Epilogo
Love is a losing game
betato da nes_sie
Odiavo gli ascensori, soprattutto
quelli lenti
che mi facevano marcire di fronte alle loro porte metalliche, nella
vana attesa
che si aprissero. Guardai l’ora sul mio Blackberry ed
imprecai a denti stretti.
Erano già dieci minuti che avevo prenotato
quell’aggeggio infernale e non
c’erano segnali di vita da parte sua. Non che avessi qualche
appuntamento, ma
l’attesa era sempre stata snervante per me, in qualunque
caso, dall’attendere
le ore che una donna si presentasse ad un appuntamento, al caricamento
“lumaca”
dei film in streaming.
Mi guardai intorno, circospetto, e
quando notai
che nessuno mi stava fissando, tirai un calcio contro le porte
metalliche. Non
che quello avrebbe accelerato la corsa del trabiccolo, ma almeno mi ero
sfogato. Il tonfo, però, aveva fatto sobbalzare qualche
segretaria e addetto ai
suoni che passavano da quelle parti, che mi guardarono straniti e con
un’espressione di rimprovero. Sfoggiai un sorriso di sbieco,
la mia arma
infallibile, il mio cavallo di battaglia brevettato in anni ed anni
della mia
carriera di latin lover. Le donne si sciolsero
davanti al mio sguardo,
gli uomini mi mandarono a cagare con un gesto della mano. Avevo come
l’impressione di non essere loro molto simpatico e di certo
io non avevo mai
fatto nulla per apparire come tale. La simpatia era un gene mancante
nel mio
DNA, purtroppo.
L’ascensore finalmente
arrivò, dopo circa un
quarto d’ora che ero rimasto a fare le ragnatele di fronte a
lui. Salutai
rapidamente e con un sorriso la gente che c’era e mi
appoggiai allo specchio,
in attesa che quello shuttle
giungesse al piano interrato. Mi passai indice e pollice sugli occhi,
poi una
mano sul mento liscio. Era da qualche mese che avevo smesso di farmi
crescere
la barba e mi mancava parecchio. Così sembravo un
adolescente glabro impaziente
di entrare nella pubertà.
Contro le mie aspettative,
lo shuttle giunse senza troppi
intoppi e
con velocità al piano interrato. Raggiunsi la mia Mito e mi
immisi tra le
strade scure di Milano. La riunione del giorno era durata
più del previsto ed
erano già le sette passate.
Appena imboccai una strada
abbastanza libera,
premetti sull’acceleratore e permisi all’adrenalina
e all’eccitazione di
invadere le mie vene, il mio corpo ed inebriarmi i sensi. Superare i
cento
chilometri all’ora era quasi come avere un orgasmo. Quasi, ovviamente. Evitai qualche
macchina, improvvisando alcuni
sorpassi pericolosi e beccandomi qualche vaffanculo e un sacco di
suonate di
clacson. Il bello di correre in macchina era anche fare perdere le
staffe ai
poveri automobilisti. Mi divertiva vederli infuriati e urlare come
delle
scimmie contro di me, appellandomi in qualsiasi modo poco gentile.
Quando parcheggiai e spensi
il
motore, tutto il
mio entusiasmo si smorzò. Fu come essere svuotato di
qualsiasi gioia, essere
catapultato nuovamente nella grigia realtà che vivevo. Salii
verso il mio
appartamento piano e con la stessa lentezza aprii la porta. Il buio e
la
solitudine mi diedero il benvenuto, quasi come fossero loro i padroni
di casa.
In fondo eravamo coinquilini da un anno, ormai. Dopo la fine della
storia con
Alice, era tornato tutto come prima. Ero solo in una città
che non mi
apparteneva e le mie lenzuola erano state riscaldate da donne di cui
conoscevo
a malapena il nome. Facevo sesso perché alleviava il mio
dolore. Facevo sesso
per dimenticare che ero solo. Facevo sesso e basta. L’amore
era un gioco troppo
complicato per me. Avevo più volte cercato di capirne le
regole, ma ancora mi
erano sconosciute. Ed intanto mi aveva inflitto due sonore sconfitte,
una più
dolorosa dell’altra, e ora rideva di Dario Vitrano, di quel
povero sfigato che
si era fatto prendere per il culo così facilmente e che
ancora tentava di
districarsi tra i suoi fili ingarbugliati. Perché, che lo
volessi o meno, ero
ancora innamorato di Alice a distanza di un anno. Avevo provato a
dimenticarla,
avevo provato ad innamorarmi di qualcun altro, ma le mie relazioni
duravano
qualche mese e fallivano miseramente per colpa mia. Alice riempiva
ancora la
mie mente e il mio cuore, il sangue mi ustionava le vene ogni qualvolta
la
pensassi e la gelosia mi logorava da dentro quando la immaginavo tra le
braccia
di un altro. Se avessi potuto, avrei dato tutto pur di tornare indietro
nel
tempo e sistemare le cose. Ma era impossibile, purtroppo.
Mi tolsi il maglione e lo buttai
sul divano, poi
mi lasciai cadere stancamente sullo stesso. Tenni gli occhi chiusi per
qualche
secondo, poi ascoltai i messaggi lasciati sulla segreteria.
«Ciao,
tesoro,» storsi il naso nel sentire
la voce di
Sabrina, la ragazza con cui mi stavo frequentando da due mesi e mezzo,
«ho voglia di vederti, di
stringerti, di
baciarti. Appena senti questo messaggio richiamami. Ho bisogno di
te.»
Ci fu un tintinnio, poi la
voce
registrata della
segreteria mi informò di un altro messaggio ricevuto il 17-novembre-alle-ore-diciassette-e-quarantadue-minuti.
«Ehi,
fratè! Nun te fai più sentì! Che, sei
morto? Se nun rispondi entro domani
chiamo la polizia e pure il CSI! Damme un segno e ‘na
risposta soprattutto.
