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Autore: TwinStar    28/01/2007    3 recensioni
Sirius non credeva li avrebbe più ritrovati.
Eppure erano tutti là.
Esattamente dove li aveva lasciati il giorno in cui aveva lasciato Grimmauld Place.
I suoi ricordi.

E quel fermaglio di madreperla verde.
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Remus Lupin, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il fermaglio 3. Remus

Remus se ne sta sprofondato nella poltrona bassa del salotto all’ingresso, immobile: le gambe allungate sul pavimento con le caviglie accavallate l’una sopra l’altra, i gomiti a puntellarsi sui braccioli cedevoli con le dita intrecciate in alto a far da sostegno al mento chino. Gli occhi sono chiusi dietro snelli fili di sabbia intrecciati all’argento. Il viso placido, le labbra distese in un sorriso contento, ma l’inganno del sonno quieto è dissipato da quella ruga di dolorosa concentrazione che gli accartoccia la pelle tra le sopracciglia e increspa la fronte.

Riflette, cullato tra i pensieri dall’incessante, cupo borbottio appena accennato di un bricco del tè che qualcuno ha messo a bollire su un piccolo braciere acceso all’interno del gigantesco camino di marmo nero che invade quasi tutta la parete nord, e dal proprio respiro.

Di fronte a lui un poggiapiedi di velluto di un lugubre grigio polvere, e una ragazza lo fissa assorta con lo sguardo vivo e attento screziato di lingue vibranti di un color oro brillante, e la bocca rossa piegata in un sorriso deciso.

Incrocia le gambe in una mossa di innocente malizia, dondolandone una al ritmo di una nenia babbana per bambini imprigionata tra le labbra, lasciando increspare la gonna a pieghe tra le cosce strette; affonda le falangi nel tessuto liso, sostenendo con le braccia il torso lievemente inclinato all’indietro e lasciando che i lunghi capelli le solletichino piacevolmente la pelle delle scapole.

Gonfie ciocche ondose screziate del vermiglio brillante delle fiamme lontane sono mosse da un filo d’aria che entra dalla finestra socchiusa.

Uno sbuffo impaziente fende l’aria umida e appiccicosa.

“Non credo che ci voglia tutto questo tempo per fare un mossa.”

E Remus apre gli occhi, ridendo, con l’illusione a guidargli le ciglia.

Ma quegli occhi non sono verdi. E i capelli non ardono come fiamma viva.

“La pazienza…”, sogghigna piegandosi in avanti. “E’ una gran virtù, Hermione.“

Ignora le guance della ragazza che si vanno imporporando nascostamente per l’imbarazzo d’essere stata udita nonostante il suo sia stato poco più d’un anelito, l’attenzione rivolta caparbiamente alla scacchiera lucida che ha di fronte, e ai pezzi neri e brillanti che gli sono asserviti e fremono sussultando sotto la luce tremolante e artificiale delle vampe in attesa di una mossa.

Protende il viso e distrattamente nota quell’alfiere bianco torreggiare in c4, con gli occhi imbevuti d’ambra che sfidano un istante quelli grandi e attenti del suo avversario, mentre un soffio d’aria gentile rotola via dalle labbra schiuse appena in un sogghigno.

“Alfiere in c5…”

Riesce a vedere appena il pezzo che obbediente si sposta scivolando rapido verso la posizione appena indicata.

La camera è avvolta da una fitta penombra.

Le tende sono tirate benché non siano che le cinque del pomeriggio, e fuori la strada sia inondata di una luce bianca, liquida e abbagliante di fine luglio. Si sono serrate poco tempo prima e nessuno è riuscito ad aprirle. Non ci vuole un professore di Difesa Contro le Arti Oscure per capire che qualcuno vi ha apposto sopra qualche strano incantesimo per impedire che la casa perda quell’aria cupa e deprimente che la caratterizza.

Nessuna meraviglia che Sirius sia venuto fuori così balordo.

Questo pensiero stizzito gli viene soffiato via dalla testa nel momento in cui incontra lo sguardo sicuro del suo avversario, e una voce pacata sussurrare la prossima mossa come fosse un segreto ineffabile.

“Pedone in b4.”, ride.

E’ un riso strano quello di Hermione, riflette mentre distrattamente si appropria con alfiere di quel pezzo offertogli in sacrificio di proposito: lo diverte quel modo cattedratico di sollevare solo il labbro inferiore e di dilatare pomposamente le narici, arricciando il naso tondo e un po’ all’insù da bambina.

Nei ricordi la giovane donna che gli siede innanzi ha sempre quel modo di ridere incerto, tra lo sfrontato e il timido, con le sopracciglia naturalmente imbronciate ad imprimergli una ruga sottile sulla fronte, le ciglia strette a serrare gli occhi: una mano sale alle labbra per nascondere i denti in un gesto infantile.

Il pedone bianco viene spostato in c3.

“Insisti sempre con questa sciocca apertura[1]!”, lo redarguisce severa ma in modo bonario la giovane donna che occhieggia da sopra la spalla della bimba concentrata sul gioco. Con le dita si scosta stizzita dalla guancia una ciocca di capelli sfuggita dal semplice fermaglio che solo le trattiene la chioma in una delle elaborate acconciature che tanto amava sfoggiare, mentre la bocca si incurva in una smorfia tutt’altro che femminea. “Sei davvero prevedibile.”

E sbuffa, quel ricordo ficcanaso.

Proprio come la piccola Hermione, con simpatia.

Quella spaventosa intimità gli si appiccica addosso come sudore freddo.

