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Autore: Love_in_London_night    10/08/2012    11 recensioni
Anno domini 1998.
Avere il lettore cd portatile è un diritto inalienabile di ogni adolescente, i Backstreet Boys sono la boy band più in voga del momento, anche se i 5ive non se la passano male, e tutte – o quasi – sono innamorate di Nick Carter.
La playstation è uscita da poco, il Titanic è salpato nei ricordi delle persone da più di un anno, le Spice Girls sono una certezza e Leonardo di Caprio è entrato nei cuori di molte ragazze.
La moda è quella che è, i capelli sono crespi e per comunicare il mezzo migliore è il telefono fisso o il fax.
Carolina ne sa qualcosa, proprio perché nel ’98 ha diciannove anni e deve essere all’ultima moda per non passare per sfigata.
È Natale e sta entrando in un negozio di giocattoli per comprare i regali per i cugini piccoli.
Un sacchetto di biscotti nella borsa di plastica, il lettore cd in tasca, i BSB nelle orecchie e Nick Carter per la testa che la distraggono a sufficienza, tanto da perdersi un annuncio importante.
Non è l’unica a cui succede, però.
Peccato che Simone di Nick non abbia nulla, anche fisicamente è il suo esatto opposto.
Carolina non la prenderà bene, eppure dovrà conviverci.
Genere: Commedia, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'Si stava meglio quando c'erano i Backstreet Boys'
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Toy story
 

«Backstreet’s back alright!».
Carolina avrebbe giurato di poter riconoscere le singole voci di ogni componente della band, se solo l’avessero sfidata. Adorava quella canzone così ritmata e piena di energia, stava rischiando di entrare nel negozio ballando, anzi, imitando le mosse che aveva visto più e più volte nel video. Nonostante l’album fosse uscito l’anno prima, Backstreet’s back le piaceva sempre come se lo stesse ascoltando per la prima volta. Era una fan sfegata del gruppo americano e lo sarebbe stata sempre, i ricordi della fine della sua adolescenza erano legati indissolubilmente a loro e a quelle canzoni.
Era inoltre convinta di essere l’anima gemella di Nick Carter. Chi altri se non lei poteva prendersene cura nei secoli dei secoli con rinnovato amore in ogni santo giorno della sua vita? Avrebbe voluto passare la mano in quel meraviglioso caschetto biondo, sarebbe affogata in quegli occhi così azzurri e lo avrebbe baciato su quelle labbra ogni volta che le avessero rivolto un sorriso.
Sì, era lei l’unica con cui poteva stare,  perché Carolina sapeva tutto di lui e lo accettava così com’era, pregi e difetti, se mai ne avesse avuti.
Carolina era una ragazza come tante altre, ma il bello di lei era proprio credersi così diversa. Era convinta di essere più sensibile, più malinconica, meno lunatica e ribelle come non lo era mai stata nessuna. Invece indossava un Barbour sdrucito dall’usura come la maggior parte delle sue coetanee e ai piedi calzava un paio di Dottor Martens neri che si vedevano su chiunque per strada. Aveva un fisico nella norma, indossava Levi’s come ogni suo compagno di classe che non fosse poi così sfigato e dei maglioni che sformavano il suo busto lungo rendendolo anonimo e più grosso di quel che in realtà era. L’unica cosa che la differenziava erano i capelli: al posto di averli naturalmente crespi o di avere dei ricci  indomabili dovuti a una permanente corrosiva, li aveva lisci, con la riga in mezzo e una bella frangia a incorniciare due occhi chiari; questo perché le era più comodo, dato che erano piatti e dritti come quelli delle donne orientali.
Pensava di essere anche più bella Carolina, perché pensava di essere afflitta da una bellezza diversa. Non quella che colpiva e mozzava il fiato nell’immediato, ma una più misteriosa, che la faceva ricordare come carica di fascino. In realtà era solo una giovane ragazza che si credeva già donna. Non che fosse brutta, tutt’altro, ma non aveva capito che non tutti si giravano a guardarla quando passava e ancora meno se ne innamoravano all’istante. Non era Beatrice, e Dante ormai era morto da un pezzo.
Sospirò. Si era ritrovata a pensare quanto in comune avesse con Nick Carter. Entrambi avevano i capelli biondi e dritti e gli occhi chiari. Erano nati per stare insieme e lei non si sarebbe accontentata di niente di meno del suo sosia ufficiale.
«Everybody, yeah».
Era il ventun dicembre e quella data era importante per lei: segnava le ultime vacanze natalizie da studentessa delle superiori. Aveva diciotto anni ed era in quinta. Frequentava il liceo scientifico e si sentiva grande, di lì a un paio di mesi ne avrebbe compiuti diciannove e a giugno avrebbe preso la maturità, poi si sarebbe iscritta alla facoltà di economia.
Carolina aveva provato a fare i compiti quel pomeriggio, ma alle sei e mezza passate si era stufata di stare sui libri di inglese e matematica dato che aveva finito il suo carburante pomeridiano. I biscotti che si scioglievano nel latte, facendolo diventare vera e propria cioccolata calda, erano un diritto inalienabile di ogni essere umano dotato di un minimo di cervello. Ogni casa doveva avere almeno una confezione di Palicao nella dispensa.
Decise così di affrontare il buio, la neve e quei quattrocentocinquanta metri che la separavano dal GS più vicino a casa, uno dei vantaggi di abitare in un quartiere così ben fornito era infatti quello di avere il supermercato così vicino.
Dopo aver infilato il lettore cd portatile nella tasca del giaccone e gli auricolari nelle orecchie si era incamminata verso la meta di gran carriera, una fretta che le passò non appena si immise sulla strada principale. Le luci  ai neon che formavano pacchetti regalo, stelle comete e palle di natale la affascinarono ancora una volta. Adorava l’atmosfera del Natale e l’aria di neve che stava respirando a pieni polmoni.
Dentro al supermercato si perse tra i vari scaffali, cercando di resistere alla tentazione di un vasetto di Nutella e a quella di una pizza pronta da infilare in forno. Prese solo le due confezioni di Palicao che si era prefissata e si mise in coda alla cassa, impaziente di tornare a casa.
Fu sulla strada del ritorno che si fece venire in mente che ancora non aveva comprato il regalo di Babbo Natale per i suoi cuginetti di sei e sette anni. Dato che c’era ne avrebbe approfittato. Attraversò la strada e si riparò dai fiocchi di neve sotto al portico che ospitava anche quel grande negozio di giocattoli che aveva ospitato i migliori ricordi della sua infanzia.
Da fuori poteva sembrare normale, ma la vera bellezza di quel posto si nascondeva al piano di sotto: un immenso spazio occupato da puzzle, Lego e Barbie, il reparto che più adorava, quello dove in passato aveva speso gran parte del suo tempo a fantasticare sulle confezioni di plastica trasparente e carta fucsia che pensava ospitassero giochi pronti a prendere vita di notte.
A cosa servivano le finestre sul mondo quando in quel negozio sottoterra c’era il Paradiso? Se proprio avesse sentito la necessità di guardare verso l’esterno sarebbe rimasta a livello zero, anche se ospitava solo quaderni, peluches e quei computer, come il Sapientino, che lei tanto odiava.
