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Autore: Sylphs    13/07/2012    6 recensioni
I Lawrence, antica, ricchissima e corrotta famiglia svedese, si sono macchiati di innumerevoli peccati, il peggiore dei quali è stato l'imprigionamento del figlio quartogenito Raphael, trasformato in un mostro da un patto stretto dal padre e per questo nascosto al mondo. Quindici anni dopo che ha ucciso il genitore e il terzo fratello, fa ritorno alla dimora di famiglia per vendicarsi definitivamente e pretendere di essere riconosciuto e, a questo scopo, rapisce la fidanzata dell'unico fratello rimasto in vita, Jesper, ricattandolo con la vita di lei. Ma Jesper, alleatosi con la cognata Christine, ha bisogno della ragazza per motivi ben più oscuri di un semplice matrimonio, motivi legati al passato, ed è deciso a riprendersela, mentre lei e Raphael si scoprono più complici di quanto credessero e una bambina coraggiosa decide di indagare.
Sequel della mia storia "Follia d'amore e d'oscurità", ispirata al celebre romanzo "Il Fantasma dell'Opera" di Gaston Leroux.
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Amore di sangue'
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Prologo
 

 
 
 
 
 
Nella fornace il fuoco ardeva instancabile, riempiendo con i suoi continui crepitii l’immenso e terribile silenzio che gravava su tutta la vecchia casa abbandonata. Tende consunte e stracciate pendevano tristemente dai muri di pietra, cocci e frammenti di mobili invadevano il pavimento ammucchiandosi agli angoli delle stanze, la polvere ricopriva in uno strato impenetrabile quel luogo in rovina, che parlava di disperazione, di speranze infrante, di cieca rabbia e di un’inconsolabile solitudine. Un tempo forse la residenza aveva avuto un’anima, un soffio vitale che, pur senza toglierle quell’aspetto lugubre, l’aveva animata e posseduta, ma ora di quell’anima non rimaneva nulla se non brandelli, scartoffie, libri e carillon spezzati.
Un tempo forse il suo proprietario aveva accarezzato e abitato quelle mura polverose dando loro un’utilità e un significato, aveva strisciato nel buio facendo echeggiare ovunque le sue risate sguaiate e perse, ma da settimane ormai quelle risa non erano altro che un lontano ricordo. Heather Ville era vuota, sconcertata dallo stato di apatia che aveva preso il suo padrone da che la bella Irene era fuggita per sempre da tale prigione di solitudine e oscurità, ricercando la luce e il tepore di un aitante ragazzo normale, e assisteva impotente al proprio lento disfacimento, protestando di tanto in tanto con deboli tintinnii da parte del lampadario schiantato al suolo, con spifferi e con cigolii lontani, incapace di arrendersi alla sua fine ormai imminente.
Raphael” esclamò distintamente Jonas Lawrence, primogenito del defunto Hugo: “Raphael, guardami”.
La figura curva accasciata accanto alla fornace, poco più di un logoro fagotto di stracci che giaceva come morto nella maleodorante celletta in cui un tempo aveva consumato i suoi orrori, non diede segno di averlo udito e continuò ad emettere un sibilo continuo, animalesco, che risuonava costantemente sui sudici muri di pietra. Era un verso terribile, un lamento bestiale, ma se non fosse stato per esso Jonas probabilmente avrebbe pensato che il fratello minore fosse perito, tale era la sua immobilità. Ma c’era ancora vita in quelle membra disfatte, ancora calore in quella pelle imputridita da un patto stretto ormai più di vent’anni prima, nonostante il tremendo colpo che lo aveva ridotto in quella maniera il più piccolo dei Lawrence e colui che più aveva subito la crudeltà del padre non era morto, non era scomparso da un mondo che non lo aveva mai voluto.
“Raphael” ripeté Jonas con una nota stanca nel tono, avanzando di un passo verso la massa informe raggomitolata accanto al fuoco: “Sono passati quindici anni, Raphael. Non hai niente da dirmi?”