Le risate e i bisbigli sommessi dal sapore antico quanto la magia, le ombre tonde e nere abbracciate con l’arancio delle fiamme che morbidamente si infrangono lungo i mobili e pareti annerite dal tempo. Non più inquietudine e disagio di un luogo estraneo, ma carezze piacevoli e confortanti di un fuoco tenue che brucia lontano, e il brusio di voci amiche nelle orecchie.

Quest’atmosfera lo agghiaccia.

Non vi è avvezzo, benché gli sia sempre piaciuto credere il contrario.

Eppure il licantropo piega appena la testa di lato e tira in alto gli angoli della bocca in una smorfia intenerita, a malapena conscio del riso che già gli raggela labbra inaridite e scabre, con gli occhi vitrei, distaccati, che guardano affabili il nulla e quei giochi di luce dolcemente crudeli. Poche parole gli scivolano via dalle labbra assieme ad un sospiro indecifrabile.

Hermione solleva lo sguardo curioso e inquieto.

“Che succede?”

“Nulla.” Remus, sorpreso dal timbro troppo infantile di quella voce, sbatte le ciglia come a ridestarsi da un miraggio, mentre il suo alfiere si appropria violentemente di quella seconda pedina, frantumandola in un colpo solo. Distrattamente spolvera via dal pastrano alcuni frammenti d’avorio e onice[2] che gli sono piovuti addosso. “Temo di aver commesso un errore.”

Hermione ride.

Remus la imita come può.

La partita continua e le mosse si susseguono meccaniche mentre Remus poggia la guancia sul palmo scabro della mano, il gomito a pungolargli la coscia, incurvando le spalle in quel moto difensivo che aveva da ragazzo.

Si chiede cosa ci faccia lì e come lo si sia riuscito a convincere a giocare.

Come lo si persuadesse tanto facilmente ogni volta.

Gli scacchi non gli sono mai piaciuti.

A dispetto della personalità razionale e di un carattere improntato sulla logica e sul controllo di sé non l’ha mai apprezzato come svago: per quanto fortemente si applicasse non è mai stato un passatempo in cui si è distinto.

Non che abbia giocato molto.

Erano rare le sere in cui la noia adolescenziale e la stanchezza raggiungevano livelli tali da privare delle energie necessarie per bighellonare nel castello, o di idee per portare il caos nella monotona pacatezza della scuola. Dal momento che i suoi amici in quel frangente erano soliti evitarlo schernendolo, reputandolo un rivale troppo facile da sconfiggere, solitamente il suo avversario era Peter, e anche contro di lui il risultato era incerto.

Eppure Hermione è convinta che solo lui possa aiutarla a battere Ron.

Che il suo vecchio professore debba essere un asso del gioco.

Che i suoi dinieghi siano stati solo frutto di modestia.

Nient’altro che convenzioni.

Dolci e rassicuranti come la cioccolata.

Di quelle su cui si costruisce una vita intera.

Remus si ritrova a ridere, perché gli stereotipi sono buffi in maniera crudele.

Lo sono tutti. Anche l’uomo irritabile e sgradevole che continua a razziare esaltato quella piccola stanza rovistando tra i rifiuti come un animale non è che uno stupido, patetico clichè di cui ci si può solo far beffe. Con i capelli trascurati e il viso sporco, le mani ansiose serrate intorno a oggetti di valore; gli occhi febbrili e frementi, la piega folle e amara della bocca scoperchiata in un ghigno scontento.

La testa scarmigliata cocciutamente stipata di ricordi.

Come me, non fa che insistere con la stessa sciocca apertura.

Pensieri pigri e lontani si mescono a fruscii leggeri di vesti, si insinuano tra le pieghe sottili di una gonna e scivolano su lungo le gambe, serpeggiano tra i rilievi della spina dorsale e su ogni vertebra dalla curva morbida, fino ad insinuarsi nei bei capelli assieme alle dita, passi leggeri e affettati di scarpini lucidi a scandire il tempo.

Una porta in fondo al corridoio sbatte violenta, strepiti e risate di ragazzi si rincorrono lungo scale a chiocciola rimbalzando contro le pareti.

Remus acuisce lo sguardo in un buio che si è fatto denso, nella certezza di scorgere oltre le ciglia sopite stendardi scarlatto scuro alle pareti: non v’è che il grigio dei muri spogli di Grimmauld Place, la scacchiera abbandonata sul tavolo: di Hermione non v’è traccia, e nemmeno di quel pallido fantasma di riflessi.

Tra le dita una brulicante indefinitezza.

Deve essersi assopito.

Cullato da pensieri amari e lievi.

Con i gomiti sui braccioli e le mani mollemente adagiate in grembo, la testa reclinata appena sulla spalla contro il tessuto ruvido della poltrona: una posa che si strascica dietro fin dalla scuola, benché a Hogwarts non sia mai riuscito a riposare come avrebbe voluto, sulla sua poltrona preferita. Tutta colpa di James e Sirius i quali, convinti che dormire fosse una cosa da vecchi, decidevano di svegliarlo non appena lo vedevano abbassare le ciglia con spinte e pizzicotti solo per renderlo partecipe del fatto che quando dormiva aveva un’aria idiota.

Poi ricorda suo padre appisolato nella stessa posizione anni addietro, in quell’unico scherzo della memoria in cui non abbia la testa premuta tra mani tremanti e le spalle incurvate su un tavolo pieno di conti da pagare, e rimanere lì su quella poltrona improvvisamente gli sembra davvero da vecchio.

Con un colpo di reni stanco si affretta ad alzarsi in piedi, portandosi una mano alla schiena dolorante (gli piace pensare che sia a causa della posizione, e non per precoci acciacchi di vecchiaia), per poi guardarsi intorno.

C’è silenzio, e buio.

