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Autore: Sylphs    10/05/2012    5 recensioni
Questa è una storia di mia invenzione che si ispira a grandi linee ad uno dei miei romanzi preferiti, "Il Fantasma dell'Opera". Irene, ragazza distratta e persa nel suo mondo, si trasferisce insieme al padre nella sperduta Heather Ville, una residenza recentemente ristrutturata a seguito di un misterioso incendio. Nel corso del suo soggiorno in quell'oscuro palazzo, si rende lentamente conto di avvertire una presenza intorno a sè che una notte, all'improvviso, decide di manifestarsi a lei...attratta dalla magia e dal romanticismo della situazione, la giovane si farà trascinare suo malgrado in una spirale di follia, di morte e di pericolo, per lei e per tutti coloro che ama. Spero che qualcuno leggerà, sarebbe importante per me!
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Amore di sangue'
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LA STORIA DEL FIGLIO PIÙ PICCOLO

 
 
 
 
 
 
Stephan guidava il camioncino per la campagna giallastra e malcurata, su una strada in cui era l’unico guidatore, tra alberi flosci e sfioriti che sfilavano dal finestrino e praterie grandi e piene di erbacce, colmo di indignazione, di rabbia e di dolore. Dolore per il rifiuto di Irene, che aveva distrutto i suoi sogni per colpa di un folle senza volto, di un uomo che viveva in Heather Ville benché nessuno lo sapesse e che si faceva chiamare solo con una lettera, la lettera R.
Stephan aveva per questo misterioso personaggio un odio a dir poco immenso. Non solo era convinto che avesse stregato la sua Irene imprigionandola in quella casa maledetta, ma che le sue intenzioni fossero le più vergognose e crudeli del mondo. Qualsiasi cosa fosse, certo qualcuno che non osava mostrarsi e che passava le giornate strisciando al buio non era normale. Il pensiero che Irene fosse sola con lui lo riempiva di terrore. Non poteva permettere che le facesse del male. Lo stesso Giorgio Lancaster gli aveva mandato una breve, angosciata mail in cui diceva di essere stato costretto ad andarsene perché “l’aveva visto”. Cosa avesse visto e cosa fosse successo restava un mistero, ma Stephan era certo che ci fosse lo zampino di R.
Poiché non sarebbe riuscito a riprendere a vivere normalmente sapendo che Irene era chiusa ad Heather Ville con R, Stephan aveva preso la drastica risoluzione di scoprire tutto quello che riusciva sul conto del suo rivale. Dato che la ragazza non intendeva ascoltare nessuno al riguardo, l’unico modo di convincerla delle cattive intenzioni del suo promesso sposo era spiattellarle qualche storia scottante. Stephan non voleva costringerla a seguirlo, nel caso avrebbe accettato il dolore, ma accertarsi che R non avesse alle spalle un passato terribile. Era sicuro che aveva un motivo di non farsi vedere, e un altro motivo di starsene chiuso senza avere contatti col mondo.
Aveva già setacciato due paesini nei dintorni di Heather Ville chiedendo informazioni sul suo conto, ma tutti gli avevano detto di non saperne nulla. Lui però era determinato a scoprire tutto sul conto di R. R…chissà qual era il suo vero nome, quale identità nascondeva.
“Lo scoprirò” si disse, oltrepassando un cartello con su scritto a lettere sbiadite il nome di un altro paesino: “Dovessi metterci mesi”.
Non si considerava un gran pensatore, né tantomeno uno scopritore di misteri, ma una cosa almeno l’aveva capita: R doveva avere qualcosa che non voleva in alcun modo mostrare agli altri e soprattutto a Irene. Qualcosa di cui si vergognava, e che l’aveva spinto a nascondersi ad Heather Ville. Forse era vanità, era narcisismo ciò che lo spingeva ad allontanarsi così dal resto della razza umana? No, no, qualcosa gli diceva che non era così. Forse era il mondo ad allontanarlo. Strano che Irene non ci fosse ancora arrivata, ma probabilmente era stata abbindolata troppo ed R le aveva impedito di pensare.
