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Autore: SoFreakingBecky    15/06/2012    2 recensioni
Non si vedono tutti i giorni due ragazze cantare a squarciagola Ricominciamo di Adriano Pappalardo dentro una microscopica Twingo verde.
Pazienza, ci stavamo divertendo troppo.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il burattino





Probabilmente il proprietario della Wolkswagen grigia che ci era accanto stava pensando che fossimo sotto l’influsso di marijuana o superalcolici.
Effettivamente poteva sembrare così.
Non si vedono tutti i giorni due ragazze cantare a squarciagola Ricominciamo di Adriano Pappalardo dentro una microscopica Twingo verde.
Il proprietario della Wolkswagen forse avrebbe cambiato idea sul nostro conto, se Giulia non avesse cominciato a gesticolare fuori dal finestrino che non era capace di stare a guardare quegli occhi di brace...
Pazienza, ci stavamo divertendo troppo.
Avevo avuto la geniale idea di fare un giro al mega centro commerciale appena costruito.
Sabato pomeriggio.
Con trenta gradi all’ombra.
Senza aria condizionata.
“Giù, quel tipo ti sta fissando!”
“...un brivido dentro e...come? Ah, quello lì? Buon pomeriggio!’”esclamò radiosa.
“Ma sei scema? Non lo conosci neanche!” esclamai, a metà tra lo stupito e il divertito.
“Va beh. Come diceva mia nonna, bisogna essere sempre educati!”
Ebbi la saggia idea di non commentare la sua personale interpretazione della massima appena esposta e accelerai per non beccare l’ennesimo semaforo rosso; dopo poco svoltai verso il parcheggio sotterraneo del centro commerciale e parcheggiai la macchina vicino all’entrata.
“Se non torno a casa con un paio di scarpe nuove, mia mamma mi disereda...”
“Si, effettivamente quelle non possono essere più considerate scarpe” dissi, fissando quelle cose lacere e consumate che aveva ai piedi. C’era perfino una toppa.
“Ah-ah-ah, simpatica.” replicò, assotigliando lo sguardo.
Ci dirigemmo verso uno dei primi negozi, ma purtroppo vendeva cose un po' troppo...come dire...datate.
Ok. Da vecchia.
“Oh mio Dio, Sere, guarda quella maglia!” esclamò Giulia, strattonandomi per un braccio.
“Giù...è leopardata. E ha le borchie. Nemmeno le vecchie delle balere se la metterebbero!”
“Ti prego, la devo provare! È troppo trash!”
Cercai di protestare, ma la mia indole passiva venne sopraffatta dall’esuberanza della mia amica.

La conoscevo da circa due anni e, nel corso di questo arco di tempo, avevo provato l’istinto di sotterrarmi almeno un centinaio di volte. Come per esempio quella volta che aveva imbroccato un ragazzo tedesco al mare fingendosi finlandese: non le era bastato allestire quella messa in scena da sola, ma aveva coinvolto anche me costringendomi a inventare di sana pianta il finlandese. Io, che ero già troppo impegnata a coprirmi il più possibile per non farmi vedere in costume, farfugliavo cose a caso che Giulia traduceva liberamente in inglese per far conversazione con Hans.