Persino quella flebile luce di un tenue arancione che faceva capolino da dietro la porta che dà sulla cucina ora non è che cupo e lattiginoso bagliore notturno. Sono andati tutti a dormire.

Senza avvisarlo, ma va bene così.

Adesso che è sveglio però dovrebbe andare a casa, pensa, anche se non ha alcuna voglia di congelare in quella specie di bugigattolo che si ritrova, ed è talmente stanco che i pochi passi che li separano dall’atrio li fa ciondolando da una parte all’altra come fosse ubriaco, arrancando in un buio notturno imbevuto d’azzurro in cui, secondo il folklore, dovrebbe lasciarsi avviluppare come in una coperta.

Quando sente un’asse gemergli acuta sotto la suola stupidamente sobbalza e si aggrappa a quella che, dopo una rapida analisi, si rivela essere la ringhiera della scalinata centrale. Resta immobile ad osservare i giochi di luce dell’odiata luna nel tentativo di recuperare una calma dignitosa, cosa che sarebbe decisamente più facile da fare se il cuore smettesse di battergli forte al punto da coprire persino i cupi borbottii ingiuriosi e insofferenti che l’elfo domestico di casa Black gli rivolge contro.

“Sporco licantropo” riesce a sentirlo lo stesso, però.

Non ha ancora deciso se sentirsi offeso o meno per quell’osservazione spregiativa quando una mano gli abbranca le spalle.

“Hai ancora paura del buio?”

E’ un soffio, un sussurro appena, ma più che sufficiente a farlo rabbrividire col contrasto di quelle labbra gelide e aspre contro l’orecchio. Con uno scatto furente del collo Remus si scosta per quanto glielo consenta la posizione: fa per appoggiarsi alla parete vicina, ma il panno morbido e spesso che gli solletica la nuca lo fa desistere da quell’intento con uno scatto ansioso. Reprimendo un sospiro di sollievo si volta in direzione di quella stupida voce impertinente.

“Sirius!”, ringhia.

“Che c’è, sei deluso?”, lo canzona. “Ti aspettavi Nymphadora?”

“Quanto sei seccante.”, taglia corto il licantropo lasciandosi andare ad uno dei suoi rari sbuffi stizziti.

“Tu invece sei il solito incapace.”, ribatte l’altro con la voce roca e un ghigno sghembo stampato sulla faccia ravvolta in una chiazza d’ombra impenetrabile. Solo gli occhi è possibile vedere: riverberano il cupo bagliore maligno di una luna spenta, grigi e lucidi come pioggia. “Sono appena passato dal salotto e ho dato un’occhiata alla scacchiera.”, sussurra. “Hai perso ancora.”

Lo fa notare quasi annoiato, come fosse una cosa ovvia.

“La partita non era finita.”, geme l’altro con la voce impastata di sonno.

Il sorriso di Sirius si allarga, squarciando la pelle e lasciando intravedere le zanne, mentre scuote la testa con aria perplessa. Senza alcun preavviso gli afferra il polso con una stretta ferrea di una mano nocchiuta, per poi posargli qualcosa di piccolo e solido nel palmo aperto con una delicatezza incerta che non credeva potesse appartenere a quel corpo tutto nervi e scatti irrequieti.

E’ un pezzo degli scacchi.

Un sopravvissuto.

“Il tuo re è rimasto con due alfieri e il suo con una regina.”, spiega paziente. Conscio, si direbbe lusingato, del fatto che il suo amico non capirà altro che la sferzata finale. “Ti sei fatto battere da una ragazzina.”[3]

Remus resta a fissare l’alfiere nero che giace immoto sulla mano piegando appena la testa di lato con tenerezza assorta, sul volto un sorriso leggero e lontano, tra il divertito e il rassegnato.

Sirius ha ragione.

Ce l’ha sempre avuta.

Per quanto assurdo sia sempre sembrato ai pochi a conoscenza di quel segreto, è Sirius il migliore in quel gioco. Ma non ha mai letto un solo manuale che fosse uno per diventare quello che è. E’ un talento istintivo, il suo, puro genio: ma quando Peter al settimo anno di scuola aveva dato voce a questo pensiero colmo di stupita ammirazione, dopo la partita contro Lily Evans che aveva avuto come posta un appuntamento con James, aveva ricevuto in cambio null’altro che un’occhiata truce.

Sirius non ha mai trovato nulla di particolarmente lodevole nel battere i secchioni in modi che non riguardasse il prenderli a pugni nei bagni deserti.

“Forse Hermione avrebbe dovuto chiedere a te di fare una partita.”

“Nessuno mi chiederebbe mai consigli di scacchi.”, ghigna Sirius orgoglioso sollevando con un gesto disarticolato il bicchiere che, nota solo ora il licantropo, stringe nella mano sinistra.

Remus aggrotta le ciglia.

Sarà il sesto bicchiere che gli vede in mano.

Non vorrebbe più mettere bocca negli affari suoi.

Per oggi ha già dato più che abbastanza, per i propri gusti.

“Il massimo che pretendono da me è che svegli il lupo mannaro che dorme.”

“Cosa che ti sei ben guardato dal fare.”, fa notare Remus.

“Mi spiace. Devo essermene dimenticato.”

“Ma smettila, l’hai fatto apposta.”

“… Hai ragione.”, ghigna.

Ha lo sguardo un po’ stravolto, Sirius, un po’ ebete, con quella luce di un blu elettrico a sferzargli la pelle accentuandone rughe e difetti: ha i sensi tutti tesi al liquido ambrato che gli galleggia davanti.

Remus nemmeno sembra esistere.

In preda ad una subitanea epifania si porta il bicchiere alle labbra svuotandolo del suo contenuto in un unico fluido movimento della gola, e lasciandosi poi andare ad un sospiro di puro, completo, disgustoso compiacimento di sé.