Nell’entrare si tolse la cuffietta sinistra per potersi sentire mentre salutava la commessa di sempre, non voleva correre il rischio di urlare. Colei che in quel momento era al telefono e la stava fulminando con lo sguardo.
«Ciao» le disse in un frangente infinitesimale, subito dopo si rimise l’auricolare a posto, non poteva perdere il finale della canzone.
Si domandò il perché di quello sguardo così truce, dato che alla chiusura mancavano venti minuti abbondanti. Aveva controllato l’orologio prima di entrare ed erano le sette e dieci minuti.
«Odio questo maledetto telefono che non va!». Riattaccò la commessa cercando di mandarlo in mille pezzi. «Ciao» le rispose in modo sfuggente soffiando via dal viso i capelli ricci con aria spossata, ma la ragazza stava già scendendo le scale. Una risposta che Carolina non riuscì mai a sentire, i Backstreet Boys l’avevano assorbita di nuovo nel loro mondo.
«E odio i clienti che a quattro giorni dal Natale entrano in negozio cinque minuti prima della chiusura!» aggiunse sempre questa tra sé.
Ecco cosa non sapeva ancora Carolina: il suo orologio si era fermato un quarto d’ora prima. L’avrebbe scoperto troppo tardi, quando le conseguenze di quel fatto le avrebbe scontate sulla propria pelle.
 
Era vero, era lì per i regali ai suoi cugini. Sapeva cosa doveva prendere: due scatole di Lego con i pirati dentro, adoravano quel tipo di cose e in più l’avevano scritto nella lettera a Babbo Natale. Decisa ad andare a colpo sicuro deviò tuttavia nel reparto femminile appena lo mise a fuoco. Si presentò così davanti alle sue amate Barbie. Era troppo cresciuta ormai per comprarsele, ma su di lei esercitavano ancora un forte fascino a cui non riusciva a resistere. E poi da poco avevano anche dei vestiti veramente belli, una linea chiamata Fashion Avenue. Le bambine dovevano sapere per forza quanto erano fortunate e lei non poteva non dare un’occhiata.
«...What you did, as long as you love me…».
Ormai era persa nel suo mondo. Era così addentrata in esso che ne uscì solo quando la luce saltò.
 
Simone era un ragazzo normalissimo e ne era cosciente. Così normale che aveva un lungo seguito di donne pur non facendo nulla per cercarsi le loro attenzioni: buffa storia.Se non era interessato le rifiutava con tatto ed educazione, e questo gli succedeva spesso. Era infatti ammirato dai suoi amici per il suo avere così tante ragazze intorno e snobbarle quasi tutte, gli dava una sorta di carisma irraggiungibile. Ogni volta che potevano cercavano di emularlo senza lo stesso successo, e doveva sopportare le loro continue lamentele sulla sua fortuna sfacciata. Succedeva perché Simone era così, non aveva imparato a esserlo. Era sempre stato rispettoso e gentile, i suoi genitori gli avevano insegnato fin da piccolo cos’era l’educazione. Da Martina, durante i tre anni della loro storia alle superiori, aveva imparato che a una ragazza non si doveva mentire, e così aveva fatto. Infatti era stata lei a tradirlo con Matteo, il belloccio di terza del ginnasio. E nemmeno in quel momento era venuto meno ai suoi principi. Non aveva iniziato a maltrattare la categoria femminile, non aveva perso le speranze. Soltanto preferiva ritrovarsi con gli amici nell’oratorio di quartiere e giocare a calcetto piuttosto che correre dietro a ragazze dello spessore di un foglio.
Era finito nel negozio di giocattoli sfinito, dopo aver lasciato a casa la borsa contenente i libri dell’esame sostenuto nel primo pomeriggio. Un buon ventuno per quell’inferno che era Statistica. Una matricola che alla sua prima sessione d’esami se la stava cavando bene, per essere una persona che non amava lo studio ma voleva a tutti i costi un titolo prestigioso come la laurea. Economia gli era sembrata un’ottima scelta. Adorava il marketing e tutto ciò che lo riguardava, inoltre era stato un buon modo per discostarsi dal tanto odiato classico.
E poi Martina aveva scelto giurisprudenza. Almeno aveva la certezza di non incontrarla più.
Era finito lì per comprare un bel regalo a Tommaso, suo fratello di sette anni, dopo aver preso un caffè al bar vicino all’ateneo con gli amici di sempre.
Si era infilato le cuffie ed era sceso per le scale che l’avrebbero poi portato agli scaffali che ospitavano i giochi per bambini, oltre le vecchie scale mobili in disuso.
Era confuso. Cosa voleva Tommy? Action Man Missione Anaconda o i personaggi più piccoli e snodati delle TartarugheNinja? Abbassò le spalle, arreso. Quell’esame gli aveva fritto il cervello.
Fu solo lo spegnersi improvviso delle luci che lo convinse a sfilare gli auricolari.
 
«Hai controllato tutti i corridoi?». Lucia stava mettendo a dura prova il nuovo acquisto facendole fare i lavori più responsabili. Doveva capire se c’era da fidarsi o meno. Inoltre lei aveva passato gli ultimi tre quarti d’ora lavorativi a litigare con il telefono e col fax.
«Sì» annuì Melissa fin troppo convinta.
«Non c’è nessuno?»
«No, nessuno». E prese le proprie cose prima di lasciare il negozio.
«Allora andiamo, è ora di tornare a casa. Spegni le luci lì, in quel quadro».
Melissa rimase perplessa: «Tutte? Lasciamo il negozio al buio?»
«No, premi il tasto sulla destra e tra poco si accenderanno quelle di emergenza. Consumano meno, anche perché se ne accendono la metà, e fanno desistere i ladri da qualsiasi intento, in teoria».
Fu così che chiusero le porte e abbassarono la saracinesca, lasciando il negozio al buio ancora per un po’, con la voglia di raggiungere le proprie dimore al più presto.
«A domani» salutò Lucia.
«Buona serata».
 
Carolina si fece prendere dal panico. Spense il lettore cd e se lo ficcò malamente in tasca, era diventato l’ultimo dei suoi pensieri. Lui e i Backstreet Boys. Un po’ meno Nick, perché era pensando a lui che trovava coraggio.
Non sapeva cosa fare oltre che lanciare un flebile urlo spaventato che smorzò subito con le proprie mani. In risposta sentì un tonfo, come se ci fosse stato qualcun altro lì dentro con lei. Peccato avesse troppa paura per chiederlo ad alta voce. Con il cuore in gola si chinò sul posto, rannicchiandosi su se stessa e tenendosi ben stretta la propria paura. E se fosse stato un ladro? E se invece fosse un killer? Peggio: e se fosse stato un ladro di giocattoli killer?
Lei aveva l’aspetto di una bambola, glielo dicevano sempre, sarebbe stata la sua vittima ideale. No, non voleva morire proprio prima di Natale, voleva scartare e usare i propri regali; inoltre avrebbe tanto voluto partire per la montagna con gli amici per l’ultimo dell’anno. Decisamente le feste natalizie erano un pessimo momento in cui morire. Prese la prima cosa che le capitò a tiro, una spada di plastica, e se la tenne al petto. In caso di aggressione avrebbe colpito il malintenzionato fino allo sfinimento.
