Crossover
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Autore: Registe    31/05/2012    3 recensioni
Seconda storia della serie "Il Ramingo e lo Stregone". Sono passati tre anni dagli avvenimenti narrati ne "Il Castello dell'Oblio", e i membri dell'Organizzazione hanno perduto gran parte dei loro poteri e sono ridotti a vagare per il loro mondo primitivo come vagabondi o ladruncoli qualunque. Auron e Mu invece si sono uniti alla Resistenza contro il Grande Satana, anche se Auron non e' ancora riuscito a dimenticare la breve storia d'amore vissuta con Zachar tre anni prima. Nella Galassia Mistobaan, ancora sotto l'influsso del condizionamento, e' diventato il fedele braccio destro dell'Imperatore. Ma il Grande Satana non intende rimanere a guardare, e tentera' con ogni mezzo in suo potere di riprendersi il suo servitore...
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Anime/Manga, Film, Libri, Telefilm, Videogiochi
Note: Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Il Ramingo e lo Stregone:
I Sentieri si reincrociano



NARRATORE: "amatissimo pubblico! Prima di iniziare a narrare questa nuova, mirabolante serie, le Registe mi segnalano di fare un avviso importante, fondamentale per non impiccarsi con la cronologia della storia (cosa in cui le Registe stesse sono maestre):

Sono passati tre anni tra gli avvenimenti de "Il Castello dell'Oblio" e l’inizio di questa storia!

…(contente Registe? Era abbastanza grande e comprensibile?). Ehm, orbene….miei amatissimi lettori, il vostro fedele Narratore vi augura buon divertimento con le avventure di questa nuova serie!!"




Capitolo 1 - I masnadieri


Occhio di Zaboera

Un Occhio di Zaboera




Nella top ten delle cose che Axel detestava la pioggia occupava sicuramente un posto di riguardo. Nemica giurata degli elementali del fuoco, diventava ancora più irritante quando non c’erano posti dove ripararsi e gli abiti che indossavi cadevano a pezzi, sottili e sformati come ammassi di ragnatele. In effetti Axel faticava a ricordare l’ultima volta che non era stato così. Da tre anni a quella parte vivevano in quel modo, sulla strada, di furti ed espedienti.
“Non mi importa che non abbiamo soldi, io dico che stanotte si dorme al coperto!” Marluxia doveva gridare per farsi sentire oltre il frastuono del temporale. Era lui a guidare l’infreddolito e derelitto trio lungo il sentiero nel bosco, nella speranza che dopo il prossimo albero si scorgesse, finalmente, un villaggio o una fattoria. Larxen come al solito sembrava l’unica a non darsi peso di ciò che le accadeva intorno: saltellava in mezzo alla pioggia ridacchiando e mescolando i suoi fulmini a quelli del temporale, estasiata dalle esplosioni luminose che squarciavano il cielo notturno.
“Idiota, così finirai per arrostirci tutti!” la rimproverò Marluxia, ma lei per tutta risposta gli fece una linguaccia e continuò nel suo pericoloso gioco. Iniziarono a litigare, e Axel ringraziò che il fragore dei tuoni coprisse almeno in parte le loro voci.
Dopo anni di lussi e comodità al Castello dell’Oblio non era stato facile tornare alla vecchia vita di stenti. Non era stato facile per lui che il destino del ladro e del vagabondo ce l’aveva nel sangue, figuriamoci per un principe come Marluxia. L’ex numero XI dell’Organizzazione non si era ancora rassegnato: non faceva che parlare di grandiosi colpi che avrebbero cambiato la loro vita riportandoli a cavalcare l’onda del successo, ma di tutti questi sogni di gloria finora si era visto poco e niente. La verità era che certe cose non possono cambiare, e Axel lo sapeva bene: i grandi colpi di fortuna non capitano due volte nella vita. Avevano già avuto la loro occasione, e avevano fallito: ora il massimo a cui potevano aspirare era sopravvivere per un numero di anni più alto possibile, e infine, quando le ultime forze li avrebbero abbandonati o qualcuno più rapido e furbo di loro li avrebbe pugnalati alle spalle, le loro ossa sarebbero sbiancate sul ciglio di una strada e il loro corpo sarebbe diventato cibo per cani e avvoltoi. Non c’era assolutamente nulla di grandioso nel loro futuro. Axel se n’era fatta una ragione da molto tempo: in fondo era sempre stato quello il suo destino, sin dal giorno in cui era nato.