 “Sei ubriaco fradicio.”, brontola l’altro stomacato.

A quella rivelazione l’Animagus batte le ciglia un paio di volte, sorpreso, sgranando gli occhi lucidi come se non riuscisse a capacitarsi del fatto che Remus stia parlando proprio con lui. Si guarda intorno in quel buio strano, lentamente, non perché veda realmente qualcosa acquattarsi nelle rade macchie nere che invadono gli angoli, ma solo per lasciare alla sua povera coscienza ottenebrata il tempo di incamerare poche parole di cui non riesce ad afferrare la totalità di significato.

Riordina le idee come uno studente a cui è stata rivolta una domanda scomoda da cui dipende l’esito dell’esame.

Poi china la testa fino a toccarsi il petto con la punta del mento mentre con la mano libera tenta di aggrapparsi al ruvido corrimano di pietra, ma dopo un paio di maldestre manovre infruttuose non ottiene altro che di scivolare mollemente sul bordo del primo gradino, con la schiena premuta in maniera che sembra dolorosa contro lo spigolo di quello superiore. “Me ne sono accorto.”, sospira, mentre dita senza forza si lasciano scivolare di botto il bicchiere tra le cosce scompostamente aperte, e rotola sul pavimento con un tintinnio cristallino.

Il licantropo incrocia le braccia al petto, resistendo all’impulso che gli impone di seguire quello stupido Remus bravo e coscienzioso che si strascica dietro da una vita, e resta immobile al suo posto: con le spalle affondate appena nel tessuto che, se n’è reso conto da poco, deve essere quello che ricopre il quadro della signora Black, la nuca chinata appena di lato a premere la guancia in una ruvida carezza felina contro il tendaggio e le labbra strette in una linea esangue. A fargli sentire chi è il maschio dominante, avrebbe detto James divertito sistemandosi gli occhiali con quel suo fare teatrale.

Sirius non sopporta di essere guardato dall’alto in basso.

Ma quello che piace a Sirius non importa, adesso.

“A che pensavi?”, chiede. Una domanda che pare buttata lì per caso, ma che gli preme dolorosamente sulle labbra da tutto il pomeriggio, da quando è stato trascinato via per assistere ad una delle assurdità di un pazzo finché Sirius, mentre cercava qualcosa di “interessante” in un mucchio di vecchie riviste nascoste nel ripiano più basso della libreria, non si è stancato improvvisamente della sua presenza e non l’ha sbattuto fuori dalla porta berciando insulti di varia natura.

L’altro pare non avere una risposta.

Lo vede stringersi nelle spalle in un gesto meccanico e sgraziato, come una marionetta a cui hanno improvvisamente tagliato un filo. C’è quello sguardo grigio di un liquore vitreo a fissarlo dal volto pallido dietro ciocche pesanti di capelli scuri, e le labbra secche, stirate e socchiuse appena in un sorriso dipinto, come in chi sta per abbandonarsi al pianto.

Per un attimo Remus è convinto che stia per farlo davvero.

Ma sa benissimo che non accadrà.

Ride, Sirius.

Con le spalle incuneate in avanti ad affossargli il torace, il mento conficcato nel collo e quelle ciocche di capelli a dondolargli ipnoticamente sulla fronte. Ride col palmo della mano sporco di polvere e sudore a premergli sugli occhi, e al ritmo di un tremore appena accennato che gli scuote il petto, le labbra strette tra i denti si lasciano sfuggire flebili sibili latranti.

Non osa lasciarsi andare oltre.

Remus sa di non poter ottenere altro, da lui.

Come il bambino arrogante e sfrontato che anni prima ha gettato tutte le sue belle cose dal baule al ritmo di una filastrocca stonata, per sfogarsi aspetterà la notte più greve, il momento in cui anche la luna andrà a dormire e sarà avviluppato da un silenzio così totale da avere l’impressione di essere rimasto completamente solo.

Sarà bello allora soffocare i singhiozzi sotto coperte strette fin sopra la testa, e sentirsi i vestiti appiccicosi contro i capelli sudati, e la pelle fradicia di lacrime, muco e saliva avrà un sapore dolce; anche graffiarsi e mordere gli avambracci, la lingua e l’interno della bocca sarà piacevole. Per imporsi la calma, o forse solo per dare un senso a quello sfoggio di debolezza col dolore fisico.

Non ci sarà nessuno a testimone di questo punto debole infantile: nessun ragazzino dal sonno leggero che sollevi la testa dal guanciale e chieda ‘cos’accade’ nel buio, in direzione di tende chiuse, per ricevere in risposta solo un singulto sorpreso, un fruscio rapido di lenzuola.

Nessun silenzio ridicolo.

Solo una risata imbavagliata.

Remus distoglie lo sguardo da quello spettacolo patetico e disgustoso che gli sta offrendo l’amico, volgendolo ad una delle finestre chiuse dell’androne: al cielo puntellato di stelle rade nascoste a tratti da nuvole che hanno odore di pioggia, e alla falce di una luna ghignante che tinge tutto di un viola cupo e altero. La mano chiusa a pugno attorno a quel pezzo degli scacchi fino a sentire gli spigoli premergli nella carne a preservarlo, solo, da un fastidio cocente che adesso gli invade la gola col suo sapore di vomito acido.

A volte pensa che Sirius dovrebbe essere semplicemente mandato al diavolo invece di imporre al prossimo i suoi chiari di luna, o di farsi sopportare con l’infinita pazienza che non avrebbe riservato neppure al più sciocco dei suoi allievi.

Gli farebbe bene essere lasciato lì in balia di se stesso.

