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Autore: Sylphs    21/06/2012    6 recensioni
Questa è una storia di mia invenzione che si ispira a grandi linee ad uno dei miei romanzi preferiti, "Il Fantasma dell'Opera". Irene, ragazza distratta e persa nel suo mondo, si trasferisce insieme al padre nella sperduta Heather Ville, una residenza recentemente ristrutturata a seguito di un misterioso incendio. Nel corso del suo soggiorno in quell'oscuro palazzo, si rende lentamente conto di avvertire una presenza intorno a sè che una notte, all'improvviso, decide di manifestarsi a lei...attratta dalla magia e dal romanticismo della situazione, la giovane si farà trascinare suo malgrado in una spirale di follia, di morte e di pericolo, per lei e per tutti coloro che ama. Spero che qualcuno leggerà, sarebbe importante per me!
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Amore di sangue'
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PRIGIONIERA

 
 
 
 
 
 
Quando Stephan si svegliò al suono della sveglia, pronto a partire, e non vide più Irene, la cercò in lungo e in largo, per tutto il quartiere, finché non precipitò nella più nera disperazione. Mille ipotesi gli si formavano in mente e in ognuna di queste ipotesi Irene era in pericolo: possibile che Raphael si fosse introdotto nella sua casa e l’avesse rapita sotto il suo naso? Possibile che magari l’avesse attirata in trappola con l’inganno? Oppure possibile che proprio lei, quell’adorabile volubile cocciuta, si fosse messa in testa di tornare a Heather Ville?
In ogni caso non c’era più e non potevano partire per Parigi. Di nuovo Stephan era in preda alla paura e ai dubbi, era torturato da congetture e da spasmodiche ansie, e non sapeva cosa fare. Era sicuro che in quel momento Irene si trovasse a Heather Ville: ma era viva o morta, ferita o incolume? Cosa le aveva fatto Raphael? Aveva creduto alle parole della giovane quando gli aveva detto di amarlo, dunque sapeva che in ogni modo avrebbe tentato di tornare da lui: doveva essere prigioniera. Il maledetto la teneva chiusa nella sua dimora inquietante.
“Devo salvarla, maledizione!” esclamò furioso, stringendo nel pugno i tre biglietti: “Stavolta non me ne starò a guardare. La porterò fuori di lì e ci chiuderò dentro una volta per tutte quel Lawrence!”
Sì, diamine, ora che lui e la ragazza erano fidanzati non avrebbe rinunciato a lei. Sarebbe andato ad Heather Ville e avrebbe lottato per il suo cuore, e avrebbe liberato il mondo finalmente dal male di Raphael. Aveva finito con le esitazioni, con i programmi, con l’accortezza: per una volta avrebbe dato retta al suo istinto, e avrebbe fatto esattamente quello che voleva fare, nel momento in cui voleva farlo.
 
Irene era barricata dentro la sua vecchia stanza da letto ormai da ore ed era a tal punto persa in se stessa da non sapere, effettivamente, quanto tempo era passato dalla notte tempestosa appena trascorsa e da quanto se ne stesse raggomitolata dietro al letto a baldacchino, nell’angolo più buio della camera, con le ginocchia strette al petto e gli occhi rossi e fissi persi nel vuoto. Aveva un’espressione cupa e assente, tutta presa dietro a foschi pensieri, come se una nube le fosse calata sul viso, oscurandoglielo, e ogni tanto veniva scossa da un tremito, come se avesse degli spasmi epilettici. Lo sguardo, di tanto in tanto, si riscuoteva dalla sua fissità e guizzava terrorizzato alla porta chiusa. Effettivamente era terrorizzata, del tutto terrorizzata.
Era prigioniera in quell’enorme casa buia e sinistra, che aveva tutte le finestre accuratamente sbarrate e il portone chiuso da una chiave di cui ignorava la localizzazione, e da qualche parte al piano superiore si aggirava il mostro rivoltante, suo carceriere. Era così silenzioso che non ne udiva i passi, ma sapere che poteva essere ovunque le procurava un continuo terrore. Era stata folle ad usargli il riguardo di venire a salutarlo! Raphael…o meglio, la cosa chiamata Raphael, subito dopo averla informata del suo stato di prigionia, s’era ritirata sghignazzando ed Irene, che anche se non l’aveva davanti era come perseguitata dall’immagine terrificante del suo orribile volto, era corsa nella sua stanza, l’unica isola vagamente familiare in quell’inferno, e s’era chiusa dentro per non doverlo più guardare.
Aveva fatto di quella misera stanzuccia la sua personale e inattaccabile fortezza. Forse era anche prigioniera di Raphael, ma almeno gli avrebbe impedito di tormentarla col suo aspetto orribile e con le sue parole striscianti. Aveva immediatamente coperto il buco nel muro che lei stessa aveva aperto, perché la sola idea che lui potesse spiarla con i suoi occhi pallidi la terrorizzava, con la cassaforte in cui teneva i vestiti, spostandola contro la parete. Poi aveva preso la valigia, che nella foga di andare da Stephan aveva lasciato lì, e l’aveva messa contro la porta per bloccarla. Con l’intelaiatura del materasso, che aveva strappato con la forza della disperazione, aveva ricavato una lunga barra metallica spessa con cui aveva assicurato la serratura. Alla fine s’era sentita leggermente più sicura ed era andata a rincantucciarsi in quell’angolino, dove era rimasta immobile mentre le ore si srotolavano lentamente, sadicamente, l’una dietro l’altra.
L’immagine di Raphael senza drappo la perseguitava, come la perseguitava il pensiero di Stephan, che l’aspettava e da cui non poteva tornare. Quella dimora che un tempo era stata la sua casa era ora divenuta la sua prigione indistruttibile, e persino la camera in cui s’era chiusa dentro era, fino a prova contraria, una cella. Più confortevole di altre, ma comunque una cella. Cosa ne sarebbe stato di lei? Che progetti aveva in mente nei suoi confronti il mostro? Irene sapeva che se avesse voluto avrebbe potuto prenderla con la forza o farle del male senza fatica, ma non osava nemmeno soffermarsi su simili paure, semplicemente voleva dimenticare quel volto putrefatto. Ma era come scolpito in profondità nel suo cervello, e ogni volta che chiudeva gli occhi era lì a ghignarle maligno. A furia di tenerli spalancati erano pieni di venuzze rosse. Trovava miracoloso il semplice fatto che Raphael non avesse ancora tentato di aprire una breccia nella “fortezza”.
Era a tal punto scorata, a tal punto in preda alla disperazione, che nel caso era pronta a togliersi la vita, se quello che un tempo aveva amato senza conoscerne la vera natura avesse preso a comportarsi come la bestia che era. Non aveva neanche più la forza di piangere.
“Stephan” sussurrò nel silenzio snervante della stanza: “Stephan Stephan Stephan…” 
Forse, se ripeteva mille volte il suo nome, per magia sarebbe apparso lì accanto a lei e l’avrebbe portata in salvo. Era una cosa infantile, desiderare che accadesse una cosa e sperare nel suo realizzarsi. Non sarebbe mai venuto, il suo Stephan, e lei sarebbe rimasta rinchiusa ad Heather Ville per sempre, fino a imbiancarsi i capelli biondi e a riempirsi di rughe e a perdere tutti i sogni e tutte le voglie della sua giovinezza. Attorcigliandosi una ciocca di capelli tra le dita, s’accorse con costernazione che forse la vecchiaia era prematura, poiché erano già grigi. Immediatamente si specchiò nel braccialetto che portava al polso: diverse ciocche spiccavano grigie nella chioma bionda.