Le luci di emergenza si accesero e Carolina prese un po’ di coraggio.
Corse verso le scale, quindi verso l’uscita. Voleva abbandonare quel posto il prima possibile.
Si era presa uno spavento così grande da volerlo dimenticare subito. Ma, la sfortuna era dalla sua parte, davanti a sé trovò la porta chiusa e la serranda abbassata.
«Cosa? No, non è possibile! Saranno solo le…». Cercò con le dita l’orologio, girando il quadrante in modo da mostrarle l’ora. La stessa di quando era entrata. «Le sette e dieci?!».
Il suo orologio l’aveva abbandonata nel momento in cui aveva più bisogno di lui. Non solo, l’aveva anche beffata.
Un altro tonfo proveniente dal piano di sotto.
Il cuore riprese a martellare nel petto, decise di scendere e affrontare chiunque fosse rimasto chiuso lì dentro con lei, assassino o meno. Odiava i film horror, non sarebbe stata la stupida protagonista che scappava dal pazzo per una notte intera facendosi torturare psicologicamente per poi morire sentendo le chiavi girare nella serratura. Piuttosto l’avrebbe affrontato – spada finta o no – e avrebbe tentato di metterlo fuori gioco.
«C’è nessuno?» urlò con finta convinzione.
Dava le spalle agli scaffali con i giochi in modo di avere copertura. Girava gli angoli con circospezione, accertandosi che la persona sconosciuta non potesse prenderla alla sprovvista.
«Ehi, piccola Jedi! Hai avuto la benedizione di Yoda prima di usare la spada laser?».
Il piano doveva aver avuto una falla, perché la voce le giunse da dietro. E le sembrava di conoscerla.
Si girò con il sangue ghiacciato nelle vene dallo spavento. No, non poteva crederci. Non era un ladro di giocattoli, e nemmeno un serial killer. Era pure peggio.
Era davanti a Simone Loda con una spada laser come unica difesa. Lo stesso Loda che girava nel suo stesso oratorio e giocava a calcio con i suoi amici quando c’era da contendersi l’unico campo da calcio. Quel Simone che tutte adoravano e lei aveva degnato sì e no di uno sguardo. La stessa persona che parlava poco e sorrideva ancora meno.
Lui la stava fissando quasi divertito, con la testa piegata di lato e le mani nelle tasche del montgomery blu che lo rendeva elegante, ma non troppo. Quello fu il primo pensiero di Carolina.
«Simone Loda? Che ci fai tu qui?». Cercò di liberarsi della spada con indifferenza ma non ci riuscì, perché lui seguiva ogni suo movimento. In fondo, non c’era poi molto da fare in un negozio di giocattoli, perlopiù in due.
«Sono Babbo Natale» le rispose ridacchiando. «E ora, se permetti, ho intenzione di andare a casa a impacchettare i doni». Nel dirlo alzò la mano con le quattro tartarughe ninja, scuotendole per attirare su di loro l’attenzione della ragazza.
«A casa?» fece Carolina isterica. «Siamo chiusi dentro!».
Per la prima volta lo vide perdere il suo sorriso, che si spezzò subito su quel bel volto. Solo una era riuscita a toglierglielo anche solo per brevi attimi, e quella ragazza era proprio Martina.
«Stai scherzando, vero?»
«Affatto, Babbo Natale» lo canzonò. «Vieni a vedere tu stesso!».
Prima che l’altro potesse obiettare lo prese per il braccio e lo trascinò senza tanta grazia di sopra, fermandosi soltanto davanti all’entrata sbarrata. La loro corsa era finita, come la capacità di formulare una frase di senso compiuto di Simone davanti alla serranda chiusa e controllata da allarme.
Carolina si guardò in giro e sorrise: aveva trovato la soluzione ai loro problemi.
«Guarda, il telefono!».
Mentre si avvicinava alla postazione fu il turno di Simone di smorzare l’entusiasmo nell’aria.
«Non funziona»
«E come fai a saperlo?». Il suo tono era di sfida. Alzò la cornetta ma non c’era segnale.
«Quando sono entrato la commessa con i capelli ricci stava imprecando riguardo la sua inutilità» ammise asciutto.
«E questo cosa vuol dire?».
Carolina era preoccupata per la sua famiglia. Cosa avrebbero pensato della sua assenza? Quanto si sarebbero preoccupati per la sua sorte quando era chiusa in un posto che le offriva, nonostante tutto, riparo e protezione?
«Tu sei Carolina, giusto?» le chiese cercando di scavare nella memoria. «Mi ricordo di te. Ti saluto sempre in oratorio, anche tu giri lì. Frequenti dei ragazzi con cui gioco a calcio».
Lei annuì soltanto, colta alla sprovvista. Non pensava che Simone Loda si potesse ricordare di lei collegandola agli amici che avevano in comune. Era vero, abitavano nello stesso quartiere e i compagni di classe della ragazza giocavano con lui a calcio di tanto in tanto, ma oltre a un cordiale quanto disinteressato saluto non andavano. Era… Strano. Come era bizzarro ritrovarsi in quella situazione con una persona che si conosceva poco, soprattutto attraverso gli occhi degli altri.
«Carolina Sallastri» confermò infine.
Lo sguardo di Simone brillò. «Carolina, vuol dire che siamo chiusi in un negozio di giocattoli. Per far passare la serata ci divertiremo come pazzi!».
 
«Sei sicuro di sapere come si monta quest’aggeggio infernale?». Carolina era poco convinta. La PlayStation per lei era arabo, nonostante qualche volta ci giocasse con i cugini. Era una tecnologia troppo moderna per i suoi gusti. Era uscita da un anno ma ancora non era arrivata a prendere la giusta confidenza.
«Certo, sono un ragazzo!». Simone alzò gli occhi al cielo, come se fosse ovvio. Lui, al contrario, era abituato a simili sfide, dato che se l’era fatta regalare per la maturità e la portava dagli amici quando passavano le serata in casa.
«Collego l’ultimo cavo, poi giochiamo»
«Poi la rimetti nella sua scatola, come se non fosse stata mai aperta» puntualizzò lei. Si sentiva in colpa a usare le cose del negozio che poi sarebbero state vendute. Voleva consegnarle almeno in ottimo stato.
Dopo aver visto l’uscita sbarrata e aver appurato l’inutilità del telefono, avevano deciso di fare un giro nel negozio. Avevano cercato così la zona privata, quella riservata ai dipendenti, dove trovarono un piccolo bagno che avrebbero sfruttato per le proprie necessità. Non era stato semplice aprire la porta, perché era bloccata da una scala, quella che di solito usavano per sistemare i giochi sugli scaffali più alti. Carolina si stupì della posizione di quella stanzetta, perché era proprio sotto i suoi occhi, al livello dell’entrata e tra una parete di peluches e l’altra, ma non ci aveva mai fatto caso.