A soffocarsi di risate scompaginate fino al mattino, quando gli effetti dell’alcool ingurgitato lo abbandoneranno in maniera inevitabile, lasciandogli addosso solo un vago senso di disgusto e si troverà il viso arrossato e il petto dolorante senza neppure ricordare il perché. Lo colmerebbe anche di un certo appagamento.

Remus si lascia andare ad un sospiro fiacco e scostante, mentre quell’ammasso di carne disordinato ai suoi piedi ha gettato la testa all’indietro e si è adagiato sui gradini dai bordi smussati dove continua a sghignazzare tra sé e sé, con sobbalzi singhiozzanti, lasciandosi sfuggire dalla bocca acuti uggiolii.

I piedi non si muovono.

Le dita non riescono a lasciare andare il bordo del tessuto liso con cui giocherellano nervosamente da diversi minuti. Sa che dovrebbe mollare quel drappo, perché se quel quadro si svegliasse in piena notte sarebbero guai.

D’altro canto forse Sirius smetterebbe di ridere come un idiota.

Abbrancato da una nuova, istintiva determinazione Remus stringe gli occhi.

Sorride appena.

E tira.

 

 

Non furono grida isteriche e furibonde a turbare quello che avrebbe dovuto essere solo un placido, banale, noioso pomeriggio di un giorno festivo come tanti, di quelli da trascorrere sotto le coperte all’insegna dell’ozio più totale.

Per quanto forti e penetranti al punto da poter quasi sentire i peli alla base del collo vibrare al loro acuto stridio, erano lontane. Confuse e ovattate come una eco, smorzate e deformate dal vetro chiuso, dalla coperta premuta fin sopra le orecchie alla ricerca di tepore, e dalle tende di letto e finestre ben serrate, nel tentativo di ricreare una tanto bramata quiete notturna.

Il ragazzo avrebbe potuto ignorarle.

Era abituato a chiudersi al mondo che lo circondava gettando via la chiave, a lasciare fuori dalla testa voci e pensieri che non gli appartenevano, nel silenzio dell’aula come nel pieno di una Sala Grande gremita di studenti. Vi era talmente avvezzo da sentire l’isolamento come parte inscindibile del proprio essere.

Non furono gli insulti e gli improperi che venivano lanciati indistintamente da voci maschili e femminili (gli sembrò di udire anche la voce della McGranitt nel coro, ma ovviamente fu solo un’impressione) a farlo girare e rigirare senza pace sotto le lenzuola, mandandogli alle narici zaffate di un odore pateticamente umano.

Benché sua madre l’avesse sempre educato con doloroso rigore ad evitare simili sfoggi di “bestialità”, come li aveva sempre definiti, e benché non fosse solito per abitudine a pronunciarle neppure in sua assenza, quando un’indole anche meno ribelle avrebbe già dato sfogo a quel freno di stampo antico, ne conosceva un discreto numero. Imparate da un gruppo di monelli babbani che lo tormentavano a scuola.

E forse col senno di poi non fu nemmeno quell’incessante picchiettio alla finestra chiusa a spingerlo fuori dal tepore del suo giaciglio, coi piedi nudi a scalpicciare in maniera spiacevole sul pavimento gelido e la schiena scossa da brividi radi. Si diresse alla fonte di quel suono come inebetito, evitando a istinto gli ostacoli disseminati dai suoi compagni di dormitorio con una sveltezza tale che neppure gli elfi domestici riuscivano a star loro dietro, e arrivato a destinazione scostò le tende con un gesto fiacco.

Pronto a strangolare quello che credeva essere nulla più di un gufo ritardatario.

Ritrovarsi di fronte il viso di uno dei suoi conviventi aggrappato in malo modo al cornicione esterno fu un qualcosa di talmente inaspettato da fargli scivolare di dosso ogni proposito omicida, e quell’accecante irritazione che l’aveva inondato lasciò il posto ad una confusa meraviglia. Gli venne il dubbio di stare ancora sognando.

Non poteva essersi arrampicato fino in cima alla torre.

Era troppo folle persino per uno come…

“Sbrigati ad aprire, idiota!”, abbaiò ad alta voce quel frantumatore di quiete battendo il palmo della mano contro la lastra appannata, con forza tale da far temere un istante per l’integrità della fragile superficie.

Bastò questo a ridestare il ragazzo dal torpore insonnolito in cui aveva invischiato i propri pensieri: si affrettò ad obbedire decidendo di ignorare l’insulto subito, per quanto glielo consentissero quelle dita informicolite dalla permanenza sotto il cuscino, schiacciate tra la guancia e il materasso.

Non appena ebbe aperto la finestra venne afferrato senza preavviso per il bavero della camicia da una mano gelida e tirato in avanti finché non si ritrovò col viso oltre il bordo della finestra: a pochi centimetri dal viso furibondo dell’altro, con la testa sporta pericolosamente nel vuoto, strinse gli occhi deglutendo a disagio, immaginando che sarebbe stato punito per la sua lentezza con un volo nel vuoto. O nel migliore dei casi con una sonora battuta.

Fu con un certo sollievo che si sentì spingere bruscamente all’indietro per poi cadere a terra in malo modo, come un peso morto. Si massaggiò il sedere dolorante occultando dietro un sibilo di dolore un brivido, nel momento in cui fu colpito in pieno da una folata d’aria diaccia.

E in silenzio osservò quel ragazzo da dietro la barriera abbozzata delle ciglia farsi strada nella stanza con la grezza e incivile spavalderia che lo contraddistingueva, scavalcando in un gesto teatralmente atletico il cornicione di pietra: atterrò nella stanza con un balzello di studiata eleganza, i capelli neri un po’ arruffati e impregnati d’umidità appiccicati sulla fronte e gli zigomi morbidi; le guance e il naso congestionati, gli occhi lucidi e grandi. In una mano teneva saldo la scopa su cui era stato instabilmente a cavalcioni fino a quel momento.

