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Autore: TwinStar    09/12/2006    9 recensioni
Sirius non credeva li avrebbe più ritrovati.
Eppure erano tutti là.
Esattamente dove li aveva lasciati il giorno in cui aveva lasciato Grimmauld Place.
I suoi ricordi.

E quel fermaglio di madreperla verde.
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Remus Lupin, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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FLASHBACK

 

A spese di chi vive la gente nei ricordi degli altri?

(Stanislaw J. Lec)

 

Il Fermaglio 1. Remus

Remus si chiede cosa ci facciano lui e Sirius in quella camera, con tutta Grimmauld Place da disinfestare.

Lì dentro non c’è niente.

Solo tanta polvere, un po’ di sporco, qualche oggetto innocuo e una macchia d’umido scura accanto alla finestra.

Niente maledizioni scagliate sulla porta, nessun artificio magico o anatemi, nessuna bestia bizzarra acquattata nell’ombra.

Neanche un Molliccio nascosto nell’armadio.

Eppure è lì che Sirius l’ha trascinato quel pomeriggio.

E’ entrato nel salotto incedendo con quel suo passo incerto e ciondolante, del tutto disinteressato ai Doxy impazziti che gli svolazzavano attorno. Ha percorso a lunghe falcate la distanza che lo separa dalle tende e scansando con svogliata disinvoltura una di quelle bestioline velenose sortita dalle pieghe del tessuto unto l’ha afferrato per un braccio facendogli cadere miseramente di mano il Doxicida che stringeva tra le dita. L’ampolla si è infranta al suolo rovesciando il suo contenuto su un tappeto dall’aria decisamente costosa nel più totale disinteresse del proprietario: si è tirato dietro un peso recalcitrante con una facilità che irritava, fuori dalla stanza, su per le scale di pietra, lungo corridoi stretti e lugubri, di sopra, al secondo piano.

In una stanza che era sempre stata chiusa a chiave.

A nulla erano valse intimazioni varie e richieste di chiarezza.

L’Animagus l’aveva spinto dentro con uno strattone per seguirlo, rapido, chiudendosi poi la porta alle spalle.

Remus si è ritrovato in una stanza da letto piccola e piuttosto spoglia. Un letto, un basso scrittoio scuro, una cassettiera, un armadio, una libreria. Il necessario. Poco altro a dare carattere all’ambiente, ma proprio questo la rende peculiare in una casa in cui è l’eccesso, l’ostentazione a farla da padrone. Azzarda qualche passo in avanti, prendendosi il suo tempo per osservare con curiosità intenerita.

Potrebbe anche essere la sua camera, pensa carezzando con un moto che sa di lascivo il vecchio intonaco cadente che sotto la pressione morbida dei polpastrelli si sfarina sbriciolandosi al suolo in un velato biancore. Si pulisce rapido le dita sul tabarro logoro per un riflesso incondizionato.

Non sopporta lo sporco addosso.

Si sente già troppo sudicio nell'animo.

Sirius resta poggiato alla porta e lo guata critico.

Remus prova ad ignorarlo, ci prova davvero, ma se li sente dentro quegli occhi chiari spalancati all’inverosimile che conferiscono a quel viso già pallido e inquietante un’aria di perpetua, atterrita follia. Quelle labbra tese, socchiuse a scoperchiare i denti con quei canini ridicolmente lunghi (e dovrebbe essere lui la bestia oscura!), e una punta di lingua a stuzzicare nervosa il labbro inferiore, gli si imprimono vive sulla pelle. Le lunghe dita troppo magre e nocchiute artigliano nervose la maniglia della porta come se volessero spezzarla. E’ stato lui ad imprigionarlo lì, eppure sembra quello in trappola.

Remus fa un paio di passi all’indietro in direzione del letto: con calma, silenzioso come sempre, facendo attenzione a sollevare quanta meno polvere possibile, si siede sul bordo, il materasso nudo geme sotto il suo peso. Tiene lo sguardo fisso al lampadario che ondeggia pigro in una nuvola di pulviscolo svelato da un raggio di flebile sole e le mani scomposte in grembo, inutili e immote come sempre nei momenti in cui non trovano una vera occupazione.

Sa che Sirius potrebbe restare lì per sempre a fissarlo come un idiota, perché lui non ha niente di meglio da fare durante la giornata, e solo per questo si decide a parlare accantonando la proverbiale cautela. Vorrebbe essere gentile e paziente, prendersi tutto il tempo del mondo, ma Sirius è una persona adulta e quei suoi scatti infantili lo irritano, e tutto quello che la sua bocca produce è un ringhio spazientito e lugubre.

“Sirius, si può sapere che succede?”

Si stupisce di vedere quelle labbra pallide piegate in un sorriso storto, e non può fare a meno di pensare a quanto tutto sembri sbagliato.