“Irene…” pensò, stringendo i pugni sul volante. Non avrebbe rinunciato così facilmente. Se riusciva a liberarla dalla fascinazione, era certo che lei finalmente avrebbe ripreso a guardarlo con gli occhi limpidi di quando l’aveva conosciuto, e avrebbe magari scoperto che le sarebbe piaciuto diventare sua moglie e vivere una vita calda e dolce al suo fianco. La collera di R non lo spaventava poi molto. Era soltanto un verme, un inutile verme troppo pavido per osare uscire da Heather Ville, che era stato capace soltanto di ringhiargli contro, quando si era dichiarato. Checché ne dicesse Irene, che era potente, governava le ombre ed era dotato di forza sovrumana, Stephan non lo temeva. Anzi, lo compativa. Aveva dimenticato cosa fossero la bellezza del sole, il calore della mano di un amico, la sensazione del vento sulla pelle. Se sperava di rifarsi di tutto questo tramite Irene, beh, gliel’avrebbe impedito.
“Mi basta smascherarlo” disse a mezza voce: “Così Irene sarà libera e lo vedrà com’è davvero, vedrà tutto il quadro in cui si trova com’è davvero, e capirà di essere stata ingannata subdolamente”.
Svoltò l’angolo. Su un piccolo e solitario colle verde si sviluppava un ancor più piccolo villaggio medievale, con poche casupole edificate lungo il suo perimetro e una o due viuzze che lo attraversavano tutto, fino ad una chiesetta romanica piazzata proprio in cima, a vegliare sugli altri edifici. Stephan parcheggiò il camioncino in un piazzale di pietra prima del paese, accanto ad altre automobili, poi si mise il berretto e uscì nell’aria fredda della campagna. Contemplò per un poco il posto che lo attendeva in silenzio, poi inforcò la prima viuzza in salita, infilandosi tra due file di case. In giro c’era poca gente e tutti lo guardavano con sospetto e ostilità, come se fosse un pericoloso sicario venuto ad ucciderli tutti. Lo sbirciavano dalle finestre, ritraendosi appena li guardava, oppure gli lanciavano lunghe occhiate dalle panchine o dai bordi di un fontanile di pietra. Il ragazzo teneva gli occhi bassi, intimidito da quegli sguardi, senza osare fronteggiarli. Lì c’era come un’aura di desolazione, di abbandono, che aveva percepito più fortemente ad Heather Ville. Ora che ci pensava, era il posto più vicino alla residenza in cui era andato.
Giunse di fronte all’insegna di un pub appesa a una trave, un vecchio pub che aveva l’aria di una taverna medievale. Di solito era in posti come quelli che si ottenevano informazioni, così entrò timidamente. Dentro faceva molto caldo, a differenza di fuori, a causa del bel fuoco rossastro che ardeva nell’antico camino di pietra. Il locale era ampio e illuminato fiocamente, colmo di grossi tavoli di legno occupati da commensali intenti a bere e a chiacchierare. In un angolo c’era un grande bancone al quale un grasso uomo preparava da bere. Alle pareti erano appese locandine, poster e strisce con su scritte varie marche di birra.
Non appena Stephan fece il suo ingresso, più di quindici teste si volsero di scatto verso di lui, fissandolo ostilmente, e nel pub calò un improvviso silenzio. Perfino il proprietario smise di riempire il boccale che aveva in mano per fissarlo. Il giovane deglutì e girò sugli avventori uno sguardo amichevole. Quelli continuarono a fissarlo per qualche minuto, poi ripresero le loro occupazioni, con maggiore tensione di prima. Si mise in coda al bancone sentendosi fortemente un intruso. Quando arrivò il suo turno, il barman serrò le labbra e fletté i muscoli delle braccia taurine: “Cosa desidera?” gli chiese a muso duro. Avesse detto cosa desidera straniero avrebbe ottenuto lo stesso effetto.
Stephan arrossì e depositò sul bancone alcune monete: “Una birra scura, per favore” balbettò. L’uomo controllò sospettoso il denaro, poi, rassicurato, lo intascò e gli fece un brusco cenno del capo: “Si accomodi”.
Stephan si sedette ad un tavolo libero addossato al muro, consapevole che diversi sguardi erano rimasti fissi su di lui. Si guardò un po’ intorno, pensando ora al posto in cui era capitato, ora a Irene, e che chiunque altro, al suo posto, l’avrebbe presa alla lettera e l’avrebbe lasciata cuocere nel suo brodo. Ma lui non poteva farlo. Non poteva lavarsene le mani dicendosi che se l’era cercata lei. L’amava troppo per farlo. Irene era una ragazza sensibile e intelligente e non meritava di essere rinchiusa lontano dalla luce del sole. Aveva la presunzione di avere intravisto nei suoi occhi un barlume d’amore per lui, un tempo, e desiderava che riaffiorasse.