Si sfidarono a Puzzle Bubble, dove Carolina vinse più volte e senza difficoltà. Lo sentì accampare scuse, come, ad esempio, quanto in realtà fosse abituato a giocare a calcio o agli sparatutto, ma lei non voleva sentire ragioni: aveva vinto e lui doveva riconoscerle la superiorità a quel gioco.
Aveva scoperto che la PlayStation non era poi così male.
Furono interrotti dal brontolio dello stomaco di Simone, anche se in effetti non era l’unico ad aver fame.
«Hai l’orologio? Che ore sono?». Storse il naso, ricordandosi che era colpa del suo se a quest’ora si trovava lì dentro.
Lui scostò il maglione dal polso, in modo da avere la visuale libera sul quadrante. «Le nove e venti. Abbiamo fame e qui dentro non c’è nulla da mangiare, nemmeno un insulso pacchetto di caramelle».
Nel negozio in centro c’erano. Quelle gommose che si trovavano alle bancarelle nelle fiere. Invece lì sembrava il deserto dei tartari. Quando avevano scoperto il bagno Simone aveva aperto gli armadietti dei dipendenti per procacciare un po’ di cibo, scoprendo in realtà che contenevano solo le magliette con il logo della catena e poco altro.
Carolina si illuminò.
«Seguimi!». E corse giù per le scale con Simone alle sue spalle che tentava di starle dietro.
«Guarda che se provi a cucinare qualcosa con il Dolce Forno ti denuncio, sei avvisata». Non poteva fare sul serio.
«Non pensavo fossi così cretino, davvero» lo ammonì lei. «Quando sono entrata qua avevo i biscotti. Due pacchetti di Palicao. Potremmo utilizzarli come cena»
«Io amo i Palicao, ma potrei amare anche te che li hai comprati prima di entrare qui dentro».
Carolina arrossì per quell’affermazione così ambigua. Molte sue amiche sarebbero morte pur di sentire pronunciare da lui certe parole, e lei non aveva fatto nessuno sforzo se non assecondare la propria gola.
Lo guidò fino al corridoio delle Barbie, dove si sedettero e consumarono il loro pasto in silenzio, dando fondo a un intero sacchetto di biscotti.
«Non sento più la bocca» disse Carolina sghignazzando. «Ho bisogno d’acqua!»
«A chi lo dici!» le fece eco lui «Forza, andiamo in bagno a bere».
Si alzò per primo e le offrì una mano. La accettò senza problemi. Nonostante non fosse loquace e a volte sembrasse scorbutico, stava scoprendo che Simone Loda era molto di più rispetto a quello che si era sempre immaginata.
Simo era perso nei suoi pensieri mentre percorrevano i lunghi corridoi illuminati dalle luci asettiche dei neon che li rendevano ancora più vuoti e silenziosi. Mettevano quasi paura.
«Carolina è troppo lungo come nome, posso chiamarti…».
Ecco, lo sapeva che prima o poi quel momento sarebbe arrivato. Non le dispiaceva il suo nome, ma odiava i soprannomi: Caro era terribile, ma sopportabile rispetto a Lina che, grazie a Dio, usava solo sua nonna Amalia.
In quei secondi di silenzio attendeva il verdetto. Aspettava l’ennesimo soprannome orrendo o storpiatura di quel nome così grazioso ma così ostico ai più. Eppure Simone si era bloccato.
«Cosa ne dici se ti chiamo Carol?»
Carol. Ritornò a respirare. Carol non era male. Era diverso, era internazionale quasi, e suonava bene. Era di Simone, e non le dispiaceva affatto.
Davanti al suo silenzio il ragazzo continuò, forse non le piaceva. «Tu puoi chiamarmi Simo, non c’è problema. Mi chiamano tutti così»
«Vada per Carol».
Era la prima volta che Simone la vedeva sorridere e abbandonare quell’espressione vagamente altezzosa e maliziosa che aveva dipinta in faccia. Dovette ammettere con se stesso che era una ragazza semplice e carina. L’aveva guardata mille volte, ma solo in quel momento la vedeva davvero. Non era poi così altero, soltanto non prestava attenzione alle persone che non conosceva. Era un tipo chiuso, che si curava e si donava alle persone a lui più vicine. Non era egoista, ma introverso.
Bevvero un bel po’ d’acqua dal rubinetto, quel tanto che bastò a ridare la giusta sensibilità al loro palato. Quei biscotti erano fatti apposta per essere bagnati nel latte, non per essere mangiati in grandi quantità senza nulla ad accompagnarli.
Si guardarono in giro, indecisi sul da farsi. Fu poi Carolina ad avvicinarsi allo scaffale che divideva le vetrine dall’interno del negozio per guardare fuori. Il naso rivolto verso l’altro, sospirò senza nemmeno accorgersene.
«Cosa c’è?». Simone si preoccupava. Erano in una situazione particolare, e anche se Carolina all’inizio aveva dato un po’ di matto di certo non era esplosa e non si era fatta prendere dal panico. Aveva paura che potesse succedere in qualsiasi momento, perché non era normale che una ragazza reagisse in quel modo.
«Stavo pensando a quanto è strano essere qui. Insomma… È quasi notte e sono le feste natalizie. Dovremmo essere nelle nostre stanze, non chiusi in un negozio».
Cercava di intravedere l’oscurità della notte. Impresa difficile, dato che lo spazio tra lo scaffale e il soffitto era poco, e la visuale esterna era ridotta ancor di più dal portico sotto cui il negozio si nascondeva. Alla fine vedeva solo sprazzi di qualche illuminazione accerchiata dal buio, ma del cielo nemmeno l’ombra.
«E poi vorrei vedere le stelle. Non so, mi sarebbero di qualche conforto»
«Dici?». Si era avvicinato cercando di intravederne qualcuna. Non ci riuscì nemmeno lui.
«Potrei immaginare di essere all’aperto, al caldo. Magari su una spiaggia la notte di San Lorenzo. Qualche stella cadente per esprimere qualche desiderio».
L’idea l’allettava parecchio. Immaginarsi con lui sulla spiaggia, al mare, mentre erano stesi abusivamente su qualche lettino a fissare il cielo in cerca di qualche stella cadente, be’, le piaceva. Sarebbe stato tutto diverso: si sarebbero trovati in quella situazione perché voluta, non perché costretti come in quel momento.
«Hai desideri?». A Simone era venuta l’improvvisa voglia di ascoltarli tutti. Carolina era più semplice di quello che trasmetteva il suo aspetto, ma la cosa bella, che l’aveva colpito, era la sua imperfezione, tutta da scoprire. Aveva portato Martina per quasi tre anni su un palmo di mano. Se qualcuno ai tempi gli avesse chiesto di descriverla con un parola lui avrebbe risposto ‘perfetta’ senza pensarci nemmeno. Con gli anni, però, si era accorto che la superficie di Martina era del tutto diversa da come si era mostrata. La sua perfezione era, appunto, superficiale. Bastava scavare un attimo per trovare la falla.
Carolina, a differenza della sua ex, si mostrava come era davvero. Non si vergognava di rivelare i propri pregi e i propri difetti. Doveva riconoscerle il fatto di essere trasparente e far emergere la propria personalità ogni volta che apriva bocca o faceva qualcosa. Una qualità che non era di tutti. Anzi.