“Oggi buttiamo via tutta questa robaccia.”, sentenzia esaltato.

 

 

Remus fissò il bambino senza parlare.

Pigiato contro il muro, a braccia conserte, osservò quella figura voltata di spalle che aveva di fronte, chinato davanti al grosso baule di foggia antica con su impresso uno stemma spocchioso d’argento luccicante: stava per terra, malamente accoccolato sulla pietra a far leva sulle piante dei piedi in un ipnotico e incostante oscillamento avanti e indietro. Canticchiava una nenia indefinita.

Stonato come una campana.

Sembrava convinto d’esser solo nella stanza.

“Irritante”, pensò il licantropo, mentre le labbra gli si congelavano in una smorfia esausta e stomacata che rifletteva a meraviglia il suo stato del momento.

Si sentiva sempre così a seguito di una luna piena. Non tanto per il dolore fisico cui ormai era avvezzo, quanto per una spossatezza mentale che ogni mese lo avviliva. Quando la coscienza umana si faceva strada a morsi e a unghiate col declino della luna contro l’orizzonte si riportava indietro tutte le meschinità umane che celava dentro.

Il lupo era solo istinto e non capiva. Non soffriva.

E non faceva paura.

Era l’uomo che si nascondeva tra le pieghe del licantropo che aveva imparato a temere e  tenere a bada. Era quello che cercava di strapparsi via dall’anima sotto gli occhi vuoti di una fredda palla d’argento.

Sospirò infastidito da quelle stupide elucubrazioni.

Era la stanchezza a produrle.

Solo grazie al pensiero che una volta giunto a destinazione avrebbe potuto godersi un lungo e meritato riposo era riuscito a trascinarsi dall’infermeria, dove era rimasto appena il tempo di guarire dalle ferite fisiche (l’odore di quel posto lo infiacchiva), lungo scale e corridoi gremiti di gente, forzando le membra a trascinarsi un passo dopo l’altro in una parvenza di normalità, affinché nessuno notasse il suo stato.

Perché nessuno vedesse l’uomo che si dibatteva annaspando dietro il licantropo.

Arrivato all’uscio del dormitorio aveva dato ormai fondo a tutte le proprie forze. Non era nemmeno riuscito a sollevare la mano per premere la maniglia di ferro arrugginito, ma aveva appoggiato il peso della spalla sulla porta facendo leva, nella speranza che bastasse. Quando era riuscito tanto facilmente nell’impresa, trovandola accostata, avrebbe dovuto intuire che non sarebbe stato così semplice.

Credeva che sarebbe stato solo.

Era rimasto deluso.

C’erano pochi passi a separarlo dall’agognato giaciglio.

Pochi passi e un qualche migliaio di oggetti di varia natura disseminati sulla pietra. Vestiti, fogli di pergamena di prima qualità, oggetti di varie forme e dimensioni dall’aria antica e preziosa, libri di scuola nuovi di pacca avevano preso possesso dello spazio come fossero dotati di vita propria..

“Non dovresti essere a lezione?” chiese Remus acidulo.

“E tu?”, replicò l’altro a sua volta, nell’intermezzo di quel seccante salmodio infantile: ingenuamente, senza malizia, tutto intento a soppesare allegro un capo di vestiario con aria critica prima di gettarlo con un moto tra lo stizzito e l’annoiato da qualche parte indefinita alle sue spalle, sul pavimento.

A poca distanza da lui.

Il bambino continuava a volgergli contro la nuca corvina senza degnarlo di uno sguardo. Non si era stupito nemmeno un po’ di quelle parole. Sapeva che era lì e l’aveva sempre saputo. Molto semplicemente lo ignorava non reputandolo un soggetto degno d’attenzione, e se la cosa da un lato lo riempiva di gratitudine dall’altro avrebbe bramato d’avere il suo collo sotto le zanne e stringere fino a spremergli dalle vene l’ultima goccia d’indifferenza.

Remus socchiuse le labbra lasciando scoperchiati i denti in una smorfia frustrata che di umano aveva ben poco e decise di cambiare discorso, dal momento che quello li avrebbe portati su una china pericolosa.

“Si può sapere che cavolo stai facendo?”

Merlino, sembrava una poppante isterica con quella vocetta acuta da bambino ad accrescere l’impaziente irritazione che lo infiammava.

L’altro per tutta risposta sollevò la testa e le spalle dal gigantesco baule in cui si era ficcato come fosse un enorme Pensatoio e si era voltato verso di lui, le guance rosse per l’eccitazione e gli occhi chiari luccicanti, e un paio di lunghe fini ciocche corvine gli erano ciondolate pigramente davanti alla faccia conferendogli un’aria idiota.

Remus avrebbe anche riso, in un altro frangente.

