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Autore: Emily Kingston    29/08/2012    5 recensioni
Mi chiamo Percy Jackson e sono un mezzosangue.
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La sera del mio compleanno io e Annabeth ci siamo baciati, finalmente, e alla fine dell’estate sono tornato a New York da mia madre e Paul. E tutti vissero felici e contenti, insomma.
Invece no.
Credevo che le mie avventure da semidio fossero finite – o che comunque, mi stessero concedendo una pausa – e pensavo di essere solo un adolescente di Manhattan, figlio di un dio, con una ragazza semidivina, dislessico, con una sindrome di iperattività e disturbo dell’attenzione. Ma ho dimenticato di mettere in conto che sono un mago nell’attirare la sfortuna.

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Sono passati alcuni mesi dalla sconfitta di Crono e, proprio quando tutti al campo pensavano di poter avere un po' di tregua, Grover si troverà in difficoltà ed un nuovo nemico inizierà a tramare nell'ombra, deciso a distruggere il Campo Mezzosangue. Tra imprese, nuove profezie, bizzarre divinità e strani sogni, riusciranno i nostri eroi a vincere la battaglia?
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Grover Underwood, Percy Jackson, Quasi tutti, Rachel Elizabeth Dare
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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     A Percy e Harry, 
perché mi hanno fatto capire 
che ognuno di noi ha un posto nel mondo. 


Gli ultimi eroi
 

#1. Ricevo una visita inaspettata

 
Mi chiamo Percy Jackson e sono un mezzosangue.
Storicamente, noi mezzosangue siamo conosciuti come semidei, figli di un genitore mortale e un genitore divino.
Io sono figlio di Poseidone e di Sally Jackson, la mamma migliore del mondo e la donna più in gamba e intelligente che abbia mai conosciuto.
Fino a qualche mese fa, sulla mia testa semidivina gravava un’importante profezia. La Grande Profezia, pronunciata dall’Oracolo di Delfi parecchi anni fa, diceva che il primo figlio dei Tre Grandi (Zeus, Poseidone e Ade) che avesse compiuto sedici anni avrebbe dovuto prendere una decisione che avrebbe deciso le sorti dell’Olimpo.
Talia Grace, figlia di Zeus, si è sottratta alla profezia a quindici anni, unendosi alle Cacciatrici di Artemide, diventando così immortale.
Nico di Angelo, figlio di Ade, avrebbe potuto essere l’eroe della profezia solo fra qualche anno, dato che aveva ancora dodici anni.
E io, Percy Jackson, figlio di Poseidone, guarda caso avevo compiuto sedici anni proprio quell’agosto.
I requisiti c’erano tutti. Figlio di uno dei Tre Grandi. Sedici anni. Alla fine, però, si è scoperto che io con la profezia c’entravo poco e niente.
Luke Castellan, il figlio di Ermes che aveva tirato fuori Crono dal Tartaro, era l’eroe di cui parlava l’Oracolo.
Sembra quasi assurdo che fosse proprio lui, ma nonostante tutte le scelte sbagliate che ha fatto in passato è riuscito a salvarci tutti. L’unica cosa che dovevo fare io, la mia ‘scelta fondamentale’, era dargli o meno un pugnale di bronzo che lui stesso aveva regalato ad Annabeth quando si erano conosciuti.
La sera del mio compleanno io e Annabeth ci siamo baciati, finalmente, e alla fine dell’estate sono tornato a New York da mia madre e Paul. E tutti vissero felici e contenti, insomma.
Invece no.
Credevo che le mie avventure da semidio fossero finite – o che comunque, mi stessero concedendo una pausa – e pensavo di essere solo un adolescente di Manhattan, figlio di un dio, con una ragazza semidivina, dislessico, con una sindrome di iperattività e disturbo dell’attenzione. Ma ho dimenticato di mettere in conto che sono un mago nell’attirare la sfortuna.
Era quasi mezzogiorno quando mia madre spalancò le finestre della mia camera, lasciando che il rumoroso traffico di New York mi svegliasse.
“Io vado a lavoro,” mi disse, arruffandomi i capelli. Io mugolai, cercando di nascondermi dalla luce del sole e di tornare nel mondo dei sogni (già che per una volta non stavo sognando niente di strano). “Annabeth ti aspetta in salotto.”
Ci misi qualche secondo a registrare ciò che mia madre aveva detto.
Annabeth ti aspetta in salotto.
