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Autore: Sylphs    18/05/2012    6 recensioni
Questa è una storia di mia invenzione che si ispira a grandi linee ad uno dei miei romanzi preferiti, "Il Fantasma dell'Opera". Irene, ragazza distratta e persa nel suo mondo, si trasferisce insieme al padre nella sperduta Heather Ville, una residenza recentemente ristrutturata a seguito di un misterioso incendio. Nel corso del suo soggiorno in quell'oscuro palazzo, si rende lentamente conto di avvertire una presenza intorno a sè che una notte, all'improvviso, decide di manifestarsi a lei...attratta dalla magia e dal romanticismo della situazione, la giovane si farà trascinare suo malgrado in una spirale di follia, di morte e di pericolo, per lei e per tutti coloro che ama. Spero che qualcuno leggerà, sarebbe importante per me!
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Amore di sangue'
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FINE DI UN’ILLUSIONE

 
 
 
 
 
 
Tommaso guidava assorto la sua piccola macchina blu sulla strada deserta che conduceva ad Heather Ville. Era partito appena due ore prima che Giorgio Lancaster tornasse, come gli era stato detto, e viaggiava ormai da molto. Riconosceva la desolazione dei campi che lo circondava.
A dir la verità non faceva i salti di gioia alla prospettiva di tornare nella tetra e misteriosa Heather Ville, specialmente dopo gli ultimi avvenimenti. I sospetti che nutriva circa la presenza che la notte parlava con la signorina Irene, in quei giorni passati in città, si erano rafforzati. Si era ricordato all’improvviso di mille particolari: la corda aggiunta all’arpa, i movimenti che più volte aveva udito, gli atteggiamenti sfuggenti della signorina, e infine quel suo modo di liberarsi di lui in fretta e furia, spedendolo in città con un pretesto ridicolo. C’era qualcosa sotto, il suo vecchio intuito non falliva mai, qualcosa di sporco. Beh, stavolta non si sarebbe fatto infinocchiare. Per Dio, stavolta avrebbe scoperto tutto! Conosceva la signorina Irene da quando aveva mosso i primi passi, tra loro era ormai nato un rapporto di cordialità e, sì, perfino affetto. L’avrebbe messa sulla corda e con gentile fermezza l’avrebbe esortata a confessarsi.
“Che si sia fatta il fidanzato? Forse Stephan non le piace più?” certo si sarebbero spiegate le conversazioni notturne…ma chi poteva parlare con lei in una proprietà sperduta nel nulla, se non era già lì da prima? E soprattutto, da dove le aveva parlato? Non poteva trattarsi di un semplice innamorato troppo impertinente.
Allorché scorse la sagoma scura di Heather Ville profilarsi all’orizzonte, aveva preso la solida risoluzione di entrarci a passo di marcia, con un atteggiamento dignitoso, di recarsi dalla signorina Irene e di annunciarle che sapeva tutto e che l’avrebbe aiutata come poteva. Fingendo una scoperta che non era avvenuta l’avrebbe spaventata e lei per riflesso sarebbe scoppiata in pianto e gli avrebbe raccontato tutto.
“Sì” si disse soddisfatto, lisciandosi i baffi curati: “Bravo, vecchio mio”.
Heather Ville era ancora più inquietante di quanto ricordava, specialmente adesso che l’alba era appena cominciata e che i contorni delle cose erano ancora sfocati e indefiniti. Il portone era ben chiuso e le finestre nere sembravano occhi ostili che lo fissavano. Tommaso parcheggiò la macchina lì davanti e osservò la casa con sguardo tetro. Proprio non era un bel posto. Il padrone era stato pazzo a comperarla. Lui sapeva cosa ne avrebbe fatto, se ne avesse avuta la possibilità: l’avrebbe demolita da cima a fondo.
Fu contrariato che nessuno fosse venuto ad accoglierlo. Insomma, non solo era stato sfrattato senza spiegazioni, inoltre non si degnavano neanche di venirlo a salutare, come a fargli capire palesemente quanto la sua presenza fosse sgradita. Indignato, il domestico uscì dalla macchina e prese il suo bagaglio stretto e spartano. Si avviò in direzione del portone brontolando tra sé e sé insulti cortesi e minacce blande contro il padrone e sua figlia. Le aveva sempre giudicate brave persone, ma forse doveva ricredersi.
La sala da pranzo su cui dava il portone era avvolta dalla più nera oscurità. Questo, tuttavia, non impedì a Tommaso di notare che la tavola recava i segni di una cena a dir poco sontuosa: c’erano ancora i piatti sporchi e le posate in disordine, nonché i bicchieri con dentro i rimasugli del vino. I vassoi contenevano ciò che restava delle pietanze consumate. “Ah” commentò il domestico con un sospiro rassegnato. Il padrone e la signorina si erano davvero dati alla pazza gioia in sua assenza. Ma chi aveva cucinato? Poco importava, contava solo che toccava a lui ripulire tutto. Prese il bicchiere che aveva vicino e odorò. Uhm. Doveva essere stato un vino ottimo. Lui era un vero esperto di vini. A giudicare dall’aroma, doveva trattarsi di uno Chateau Branaire Ducru. E l’annata era ottima. Non sapeva che il padrone possedesse simili rarità! Vide che sul bordo del bicchiere c’era un’impronta di rossetto rosso. Ma bene! La signorina Irene s’era messa a bere! E il padrone non diceva niente?