“Una birra scura per lei, signore” disse una giovane cameriera gradevolmente in carne, appoggiando con un sorriso un grosso boccale colmo di schiumante liquido ambrato dinnanzi a lui. Portava una divisa bianca e una bandana da cui spuntavano ciocche di capelli rossi e ricci, e, a differenza degli altri, sembrava amichevole, anzi, dal modo in cui lo guardava si sarebbe detto lo trovasse di suo estremo gradimento. Aveva guance tonde e rosse da bambina. Stephan le sorrise e prese il boccale: “Ti ringrazio, sei gentile” bevve un buon sorso. Era squisita.
La cameriera era rimasta, intimidita, accanto al tavolo, rigirandosi tra le mani una ciocca di capelli. Alla fine, piuttosto rossa in viso, disse: “Non fare caso agli altri. Qui non amiamo molto i nuovi venuti. Comunque io mi chiamo Paola”.
Stephan rispose con un altro sorriso: “Piacere. Io sono Stephan. Non temere, non ci faccio caso. Sono passato solo per avere alcune informazioni. Anzi, ora che ci sono” si sporse verso di lei, e abbassò il tono con fare cospiratorio: “Sai per caso qualcosa su una certa proprietà di nome…Heather Ville?”
Paola aggrottò le sopracciglia e assunse un’espressione pensierosa. Poi tornò a guardarlo: “A me non viene in mente nulla, ma puoi chiedere alla vecchia Megara. Abita un po’ fuori dal villaggio, sulla sommità della collina. Lei…suo marito è stato proprietario di Heather Ville, per poco tempo”.
Stephan sentì montare l’eccitazione. La prima pista in due giorni di tappe forzate! Si alzò immediatamente, vuotando il boccale in un sol sorso, e mise nella mano paffuta della ragazza una manciata di monete: “Grazie mille, mi sei stata molto utile”.
“Fa attenzione!” gli gridò Paola quand’era sulla soglia, visibilmente dispiaciuta che se ne andasse così presto: “Megara, a quanto si dice, non ci sta molto con la testa!” lui le fece un cenno, e corse via.
Aveva la sensazione netta e infallibile che quella vecchia, quella Megara gli avrebbe dato le risposte che cercava. Si incamminò col suo passo vigoroso e allenato su per la collina, attraversando in fretta le casupole senza fare più caso alla gente. Ora che era vicino alla scoperta, si sentiva pieno di energia. Finalmente qualcuno che aveva sentito parlare di Heather Ville, che anzi, l’aveva addirittura posseduta! Dunque non era stata sempre di R. R era arrivato dopo.
Quando le case finivano, c’era un bel tratto da fare a piedi, tra alberi dalle fitte chiome e rocce sporgenti. La casetta di Megara sorgeva in un luogo isolato, quasi nascosto, che non avrebbe notato se non avesse avuto spirito di osservazione. Era rincantucciata dietro ad un’enorme pietra rettangolare, ombreggiata da una fila di betulle, e tanto piccola che sembrava quasi una baracca. Aveva il tetto spiovente, mezzo distrutto, i muri fatiscenti e la porta chiazzata di strane macchie. Le finestre erano sbarrate. Però il comignolo eruttava denso fumo grigio, chiaro segno che c’era qualcuno. Stephan sorrise e si avviò verso di essa sprofondando nell’erba alta fino ai fianchi.
Ad un lato della casetta c’era un piccolo orto in cui erano state piantate bizzarre piante di colori vivaci, che emanavano un odore pungente e stordente. Folte piante di ortica accarezzavano i muri, e accanto alla porta c’era un piccolo cerchio di funghi bianchi come la luna che brillavano appena al sole. Avvicinandosi alla porta, Stephan provò un insensato e forte brivido. Era una sensazione minacciosamente simile a quella che aveva provato ad Heather Ville. La folle impressione di essere precipitati in un altro mondo, un mondo di ombre e di segreti.