Peccato che in tutto quello sfoggio di grazia ginnica che, ne era certo, si era preparato da quando aveva deciso di bussare alla finestra invece di usare la porta come tutte le persone sane, si fosse dimenticato della lurida poltiglia fangosa impastata di foglie marce che gli era rimasta appiccicata sotto la suola, la quale a contatto col pavimento produsse un suono comicamente liquido.

E l’avrebbe persino trovato divertente se tra la scarpa e il pavimento, malamente nascosto sotto un maglione, non ci fosse stato un suo rotolo di pergamena coi compiti di Pozioni per il lunedì successivo.

Perché devono sempre copiare il mio lavoro?

Il rantolo strozzato che gli uscì dalle labbra a quel pensiero depresso fece scoppiare l’altro, il quale già aveva gettato la scopa a terra e si era allungato per chiudere la finestra, in una risata selvaggia, ma ansante e innaturalmente sommessa.

“Smettila di fare scena, se non mi avessi lasciato fuori a congelare sarei stato più attento.”, ghignò malignamente dopo essersi scrollato di dosso un po’ d’umidità scuotendo la testa da un lato all’altro in una maniera canina e facendo qualche passo in avanti, verso il centro della stanza. Con lo sguardo levato al soffitto si strinse gli avambracci con le mani per poi strofinare con foga da sopra ai vestiti alla ricerca di calore. “Certo che ce ne hai messo di tempo ad aprire, ragazzino…”, sbuffò.

“Guarda che ho un nome.”

“Ce l’ho anch’io, ed è decisamente più influente del tuo…”, fu la replica annoiata, quasi distratta dell’altro, prima di inspirare rumorosamente aria nelle narici per un paio di volte. “Ti trovo un po’ irritato…” insinuò ficcandosi a fondo le mani nelle tasche e piegando la bocca in un sorriso carezzevole di innocente perfidia, in cui c’era qualcosa di sottilmente infido. “Per caso ho interrotto qualcosa di intimo?”,

L’altro inghiottì l’imbarazzo assieme a una risposta volgare.

“Stavo dormendo, Black.”, sibilò impregnando quel nome altisonante con tutto il disgusto che era in grado di esternare, furibondo contro se stesso per la sua incapacità di trattenere il rossore che gli aveva cominciato ad avvampare le guance. “E abbiamo una porta in dormitorio, perché non entri da lì, tanto per cambiare?”

L’altro sollevò un sopracciglio con fare incredulo.

“Perché sarebbe banale.”, spiegò storcendo le labbra in una piega stomacata. “Per Mombi[4], Lupin, questa è una domanda idiota persino per te.”

Il licantropo si limitò ad alzare gli occhi al cielo con blanda rassegnazione, sorpreso di quanto ogni volta riuscisse ad essere stancante avere a che fare anche solo per pochi minuti con quell’essere balordo.

E questo dopo pochi giorni di convivenza.

Tra qualche anno tenteremo di ucciderci a vicenda

Cullato da quei pensieri in qualche modo rassicuranti si sentiva già pronto a voltare le spalle al suo compagno di dormitorio e alla sua insopportabile spocchia: vista la totale inutilità di qualsiasi discussione sarebbe stato decisamente più positivo tornare a letto e godersi un meritato riposo fino all’ora di cena.

Ma Sirius sembrava di tutt’altro avviso.

Se lo ritrovò steso di pancia sopra le coperte, con braccia e gambe divaricate e un’espressione di stupida, infantile euforia impressa in faccia, prima ancora di poterne assaporare il tepore. Cosa che in un certo senso trovò positiva, perché se per saltargli nel letto avesse atteso anche solo un minuto finendo inevitabilmente per saltargli addosso avrebbe anche potuto sbranarlo.

Lo fissò dall’alto in basso puntellarsi coi palmi sul materasso facendo leva sulle spalle, il petto scosso da una risata allegra e sugli occhi brillanti e lucidi di vivida contentezza ciocche ridicolmente incordate.

Sembrava non curarsene.

“Non hai un letto tuo?”, sospirò Remus esasperato.

“Sai che sono in punizione?”, esultò eccitato ignorando la domanda.

“Beh, non proprio. Non ancora.”, aggiunse in fretta agitando una mano davanti al volto rabbuiato di Remus, alle sopracciglia severe accartocciate sulla fronte. “Però lo sarò presto.”

Ne sembrava orgoglioso.

Remus trovò in qualche maniera impossibile adirarsi con lui.

Dietro quella gioia isterica che aveva improvvisamente colto l’altro, dietro i suoi scatti bruschi e l’euforia dei modi, c’era un che di disperato che non incontrava la sua comprensione o la sua pietà, non era il tipo, eppure prosciugava ogni voglia di partire con una delle sue prediche accuratamente studiate da bravo ragazzo coscienzioso su quanto fosse pessimo il suo comportamento e su quanti punti avrebbero fatto perdere al Grifondoro prima ancora che se ne riuscissero a guadagnare.

Si limitò ad incrociare le braccia e ad emettere un lungo  sospiro rassegnato.

“Quindi dobbiamo aspettarci un’improvvisata della McGranitt da un momento all’altro?”

L’altro annuì con vigore.

“D’accordo, allora.”

Sì, era decisamente stancante avere a che fare con Sirius Black: ma Remus si era sempre reputato una persona molto forte, a dispetto dell’aria malaticcia che si trascinava dietro da una vita.

Piegò la testa di lato.