Sapevo già che quel negozio sarebbe stato teatro di un’altra scena del genere, quindi mi rassegnai e la seguii dentro.
Dopo un rapido saluto alla cassiera ultrasessantenne, Giulia si diresse velocemente verso il reparto più variopinto del negozio: cominciò a toccare vestiti con farfalle in technicolor, gonne con spacchi vergognosi e magliette attillate con ogni tipo di fantasia.
“Eccola! - esclamò - Vado a provarla! Tu prepara la macchina fotografica!”
“No, Giuly, non posso, dai...”
Era già entrata nel primo camerino.
Dopo pochi secondi tornò fuori, raggiante, con addosso la cosa più orrida che avesse potuto trovare. Ovviamente non si accontentò di questo: arraffò un paio di pantaloni di lamé neri e corse ad infilarsi pure quelli.
Quando uscì era un misto tra Olivia Newton John nell’ultima scena di Grease e una drag queen di second’ordine.
Mi costrinse con la forza ad immortalare il suo antiestetico completo, mentre cercavo disperatamente di non farmi notare dalla cassiera.
Quando si sentì soddisfatta si cambiò nuovamente e mi trascinò fuori dal negozio.
“Giù, ti prego, non farmelo fare mai più!”
“Ma dai! Cosa vuoi che sia? Devi imparare a fregartene degli altri, Serena, altrimenti ti perdi le cose più belle delle vita”.
“E per te le cose belle della vita comprendono mascherarsi in quel modo in un negozio per signore?” replicai sarcastica.
“Anche. Ad esempio: quanto scommetti che riesco a farmi dare il numero di quel commesso così carino?”
Il commesso-così-carino lavorava, guarda caso, in un negozio di scarpe sportive.
Alzai gli occhi al cielo e la seguii, per l’ennesima volta, verso un’altra imminente figura di merda.
“Ciao - disse rivolgendo uno sguardo da cerbiatto al commesso - Potresti aiutarmi? Avrei bisogno di un paio di scarpe...”
Con lo stesso riflesso della gazzella che scopre di essere inseguita dal leone, mi spostai velocemente il più lontano possibile da Giulia e da quel povero martire.
Perché? Perché riusciva sempre a mettere in pratica quello che le veniva in mente? Ma soprattutto, perché io ero sempre presente mentre ciò accadeva?
La storia del finlandese non era che la punta dell’iceberg di tutti i momenti imbarazzanti che avevo dovuto sopportare; perfino il nostro primo incontro era stato un momento imbarazzante.

Ero al cinema che aspettavo l’arrivo delle mie amiche: come al solito loro avevo optato per un horror e, come al solito, io mi ero dovuta piegare al loro volere. Mentre ero in fila per fare il biglietto, persa nella agghiacciante lettura della trama del film, mi accorgo che la tizia davanti a me stava discutendo con il bigliettaio.
“Mi scusi, ma lei è minorenne! Non può essere entrare se non è accompagnata!” stava protestando l’uomo.
“Mi scusi lei, ma io non sono mica un cane che deve essere accompagnato fuori a pisciare! E poi vede - disse tirandomi avanti per la manica del cappotto - sono con mia sorella!”