“Questa casa ci sta rovinando” pensò rassegnato. E si rassegnò ancor di più quando vide che il vino era finito. Un bicchierino di quella prelibatezza l’avrebbe tirato su. Ahimè, era sempre sfortunato!
“Sarà meglio che vada dalla signorina” borbottò avviandosi verso la scalinata. Incominciò a salire a fatica, con l’anca che mandava fitte, e il bagaglio issato sulla schiena. C’era sempre quel dannato buio, che non gli faceva vedere un accidente di quello che aveva intorno. Non si udiva un rumore: sembrava che lì dentro ci fosse solo lui. Tommaso avvertì di colpo un presentimento, che gli gridava a gran voce di voltarsi e fuggire. Ne fu infastidito. Di certo non era il tipo da lasciarsi suggestionare! Ignorò l’avvertimento celestiale e riprese a salire. Il presentimento non se ne andò, anzi, rimase.
Aveva appena finito di salire la scala, che udì, vicinissimo, un rumore di passi lievi e silenziosi che si avvicinavano. Il cuore gli balzò in petto e le mani gli si riempirono di sudore. Doveva essere il padrone, di sicuro, che veniva a salutarlo. Ma, spinto da un istinto folle ma potente, il domestico corse verso una grossa tenda di broccato e ci si nascose dietro con tutto il bagaglio, seppur vergognandosi furiosamente di quello che stava facendo. Insomma, alla sua età!
Una sagoma scura uscì da una porta che il domestico aveva sempre creduto chiusa a chiave e la richiuse piano dietro di sé, girando una chiave nella serratura. La paura di Tommaso crebbe a dismisura allorché si accorse che la sagoma era troppo alta e magra per essere quella del padrone. Si nascose di più dietro la tenda, tremando: un ladro. Sicuramente. Un ladro venuto a derubare il padrone dei suoi beni. Cosa aveva fatto a lui e alla signorina? E cosa avrebbe fatto a lui, se l’avesse scoperto? Urlare era una tentazione fortissima.
La sagoma si avvicinò pericolosamente alla tenda dietro cui era nascosto il povero Tommaso, pallido e terrorizzato. Ora la vedeva meglio: era un uomo con indosso un malridotto completo da gentiluomo novecentesco, che aveva il volto completamente nascosto da un drappo nero. Gli occhi del domestico si spalancarono, poiché vide chiaramente che quest’uomo silenzioso e inquietante portava in braccio niente altri che la signorina Irene, che era così immobile, aveva gli occhi talmente chiusi, che il poveretto dietro la tenda si chiese se fosse viva o morta. Serrò i pugni al punto da conficcarsi le unghie nella carne e si morse a sangue la lingua per non urlare. Ora come ora la ragazza non sembrava morta…ma…se fosse accaduta una disgrazia?
Il sinistro personaggio dal viso coperto, tuttavia, la portava con tale precauzione, la reggeva tra le braccia con una tal delicatezza, che Tommaso non sapeva cosa pensare. S’era approfittato di lei? Era un folle maniaco? Le ipotesi erano mille ed erano una peggiore dell’altra. Ma d’altronde lui, Tommaso, come avrebbe potuto salvarla?
L’uomo senza volto oltrepassò la tenda famosa senza avere reazioni apparenti, ma il sollievo che il domestico provò fu assai breve. Era totalmente invaso dal panico, un panico soffocante e inatteso, non tanto per se stesso, ma per la signorina Irene. Lì, inerte, abbandonata in braccio a quel tipo che sembrava la Morte, appariva terribilmente vulnerabile. Indossava un antico abito rosso.
L’uomo senza volto imboccò un corridoio oscuro, sempre con la ragazza tra le braccia, e Tommaso, in un impeto di coraggio, gli venne dietro nel modo più silenzioso che gli riusciva, spostandosi da dietro alla tenda a dietro ad un muro di pietra. Subito fissò l’altro col fiatone: ma niente. L’uomo, che, noi lo sappiamo, era R, continuava a camminare tranquillo. Doveva essere troppo immerso nella contemplazione della fanciulla che portava in braccio per fare caso al suo inatteso inseguitore. Tommaso da parte sua cambiava mille nascondigli, con i nervi tesi al massimo, alla ricerca disperata d’un’arma che non trovava, e non staccava gli occhi di dosso all’altro. Scappare sarebbe stato un atto terribilmente vigliacco e ingiusto nei confronti della signorina.
“Ma non ha bisogno della luce per muoversi?” pensò, i denti martellanti per la tensione. No: R non inciampava né sbagliava strada, per lui il buio era il più caro degli amici, e conosceva troppo quei luoghi per sbagliarsi. Poteva anche darsi che lo facesse per non svegliare Irene. A quel punto Tommaso era quasi del tutto sicuro che fosse viva. Ma era stato l’uomo a ridurla all’incoscienza?
