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Autore: EvilGrin    10/06/2012    1 recensioni
"Il treno prende a rallentare, le rotaie sibilano e cigolano nel fermarsi in un fischio ferroso che fa quasi male alle orecchie da sentire. Sono le 23 e 17, sì, è la mia questa. Mi alzo, non rispondo al tizio, non so nemmeno come si chiama, semplicemente recupero la borsa, riallaccio sfacciatamente la camicetta a scacchetti bianchi e rossi ed altrettanto semplicemente mi avvio verso la porta."
Genere: Horror, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Questa probabilmente sarà una di quelle storie che vengono ignorate perché le prime righe vengono considerate tanto noiose da mettere addosso un’imparagonabile angoscia. Un tempo si usava dire che la copertina non fa il libro..o forse era un detto riguardante monaci e tuniche, questo non ha importanza, non per me per lo meno. So solo che sono sulla carrozza di un treno, almeno credo, con un’agenda in mano, una rosa vicino, che osservo con la coda dell’occhio di tanto in tanto e mi rammarico nel vedere come questa sia capace d’appassire così velocemente. Dannazione, se solo riuscissi a tirare giù il finestrino sarebbe tutta un’altra storia, magari un pizzico d’aria fresca.

 

La penna scorre sulle righe appena accennate di quell’agenda vecchia di anni, sono molte le pagine rovinate, scritte, strappate, in una posso anche leggere i compiti di tedesco da fare per un presunto 12 dicembre. Pagina 244, Übersetze, es. 15-16-17 (a, b). Sbuffo nel vederli, Dio solo sa quanto potevo odiarli, non sapevo farli, era questa la motivazione, e come la volpe da dell’acerba all’uva quando non riesce a coglierla io ero capace di dare dell’incompetente alla professoressa.

 

L’inchiostro della penna scorre su quel foglio macchiandolo di un nero limpido e lucido, penna a gel, sicuramente non potrò scrivere dietro, maledirò per sempre quell’infermiera, proprio una penna a gel doveva avere nel taschino del camice?

 

Sollevo lo sguardo verso il finestrino, posso vedere il panorama scorrere veloce dietro quel vetro trasparente, sino ad un certo punto, dopotutto gocce d’acqua, granuli di polvere, macchie di pennarelli e tracce di fumo oscurano la vista su quello che c’è fuori, ma è sommariamente visibile. E’ notte, stiamo passando adesso sopra un ponte, la valle sotto di noi non sembra nemmeno così tanto lontana, provo anche a scorgerla per quanto mi è possibile, ma non vi riesco eccessivamente bene. Vedo solo una macchia scura ed indecifrabile, nemmeno la luce chiara di quei tre quarti di luna mi aiuta, sembra la selva oscura nella quale si disperse a suo tempo Dante, limitante, non ci piove.

 

Qualche nuvola si fa avanti coraggiosa in quel cielo scuro e, paradossalmente, lo rischiara: quelle nubi colte dai raggi lunari divengono simpatiche e soffici nuvole di zucchero filato al sapore di..puffo! Esiste un gelato con quel sapore ed ho paura di sentirmi cannibale nel provarlo, francamente. Per essere al sapore di puffo cosa potrebbero metterci dentro?

 

Un sorriso affilato e vagamente malizioso mi screzia le labbra, sì, l’ho pensata brutta e per un momento sembra anche che il tipo grassoccio e che trasuda in maniera orripilante liquidi da tutti i pori, mi abbia letto nel pensiero, sembrava fosse così da come il suo sguardo indagatore scrutava le mie forme, quelle non troppo marcate del seno, ma appena ho spostato lo sguardo sul suo volto s’è voltato dalla parte opposta, imbarazzato anche, a quanto pare. E non mi basta mai mettere in imbarazzo le persone, perché porto le mani dietro la nuca, raccogliendo con le dita i lunghi e morbidi capelli castani, tirandoli su e legandoli in una coda alta, perfettamente liscia, con tanto di frangetta che sfiora le ciglia feline, il volto pulito dal trucco. Faccio scivolare la mano di lato, disegnando la curva che prendono i crini scuri, fingendo che il braccialetto che porto al polso si sia impigliato sulla camicetta ed in uno strattone di troppo lascio che i primi due bottoni escano in modo brusco dalle asole, fingendo anche di non essermene accorta. Ma lui lo sa, che lo sto facendo perché mi diverto, e mi diverto da morire nel vedere come soffre nel suo angolino, conscio di non poter far nulla.