“Guardate!” lo strillo acuto di Larxen lo riportò alla realtà. “Un villaggio!”
La vegetazione del bosco si andava via via sfoltendo, lasciando intravedere in fondo al sentiero un’ampia radura costellata di case dalle finestre illuminate. Ogni villaggio che si rispetti, anche il più piccolo, ha la sua locanda, e fu proprio davanti alla porta di quest’ultima che si fermarono i nostri affamati eroi. Dall’interno provenivano canti e risa, e attraverso i vetri della finestra si godeva la splendida visuale di un girarrosto che rosolava sopra un falò scoppiettante. Un brontolio dello stomaco ricordò ad Axel che era da due giorni che non metteva in bocca nemmeno una crosta rinsecchita di pane.
“Per una volta sono d’accordo con Marly” disse “Entriamo e mangiamo…poi si vedrà. Se abbiamo fortuna finiamo in prigione e abbiamo vitto e alloggio gratis per un paio di giorni”.
Persino con l’oscurità e la pioggia Axel riuscì a cogliere il lampo di disapprovazione che passò negli occhi di Marluxia all’udire la parola “prigione”. Evidentemente in lui si stavano combattendo l’onore nobiliare e la fame di due giorni, ma quest’ultima dovette vincere in modo schiacciante, perché dopo pochi secondi il numero XI spinse la porta ed entrò nella locanda con passo deciso.
Il tepore nella sala comune era una sensazione paradisiaca, e Axel già sentì che le energie gli stavano tornando. L’oste li accolse con grande cordialità, invitandoli a sedersi accanto al fuoco e a fare le loro ordinazioni.
“Un momento, signore, avrei una domanda da farle!”. L’oste, che già stava tornando verso le cucine per preparare il cibo richiesto, si voltò di nuovo al richiamo di Larxen. Axel alzò gli occhi al cielo: non ci voleva un indovino per capire di che domanda si trattasse. Era sempre la stessa da tre anni.
“Mi dica pure, bella fanciulla. Sarò ben felice di aiutarla, se posso”.
“Ecco, io sto cercando una persona. Un uomo molto alto, non più giovane, capelli lunghi e biondi. Ha due ciuffetti inconfondibili, e porta un abito come questo” Larxen indicò la propria tunica dell’Organizzazione. “E’ un medico girovago, per caso è passato qui di recente?”
La Ninfa Selvaggia non aveva mai perso di vista il proprio obiettivo numero uno. Per i primi tempi anche lui e Marluxia avevano partecipato con entusiasmo alla caccia all’uomo, più che mai desiderosi di vendicarsi di quell’infame di Vexen che li aveva abbandonati al Castello dell’Oblio con quattro nuclei neri pronti a esplodere. Poi i mesi erano trascorsi, Vexen sembrava svanito nel nulla, e altri pensieri più importanti avevano occupato le loro menti. Per Axel la priorità assoluta era sopravvivere. Marluxia…beh, lui aveva i suoi sogni di gloria. Larxen invece era determinata come il primo giorno, e un sorriso inquietante e carico di aspettative le si dipingeva sul viso ogni volta che nominava lo scienziato traditore. Finora però non aveva avuto molta fortuna: ogni volta che trovava una traccia quella si interrompeva poco dopo, come se Vexen sapesse che lo stavano seguendo e si divertisse a cambiare il suo percorso in modo imprevedibile, per confonderli. Negli ultimi dieci villaggi in cui la Ninfa aveva chiesto nessuno lo aveva visto, perciò Axel dubitava fortemente che stavolta la risposta sarebbe stata diversa.
Si sbagliava.
“Certo che l’ho visto!” fece l’oste aprendosi in un gran sorriso. “Qui al momento non si parla d’altro! Se non fosse stato per lui e per il suo assistente dai capelli azzurri i figli del nostro fabbro sarebbero morti di scarlattina! Se ne sarà andato non più di dieci giorni fa!”
