Non li hai trovati, gli orecchini?» mi domandò la mamma, vedendo i lobi delle orecchie liberi.
«Sì, ma è tardi e non voglio far attendere troppo Luca,» improvvisai.
«Stai bene, Alice?» notò la mia smorfia di dolore e mi appoggiò una mano sulla spalla, con un sorriso dolce.
«È tutto ok mamma, non ti preoccupare,» la rassicurai e le diedi un bacio sulla guancia.
Presi l’mp3 dal tavolino ed uscii di casa rapidamente per non dover dare troppe spiegazioni a mia madre e soprattutto per non pensare ancora a Dario. Lui doveva essere solo un lontano ricordo. Ora c’era Luca nella mia vita e non volevo che la nostra storia naufragasse miseramente per colpa di Dario.
Misi le cuffiette nelle orecchie e Tiziano Ferro riecheggiò nelle mie orecchie. Scesi le scale lentamente, mentre leggevo gli ultimi Sms ricevuti. Uno era della Vodafone che mi avvertiva con entusiasmo che mi avrebbero regalato cento minuti di chiamate gratis, mentre l’altro era di Claudia. Era solita aggiornarmi di ciò che faceva Elisa, come storpiare le parole e ciucciare il pollice di mio fratello, e della sua impossibile vita coniugale con Smell. Anche lei si era convinta che convivere con Raffaele fosse un inferno.
Attraversai alla strada, senza dare troppa attenzione alle macchine che passavano e raggiunsi il parco poco distante da là. Luca non c’era ancora, per cui mi sedetti su una panchina per aspettarlo. Mi sentivo in colpa nei suoi confronti, perché avevo pensato di nuovo a Dario e a quello che ancora sentivo per lui. Luca non meritava che io continuassi a crogiolarmi nel mio passato, per cui avrei dovuto sforzarmi ancora di più per godere della nostra storia appena nata.
Sobbalzai quando qualcuno mi pizzicò i fianchi. Mi voltai di scatto e mi ritrovai il sorriso dolce di Luca davanti agli occhi. Spensi l’mp3 e gli diedi un leggero schiaffo sul braccio.
«Mi hai fatto spaventare!» esclamai.
«Scusa,» mormorò.
Mi prese la mano e mi sollevò, cingendomi la schiena per avvicinarmi a lui. Appoggiai entrambe le mani sulle sue spalle e mi alzai un tantino sulle punte. Sfiorai le sue labbra carnose e la tensione accumulata negli ultimi minuti scemò grazie alla sua lingua delicata e al suo tocco sul mio corpo. Stavo bene tra le sue braccia e mi piaceva assaporare le sua bocca. I suoi baci erano maledettamente lenti, dolci ed erano in grado di sciogliere ogni muscolo del mio corpo. Mi piaceva stare con lui, mi piaceva Luca in sé e speravo che quell’affetto che provavo nei suoi confronti potesse trasformarsi in amore e che anche la parte del mio cuore che ancora apparteneva a Dario, potesse diventare di sua proprietà.
«Dove andiamo per festeggiare?» domandai, curiosa.
Lui finse di pensare, poi scrollò le spalle e si abbassò per baciarmi il collo. Cercai di sottrarmi, ridacchiando, ma mentre indietreggiavo i miei occhi incontrarono quelli neri di Dario. Era poco distante da noi e ci guardava con le mani affondate nelle tasche del giubbotto. Dapprima credetti fosse solo un’allucinazione, ma non era così. Dario era davvero lì e ora aveva alzato una mano e mi stava salutando, con un sorriso malinconico appena accennato. Si voltò per allontanarsi ed io spinsi delicatamente Luca lontano da me.
«Dario!» esclamai, correndo verso di lui. «Dario!» lo richiamai e questa volta si fermò, voltandosi appena verso di me.
«Ciao Alice,» mormorò.
Respirai a fondo e lo guardai come se potesse sparire da un momento all’altro. Avevo creduto che fosse impossibile di poterlo rivedere dopo così tanto tempo ed invece ci era stata concessa un’altra occasione per vederci.
«Cosa ci fai qua?» domandai.
Mi avvicinai a lui e gli sfiorai appena un braccio, ma ritrassi subito la mano perché quel contatto ancora faceva male.
«Volevo salutarti prima di partire per Roma,» rispose ed io sussultai a quella affermazione.
«Roma?» ripetei.
Lui annuì ed io rimasi attonita. Le mie orecchie si rifiutarono di credere a quello che avevo appena udito.
«Vado a vivere con Adriano,» aggiunse spicciolo poco dopo.
«Non puoi tornare a Roma! Che senso ha?»
Dario scrollò le spalle ed abbassò lo sguardo. Non rispose alla mia domanda, alle mille preoccupazioni che ora albergavano nella mia mente. A Roma aveva passato tutta la sua adolescenza infelice, quella che poi era stata la rovina della sua vita e la causa della sua insicurezza, della sua fragilità. Tornò a guardarmi con un sorriso ed indicò Luca con il mento, che era rimasto qualche metro dietro di noi.
«Carino il nuovo fidanzato,» disse senza malizia. «Sono felice che tu sia riuscita a voltare pagina.»
Capii che il discorso Roma era stato archiviato ben prima che venisse fuori. Anche se avessi continuato a torturarlo di domande, non avrebbe mai ceduto ed anzi sarebbe scappato via scocciato. Con un po’ di amarezza, annuii e sorrisi, lanciando uno sguardo a Luca a mia volta.
«E tu? Hai voltato pagina?» gli chiesi.
«Roma sarà un buon inizio,» rispose con le labbra stiracchiate in un sorriso.
Ci guardammo finalmente occhi negli occhi e per l’ultima volta provai la sensazione di affogarci dentro e rimanervi intrappolata. Lì dentro sarebbe rimasta per sempre una parte della mia anima, catturata dall’intensità del nero dei suoi occhi. Dario sospirò rumorosamente e lanciò un’altra occhiata a Luce.
«Ti lascio al tuo cavaliere,» mormorò. «Addio, Alice.»
Si avvicinò a me e mi strinse. Appoggiò le sue labbra sulla mia fronte in un delicato e dolce bacio d’addio. Era sempre più doloroso sentire quella parola, perché forse detta a voce era come un brutto incubo che si concretizzava. Lacrime lente e solitarie cominciarono a bagnarmi le guance mentre Dario si allontanava da me, questa volta per sempre.
«Addio,» sussurrai, senza che lui mi sentisse.
Luca mi si affiancò, mi strinse la spalla e mi guardò dubbioso e preoccupato.
«Chi era quello?» mi domandò, sospettoso. Immaginavo che sapesse già la risposta, ma io mi limitai a voltarmi verso di lui e sorridergli. Mi asciugai velocemente il viso e lo baciai a fior di labbra.
«Un capitolo chiuso della mia vita.»