Si rese conto che R stava andando nella camera da letto di Irene solo quando riconobbe l’uscio in lontananza. Immediatamente gli venne da vomitare al pensiero di quali orribili e immondi propositi animassero quel verme senza volto. Cosa voleva fare a quella fanciulla così innocente, a quell’essere così puro e gentile? Diavolo, anche se avesse rischiato la vita, gliel’avrebbe impedito! Non avrebbe permesso che le facesse del male! La conosceva pur sempre da diciotto anni, per lui era come una nipote, e di certo non sarebbe rimasto a guardare.
R si fermò davanti alla porta di Irene e la aprì facendo il minor rumore possibile. Dentro era tutto buio. Tommaso, nascosto dietro ad una statua, s’era premuto una mano sulla bocca per non far sentire il suono angosciato del suo respiro. Vide l’uomo senza volto entrare nella stanza e svanire tra le ombre. Fu preso dalla frenesia. Corse in avanti pronto a fare irruzione urlando anche disarmato com’era, ma dovette ricorrere ad una manovra di fortuna allorché R accese la lampada di fianco al letto, che illuminò tutto di un soffuso chiarore. Tommaso si fermò in scivolata, cadde a terra e rotolò dietro ad un’altra tenda completamente terrorizzato. C’era mancato poco che commettesse un’imprudenza!
R non s’era ancora accorto di niente. Era chino sul letto illuminato dalla lampada accesa e vi stava deponendo delicatamente Irene. Allorché la ragazza addormentata fu distesa sul materasso, il suo sinistro accompagnatore la coprì con cura con la coperta rossa e le sistemò i cuscini sotto la testa per farla stare più comoda. Quel comportamento che si contrapponeva così fortemente al suo macabro aspetto e all’intera situazione lasciò Tommaso profondamente interdetto. Ora si chiedeva che intenzioni avesse quell’uomo.
R finì di sistemare Irene e sedette sul letto, contemplandola da dietro il drappo che gli copriva il viso. Chino sulla bianca fanciulla era spaventoso, ma nelle sue movenze non c’era né minaccia né aggressività. Dopo diversi istanti che restava così, allungò la mano guantata, e già Tommaso sentiva riaffiorare tutte le terribili ipotesi di prima…ma si limitò a carezzarle amorevolmente i capelli, come avrebbe fatto chiunque le fosse semplicemente affezionato.
“Ma…ma chi è costui?” si chiese il domestico allibito e incerto. R staccò a malincuore la mano dalla testa della ragazza e si alzò lentamente in piedi, senza smettere di fissarla. Uscì dalla stanza come un gambero, all’indietro, lasciando la luce accesa, e chiuse la porta con grande precauzione. Ma se non era un profittatore…allora chi era? E perché si copriva la faccia a quel modo?
Fu proprio allora che Tommaso si tradì. Allorché R stava percorrendo il corridoio in cui c’era lui, per vedere meglio si sporse in avanti, e mise il piede in fallo. Inciampò nella tenda di tulle, e cercando di tenersi in piedi vi si aggrappò con entrambe le mani. Il tessuto si strappò con un rumore sordo e gli rimase in mano un grosso pezzo di tulle.
Ora R non era assorto in alcuna contemplazione. Non appena ci fu lo strappo si immobilizzò e si girò di scatto in direzione della tenda. Tommaso, ormai del tutto terrorizzato, se la tolse di dosso e gridò disperato: “Chi sei? Cosa vuoi dalla signorina Irene?”
R si girò del tutto verso di lui e lo contemplò senza la sorpresa che il domestico si sarebbe aspettato. Sembrava semplicemente infastidito. Anche se il suo volto era coperto, il corpo parlava per lui: e se prima era apparso affettuoso e innocuo, ora esprimeva chiaramente minaccia. Tommaso annaspò per rimettersi in piedi, e allorché lo fece, racimolò tutto il coraggio che aveva per affrontare lo sconosciuto: “Perché ti copri il viso? Lascia stare la signorina!”
R emise un lungo sospiro rassegnato. Che calma aveva! “Tu devi essere il servo imbecille” commentò pacato: “Credevo che avrei smesso di occuparmi di tutti i seccatori che vogliono dare fastidio a me e alla mia promessa sposa”.
“Lei non è la tua promessa sposa!” gridò Tommaso: “Stalle lontano!”
“Oh, sì che lo è” ribatté l’altro, stavolta un po’ contrariato: “Lei è la mia compagna e la mia metà. Piuttosto, sta zitto! La sveglierai! Non voglio che il suo riposo sia turbato da un idiota come te. Questa non è casa tua. Perché sei venuto ad infastidirmi?”
“Lascia stare la signorina!” ripeté Tommaso senza abbassare il tono. R, per tutta risposta, mosse un passo verso di lui. Spaventato all’improvviso che volesse aggredirlo, il domestico indietreggiò goffamente e quasi inciampò di nuovo nella tenda distrutta. Allora l’uomo senza volto gettò indietro la testa e scoppiò in una risata sardonica e incontenibile, una risata agghiacciante che ebbe il potere di pietrificarlo e che non sembrava finire mai. Quando smise di ridere, puntò i suoi invisibili occhi sul poveretto: “Tu credi di potermi comandare? Io sono più potente di te e di tutti quelli come te. Sono il padrone delle ombre e il genio dell’orrido! Ho fatto cose che nemmeno immagini. Nessuno potrà mai fermarmi. Ma ora voglio vivere come le altre persone. Voglio amare! Ed essere amato. Voglio vivere in questa casa che mi appartiene con la mia sposa accanto e dare un senso alla mia solitudine”.