“Cosa m’è accaduto?” pensò, terrorizzata. Forse era Heather Ville che le faceva quest’effetto? Poi le venne in mente che non c’era nulla di pazzesco nel fenomeno, ma che semplicemente lo choc, il terrore e la tensione avevano provocato quel mutamento nel suo pigmento.
In situazioni come quelle, molti si sarebbero raccomandati a Dio, ma lei non aveva creduto nella sua esistenza, era sempre stata un tipo cinico. Credeva nei folletti e negli elfi dispettosi, credeva ai fenomeni poltergeist e di possessione, ma non a Dio. Era forse l’unica cosa in cui non credeva. Se gli altri ridevano delle sue credenze circa il mondo del fantastico, lei rideva delle loro preghiere e del loro infilare il nome del Santo Padre ovunque. La trovava comune paura della morte e desiderio di rintronarsi intorno ad un paradiso che avrebbe accolto tutti alla fine dei tempi. Ma non era forse l’inferno il luogo in cui si trovava ora?
Diavolo, aveva voglia di fare pipì. Era quasi un giorno che non andava in bagno. Aveva come uno spillone conficcato nel pube, ma s’imbarazzava troppo a farla sul pavimento. E poi aveva fame. Una fame da lupi. Uscire a cercare cibo era impensabile, la paura di Raphael era troppo forte, ma non poteva impedire allo stomaco di contorcersi e brontolare. Era ridotta peggio di una naufraga in mezzo al mare. Al pensiero dell’acqua avvertì più impellente il bisogno di urinare. Doveva decidersi a farla finita col pudore, o se la sarebbe fatta addosso, e allora sarebbe stato davvero uno scempio. Paonazza in volto, e piena di umiliazione, andò dall’altra parte della stanza e si accovacciò, tirandosi giù i pantaloni. Fece tutto molto in fretta e mentre l’odore sgradevole si spargeva nell’aria fu colta da un profondo senso di disperazione.
“Non posso vivere così”.
Avrebbe potuto uccidersi. Ora come ora sarebbe stata la soluzione migliore. Battendo il capo con violenza contro il muro, per esempio. O impiccandosi al lampadario. O inghiottendo alcuni dei chiodini di ferro in rilievo sulla cassaforte. C’erano mille modi per morire lì dentro, e lei non avrebbe dovuto fare altro che sceglierne uno. Tutto, anche la morte, era preferibile a quella tremenda prigionia. A furia di restare chiusa lì dentro, terrorizzata, sarebbe impazzita. E così, cosa più importante di tutte, avrebbe lasciato al mostro solo il proprio cadavere per soddisfare le sue voglie. Chissà, forse si sarebbe sentito in colpa.
Mentre cercava di escogitare il modo di suicidarsi, improvvisamente qualcuno bussò tre volte alla sua porta, e la voce raschiante di Raphael disse da fuori: “Irene? Sei qui dentro?”
Allorché l’udì, la poveretta dimenticò tutte le sue congetture e venne presa da un terrore così intenso che temette di svenire. Si raggomitolò ancor più, atterrita, chiuse gli occhi e si premette le mani sulle orecchie: “No!” gridò: “No, và via!”
Socchiuse le palpebre e vide con orrore la maniglia che si piegava verso il basso e incontrava la resistenza della fettuccia di metallo. Cominciò a scuotersi con violenza e a fare su e giù come un’elica impazzita e ognuno di quegli scossoni era un colpo al cuore per la povera ragazza: “Perché hai chiuso la porta, Irene?!” sbraitò Raphael contrariato: “Forse vuoi restare qui dentro fino al resto dei tuoi giorni? Su, apri, non fare la bambina!”
“No!” ripeté Irene che in quel momento pregava con tutte le forze che la sua goffa barricata tenesse sotto le spinte sempre più possenti del mostro: “No, no, và via, lasciami in pace!” prese subito a singhiozzare per la paura di doverlo di nuovo vedere. Le faceva troppo orrore.
“Aprimi!” esclamò la voce di Raphael attraverso l’uscio: “Perché non vuoi aprirmi? Non ti faccio mica niente. Credi che ti voglia fare del male? Non ti torcerei un solo capello, moglie mia”.
“Non chiamarmi così!” strillò la fanciulla ch’era pallida come un cencio: “Vattene! Ho paura!”
“Ah, ora mi scacci?” commentò Raphael, che aveva mutato tono ed ora era addolorato: “Te lo ripeto, se ti trovi in questa situazione è solo colpa tua, che hai voluto togliermi il drappo. Ti ripugna la mia deformità, forse? Sei stata tu a volerla vedere! E ora resterai qui per sempre e sarai la mia sposa, piccola curiosa!”
“Sei un bugiardo e un crudele!” gridò lei impaurita e ansimante: “Ecco cosa sei! Mi accusi di curiosità…ma per tutto questo tempo che siamo stati insieme mi hai celato la tua deformità, facendomi credere d’essere bello!”
“Io non ho mai detto di essere bello” precisò lui con tono pacato. La poveretta era del tutto dominata dalla rabbia per l’ingiustizia e dalla paura che riuscisse ad aprirle e comparisse sulla soglia col suo orribile ghigno: “Ma lo lasciavi intendere! Quell’aria enigmatica, quelle tue belle parole, quelle arie da gran gentiluomo che ti davi…mi hai ingannata per tutto il tempo! E io c’ero cascata in pieno…siamo colpevoli entrambi, Raphael! Oh, ma puoi ancora redimerti, sì, puoi! Lasciami andare per conto mio, lascia che riabbracci Stephan, e dimenticherò tutto!”
“No!” lui le scagliò contro quella parola con violenza come se fosse stato nella stanza e gliel’avesse gridata nelle orecchie: “Non ti lascerò andare via! Tu non dimenticherai la ripugnanza che ti ispiro. Ti terrò con me, Irene. Vedrai, alla lunga ti abituerai alla mia vista e convivremo con serenità. È inutile che ti chiudi dentro le stanze a questo modo. Non è di buon auspicio litigare in prossimità delle nozze. Sarà una cerimonia di gran fasto, oh, sì” dall’interno lei lo sentì che si sfregava le mani compiaciuto: “Sì, un matrimonio coi fiocchi! Con ottimo vino e chicchi di riso e musica meravigliosa. Divideremo insieme il resto delle nostre vite e conosceremo solo felicità” la maniglia riprese ad essere scossa con accresciuto vigore: “Ora, su apri! Tanto vale che ti abitui subito a vedermi!”
“Puoi anche tenermi rinchiusa qui” replicò lei: “Puoi anche impedirmi di essere felice e rovinarmi la vita, ma dentro di me io non sarò mai tua, mostro! La tua crudeltà è tale che hai ottenuto il contrario di ciò che desideravi: ti odio! E ti giuro che se non mi renderai immediatamente la libertà che mi hai tolto ti odierò per sempre e passerò la mia prigionia escogitando il modo di ucciderti!”
Raphael emise un ringhio così rabbioso, così bestiale che il cuore di Irene ebbe un violento sobbalzo e si schiacciò a terra per la paura. Tuttavia smise di scuotere la maniglia: “Allora fa pure…e muori di fame!” le sibilò odiosamente da fuori: “Ogni tuo desiderio è un ordine, mia cara…ti lascerò qui a marcire nella tua paura, e vedrai che ben presto verrai ad elemosinare il mio amore!”