Allorché giunse di fronte alla porta di legno, vide che ci era stato infisso sopra un crocifisso. Esitò, poi bussò tre volte, dicendo ad alta voce: “È permesso? C’è nessuno?”
Non arrivò alcuna risposta dall’interno. Stephan ripeté l’invocazione e bussò ancora, più forte. Niente. Stranito, si buttò contro la porta e con una spallata la spalancò. Barcollò in un luogo buio che puzzava insopportabilmente di muffa e di piante essiccate. Si tappò il naso, disgustato. La casetta all’interno era composta da un solo locale, semibuio e fatiscente come l’esterno. Il pavimento di legno era ingombro di piramidi di libri, le pareti erano piene di mensole che ospitavano vasetti dal contenuto sospetto, trecce di erbe puzzolenti, ciotole e bicchieri. In un angolo c’era un camino pieno di polvere con un paiolo agganciato, al cui interno sciaguattava una zuppa bollente che fumava, e un giaciglio dal terribile odore di pelle. Dal soffitto pendevano rampicanti che estendevano i loro filamenti addirittura sui muri, simili a serpenti velenosi. Non c’era un solo centimetro di quel luogo che non fosse ingombro di roba.
Stephan si fece avanti guardandosi intorno con chiara meraviglia, chiedendosi quale individuo pensante avrebbe voluto vivere lì. Heather Ville al confronto era una reggia. Allorché giunse accanto al camino, e si chinò sul paiolo, udì un cinguettio e si voltò di scatto: all’interno di una gabbia di metallo c’era un canarino rosso sangue che lo guardava con brillanti occhi neri. Sotto al trespolo al quale si reggeva c’era una grossa rosa rossa. Il ragazzo sorrise appena e si avvicinò al canarino, che sembrava volergli rivelare un segreto.
Di colpo una mano scheletrica dalle dita adunche gli agguantò il braccio, stringendolo in una presa d’acciaio, e una voce rauca sibilò: “Cosa ci fai qui?”
Terrorizzato, Stephan si girò col cuore che gli batteva frenetico nel petto e si trovò faccia a faccia con una vecchia davvero decrepita, che dimostrava novant’anni e anche di più, e che lo fissava con occhi bianchi e acquosi, quasi ciechi. Il suo orrendo aspetto e la puzza di erbe che emanava servirono a riempirlo di ribrezzo: era bassa e rachitica, ingobbita in se stessa, con un volto così segnato di rughe da sembrare un vecchio pezzo di cuoio lasciato ad essiccare al sole. Gli occhi profondamente infossati le davano un’aria da invasata. I capelli, lunghi fino alle ginocchia e tutti ingarbugliati, erano grigi e stopposi, intrisi di sporcizia, e le infagottavano il corpo scheletrico come un mantello. Era vestita di stracci sudici e tremava così tanto, era così fragile e avvizzita da dare l’idea di un frutto marcio che presto si sarebbe annerito, e sarebbe morto. Aveva la bocca spalancata su un pozzo nero privo di denti e la pelle cadente che rivelava le ossa aguzze del viso, contratto in una smorfia di sospetto e di follia. Con una mano gli stringeva il polso, con l’altra brandiva un coltellaccio dalla larga lama che aveva sollevato sopra la testa.
Stephan impallidì e la paura gli liquefece le gambe. Quell’orribile visione, quelle dita scheletriche che gli affondavano nella carne, e quegli occhi bianchi, l’avevano gettato nel panico. Si riprese prima che la vecchia potesse abbassare il coltello su di lui ed esclamò: “La prego, si fermi! Sono venuto qui in cerca di risposte! Non ho mai fatto nulla di male, io!”
Lei si bloccò con l’arma a mezz’aria. Lo scrutò con gli occhi socchiusi e sussurrò: “Ah! Non vedo più come una volta. Chi sei? Tu non sei lui, no. Credevo che lo fossi, ma la tua voce mi è estranea. Cosa vuoi da me? Perché ti sei introdotto in casa mia?”
Stephan, spaventato dal suono di quella voce rauca, piano piano riprese il controllo di sé. La vecchia aveva abbassato il coltello e non sembrava più incline ad aggredirlo. Le chiese, tremando: “Parlo con Megara? I-il mio nome è Stephan, sono un ragazzo di città, i-io non…non sono venuto per farle del male”.