Il bigliettaio mi guardò storto e mi intimò di mostrargli un documento: io, che in quel momento avrei potuto sostenere di essere la figlia segreta di Maria Callas da quanto ero confusa, gli porsi la carta d’identità e lanciai uno sguardo interrogativo a quella sfacciatissima ragazza.
“Signorina, mi prende in giro? Avete due cognomi completamente diversi!” osservò l’uomo, sempre più adirato.
“Ovviamente! Siamo figlie di due padri diversi! Il mio, purtroppo, è deceduto tre anni fa, quindi mia mamma si è risposata con suo padre ma abbiamo mantenuto i nostri cognomi originari” spiegò con naturalezza.
“È tutto vero?” mi interrogò il bigliettaio con sguardo indagatore.
Io, paralizzata, non riuscivo a spiccicar parola: fu una gomitata di Giulia a convincermi a parlare.
“S-si, è tutto vero” bisbigliai.
L’uomo, ancora sospettoso, mugugnò qualcosa di incomprensibile e ci consegnò i nostri biglietti.
Quando fummo davanti alla porta della sala, la ragazza si girò verso di me e mi disse “Non so davvero come ringraziarti! Era da tanto tempo che aspettavo l’uscita di questo film e se non fosse stato per te non l’avrei mai visto!”
“Sì...prego. Adesso scusami ma devo aspettare le mie amiche...” replicai, scocciata.
Proprio mentre me la stavo levando di torno, mi arrivò un messaggio da parte di una delle suddette amiche “Scusa, la macchina non parte. Perdonaci!
“Vaffanculo!” sibilai.
“Con chi ce l’hai?” mi chiese l’impicciona.
“Con le mie amiche. Mi hanno appena informato che non possono venire, quindi io ho speso i soldi del biglietto per niente.”
“Ma è fantastico! Ci vengo io con te, tanto ormai siamo sorelle! A proposito, io sono Giulia.”
“Serena.” bofonchiai di malavoglia .
Entrammo nella sala e occupammo due posti centrali: ero nervosa e arrabbiata e pensai seriamente di sgusciare via con il favore delle tenebre appena le luci fossero calate.
Dopo i primi dieci minuti di film arrivò il momento degli sgozzamenti, ovvero il momento a partire dal quale io mi sigillo gli occhi e urlo in perfetta sincronia con i protagonisti.
Stavo giusto giusto per dar fiato alle mie corde vocali quando un acutissimo strillo mi perforò i timpani: fu talmente tanta la mia meraviglia nello scoprire che era stata Giulia ad emetterlo che mi dimenticai perfino di coprirmi gli occhi.
“Scusa, ma tu non eri quella che non aspettava altro che vedere questo film?!” domandai incredula.
“Certo! Gli horror sono una delle poche cose che mi danno una scarica di adrenalina!” mi spiegò.
Detto ciò emise un altro urlo disperato che fece sobbalzare dalla paura il nostro vicino di posto, il quale si rovesciò buona parte dei pop corn sulle gambe.
Io, dopo un momento di stupore, cominciai a ridere incontrollatamente. Mi sembrava talmente comica l’evoluzione di quella serata, che ridere mi sembrava l’unica cosa sensata da fare.
Fu il primo film horror in cui risi dall’inizio alla fine, ovvero in concomitanza con i frequenti urli di Giulia. Alcuni spettatori cercarono anche di lamentarsi del nostro comportamento, ma ottennero scarsi risultati.
Da quel momento non ci lasciammo più.