Ciao, coglione!»
Sorrisi e cancellai
entrambi i
messaggi.
Tornare a Roma avrebbe significato
risvegliare
tutti i ricordi che avevo cercato di assopire in quell’ultimo
anno. Subito dopo
essermi lasciato con Alice, avevo fatto la valigia e me n’ero
andato, salutando
la mia amata Consuelo e lasciando qualche riga a mio padre,
l’unico che aveva
sempre dimostrato un po’ d’affetto nei miei
confronti. Il dolore per aver
perduto Alice era stato talmente tanto che non avevo avuto nemmeno la
forza di
prendere a pugni mio fratello. Ci eravamo solo guardati quando stavo
fuggendo
da Roma ancora una volta e mi ero stupito dello sguardo di Mauro. I
suoi occhi
avevano perso la loro caratteristica freddezza e quasi pensai che fosse
dispiaciuto. Respirai a fondo e mi passai una mano tra i capelli,
appoggiando i
gomiti alle ginocchia. Pensai a lungo, guardando la parete davanti a
me. Erano
passati circa una ventina di minuti quando presi finalmente la mia
decisione.
Avevo, dunque, un paio di cose in
sospeso da
sistemare, sia con Sabrina che con Adriano. Chiamai prima la mia ragazza,
anche se tale non era ancora e, dopo quasi mezz’ora di moine
da parte sua, la
invitai a casa mia. Non se lo fece ripetere due volte e dopo una
ventina di
minuti era già attaccata al citofono a suonare come una
pazza. Indossai
velocemente il maglione e la feci salire. Mi abbracciò e mi
baciò a fior di
labbra, stringendomi poi le mani e guardandomi dritto negli occhi con i
suoi
grandi color nocciola.
«Hai
già
mangiato, tesoro?» chiese, togliendosi
la giacca e appoggiandola sull’appendiabiti.
«No, non
ancora,» risposi, con un sorriso
stiracchiato e quasi forzato.
«Ti preparo qualcosa di
veloce? Oppure ordiniamo
una pizza?» mi domandò, accarezzandomi il viso con
entrambe le mani.
Scossi la testa e la presi per
mano,
conducendola verso il divano. Ci sedemmo uno accanto
all’altra e la sua
stretta, così come il suo sorriso, si fecero più
intensi.
«Devi mangiare
qualcosa,» disse apprensiva.
«Dopo mangio, prima
però devo dirti una cosa,»
risposi serio e lei si illuminò.
«Anche io,»
mormorò.
Si avventò su di me e mi
baciò con foga,
affondando una mano tra i miei capelli mentre con l’altra
esplorò, per
l’ennesima volta, il mio corpo sotto il maglione. Dapprima
ricambiai quel
bacio, ma subito la mia passione si spense. Era ingiusto continuare ad
ingannarla e scoparmela solo per il gusto di appagarmi. Ero stufo del
sesso
senza cuore e soprattutto non volevo ridurmi agli infimi livelli
raggiunti l’anno
precedente. Anche se l’amore aveva una sorta di antipatia
verso di me, c’era
sempre la speranza di potergli far cambiare idea. Ero riuscito ad
acciuffarlo
quando meno me l’aspettavo, quando ero solo un poveraccio che
si prostituiva e
che aveva anche rinunciato a cercare di dare una nota positiva alla sua
vita.
Spinsi via Sabrina da me e non ebbi
nemmeno il
coraggio di guardarla negli occhi per leggervi dentro la
perplessità di quel
mio gesto. Solitamente ero sempre io quello la spogliava per primo e
che
fremeva per poter avere il suo corpo morbido e dannatamente eccitante.
«Scusa, Sabri,»
bisbigliai.
«Non ti senti
bene?» chiese e mi prese il volto
tra le mani.
Mi dispiaceva doverla scaricare,
così come avevo
fatto con tutte le altre. Sabrina era una brava ragazza. Intelligente,
solare e
sempre ben disposta verso gli altri. Un po’ troppo apprensiva
e
appiccicaticcia, ma di sicuro la fidanzata ideale.
«Ho deciso di partite per
Roma,» le dissi con un
filo di voce.
«Vai a trovare i tuoi
genitori?» domandò con un
pizzico di dubbio nella voce.
Sabrina non sapeva nulla di me, se
non che fossi
di Roma solo perché il mio accento mi aveva tradito
più di una volta. Credeva
che mi fossi trasferito là per lavoro e non aveva idea che
io fossi scappato da
Roma quando avevo appena diciotto anni, pur di allontanarmi dalla mia
odiata
famiglia. Non le avevo mai raccontato nulla, non avevo mai voluto che
lei
entrasse a far parte del mio mondo e non avevo mai condiviso la mia
sofferenza
con lei. Solo con Alice avevo avuto il coraggio di sfogare tutta la mia
frustrazione e ancora non avevo trovato nessuno che potesse condividere
con me
il mio passato.
Sorrisi e scossi la testa.
«Ho deciso di trasferirmi
lì.»
Era strano da dire. Avevo sempre
detto a me
stesso che non sarei mai più tornato a Roma. Ma ne sentivo
la nostalgia. Sapevo
di appartenerle, così come lei apparteneva a me. Roma era
stata la madre che
non avevo mai avuto. Mi aveva visto piangere, rannicchiato in qualche
via poco
illuminata e mi aveva consolato con la sua luminosa e rara bellezza.
Una
passeggiata tra le sue strade era sufficiente per farmi smettere di
piangere e
farmi sorridere, anche se solo per pochi istanti. Milano, invece, non
mi era
mai appartenuta. Avevo cercato di renderla mia per sei lunghi anni, ma
la sua
freddezza ed il suo distacco, il suo grigiore mi aveva allontanato
sempre più
da lei. L’unica persona che mi aveva tenuto legato a lei era
stata Alice,
l’unica che fosse stata in grado di farla sentire un
po’ mia. Ma ora che lei
non c’era più, era anche inutile rimanere
lì. Così avevo accettato la proposta
di Adriano di tornare nella mia meravigliosa città e di
condividere
l’appartamento con lui.