Lo udì distintamente che se ne andava a passi pesanti, bisbigliando tra i denti oscuri borbottii e maledizioni senza costrutto, e non poté impedirsi di provare sollievo e di rilassarsi. Era andato via. Non doveva vederlo, per ora, era salva. La barriera aveva retto. Ma era troppo spaventata per muoversi da lì. Si sarebbe alzata quando si sarebbe sentita meglio. Ora…ora era meglio restarsene tranquilli per un po’, e non dargli motivo di tornare. S’addormentò e dormì d’un sonno inquieto, ma dopo poche ore si destò di soprassalto, fradicia di sudore, poiché aveva sognato l’orribile maschera di demone di Raphael che le ghignava nel buio e le sue mani adunche che le si stringevano intorno alla gola. D’istinto si portò una mano al collo, ma era libera.
La fame cresceva, senza che potesse farci nulla: aveva già urinato due volte e il puzzo le dava il voltastomaco, mentre il suo stomaco continuava a contorcersi e contrarsi reclamando cibo. Se lo afferrò e fece una smorfia. Non voleva darla vinta a Raphael e implorarlo di darle qualcosa da mangiare senza farsi vedere, né uscire e cercarla lì intorno. Doveva sopportare e stringere i denti. Più facile a dirsi che a farsi. Era un giorno e mezzo che non toccava cibo e le sembrava di svenire tanto era debole. Quando aveva costruito la fortezza, non aveva pensato a portarsi dietro del cibo. Perché era stata così stupida? La paura le aveva a tal punto annebbiato la mente? Era così irrequieta che finì con l’alzarsi e fare avanti e indietro per la stanza come una belva in gabbia, con l’espressione sempre più cupa e gli occhi azzurri fissi con stizza sul pavimento sudicio.
“Cosa posso fare?” mormorò disperata: “Stephan, dove sei?” prese a mordicchiarsi ferocemente l’unghia del pollice, un vizio che credeva di aver abbandonato da bambina. In quel momento era così affamata che avrebbe divorato persino quegli enormi tazzoni di porridge bruciato che Tommaso le propinava sempre quando era piccola, per rinforzarle lo stomaco, diceva. Quante storie aveva fatto! Era sempre stata una cocciuta. Ogni volta che il domestico le metteva di fronte l’orribile porridge incrociava le braccia e si rifiutava di prendere in mano il cucchiaio. Faceva schifo, si lamentava. E Tommaso con un sorriso bonario le diceva che in certi paesi i bambini morivano di fame. Lei allora rispondeva aspramente che se anche avesse mangiato il porridge quei bambini non avrebbero smesso di morire di fame. Alla fine mandava giù due o tre cucchiaiate scarse e il resto lo sputava di nascosto in bagno.
Come aveva ragione Tommaso! Adesso avrebbe dato la vita pur di avere un bidone di quella roba davanti. L’avrebbe trangugiato senza fare storie e avrebbe pure fatto il bis. Aveva perfino l’acquolina in bocca. Pensare al domestico però la buttò ancora più giù, poiché rammentò che era morto, e proprio per mano di Raphael.
Dopo circa un’altra mezz’ora che si torturava per i morsi della fame nella sua cella, sentì tornare il suo carceriere. Immediatamente terrorizzata tornò ad accucciarsi nel solito angolo e prese a mormorare una preghiera che le facesse vincere anche questa battaglia. Non sapeva chi o cosa stava pregando: semplicemente pregava rivolgendosi ad un fantomatico Tu.
Stavolta Raphael non bussò nemmeno, si limitò a piantarsi di fronte alla porta: “Stammi a sentire, Irene” le disse con tono brusco, ma anche leggermente preoccupato, come se non si fosse aspettato da lei una simile resistenza: “Ti stai comportando da perfetta sciocca e lo sai. Restando chiusa qui dentro non dimostrerai nulla a nessuno. Ti farai solo morire di fame”.
“Ma almeno non vedrò più la tua faccia ripugnante” pensò Irene tremante, senza osare rispondergli. Alla fine pigolò con un fil di voce: “Rendimi la libertà che mi hai tolto”.
“Irene” sospirò lui sconfortato, con un che di profondamente malinconico: “Non hai perso l’abitudine di domandarmi l’unica cosa che non posso darti. Se solo volessi, se ti impegnassi un poco passeresti sopra alla mia mostruosità. Non è così difficile. Ma tu fai l’ostinata! Ti rinchiudi nella tua stanza! Perché lo fai?”
“Perché mi fai orrore!” esplose lei di colpo, esasperata da quella pantomima. Tutta la paura, il dolore, la frustrazione, l’umiliazione si raggrumarono in un pianto dirotto: “Non riesco a guardare il tuo viso orribile neanche se mi sforzo allo spasimo! Solo chi ha compiuto le più tremende nefandezze può avere un volto simile!”
Dall’altra parte della porta calò un silenzio tombale. “Adesso mi uccide” pensò Irene senza paura, con una strana calma consapevolezza: “Adesso veramente sfonda la porta e mi fa a pezzi”. Bene, che venga pure. Che concluda in bellezza la pazzia cui ha dato inizio. Sarebbe stato un sollievo.
Invece Raphael, anziché perdere la testa, si mise a parlare con tono triste e sognante, come di chi rimembra fatti avvenuti da tanto tempo e da altrettanto tempo rimossi: “Mio padre” iniziò a raccontare: “Era un uomo ricco e d’aspetto piuttosto attraente, che dalla vita aveva avuto tutto. Un castello a picco sul mare, un discreto patrimonio, tre bei figli maschi, una moglie che lo amava. Non poteva desiderare altro eppure continuava a bramare di arricchirsi di più, nonostante fosse tra i più ricchi e influenti uomini della Svezia. Così, ad un certo punto della sua vita, prese a sperperare il suo denaro nel gioco, nelle ubriacature, nel fumo, e in quanto di più squallido e venefico esiste al mondo. Era alla disperata ricerca di un piacere che finora era convinto di non avere mai trovato. E più smaniava di trovarlo, più cadeva in basso. Non trovo inconcepibile che si sia spesso macchiato le mani di sangue, anche se era molto abile a nasconderlo e a far incolpare dei perfetti innocenti.
“Le cattive azioni deformano l’anima e l’aspetto degli uomini. Uomini che fino a poco tempo prima erano persino gradevoli a vedersi assumono un che di così marcio, di così…contaminante che istintivamente gli altri gli si tengono alla larga, come se avessero uno speciale cartello che annuncia che sono malvagi. Alla lunga diventano dei veri e propri mostri, ributtanti e putrefatti dai loro peccati. Mio padre, nella sua lenta caduta, si rendeva conto di questo, e ne era terrorizzato. Voleva restare sempre uguale, voleva che nessuno si accorgesse della sua doppia vita. In quello stesso anno ero nato io, la consolazione di mia madre, ed ero così bello, come un sole, che lei passava le giornate baciandomi e vantandosi con tutti del mio aspetto angelico. Ero un tesoro, ecco tutto. Più bello persino del terzogenito, Viktor, mio fratello.