“Ehi, guarda cos’ho qui!” disse Giulia interrompendo il flusso dei miei ricordi.
“È uno scontrino fiscale” replicai con ovvietà.
“Guarda dietro, donna di poca fede” replicò divertita.
Fabio 3358735468. Non posso crederci, ci sei riuscita!” esclamai. A dire la verità non avevo molti dubbi sull’esito della scommessa, ma mi piaceva vedere quell’espressione soddisfatta sulla sua faccia.
“Ebbene sì, e ora credo di meritarmi un gelato!”
Uscimmo dal negozio (occhiata ammiccante di Giulia verso il povero Fabio) e ci avvicinammo al bar del centro commerciale: dopo aver pagato i nostri gelati ci accomodammo sulle sedie antistanti.
“Fammi vedere le scarpe che hai comprato.” le chiesi.
“Eccole.”
“...Giù, ma sono esattamente identiche a quelle che porti adesso!”
“Mia mamma ha detto solo che dovevo prendermele nuove, non ha specificato che dovevano essere diverse!” sostenne con semplicità.
“Tua mamma è una santa!” replicai divertita.
Finimmo, tra una risata e l’altra, di ingoiare i nostri ipercalorici gelati e poi riprendemmo la nostra peregrinazione nei meandri del centro commerciale.
La nostra attenzione fu improvvisamente catalizzata da un negozio che nelle precedenti escursioni non avevo mai notato: avvicinandoci mi accorsi che era un ibrido tra un negozio di vestiario e una specie di cartoleria. Sbirciando dentro vidi che era pieno di ragazzini con i pantaloni raso inguine che sghignazzavano qua e là , tastando e provando gli articoli in vendita.
“Ti prego, entriamo! Fa troppo sedicenni!” mi implorò Giulia.
Te pareva.
 Effettivamente era quella l’età media della clientela, e uno sguardo alle nuove generazioni non poteva poi farmi così male.
Acconsentii (come se fosse servito il mio permesso!) ad entrare: non c’è bisogno di specificare che Giulia attivò il suo speciale radar trova-cazzate, e ogni due per tre si esaltava per ciò che aveva scovato. Nell’ordine: una cintura con delle nuvolette che sorridevano, un accendino raffigurante la testa di Homer Simpson, una collana con un teschio, una lampada con un liquido fosforescente dentro che fluttuava, un paio di pantaloni con l’innocente scritta Fuck me sul posteriore e via dicendo.
Decisamente le nuove generazioni non mi entusiasmavano, anche se, dovevo ammettere, molte delle cose presenti nel negozio mi ricordavano la mia adolescenza.
Mentre, per la seconda volta nella giornata, mi stavo per perdere nei miei ricordi, Giulia si avvicinò a me con una mise che non poté far altro che scatenarmi una ridarella acuta: aveva un cerchietto con due orecchie da Topolino e una gonna rosa a pois bianchi.
Si era decisamente conciata da Minnie. La cosa preoccupante era che stava benissimo! O meglio, sicuramente era preferibile alla precedente combinazione da vecchia battona.
Era più forte di me, con lei non riuscivo a non divertirmi, nonostante le figure che mi faceva fare.
Probabilmente non sarei più riuscita a farne a meno, in un certo senso. Mi riempivano la vita, letteralmente.
Incurante degli sguardi schifati dei ragazzini, mi trascinò verso il fondo del negozio dove, evidentemente, c’era un’installazione permanente di vestiti da carnevale.
Effettivamente c’era un’ampia scelta di completi tra cui poter spaziare, come per esempio vestiti da Dracula, pagliaccio, Pippo, infermiera sexy e...
“OH.MIO.DIO. Ti prego, vieni a vedere!” mi intimò Giulia.
Davanti ai miei occhi si stagliavano, in tutto il loro setoso splendore, tutti i vestiti delle Sailor Moon.