 

Lascio scivolare lo sguardo di nuovo fuori dal finestrino, controllo le fermate, richiudo l’agenda, rendendomi conto che oramai manca poco, sono quasi arrivata, la prossima dovrebbe essere la mia, massimo cinque minuti. Mi permetto quindi di tornare con lo sguardo sul volto dell’uomo, che pare più teso così come anche attento ad ogni mio singolo spostamento. Mi permetto di scivolare un poco in avanti, accavallando le gambe sottili ed ambrate in un gesto evidente, con il piede calzato dalla ballerina rossa che sfiora “inavvertitamente” la gamba di lui, che siritira nel suo modo impacciato di fare. Quel gesto affatto discreto deve aver suscitato qualche reazione in lui, visto che lo vedo deglutire a vuoto e fissarmi sempre di più.

 

Mi fa…ribrezzo, solo ribrezzo al momento, ma mi diverto lo stesso. La leggera gonna bianca che è scivolata un poco in su, mostrando meglio la coscia, la mano con l’agenda s’infila nella borsa firmata che tengo vicino a me, assieme anche alla rosa. Alla fine si decide, sorride, si china un poco in avanti e mi chiede come mi chiamo. Lo scruto, dall’alto in basso, con fare da superiore, sì, mi sento profondamente migliore di lui, tanto da permettermi una smorfia che io stessa avrei odiato. Quel tirato sorriso di circostanza.

 

-Jamelie- il tono che è un cinguettio. Ogni tanto lo faccio, ogni tanto mi comporto da perfetta oca giuliva solo per il gusto di farlo, magari lo sono anche, ma in certi casi do il meglio di me. Allo stesso modo, nel rivolgermi all’altro, mi sono limitata ad una risposta senza interesse nei suoi confronti. Così fa chi vuol apparire stronzo, no? Bene, inizio ad imparare allora, è quello il mio obiettivo e, anche se non vi piace l’idea, unicamente per il mio personale divertimento.

 

-Davvero un bel nome, sei straniera?

 

Mi domanda, avevo appositamente spostato lo sguardo verso il finestrino, di nuovo, lo osservo con la coda dell’occhio, sorrido appena a quel modo classico di una tipa come me. Scuoto il capo, non mi degno nemmeno di aprire bocca in merito, nemmeno non meritasse davvero un solo fiato sprecato.

 

-Dove scendi?

 

Fa giusto in tempo a chiedere, che il treno prende a rallentare, le rotaie sibilano e cigolano nel fermarsi in un fischio ferroso che fa quasi male alle orecchie da sentire. Sono le 23 e 17, sì, è la mia questa. Mi alzo, non rispondo al tizio, non so nemmeno come si chiama, semplicemente recupero la borsa, riallaccio sfacciatamente la camicetta a scacchetti bianchi e rossi ed altrettanto semplicemente mi avvio verso la porta. Sento il telefono vibrare in tasca e lo recupero mentre scendo quei due scalini per poter scendere definitivamente dal treno. Guardando lo schermo del telefono per leggere il messaggio di Roberto non ho nemmeno fatto particolarmente caso alla stazione completamente vuota. Solo quando sento il treno ripartire e posso premere su “Invia” alzo lo sguardo scuro e mi guardo intorno spaesata. Perché spaesata? Perché ho sbagliato fermata, e questa pare abbastanza deserta da parti pensare che non ci siano persone di lì a qualche chilometro di distanza.

 

Vuota, completamente vuota, mi trovo sul quarto binario, il che significa che per prima cosa devo cercare il sottopassaggio per poter andare a controllare gli orari di eventuali treni successivi, visto che su quello non ci sono i tabelloni, ma almeno all’interno della stazione dovrebbero starci.

 

Mi avvio, il rumore ovattato della base delle ballerine pare rimbombare in quel silenzio di tomba che è quel luogo, e pensare che non è nemmeno eccessivamente tardi, solo le undici, poco più. Porto la rosa sotto il naso per poterne sentire di nuovo l’odore ed un sorriso tenue mi compare sulle labbra. Davvero un buon profumo, davvero belli i ricordi ad essa collegati. Sul volto si potrebbe anche notare quel velo d’angoscia per qualcosa di non meglio specificato, se solo ci fosse qualcuno per poterlo vedere.   

 

E invece non c’è nessuno, in compenso però sono riuscita a trovare la scala che porta al sottopassaggio per poter arrivare alla stazione in sé, l’unica cosa che non mi piace del posto è che le luci sono spente, eppure quelle sul binario funzionavano. Recupero il telefono dalla tasca, accendendo la luce che si trova sul retro del telefono, in modo da non capitombolare di sotto, nell’inciampare da qualche parte e semplicemente prendo a scendere, per forza di cose.

  
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