«Sì, ma non li rivelo perché se no non si avverano». Gli sorrise divertita, sapeva dove voleva arrivare con quella domanda, ma lei non gliel’avrebbe permesso. Era vero che il Simone Loda che stava conoscendo era diverso da come se l’era immaginato, ma non c’era abbastanza rapporto tra i due perché potesse aprirsi così tanto.
Decisero insieme di tornare di sotto dove avevano lasciato le proprie cose, primi tra tutti i cappotti di cui non avevano bisogno lì dentro, inventandosi altro a cui giocare. Durante il tragitto, lungo la parete che fiancheggiava le scale, Carolina diede di gomito al suo compagno d’avventure. «Guarda».
Là, accanto a un espositore pieno di confezioni di Crystal Ball, erano appese le stelle fluorescenti che di solito si attaccavano alle pareti, agli armadi o ai soffitti delle camerette dei bambini.
Carolina sorrise e Simone le rimirò, scettico.
«Ma funzionano davvero queste cose? Nel senso, brillano al buio?»
«Certo! Ma che razza di infanzia hai avuto?!».
Lo guardò incredula mentre riprese a scendere le scale, sghignazzando.
Lui alzò le spalle, cercando di liquidare la faccenda. «Non mi sono mai fidato di certi espedienti».
 
Erano le undici passate e il tempo non sembrava scorrere mai. Sapevano di essere ormai in vacanza e quindi avevano deciso di poter fare le ore piccole; eppure, nonostante fossero chiusi in un negozio di giocattoli che offriva ogni ben di Dio e le cose da fare erano molte, non sapevano più come occupare il tempo.
Si ritrovarono così nel reparto dedicato ai mattoncini Lego, quelli per cui era finita lì dentro.
«Mademoiselle, permette?» Simone si atteggiò a Lord e le porse un braccio. Si comportò come un vecchio titolato annoiato che le mostrava le ville che nella loro fantasia risiedevano nella zona panoramica della loro città, una strada che portava in cima a una collina che separava il centro storico dalla provincia.
Ogni casa costruita con i famosi mattoncini e nascosta sotto una teca rappresentava la dimora di una persona diversa su cui si inventavano divertenti storie.
Carol si appoggiò a lui e scoprì con Simone quello che dietro ogni porta si nascondeva.
«E questa?» domandò lei indicando la casa più bella e più grande.
«Be’, questa è la nostra» rispose lasciando cadere l’argomento con noncuranza.
«Ah sì? Dunque ci sposeremo?». Era attenta e civettuola, quell’interesse la lusingava.
«Certo, ma sarà solo per interesse. Io me la farò con la vicina. Non vedi che ha una Ferrari in giardino?». E indicò la casa accanto come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Si finse indignata. «Sei seriamente presuntuoso come dicono!»
«Chi lo dice?» rispose di getto. Ci pensò su qualche secondo, sorrise e aggiunse: «No, aspetta, non voglio saperlo».
Lei rimase colpita. «Sei davvero così sicuro di te?»
«Non ho mai detto di esserlo» rispose più brusco di quanto volesse risultare.
«Be’, è una bella presa di posizione la tua»
«Ho detto che non mi curo di cosa pensano gli altri, non di essere sicuro di me stesso. C’è differenza» fece notare lui, spiccio.
«La fai facile». E incrociò le braccia al petto per esibire un broncio che non stava a significare nulla, se non la sua finta indignazione.
«No, sei tu a essere complicata».
Era difficile tornare alla normalità dopo aver toccato un discorso così delicato per entrambi. Carolina si mostrava sicura agli occhi degli altri, ma era solo apparenza. Simone invece non riusciva a immaginarsi così, troppo simile a suo padre che lui vedeva come arrogante sotto quel punto di vista.
Continuarono a camminare, ma le storie su vicini psicopatici e casalinghe disperate che avevano intrallazzi con i mariti altrui iniziarono a scemare e si esaurirono con l’arrivo dell’ultima casa.
Davanti a essa Carol sbadigliò, mandando a rotoli la loro idea di fare i diavoli a quattro tutta la notte.
«In effetti sono stanco anche io». Le andò in soccorso per non farle pensare di aver guastato la serata di entrambi, visti i precedenti propositi.
«La domanda sorge spontanea: dove dormiamo?». Si guardò in giro, atterrita. Da quel punto di vista un negozio di giocattoli non offriva molto. Tutt’altro.
«Ho un’idea». E fu il turno di Simo di trascinarla dietro di sé, prendendole la mano in modo che la seguisse.
La portò in un piccolo spiazzo, era dove le corsie e i reparti si incrociavano tra di loro, ai piedi delle vecchie scale mobili.
«Wow. Un posto dove mettere i nostri cappotti per terra. Usiamo la confezione di Palicao come cuscino?». Non voleva risultare acida o pretenziosa, ma l’idea di patire il freddo sdraiata in un posto così scomodo non la allettava affatto. Aveva sempre odiato il campeggio e faceva di tutto per evitare di dormire anche due giorni soltanto in tenda e in posti simili. Non ci aveva mai provato, ma non le interessava come esperienza. Se doveva scegliere di andare in vacanza preferiva concentrarsi sugli hotel a partire dalle tre stelle.
Era questione di abitudine, non era schizzinosa!
«Ah, ora ti sorprenderò». Si girò verso lo scaffale basso dietro di lui e trafficò con qualche scatola. «Guarda qua».
Le mostrò quindi le confezioni di alcuni Pisoloni, quei sacchi a pelo per bambini a forma di animale o personaggi dei cartoni.
«Non ci posso credere!». Carol batté le mani giuliva, le sembravano dei letti di lusso compresi di cuscino.
Lo abbracciò di slancio, saltandogli al collo. Se all’inizio Simone rimase sorpreso, non essendo abituato a simili gesti, successivamente si lasciò andare. Le restituì l’abbraccio e si ritrovò a sorridere tra sé. Era passato troppo tempo dall’ultima volta in cui non si era sentito solo.
«Quale scegli?» le chiese dopo essersi ricomposti. Era strano come non si fosse creato un momento di imbarazzo dopo quel gesto.
Osservò Carolina piegare la testa e ponderare la scelta, come se da quel Pisolone dipendesse la sua intera esistenza. Alla fine con un colpo deciso del capo giunse alla soluzione.
«Io mi prendo la Tartaruga Ninja. Tu?».
Simone fece una smorfia, avrebbe voluto lui la tartaruga. Tra tutte le scelte era quella più virile. Ora gli rimaneva un coniglio e Topo Gigio.
«Vada per Topo Gigio». E nel dirlo prese le due scatole corrispondenti disfacendo così i loro giacigli per la notte. Li posizionarono cercando di non scombinare nulla all’interno del negozio, non volevano essere colti in flagrante e non volevano lasciare tracce del loro passaggio. Li avrebbero rimessi a posto la mattina seguente come avevano fatto con la PlayStation.