Se c’era una cosa che potevamo dire di condividere realmente, era la più completa e totale adorazione per quel telefilm. Ormai non avevamo più l’età per quel genere di cose, e ce ne rendevamo pienamente conto, ma vedere quegli adorabili vestitini ci riportava alla nostra felice infanzia in cui credevamo ancora che il potere della luna avesse potuto risolvere tutti i problemi del mondo.
Senza nemmeno rendermene conto, mi ritrovai in un camerino con la divisa di Sailor Mars in mano: me la infilai senza poter reprimere un indescrivibile entusiasmo e mi guardai allo specchio.
Che cosa stupida. Estremamente idiota.
Inspiegabilmente esaltante.
Uscii dal camerino e vidi davanti a me Sailor Moon in carne,ossa e scettro.
Le nostre risate probabilmente si sentivano fino alla statale che costeggiava il centro commerciale, ma in quel momento era l’ultima cosa a cui stavo pensando.
Ci mettemmo schiena contro schiena e, rivolgendoci ed un incredulo specchio, assumemmo le pose tipiche delle nostre eroine.
“Ti prego, devi fare una cosa per me...” mi chiese Giulia con lo sguardo di una maniaca.
“Cosa?” chiesi preoccupata.
Sailor Moon...” intonò.
“Oh no, non mi puoi chiedere questo! Non qui davanti a tutti! È la volta che ci sbattono fuori! E poi mi vergogno...abbiamo vent’anni a testa...” cercai di protestare.
“Ti supplico, fallo per me!”
Perché mi era così difficile dirle di no? Perché non potevo fare a meno di vederla felice?
“So già che me ne pentirò...” sospirai.
Sailor Moon...” intonò nuovamente.
“...amica Sailor Moon...”
La canzone uscì senza intoppi dalla nostra ugola, e santa Cristina D’Avena ci protesse dalle possibili amnesie.
Finita l’esibizione canora, Giulia si avvinghiò al mio collo e, saltellando, espresse tutta la sua riconoscenza nei miei confronti.
“Lo sapevo che lo facevi! È stato...fantastico!” e, detto ciò, mi stampò un improvviso bacio sulla bocca.
Pensai che qualcuno mi avesse staccato la spina dell’alimentazione elettrica: sparirono gli scaffali, i vestiti, le maschere attorno a noi.
In quel momento ero migrata verso un altro universo. Probabilmente erano stelle quei due bagliori davanti a me.
Giulia mi guardò: non aveva più il suo solito sorriso sicuro e strafottente sulle labbra. Un’espressione indecifrabile le attraversava gli occhi.
Come se fosse la cosa che tutti si aspettavano, che io mi aspettavo, mi prese il viso tra le mani e mi baciò. Sul serio, questa volta.
Ero una marionetta tra le sue mani, tra le sue labbra, tra la sua pelle.
Tutto mi diceva che dovevo staccarmi da lei, ristabilire i confini tra l’io e il tu, riprendermi quel che ero stata fino a quel momento.
Ma non potevo.
Non potevo perché stavo bene, perché non sapevo se era quello che volevo ma, al diavolo, era quello di cui avevo bisogno.
Nell’esatto momento in cui l’ultimo millimetro di pelle smise di essere territorio comune, mi ritrovai in un negozio di maschere. No, c’erano anche altri vestiti.
E c’era lei.
Mi guardò con sguardo preoccupato, come un cane che sa di aver combinato un guaio, come se si stesse sentendo in colpa.
Io volevo dire qualcosa di vero, di intelligente, di adatto alla situazione, ma eravamo pur sempre vestite da Sailor Moon e la cosa più sensata che riuscii ad articolare assomigliò a:
“Sai di nocciola. Mi fa schifo la nocciola.”
Per un secondo mi guardò confusa, poi si impossessò nuovamente del suo sorriso sincero, spiazzante, e mi rispose : “Tu invece sai di fragola. Mi fa schifo la fragola.”
Scoppiammo a ridere entrambe, ma non ero più io che ridevo.
Dov’ero, io?