Storse la bocca in un sorriso obliquo.

“… Vuoi che ti crei un alibi?”, sibilò con aria complice.

“Un’offerta generosa, Lupin, ma credo che non funzionerebbe.” Rise di cuore scotendo la testa, e rotolò su se stesso alla ricerca di una posizione più comoda, incrociando un braccio dietro la nuca, poggiando l’altro sullo stomaco e piegando appena le ginocchia. Lo sguardo fisso verso il baldacchino del letto, con l’aria sognante di chi guarda le nuvole. “Ho strappato quel fermaglio da quattro soldi dai capelli di una stupida proprio davanti al suo naso.”

Nel vedere l’espressione di curioso stupore dell’altro si strinse nelle spalle con aria di indifferenza, come se non gliene importasse davvero granché di ciò che lo attendeva, a dispetto dell’aria contrariata che adesso aveva dipinta sul volto.

“Ma non preoccuparti…”, ghignò malignamente dandosi una pacca leggera su un fianco mentre in lontananza, oltre la porta, si cominciavano a sentire dei passi e un cupo borbottio rabbioso a più voci.

“Non lo troveranno mai.”

 

Il fermaglio 3 – Fine

 

Note di fine capitolo

Si conclude la prima trilogia di questa storia dedicata al “Fermaglio”. Ammetto che nella prima stesura di questa storia, nelle mie prime idee, questo aveva molto spazio fin dall’inizio. Invece mentre scrivevo il suo ruolo si è andato via via assottigliando, fino a diventare un oggetto nominato a malapena, quasi totalmente eclissato dal famoso “specchietto”.

E’ mia intenzione dare più spazio a questo fermaglio nella prossima trilogia. Sempre che non decida di nuovo di cambiare idea come mio solito, hahaha! XDDD

 

A parte questo che dire?

Che io AMO il gioco degli scacchi.

Non conosco tecniche e contro-tecniche dei manuali a memoria, nessuno è mai riuscito a farmi capire l’arrocco (mentre il fuori gioco l’ho capito, alè! XD), ma lo amo. E’ un gioco molto elegante, molto bello, e da tempo avevo intenzione di dedicare un capitolo di qualche storia a una partita a scacchi tra due personaggi. Hermione e Remus si sono gentilmente prestati dietro ricompensa in natura (sì, sì, ve la scrivo la storia erotica con voi come protagonisti). Il fatto che io ami questo gioco nulla ha a che vedere col fatto che abbia reso Sirius un genio in quest’ambito: è solo che in un marasma di fic in cui Sirius è un povero idiota volevo dargli una qualità che denotasse grande astuzia. Perché Sirius non è certamente tipo da mettersi a studiare mosse sui manuali, ma ha un’intelligenza istintiva che in un gioco come questo gli permetterebbe di fare faville. Uscirebbe da ogni schema, mettendo al tappeto tutti i “secchioni”.

 

Per quanto riguarda l’apertura di Remus ed Hermione, la sequenza delle mosse esiste davvero nei manuali di scacchi ed è chiamata Gambetto Evans. Inutile dire che l’ho scelta per il nome e basta. E per il fatto che è una mossa che alla fine vede il nero (Remus) in svantaggio e che nessun giocatore sano la userebbe senza farla seguire da una difesa Lasker. Ma dettagli.

 

Rispondo piena di gratitudine alle recensioni! ^_^

 

Jane Gallagher: Mhm, non chiedermi assolutamente perdono di niente. Le recensioni fanno sempre molto piacere, ma se uno non ha tempo di farle fresco di lettura non è che bisogna uscire armato di frusta (però potrei cominciare a farlo con i recensori pigri se mi prende la depressione da poche recensioni, ghhhhhh! XD). Attendo volentieri per ricevere recensioni come le tue. Come al solito, arrossisco! XD Sì, naturalmente anche la presenza di taaaaanta rabbia nei protagonisti è un grande complimento, anche se potrebbe far venire in mente a qualcuno che io in realtà scriva per procurarmi un punching ball emotivo e sfogare le mie repressioni su questi due poveri fratellini. Fatevene una ragione fratellini: è proprio così. XD Remus ti ha fatto tenerezza? Saresti la prima, penso di averlo reso assolutamente insopportabile (ma un po’ tutti e due, dai, perché dare meriti solo da una parte? XDDDD). Voglio dire, io lo trovo delizioso perché le persone meschine e quelle boriose mi fanno uscire pazza di mio (no, non è normale! XD), ma che qualcun altro lo trovi tenero… Per caso sei una proiezione della mia pazzia? XD A parte questa digressione di vaccate, ti ringrazio da morire per i complimenti! ^.^ Grazie davvero.

 

Hazel: Non posso dire di non essere rimasta soddisfatta dal tuo sconvolgimento! XD Carmen consoli è una dilettante a confronto con me peeeeer piacere, non mi ci mischiare! XD Che ho in mente un paio di tramucce di tutto rispetto che non potrò mai pubblicare ma tanto le scrivo lo stesso che mi frega? XDDDD In due mi recensiscono! XDDDD

Mi piace portare allo stremo il rapporto tra i fratelli Black, l’ho sempre trovato estremamente affascinante. Sirius è una persona che ha un modo di manifestare l’affetto tutto suo, parla un’altra lingua, e Regulus non ha nessuna voglia di acquistare un vocabolario per capire le sue stranezze e tradurle. Questo il succo del discorso.

Posso capire che l’apparenza faccia schifo, però sarà che sono l’autrice per Sirius provo soltanto una grande tenerezza. Perché non penso che lo prenda a pugni con la soddisfazione che dice di star provando, né che sia andato lì con l’intenzione di gonfiarlo come una zampogna. Il problema di Sirius è che non riflette mai su come gli altri potrebbero interpretare le sue azioni, lui agisce e basta istintivamente. E si ritrova con Regulus sotto le mani senza la testa di dire “Momento, sto facendo male a mio fratello”.