«Io, se non ti dispiace, penso di andare un attimo in bagno. Se non sbaglio ho visto del dentifricio prima, non mi dispiacerebbe fare le cose come a casa… Sarebbe un buon modo per non pensare in che situazione ci siamo cacciati». Fu l’ammissione di Carolina, di cui si vergognò un po’.
«Se non ti dispiace salgo con te. Vorrei approfittare anche io del piccolo bagno e del dentifricio». Simone non attese risposta e la guidò su per le scale. Non voleva lasciarla sola in un posto così grande. E se poi qualcuno per sbaglio l’avesse vista? Che avrebbe pensato? Preferiva assicurarsi in prima persona che tutto andasse per il meglio.
Ci misero un po’ ad aprire la porta perché la scala l’aveva bloccata di nuovo. Una volta risolto il problema Simone la guardò con fare circospetto e la mise fuori dallo stanzino. «È meglio lasciarla fuori per ora. La rimetto a posto io dopo aver usato il bagno» si giustificò.
«Vado prima io?». Carolina rimase sorpresa da quella galanteria, non era abituata. Non che i suoi amici fossero degli animali, ma erano così in confidenza che ormai poteva sognarsi un simile trattamento.
«Certo, fa con calma. Intanto io cerco una torcia. Quando spegnerò le luci, perché penso si possa, ne avremo bisogno per raggiungere il nostro posto».
Davanti a quella spiegazione, che non faceva una piega, non poté far altro che ringraziare per la gentilezza riservatale. Si chiuse in bagno e dopo aver svuotato la vescica ed essersi lavata i denti con il proprio dito andò alla disperata ricerca di una spazzola, cercando di convincersi che era la routine casalinga e che non lo faceva per Simone, perché non era il suo tipo.
Non si accorse che Simone aveva preso la scala e di gran carriera l’aveva portata al piano di sotto.
Quando uscì dallo stanzino privato non vide né la scala né il ragazzo.
«Simo, dove sei?». Era spaventata, non le piaceva essere lì da sola. E se le stava facendo uno scherzo l’avrebbe ammazzato e poi sarebbe morta di paura.
«Arrivo». La risposta provenne dalle scale e poco dopo Simone fece la sua comparsa con la scala.
«Che stavi combinando?»
«Vedrai» le disse poggiando l’arnese vicino alla porta. Si chiuse in bagno e fece il prima possibile.
Rimise a posto ogni cosa e raggiunse la ragazza intenta a guardare i peluches. Recuperò una torcia dallo stand vicino alla casa e armeggiò con il quadro elettrico.
«Tu affacciati dalle scale, così puoi dirmi quando trovo l’interruttore giusto e si spengono, ok?».
Carolina annuì soltanto portandosi in posizione. Dopo avergli urlato una decina di no, giunse il momento del sì. Simone aveva premuto uno degli ultimi tasti a sua disposizione.
«Perfetto, ora possiamo andare».
Seguirono il piccolo fascio di luce in silenzio, l’uno accanto all’altra.
Carolina stava pensando a quanto fosse strano essere lì con lui. Simone Loda era un vero culto tra le ragazze della sua età e nell’intero quartiere. Era davvero ambito, soprattutto perché oltre a essere di bell’aspetto aveva la fama di un ragazzo serio, inteso come uno che non pensava a far crescere il numero di ragazze fatte passare nelle proprie lenzuola, quanto più dedito a rapporti seri e duraturi. Tutte sapevano che al ginnasio aveva avuto una ex storica, ma con più contentezza le ragazze che l’avevano puntato aggiungevano che dopo quella storia era tornato su piazza.
Lei, invece, non l’aveva mai calcolato. Insomma, era il minimo che ci si aspettasse da una che pensava di essere l’anima gemella di una popstar americana bionda e con gli occhi azzurri.
Aveva osservato a lungo Simo quella sera, e doveva ammettere che era davvero bello. Non era una bellezza scontata, di quelle che all’inizio colpivano e poi stufavano man mano che ci si abituava a esse. Era alto, con le spalle larghe e un fisico nella norma. Colpivano più i suoi tratti, un po’ duri ed eleganti. Aveva i capelli mossi e scuri, gli occhi, marroni e profondi, incutevano un certo timore, ma affascinavano allo stesso tempo.
Sorrideva poco, si lasciava andare a sorrisi sinceri di rado e con gli amici più cari, e questo aumentava il suo alone di mistero, rendendolo ancor più affascinante.
Carolina si sentiva lusingata, perché quella sera Simo le aveva regalato più di un sorriso autentico, lo sapeva perché il gesto aveva contagiato gli occhi, rendendoli luminosi, e l’aveva fatta arrossire. Aveva sentito il cuore andarle in gola, ma non l’avrebbe ammesso con nessuno.
Era bello –  tanto dentro quanto fuori – e non poteva nasconderlo, ma non poteva piacerle S         imone, era l’opposto della sua idea di amore, incarnata da Nick. Nick era biondo e con i capelli lisci, mentre quelli di Loda erano mori e mossi. Nick aveva gli occhi chiari, mentre Simone li aveva scurissimi. Il biondo aveva i tratti gentili, l’altro li aveva più eleganti e duri.
Erano l’uno l’esatto opposto dell’altro, eppure c’era una cosa che non aveva paragoni e aveva capito quella sera: Simone era Simone, vero e presente nella sua realtà, e questo era un elemento che nemmeno Nick Carter riusciva a battere. Un confronto impari da cui mai l’americano sarebbe uscito vincitore.
Dovette ammettere, almeno con se stessa, che Simone l’aveva colpita davvero, in un modo che nemmeno lei si sarebbe aspettata. La cosa non le piaceva nemmeno un po’, la faceva sentire così uguale a tutte le altre che si sentiva traditrice di se stessa e dei suoi principi.
E poi come faceva a piacerle uno come Simone? Insomma, non era un cantante di successo, non suonava e non cantava in nessun gruppo. Forse, se avesse scoperto questa sua attitudine il suo animo frivolo e fiabesco l’avrebbe inteso come un segno del destino e l’indignazione verso se stessa sarebbe passata.
Lui in tutto il percorso l’aveva lasciata perdersi nei propri pensieri. In fondo andava a suo vantaggio: solo all’ultimo avrebbe scoperto cosa aveva fatto per farla felice.
Fu quindi lei a interrompere il silenzio creatosi.
«Suoni o canti in qualche gruppo?»
«Chi, io?». E rise sinceramente divertito. «Nah, sono stonato come una campana e so suonare solo il campanello».
Ecco, appunto. Carolina aveva perso l’unico modo di far pace con se stessa. Simo era diventato la fonte dei suoi guai.
Voleva dire pur qualcosa.
Si stesero nei Pisoloni con qualche difficoltà, dato che la scarsa altezza di Carol le permetteva un ottimo giaciglio, mentre Simone aveva dovuto usarlo come materasso e utilizzare un plaid di Winnie the Pooh come coperta. Il suo metro e ottanta non gli permetteva di essere contenuto in un sacco a pelo ideato per bambini di massimo un metro e sessantacinque. La cosa provocò molte risate in entrambi, regalando loro altri momenti di ilarità.