«Come?»
alzò il tono della voce.
«Lì
c’è Adriano, il mio migliore amico, la mia
squadra di calcetto, la mia vita,» risposi. C’era
anche la mia famiglia, ma
avrei fatto di tutto pur di star lontano da loro. «Qui non ho
nessuno. I miei
colleghi sono tutti famosi ed io mi sento un pesce fuor
d’acqua tra di loro…»
«Ci sono io,
qui!» sbraitò stizzita, scattando
in piedi. «Non conto niente, io?»
«Sabri, mi dispiace. Non
volevo dire che tu non
conti nulla…»
«Me lo hai fatto capire,
non ti preoccupare!»
urlò di nuovo.
Indossò la giacca,
togliendosi i capelli dal
colletto con furia. Mi alzai e cercai di fermarla. Era mia intenzione
chiudere
quella relazione, ma non farla piangere. Vedere una donna in lacrime,
per colpa
mia, era sempre una tortura. Ne erano state versate troppe e io non le
meritavo.
«Sabrina…»
la richiamai.
Lei si voltò di scatto,
con gli occhi lucidi e
un dito puntato contro di me; tremava per la rabbia e tentai di
abbracciarla
per consolarla, ma lei non mi fece avvicinare.
«Stammi lontano,
Dario,» urlò con la voce rotta
dal pianto. «Perché? Perché mi devo
innamorare sempre degli stronzi?»
La sua domanda echeggiò
nella mia casa, anche
dopo che Sabrina ebbe sbattuta la porta alle sue spalle. Mi passai una
mano sul
viso e sospirai rumorosamente. Non mi sarei mai aspettato che Sabrina
si fosse
innamorata di me. Erano solo due mesi che ci frequentavamo e lei non
sapeva
nemmeno chi fosse Dario in realtà. Aveva visto solo una
parte di me, non il
Moro. Lui era morto e sepolto dalla litigata che avevo avuto
con Alice a
Roma. Le avevo mostrato solo il lato forte del mio carattere,
nascondendo in
una parte del mio animo la mia fragilità di cristallo
già fin troppo incrinata.
Forse, se avessi cercato di far venire fuori questo lato di me senza
paura,
sarei stato in grado di giocare ad armi pari con l'amore. Mi stravaccai
sul
divano e non riuscii a trattenere un sorriso spontaneo. Tutto sommato,
mi era
mancato sentirmi dare dello stronzo.
«Fa buon viaggio,
Daniele,»
mi disse
stringendomi forte.
Lo ringraziai, senza
correggerlo.
Avevo tentato
più di una volta di inculcargli in quella testa canuta che
il mio nome fosse
Dario, ma senza successo.
Montai in macchina e, con
la radio
sintonizzato
su un canale a caso, mi diressi verso l'autostrada che mi avrebbe fatto
lasciare Milano alle spalle per sempre, che mi avrebbe fatto
abbandonare Alice
per sempre. Appena avessi imboccato l'autostrada, avrei dovuto dirle
addio
davvero. Fino ad allora avevo sempre nutrito una piccola speranza di
incontrarla di nuovo. Il destino ci aveva fatto ritrovare al Limelight,
perché
non avrebbe potuto fare un'altra pazzia e concederci un'altra
possibilità? Non
era stato così, però. Per un anno intero avevo
cercato il suo volto in quello
delle estranee, senza trovarlo. Strinsi con forza il volante della
macchina e
feci una pazzia. Se il destino non mi aveva dato nessun'altra occasione
per
rivederla, me la sarei presa da solo. Feci inversione ad U, rischiando
di
creare un incidente di proporzioni cosmiche. Per fortuna gli
automobilisti che
venivano nel senso contrario avevano avuto i riflessi per frenare e non
venirmi
addosso. Alzai una mano in segno di scusa e pigiai l'acceleratore
più che
potevo. Ero stato un imbecille e volevo rimediare finché ero
in tempo. L'avevo
lasciata scappare senza muovere nemmeno un dito, senza nemmeno
chiarire. Non
che ci fosse molto di cui discutere, visto quello che avevamo fatto. Ma
ormai
avevo seppellito il suo tradimento con Mauro, lo avevo digerito, anche
se con
parecchie difficoltà, e ora volevo solo lei. Speravo che
anche lei avesse messo
una pietra sopra a quello che avevo fatto con Sole e che, vedendomi
ritornare
da lei dopo un anno, le avrebbe fatto capire quanto l'amassi e quanto
la
volessi. E se mi avesse chiesto di non tornare a Roma, non l'avrei
fatto, anche
se avevo già richiesto il trasferimento, anche se avrei dato
un dispiacere ad
Adriano.
Arrivai al paese ed
accostai
distante qualche
metro rispetto al portone del suo condominio. Lei era sul marciapiede
proprio
in quel momento. Aveva le cuffiette nelle orecchie e il cellulare tra
la mani.
Indossava un cappotto rosso e un basco dello stesso colore. Sorrisi e
mi vene
la tentazione di scendere di corsa dalla macchina e raggiungerla per
stringerla
tra le mie braccia. Ma repressi il mio istinto ed attesi, non volevo
spaventarla. Alice attraversò la strada distrattamente e si
diresse verso il
parco, sparendo dietro qualche albero. Scesi dalla macchina e la chiusi
mentre
correvo per raggiungerla. Arrivai al vialetto che si immetteva nel
parchetto e
mi guardai intorno. Si era seduta su una panchina e si era tolta il
basco,
ravvivandosi i capelli. Mi avvicinai a lei lentamente, ma mi
immobilizzai
quando la vidi alzarsi e gettarsi tra le braccia di un ragazzo a me
sconosciuto. Non mi soffermai sulla sua fisionomia, ma sul bacio che si
scambiarono subito dopo. Mi ero illuso di poterla avere di nuovo, di
poterla
amare di nuovo. Se il destino non mi aveva dato nessuna
possibilità, significava
che ormai avevo sprecato tutte le mie chance e che non ne meritavo
più.