Balzai a sedere di scatto, spalancando gli occhi.
“Che cosa?!” urlai.
Mia madre uscì dalla stanza con un sorriso e, prima che io potessi aggiungere altro, lasciò l’appartamento.
Mi alzai svogliatamente dal letto, trascinando i piedi sul pavimento. Probabilmente mia madre aveva usato Annabeth per farmi alzare, le non poteva davvero essere in salotto.
Sbuffando e borbottando contro mia madre, mi tolsi il pigiama e cominciai a frugare nell’armadio alla ricerca di qualcosa da mettere.
Era domenica e non avevo alcun programma per la giornata. Annabeth avrebbe passato la giornata con la sua famiglia (una ragione in più per la quale non poteva assolutamente essere nel mio salotto) e Grover era di nuovo in viaggio.
Da quando avevamo sconfitto Crono e Grover era stato premiato diventando un membro del Consiglio dei Satiri Anziani, girava l’America in lungo e in largo, cercando di salvare le selve come gli aveva detto Pan. La povera Juniper era sempre più frustrata.
Il giorno in cui avevamo lasciato il campo per tornare in città, io e Annabeth avevamo raggiunto il suo albero e l’avevamo trovata che parlava con Grover. Stavano discutendo dei suoi viaggi e Juniper sembrava turbata.
“Non ci vedremo per mesi!” aveva protestato, aggrappandosi alle mani del satiro.
“Lo so,” aveva risposto Grover, rammaricato. “Ma devo farlo e tu lo sai bene. Sarò di ritorno per l’inverno,” le aveva assicurato.
Juniper aveva perso qualche foglia per la frustrazione, ma aveva annuito.
“Promesso?”
“Promesso”
“Prometti anche che non morirai!” aveva aggiunto.
“Lo prometto io.” Annabeth mi aveva dato una gomitata e mi aveva guardato male, ma io le avevo fatto intendere con uno sguardo che doveva lasciarmi fare. Mi ero fatto avanti e avevo guardato Juniper. “Se Grover sarà in pericolo io lo saprò e allora andrò a salvarlo. Non morirà, Juniper, lo prometto.”
Grover con le lacrime agli occhi mi aveva stritolato in un abbraccio.
“Sei il miglior semidio che abbia mai conosciuto.”
Ripensare a quel momento mi fece sorridere. Continuai a frugare nell’armadio, quando sentii dei passi nel corridoio.
Probabilmente mia madre aveva dimenticato qualcosa ed era tornata indietro a prenderla.
“Percy?” mi bloccai. Non era la voce di mia madre. “Non ti sarai mica rimesso a dormire?!”
Annabeth apparve sulla soglia della mia camera, con un cipiglio severo stampato in viso. Ma la sua occhiataccia durò ben poco, il tempo di accorgersi che ero in mutande nel bel mezzo della stanza.
Arrossì, abbassando lo sguardo.
“Oh, scusa, avrei dovuto…”
Afferrai un paio di jeans e una maglietta e l’indossai a tempo di record.
“Non importa,” la rassicurai, sperando di non essere rosso come mi sentivo.
Titubante, Annabeth entrò nella mia stanza e si fermò di fronte a me.
La guardai imbarazzato per qualche minuto, poi mi aprii in un sorriso e la strinsi in un abbraccio. Lei ricambiò la mia stretta, avvolgendomi le braccia attorno al collo.
Non la vedevo da un paio di settimane e mi era mancata più di quanto potessi immaginare.
I suoi genitori le avevano permesso di frequentare una scuola a Manhattan e, anche se cercavamo di vederci ogni volta che potevamo, i suoi impegni come architetto dell’Olimpo spesso ci tenevano lontani per giorni.
“Non dovevi passare la giornata con i tuoi?” le chiesi, guardandola in viso.
Annabeth sorrise.
“Cambio di programma. Bobby ha avuto la febbre e papà non è potuto venire,” mi spiegò. “Ho la giornata libera, quindi ho pensato..”
La baciai con un sorriso, impedendole di continuare a parlare.
So quanto Annabeth odi essere interrotta, ma non la baciavo da due settimane, e al momento non m’importava assolutamente niente di ciò che voleva dirmi.
“Mi sei mancata da morire,” le sussurrai, stringendola forte. Sentii i suoi capelli biondi che mi pizzicavano il naso e il suo profumo avvolgermi il viso.
Rise, strofinando il volto contro la mia spalla.