“Mio padre non voleva bene a niente e nessuno. Non ai suoi figli, che vedeva solo come eredi, non a mia madre che gli dava solo una facciata d’onore, né a tutti gli amici di cui amava circondarsi. Tantomeno a me, che gli mostravo la mia faccia d’angelo tutti i giorni. Anzi, penso che nel suo inconscio mi odiasse profondamente. I suoi peccati pretendevano di esigere il loro prezzo tramutandolo in un vecchio orribile e cattivo, così fece…so che sembra impossibile…un patto con un demone. I demoni esistono, Irene, e spesso e volentieri si sono fatti anche vedere. Si mise in contatto con questa…presenza e la implorò di mantenerlo bello e angelico come sempre. Tutti i peccati che aveva, e avrebbe compiuto, sarebbero ricaduti…su di me. Il figlio più piccolo. Avrebbero deformato me, anziché lui. Un bambino innocente che non aveva nessuna colpa se non quella di essere figlio di un tale mostro d’egoismo. Il demone accettò.
“Da allora, ogni sua cattiva azione era un’ulteriore deformità per me. Più lui cadeva in basso più io mi deterioravo e diventavo questa…cosa. Non c’era più traccia del bimbo bellissimo che ero stato. Ero un mostriciattolo ributtante a vedersi, putrefatto, schifoso, con la faccia di un adulto, e una tal malvagità nei lineamenti che mia madre, la mia povera madre che tanto mi aveva amato, inorridiva al solo vedermi e mi rifuggiva. I miei fratelli non mi avevano più visto da quando avevo cominciato a trasformarmi così e mio padre, da parte sua, era terrorizzato da me. Ogni volta che mi vedeva era come se scorgesse l’immagine del vero se stesso, e di tutti i suoi peccati. Mi fece rinchiudere nella torre dicendo che lo faceva per salvare l’onore della famiglia, ma io sapevo che lo fece unicamente per non vedermi più.
“Passai undici anni rinchiuso in quella torre, solo, senza amici, senza rapporti, senza neanche un barlume di felicità, a contemplare dall’alto della mia finestrella le vite degli altri e a desiderare di potermi unire a loro, ma capitava sempre più spesso che guardandomi allo specchio notassi un ulteriore peggioramento, un ennesimo allontanamento dalla razza umana, perché mio padre aveva compiuto un altro delitto. E lo odiavo, di un odio feroce e selvaggio, ma allo stesso tempo l’amavo più di me stesso e avrei voluto soltanto che ogni tanto comparisse anche solo per pochi minuti. Viktor, mio fratello, l’unico ad avermi visto, invece, saliva spesso, quasi ogni giorno, per torturarmi. Mi prendeva in giro, mi faceva domande circa la mia vita sociale, sapendo di farmi soffrire, e, poiché ero un bambino molto gracile, mi faceva del male e rideva, rideva, con tutti i suoi denti bianchi e gli occhi pieni di divertimento. Ogni tanto guardavo i suoi denti bianco perla e mi sembrava simile ad una belva dai denti acuminati che giocava col suo pezzo di carne, prima di mangiarlo. Mi faceva una terribile paura. Era bello, ma così cattivo, così sadico che aveva comunque una sua mostruosità.
“Il mio odio era cresciuto sempre più insieme al desiderio insopprimibile di liberarmi dalla mia prigione reale e psicologica e conoscere il mondo. Ero condannato a causa di mio padre, ma non per questo avrei passato il resto della mia vita ad osservare dall’alto, come spettatore. Avevo visto così tante cose, da lassù! Avevo visto amici tradirsi e ricongiungersi, abbracciarsi e ridere insieme, avevo visto madri e figli passeggiare mano nella mano, avevo visto innamorati intrecciare dolci promesse sotto la mia finestra ed ero a conoscenza di tutti gli intrighi del palazzo. Invidiavo tutta quella gente che dava per scontato ciò che aveva e bramavo di avere un po’ anch’io di quelle gioie, anche col mio sventurato volto.
“Poi una sera finalmente venne mio padre. Alla vista della sua faccia immutata provai una rabbia intensa, cocente. Esordì comunicandomi che mi avrebbe presto mandato in un paese lontano, dove avrei visto cose meravigliose, e che mi avrebbe liberato dalla torre. Io però vidi il suo sicario più fidato che aspettava sulla tromba della scala a chiocciola e capii, in una folgorazione improvvisa: finalmente aveva trovato il fegato di farmi fuori e cancellare del tutto le sue colpe. Sapevo esattamente cosa aveva intenzione di fare: mi avrebbe preso sottobraccio per la prima volta, sorridendomi falsamente, mi avrebbe accompagnato giù per le scale e lì un inaspettato colpo d’ascia mi avrebbe mozzato la testa senza che quasi mi rendessi conto di niente. Ecco. Semplice e pulito. Si sarebbe liberato di me, di questo figlio così scomodo, in quattro e quattr’otto. Cancellando così anche i suoi peccati.
“Ma non l’avrei permesso. Non tanto per me stesso, ma perché non era giusto, non era giusto che un farabutto, un assassino come lui la facesse franca in questo modo. Non aveva calcolato che gli anni passati nel buio della torre mi avessero consentito di sviluppare la vista oltre il normale, e che avevo avvistato il sicario. Finsi di credere alle sue menzogne e mi avviai con lui giù per le scale. Quando lo scagnozzo si fece avanti, ero pronto: mi spostai di scatto, evitai il colpo, gli strappai di mano l’ascia e fui preso da una sorta di ebbrezza, di scarica di adrenalina. Ora, con l’ascia in mano, ero più potente di loro, finalmente mi avrebbero temuto! Un colpo, e il sicario cadde a terra faccia in giù. Prima che lo uccidessi, mio padre mi lanciò un’occhiata d’un odio tale che non avrei dimenticato più quello sguardo. Poi ricordo solo un silenzio pacificatore e l’ascia rossa di sangue tra le mani, le mie mani putride. Ero…sollevato. Avevo fatto giustizia, avevo punito mio padre per il male che mi aveva fatto. Ero eccitato e felice di averlo ucciso, e non me ne pentivo affatto. Meritava di morire. La vista del sangue mi dava fastidio, e quei cadaveri martoriati in qualche modo mi toccavano. Ma era lì che stava il bello: trovare conferma a quello che gli altri dicevano di me. Che ero un mostro. Crudele, per giunta.
“Viktor mi trovò in questo stato allucinato, quando andò a vedere cosa fosse successo. Alla vista di nostro padre che giaceva col cranio spaccato e di me che me ne stavo lì a ridere con l’ascia insanguinata in mano rimase scioccato e vedere la sua faccia sadica sconvolta dalla paura fu un piacere acuto e inaspettato. Anche lui mi aveva fatto del male, senza tener conto minimamente dei miei sentimenti. Vibrai l’ennesimo colpo e anche lui cadde a terra come un sacco. Allora tornai in me e mi resi conto di quello che avevo fatto. Avevo ucciso mio padre e mio fratello. Caddi in ginocchio e piansi sui loro corpi, chiedendo perdono. Ma ormai ero così segnato dai peccati che quello non avrebbe fatto molta differenza. Se restavo lì mi aspettava solo il carcere e non volevo questo destino, ero ancora alla disperata ricerca di quei piccoli successi che avevo contemplato dalla mia torre. Mi coprii il volto col drappo e fuggii.