“Non si vede?”, sorrise l’altro tirando in alto il labbro superiore e arricciando il naso, lasciando intravedere i denti bianchi e aguzzi dietro una smorfia da bimbo monello. “Mi libero della spazzatura.”

E Remus non aveva saputo come replicare.

Era un mondo troppo lontano dal suo. Spazzatura, l’aveva definita. Una sola delle piume d’oca che giacevano al suolo deturpate dalla pazzia di una mano infantile, o una mera libbra dell’inchiostro dorato riversato su qualche candida camiciola, valeva più di tutti i vestiti che aveva nel suo bagaglio.

Lui non era ricco e non gl’importava.

In fondo era colpa sua e del suo “problema” se i suoi genitori avevano cominciato a riempirsi di debiti nel vano tentativo di cercare una cura. Perché, e non poteva dar loro torto, un figlio così per quanto si sforzasse di essere perfetto proprio non riuscivano ad amarlo. Ma quel ragazzo che non dava il giusto valore a delle cose tanto meravigliose in qualche modo lo indisponeva lo stesso. Piccolo, sporco, patetico figlio di papà.

Con la coda dell’occhio notò la “spazzatura”.

Era un bellissimo, prezioso mantello.

Nero, morbido e caldo.

Gli sfiorava i piedi.

Un imperdonabile spreco.

Senza che un vero pensiero cosciente gli attraversasse la mente Remus schiacciò il tessuto costoso con la punta della scarpa, furioso, un moto caldo e piacevole d’orgoglioso godimento ad invadergli i sensi nel sentire la stoffa nera coi ricchi ricami d’argento e smeraldo a scricchiolargli e gemere sotto la sua suola di finto cuoio.

Aveva continuato a fissarlo con sfida mentre lo faceva, perché reagisse a quello che voleva essere un atto di massimo spregio. Voleva vedere quel viso indifferente contrarsi in una smorfia di rabbia.

Voleva battersi. Magari mordere e graffiare.

Ma l’altro non volle dare neppure quella soddisfazione.

Semplicemente rise scuotendo la testa in un moto di pietosa tenerezza.

“Peccato che non piaccia neanche a te, te l’avrei regalato. Ti sarebbe stato bene.”

“Non voglio la tua carità.”, ringhiò di rimando Remus a quel ghigno irritante. “Sono stanco. Voglio solo andare a dormire.”

“Un po’ presto per andare a dormire.”, aveva biascicato Sirius con l’aria di chi malamente sopporta, e solo per educazione, una discussione fattasi improvvisamente tediosa. Non aveva aggiunto altro, né aveva dato l’aria di aver compreso in qualche modo il problema, o che ci si aspettasse qualcosa da lui.

Si era stretto nelle spalle ed era tornato a immergersi nel baule quasi vuoto.

Remus non potette far niente a parte aspettare. Certo, avrebbe potuto andare in Sala Comune, stendersi sul divano fino all’ora di cena. Non sarebbe stata la situazione ottimale, ma meglio che niente.

Eppure i piedi si rifiutavano di muoversi.

Era come assistere a qualcosa di importante.

La disperazione con cui quegli oggetti volavano da tutte le parti della stanza sotto la furia delle sue bracciate violente al ritmo di quel canto frenetico era quasi ipnotica, al punto che accolse quasi come una cosa inevitabile il moto parabolico di un pezzo di cioccolata mezza sciolta che precipitò in picchiata contro la federa del suo povero cuscino. Sperò che qualche elfo domestico di buon cuore avrebbe sistemato le cose prima dell’ora di andare a dormire, ma la fortuna non l’aveva mai particolarmente arriso.

L’altro nel frattempo arrestò di botto quell’affannosa opera di pulizia di fronte ad un paio di calzini neri (come quasi tutto quello che indossava) appallottolati in malo modo. Li soppesò con calma tra le dita, srotolandoli con una cura che mai si sarebbe detta appartenere a una persona tanto grossolana. Ne estrasse fuori uno specchietto col bordo di legno, di quelli piccoli e rotondi usati dalle donne per sistemarsi il trucco.

Misero, anonimo, neanche molto bello.

Anzi, decisamente orrendo.

Eppure quello stesso ragazzo che aveva trattato come roba da rigattiere ricchi oggetti e capi di vestiario stringeva tra la punta delle dita quell’oggetto, come fosse fatto d’ali di farfalla. Rimase a rimirarlo per una lunga frazione d’istante prima di ficcarselo malamente nella tasca posteriore dei pantaloni, la tenerezza di poc’anzi totalmente accantonata.

“Quello non lo butti, Black?”, aveva ghignato sarcastico il licantropo facendo incauta mostra dei canini ancora troppo aguzzi a seguito del recente plenilunio.

“No.”, aveva replicato l’altro in un sussurro mogio. “Questo no.”

 

Fermaglio 1. Fine

  
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