“Dieci giorni?!” Larxen era scattata in piedi, dimentica della fame e della stanchezza. “E ora dov’è andato?!”
“Beh…io non ne ho proprio idea…” l’oste si grattò la testa con aria pensierosa. “Ma lei perché lo cerca, signorina? Siete parenti?” chiese, facendo passare gli occhi su tutto il gruppo.
“Anche noi in passato abbiamo beneficiato delle cure del signor Vexen” intervenne Marluxia. “E vorremmo tanto ringraziarlo per lo splendido servizio che ci ha reso”. Il sorriso del numero XI era diabolico quanto il vero significato delle sue parole; al sapere la preda così vicina il suo desiderio di vendetta si era prepotentemente risvegliato. E Axel non gli dava tutti i torti. Se davvero lo scienziato era vicino….
“Capisco” fece l’oste abboccando in pieno alla balla. “In effetti non siete i primi a dirmi una cosa del genere, sapete? Mi ricordo di un mercante di Donau… sarà stato circa un annetto fa, non di più… beh, insomma, questo mercante era qui per certi affari e ha raccontato, proprio in questa stessa stanza, me lo ricordo come se fosse ieri… ha raccontato che il signor Vexen e il suo assistente hanno liberato il suo villaggio da un’epidemia di peste! Peste, ma ci credete? Beh, io fino a dieci giorni fa non ci credevo proprio per niente, perché si sa che quando arriva la peste è finita, non resta che pregare il Grande Satana e sperare che passi presto… ma poi li ho visti con i miei occhi, proprio come li aveva descritti il mercante, e ho visto di cosa sono stati capaci…vi dico solo che a casa del fabbro c’erano già i sacerdoti per l’estrema unzione e tutto quanto. Lui li ha buttati fuori, vi giuro una scenata da non credere, io ho pensato subito ‘ecco qua che un fulmine del Grande Satana lo fa secco’…e invece poi….”
“Sì, vabbè!” Larxen stava perdendo la pazienza davanti a quell’oste logorroico. “Ma a noi serve sapere dov’è ORA!”.
L’oste rimase un attimo interdetto, chiaramente deluso di venire interrotto nel punto culminante di un racconto che doveva considerare emozionantissimo. “Beh, signorina, come ho detto non lo so…” riprese poi. “E’ un medico girovago dopotutto…. anche se….”
“ANCHE SE…??” gli occhi di Larxen ardevano d’impazienza; aveva poggiato entrambe le mani sul tavolo ed era tesa in avanti, verso l’oste, lo divorava con la sola intensità del suo sguardo. Axel si ritrovò a compiangere quel povero ingenuo: non aveva la benché minima idea della vera natura della “bella fanciulla” che si trovava davanti, e rischiava davvero brutto mettendo alla prova a quel modo la sua già scarsa pazienza.
“Beh, sono solo voci… è ovvio che su questo tipo di personaggi nascono un’infinità di dicerie e leggende… comunque, ho sentito dire che il signor Vexen vivrebbe in un antro nel cuore della Foresta Nera… quando non se ne va in giro per il mondo, s’intende. Ma suona un po’ come una favola per bambini, non vi sembra?”
Favola o no, Larxen era pronta a partire in quello stesso istante, a stomaco vuoto e sotto la pioggia, e ci volle del brutto e del cattivo tempo per convincerla a stemperare i suoi bollenti spiriti e a trascorrere almeno quella notte all’asciutto e al coperto. Dopo una lunga e animata discussione che attirò non pochi sguardi curiosi dalla loro parte, riuscirono finalmente a raggiungere un accordo: sarebbero partiti il mattino successivo, dopo aver fatto larga provvista di cibo (rubandolo, naturalmente). La consunta e sbrindellata mappa in loro possesso indicava che la Foresta Nera si trovava a circa dieci giorni di cammino da lì… anche la metà, se riuscivano a rubare dei buoni cavalli. Sì, per la loro tanto agognata vendetta valeva persino la pena di tentare un colpo più pericoloso del solito. In fondo era tutta colpa di Vexen se erano caduti così in basso.