“Folle, non sarà Irene a tirarti fuori dal tuo marciume!” replicò Tommaso con disprezzo. R gli si avvicinò ancora, pericolosamente: “Tu credi? Ah, mio caro, significa che non sei mai stato innamorato. Io farò qualsiasi cosa per averla al mio fianco. Ce l’ho già. E spazzerò via chiunque tenti di portarmela via”.
Di fronte all’esplicita minaccia, Tommaso si fece pallido come un morto. Si guardò alle spalle e vide solo la finestra che la tenda aveva celato. Si era fatto chiudere in trappola. Maledisse se stesso e il suo coraggio. Si era cacciato in quella situazione per salvare una ragazza che di sua volontà si era messa in pericolo. Maledetta Irene! Cosa poteva trovare d’affascinante in quella casa dannata e in quell’uomo sinistro e minaccioso?
“Capisci, io voglio diventare buono” sussurrò R quando gli fu proprio davanti. Di colpo aveva assunto un tono soave e malinconico come di chi è profondamente afflitto da qualcosa. Prese il viso di Tommaso fra le mani con delicatezza, e il domestico non tentò nemmeno di ritrarsi tanto era pietrificato. “Sì” proseguì R, fissandolo attraverso il drappo: “Voglio essere buono! Voglio imparare ad amare e a compiere buone azioni per la mia amata. È così bello, capisci, amare qualcuno. Io non avevo mai provato nulla di simile…l’odio, quello è brutto, ti consuma dentro, ti riempie la mente di cattivi pensieri. Ma l’amore! Non esiste magia più imprevedibile dell’amore. L’amore trasforma i demoni in angeli. Ti sembra che chieda troppo?” gli accarezzò i capelli radi con le dita guantate: “Ti sembra che non abbia diritto ad un po’ di serenità? Ti sembra che sia sbagliato lottare per ottenere una cosa così bella come l’amore? Io sono disposto a tutto, capisci, per averlo”.
Mentre faceva questo toccante discorso, R tremava, chinava il capo, la voce gli tremava tutta come se l’emozione fosse troppa. Tommaso non poteva negare di esserne commosso, in qualche modo. C’era una tale tristezza, una tale afflizione in quelle parole, che gli sembrava brutto addolorare così quello strano personaggio. Doveva nascondere una così grande disperazione! Senza rendersene conto, aveva abbassato la guardia, si era rilassato, e non era preparato a nessun’attacco.
Così, quando di colpo R tirò fuori con gesto fulmineo un piccolo pugnale d’argento dalla giubba e con mossa rapida lo trafisse al ventre, era del tutto impreparato. Il dolore arrivò improvviso e lancinante. Strabuzzò gli occhi e fissò il drappo del suo assassino mentre lentamente si accasciava in ginocchio, con le mani che brancolavano sull’ampio squarcio che eruttava sangue. Il fluido vermiglio si allargava tutt’intorno a lui. Rantolando come un animale strozzato, Tommaso cadde disteso a terra e bisbigliò con tono agonizzante: “Maledetto…”
Era stato colpito a tradimento, e ora stava morendo in modo a dir poco umiliante, dissanguato sul pavimento di Heather Ville. La vita fuggiva via da lui veloce come il vento, era sempre più avvolto da un torpore letale. Le lacrime gli rotolavano sulle guance, si mischiavano al sangue che gli usciva dalla bocca.
R rimase a contemplarlo dall’alto con piacere maniacale per qualche istante, quindi si inginocchiò accanto a lui e lo prese per i capelli con la stessa delicatezza ingannevole di prima. Gli sollevò la testa, e Tommaso, sempre più debole e moribondo, si trovò a fissarlo. Digrignò i denti e sperò di poterlo ridurre in polvere all’istante. R scosse la testa: “Provo compassione per te, servo. Non c’entravi nulla in tutto questo. Avresti potuto rimanertene in città, senza costringermi a ucciderti. Sei stato sciocco, mio caro. Molto sciocco”.
“La pagherai” sussurrò Tommaso indicandolo con le dita che stillavano sangue fresco: “La pagherai, assassino”.
“No, non la pagherò” replicò R pacato: “I crudeli non la pagano mai, servo. L’ho imparato a mie spese” fece una piccola pausa, poi disse: “Visto che mi fai pena, ti farò un favore. Poiché stai morendo e non potrai raccontarlo a nessuno, ti lascerò vedere il mio viso. Sei contento? Vedrai ciò che molti hanno solo potuto immaginare!”
Tommaso lo guardò battendo le palpebre, senza capire del tutto il senso delle sue parole. R si portò una mano al viso e lentamente cominciò a sollevare il drappo nero che glielo nascondeva. Intanto lo teneva per i capelli e lo costringeva a guardare.