_________________________________________________________

E qui possiamo mettere la parola Fine a Il meraviglioso mondo di Alice, dopo un anno e un mese dalla pubblicazione del prologo.
Due sentimenti opposti, ora, stanno combattendo dentro di me: da un lato sono felice di aver portato a termine un progetto e di potermi dedicare ad altro, dall'altra, però, so già che questa storia mi mancherà. Soprattutto Dario perché è il personaggio che più amo di questa storia. E infatti gli ho dedicato un POV in questo epilogo.

Sia Dario che Alice non sono riusciti a dimenticarsi a vicenda, seppur tutti gli sforzi. Il loro amore, anche se durato poco,è stato davvero intenso ed è difficile archiviare la cosa con semplicità. Entrambi, però, hanno cercato di andare a vanti senza l'altro, di trovare nuove persone di cui innamorarsi e con cui condividere la propria vita. Hanno avuto tutti e due la speranza di incontrarsi di nuovo e chiarire, magario passare sopra ai propri errori. Quando Dario si era finalmente deciso ad andare a cercare Alice, era però troppo tardi. In fondo non si cancella tutta la sofferenza e, soprattutto, è inutile farsi monopolizzare la vita e i pensieri da una persona con cui non si ha più un rapporto. Roma sarà il nuovo inizio di Dario, da lì ricomincerà la sua vita ancora una volta, insieme ai suoi amici e chiassà che non trovi finalmente la persona giusta per sè.

È passato davvero molto tempo da quando ho pubblicato questa storia e, a dire il vero, non mi aspettavo granché. Era una storiella senza pretese, nata in una sera di Marzo mentre, stremata, me ne tornavo a casa dall'Università. Mai mi sarei aspettata di poter avere tale riscontro! Il vostro calore e le vostre parole mi hanno sempre spronato ad andare avanti a scrivere di Alice e Dario. Spesso ho anche deluso le vostre aspettative e un po' me ne dispiaccio. A volte la storia è scaduta nel banale, altre volte ho  esagerato con le scene piccanti, discostandomi parecchio da quello che avevo in mente originariamente. Ma ad un certo punto ho perso il controllo della situazione e, beh, questo è il risultato. Non uno dei migliori, anzi! Ma penso che sia un buon inizio, soprattutto per migliormi e migliorare le storie che pubblicherò in futuro. Le critiche ricevute mi hanno fatto aprire gli occhi tante volte (anche se magari all'inizio ho rispostoun po' sgarbatamente) e mi sono ritrovata spesso a pensare di aver fatto tantissimi errori, ma ormai era troppo tardi per rimediare. 
Nonostante tutto, i personaggi di questa storia mi hanno divertita e mi hanno fatto sognare, almeno per un po'. Li ho amati tutti, dal primo all'ultimo, da quello stronzo di Davide al tassista che ha riportato un'Alice piangente a cas di Dario.Tutti, in un modo o nell'altra mi hanno regalato una piccola emozione. Spero vivamente di avre fatto emozionare anche voi, di essere riuscita a trasmettervi qualcosa con le mie parole :)

Vi ringrazio dal più profondo del cuore. Grazie per esserci state, grazie di aver perso qualche minuto del vostro tempo per recensire la storia, grazie per avermi criticata, grazie del vostro sostegno e grazie per ogni piccola cosa che avete fatto per me. Un abbraccio virtuale a tutte voi che ci siete sempre state, che siete arrivate in corsa.

Un GRAZIE specialissimo va però alle mie amate Crudelie, che ci sono sempre state e mi hanno sempre sostenuta, anche quando non  lo meritavo. Grazie a Martina (IoNarrante) e a Venera (nes_sie)Starmi dietro non è facile, anzi è alquanto difficile, per colpa del mio carattere lunatico e alquanto strambo che odio io stessa. Grazie di tutto quello che avete fatto per me ♥

 Credo di aver detto tutto oppure me lo sono scordato e mi tornerà in mente quello che volevo dire dopo aver pubblicato il capitolo ^^"

Ma non credete di potervi liberare di me! Perché anche se Alice è conclusa, sto già lavorando ad una nuova Originale. La amo, molto più di questa e spero che, quando la pubblicherò, possiate apprezzarla come sto facendo io.

Un bacio immenso ad ognuna di voi, alla prossima ♥

 

 

 

   
 
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