«Spengo?» chiese lui indicando la torcia.
Erano ormai entrambi stesi vicini e nei rispettivi giacigli, la luce era ormai superflua. Difatti Carolina annuì.
Fu allora che le stelle che Simone aveva applicato sul soffitto brillarono di una luce fluorescente.
Sentì il sospiro meravigliato di lei e capì di essere riuscito nel suo intento.
«Hai ragione, funzionano». Disse asciutto cercando di non tradirsi con un sorriso soddisfatto. «Può essere sempre San Lorenzo. Non trovi?»
«Anche meglio» rispose quasi commossa Carol. Nessuno aveva mai fatto un gesto così carino per lei, tolto il padre. «Grazie».
Ecco cosa intendeva nel dire che Simone era Simone, era riuscito a sorprenderla e a capirla meglio delle persone che la circondavano da una vita. Erano doti umane, ma non era da tutti possederle.
Fissava quelle stelle attaccate al soffitto con emozione e interesse. Brillavano tanto, anche perché Simone le aveva alimentate con il fascio della torcia senza che lei se ne fosse accorta. Eppure era convinta che in quel momento lui riuscisse a oscurare quella luce.
D’improvviso era diventato difficile augurargli la buonanotte, perché voleva dire non ascoltarlo più, non godere più della sua compagnia per cedere al sonno. Sentiva ormai il bisogno di saperne di più su di lui, di non averne abbastanza.
Anche Simone aveva le proprie curiosità da soddisfare, doveva riempire quel silenzio per sentirla vicina, non solo fisicamente.
«Ti rendi conto che non ti conosco e stiamo già dormendo insieme?». Glielo fece notare divertita, prendendolo in giro.
«Lo so, ci so proprio fare con le ragazze. Inutile negarlo». Si atteggiò stando al gioco lui.
«Aspetta che lo sappia mio padre, poi vediamo quanto ti pavoneggerai ancora». Scherzare con lui era troppo facile, non le sembrava uno sconosciuto.
«Così non vale! E se io dicessi a mia mamma che tu mi hai circuito? Non ne sarebbe contenta!». Il pupino di casa irretito da una giovane bella e frizzante? Un disastro.
«Sarà un’avventura da raccontare ai nostri figli» concluse lui per non parlare dei genitori. Erano nel mondo dei bambini, parlare di adulti era quanto mai fuori luogo e disdicevole. Quella serata evocava solo ricordi felici, non voleva pensare al mondo là fuori.
Solo dopo aver detto la frase si rese conto dell’ambiguità di questa, infatti Carolina rise divertita.
«Ah, dunque oltre a sposarci avremo anche dei figli?». Le piaceva scherzare in quel modo, perché un legame così prolungato nel tempo implicava altri appuntamenti, magari veri e combinati, che non avrebbe disdegnato affatto.
Anche Simone si lasciò contagiare dalle risa. Una qualsiasi delle ragazze che spasimavano per lui davanti a quella frase sarebbe arrossita e ci avrebbe creduto, cercando di fargli pesare il significato che quelle parole contenevano, invece Carol riusciva a scherzarci su, ecco perché era riuscita dove le altre avevano sempre fallito. Con lei avrebbe voluto uscire, una cosa che non succedeva dai tempi di Martina.
«No. Stavo parlando dei figli che avrò con la vicina! Sai, la mia amante…»
«Ricordo la storia. Che peccato, speravo almeno in lauti alimenti»
«Non ti ho detto che sarai tu con il tuo lavoro a mantenere tutti?». L’argomento gli fece venire in mente una domanda. «Cosa vuoi fare dopo la quinta?»
«Economia» rispose sicura, senza un attimo di esitazione.
Simone rise, gli sembrava tutto troppo facile e bello perché fosse vero.
«Perché ridi?»
«Perché già sopportarti un’intera serata è stata un’impresa titanica, non oso immaginare quando ti vedrò tutti i giorni in facoltà»
«Cosa? Fai economia anche tu? Non ci credo!». E le sue amiche non potevano dirle prima una cosa simile? Magari l’avevano anche fatto, ma ai tempi l’argomento Simone Loda non era stato di suo interesse.
«E vuoi farmi credere che non fai parte del Simone fan club e quindi non sapevi la cosa?»
«Affatto». E sbadigliò di nuovo, stanca.
«Ne riparliamo domani Carol, non me la racconti giusta»
«Buonanotte Simo»
«Sogni d’oro».
Ed era come se le stelle, oltre a essere d’improvviso al posto giusto, accanto all’altro avessero assunto un senso.
Guardando le costellazioni inventate, sopra di loro, si resero conto che di stella ne mancava una, e probabilmente ce l’avevano accanto.
L’ultima cosa che videro entrambi prima di chiudere gli occhi furono le stelle fluorescenti che però ricordarono loro gli occhi dell’altro.
 
Carol si svegliò di soprassalto. Aveva sognato di essere rimasta chiusa di notte nel negozio di giocattoli della sua zona, per di più con Simone Loda, il ragazzo di quartiere cui tutte puntavano. Cos’aveva mangiato per cena la sera prima?
Allungò un braccio e si rese conto che non era stato affatto un sogno, perché quella che stava accarezzando era la pelliccia sintetica del braccio di una Tartaruga Ninja. Pensarlo appena sveglia era pure peggio della sera prima.
Sbuffò e cercò di vedere che ore fossero, ma il suo orologio segnava ancora le sette e dieci, non era una fonte attendibile. Prese la torcia e illuminò il corpo coperto di Simone, steso alla sua sinistra, sperando tanto che avesse le braccia sopra la coperta e non sotto. Per fortuna stava dormendo tutto scomposto, una cosa che non avrebbe mai immaginato e a cui non avrebbe creduto se non l’avesse vista con i propri occhi. Il braccio destro era piegato verso la testa di Topo Gigio, ma il polso era libero. Perché l’orologio era sul braccio sinistro? Perché le cose che le servivano erano lontane o non funzionanti?
Si avvicinò di soppiatto, nella migliore imitazione del trio Occhi di gatto, e scavalcò il suo corpo dormiente con facilità. Stava per afferrare il polso e girarlo, quando una mano afferrò di scatto il suo braccio. Si spaventò a morte, tanto che le sfuggì un piccolo urlo.
«Addirittura? Siamo qui solo in due» sussurrò con voce roca e impastata dal sonno lui, con ancora gli occhi chiusi.
«Non me l’aspettavo, pensavo dormissi! E se volessi approfittare di me?»
«Se avessi voluto approfittare di te stanotte non avremmo dormito, Carol». Nel dirlo la tirò a sé, facendole appoggiare la testa sulla propria spalla e aderire il corpo al proprio. Le circondò la vita con il braccio destro, accarezzando un fianco con il pollice. «Cosa volevi fare?»
«Volevo vedere l’ora». Fu la risposta esalata con fatica. Il cuore correva, le guance erano incandescenti e faticava a respirare. Perché Simone la stava tenendo a quel modo? Non che le dispiacesse, ma sentiva una strana quanto piacevole sensazione alla bocca dello stomaco.
Lui sollevò il polso. «Le sei e venti, possiamo stare qui ancora un po’».