Affondai le mani nelle tasche del giubbotto e rimasi a guardarli. Alice
sembrava felice, l'importante era quello. Era un boccone amaro,
difficile da
mandare giù, ma avrei dovuto farlo, avrei dovuto ingoiare
quella delusione così
come avevo fatto con tutte le altre innumerevoli che avevo ingurgitato.
D'un tratto, Alice
sollevò lo sguardo dal suo
nuovo amore ed incontrò i miei occhi. Il suo viso
s'incupì ed io le rivolsi un
sorriso. Sollevai una mano e la sventolai, dicendole di nuovo addio con
una
morsa al cuore che lo stava divorando. Lei non era più la
mia piccola. Era la
piccola di qualcun altro.
«Non dovevi
andare con
Cristina?» gli chiesi
subito, stupita e dubbiosa al tempo stesso.
Lui si era stretto nelle
spalle e
si era
scompigliato i capelli biondi. Aveva esitato, poi aveva stiracchiato un
sorriso
non del tutto gioioso.
«Mi ha
lasciato,» mi aveva risposto. «Ieri. Ha
detto che siamo troppo diversi e che si era stancata di dover
sopprimere la sua
personalità per me.»
Gli avevo accarezzato una
guancia,
poi lo avevo
stretto a me. Avevo dubitato fin da subito della loro relazione.
Conoscevo fin
troppo bene Federico e sapevo che Cristina era il suo completo opposto.
Lui era
il giorno, lei la notte. Si rincorrevano, senza però
incontrarsi mai. Mi era
dispiaciuto vederlo così abbattuto ed accettai quell'invito,
anche per cercare
di dimenticare Dario. Non ci ero riuscita, ma mi ero goduta una
settimana in
una delle città più belle d'Europa, condividendo
il mio tempo con il mio
migliore amico. Avevo sentito la necessità di trascorrere
qualche giorno con
lui, solo noi due e basta, senza fidanzati gelosi di mezzo, senza
scazzottate,
senza incomprensioni. Quella settimana, da soli, aveva rafforzato
ancora di più
il nostro rapporto e ormai non potevo più fare a meno di
lui, dei suoi consigli
e delle sue battute senza il minimo senso dello humor, che, tutto
sommato,
riuscivano a strapparmi un sorriso.
Quando eravamo stati sulla
Tour
Eiffel, Federico
mi aveva confessato che era stato difficile per lui dimenticarmi. Si
era veramente
innamorato di me e non aveva mai sopportato vedermi tra le braccia di
Dario,
non perché lui fosse uno stronzo, ma solo per una profonda
ed insana gelosia.
Aveva rimpianto il fatto di avermi lasciata andare quel giorno al lago,
quando
l'avevo baciato e aveva sofferto nei giorni a seguire più di
quanto io potessi
immaginare. Gli avevo spezzato il cuore e lo avevo calpestato
ripetutamente
senza nemmeno rendermene conto. Avevo appoggiato la testa sulla sua
spalla e
lui mi aveva cinto un fianco con un braccio, stringendomi a lui.
«Mi ami
ancora?» gli avevo domandato, mentre il
mio sguardo era perso verso la Senna e la città che si
mostrava in tutta la sua
incantevole bellezza.
«Il primo amore
non si
scorda mai,» mi aveva
risposto con un filo di voce. «Ma ho sempre saputo che tu non
saresti mai
potuta essere mia e me ne sono fatto una ragione. È stato
complicato,
all'inizio, ma ora sto bene. Sono felice di essere il tuo migliore
amico.» Mi
avevo sorriso, guardandomi negli occhi.
«Scusa se ti ho
fatto del
male. Non volevo,» gli
avevo detto con rammarico e lui mi aveva abbracciato ancora
più forte,
tranquillizzandomi.
Per l’ennesima volta,
avevamo chiarito le cose
tra di noi. Quello che ci legava era solo un’amicizia, una
stupenda amicizia,
il mio tesoro più grande.
Sfogliai pigramente le foto di
Parigi sul mio
computer portatile – che se non fossi stata troppo assonnata
ed annoiata
sarebbe dovuto servire per prendere appunti – e ricordai
tutto ciò che era
successo in quella città. Sorrisi e chiusi la cartella delle
fotografie delle
vacanze, ritrovandomi davanti il mio sfondo del desktop, la mia
bellissima
nipotina Elisa. Aveva un cappellino rosa in testa e sorrideva alla
macchina
fotografica, mostrando le gengive ancora prive di denti.
Fortunatamente,
somigliava a sua madre e non a quello scimmione di mio fratello.
Sarebbe stato
un mostro, in tal caso.
Appoggiai la guancia al pugno e
sospirai. Chi
volevo prendere in giro? Criticavo sempre mio fratello, ma ora che non
era più
a casa con me sentivo la sua mancanza. Mi mancava sentirlo sbraitare
per ogni
minima cosa, mi mancava sentire le sue ciabatte strascicare
pesantemente sul
pavimento, mi mancavano i poveri panini che mi preparava per pranzo.
Dopo il
matrimonio, avvenuto quell’estate, Smell si era trasferito a
casa di Claudia.
Non era stato per nulla contento di dover condividere la casa con i
suoceri.
Avrebbe voluto godersi sua moglie e sua figlia senza
l’impiccio dei signori
Faustini. Ma aveva da poco un lavoro fisso in farmacia ed era
necessario che,
prima di comprare una casa tutta per sé, mettesse da parte
un po’ di soldi per
avere un minimo di stabilità economica. Per cui aveva dovuto
accettare a
malincuore quella sistemazione temporanea.