“Vagai a lungo e senza meta, tormentato dall’enormità di quanto avevo fatto. La notte terribili incubi popolati dalle facce di mio padre, di Viktor e del sicario mi facevano impazzire e il giorno vivevo nella macchia, sempre coperto col drappo, sopravvivendo a stento, con le poche capacità che avevo. Mi infilai nella stiva di una grossa nave diretta in Spagna e mi aggirai nelle stanze buie senza che nessuno si accorgesse di me, e per la prima volta assaporai l’intenso piacere di strisciare nell’oscurità e di spiare quelli intorno a me. Ancora una volta mi nutrivo di quegli sprazzi di vita, e mi immaginavo che facevo il bagno, mi sdraiavo sulle sdraio e prendevo il sole come loro. Ero un ragazzino di dodici anni, avevo i desideri di un ragazzino di quell’età: giocare, scherzare spensieratamente, bagnarmi in quell’acqua gelida e corroborante, conoscere dei coetanei. Ma ero abbastanza disincantato da rendermi conto di non poterlo fare, non con questa maledetta faccia, l’unico regalo che mio padre mi ha fatto. Nella mia mente si susseguivano varie ipotesi, vari mezzi di salvezza: plastiche facciali, rimedi di erbe, impacchi…ma dove avrei potuto fare tutto questo? Se solo osavo togliermi il drappo, mi avrebbero linciato in massa.
“Approdai in Spagna e ripresi a vivere di stenti. Ero ormai disperato e pronto a lasciarmi morire. Non avevo uno scopo, ma soltanto sogni e desideri senza costrutto. Non sapevo fare nulla e non potevo usare il mio vero nome perché ormai era stato associato a quello dell’assassino di Hugo Lawrence e di suo figlio. Ero senza soldi e per lo più rubavo utilizzando la mia agilità o, se serviva, mi toglievo il drappo e la gente si spaventava talmente che mi dava tutto senza neanche controllare che fossi armato o meno. La mia deformità mi era utile, per la prima volta! Insomma, una volta che vagavo moribondo per un vicolo di Toledo, mi raccolse uno zingaro, un uomo calcolatore e probabilmente più crudele di mio padre, ma lì per lì mi parve un angelo. Mi mise una mano sulle spalle e, quando mi girai terrorizzato, mi rassicurò dicendomi che era dalla mia parte e mi offrì una caramella che, ne sono sicuro, era probabilmente imbevuta di liquore o di qualche robaccia che prende quella gente.
“Era la prima volta da quando ero nato che qualcuno non mi voleva male, così mi sciolsi in pianto e lo abbracciai. Lui mi strinse a sua volta e pian piano mi tolse il drappo. Alla vista del mio volto non si spaventò affatto, anzi, mi prese con sé e disse che insieme avremmo guadagnato una fortuna. Io lo seguivo come un cane fedele. Mi aggregai al suo circo, una grottesca carovana di ceffi e di prostitute. Il mio numero era semplice: entravo in scena e me ne stavo lì, senza drappo, a farmi ammirare dal pubblico. All’inizio ero molto timido e scappavo via, ma dopo un po’ imparai ad ignorare le reazioni di quella gente, che erano o di terrore, o di meraviglia, o di scherno, o a volte perfino di adorazione. Ero chiamato The Freak, un termine inglese che mi son sempre chiesto perché si usasse in Spagna, ma forse tutti vogliono essere un po’ inglesi.
“In quel circo ci passai quattro anni. Quattro anni passati a vivere nel gradino più basso della società, con altri emarginati come me, e a spostarmi di città in città per mostrare il mio sventurato volto alla gente normale, che era ancora un mare di facce inavvicinabile che mi fissava meravigliato. Avevo sedici anni e finalmente mi resi conto di quanto il mio mentore si fosse approfittato di me: intascava regolarmente le monete che mi venivano gettate addosso durante il numero e se ne andava a bere con gli altri del circo e ad andare a puttane, lasciandomi nel mio tendone, perché io l’amore non l’ho mai nemmeno potuto comprare, e d’altronde non l’avrei mai fatto. Le rare volte che provavo a protestare, mi picchiava col suo bastone e mi dava sempre quelle sue immonde schifezze per farmi dormire.
“Scappai anche dal circo, e la mia fu un’uscita di scena davvero magistrale! Una notte che tutti dormivano, smaltendo la sbornia pesante, sgattaiolai fuori dalla mia tenda, entrai in quella del capo del circo e rubai tutti i suoi risparmi e il denaro guadagnato quel giorno, nonché diversi vestiti e del cibo, poi diedi fuoco a tutto l’accampamento e mentre me ne andavo vittorioso udivo le loro urla, dietro di me, che erano come una musica dolce e piena di vendetta. Ero così amareggiato, ero stato trattato in modo così vergognoso dal mondo che fare del male non mi turbava, anzi, la prendevo come una sorta di rivincita. Di ribellione.
“A questo punto mi ero definitivamente stancato di cercare di piacere alla gente. Mi trovavano un mostro? Ebbene, mi sarei arreso. Volevo soltanto trovare un luogo in cui passare il resto della vita in pace e in silenzio, da solo, a coltivare il mio intelletto. Così presi a viaggiare sotto le mentite spoglie di R, col volto sempre coperto, perché mostrarlo non era più nelle mie intenzioni. Volevo dimenticarlo io stesso, scacciarlo dalla mente e immaginarmi normale sotto al mio drappo nero. Osservavo ancora da lontano la vita degli altri, e continuavo ad invidiarli, soprattutto quei giovani che per le strade camminavano con una bella e dolce fanciulla accanto, ma sapevo che non era roba per me. Certo, mi sarebbe piaciuto passeggiare con una ragazza stretta al mio petto, ma cosa potevano provare per me le donne, se non orrore? Rifuggivo loro con ancor più vigore che ai maschi.
“Il posto perfetto si faceva attendere e disperavo. Forse non esisteva posto per me, forse ero condannato. E invece lo trovai. Per caso, andandoci a sbattere contro. Heather Ville. Quando la vidi divenni euforico. E anche lei, la mia vecchia, sono certo che anche lei gioì di avere trovato finalmente il proprietario perfetto. Eravamo fatti l’uno per l’altra. Lei non sarebbe inorridita nel vedermi e si sarebbe lasciata toccare e abitare senza problemi. Contrattai con l’agente immobiliare che se ne occupava. Avevo una certa quantità di soldi che avevo rubato al circo e comprai la sua approvazione. Andai a vivere nella mia Heather Ville e…beh, fu come se fossimo due novelli sposi. Io la esploravo e lei mi si rivelava con piacere, svelandomi i suoi segreti. Scoprii il nascondiglio nei muri e me l’appuntai nella mente e modificai ogni stanza secondo il mio gusto. Non ne uscivo mai, mi sentivo bene solo lì. Ero convinto che Heather Ville fosse mia e mia soltanto e che nessuno l’avrebbe potuta abitare. Avevo ventiquattro anni.
“Ti risparmio il resto. Quel maledetto agente immobiliare, non so come, scoprì chi ero e venne a minacciarmi. Non potevo permettere di essere sfrattato dalla mia Heather Ville. Lo uccisi. Non era la prima volta che uccidevo, ma fu la peggiore, perché quell’uomo non mi aveva fatto alcun male. Mentre lo facevo, percepivo chiaramente che era sbagliato e immorale, ma era più forte l’egoismo, quell’egoismo che mi sentivo in dovere di possedere dopo tutto quello che avevo passato. Però quell’omicidio mi scosse profondamente. Ora sapevo di essere davvero un mostro, mio padre non c’entrava. Heather Ville era una casa fantastica, ma ero solo lì dentro, per sempre solo. Quando bruciai il cadavere nella fornace, non badai apposta ad usare cautela e scoppiò l’incendio. Mi misi al centro del salone da ballo, a braccia aperte, aspettando di essere arso dalle fiamme. Ma nemmeno di morire mi era consentito: arrivarono i pompieri e tutte quelle altre persone e spensero l’incendio. Fui accarezzato dall’idea di ucciderli tutti, ma alla fine invece mi nascosi nei muri e lì rimasi per un tempo che mi parve infinito, schiacciato nell’oscurità come un verme, a scrutare gli agenti immobiliari, i poliziotti, i signori del luogo che violavano la mia Heather Ville.