Uscite dal negozio ebbi una strana sensazione: era come se io fossi rimasta sulle piastrelle di quel camerino, assieme a quello stupido vestito.
I serpenti fanno la muta, io faccio il vestito.
Vagammo ancora qualche istante tra i colori psichedelici delle vetrine, parlando a vanvera.
Ascoltando a vanvera.
Probabilmente fu il nostro bisogno di respirare nuovamente, veramente, che ci sospinse verso un’uscita laterale, seminascosta da una pianta di plastica.
Ma quando fummo passate attraverso la porta, ci accorgemmo che era solo una porta di servizio che sbucava in un piccolo corridoio: intravedemmo la seconda porta, ovvero l’uscita vera e propria, a qualche metro da noi, ma la prima si chiuse talmente in fretta che non facemmo in tempo a raggiungerla.
In un attimo fummo avvolte dal buio.
Istintivamente alzai le braccia per andare a tentoni: odiavo il buio, mi faceva sempre sentire come se non fossi mai sola.
“Giù...dove sei?” chiesi con un velo di preoccupazione nella voce.
“Sono qui, dove vuoi che sia?” rispose una voce davanti a me.
Feci un passo in avanti e venni a contatto con il cappuccio della felpa di Giulia e così, come se fosse l’unica cosa da fare, le strinsi forte le spalle, affondando la faccia nell’incavo le suo collo, per aggrapparmi a qualcosa di noto e sicuro.
Lei inizialmente rimase immobile, poi si sciolse dalla mia presa e si girò.
Sentii i suoi polpastrelli sfiorarmi la fronte, le tempie, gli occhi, il naso, la bocca per poi finire sul collo, appena sotto il mento.
Io alzai una mano verso il punto in cui credevo che si trovasse il suo viso e incontrai la sua guancia: era morbida e probabilmente in quel momento anche rossa, visto il calore che sprigionava.
Feci scivolare la mano verso la sua nuca, tagliai i fili che mi legavano al burattinaio e la attirai a me.
Ero io, finalmente.
Io che la assaporavo.
Io che la cercavo.
Io che esistevo.
Le sua labbra erano la cosa più morbida che avessi mai sentito: probabilmente erano fatte di seta.
Con una mano seguii il profilo del collo e scesi fino al seno, non per toccarlo, ma per fermarmi sul torace: sentivo il suo cuore battere all’impazzata, come il mio, del resto.
Le mani, le sue, lasciarono scoperte le scapole e scesero fino ai fianchi. Si infilarono sotto la mia maglietta e ripercorsero al contrario il tragitto appena fatto: ogni centimetro di pelle che guadagnavano era un pezzetto di me che si staccava e si fondeva con lei.
Dove cominciavo io? Dove finiva lei?
Non ero più in un universo parallelo, ero qui e ora, mi sentivo respirare, mi sentivo tremare.
Anche lei tremava, e continuò a tremare anche quando interrompemmo la connessione che ci legava.
Appoggiai il mio viso alla sua guancia incandescente e le dissi all’orecchio: “È...sbagliato?”
“No, - mi sussurrò, dopo qualche istante di indecisione -  ma se anche lo fosse...mi piace troppo per riuscire a smettere.”
Spezzò il mio respiro con un nuovo bacio e i nostri corpi non furono più in grado di contenere con l’immobilità quello che stavamo diventando.
Ci muovevamo nello spazio nero, e solo i muri, ogni tanto, ci facevano da sostegno.
Mentre ero ancora persa in lei, sentii una rigida pressione sulla mia spina dorsale e, improvvisamente, la luce ci inondò.
Avevamo trovato l’uscita, e la maniglia antincendio aveva fatto il resto.
Ci guardammo con gli occhi strizzati e infastiditi e, senza dare il tempo alle cose di rovinare tutto, ci abbracciamo spasmodicamente.
Restammo così finché il nostro respiro non ebbe riacquistato un ritmo equilibrato.
Come appena uscite da un buco nero, ci guardammo attorno e, appena ci fummo rese conto di dove potevamo essere, seguimmo le indicazioni per il parcheggio sotterraneo.
Appena arrivate in macchina ci accomodammo sui sedili freschi e ci guardammo negli occhi, imbarazzate.
“Io non...” cominciò lei.
“Nemmeno io so cosa sia successo là dentro” replicai, dando voce anche ai suoi pensieri.
“Cambierà tutto”
“Lo so” risposi, pensierosa.
“Si complicherà tutto”
“So anche questo”
“Ma se poi...”
“Giù, basta ora. Non eri tu che cercavi le scariche di adrenalina? Ne abbiamo prodotta abbastanza per due eserciti, oggi pomeriggio, e se tutto questo può servire a non farmi trascinare da te a vedere un altro dei tuoi film squarta-budella, direi che sono pronta ad affrontare tutte le conseguenze che si presenteranno” risposi velocemente, con voce decisa.
Ma dentro di me tremavo dalla paura.
Avevo paura di averla.
Avevo paura di perderla.
Ma la sua bocca, che fino a poco prima era sulle mie labbra, dipinse un sorriso, il suo sorriso.

E mi resi conto che a me bastava quello per andare avanti.








Angolo autrice:

Bene. Non so esattamente come si sia prodotta questa storia, perchè l'avevo scritta un paio di anni fa, quando Lizzie_Siddal ci aveva preso gusto a farmi scrivere zozzerie:) E oggi MedOrMad mi ha convinto a pubblicare, dopo una necessaria spolveratina. Quindi il merito (o il biasimo, se vi fa orrore) è tutto loro, non mio! Grazie ad entrambe, comunque.




   
 
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