Larxen passò il resto della serata a rigirarsi tra le dita la ciocca di capelli di Vexen che aveva rubato tre anni prima, canticchiando a mezza voce quelle che avevano tutta l’aria di essere ballate piratesche. Malgrado tutte le loro avventure e le durezze che avevano dovuto sopportare Larxen non si era mai separata dal suo trofeo più prezioso: aveva legato quei capelli biondi con un nastro resistente e li aveva conservati gelosamente, come fossero una reliquia di inestimabile valore. Non era la prima volta che Axel la sorprendeva a contemplarli con sguardo sognante e carico di sadica anticipazione.
Dal canto suo l’ex numero VIII si ingozzò e bevve fino a scoppiare, da vero gatto randagio che non sa quando mangerà la prossima volta. Era già brillo da tempo e ben avviato sulla strada della sbronza totale quando l’oste venne ad avvisarli che la cucina chiudeva ed era ora di saldare il conto.
Naturalmente, persi nei loro sanguinari piani di vendetta, non avevano affatto pensato a come bypassare quell’inconveniente. Marluxia probabilmente avrebbe sfoderato un sorriso charmant (o presunto tale) e tentato la carta della diplomazia, ma fu anticipato da Larxen, resa ancora più elettrica del solito dal vino e dal pensiero di Vexen. Prima che gli altri due potessero fare qualsiasi cosa per fermarla i kunai lampeggiarono nelle sue mani, e la ragazza spiccò un salto atterrando dritta sul bancone della locanda e rovesciando piatti e boccali di birra per tutto il pavimento.
Come accade spesso in questi casi, la rissa si scatenò in un istante. Un ubriaco decise che era giunto il momento di farsi valere, e tirò uno sgabello sulla testa del suo altrettanto ubriaco vicino. Due secondi dopo non c’era più avventore seduto al proprio posto: urla, calci, strilli, strepiti, sedie tirate, bicchieri infranti, risa isteriche, e su tutto la Ninfa Selvaggia, regina del caos, che saltellava qua e là ridendo spensierata e menando colpi a caso con i kunai. Malgrado il cervello annebbiato dai fumi dell’alcool, Axel capì che le cose si mettevano male: le risse in taverna sono ordinaria amministrazione, ma quando si inizia a spargere del sangue…
“Dèi ladri, dobbiamo andarcene o sono cazzi nostri!”
Marluxia gli gridò qualcosa che si perse nel frastuono della rissa, poi sguainò la falce per proteggersi da un lampadario che precipitava nella sua direzione. Spaccò in due un tavolo che lo ostacolava, allontanò un ubriaco con un calcio e riuscì a portarsi accanto ad Axel.
Ai due bastò un solo sguardo per intendersi, e insieme cominciarono a correre verso l’uscita, le armi in pugno per difendersi dalla follia che li circondava. Ora le urla erano soprattutto di terrore e dolore: gli abitanti del posto erano perlopiù contadini o artigiani, gente che normalmente non portava armi e che mai e poi mai si sarebbe aspettata di imbattersi in una pazza dal coltello facile durante la quotidiana bevuta della sera. La rissa si trasformò rapidamente in un’ecatombe, e la Ninfa Selvaggia ne era l’unico e assoluto carnefice.
Ciò che Axel temeva più di ogni altra cosa erano le guardie. Non le due o tre spaurite e spaventate guardie umane che già erano intervenute e tentavano senza alcun successo di scongiurare la catastrofe; no, quei poveracci, con le loro armi arrugginite e le divise rattoppate, li avrebbe messi ko persino lui. I demoni invece… quelli erano tutta un’altra storia.
Ai tempi del Castello dell’Oblio, la notizia che il Grande Satana aveva conquistato tutte le terre conosciute in un lampo e quasi senza colpo ferire aveva sconvolto persino la vita regolare e monotona dell’Organizzazione: era per quel motivo che avevano usato i poteri del Castello per rifugiarsi nel limbo interdimensionale, lasciandosi alle spalle il loro mondo e tutti i suoi abitanti. Ma non si erano resi conto di come le cose fossero davvero cambiate finché non avevano fatto ritorno di persona, tre anni prima, dopo l'esplosione del Castello.