“Un ragazzo di città?” gli fece eco lei con tono vuoto. Gli lasciò andare il polso, e lui sospirò di sollievo. Indietreggiò di alcuni passi: “Sì, sono Megara. Cosa sei venuto a fare? Nessuno viene mai qui. Prima, quando il mio povero marito era ancora vivo, vedevo tanti amici…non so dove siano ora. Sono sola. Da così tanti anni…non riesco davvero ad immaginare cosa voglia da me un ragazzo di città”.
Stephan si massaggiò il polso. Il coltello era ancora nella mano di Megara, e la cosa lo inquietava non poco. Doveva essere cauto: “Mi scuso di averla spaventata. Non era mia intenzione. Io…mi è stato detto che lei sapeva cose che mi interessa scoprire”.
Megara torse il collo di lato come un uccello, con un movimento così innaturale che Stephan avrebbe voluto distogliere lo sguardo: “Le tue parole sono gentili, ragazzo” bisbigliò: “Raramente ho incontrato qualcuno che si mostrava gentile nei miei confronti. Tu sembri un ragazzo onesto. Cosa può interessare delle cose che so ad un ragazzo onesto? So molte cose, ma molte di queste preferirei averle dimenticate. Il mio povero defunto marito le ha portate nella tomba”.
Si voltò e, senza aggiungere una sola parola, andò ad una mensola sopra ad un bancone sudicio. A colpo sicuro afferrò un vasetto pieno di una polvere fine e viola e un grosso frutto rotondo di un bianco lattescente, da cui traspariva il succo scarlatto che scorreva all’interno. Con il gomito ossuto pulì alla meno peggio il bancone sporco di sangue e vi dispose sopra le cose che aveva preso. Poi prese un pollo morto che se ne stava appeso al muro e, con il coltello con cui avrebbe voluto impalare lui, gli tagliò la testa con un colpo sicuro. Il sangue scuro sprizzò e le sporcò le mani. Stephan fece una smorfia di disgusto e distolse gli occhi.
“Allora? Cosa vuoi sapere?” ripeté Megara frugando nelle interiora dell’uccello senza fare una piega, e rimirando con uno sguardo attento un grosso filamento rosato che ne estrasse. Lo buttò nel fuoco e cominciò a spennarlo. Ogni tanto lo riempiva con la polverina viola contenuta nel vasetto. Il ragazzo, seriamente convinto della scarsa sanità mentale della vecchia, disse, incerto: “La ragazza che amo è in grave pericolo”.
“L’amore è il più puro e il più nobile dei sentimenti” commentò lei, non molto turbata, infilzando il frutto bianco che spruzzò succo rosso sul pollo spennato: “Ma a volte porta a commettere grossi errori, ragazzo”.
“Farò qualsiasi cosa per salvarla” dichiarò Stephan deciso: “Purtroppo questa ragazza è tuttora prigioniera…di sua volontà…ad Heather Ville”.
Allorché pronunciò quel nome, la vecchia sussultò e lasciò cadere il coltello insanguinato, che toccò il pavimento con un tonfo sordo. Venne percorsa da un tremito violento e spalancò gli occhi semiciechi: “Dove…” sussurrò: “Dove hai detto che si trova la ragazza?”
“Ad Heather Ville” ripeté Stephan. Megara ebbe un altro sobbalzo. Era ancora girata di spalle, non poteva vedere la sua espressione, per fortuna, ma messa così assomigliava alla statua del turbamento. Quando si voltò lentamente verso di lui, aveva il viso rugoso stravolto dall’angoscia: “Chi…chi l’ha lasciata andare lì?” esclamò. Stephan abbassò gli occhi: “Lei e suo padre si sono trasferiti lì credendo di essere soli. Ma lei è caduta preda di un maleficio. Un uomo misterioso di nome R la tiene prigioniera e sostiene di esserne innamorato”.
La vecchia impallidì ancora di più: “Devi portarla subito via da lui, ragazzo! Subito!”
“Ho tentato, ma Irene è convinta che R le darà l’avventura che cerca e non mi ha dato ascolto. Ho saputo giù al villaggio che suo marito ha posseduto Heather Ville per un po’. Cosa ne sa lei?”