“Dai loro discorsi compresi che c’era un certo acquirente, un tale, di nome Giorgio Lancaster, che intendeva acquistare la casa e andarci a vivere. Venni preso dalla furia. La mia Heather Ville data a un altro? Immediatamente escogitai il modo di riprendermela appieno: sarei rimasto nascosto finché quel signore non sarebbe restato solo, e allora l’avrei ucciso e mi sarei appropriato di ciò che era mio. Ovviamente avrei fatto fuori anche quelli che sarebbero venuti con lui. Attesi, paziente, nei cunicoli del mio nascondiglio, che la cosa fosse fatta, ed effettivamente dopo qualche settimana i nuovi abitanti arrivarono. Erano due uomini insignificanti e una ragazza, la figlia di quel fantomatico Giorgio Lancaster. Gli uomini non mi interessarono, fui invece molto colpito dalla ragazza, non tanto per la sua evidente bellezza, ma per la luce di ammirazione con cui guardò Heather Ville entrando, ben diversa dalla diffidenza degli altri due. Si lanciò subito in un’attenta esplorazione e io la seguii attraverso i muri, anziché procedere col mio piano.
“Mi piaceva guardarla, e mi divertivo nel notare tutti i sottili cambiamenti della sua espressione mentre esplorava le stanze. Si stupiva nel trovare oggetti che appartenevano a me, li esaminava con attenzione, si soffermava su ogni minimo dettaglio, ed era sempre affascinata. Mi piaceva guardarla senza che lei potesse vedere me, e così rimasi accanto a lei. Quando feci rumore, immediatamente lei andò al muro e si accorse che era cavo. Questo definitivamente mi catturò: decisamente, era una ragazza singolare! Appresi che si chiamava Irene e da allora non la lasciai un attimo. La notte la guardavo dormire dal buco nel muro, assorto dal suo viso, e il giorno la ascoltavo suonare l’arpa, la osservavo leggere, mi stupivo sempre più della calma con cui viveva ad Heather Ville, come se la trovasse fantastica come me. In poco tempo mi resi conto che non avrei mai potuto ucciderla, ma anzi, che ero felice che fosse venuta. Fui spaventato dall’emozione calda che mi cresceva in petto e per diverso tempo stetti chiuso in riflessione, meditando che forse avevo di fronte un’opportunità, troppo dolce per essere ignorata.
“Così decisi di correre un rischio. Le parlai, la notte, dal mio nascondiglio, senza farmi vedere. Questo poteva portare ad una denuncia da parte sua, ad uno spavento terribile o peggio alla sua immediata partenza. Ma invece la ragazza mi rispose. Fui preso dalla gioia. Parlammo a lungo e capii che la amavo e che tutto quello che desideravo era farne la mia sposa e vivere con lei qui ad Heather Ville. Ma sapevo che per essere amato a mia volta non dovevo mai farle vedere il mio viso: era tutto calcolato. Mi sarei mostrato a lei coperto dal drappo e anche nell’avvenire avrei avuto l’accortezza di celare le mie fattezze. Ma purtroppo quando uccisi il suo domestico, tutto andò a monte, e la terra mi franò sotto i piedi”.
Raphael, con quel lungo e struggente racconto, narrato tuttavia per tutta la sua durata con un tono neutro e trasognato, che descriveva ogni fatto, anche quelli più cruenti, senza mutare inflessione, le aveva aperto la sua anima, s’era svelato del tutto e s’era strappato di dosso segreti che da tempo covava nel cuore. Irene, ancora raggomitolata a terra, non piangeva più, anzi, ascoltava, rapita, la storia della vita di quell’uomo e gradualmente tornava la pietà. Certo, ancora il pensiero di quel viso orrendo la spaventava, ma sentendo parlare Raphael non poteva fare a meno di compatirlo per quello che gli era stato fatto dal padre. E si ravvisava un amore nei suoi confronti… nei confronti di Irene…un amore che non era nulla di ambiguo, ma solo amore…era tutto il resto ad esserlo…lui aveva soffocato la purezza di quel sentimento sotto l’egoismo, l’aggressività e l’amarezza e per questo lei aveva creduto che non l’amasse. Ma la amava. Questo era innegabile. Provava per lei gli stessi sentimenti che lei provava per Stephan, forse anche più forti. E con quale cuore avrebbe potuto scacciarlo ancora? Se la amava, allora c’era la speranza che prima o poi s’impietosisse e la lasciasse libera. Ma Irene sapeva che quel racconto non cambiava nulla: Raphael era troppo preso dalla sua “rivincita” per pensare di renderle la libertà. Forse per lui il semplice fatto di non averla uccisa era una sufficiente prova d’amore. Era talmente distaccato dalla razza umana che l’amore lo interpretava a modo suo, e rinchiuderla dentro Heather Ville per costringerla a sposarlo era, probabilmente, il suo modo di amarla.
“Fammi entrare, Irene” riprese lui con voce profondamente stanca, stanca e triste: “Sono solo venuto a portarti da mangiare. Entrerò, appoggerò a terra il vassoio e poi me ne andrò. Ti lascerò qui, se è questo ciò che vuoi. Ma fammi entrare. Morirai di fame se perseveri nella tua ostinazione”.
Aveva ragione, e Irene lo conosceva abbastanza bene da capire che in quel momento era nei suoi attimi di calma e che era sincero, non le avrebbe fatto nulla. Quando era fuori di sé lo sapeva poiché assumeva quel tono bestiale, che presagiva guai per tutti. E poi aveva fame, così tanta fame che la paura era stata in qualche modo messa in secondo piano. S’alzò lentamente, tutta tremante, ed esitò con gli occhi fissi sulla porta. In fondo non era una donnicciola spaurita qualunque! Avrebbe sopportato la sua vista e avrebbe superato la ripugnanza che le ispirava. Si trattava solo di pochi minuti!
Chiuse gli occhi, prese un profondo respiro e spostò la valigia da contro la porta, poi tolse la fettuccia di metallo: “Aspetta!” strepitò quando lo sentì muoversi: “Non entrare ancora!” lui si fermò. La ragazza, tutta pallida, si ritirò di nuovo nel solito angolino e s’accucciò, cosicché tra lei e l’uscio c’era il grosso letto in mezzo, poi balbettò: “Bene…entra”.
Si fidava di se stessa, era certa che l’avrebbe guardato con aria del tutto impassibile, ma allorché lui si fece avanti cautamente, con un vassoio pieno di cibo tra le mani, era così rivoltante, il suo volto marcio e putrefatto era così insopportabile a vedersi, gli occhi quasi bianchi erano così enormi in mezzo alla massa di capelli fini e unti, che Irene esalò un gemito e subito voltò la testa dall’altra parte, ma era come se quella maschera da cadavere le stesse ancora davanti. Era troppo. Non riusciva proprio ad abituarsi.