In realtà a prima vista nulla sembrava mutato: Axel si sarebbe aspettato fiumi di lava, distese di crateri e demoni alati che imperversavano nei cieli, e invece il paesaggio del suo mondo era sempre lo stesso: foreste e villaggi, campi coltivati e villaggi, fiumi e villaggi, e ancora foreste e ancora villaggi. La gente viveva esattamente come prima, e cioè si ammazzava di lavoro e pativa la fame. I demoni e le altre creature venute dal sottosuolo non si facevano quasi mai vedere in giro, sembrava quasi che non esistessero… tranne quando si dava loro un qualsiasi motivo per intervenire. E non erano mai visite di cortesia.
Le novità si scorgevano solo a un esame più attento, ed erano dettagli apparentemente insignificanti: occhi fluttuanti che ogni tanto facevano capolino da un vicolo buio e subito sparivano; le immagini sacre nei templi non rappresentavano più gli dèi ma il Grande Satana e i suoi generali, e le preghiere e i riti tradizionali, sebbene inalterati nella forma, erano ora dedicati ai nuovi dominatori. Le tasse erano dure come sempre, ma in fondo che cambiava se ora erano i demoni a riscuoterle invece dei vecchi signorotti?
Cambiava, cambiava eccome. Axel non ci mise molto ad accorgersi che se una persona diceva o faceva qualcosa di sospetto nelle vicinanze di un occhio fluttuante, il giorno dopo o addirittura a poche ore di distanza riceveva una “visita” dei demoni. Molte di quelle persone sparivano da un giorno all’altro e di loro non si sapeva più nulla, altre venivano viste qualche tempo dopo su un patibolo, e allora riapparivano anche i demoni per obbligarti ad andare in piazza a vedere cosa succedeva se sfidavi troppo la loro ira. I sacerdoti della vecchia religione erano perseguitati, maghi e alchimisti dovevano munirsi di costose licenze ed erano sottoposti a controlli rigorosi; si mormorava che da qualche parte una principessa avesse dato il via a un movimento di resistenza, ma era pericoloso anche solo parlarne. La gente viveva nella paura. La miseria, la fatica, la disperazione, le carestie, erano tutte cose a cui erano abituati da secoli, e che probabilmente non sarebbero cambiate mai; ma prima almeno la paura non si respirava nell’aria, e la gente non restava sveglia la notte a domandarsi se il giorno successivo sarebbe stato tranquillo oppure se i demoni sarebbero calati dal cielo a esigere un tributo di sangue. Perché per la famiglia demoniaca gli umani non erano altro che insetti, e gli insetti si possono schiacciare tranquillamente e senza rimorsi: non esisteva nessuna legge che tutelasse un essere umano dalle offese recate da un demone. I demoni li odiavano, questo era un dato di fatto: li odiavano ferocemente, e loro non ne conoscevano neppure il motivo. Forse nemmeno ce n’era uno.
Axel e compagni erano fortunati ad essere semplici ladruncoli di mezza tacca, così insignificanti che la grande e potente famiglia demoniaca non si sarebbe certo scomodata per loro. Ma ora quella pazza di Larxen rischiava di comprometterli tutti…
Fuori pioveva ancora, ma Axel aveva dimenticato ogni avversione per l’elemento opposto al suo: corse a perdifiato, immergendosi nel fango fino quasi al ginocchio e inzaccherandosi persino le punte dei capelli; se raggiungeva la foresta forse aveva ancora qualche speranza…
Un esile soldatino umano che non doveva avere più di sedici anni gli si parò davanti, stringendo una lancia corta tra le mani fradice e tremanti.
“Voi state con quella pazza, vi ho visto!” gridò con la sua vocetta ancora da ragazzino, facendosi tuttavia udire oltre lo scroscio della pioggia.
