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Autore: Emma Wright    21/08/2012    2 recensioni
Per il compleanno di Mari. ♥
“Le sembrava di essere tornata una bambina di cinque anni.
Guardò le pozzanghere, piena di nostalgia.
Allora, poteva permettersi di saltarci dentro, non importava se si fosse completamente sporcata di fango. Forse la mamma avrebbe protestato, in seguito, sgridandola, ma ne sarebbe valsa la pena.
Ricordò una piccola, pestifera ragazzina dalle trecce scure, infagottata in un impermeabile color evidenziatore. Correva dietro a suo fratello maggiore, là sotto la pioggia, cercando di stargli dietro. I due, alla fine, raggiungevano un’anziana signora dai riccioli bianchi, che cominciava a inveire loro contro sventolando l’ombrello rosa.
La ragazza si concentrò sui suoi piedi, sovrappensiero. Indossava un paio di stivaletti di pelle, regalo dei suoi ventidue anni, compiuti più o meno due mesi prima.
Appena ventidue anni, e un vuoto incolmabile.”
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
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A Mari, per il suo compleanno.
Perché credo che mi manchi, qualcuno come te.

 
La pioggia doveva star scrosciando, là fuori.
La ragazza alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo distrattamente. Romanzo d’amore. Aveva sempre odiato i romanzi d’amore. Erano così… irreali. Né sarebbero mai stati veri per lei. Ma la casa era vuota e tutto ciò che le era rimasto non era nient’altro che quell’assurdo libriccino rosa, dove palesemente l’eroina bella e brava e buona incontrava il suo principe azzurro e, dopo qualche imprevisto per rendere più interessante l’intera trama, viveva per sempre felice e contenta insieme a lui.
“Eppure dev’esserci stato un tempo in cui credevo ancora nelle favole…” mormorò tra sé la ragazza, prima di alzarsi definitivamente. “Forse…”
Si avvicinò all’ampia vetrata, incerta. Il mondo appariva bello anche in lacrime.
C’era qualcosa di innaturale, nel paesaggio: la città, solitamente affollata e piena di vita, sembrava stranamente deserta. Il cicaleccio delle persone che si accalcavano per la strada era svanito, così come l’immensa coda di auto.
“Saranno tutti rintanati nelle loro case. Ma la tempesta dovrebbe essere ormai quasi finita…”
Era vero. Le gocce cominciavano a farsi più rade. Le nuvole nere si stavano lentamente diradando.
“Dovrebbe piovere per sempre…” lanciò un’occhiata al romanzetto. “Oh, al diavolo.”
Prima di farsi venire qualche ripensamento, si avvolse in un pesante cappotto scuro, infilò una di quelle ridicole sciarpe a righe dai colori assurdi e si chiuse la porta di casa alle spalle.
 
 
Le sembrava di essere tornata una bambina di cinque anni.
Guardò le pozzanghere, piena di nostalgia.
Allora, poteva permettersi di saltarci dentro, non importava se si fosse completamente sporcata di fango. Forse la mamma avrebbe protestato, in seguito, sgridandola, ma ne sarebbe valsa la pena.
Ricordò una piccola, pestifera ragazzina dalle trecce scure, infagottata in un impermeabile color evidenziatore. Correva dietro a suo fratello maggiore, là sotto la pioggia, cercando di stargli dietro. I due, alla fine, raggiungevano un’anziana signora dai riccioli bianchi, che cominciava a inveire loro contro sventolando l’ombrello rosa.
La ragazza si concentrò sui suoi piedi, sovrappensiero. Indossava un paio di stivaletti di pelle, regalo dei suoi ventidue anni, compiuti più o meno due mesi prima.
Appena ventidue anni, e un vuoto incolmabile.
 
 
Si ritrovò a passeggiare per il parco. Aveva definitivamente smesso di piovere, e aleggiava una nebbiolina leggera. La ragazza aveva l’impressione di vagare senza meta da un bel pezzo, quando riconobbe il vecchio e secolare salice. Era bizzarro come fosse riuscito a sopravvivere in quella che si era trasformata da una piccola ammassata di casette della campagna inglese ad una metropoli. La riserva verde era stata creata appena una trentina d’anni prima, eppure quell’albero sembrava essere lì da sempre.
Lo osservò meglio. Era identico a come lo ricordava. Non andava al parco dal periodo dei suoi undici, dodici anni.
Rimase lì in piedi accanto al salice per un tempo indefinibile, prima di scuotere la testa e andarsene. Si sentiva molto a disagio, come se la stessero guardando. Chi, poi? Una manciata di alberi?
 