Lentamente, via via che quella cosa segreta gli appariva, l’espressione già moribonda di Tommaso si tramutò in una smorfia di un così profondo terrore che solo guardarla faceva paura. In quei pochi attimi prima che la vita lo abbandonasse del tutto, non seppe cosa fosse peggiore, se quella visione, o il momento in cui R, del tutto scoperto, con un ghigno orribile brandì il pugnale e gli tagliò la gola da un orecchio all’altro, inzuppandosi di sangue.
L’oscurità avvolse tutto.
 
Quando Irene si svegliò, non sapeva per quanto tempo aveva dormito, e le parve di uscire da un mondo parallelo. Aprì dolcemente gli occhi, batté un paio di volte le palpebre. Era mattino: il sole entrava dalla finestra aperta e le batteva gentile sul viso. Era stata distesa sul suo letto e coperta. Rasserenata da quel sonno lungo e ristoratore, si mise a sedere sbadigliando e stiracchiandosi.
Aveva ricordi vaghi e confusi della notte precedente. Ricordava di aver cenato in compagnia di R, che aveva il viso coperto da un drappo, poi ricordava una scala buia e un salone da ballo, un valzer a due, e infine un lungo bacio. Tutto questo, ripensandoci ora, le sembrava un sogno, sfocato e confuso come un sogno. Aveva davvero ballato con R? Oppure era stata tutta una sua immaginazione? No. Il ballo e il bacio erano stati reali. Indossava ancora il vestito rosso scarlatto della sera prima, e sulla gonna era rimasta una macchia di vino. Era successo davvero. Sorrise, guardando il sole fuori dalla finestra.
Ma dov’era finito R? Quando era stata vinta dall’emozione e dal vino, rammentava di essergli caduta tra le braccia, ma da allora si era oscurato tutto. Aveva voglia di vederlo. Ora che si erano baciati c’erano così tante cose da dire, così tante cose da definire! Lei aveva accettato la sua proposta di matrimonio, ma adesso voleva sapere davvero che tipo d’uomo era suo marito, senza più segreti e sotterfugi. Sarebbe andata da lui e gli avrebbe chiesto tante cose, avrebbe preteso le risposte. Era pronta a tutto.
Scostò le coperte e scese dal letto senza neanche togliersi il vestito stropicciato, quindi si avviò fuori dalla sua stanza pettinandosi i capelli con le dita. Il resto di Heather Ville era, come al solito, avvolto nella più totale oscurità: i corridoi erano immersi in penombra, le porte tutte chiuse, come le tende e le lampade. Irene era come al solito profondamente affascinata da quell’aura di magia e di mistero. Aveva cominciato a prendere dimestichezza con l’ubicazione delle varie camere, così puntò diretta verso la sala da pranzo dove avevano cenato. Era vuota, la tavola ancora imbandita dei resti della loro baldoria. La ragazza la perlustrò rapidamente, poi andò al buco nel muro dietro alla tromba delle scale e mise la testa dentro a quel buio pastoso: “R?” chiamò ad alta voce. Non rispose nessuno, anzi, ebbe la netta sensazione che lui non fosse tornato nel suo nascondiglio.
Si girò e, un po’ ansiosa, riprese a salire le scale, sollevandosi la gonna perché non le desse impiccio, con passo svelto: “R!” ripeté. Nulla. Oltrepassò un paio di corridoi e aprì la porta di un grande salottino privato, sorridendo speranzosa: “R, sei qui?”
Le poltrone e i divani impolverati erano vuoti, non c’era anima viva. Delusa, richiuse la porta e continuò a cercarlo. Fece tutto il giro del primo piano, da cima a fondo, controllando tutte le stanze che non erano chiuse a chiave, ma non trovò traccia dell’uomo senza volto. Probabilmente era andato a rifugiarsi in luoghi che solo lui conosceva, sarebbe tornato presto, ma Irene provò come un presentimento angoscioso, la sensazione soffocante che fosse successo qualcosa di terribile. Il suo viso si strinse dalla preoccupazione: “R!”
Una vocina interiore le suggerì di controllare al piano superiore. Vi era andata solo una volta, quando aveva scoperto quella grossa sala con dentro i mobili coperti dai teli e l’album di fotografie di quella famiglia di cui non ricordava il nome, ma effettivamente ora che ci pensava meglio, era quello il piano in cui R teneva nascosti i suoi segreti: c’erano la camera degli specchi, e il salone da ballo cui erano acceduti tramite la scorciatoia della scala a chiocciola. Che fosse andato lì? Tanto tentar non nuoce. Aveva un po’ paura di quel posto, ma se R le aveva dato la libertà di aggirarsi dove voleva, allora non aveva nulla da temere.
Si avviò lungo la scala cigolante che portava al secondo piano, con gli occhi puntati in alto, speranzosi di avvistare anche solo la sua ombra: “R? Sono Irene!” tentò l’ennesima volta. Silenzio. Affrettò il passo e finì di salire le scale. Una volta all’imboccatura del dedalo di corridoi del secondo piano, si guardò intorno nell’oscurità. Lì c’erano almeno quaranta stanze e non aveva idea di dove cercare. Prese il corridoio che più le era vicino. Purtroppo quasi tutte le porte che apriva erano chiuse a chiave, anche se ricordava che la volta scorsa ne aveva trovate alcune aperte. Fu presa da un senso di indignazione: R forse non si fidava di lei? Se voleva che fosse sua moglie, allora tutto quello che gli apparteneva l’avrebbe dovuto condividere con lei!