Nessuna meraviglia che sia una tale testa di cazzo.

O che lo sembri o quel che è! XD

Son fatti strani tutti e due.

Anzi tutti e tre! XD

Ti dico la verità, avrei potuto benissimo slasharli in questo capitolo, non mi ci sarebbe voluto niente. Anche e soprattutto perché questi due proprio non si riescono a capire e comprendere. Né interessa loro capirsi. E cosa è meglio per una storia priva di legami e problemi e preoccupazioni che una persona che non capisci, non capirai mai e che non ti interessa capire?

Questa è pura riflessione twinstaresca, io faccio sempre così! XD

E infatti li conosciamo tutti i capolavori con cui s’è accoppiata! XDDDD

Però in effetti è vero che la loro è una sfida a chi è più crudele. E non gli importa che alla fine potrebbero perdere entrambi. D’altronde a dispetto di tutto hanno una cosa che li accomuna: una pateticità di fondo. Sono due persone così borderline che anche così diversi non potrebbero star bene con nessun altro se non tra loro.

E due così insieme quasi per forza…

Pensa che roba PUCCIOSA che verrebbe fuori! XD

(Scorrono immagini dal film “La guerra dei Roses”)

Oddio, ammetto che invece a me i miei bambini sembrano sempre tremendamente realistici. E’ che sono sempre stata una ferrea sostenitrice dei bambini come esserini di ferro, che è possibile strapazzare praticamente all’infinito senza che riportino ferite emotive troppo profonde (non quanto un adulto), perché hanno una forza interiore straordinaria (inutile che dica quindi cosa ne penso di tutte quelle vaccate sul “proteggiamo i bambini dalle brutture del mondo Censuriamo qui e là. Forse sono gli adulti che hanno bisogno di protezione….) che permette loro di essere i veri adulti della situazione, molto spesso. Mi piace far vedere questa forza dei bambini quando parlo di loro. Mi piace strapazzarli, mi piace dipingerli in situazioni innaturali. Ecco, forse i miei bambini non rappresentano l’infanzia dei sogni, questo sì. Quella in cui un bambino non pensa che a giocare e ha l’amore di mamma e papà. I miei sono bambini che devono crescere in fretta.

Non sono “belli”.

Ma sono reali. ^_^

Notare che non ti ho fatto questa spiegazione stizzita alla “ecco non ha capito un cazzo dei miei bambini la odio, la detesto, ueeeeeeh!” XD No, niente del genere, è che mi hai dato la possibilità di spiegare un punto a cui tengo molto, per cui grazie.

Su Regulus invece non ti dico niente, hai afferrato perfettamente il punto. Quando lo chiama Sudicio Grifondoro erano proprio le parole di mamma e papà! ^_^ Ma vallo a spiegare a Sirius…. 9_9 A parte quello che potrei dirti a parte i soliti “mi fai arrossire”? XDDDDDDDDD


 

[1] L’apertura è la parte iniziale di una partita di scacchi, quando entrambi i giocatori sono impegnati nella fase dello sviluppo dei pezzi, per far assumere ai propri rispettivi schieramenti una posizione ottimale sulla scacchiera (in genere quella centrale) al fine di affrontare il mediogioco nel miglior modo possibile. Ulteriori spiegazioni sulle mosse utilizzate nelle note a fine fic! ^_^

[2] Avorio e Onice sono due materiali piuttosto pregiati di colore rispettivamente bianco e nero, come i pezzi degli scacchi. Naturalmente una scacchiera trovata a casa Black non poteva essere fatta di roba normale tipo metallo, legno o, Merlino ce ne scampi, plastica! XD

[3] Sirius parla di quella che un manuale di scacchi chiamerebbe finale RDvsRAA. Il finale  di Re e Donna contro Re e 2 Alfieri è nella maggior parte dei casi vinto per colui che possiede la Donna; questo pezzo infatti può creare facilmente attacchi multipli a più pezzi in verticale, orizzontale e diagonale. Gli Alfieri sono limitati a poter attaccare solo in diagonale e, ciascuno di essi, solo su case di un unico colore. In questo caso difficilmente il possessore degli Alfieri può tentare di vincere; nella maggior parte dei casi deve tentare di tutto per non perdere.

 

[4] Mombi è un personaggio de “Il mago di Oz”. Nel primo libro della serie è la strega cattiva del Nord (anche se più che una strega è da considerarsi una donna con poteri magici dovuti più a unguenti e oggetti fatati che ad altro) che tramuta la principessa Ozma in un ragazzino di nome Tip e lo tiene prigioniero fino alla sua fuga. Ha rubato la polvere della vita al professor Nikidik e con essa ha dato la vita a Jack Testadizucca. Nel film ritorno ad Oz (che io adoro) questo personaggio viene combinato con la Principessa Langwidere, che può scambiare la propria testa con un’altra opportunamente mozzata e conservata in una teca di vetro, e che compare nel terzo libro della serie, “Ozma di Oz”. Sempre nel film in combutta col perfido Re degli Gnomi rapisce il saggio re Spaventapasseri per impossessarsi delle ricchezze della città di Smeraldo. Il motivo per cui ho messo in bocca a Sirius un personaggio del genere è molto semplice. E’ una donna ed è una strega perfida, pazza e cattiva. Di sicuro gli ricorda da morire sua madre, e che la usi come imprecazione anche davanti ai suoi (fieri che nomini personaggi oscuri, senza dubbio) lo trovavo divertente.

  
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