Riuscii a recuperare un pizzico
d’attenzione
proprio quando Perri stava anticipando gli argomenti della lezione del
giorno
successiva. Mi riscossi dal mio torpore e mi sorpresi di vedere che
fosse già
passata un’ora senza che me ne accorgessi. Spensi il computer
e sistemai la
borsa per sgattaiolare subito via.
«Ehi, Alice,
aspettami!»
Mi voltai di scatto e Luca
mi corse
incontro. Si
sistemò la tracolla dell'Eastpack, che gli era scivolata
lungo la spalla
spiovente e gli occhiali Rayban dalla montatura nera.
«Volevi andartene
senza
di me?» chiese con un
sorriso.
«No, scusa.
È
che sono ancora assonnata per la
lezione di Perri,» mi giustificai.
Luca era uno dei pochi
ragazzi con
cui avevo
fatto amicizia, dopo esserci incontrati alla fermata dell'autobus fuori
dalla
metropolitana di San Donato. Abitavamo nello stesso paese,
così avevamo
iniziato a fare la strada insieme sia all'andata che al ritorno.
«Pensavo di
essere
l'unico a non reggere
quell'uomo,» ridacchiò, mentre ci avviavamo verso
la metropolitana.
Luca si schiarì
la voce
un paio di volte,
passandosi nervosamente una mano tra i capelli castani. Sembrava
nervoso ed
imbarazzato, ma non ci badai molto. Continuai a parlare di quanto
noioso fosse
Perri e la storia contemporanea e Luca annuiva, poco convinto, forse
annoiato
dai miei discorsi senza senso e troppo ripetitivi. Parlare,
però, mi aiutava a
spezzare l'imbarazzo che si era instaurato tra di noi, senza alcun
motivo
apparente.
Dopo aver macinato un bel
po' di
metri,
raggiungemmo finalmente la fermata di piazza Piola della metropolitana.
«Tutti questi
metri per
una pigrona come me sono
una tortura!» osservai, ridacchiando e sperai che anche Luca
si sciogliesse un
po', ma era sempre più assente. «C'è
qualcosa che non va?» gli chiesi,
preoccupata.
Lui sembrò
soppesare le
mie parole per un lungo
periodo di tempo. Rimase in silenzio finché non salimmo sul
vagone. I suoi
occhi blu si posarono sui miei, sostennero il mio sguardo confuso e,
quando mi
strinse la mano con la sua un po' paffuta, il mio cuore prese a battere
troppo
velocemente. Temevo quello che stava per accadere e se avessi potuto
gettarmi
giù da vagone lo avrei fatto.
«È
difficile
da dire,» cominciò e guardò verso
l'alto, con una smorfia. «Da dove cominciare?»
indugiò ancora, cosa che
peggiorò ulteriormente la mia attività cardiaca.
«Mi piacerebbe uscire con te,
un giorno di questi,» trovò il coraggio di dire.
Si passò la
lingua sulle
labbra carnose e
deglutì. Riuscii a vedere il suo pomo d'Adamo muoversi su e
giù nervosamente,
attraverso il lieve accenno di barba.
«Insomma. Tu mi
piaci,
Alice. Sei simpatica,
sempre solare, un po' poco sveglia a volte...» mi
lanciò un'occhiata divertita
ed io lo fulminai con lo sguardo, «e bellissima. Non ho mai
conosciuto nessuna
come te.»
Quegli ultimi complimenti
furono il
colpo di
grazia. Il viso cominciò a ribollire, le orecchie
diventarono bollenti e le
gambe molli come burro. Era da quando mi ero lasciata con Dario che un
ragazzo
non si avvicinava a me e mi dedicava parole così belle e
spontanee. Cristina
aveva sempre provato ad appiopparmi qualche suo amico, ma nessuno di
loro mi
era mai interessato particolarmente. Troppo bellocci per me. Troppo
superficiali e troppo poco seri.
In realtà la
verità era ben altra. Molti dei
ragazzi che mi erano stati presentati erano interessanti e brillanti,
ma
nessuno di loro era Dario. Avevo sempre cercato nei loro occhi quelli
di Dario,
la stessa luminosità che avevano le sue iridi nere, le
stesse emozioni che mi
provocavano e quando mi accorgevo che nessuno di loro poteva essere
come Dario,
li lasciavo scappare. Più mi imponevo di dimenticarlo,
più il mio cuore si
rifiutava di farlo. Purtroppo lo amavo ancora e non sapevo per quanto
tempo mi
sarei crogiolata in quel sentimento finito ormai da un anno. Avevo
sperato che
il destino avesse potuto darci un ulteriore possibilità, che
me lo avesse fatto
incontrare ancora per poter mettere da parte i rancori e ricominciare
tutto da
capo, senza tutte quelle insicurezze che avevano distrutto il nostro
rapporto.
Ma avevamo sprecato il tempo a nostra disposizione e non si poteva
tornare
indietro.
«Bene, lo sapevo
che
sarei dovuto stare zitto!»
esclamò d'un tratto Luca, riportandomi sulla terra.
«Facciamo così. Fingi che
io non ti abbia mai detto nulla. Anzi, dimenticalo e non ci pensiamo
più, ok?»
continuò nervoso, con un sorriso tremolante.
«No! Insomma, mi
ha fatto
piacere sentire quelle
cose,» mi affrettai a rispondere. «Ma, vedi, sono
appena uscita da una storia
che si è conclusa male...»
«Non sapevo che
avevi un
ragazzo.»
«In
realtà ci
siamo lasciati l'anno scorso,»
ammisi con un po' d'imbarazzo. «Però è
stata una storia importante. Ci siamo
amati davvero molto,» annuii ed ingoiai un magone che mi
stringeva la gola,
impedendomi quasi di respirare.
«Ma è
passato
così tanto! Smettila di torturarti
pensando a lui.»