“Cosa mi aspettavo? Non ha mai neanche voluto mostrarmi il suo volto. Se desidero la sua magia, allora devo passare sopra ai suoi segreti e ignorare”.
Proseguì la sua perlustrazione, che si rivelò inutile. Allorché stava tornando indietro sconfortata, qualcosa che scorreva in un rivolo sottile sul pavimento catturò la sua attenzione. Si fermò, allargando i piedi cosicché quel rivolo passasse tra di essi e non li sfiorasse, anche perché erano nudi (qualcuno le aveva tolto le scarpe). Era un liquido scuro e viscoso, ma in quel buio non ne distingueva il colore, che formava una scia sottile sul pavimento e curvava a destra. Come se qualcuno avesse trascinato un sacco aperto che aveva sparso un poco del contenuto a terra.
Irene lo contemplò in silenzio, turbata e impallidita. Cosa…cos’era? Lo sussurrò perfino: “Cos’è?” si chinò e col dito indice raccolse qualche goccia di quel liquido. Era stranamente secco e ne racimolò una ben scarsa quantità. Esitante, si portò il dito alla bocca e succhiò. Subito sputò tutto e tossì convulsamente, disgustata e inorridita dal sapore dolciastro: era…sangue.
Improvvisamente fu presa da una terribile sensazione di pericolo e di orrore. Cosa ci faceva del sangue per terra?! Cosa era accaduto?! Aveva sempre dato per scontato che, poiché Heather Ville era così misteriosa e fantastica, non potesse nascondere qualcosa di terribile. Ma in quel momento la fascinazione che provava si scontrava con un’improvvisa lucidità, che le gridava nella testa parole cariche di terrore e di angoscia. Se la prese tra le mani, spaesata.
“R!” gridò. Doveva dirle cosa era accaduto, spiegarle la presenza di quel sangue a terra, e l’avrebbe fatto subito! Ansimando si rimise in piedi e corse seguendo la scia del sangue che macchiava il pavimento, sempre più piena di paura. Voleva capire. Voleva che R le spiegasse, che dissipasse i suoi dubbi. Il sangue era sempre meno coagulato via via che si avvicinava alla sua fonte. Non era poi così sicura di voler scoprire cosa, o chi l’aveva perso. Giunse all’improvviso di fronte ad una minuscola porta di legno che somigliava molto a quella che portava al salone da ballo. Il sangue filtrava attraverso l’apertura sottostante ed entrava dentro. Irene fissò la porta con il respiro teso e rumoroso che le squassava il petto, poi vide che nella serratura c’era una piccola chiave d’ottone. La strinse nel pugno, pronta ad aprirla.
“Che cosa ci fai qui?!”
Quelle parole che erano arrivate improvvise, e che erano risuonate nel silenzio con un tono bestiale e infuriato, le provocarono un forte spavento. Si girò di scatto schiacciandosi di schiena contro la porta e fissò il corridoio che prima aveva alle spalle con occhi spalancati. R era comparso di colpo ed ora era di fronte a lei, sempre coperto dal drappo, con i pugni serrati, formidabile nel suo sdegno. Era l’immagine stessa della sorpresa e della rabbia stupefatta.
Irene, che, suo malgrado, s’era spaventata non poco della bruschezza, strinse di più la chiave d’ottone e balbettò: “Scusa, io…”
“Non ci devi venire qui!” continuò a urlare lui. Ma, ora che lo studiava meglio, sembrava più nervoso che arrabbiato: “Mai!”
La fanciulla aggrottò la fronte. Guardò prima lui, poi la porta che era davanti a lei, quindi la chiave su cui le sue dita esitavano. Quando tornò a fissarlo, aveva un’espressione di ansiosa fermezza: “Cosa c’è qui dentro?” chiese a bassa voce. R strinse ancora di più i pugni, anche se non avanzò verso di lei: “Dammi quella chiave, Irene”.
Le altre volte, quando aveva assunto quel vibrante tono di comando, lei gli aveva sempre obbedito senza farsi domande. Ma stavolta no. Stavolta aveva acquistato una lucidità che le impediva di togliere la chiave dalla serratura e consegnargliela a capo chino. Sentiva, a pelle, che dietro quella porta c’era qualcosa di importante: “Cosa c’è?” insistette. R, con un ringhio di rabbia, fece un passo verso di lei, tendendo le mani guantate come se volesse strozzarla. Il drappo nero non impediva di immaginare l’evidente furia che doveva avergli stravolto i lineamenti: “Dammi subito quella chiave, o io…”
“Cosa?” lo provocò lei, alzando a sua volta la voce, per la prima volta salda nelle sue domande: “Vuoi uccidermi, R? Guardami, sono qui. Se vuoi aggredirmi, fa pure!”
