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Autore: EvilGrin    28/06/2012    0 recensioni
"Il treno prende a rallentare, le rotaie sibilano e cigolano nel fermarsi in un fischio ferroso che fa quasi male alle orecchie da sentire. Sono le 23 e 17, sì, è la mia questa. Mi alzo, non rispondo al tizio, non so nemmeno come si chiama, semplicemente recupero la borsa, riallaccio sfacciatamente la camicetta a scacchetti bianchi e rossi ed altrettanto semplicemente mi avvio verso la porta."
Genere: Horror, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Chiedo umilmente venia per la pausa presa senza alcun preavviso dalla scrittura dei capitoli, ma è vacanza anche per me e non ho potuto fare a meno di staccare un poco dallo schermo del pc. Ad ogni modo, questo è il quinto capitolo e, fatte le poche premesse di cui sopra, godetevi i risvolti. =)

*§*EvilGrin*§*

 

L’interruttore scatta in un lieve “click” che riesco a sentire a malapena, lo sguardo ci mette un po’ ad abituarsi a tutto quel chiarore che si sprigiona dalle luci asettiche della stanza. Le mattonelle per terra sono pallide, così come anche le mura e tutto il resto. Si presenta ai miei occhi come un laboratorio, sembra molto simile ad uno studio dentistico per molti versi, ma soprattutto per quella poltrona di un celeste pallido posizionata un po’ sulla sinistra, di fronte ad una lamina in metallo piazzata sul muro, ci sarà circa un mezzo metro da per terra a quella lastra, sotto di essa, a posto delle mattonelle chiare che caratterizzano la muratura del posto vi è una grata, questa sì, al contrario di tutto il resto presente lì dentro, è arrugginita e sembra poter cedere da un momento all’altro. La stessa grata non s’arresta al terreno, ma continua la sua esistenza sino a sotto la poltrona da seduta dentistica. Lì vicino c’è anche un carrellino, sopra di questo vi sono pinzette, bisturi ed un ammasso marcio di materia organica di tipo non identificabile, oramai, puzza solamente e qualche mosca si posa di tanto in tanto sopra quella che dal suo punto di vista deve essere una squisita e succulenta cena. Sento che sto per rimettere di nuovo…

 

Scosto lo sguardo onde evitare movimenti a livello intestinale che ora come ora gradirei evitare, provare l’esperienza una volta mi basta eccome. La cosa che più colpisce di quel posto è lo stacco, c’è un forte ed evidente stacco tra l’ambiente del sottopassaggio, pregno di quell’odore rivoltante, fratture nella muratura, muffe,

 

{Though I know not what you are, Twinkle Twinkle little star…}

 

rose morte, appassite, rovinate e putrefatte in pochi minuti, forse addirittura meno di un quarto d’ora, o magari la paura è stata davvero tanta da bloccarmi sul posto per tanto tempo senza nemmeno accorgermene. Lo stacco. Lo stacco è forte e t’investe, l’unica fonte di puzza, lì dentro, è quel mucchietto marcio sul carrelino, ma per il resto l’aria è satura solo di silenzio, un silenzio inquietante che fa male alle orecchie quasi. Lascio scorrere lo sguardo scuro lungo i banconi da laboratorio che sono lì dentro, a parte qualche beaker e matraccio sparso qua e là, un contenitore graduato sbeccato e dei vetri per terra che una volta doveva far parte di quella magnifica collezione di contenitori trasparenti.

 

Faccio qualche passo verso l’interno, stentando per ovvie ragioni a chiudere la porta, mi premuro, anzi, di allungare un braccio per recuperare quello che sembra un canevaccio sporco e lacero in più punti, lo poggio per terra, vicino allo stipite della porta, socchiudendo alla fine quella e lasciando che la massa di stoffa le impedisca di chiudersi del tutto anche se sospinta. Percepisco il respiro regolarizzarsi a poco a poco, come se questo posto alla fine mi mettesse a mio agio, come se lo considerassi quasi un porto, una piccola luce prima del fondo del tunnel. Sono viva, non sento ancora fame, forse un pizzico di sete, ma niente di eccessivo, potrò resistere ancora un bel po’, su questo non ci piove. Il rumore delle ballerine sul pavimento candido inonda la stanza di un rumore ovattato e quasi piacevole da udire, ritmico, seppur lento. Scorgo solo adesso la scala in fondo alla stanza, laddove la luce non arriva quasi per niente e le ombre sono molto più fitte e scure di quelle presenti dove sto io. Un neon, solo uno di cinque funziona e, di conseguenza, la stanza rimane per la maggior parte in penombra.