«Più
che altro
ho paura di rimanere ancora
scottata,» era una mezza verità, perché
in realtà Dario continuava ad essere il
mio pensiero fisso.
«Capisco...»
disse sovrappensiero.
La metropolitana si
fermò in Stazione Centrale e
scendemmo per poter raggiungere la linea
gialla. Luca si immobilizzò in
prossimità delle scale mobili ed io lo
presi per un braccio, cercando di trascinarlo su.
«Sbrigati, che
prediamo
la metro!» esclamai.
Lui puntellò i
piedi per
terra e scosse la
testa.
«Io mi fermo qua.
Un mio
amico viene da Padova e
lo aspetto in stazione,» disse mestamente.
Lo guardai negli occhi e vi
lessi
dentro tutta
le delusione ed il rammarico per quello che avevo detto.
«Probabilmente
non sono
all'altezza del tuo
ex...» disse, camminando all'indietro per poter rimanere
fisso nel mio sguardo.
Ebbi la prontezza di
scattare e di
fermarlo
prima che fosse troppo lontano. Quanti altri ragazzi avrei fatto
scappare per
colpa di Dario? Per quanto tempo avrei vissuto alla sua ombra, con la
vana
speranza che tornasse? Per quanto ancora doveva rovinare la mia vita?
Luca era un ragazzo
splendido e
anche
estremamente carino. Se non fossi stata così tanto
ossessionata da Dario, mi
sarei sicuramente invaghita di lui.
Capii che non potevo continuare
così, che dovevo
finalmente andare avanti, chiudere finalmente con il mio passato e di
riprendere la mia vita in mano. Ci guardammo negli occhi e gli sorrisi.
«Non è vero
che non sei alla sua altezza,» gli
dissi.
Mi sporsi verso di lui e lo baciai
sulla
guancia.
«Mi piacerebbe davvero
uscire con te.»
Quella sera stessa uscimmo per la
prima volta
insieme e dopo una settimana ci scambiammo il nostro primo bacio. Dopo
un anno,
finalmente, avevo trovato il coraggio di lasciarmi tutto alle spalle e
di
buttarmi di nuovo in quel gioco meraviglioso e crudele al tempo stesso
che era
l’amore.
«Mamma! Dove sono i miei
orecchini a forma di
coccinella?» urlai dalla mia camera da letto, nervosa
perché mia madre aveva
messo tutto in ordine, spostando i miei oggetti.
Tra meno di dieci minuti dovevo
incontrarmi con
Luca al parco, per passare la serata insieme. Eravamo fidanzati da un
mese ed
era da tanto, troppo tempo che non mi sentivo così bene.
Luca era riuscito a
rendermi di nuovo felice.
«Li ho messi nella
borsetta bianca, dentro al
cassetto nell’armadio,» rispose.
Sbuffai e presi la maledetta
borsetta in cui mia
mamma aveva messo tutti i miei monili. Le collane erano intrecciate ai
bracciali, gli orecchini incastrati tra loro. Era diventato tutto un
enorme
groviglio d’oro e di bigiotteria quasi impossibile da
sbrogliare. Versai il contenuto
della borsetta sul pavimento e cercai, nel nodo di fili dorati, i miei
orecchini a forma di coccinella. Uno era incastrato lì in
mezzo, tra una
quantità indefinibile di collane e bracciali. Cominciai a
sbrogliare il tutto,
cercando di trattenere tutta la pazienza che possedessi. Già
mi innervosiva
dover sciogliere le cuffiette, figurarsi quel disastro.
Liberai qualche braccialetto e due
collane. Una
di quelle mi rimase in mano e la osservai un attimo prima di rimetterla
nervosamente nella borsetta. Mi raggelai, con il braccio a
mezz’aria quando
vidi il ciondolo a forma di fata che pendeva dalla fine catenina
d’oro bianco.
Il mio cuore sussultò, il mio corpo tremò. Dario
tornò prepotente ad invadere i
miei ricordi proprio quando credevo di essere quasi riuscito a
dimenticarlo.
Luca era stato essenziale da quel punto di vista. Mi aveva ricoperto
d’affetto,
mi aveva fatto sentire di nuovo importante ed amata. Ed una parte del
mio cuore
era riempita totalmente da lui. Ma ciò che rimaneva
apparteneva ancora a Dario
e in quel momento voleva schizzarmi fuori dal petto. Tutto
ciò che avevamo
vissuto insieme cominciò a scorrermi davanti agli occhi come
un meraviglioso
film con un triste epilogo. Il giorno in cui ci eravamo lasciati, ero
rimasta
in stazione per circa sette ore in attesa che arrivasse il mio treno
per
Milano. Ero rimasta rannicchiata su una panchina tutto il tempo,
piangendo,
sotto lo sguardo stupito della gente. Il viaggio era stato troppo lungo
ed ogni
chilometro che mi allontanava da lui era una stilettata al cuore che
allargava
la ferita lasciata dal nostro tacito addio. Un taxi, poi, mi aveva
riportata a
casa dalla stazione e appena messo piede in casa mi ero accasciata tra
le
braccia di mia madre. Lei ebbe l’accortezza di non chiedermi
nulla, immaginando
già che cosa fosse successo. Tutt’ora non sapeva
il motivo per cui io e Dario
ci fossimo lasciati e non aveva voluto nemmeno saperlo. Erano stati
giorni
strazianti, in bilico tra la disperazione per la fine della nostra
storia e la
speranza che fosse tutto solo un incubo, che un giorno Dario sarebbe
venuto a
prendermi di nuovo fuori dalla scuola, che mi chiamasse e mi dicesse Ti amo ancora una volta.
Sentii gli occhi
inumidirsi, ma non
cedetti alle
lacrime che volevano uscire copiose. Mi passai una mano sugli occhi per
impedirmi di piangere. Mi ero ripromessa che non avrei più
versato una lacrima
per lui. Sarebbero state solo sprecate. Perché ormai era
passato un anno ed era
insano che io lo amassi ancora. Perché lui aveva sicuramente
trovato un’altra
ragazza d’amare più di quanto aveva fatto con me.