“E hai visto troppo!”. Marluxia sbucò da dietro le spalle di Axel e lo superò di scatto; un lampo fucsia balenò per un attimo nella notte, e un istante dopo il ragazzino si afflosciò al suolo senza un lamento, a faccia in giù nel fango. In quello stesso momento un fulmine si infranse proprio alle loro spalle, illuminando a giorno le stradine del villaggio, e Axel vide qualcosa che lo fece inorridire. Non si trattava né del sangue che colava dalla falce di Marluxia né dei corpi agonizzanti che si contorcevano nel fango, segno che la furia di Larxen si era spostata dalla locanda alla strada. No, era qualcosa di molto peggio.
A pochi metri da loro, sospeso placidamente a mezz’aria e del tutto ignaro della pioggia, c’era un grosso occhio fluttuante.


“Pipu, pipu, pipu!”
Questo simpatico suono, molto simile a quello di una paperella di gomma, era il verso caratteristico degli occhi fluttuanti; serviva ad avvisare il loro padrone che da qualche parte nel mondo stava succedendo qualcosa degno di essere guardato. E doveva trattarsi di una cosa davvero importante stavolta, perché l’occhio in questione, grosso più o meno quanto la testa di un bambino, sottolineò il concetto picchiettando leggermente sulla spalla del suo signore con i piccoli tentacoli che circondavano il suo nucleo.
“Cosa c’è?”
“Pipu, pipu!”
“D’accordo, fammi vedere”. Il padrone afferrò l’occhio per i tentacoli, accingendosi a guardare le immagini proiettate al suo interno. Per essere un demone era di taglia molto piccola, non superava le dimensioni di uno gnomo, ma era evidente che doveva essere vecchissimo: il suo viso raggrinzito era solcato da un fitto intreccio di rughe, e sul suo capo rimanevano appena pochi fili di capelli grigi. Dal mento gli pendeva una barbetta sottile ma lunga quasi quanto il resto del corpo, e i suoi piccoli occhi erano infossati e circondati da profonde occhiaie e rughe. Era vestito in modo sontuoso, con un diadema di gemme che gli ornava il cranio quasi calvo. Il suo nome era Zaboera, l'Arcivescovo Stregone, generale al servizio del Grande Satana. Gli occhi fluttuanti si chiamavano Occhi di Zaboera proprio in suo onore, perché era stato lui il primo a modificare con la magia queste creature viventi affinché potessero trasmettere suoni e immagini l’una attraverso l’altra, anche a migliaia di chilometri di distanza. In pratica aveva inventato la versione demoniaca degli ologrammi.
“Ordinaria amministrazione” commentò Zaboera dopo aver visto tutta la scena. “Gli umani non fanno altro che scannarsi a vicenda… neanche le bestie feroci sono così sanguinarie” la smorfia di disprezzo sul suo viso rugoso era più che evidente.
“Pipu…”
“Però, in effetti…” il piccolo demone avvicinò ancora di più l’Occhio alla sua faccia, scrutandovi dentro con la massima attenzione mentre la scena ripartiva da capo. “C’è qualcosa che…. ferma!”
Obbediente, l’Occhio bloccò la ripresa sull’immagine di tre umani vestiti di nero, a prima vista identici a tutti gli altri parassiti umani che infestavano quella terra. Erano i responsabili della strage alla locanda, ma non era questo che aveva turbato l’Arcivescovo Stregone. I suoi occhietti indagatori si concentrarono sugli abiti dei tre, sulle strane armi che portavano….
E queste gli fecero tornare alla mente qualcosa, altre immagini riprese non molti anni prima da un altro Occhio di Zaboera.
“Ih ih ih ih!” l’Occhio si divincolò di scatto dalla presa del suo padrone, spaventato dal suo improvviso scoppio di risa. “Ih ih, torna qui mio piccolo servitore, hai fatto un ottimo lavoro e ho ancora bisogno di te” La piccola creatura tornò indietro fluttuando, rassicurata dal tono compiaciuto del suo signore. Colto da un’insolita vena di tenerezza, Zaboera le accarezzò i tentacoli sulla sommità, scatenando un’ondata di gioiosi “pipu pipu”.
“Ti faccio i miei complimenti. Il Grande Satana sarà molto felice di vedere queste immagini”.
  
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