Lui emise un lungo sospiro rassegnato, si fece avanti coi suoi passi silenziosi e appoggiò il vassoio sul comodino di fianco al letto. Irene continuava a tenere il capo voltato, e ne percepiva la vicinanza, come se esalasse come un alito di morte. Non poteva farci nulla, era troppo orribile. Era come guardare un cadavere dissotterrato dopo diversi anni. Oh, perché, perché gli aveva tolto il drappo?!
Dopo aver svolto il suo compito, Raphael si fermò, esitante, accanto al letto. Chissà, forse voleva parlare ancora, stavolta faccia a faccia, o forse vederla in quelle condizioni, magra, sporca, sofferente, coi capelli adornati da ciocche grigie, l’aveva turbato e forse l’aveva indotto in un po’ di rimorso. Lei però lo prevenne dicendo brutalmente: “Ora puoi andare”.
Stavolta osò gettargli un rapidissimo sguardo e vide che tutto il viso, quell’orribile viso, si era contratto in una smorfia di dolore. La cosa la fece sentire in colpa, ma non abbastanza da rimangiarsi quelle parole. Raphael si ritirò lentamente, camminando come un gambero, e infine si richiuse piano la porta alle spalle, dandole un’occhiata abbattuta, come quella di un cane che è stato scacciato a bastonate. Allorché fu uscito, lei tirò un sospiro di sollievo e divorò in men che non si dica tutto il cibo nel vassoio.
“Devo assolutamente liberarmi” pensò: “Non posso restare prigioniera qui dentro. Cosa avrà pensato Stephan? Devo piantarla di starmene chiusa qui come un topo in trappola e cercare un’uscita qualsiasi. Deve esserci!”
 
Attese circa una ventina di minuti, tanto per assicurarsi che Raphael se ne fosse andato altrove, poi, armata di un vacillante coraggio, socchiuse la porta e diede uno sguardo attento al corridoio buio: nessuno. Bene. Uscì cautamente dalla stanza, attenta a non produrre rumore, e si guardò intorno alla ricerca di una via di uscita. Non trovò nulla, ma non si fece scoraggiare: Heather Ville era grande, avrebbe di sicuro trovato qualcosa.
Si fece una mappa mentale della casa tentando di ricordarne l’ubicazione che aveva appreso durante il periodo che vi aveva vissuto. Al secondo piano c’erano tutte le orribili stanze di Raphael, e non era impossibile che ora lui fosse proprio lì, quindi era meglio evitarlo. Lei si trovava al primo piano, e non rammentava alcuna possibile scappatoia lì, a parte le finestre che però erano tutte chiuse. Non le restava che tentare al piano terra. Scese le scale in punta di piedi, terrorizzata al pensiero che il mostro la sentisse e stavolta le facesse qualcosa di terribile. Già si vedeva appesa per i piedi nella stanza della fornace. Purtroppo il legno era vecchio e consumato dalle tarme e, per quanto i suoi passi fossero lievi e avesse i piedi coperti solo da un paio di sottili calzini di seta, scricchiolava. Ogni qualvolta si sentiva uno scricchiolio più forte degli altri si bloccava impaurita e levava gli occhi al soffitto, tesa a captare il minimo rumore. Non udendone alcuno, riprendeva ad avanzare.
Pensava a Stephan, si rammentava che oramai l’aereo che avrebbe dovuto portarli a Parigi era già bell’e che partito, e veniva presa da una gran disperazione. Cosa aveva pensato quando non l’aveva più vista? Si era reso conto della sua stupidità e dei suoi sciocchi rimorsi di coscienza e di tutto quello che l’aveva spinta alla fatale decisione di tornare ad Heather Ville? Guardando l’anello che le brillava all’anulare, rifletté che il destino aveva in tutti modi impedito che diventasse sua moglie.
Al pianterreno era tutto, come al solito, avvinto dalle ombre. I segni della devastazione che Raphael aveva inflitto a quei luoghi nel tempo in cui era stata in città c’erano ancora, anche se meno evidenti di prima: qualche coccio qua e là, il lampadario mancante, alcuni mobili rovesciati. Il portone era sempre chiuso, e se dall’esterno si poteva sperare di forzarlo, dall’interno era assolutamente impossibile. Irene però non si fece scoraggiare e si dedicò ad un’attenta perlustrazione.
Ripassò per tutte quelle camere in cui aveva trascorso le lunghe giornate di solitudine nei primi tempi, e come allora aveva la sensazione di essere alla ricerca di qualcosa, che, se prima era una semplice curiosità da brava amante di misteri, adesso era vero e proprio bisogno di uscire. Rientrò nelle varie sale da lettura in cui era stata il primo giorno che era entrata ad Heather Ville, ma ora ogni piccola scoperta aveva un senso assai diverso. I libri, i diari scritti a mano erano testi vergati da Raphael, gli occhialetti cui mancava una lente erano suoi, e ogni buco nel muro le rammentava il nascondiglio nascosto. Quando entrò nella stanza della musica, e vide la vecchia arpa accanto allo sgabello, quasi senza volontà allungò una mano a pizzicarne le corde…s’interruppe in tempo, ricordando di non fare rumore. Trovò perfino, buttata sul divano bucherellato di un salottino pieno di scaffali gonfi di volumi, la sua copia di “Orgoglio e Pregiudizio”, che aveva letto almeno tre volte e che credeva d’aver perso. Le si avvicinò trasognata. Sì, ricordava così si provava a starsene seduti su quella poltrona, con una coperta addosso e il libro aperto davanti. Un senso di rilassamento assoluto. Allora non era prigioniera, anzi, era innamorata di Heather Ville e di tutti i suoi misteri e non c’era giorno in cui non se ne meravigliasse.
Nel mentre osservava il libro, si accorse che la copertina impolverata era illuminata da alcuni raggi di sole. Perplessa, seguì la direzione di quei raggi e vide una cosa di cui non si era mai accorta: una minuscola finestrella ovale sopra agli scaffali, la cui scarsa luce a malapena rischiarava la poltrona. Da quell’altezza non vedeva bene, ma…sembrava semiaperta!
Irene riprese colore e parte della speranza che aveva perduto. Forse poteva uscire di lì! Andò in direzione della finestrella e la contemplò: era troppo alta. Doveva costruirsi un rialzo. Se era riuscita a fabbricare una fettuccia di metallo dalla struttura di un materasso, avrebbe fatto anche questo! Si guardò intorno attentamente e individuò, in un angolo, un possente poggiapiedi di mogano, che era abbastanza alto. Rianimata dalla selvaggia determinazione di scappare, lo afferrò e con una spinta faticosa lo rovesciò di lato. Il poggiapiedi tonfò in orizzontale con un botto sordo e la ragazza si immobilizzò, terrorizzata: stette qualche attimo con l’orecchio teso, ma non sentì alcun rumore. Allora riprese a respirare normalmente.
Si mise in verticale rispetto al poggiapiedi, ci si appoggiò con la spalla esile e, digrignando i denti, tentò di spingerlo verso la finestrella. Era pesante come un macigno e procedeva al rallentatore, ma non si scoraggiò e continuò a premerci con tutto il peso, ansimante. Diavolo, doveva arrivarci! Doveva farcela! “Su, bella, su” bisbigliò tra i denti serrati dallo sforzo: “Ce la puoi fare!”
Scivolando sul pavimento lurido, il poggiapiedi strideva fastidiosamente, ma il rumore era troppo fievole perché potesse rivelarsi un problema. Alla fine, a furia di spintoni, riuscì a metterlo contro il muro sottostante la finestrella luminosa e si concesse un sorriso esausto: praticamente era fatta. Era fuori! Era libera! Le bastava uscire da Heather Ville, poi se la sarebbe fatta di nuovo a piedi fino alla città e si sarebbe buttata tra le braccia di Stephan, dopodiché dritti all’aeroporto e…Parigi. Sospirò beata al pensiero.