Perché, sebbene il nostro
fosse stato un sentimento impetuoso e travolgente, ormai si era
concluso, anche
se la fiamma dell’amore ancora mi bruciava dentro.
Lanciai la collanina dentro la
borsetta, come se
scottasse, insieme al resto dei gioielli. Richiusi la borsa e la rimisi
dov’era. Presi velocemente il cappotto rosso dal letto e il
basco dello stesso
colore, uscendo dalla mia stanza.
«Non li hai trovati, gli
orecchini?» mi domandò
la mamma, vedendo i lobi delle orecchie liberi.
«Sì, ma
è tardi e non voglio far attendere
troppo Luca,» improvvisai.
«Stai bene,
Alice?» notò la mia smorfia di
dolore e mi appoggiò una mano sulla spalla, con un sorriso
dolce.
«È tutto ok
mamma, non ti preoccupare,» la rassicurai
e le diedi un bacio sulla guancia.
Presi l’mp3 dal tavolino
ed uscii di casa
rapidamente per non dover dare troppe spiegazioni a mia madre e
soprattutto per
non pensare ancora a Dario. Lui doveva essere solo un lontano ricordo.
Ora
c’era Luca nella mia vita e non volevo che la nostra storia
naufragasse
miseramente per colpa di Dario.
Misi le cuffiette nelle orecchie e
Tiziano Ferro
riecheggiò nelle mie orecchie. Scesi le scale lentamente,
mentre leggevo gli
ultimi Sms ricevuti. Uno era della Vodafone che mi avvertiva con
entusiasmo che
mi avrebbero regalato cento minuti di chiamate gratis, mentre
l’altro era di
Claudia. Era solita aggiornarmi di ciò che faceva Elisa,
come storpiare le
parole e ciucciare il pollice di mio fratello, e della sua impossibile
vita
coniugale con Smell. Anche lei si era convinta che convivere con
Raffaele fosse
un inferno.
Attraversai alla strada, senza dare
troppa
attenzione alle macchine che passavano e raggiunsi il parco poco
distante da
là. Luca non c’era ancora, per cui mi sedetti su
una panchina per aspettarlo.
Mi sentivo in colpa nei suoi confronti, perché avevo pensato
di nuovo a Dario e
a quello che ancora sentivo per lui. Luca non meritava che io
continuassi a
crogiolarmi nel mio passato, per cui avrei dovuto sforzarmi ancora di
più per
godere della nostra storia appena nata.
Sobbalzai quando qualcuno mi
pizzicò i fianchi.
Mi voltai di scatto e mi ritrovai il sorriso dolce di Luca davanti agli
occhi.
Spensi l’mp3 e gli diedi un leggero schiaffo sul braccio.
«Mi hai fatto
spaventare!» esclamai.
«Scusa,»
mormorò.
Mi prese la mano e mi
sollevò, cingendomi la
schiena per avvicinarmi a lui. Appoggiai entrambe le mani sulle sue
spalle e mi
alzai un tantino sulle punte. Sfiorai le sue labbra carnose e la
tensione accumulata
negli ultimi minuti scemò grazie alla sua lingua delicata e
al suo tocco sul
mio corpo. Stavo bene tra le sue braccia e mi piaceva assaporare le sua
bocca.
I suoi baci erano maledettamente lenti, dolci ed erano in grado di
sciogliere
ogni muscolo del mio corpo. Mi piaceva stare con lui, mi piaceva Luca
in sé e
speravo che quell’affetto che provavo nei suoi confronti
potesse trasformarsi
in amore e che anche la parte del mio cuore che ancora apparteneva a
Dario,
potesse diventare di sua proprietà.
«Dove andiamo per
festeggiare?» domandai,
curiosa.
Lui finse di pensare, poi
scrollò le spalle e si
abbassò per baciarmi il collo. Cercai di sottrarmi,
ridacchiando, ma mentre
indietreggiavo i miei occhi incontrarono quelli neri di Dario. Era poco
distante
da noi e ci guardava con le mani affondate nelle tasche del giubbotto.
Dapprima
credetti fosse solo un’allucinazione, ma non era
così. Dario era davvero lì e
ora aveva alzato una mano e mi stava salutando, con un sorriso
malinconico
appena accennato. Si voltò per allontanarsi ed io spinsi
delicatamente Luca
lontano da me.
«Dario!»
esclamai, correndo verso di lui.
«Dario!» lo richiamai e questa volta si
fermò, voltandosi appena verso di me.
«Ciao Alice,»
mormorò.
Respirai a fondo e lo guardai come
se potesse
sparire da un momento all’altro. Avevo creduto che fosse
impossibile di poterlo
rivedere dopo così tanto tempo ed invece ci era stata
concessa un’altra
occasione per vederci.
«Cosa ci fai
qua?» domandai.
Mi avvicinai a lui e gli sfiorai
appena un braccio,
ma ritrassi subito la mano perché quel contatto ancora
faceva male.
«Volevo salutarti prima
di partire per Roma,»
rispose ed io sussultai a quella affermazione.
«Roma?» ripetei.
Lui annuì ed io rimasi
attonita. Le mie orecchie
si rifiutarono di credere a quello che avevo appena udito.
«Vado a vivere con
Adriano,» aggiunse spicciolo
poco dopo.
«Non puoi tornare a Roma!
Che senso ha?»
Dario scrollò le spalle
ed abbassò lo sguardo.
Non rispose alla mia domanda, alle mille preoccupazioni che ora
albergavano
nella mia mente. A Roma aveva passato tutta la sua adolescenza
infelice, quella
che poi era stata la rovina della sua vita e la causa della sua
insicurezza,
della sua fragilità. Tornò a guardarmi con un
sorriso ed indicò Luca con il
mento, che era rimasto qualche metro dietro di noi.