Ancora non sapeva come aveva fatto a rintracciare il fratello fuggiasco, come le sue ricerche lo avevano condotto in quella casa, né se doveva ringraziare Dio o maledirlo per quella fortuna, ma ce l’aveva fatta. Per anni e anni aveva girato il mondo cercandolo in ogni angolo di Europa, inseguendo un’ombra di cui non conosceva neppure il volto, e la sua determinazione era stata scalfita pian piano dai continui insuccessi, da come quell’individuo continuasse a sfuggirgli e a non lasciare la minima traccia di sé. Era stato quasi sul punto di lasciar perdere, di tornare in Svezia dalla sua famiglia e di chiudere i ponti una volta per tutte con quella maledizione, sennonché proprio un mese prima aveva incontrato un uomo della sua stessa estrazione, un tale Giorgio Lancaster, e finalmente aveva scoperto dove l’assassino di suo padre e di Viktor si era nascosto in tutti quegli anni. Si era aspettato un incontro terribile, un confronto che l’avrebbe segnato per sempre, invece provava soltanto pietà per quell’essere sofferente ormai più di là che di qua.
“Nostra madre è morta” annunciò la notizia nella speranza di scuoterlo dalla sua apatia e chinò il capo, rigirandosi il cappello tra le mani. Come ogni Lawrence che si rispetti, il trentaseienne primogenito di Hugo e Ingrid era alto e dal fisico asciutto, aveva folti capelli di un biondo tanto chiaro da apparire bianco e un viso sottile dai lineamenti affilati e maliziosi, dominato da occhi cerulei: “Poco dopo la tua scomparsa, Raphael. Ha parlato con me prima di soccombere al dolore e mi ha detto della tua…” esitò, nervoso, ascoltando il rumore del silenzio e il sibilo animalesco dell’altro.
Deformità?
“…diversità” concluse infine: “Mi ha raccontato ogni cosa. Voleva chiederti perdono, Raphael, per aver permesso la tua reclusione. E farti sapere che riguardo a Viktor e a nostro padre…” serrò la mascella, incapace di nascondere la sofferenza e il rancore: “Capiva”.
Non la senti?”
Fu appena un bisbiglio, che fuoriuscì quasi impercettibilmente dalle labbra della figura abbandonata sul pavimento sporco. Ciononostante Jonas rabbrividì, spaventato dal suono di quella voce aspra e raschiante, pervasa dal timbro metallico di chi non se ne serve da giorni, che gli aveva dato la precisa sensazione che qualcuno avesse appena camminato sulla sua tomba. Non poteva negare a se stesso d’essere rassicurato dal fatto che il fratello gli desse la schiena; sua madre lo aveva messo a conoscenza di tutta la storia, ma se oltre alla voce si fosse aggiunto anche il suo viso mostruoso, certo avrebbe avvertito l’impulso proibito di fuggire immediatamente. Arretrò di un passo e adottò un tono prudente: “Cosa?”
“Heather Ville” quelle parole sembravano essere state strappate a forza da un involucro che aveva perduto ogni utilità. Si mosse leggermente sul pavimento, producendo un fruscio umido, pressoché indistinguibile nell’ampio e cencioso mantello nero in cui si era avvolto, e un occhio di un azzurro chiarissimo, iniettato di sangue, si volse a fissare l’uomo sulla soglia. Le fiamme si riverberavano nel suo sguardo: “Non la senti mentre muore? Non senti le sue grida di agonia? Sono ovunque…ovunque…prima erano lievi, quasi non si udivano…poi sono cresciute…si sono estese a tutti i piani…sta soffrendo. La mia cara, vecchia Heather Ville sta soffrendo…mi chiede aiuto…ma io l’ho tradita. L’ho tradita”.
Jonas non riusciva a trovare un senso in quel discorso inespressivo che non pareva indirizzato a nessuno in particolare: “Heather Ville?”
“Vorrei aiutarla a morire, sai?” continuò Raphael pacatamente: “Vorrei trovare il modo di far cessare i suoi lamenti. Lei è stata così buona con me…così buona…mi ha tenuto al sicuro…mi ha protetto…e come vuoi che l’abbia ripagata io? Lasciandola morire!” alzò la voce, mosso da un improvviso impeto di energia, e la sua capigliatura corvina, arruffata e sporca, ricadde disordinatamente sulle spalle larghe: “Ascolta!...Ascolta! Il lampadario strilla sotto di noi come un maiale al mattatoio…lo senti?”