“Io…” sussurrò Megara, fissando il vuoto con uno sguardo carico di paura. Si portò le mani alla gola e si appoggiò al giaciglio, come non riuscisse a reggersi in piedi. Vi crollò sopra e afferrò dal suolo una tazza sudicia con dentro un liquido salmastro che puzzava un po’. Ne bevve rumorosamente un sorso, e quando l’ebbe fatto parve sentirsi meglio. Lo fissò: “Ti dirò ciò che so, poiché sento che hai un cuore puro e che ami davvero la ragazza bramata da R” diceva quel nome con timore superstizioso. Si sporse verso di lui fino ad avere il viso ad un soffio dal suo e lo colpì con una zaffata di tanfo marcio. Gli chiese con voce vibrante: “Hai mai sentito parlare della famiglia Lawrence?”
Stephan frugò nella memoria, ma sapeva ben poche cose e di certo quella non gli diceva nulla. Scosse la testa. Megara doveva aspettarselo: “Neanche io, questo lo appresi in seguito, ma dato che sei qui perché ti parli di R, fingiamo che l’abbia saputo da prima. I Lawrence sono un’antica e ricca famiglia nordica che in Svezia ha acquisito molto credito e molta fama. Per generazioni e generazioni, il loro prestigio ha illuminato i salotti della buona società. Erano noti per il loro animo calcolatore, per i pochi scrupoli che si facevano, e per il loro infallibile fiuto per gli affari. Avevano una grandissima proprietà che dava sul mare artico, un vecchio castello in cui vivevano da diversi secoli.
“Hugo e Ingrid Lawrence erano da poco sposati quando diedero alla famiglia il primo erede, un maschio bello e forte. Non passò molto tempo che ne ebbero altri due, identici al primo in tutto e per tutto, che furono esibiti con orgoglio e con compiacimento. Per diversi anni la famiglia Lawrence rimase questa, i genitori, e i tre figli maschi. Hugo Lawrence, il padre, era un uomo egoista e senza scrupoli, un uomo che amava il denaro e i piaceri sopra ogni altra cosa e che sprofondava spesso nella depravazione, ma era abbastanza abile da nasconderlo al resto del mondo. Doveva mantenere la facciata onorevole. Ingrid, che invece era una donna introversa e fragile, sempre chiusa nelle sue stanze, desiderava con tutto il cuore un altro figlio, che desse gioia alla loro mezz’età ora che gli altri erano cresciuti. Alla fine Hugo cedette alle sue suppliche insistenti. Quando lei diede alla luce il figlio più piccolo, che chiamò Raphael, si dice che ci fu una grande festa e che tutti gioirono”.
Megara si interruppe un attimo e si alzò dal giaciglio, seguita dallo sguardo attento di Stephan. Andò alla gabbia col canarino rosso e lo accarezzò con la punta delle dita aguzze, assorta: “Questo solo il primo anno di vita del piccolo Raphael. Poi, repentinamente, con una tempestività sospetta, il quarto figlio fu bruscamente nascosto al mondo. Smisero di mostrarlo al pubblico, rifiutarono di aggiungerlo al quadro di famiglia, non fecero foto, rinnegarono quasi la sua esistenza. Hugo lo fece rinchiudere nella stanza più isolata del palazzo, con la sola compagnia di un precettore che a volte veniva a dargli lezioni. Ingrid perse la ragione e rifiutò di vederlo. Nessuno sapeva nulla di lui, non era nient’altro che uno spettro avvolto dal mistero che se ne stava rintanato nella sua “cella”. Hugo disse che era gravemente malato, e che per questo lo tenevano nascosto. Ma in molti ipotizzavano un motivo diverso. Il precettore, l’unico che era ammesso alla sua presenza, non diceva una parola, si limitava a lodare la spiccata intelligenza di quel bambino senza volto”.
“R!” esclamò Stephan. Di colpo aveva capito tutto: “Raphael Lawrence…è R!”
Megara lo fissò intensamente: “Dodici anni dopo la sua nascita, dopo undici anni di reclusione forzata, Hugo e Viktor, il terzogenito, furono trovati morti nella suddetta camera. Uccisi da una mano brutale, assassinati entrambi lo stesso giorno. Viktor era l’unico dei tre fratelli che osasse salire a volte agli ultimi piani per andare a far visita a Raphael. Lui, da parte sua, era scomparso nel nulla. Era fuggito dalla sua prigione. Fu cercato in lungo e in largo dal primogenito, ma non riuscì mai a trovarlo, anche perché non avendolo mai visto, non sapeva cosa cercare.