Salì in piedi sul rialzo di fortuna e oscillò, reggendosi in equilibrio a stento. Sollevò lo sguardo sulla finestrella e cercò di aprirla meglio. Aveva qualche difetto e dovette tirare e fare forza, ma alla fine riuscì ad aprirla almeno per metà. Era sempre più euforica, sempre più vicina all’agognata liberta. Quasi ne sentiva l’odore. Si mise in punta di piedi e cacciò la testa oltre la finestrella: l’aria pulita e pervasa dall’odore dell’erba bagnata le pizzicò le narici.
In quel momento, proprio mentre stava per issarsi in alto, un rumore appena percettibile la riscosse bruscamente. Gettò uno sguardo dietro la spalla e vide con orrore la maniglia della porta nera del salottino che si piegava verso il basso. Immediatamente divenne pallidissima, il cuore prese a pomparle frenetico e le si liquefecero le gambe per la paura che Raphael entrasse e la trovasse in piedi sul rialzo, nell’atto di uscire. Come diavolo aveva fatto ad arrivare così silenziosamente?! Non poteva rinunciare ora che era arrivata così vicina alla salvezza, non poteva! Mossa dalla più nera disperazione, la povera fanciulla ignorò la porta che si stava aprendo e si diede una goffa spinta verso l’alto, aggrappandosi ai bordi della finestrella con le piccole mani tremanti e protendendosi verso l’esterno. Doveva farcela! Doveva!
Dietro di lei Raphael entrò sospettoso, la trovò in quello stato e gettò un tremendo grido di rabbia: “No!”
Quel grido terrorizzò ancor di più la poverina, che continuò a scivolare tentoni verso la libertà. Ormai era fuori dalla finestra per metà, le bastava un’ultima spinta e sarebbe stata salva! Allorché tuttavia fece per sollevare il piede destro e scavalcare il davanzale, se lo sentì arpionare da una mano adunca che lo serrò in una presa d’acciaio. Fu allora che urlò. Insieme rabbiosa e terrorizzata, ruotò su se stessa e scorse l’orribile Raphael che stava sotto la finestrella e la fissava con il viso stravolto dal furore, la mano stretta sulla sua caviglia. La strattonò furiosamente per liberarla, ma il mostro le diede un secco strattone e le fece lasciare la presa sulla finestrella. Tentò goffamente di aggrapparsi ai bordi, ma le sue dita scivolarono via e cadde rovinosamente a terra.
Batté la testa con violenza e per una breve manciata di secondi vide tutto nero. Quando si riprese boccheggiando era sdraiata a terra e Raphael incombeva su di lei, tenendole puntati addosso i folli occhi chiarissimi: “Maledetta! Cosa avevi intenzione di fare?!” la apostrofò con voce d’inferno come il suo volto. Irene guardò quella faccia ripugnante e provò un odio profondo e una delusione immensa. Ci era arrivata così vicina! Esplose in un urlo e con mossa fulminea gli assestò un calcio all’inguine con tutta la forza che aveva. Raphael sgranò gli occhi e si piegò malamente su se stesso con un grido strozzato. L’aveva colto di sorpresa: mentre cadeva in ginocchio la fissò con occhi colmi d’odio.
Approfittandosi del colpo basso andato a segno, Irene si rialzò subito in piedi, ignorando le fitte che accusò in più punti e, ormai del tutto dominata dall’istinto, si voltò e corse nuovamente verso la finestrella. Sapeva solo che voleva andarsene, ad ogni costo. Raphael digrignò i denti e i suoi occhi infossati mandarono lampi: “No!” ripeté. Si lanciò in avanti e l’afferrò per i capelli, trattenendola. Irene gridò per il dolore allorché quelle dita ricurve le strattonarono la chioma, strappandole diversi capelli, e si sbilanciò. Raphael, ringhiando come una belva, continuò a tenerla per i capelli e cercava di trascinarla verso di sé: “Non scapperai!”
Le stava facendo un male terribile. Era un mostro, nient’altro che un mostro crudele che l’aveva privata del suo innamorato, dei suoi sogni e della sua libertà. Irene smise di opporre resistenza di colpo e, come quando nel tiro alla fune viene lasciata la corda, si sbilanciarono entrambi e caddero a terra, con lei sopra, e lui sotto. La ragazza gridò: “Io ti uccido!” lo graffiò ripetutamente sul viso, su quel viso orribile dalla carne fragile e gelida come quella d’un morto su cui le sue unghie furiose lasciavano piccoli graffi. Non aveva più paura, era troppo arrabbiata, troppo disperata. Raphael emise un ringhio roco e l’afferrò per i polsi, allontanandole le mani e torcendoglieli: “Brutta vipera ingrata! Io ti ho ceduto Heather Ville! Ti ho dato tutto ciò che avevo!”
Irene tentò di liberare i polsi, con le lacrime che le rotolavano sulle guance. Scalciò con furia per colpirlo di nuovo tra le gambe, ma lui, che stavolta era preparato, la sbatté rudemente a terra ed ora era Raphael ad essere sopra di lei, e lei a dibattersi sotto di lui come un pesce fuor d’acqua, urlando come una matta e chiedendo aiuto al nulla. Di colpo ce l’aveva sopra, quel volto mostruoso contorto dalla furia violenta, quegli occhi che sprizzavano una luce assassina, ed era in preda al terrore, obnubilata dalla paura di morire. Prima aveva sperato che la uccidesse; ora che era venuto il momento invece avrebbe voluto con tutta se stessa rimanere viva. Era forse questo che aveva provato Tommaso? Oppure con lui era stato più rapido?
“Smettila di urlare!” grugnì Raphael. Le premette una mano sulla bocca e improvvisamente Irene non riusciva più a respirare. Con la mano le copriva tutto il povero viso sconvolto dalla paura, quell’orribile mano putrida dal sentore di morte, e per quanto cercasse di morderla e staccarsela di dosso, non riusciva, lui era più forte. Aveva bisogno di aria! Il soffocamento le aveva ulteriormente riempito di sangue il cervello e le aveva impedito di formare pensieri coerenti. C’erano solo il terrore e il feroce desiderio di sopravvivere, che riposa in tutti noi. Si dibatteva con tutte le forze sotto di lui ma non lo smuoveva di un millimetro. Con i piccoli pugni chiusi lo colpì dove riusciva a mettere le mani, senza fargli nulla.
“Ti amo tanto, Stephan” pensò in quell’orribile agonia. Poi, improvvisamente, Raphael le staccò le mani dalla faccia e si ritirò, lasciandola libera. Si accasciò a terra respirando a pieni polmoni, tremante, sconvolta, chiedendosi perché l’avesse lasciata stare. Mai, in vita sua, era arrivata così vicina alla morte. Quasi ne aveva captato l’alito gelido sul collo. Piangeva, il corpo sussultante, percorso da rapidi spasmi di choc, e strisciava dolorosamente a terra, incredula di essere ancora viva.
Poi, quando sollevò un poco gli occhi allucinati e scorse l’orrenda faccia di Raphael che la fissava sconvolta e inorridita proprio lì accanto, non resse quest’ennesimo colpo e con un lungo gemito svenne, precipitando nelle tenebre.

 
  
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