«Carino il nuovo
fidanzato,» disse senza
malizia. «Sono felice che tu sia riuscita a voltare
pagina.»
Capii che il discorso Roma era
stato archiviato
ben prima che venisse fuori. Anche se avessi continuato a torturarlo di
domande,
non avrebbe mai ceduto ed anzi sarebbe scappato via scocciato. Con un
po’ di
amarezza, annuii e sorrisi, lanciando uno sguardo a Luca a mia volta.
«E tu? Hai voltato
pagina?» gli chiesi.
«Roma sarà un
buon inizio,» rispose con le
labbra stiracchiate in un sorriso.
Ci guardammo finalmente occhi negli
occhi e per
l’ultima volta provai la sensazione di affogarci dentro e
rimanervi
intrappolata. Lì dentro sarebbe rimasta per sempre una parte
della mia anima,
catturata dall’intensità del nero dei suoi occhi.
Dario sospirò rumorosamente e
lanciò un’altra occhiata a Luce.
«Ti lascio al tuo
cavaliere,» mormorò. «Addio,
Alice.»
Si avvicinò a me e mi
strinse. Appoggiò le sue
labbra sulla mia fronte in un delicato e dolce bacio d’addio.
Era sempre più
doloroso sentire quella parola, perché forse detta a voce
era come un brutto
incubo che si concretizzava. Lacrime lente e solitarie cominciarono a
bagnarmi
le guance mentre Dario si allontanava da me, questa volta per sempre.
«Addio,»
sussurrai, senza che lui mi sentisse.
Luca mi si affiancò, mi
strinse la spalla e mi
guardò dubbioso e preoccupato.
«Chi era
quello?» mi domandò, sospettoso.
Immaginavo che sapesse già la risposta, ma io mi limitai a
voltarmi verso di
lui e sorridergli. Mi asciugai velocemente il viso e lo baciai a fior
di
labbra.
«Un capitolo chiuso della
mia vita.»
_________________________________________________________
E
qui
possiamo mettere la parola Fine a Il meraviglioso mondo di Alice, dopo
un anno e un mese dalla pubblicazione del prologo.
Due sentimenti opposti, ora, stanno combattendo dentro di me: da un
lato sono felice di aver portato a termine un progetto e di potermi
dedicare ad altro, dall'altra, però, so già che
questa storia mi mancherà. Soprattutto Dario
perché è il personaggio che più amo di
questa storia. E infatti gli ho dedicato un POV in questo epilogo.
Sia Dario che Alice non sono riusciti a dimenticarsi a vicenda, seppur tutti gli sforzi. Il loro amore, anche se durato poco,è stato davvero intenso ed è difficile archiviare la cosa con semplicità. Entrambi, però, hanno cercato di andare a vanti senza l'altro, di trovare nuove persone di cui innamorarsi e con cui condividere la propria vita. Hanno avuto tutti e due la speranza di incontrarsi di nuovo e chiarire, magario passare sopra ai propri errori. Quando Dario si era finalmente deciso ad andare a cercare Alice, era però troppo tardi. In fondo non si cancella tutta la sofferenza e, soprattutto, è inutile farsi monopolizzare la vita e i pensieri da una persona con cui non si ha più un rapporto. Roma sarà il nuovo inizio di Dario, da lì ricomincerà la sua vita ancora una volta, insieme ai suoi amici e chiassà che non trovi finalmente la persona giusta per sè.
È
passato davvero molto tempo da quando ho pubblicato questa storia e, a
dire il vero, non mi aspettavo granché. Era una storiella
senza pretese, nata in una sera di Marzo mentre, stremata, me ne
tornavo a casa dall'Università. Mai mi sarei aspettata di
poter avere tale riscontro! Il vostro calore e le vostre parole mi
hanno sempre spronato ad andare avanti a scrivere di Alice e Dario.
Spesso ho anche deluso le vostre aspettative e un po' me ne dispiaccio.
A volte la storia è scaduta nel banale, altre volte ho
esagerato con le scene piccanti, discostandomi parecchio da
quello che avevo in mente originariamente. Ma ad un certo punto ho
perso il controllo della situazione e, beh, questo è il
risultato. Non uno dei migliori, anzi! Ma penso che sia un buon inizio,
soprattutto per migliormi e migliorare le storie che
pubblicherò in futuro. Le critiche ricevute mi hanno fatto
aprire gli occhi tante volte (anche se magari all'inizio ho rispostoun
po' sgarbatamente) e mi sono ritrovata spesso a pensare di aver fatto
tantissimi errori, ma ormai era troppo tardi per
rimediare.
Nonostante tutto, i personaggi di questa storia mi hanno divertita e mi
hanno fatto sognare, almeno per un po'. Li ho amati tutti, dal primo
all'ultimo, da quello stronzo di Davide al tassista che ha riportato
un'Alice piangente a cas di Dario.Tutti, in un modo o nell'altra mi
hanno regalato una piccola emozione. Spero vivamente di avre fatto
emozionare anche voi, di essere riuscita a trasmettervi qualcosa con le
mie parole :)
Vi ringrazio dal più profondo del cuore. Grazie per esserci state, grazie di aver perso qualche minuto del vostro tempo per recensire la storia, grazie per avermi criticata, grazie del vostro sostegno e grazie per ogni piccola cosa che avete fatto per me. Un abbraccio virtuale a tutte voi che ci siete sempre state, che siete arrivate in corsa.
Un GRAZIE specialissimo va però alle mie amate Crudelie, che ci sono sempre state e mi hanno sempre sostenuta, anche quando non lo meritavo. Grazie a Martina (IoNarrante) e a Venera (nes_sie). Starmi dietro non è facile, anzi è alquanto difficile, per colpa del mio carattere lunatico e alquanto strambo che odio io stessa. Grazie di tutto quello che avete fatto per me ♥