“Per alcuni anni di questo misterioso ragazzino senza volto che aveva nelle vene il nobile sangue dei Lawrence, e che si era macchiato le mani del sangue di suo padre e di suo fratello non si seppe più nulla. Si credette che fosse morto, o disperso. Allora io e mio marito eravamo un’onesta coppia che viveva nel paese che hai visitato quest’oggi. Lui, mio marito, era un rinomato agente immobiliare, che s’era ritrovato tra le mani una strana e sperduta proprietà di nome Heather Ville. Gli era stata ceduta piuttosto bruscamente da un vecchio amico e non sapeva cosa farsene, perché nessuno la voleva. Era una casa isolata e inquietante, tutt’altro che invitante. Era molto preoccupato, lo ricordo bene. Voleva sbarazzarsene al più presto.
“Un giorno al villaggio si presentò un uomo misterioso con il viso coperto da un drappo nero, che non parlava con nessuno. Prese alloggio in una pensione. Tutti avevano paura di lui e gli si tenevano alla larga. Non aveva fornito alcuna informazione su di sé, e si era presentato con un nome falso. Due giorni dopo il suo arrivo, andò a far visita a mio marito. Non mi piaceva. Aveva come un che di sgradevole, di inquietante, che mi spingeva a stargli alla larga. Implorai mio marito di mandarlo via, ma lui, pace all’anima sua, è sempre stato un uomo buono con tutti, così l’ha ricevuto nel suo studio. Lì R ha detto di essere disposto a pagare qualsiasi somma in cambio di Heather Ville, senza neanche volerla vedere prima. Ovviamente mio marito si stupì non poco, considerata la proprietà di cui si stava parlando, e gli chiese il motivo di questa decisione. R, che non s’era scoperto neanche allora, si limitò a dire che aveva bisogno di solitudine. E allora tirò fuori dagli abiti un rotolo di banconote e lo mise di fronte a mio marito. Era una cifra esorbitante!
“Mio marito ha rifiutato l’affare e l’ha cacciato. Ma il pensiero di quei soldi non ci abbandonava mai. Una cifra del genere ci avrebbe permesso di cambiare vita, e in cambio dovevamo solo cedere una casa che nessuno voleva. Mio marito richiamò R, e accettò. Conclusero un affare senza contratto. Prendemmo i soldi, e lui se ne andò a Heather Ville, barricandosi dentro. Da allora nessuno lo vide più. Ovviamente sapevamo che era lì, ma non usciva mai, neanche durante le festività. Avevamo paura di lui e della casa in cui viveva. Heather Ville era diventato un posto maledetto. Il suo proprietario era un uomo maledetto.
“Fu mio marito a collegarlo a Raphael Lawrence. Tramite certe sue fonti venne a sapere della tragica storia di quella famiglia e gli ci volle poco a fare un collegamento tra il ragazzino scappato dal palazzo e il giovane dal volto coperto che si era chiuso ad Heather Ville. Aveva fatto affari con un efferato assassino. Fummo assaliti dall’orrore. Non avevamo nessuna prova per provare la sua identità, ma mio marito era sicuro. Aveva fornito ad un criminale il nascondiglio perfetto. Benché lo supplicassi di restare con me, si recò ad Heather Ville per accusarlo e riprendersi la casa. Non fece mai più ritorno”.
A quel punto Megara parve troppo toccata per continuare. La voce le si spezzò, le lacrime le riempirono gli occhi e si nascose il viso tra le mani, singhiozzando. Stephan, che aveva ascoltato tutto con crescente attenzione, le batté timorosamente una mano sulla spalla: “Mi…mi dispiace”.