 
Aveva quasi raggiunto l’uscita del parco, quando arrivò la bambina.
In realtà le era letteralmente saltata sopra. Doveva star correndo, troppo distratta per far attenzione, finendo dritta contro quell’ostacolo. Non doveva averci  messo molto a rendersi conto di ciò che era successo.
—Mi scusi, signorina, io… c’era Dave e mi stava rincorrendo, pensavo di averlo seminato, ma…
Si lasciò sfuggire un sorriso. —Che ci fai qui, bambina? Fa freddo, a appena smesso di piovere e… — si interruppe, guardandola meglio.
Non poteva avere più di sette anni. Aveva dei folti e selvaggi capelli rosso scuro, ricciuti e lunghi, che le circondavano il viso lentigginoso come delle fitte fiamme. Indossava solo un vestito pesante che le arrivava alle ginocchia, e lunghi stivali scuri.
—Ecco, io… lo zio ha detto che potevamo andare a fare una passeggiata insieme a lui, ma…
—Da soli?
—No, c’è anche lui… di là, credo. — la bambina abbassò lo sguardo, esitante. Poi sembrò accorgersi di qualcosa. Le puntò addosso gli occhi nerissimi, pieni di aria di sfida. —Perché mi fa tutte queste domande? La mamma dice che non devo parlare con gli sconosciuti.
—Credo che la mamma dica anche che non bisogna andare in giro da soli con l’inverno alle porte e dopo un temporale. — replicò la ragazza con gentilezza, scostandosi una ciocca di capelli castani dal volto.
—Sì, però… chi sei? Cosa vuoi da me? — la bimba incrociò le braccia, scrutandola. Non sembrò trovare qualcosa di davvero minaccioso in quella figura alta e così sottile, dal viso affilato e fin troppo pallido, perché d’improvviso parve meno tesa.
—Sono una perfetta sconosciuta che vuole aiutarti. Chiamami… — aggrottò per un attimo la fronte, come se stesse sforzandosi di ricordare qualcosa. —May. Mi chiamo May.
Il mio nome, solamente il mio nome…
—May. May. — la piccola la osservò perplessa. —May come… maggio? Che razza di nome è?
—Lo chiederò a mia madre, e se ci rincontreremo te lo farò sapere.
Aveva ancora una madre?
Non riuscii a fermare il flusso doloroso dei ricordi. Una porta che sbatteva, una donna che gridava, lei che correva via, lontano, lontano, per non essere trovata… pranzi di riconciliazione, occhiate torve, sussurri nella notte, sorrisi falsi, lacrime, bugie e bugie e bugie…
Non sai dire la verità neanche ad una bambina di sette anni.
Si sforzò di sorridere. —Avanti, piccola, andiamo a cercare… tuo zio?
—Certo. Lo zio Jim, e Dave, e gliela farò pagare. E mi chiamo Hope, e non sono piccola — ribatté lei, avviandosi sul sentiero. —Non chiamarmi così!
Hope. Hope. Hope.
Bambina mia, un giorno vorrai tornare ad essere piccola, e innocente…
 
 
Le foglie scricchiolarono pericolosamente, sotto la suola delle sue scarpe.
A May piaceva quel rumore. Le dava un gran senso di pace.
La maggior parte del tappeto multicolore autunnale era stato spazzato via, ma qualcosa era rimasto.
Alzò lo sguardo. Dovevano essere circa le cinque del pomeriggio, ma il cielo stava cominciando ad imbrunire.
Decise che sarebbe andata a fare una visita a Coriander.
Era la sua migliore amica, Coriander.
Lo era stata davvero.
 
 
Anche il piccolo boschetto di aceri dietro casa sua non era cambiato molto.
Si era sempre chiesta cosa ci facesse lì, nel bel mezzo di quella grande città. Un piccolo polmone verde. Il terreno apparteneva a certi sconosciuti americani. I suoi genitori avevano sempre detto che un giorno sarebbero tornati ad abbattere via tutto, ma non si erano mai presentati.
May aveva scavalcato la recinzione — una pressoché inutile staccionata fatiscente —, come aveva sempre fatto. Era tutto così selvaggio. C’erano arbusti ovunque, muschio e muffe proliferavano.
Si strinse nel cappotto, avanzando. Alle sue spalle, il vento sibilò, attraversando i fitti rami degli aceri. Sembrava la canzone più vecchia del mondo.
 
 
In seguito, non seppe mai spiegarsi molto bene come riuscì ad arrampicarsi sulla vecchia casetta sull’albero.
L’avevano trovata lì, lei e suo fratello Robb, quando era ancora una bambina troppo piccola anche solo per camminare a dovere.
Robb se l’era caricata sulle spalle, per poi dare la scalata ai pioli che conducevano al piccolo rifugio. May ricordava bene quanto fosse stato incurante, nonostante la corda così sfilacciata. Con la sua vocetta stridula da bambina, aveva minacciato che la mamma lo sarebbe venuta a sapere.
Ma Robb era sempre stato temerario e si era limitato ad ignorarla. Anni dopo, May l’avrebbe ringraziato.
Il fortino era stato teatro di tanti di quegli episodi della sua infanzia, nel bene e del male. Cadute, giochi, scherzi, risate, insulti, sorrisi e litigate… ma non restava più nulla. Tutto si era dissolto.
La ragazza si sistemò sul confine tra le assi di legno scuro e il vuoto, con le gambe penzoloni. Non dovevano essere più di tre metri di altezza.
Coriander sarebbe venuta, ne era certa.
 