“Io…”
“E la sua camera!...La sua camera!” la voce raschiante salì in un urlo stridulo e disperato e l’occhio puntato su Jonas si velò di lacrime, lacrime pure sulla sua pelle venefica: “L’ho distrutta, fratello, tutta quanta…lei era ovunque, ovunque…il letto aveva il suo profumo, i muri mi parlavano con la sua voce, la lampada brillava come i suoi capelli…ed io l’ho fatta a pezzi da cima a fondo! Del resto, non era certo in buono stato…” ridacchiò tra i singhiozzi: “Era alquanto sudicia, la sua camera!...Alquanto sudicia…”
Suo fratello era folle. Jonas non serbava alcun ricordo di lui, gli era stato impedito di vederlo quando era ancora un bambino e, poiché era sempre stato assai più ligio alle regole di Viktor, aveva finito per dimenticare addirittura la sua esistenza. Ma la persona che vedeva ora…sempre se così si potesse definire…non aveva più un briciolo di ragione. Un dolore vivo e autentico gliela aveva rosa come un tarlo, il peso della solitudine l’aveva schiacciata e ridotta in polvere. Aveva sperato di poter parlare francamente con lui, di portargli il messaggio della sua amata madre, ma comprese che egli non avrebbe ascoltato niente, né da lui né da nessuno.
“L’amore…” sussurrò Raphael strisciando più vicino alla fornace. Jonas, impietrito, si sostenne alla gelida parete di pietra: “L’amore?”
“L’amore non è fatto…per i mostri. I sentimenti…non hanno senso. Le avrei offerto la luna, fratello, anzi, lo avevo già fatto. Mi sarei strappato il cuore dal petto e glielo avrei posto ai piedi se lo avesse chiesto. La volevo morta… volevo che mi appartenesse per sempre…ma lei mi aveva guardato per davvero…aveva visto l’uomo e non il mostro…e le ho reso la libertà. E pensi che mi abbia premiato per il mio sacrificio? No! Ha preferito il suo bel giovane onesto…ha preferito la luce…e non la biasimo, no, non la biasimo affatto. Chi vorrebbe mai stare con uno come me?”
Batté con violenza i pugni contro il pavimento, incurante del sangue scuro e denso che prese a colargli dalle nocche, e si sollevò in ginocchio con movimenti grevi e faticosi, ansimando: “L’amore trasforma i demoni in angeli…” rise amaramente e con abbandono: “L’amore non ha fatto nulla di tutto questo per me. E questi dannati lamenti!” ruggì, levando all’intorno uno sguardo di fuoco: “Mi fanno diventare matto!”
“Raphael…” mormorò Jonas senza sapere bene cosa dire. Non conosceva la persona di cui il fratello stava parlando, e benché si fosse ripromesso di occuparsi di lui come gli aveva chiesto la madre, decise che ormai era fuori dalla portata di qualsiasi aiuto. Il meglio che poteva fare era andarsene e lasciarlo solo con la sua dimora agonizzante.
Si volse, ma in quel momento la voce raschiante esclamò, imperativa: “Fermati!”
Si bloccò. Fu più forte di lui. C’era qualcosa in quel tono di comando che lo spingeva ad obbedire, un non so che di ultraterreno che aveva preso possesso delle sue gambe e le aveva radicate al suolo. Si accorse, stupefatto, di stare tremando. Ma non aveva nulla da temere da quella creatura schiacciata dalla sofferenza, dal suo giovane fratello mai esistito davvero. Perché spaventarsi? Era in condizioni tali che non avrebbe potuto nuocere nemmeno a se stesso, figurarsi ad un uomo forte e ben piazzato come lui!