Carol si abbandonò, accavallando la gamba su quella di Simone. Se lui aveva osato, voleva farlo pure lei. Potevano ritagliarsi altro tempo per sonnecchiare e riposare, perché non dividere lo spazio insieme? Ormai era lì, per tornare al suo Pisolone avrebbe dovuto alzarsi. Una fatica alla quale non era pronta, essendo più bendisposta alla vicinanza di Simone. Tra le due, era l’unica tortura disposta a sopportare.
Si addormentò poco dopo con il suo respiro a cullarla.
Un’ora più tardi fu Simo a svegliarsi e a ridestarla dal sonno.
«È meglio rimettere a posto tutto». E così fecero.
Scherzarono e piegarono al meglio la coperta e i Pisoloni. Alla fine il loro lavoro era stato ripagato. Le confezioni sembravano come nuove.
«Direi di nasconderci nella corsia dei puzzle e dei giochi in scatola, appena vediamo qualche cliente girare per il negozio ce la squagliamo, cosa ne dici?». Fu la proposta di Carol.
Nonostante la compagnia di Simone fosse piacevole e le dispiacesse davvero rinunciarvi, voleva correre a casa per una doccia, per lavarsi i denti con uno spazzolino, per mangiare un pasto degno di questo nome ma soprattutto per tranquillizzare la propria famiglia. Chissà quanto erano stati in pensiero.
Un’ultima occhiata alle stelle sul soffitto e un sospiro trasognato. Chissà se qualcuno le avrebbe notate.
«Ottima idea». E la trascinò verso l’angolo più nascosto del negozio.
Rimasero lì un bel po’ di minuti, poi sentirono la porta del magazzino, oltre i tre corridoi, aprirsi: voleva dire che una delle due commesse era lì sotto, e magari l’altra non aveva badato ai clienti che erano entrati in quella mattina. Non erano pochi, perché essendo il ventidue dicembre il negozio ospitava genitori ritardatari e altri che cercavano di reperire un determinato gioco piuttosto  che sostituirlo all’ultimo con un altro.
Approfittarono di quel caos calmo per sgattaiolare di sopra. In cima alle scale, davanti al bancone che ospitava la cassa, i giochi del Game Boy e dietro le pareti un piccolo ufficio, c’era la solita commessa con i capelli ricci ancora intenta a litigare con il telefono, questa volta accompagnata da un tecnico.
Uscirono passando inosservati. Fuori dal negozio si sentirono strani: respirarono a pieni polmoni l’aria fresca come se per loro fosse stata la prima volta, eppure sentivano che qualcosa si era spezzato. Fissarono il negozio con una punta di nostalgia e malinconia.
Carol si avvicinò al ciglio dei portici, puntando il naso all’insù. Il cielo era grigio e lasciava cadere un’abbondante pioggia che stava portando via tutta la neve dei giorni precedenti.
«Guarda il cielo» lo invitò.
Quel cielo che durante la notte avevano cercato, riproducendolo e infine trovando nell’altro la tacita risposta alle loro ricerche.
«Niente stelle» constatò lui avvicinandosi.
«Però quelle sappiamo dove trovarle». Sorrise ammiccando verso il negozio.
«Già».
Rimasero in silenzio per un po’ guardandosi a fatica. Era una situazione strana. Il clima e la situazione in cui si erano incontrati e conosciuti al meglio erano venuti meno, il loro flirtare era stato moderato ma costante ed era impresso nelle loro menti, eppure lì, esposti al mondo, si sentivano fuori posto.
«Forse è meglio che io vada». Simone indicò un punto impreciso alle proprie spalle, la pioggia che gli bagnava la manica sinistra del cappotto. Per la prima volta si sentiva impacciato e non gli piaceva per nulla.
«Sì, meglio che vada anche io. Immagino che i nostri genitori siano in pensiero» aggiunse Carol morsicandosi  un labbro, nervosa.
Simo alzò gli occhi per cercare il coraggio di salutarla. Fu allora che vide le ghirlande di vischio che coprivano tutto il bordo del porticato. Sorrise e senza pensarci due volte si chinò per baciarle una guancia a lungo, forse troppo.
«Mi farà piacere vederti in università». Lo bisbigliò tra la guancia e l’orecchio, regalandole il suono del proprio sorriso.
«Se ti andasse potremmo vederci anche prima».
Era rossa in viso e non aveva il coraggio di alzare lo sguardo per incrociare quello di lui, probabilmente sarebbe morta per l’imbarazzo. Gli mise un biglietto piegato in mano.
Simone lo guardò di sfuggita e vide il numero di casa di Carol scritto con una grafia aggraziata. Sorrise, quello era il più bel regalo di Natale mai ricevuto fino a quel momento.
«Buon Natale» gli sussurrò, poi girò sui tacchi e si diresse verso casa. Nella borsa del supermercato una sola confezione di Palicao, senza regali per i cugini e con il cuore gonfio di nuove sensazioni.
Simone si volse nella direzione opposta, tornando verso casa sua.
In fondo, non le aveva fatto gli auguri di buon anno, magari l’avrebbe chiamata di lì a qualche giorno e l’avrebbe invitata per un caffè per augurarle un buon capodanno. Era famoso per la sua cortesia.
Sorrise tra sé, sperava di poterla vedere anche prima. Forse l’avrebbe incontrata in oratorio in quei giorni, o forse alla messa di mezzanotte. Non girava del vischio anche nei dintorni della chiesa?
 
Carolina aveva poca strada da percorrere, ma non poteva farlo senza i Backstreet Boys nelle orecchie, anche se quel giorno Nick Carter le sembrava più lontano del solito, e mai come in quel momento le pareva solo un estraneo di bell’aspetto e niente più.
Riprese ad ascoltare il cd da dove l’aveva messo in pausa la sera prima.
«I don’t care who you are, where you’re from, what you did, as long as you love me».
Sorrise. Forse tra i Backstreet Boys non c’era la sua anima gemella, ma di sicuro ci vedevano lungo.
Con gli occhi brillanti come le stelle affisse su quel soffitto entrò in casa con la consapevolezza che le cose strane accadevano davvero e, magari, erano anche le migliori. Era rimasta chiusa in un negozio di giocattoli per sbaglio, e scherzando, per gioco, era nato qualcosa di più.

 

* * *
 

Buongiorno a tutti!
Ultimo aggiornamento prima della partenza per Londra, dato che là il computer è un miraggio. Userò wi-fi e telefono quando potrò e nulla più.
Cosa dire di Toy Story? Una storia nata tra un esame e l'altro, volendo scrivere sui BSB, sui Pisoloni e sui vari giochi anni novanta. Spero che possa avervi divertito e strappato un sorriso.
Carol e Simo mi hanno lasciato qualcosa, quindi se un giorno dovessi avere l'idea giusta, be', perchè non metterla nero su bianco?
Vi lascio il link al mio gruppo: Love doses.
Questa storia partecipa al Contest "A Night in Wonderland" indetto da Faeire Aire, The Corpse Bride ed Emma Bennet.
A presto, sbaciucchiamenti, Cris.


   
 
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