Lui rimase immobile. Le mani tese gli tremarono, poi le lasciò ricadere, indietreggiò e agitò i pugni sbuffando di rabbia, evidentemente incapace di farle del male. S’accasciò contro la parete di fianco e vi rimase abbandonato per diversi istanti, con una mano premuta sul petto e il capo chino. Poi, quando parlò, il suo tono s’era fatto implorante: “Ti prego, Irene…dammi la chiave. Non c’è niente lì. Te lo chiedo per piacere…”
Lei rimase ferma nella sua posizione, con la mano stretta sulla chiave e un’espressione piena di sospetto. No, le sue suppliche non l’avrebbero convinta. Benché continuasse a singhiozzare e ad implorarla di dargli la chiave, gli voltò le spalle e la girò con un colpo secco nella serratura. Con un clic soffocato la porta fu libera da qualsiasi vincolo e, non senza una lieve esitazione, la spalancò. R allungò una mano disperato: “Irene, no!!”
La ragazza gli diede un rapido sguardo, quindi volse gli occhi alla stanza che aveva davanti. Le si ghiacciò il sangue nelle vene e il colore defluì rapidamente dal suo viso, mentre spalancava occhi troppo inorriditi per esprimere ciò che vedeva, e una bocca troppo pietrificata per urlare.
C’era Tommaso a pochi centimetri da lei, all’interno di una minuscola e gelida celletta di pietra con una finestrella irta di sbarre in un angolo e un pagliericcio in quello opposto, percorsa da un terribile tanfo di putrefazione, con il pavimento e le pareti imbrattate di sangue, chiaro segno che non era stata usata solo per nasconderci il suo domestico. C’era una fornace al cui interno ardeva un fuoco d’un arancione che feriva gli occhi e accanto alla fornace una grossa pala di legno da panettiere, su cui erano ammassati discutibili resti di carne marcia.
Tommaso la fissava con tristi occhi vitrei che ormai non la guardavano più e con una bocca violacea da cui scorreva un copioso rivolo di sangue nerastro. Aveva il viso pallido e rilasciato di una cosa morta, che non prova più, che non respira più e non si muove più, e pendeva dal soffitto appeso a testa in giù con una robusta corda che gli avviluppava i piedi. Era stato denudato di qualsiasi indumento e lì appeso come un vecchio prosciutto era una visione davvero penosa. Aveva un profondo squarcio slabbrato che gli apriva il ventre e la gola tagliata da un orecchio all’altro che tuttora infradiciava a cascatella il pavimento sottostante di sangue rosso vermiglio. Gli colava sul viso, gli entrava nelle narici e nelle labbra, gli oscurava gli occhi vuoti.
Per un istante, di fronte a quello spettacolo dall’orrore indicibile, Irene rimase paralizzata per la sorpresa e il raccapriccio, troppo sconvolta per fare qualsiasi cosa. Poi, con il viso stravolto da una smorfia d’orrore, cacciò un urlo lancinante, e poi un altro, e un altro, e un altro ancora, come se non riuscisse a fermarsi, come se tutto quello che provava le stesse sgorgando in un suono primordiale dalla gola. Urlava e le lacrime le rotolavano sulle guance paonazze, urlava e si conficcava le unghie sul viso, urlava e non riusciva a staccare gli occhi di dosso al cadavere del domestico che lei stessa aveva insospettito e trattato così disumanamente. Di colpo il sortilegio che le aveva annebbiato la vista, l’udito e l’olfatto per tutto quel tempo si dissolse come neve al sole e tutto le fu chiaro in un modo che non aveva mai compreso.
Era rinchiusa in una gelida e immensa tomba oscura e piena di orrori e di segreti, tra le cui mura avvenivano fatti mostruosi e immorali. Quelle camere e quei corridoi non erano affatto magici, ma pericolosi e inospitali, tutt’altro che di bell’aspetto, angusti come una prigione. Nell’aria c’era un puzzo insistente di marcio e di decomposizione, e rumori sinistri e metallici le riempivano le orecchie di un frastuono diabolico. Un piccolo verme bianco le strisciò tra i piedi e urlando si ritrasse. Si guardava intorno con occhi sgranati e impauriti in quel luogo così orribile e si chiedeva cosa ci facesse lì, e dove fossero suo padre e il suo Stephan, che le aveva donato l’anello, guardava il cadavere di Tommaso e il vomito la soffocava quasi.
Poi, mentre ancora urlava, due mani l’afferrarono per le spalle e la costrinsero a voltarsi. Si trovò a fissare il volto coperto di R, dell’uomo che fino a pochi minuti prima aveva creduto di amare, che ora era in piedi di fronte a lei, fuori di sé, e la scrollava con violenza: “Pazza! Perché hai voluto vedere? Perché?! Perché hai voluto rovinare tutto? Avresti dovuto darmi la chiave e ora saremmo felici! Ma hai voluto vedere!”
“Tu hai ucciso Tommaso!” gridò la poveretta che era completamente sconvolta e aveva perso del tutto ogni briciolo di ragione. Aveva dato la sua mano ad un assassino, ad un individuo dalla mente deviata che era stato capace di fare una cosa del genere. R le strinse di più le esili spalle: “Sì! Sì, ebbene, l’ho ucciso! Cosa c’è di male? Era venuto a portarti via. Tu sei la mia sposa. Gli ho solo impedito di rovinare tutto. Ha avuto quello che si meritava!”