“Fermati” ripeté in un sibilo la presenza alle sue spalle. Jonas sentì che si alzava faticosamente dal pavimento, ma non osò voltarsi. Non voleva vedere la sua mostruosità, l’immagine dei peccati di suo padre scolpita nel corpo di un ventisettenne costretto ad assorbirli e a farli suoi, o avrebbe perduto per sempre ogni forma di rispetto nei confronti del defunto genitore, non avrebbe potuto vivere sapendo ciò che aveva fatto a Raphael. Voleva soltanto andarsene in quel momento, abbandonare al suo dolore l’essere che dimorava in quella residenza oscura e che aveva soffocato la bontà e la purezza del bellissimo bambino che ricordava vagamente. Se lo avesse guardato, avrebbe associato per sempre il fratellino che gli rivolgeva il suo primo sorriso e lo scrutava con curiosi occhi azzurri ad un mostro demoniaco.
“Mi avete messo in gabbia tutti quanti, non è così?” continuò Raphael da dietro. Pronunciava le parole con calma stanca: “Tutti avete  preteso da me un pezzo della mia anima e poi ve ne siete andati, lasciandomi qui a marcire. Sapete cosa significa non avere niente? Niente, al di fuori di una casa che muore maledicendomi per averla trascurata e un misero anellino d’argento, simbolo di un amore che ha fatto a pezzi il mio? Lo sapete?!”
“Raphael, ti prego…” ansimò Jonas, la fronte cosparsa di brillanti gocce di sudore: “Non so di cosa stai parlando”.
“Però qualcosa di buono c’è, in tutto questo” disse l’altro imperterrito: “Non avere più un’anima ha i suoi vantaggi, l’avreste mai detto? Lei se l’è presa, la mia Irene l’ha portata via con sé…a Parigi…” quel nome era come veleno sulle sue labbra: “Non so cosa voglio, non so più niente, ma certo so che è il momento di porre fine alle sofferenze di Heather Ville. Lei è l’unica ad avermi accettato al suo fianco…la mia vecchia…ah! Ah! Povera Heather Ville…vorrei che offrisse a me una morte rapida e indolore, lo sapete?”
Continuava a rivolgersi a lui usando il plurale, cosa che inquietava Jonas sempre di più. Aveva la sensazione che Raphael non lo vedesse come se stesso, ma come famiglia Lawrence in generale.
“Raphael…” ebbe appena il tempo di pronunciare il suo nome.
 
Il corpo dell’uomo bruciava lentamente nel bel mezzo di un incendio purificatore. Le fiamme rosse ferivano gli occhi della figura in piedi, solenne, al centro della celletta, coperta dal mantello e con il volto nascosto sotto al cappello che aveva sottratto alla sua vittima.
I Lawrence avevano lottato, lottavano sempre, del resto, così come avevano fatto quindici anni prima, quando si era impadronito dell’accetta e una scarica di adrenalina gli aveva attraversato le vene. Adesso non esistevano più ed Heather Ville poteva andarsene in pace.
Il silenzioso e impassibile personaggio si sfilò l’anellino d’argento che portava al dito e lo scrutò in silenzio per qualche istante, rigirandolo tra le dita guantate. Era pressoché impossibile decifrare la sua espressione sotto al cappello che ne celava le fattezze, ma la tenace stretta con cui cinse il gioiello e la rigidità delle spalle testimoniarono una rabbia sopita. Si chinò e, con un unico movimento elegante, infilò al dito del morto il piccolo cerchietto argentato. I Lawrence e lei meritavano di svanire insieme in quel rogo, di consumarsi, di divenire polvere.
L’uomo ammantato contemplò ancora per qualche istante il macabro spettacolo, incurante delle fiamme che avrebbero potuto lambirlo, poi si volse in uno svolazzo nero e uscì dalla cella, prima ombra, poi più nulla.
 
Angolo autrice: Ok, ehm…non so molto bene cosa dire al riguardo. L’idea di dare un seguito a questa storia non mi dava pace così ad un certo punto ho tagliato la testa al toro, mi sono seduta al pc e ho scritto questa…cosa. Sperando che non sia un disastro totale…coomunque, se non mi odiate e se avete la pazienza di star dietro a Raphael ancora una volta, ne sarei davvero lieta!
Nel frattempo vi saluto, un bacione
Elly  

  
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