 

Avanzo, convinta di aver scorto in cima a quella scala, su quel piccolo soppalco che tanto somiglia al terrazzo di casa mia, se solo vi fossero dei fiori ed il cane ad abbaiare, l’angolo destro di quella che dovrebbe essere una porta scura, che potrebbe rivelarsi la mia via di fuga e la mia salvezza. Avanzo dunque, finendo per altro con il lasciar scivolare lento ed attento lo sguardo sulla superficie del banco da

 

{Though I know not what you are, Twinkle Twinkle little star…}

 

laboratorio. Interrompo il passo di colpo, sgrano gli occhi e sento l’ennesima ondata di gelo che mi penetra nelle ossa, quel gelo che prende il nome di paura in certi casi. Un ticchettio, sembra un ticchettio quello che sento tutt’attorno a me. Passa da destra e sinistra, da sinistra a destra, adesso è sopra, ora sotto, adesso sembra quasi che ce l’abbia alle spalle. Mi volto di scatto, ritrovandomi a fissare, bianca quanto un fantasma, la porta ancora socchiusa, il canevaccio al suo posto, l’interruttore della luce premuto verso il basso, le orme di sporco appena accennato delle ballerine, il vetro del beaker a terra, niente che non ci fosse anche prima, lo stesso ticchettio pare essersi interrotto al medesimo mio spostamento.

 

Torno a girarmi in avanti, e mi ritrovo a sobbalzare violentemente, un sospiro di pura paura quello che mi esce dalle labbra, smuovendo una sottilissima ciocca di capelli scuri che deve essere sfuggita all’elastico per trovarmela di fronte alle labbra, che attraversa la visuale di uno degli occhi corvini. Una figura scura, che m’è parsa essere una sola e misera ombra, ma c’era in quell’attimo in cui l’ho vista, e quella misera ombra in quel momento non mi è sembrata affatto misera, piuttosto imponente, sembrava avesse una tunica, una lunga tunica che sfiorava il pavimento, così come il presunto cappuccio ne celava totalmente il capo, leggermente chino in avanti e con le mani congiunte. Potrei giurare che fosse un prete, un prete, sì…somigliava tremendamente ad un prete, peccato che trovare un prete in un posto del genere non è esattamente la cosa più ovvia di questo mondo.

 

-Padre? – domando, nella speranza di vederlo riaffiorare e ritrovare davvero un prete, monaco, cappuccino, qualsiasi cosa di vivo e santo possa esserci sulla faccia della Terra. Ho bisogno d’aiuto e non disdegno affatto quello che potrebbe darmi un uomo di chiesa, certo non sono rinomati per i loro begli atteggiamenti, ma ora come ora me ne infischio altamente e semplicemente riprendo a muovere dei passi di fronte a me, sino ad arrivare a circa quattro metri da quelle scale, ma niente, non c’è traccia minima di

 

{When the blazing sun is gone, when there nothing shines upon…}

 

quell’ombra vista solo per poco.

 

Sento il cuore in gola, quella pessima sensazione delle vene che pulsano troppo forte e riesci per questo a percepirle in ogni singolo battito cardiaco, di quando il sangue viene pompato con foga, per la tensione, l’ansia, la paura, la stessa adrenalina, perché non si può nemmeno negare che non ci sia la buona dose d’adrenalina in tutto ciò, è come stare in un videogame, come viaggiare tra le stanze sfatte di un gioco da console, ma sin troppo reale al momento e, per quanto la cosa possa apparire eccitante vista dall’esterno, a me mette addosso una dose d’angoscia non trascurabile. Umetto le labbra, prendo un profondo respiro per riuscire a riprendermi il minimo che possa consentirmi di spostarmi di lì, ed alla fine adocchio le scale. Mi avvio verso queste, riempiendo di nuovo il silenzio del laboratorio, o presunto tale, di nuovo del rumore ovattato delle ballerine rosse, oramai anche piuttosto sporche, tra la polvere della ghiaia dei binari e la lordura varia di quel sottopassaggio.