 
Passò un dito sul vetro della finestrella. Polvere, quel posto era pieno di polvere.
Le faceva tornare in mente la prima apparizione di Coriander.
Era emersa proprio da una nuvola di polvere trascinata dal vento, lei. May aveva otto anni ed era cresciuta insieme alle favole. Non era rimasta troppo sconcertata da quell’improvvisa apparizione.
Vuoi giocare insieme a me?”, aveva chiesto senza troppi giri di parole. Le piacevano le persone, una volta.
Quel giorno era da sola. Suo fratello era uscito con i suoi amici. Diane, la figlia capricciosa dei vicini, l’aveva abbandonata poco prima, e a May non era importato molto di restare da sola nel bosco.
Solo che aveva finito con l’annoiarsi.
E adesso c’era questa bambina, questa strana bambina, dai capelli biondo cenere e il meraviglioso vestito di vecchia foggia, candido come la neve, e gli occhi talmente chiari da sembrare trasparenti. Si era presentata come Coriander, e avevano cominciato a giocare insieme come due amiche di vecchia data.
Una volta rientrata in casa, dopo essersi sorbita un mucchio di rimproveri, era corsa a raccontare a Robb della sua nuova compagna. Lui l’aveva presa in giro, ridendole dietro. May voleva molto bene a Robb, ma in quel momento si era ritrovata ad odiarlo. Perché non voleva crederle?
Coriander tornava ogni volta che era da sola a giocare nel bosco. Chiacchieravano, giocavano insieme, si scambiavano segreti. Coriander non aveva mai avuto molto da dire, in verità, ma era bello stare insieme.
Ma poi anche Coriander l’aveva abbandonata per sempre.
 
 
Un fruscio tra le foglie.
May si chiese quanto dovesse sembrare ridicola, in quel modo. Una donna ormai adulta, in cima ad una casetta sull’albero in grado di reggere a stento al suo peso, che aspetta qualcosa che non c’è mai stato.
Scese lentamente i primi pioli, per poi saltare giù.
“Cosa credevi di fare, stupida?” rimuginò ad alta voce, lanciando un’ultima occhiata al fortino.
May?
Sobbalzò. “Ma cosa…?”
May. Sei tornata, alla fine.
D’un tratto, riconobbe quella voce. Apparteneva a Coriander, un tono molto grazioso e sottile. Sembrava sussurrasse in continuazione, ricordò.
—Troppo, troppo tardi.
Silenzio.
Non riuscii a percepire nient’altro che quello.
Non restò a farsi altre domande. Scappò via.
 
 
Non si fermò neanche un istante. Corse e corse, finché non fu sicura di essere abbastanza… lontana.
Cercò di ricomporsi. Era rientrata in centro città, proprio accanto alla fermata di uno di quei rassicuranti autobus rossi.
C’era una panchina dipinta di verde, e un vecchio dai capelli bianchi e il maglione a righe e il bastone.
—Salve — disse l’uomo. Aveva una voce ferma, profonda. —Anche lei qui?
—Credo… credo di sì. — la ragazza si lanciò un’occhiata sospettosa in giro, prima di accasciarsi sulla panchina.
—Aspetta qualcuno?
—Be’, io, solo…
—Posso comprendere.
L’anziano signore tossicchiò, poi le sorrise. Alla ragazza improvvisamente venne in mente suo nonno. Cercò di scacciare quel pensiero. Anche lui…
Doveva solo dimenticare.
Non doveva essere così difficile.
La strada cominciò ad affollarsi. Persone che andavano e venivano, tornando a popolare le viuzze di Londra.
Stranamente, aveva l’impressione che fossero come  delle formiche, occupate ad affaccendarsi inutilmente. Un viavai frenetico...
Non era quello, il suo mondo.
E restò lì, a osservare tutta quella gente, tutte quelle vite che non le appartenevano, senza realmente vederle.

Hai mai confuso un sogno con la vita, May?

 
 


 
###Nonsense, surreale, niente di ciò che è descritto qui potrebbe mai accadere. Non cercate una ragione a tutto questo, perché semplicemente… non c’è.
May non è mai esistita, anche se forse un po’ mi somiglia. È un personaggio poco chiaro, lo so, ma cosa non lo è in questa storia? Una semplice sognatrice, forse un po’ troppo solitaria.
Si tratta solo dell’ultimo parto delle mia mente malata, come tutto il resto. (?)
Happy B-Day, Mari. Sappi che questo sclero è nato per colpa tua.
Credits: Il titolo, “What we have here is a dreamer”, “Ciò che abbiamo qui è un sognatore”, è un palese riferimento al romanzo ‘Le Vergini Suicide’ di Jeffrey Eugenides.  “Basically, what we have here is a dreamer. Somebody out of touch with reality. When she jumped, she probably thought she’d fly.”
La ‘citazione’ finale non mi appartiene, ricordo di averla letta da qualche parte, e mi è rimasta impressa. C:
   
 
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