“Mio marito ha fatto quello che riteneva giusto” sbottò la vecchia, non appena si fu ripresa: “Sono orgogliosa di lui. Dopo del tempo che non tornava, fui assalita dal terrore terribile che R sarebbe venuto ad uccidere anche me. Sapeva che ero a mia volta a conoscenza della sua identità? L’aveva estorto a mio marito? No, sapevo che lui aveva sopportato le peggiori torture senza fare il mio nome, ma il pensiero di quell’uomo dal viso coperto che di notte mi si avvicinava per uccidermi non mi dava pace. Era il Diavolo. Non era un uomo. Così mi nascosi qui, lontana da tutti, per non farmi trovare. Cambiai nome, cambiai perfino aspetto, mi misi a coltivare le erbe, per non fornire alcun collegamento tra me e la donna che ero stata. Nessuno venne a darmi fastidio, anche perché non raccontai questa storia ad anima viva. Soltanto pochi al villaggio sapevano chi era stato mio marito.
“Tempo dopo, venni a sapere che un terribile incendio era avvenuto ad Heather Ville. Nessuno sapeva perché. Quando erano riusciti a spegnere tutto, la casa si era per la maggior parte salvata, ma di R non s’era trovata più alcuna traccia. L’avevano cercato ovunque, in ogni stanza, tranne che nei muri. Ma niente. Io però so cosa lo spinse ad appiccare il fuoco, perché è stato lui a provocare l’incendio: voleva farla finita con la sua vita miserabile, e allo stesso tempo bruciare le prove, cioè ciò che restava di mio marito. Ricordo che allora gioii alla notizia e sperai con tutta me stessa che fosse davvero morto come tutti dissero, che si fosse suicidato e ci avesse liberati dal male che portava. Fino ad ora, quando sei venuto qui, ne ero convinta. Heather Ville fu nuovamente messa in vendita e probabilmente è qui che entrano in scena la ragazza che ami e suo padre”.
Stephan batté le palpebre. Ora sapeva la verità. Sapeva chi era stato R, cosa era stato capace di fare, ed era terrorizzato, perché si rendeva conto del pericolo in cui si trovava Irene. Se solo avesse saputo prima! Le avrebbe detto chiaro e tondo che si era data ad un assassino. Mormorò: “R non è morto, Megara. Forse sperava di morire, ma quando hanno spento l’incendio era ancora vivo, e pur di non farsi trovare si è nascosto nei muri. Ora ha in mano la mia Irene…maledizione!”
Megara gli prese le mani con sollecitudine e le strinse: “Non devi indugiare un solo istante, ragazzo! La ragazza che ami non deve restare lì con quell’essere un minuto di più. Corre un grave pericolo!”
“Un’ultima cosa, Megara” disse Stephan: “Neanche tu hai visto il volto di R, cioè…di Raphael?”
“No. Sono sicura che mio marito l’ha veduto, come l’hanno veduto Hugo Lawrence e suo figlio. Tutti quelli che l’hanno veduto sono morti. L’unico che è stato risparmiato e che l’ha veduto è il precettore. Non so perché Raphael lo lasciò in vita, ma probabilmente gli si era affezionato, e aveva visto in lui un padre. Dubito però che possa esserci di qualche utilità, poiché ora si trova in Svezia”.
“Giorgio Lancaster l’ha visto…” sussurrò Stephan. Di fronte allo sguardo interrogativo di Megara, spiegò: “Il padre di Irene. Lui è vivo. Raphael lo ha risparmiato. Perché?”
“Non lo so” commentò lei, alzando le spalle: “Ma è davvero così importante scoprirlo? Pensa alla tua Irene, non tentare di venire a conoscenza di un segreto che vuol dire morte per chiunque lo scopre. Inoltre, a quanto dici, ora Raphael s’è messo in testa d’essersi innamorato della ragazza, e possiamo aspettarci di tutto per chi ha intenzione di disturbarlo”.
A quelle parole, un terribile presentimento turbò l’anima di Stephan. Impallidì e un mancamento lo colse. Oh, no…in tutto questo, s’erano dimenticati completamente di Tommaso! Tommaso aveva sempre nutrito sospetti, assai prima di loro, e non sapeva che Giorgio era tornato in città! A momenti sarebbe andato ad Heather Ville come gli era stato ordinato nella più completa ignoranza, inconsapevole del pericolo che correva!
“Megara!” gridò: “Un mio caro amico non sa nulla ed è in viaggio per Heather Ville! Cosa possiamo fare?”
La vecchia lo fissò ad occhi spalancati. Poi disse lugubre: “Nulla, ragazzo. È troppo tardi per il tuo amico. Prega per lui, e spera che non sia così pazzo da intralciare gli affari di Raphael”.

 
  
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