 

Poggio delicatamente la mano sullo scorrimano che costeggia quella scala in ferro, a tratti arrugginita, indubbiamente spartana, non c’è nulla di bello o anche solo definibile “moderno” in queste scale, sembrano vecchissime scae anti-incendio e niente più, eppure sono all’interno, di solito sono poste esternamente. Nemmeno me ne rendo conto subito, che per riflesso involontario ho sfilato la mano dallo scorrimano, probabilmente i pensieri inconsci riferiti allo schifo toccato quando cercavo quello delle scale del sottopassaggio ed ho incontrato invece i…vermi, sì, oramai per me sono vermi.

 

Le scale finiscono in poco tempo alla fine, e sì, c’è una porta di quel piccolissimo soppalco, prego Dio che sia aperta e che possa permettermi di uscire ufficialmente da quel posto e riuscire quindi a chiedere indicazioni a qualcuno, magari che abbia una bella faccia..o che ispiri in qualche modo fiducia, non so perché ma inizio a pensare che da qui a qualche minuto potrebbe spuntare fuori una brutta copia di Jack lo Squartatore, pronto ad asportarmi l’utero dandomi della “troia”. Faccio per abbassare la maniglia ma non posso non scattare all’indietro quando qualcuno, dall’altra parte della porta, lo fa al posto mio, la tira giù e la apre, lentamente, mentre la mia schiena sbatte contro la ringhiera che da sul laboratorio di sotto, le mani cercano in maniera frenetica di aggrapparsi ed alla fine ci riescono, aggrappate con forza a quella ringhiera in ferro, con lo sguardo dritto avanti ed il respiro fermo, spaventata e consolata allo stesso tempo che ci sia qualcuno.

 

-Madame, la prego, non si spaventi, sono io…dovrebbe riconoscermi, è da un po’ che mi hanno eletto sindaco delle valli in..inca…incantate! Sì, le valli stonate, lo ha sentito anche lei no? Può chiamarmi Puppeteer, senza che si scomodi a chiamarmi Signor, e poi io nemmeno mi chiamo Signor, che strano modo hanno i turisti di farsi conoscere, piacere Signor Puppeteer, ed è da loro che ho scoperto di fare di cognome Signor, e lei? – svitato. Fantastico! Mancava un pazzo, dopo la ferrovia strana ed il sottopassaggio all’odore di fogna mi mancava il pazzo di turno.

 

Ha i capelli castani, con sfumature rossicce, un po’ più lunghi avanti, compare al massimo vent’anni e non di più. Le iridi viola, di un viola intenso, le labbra rosso scuro, che quasi pare nero in assenza di luce. Un cappotto blu acceso, con la doppia fila di bottoni a chiuderlo davanti, quelli sono dorati. Una bordatura rossa al limite del cappotto, delle strisce dorate che lo fanno sembrare tanto un domatore di belve feroci, un sottile fiocco rosso a tenere fermo e chiuso il colletto di una camicia bianca, che spunta da sotto il cappotto in dei pizzi voluminosi. Un paio di pantaloni blu come il cappotto, un paio di guanti bianchi alle mani ed un capelli a cilindro in testa.

 

 E..mi porge la mano, sembra stia aspettando solo che io l’afferri ed anche con un enorme sorriso sul volto, contento, allegro e sereno, per rischiarare l’atmosfera l’alleggerisce e non poco, ma mettetevi nei miei panni. Non solo mi sono completamente persa ed ho il sentore di trovarmi in un film dell’orrore, ma mi ritrovo anche faccia a faccia con uno più matto di un cavallo. La voglia di correre giù per le scale è troppa, ed è quello che il corpo fa, lo fa da sé.

 

Lo fisso ad occhi sgranati, le labbra dischiuse ed il muscoli che tremano ora come ora. Lo fisso per pochissimo prima di provare a scattare verso le scale che poco prima ho salito…

  
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