Irene lo fissò inorridita. Come aveva potuto credere di amare un uomo che diceva cose del genere? Come aveva potuto trovarlo affascinante e misterioso? “Sei un assassino!” gli gridò in faccia con tutta l’aria che aveva nei polmoni: “Ora capisco perché ti copri il viso e perché ti nascondi qui come un topo nella sua tana! Il tuo animo è troppo deforme per essere sopportato dagli altri! E io, pazza, che ti credevo un dio, una creatura troppo superiore per noi! Sei un mostro, R! Quello che fai oltrepassa ogni limite d’umanità!”
"Come puoi biasimarmi?" nella voce di lui c'era rabbia, ma anche una grandissima disperazione, uno strazio pari solo a quello di un uomo che ha visto sgretolarsi tutto quello che ha nel giro di pochi istanti: “Come puoi giudicare quello che faccio? Tu, che hai sempre vissuto nella bambagia? Che ne sai tu della solitudine, eh? Che ne sai del dolore? Sei solo una ragazzina. Ero riuscito a farti vedere oltre le apparenze…ma adesso vedi solo quel che vuoi vedere. C’è un significato in quest’uccisione!”
“Ah sì?” replicò lei ancora più sotto choc. Si liberò con uno strattone delle sue mani che ora le facevano solo paura e indicò il povero corpo penzolante del domestico: “Quale significato vedi in questo scempio? Te lo dico io l’unico significato che ha, senza perdermi, come dici tu, nel vedere oltre le apparenze: il significato è che un uomo innocente, un uomo buono come il pane che conoscevo da quando sono nata, e che mi voleva bene, è stato privato della vita nel modo più bestiale di tutti. Per un motivo del tutto assurdo! Da una persona ripugnante…come te!”
R barcollò, tremante, colpito come da una folgore da quelle parole cariche di accusa e di dolore. Irene ormai non riusciva più neanche a sopportarne la presenza, né la vicinanza del cadavere e il puzzo che emanava, voleva solo fuggire da quel posto maledetto immediatamente, ed essere libera, e rifugiarsi tra le braccia rassicuranti di Stephan. Stephan…che lei aveva ferito grazie ad un assassino senza cuore. Fece un passo indietro, allontanandosi da lui.
Allorché R se ne accorse, le corse incontro a mani tese: “No! Non puoi andartene!” esclamò con la voce terribilmente incrinata: “Tu devi diventare la mia sposa! Il nostro amore…”
“Di che amore parli?” sibilò lei. Si asciugò rabbiosamente le lacrime: “Io qui vedo tutto, tranne che l’amore. Tu non sei capace di amare, R. Sei solo capace di fare del male. Avresti volentieri ucciso mio padre e Stephan, se ne avessi avuto la possibilità”.
“Io non…”
“Smettila di mentire! Ormai è troppo tardi per le menzogne. Io credevo di amarti. Credevo che tu mi amassi. Mi sbagliavo. Ero troppo accecata dal tuo incantesimo per rendermene conto. Ma ora ho capito. Tutto quello che hai cercato in me è stato un banale passatempo, una svolta nella tua vita. Tu volevi fare di me il tuo svago e il tuo cruccio e ingannare il tempo che finora hai passato da solo”.
“Non è vero!” obiettò R con tono veemente e insieme profondamente angosciato, come se la situazione gli stesse sfuggendo definitivamente di mano, come se il pavimento gli crollasse da sotto ai piedi. Piccole gocce d’acqua cadevano da sotto al drappo e atterravano sotto di lui in minuscoli cerchi scuri. Irene fece una risata sprezzante e priva di qualsiasi allegria: “Oh, sì che lo è. È inutile che tenti di ingannarmi ancora. Ora che ho visto come sei in realtà, vedrai, R, di certo non mi abbasserò a vivacizzare la tua solitudine: resterai per sempre solo con te stesso, perché tu susciti solo disgusto!”
Si voltò e fece per andarsene, ma lui, preso da una morsa di disperazione, fece un passo avanti allungando una mano: “Irene!” singhiozzò straziato. Allorché lei si girò un attimo verso di lui, restò lì con la mano tesa che non aveva osato sfiorarla e con il corpo scosso da un tremito convulso: “Ti prego…” bisbigliò. Irene lo fissò con le labbra tremanti e rivide in un istante la serata che avevano trascorso appena qualche ora prima, il ballo, le parole soffuse, e infine il bacio. Come era tutto diverso ora! E nonostante tutto c’era ancora qualcosa in lui che le suscitava compassione, e sì, persino un rigurgito di affetto. Qualcosa di però molto più debole del terrore e dell’orrore.
Scosse violentemente la testa in segno di diniego e corse via a tutta velocità, piangendo e calpestando la gonna rossa coi piedi nudi e doloranti, mentre accanto alla porta aperta sul cadavere di Tommaso R restava un attimo immobile, e poi, con un terribile ululato di furia e di dolore crollava in ginocchio con i pugni al cielo, scuotendo tutta Heather Ville con il suono della sua disperazione.
Irene udì l’urlo lancinante mentre spalancava il portone d’ingresso e usciva nell’aria fredda di fuori e fu scossa da un brivido di paura e di pietà. Mentre correva per i campi aridi che circondavano la lugubre residenza, era ancora inconsapevole che quel lamento straziante l’aveva incatenata alla triste sorte di Raphael Lawrence.

 
   
 
  
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