“Anche tu mi sei mancato, Testa d’Alghe!”
Ci sedemmo sul mio letto e parlammo per qualche ora. Annabeth mi raccontò dei suoi progetti per abbellire la sala dei troni sull’Olimpo e anche di una mezza idea che aveva avuto sbirciando i progetti di Dedalo.
Capii la metà di quello che disse, ma sorrisi per tutto il tempo.
“E poi stavo anche pensando di riprogettare i troni,” disse, giocherellando con le mie dita. “Ne aggiungerò uno per Ade e ne farò alcuni più piccoli per gli dei minori.”
“Credo che a Estia ne piacerebbe uno con accanto un focolare.”
Annabeth sorrise e appoggiò il capo sulla mia spalla.
Quando la mia pancia lanciò un acuto brontolio, mi accorsi che era ora di pranzo.
Certo che anche lei dovesse aver fame, mi diressi in cucina e, con mia grande sorpresa, trovai due piatti di pasta al formaggio in frigorifero e un bigliettino da parte di mia madre.
 Buon appetito.
Sorrisi, infilando i due piatti nel microonde.
“Allora, cos’hai voglia di fare?” le chiesi.
Annabeth arrossì leggermente. “Be’, pensavo che non siamo mai riusciti ad andare al cinema…”
L’anno prima, io e Annabeth avevamo progettato di andare al cinema insieme. Poi due empuse avevano cercato di farmi fuori alla Goode High School, l’aula di musica della scuola aveva preso fuoco, io ero scappato dalla finestra insieme a Rachel Elizabeth Dare e il pomeriggio con Annabeth era saltato. Fu più che altro colpa delle empuse e diciò che mi dissero riguardo all’attacco che Luke stava per sferrare al Campo Mezzosangue, ma all’epoca Annabeth guardò Rachel come se fosse stata colpa sua.
“Va bene,” le sorrisi. “Andiamo al cinema.”
Uscimmo di casa nel primo pomeriggio, ma il cinema era già affollatissimo quando arrivammo; riuscii a fatica ad arrivare allo sportello per prendere i biglietti.
Mentre tornavo da Annabeth con aria vittoriosa, andai a sbattere contro qualcuno.
Una ragazza dai capelli rossi, gli occhi verdi e i pantaloni sporchi di pennarello.
“Rachel!” esclamai, aprendomi in un sorriso.
La mia amica si aggiustò la felpa, poi alzò lo sguardo su di me.
Quell’estate Rachel aveva promesso a suo padre che avrebbe frequentato un collegio per sole ragazze, perciò non la vedevo da quando avevamo entrambi lasciato il Campo Mezzosangue.
Era più alta di qualche mese prima e mi sembrava che le fossero cresciuti i capelli.
Prima che iniziasse la battaglia a Manhattan, Rachel era partita con i suoi genitori per St. Thomas, ma aveva insistito per tornare quando aveva iniziato a fare strani sogni su di me. Il rientro a New York le era costato la promessa di frequentare la scuola che suo padre aveva sempre sognato per lei.
Dopo la battaglia, abbiamo scoperto che Rachel aveva lo stesso potere di May Castellan e che avrebbe potuto prendere il posto del vecchio oracolo ammuffito che si trovava nella soffitta della Casa Grande.
Alla fine, Rachel aveva rifiutato di ospitare lo spirito dell’Oracolo di Delfi perché preferiva essere normale.
“Non me la sento,” aveva detto a Chirone.
All’inizio non sapevo se sentirmi sollevato o preoccupato. Ero a conoscenza di ciò che era successo a May Castellan per via della maledizione lanciata da Ade e non eravamo certi che si fosse sciolta, perciò sapevo che se avesse accettato avrebbe corso un grosso rischio.
“Mi dispiace tanto,” aveva continuato, torcendosi le mani in grembo, “spero che la cosa non vi crei problemi, io…”
Chirone le aveva appoggiato una mano sulla spalla e l’aveva guardata in maniera rassicurante.
“La scelta è tua, Rachel,” le aveva detto, “se non accetti di tentare nessuno ti obbligherà. L’Oracolo ha vissuto dentro quella mummia per anni, sopravvivrà fino alla prossima giovane donna destinata ad ospitare il suo spirito.”
Rachel mi aveva sorriso ed io l’avevo guardata con imbarazzo, soprattutto perché sentivo lo sguardo di Annabeth pesarmi sulle spalle.
“Se lo desideri, puoi rimanere al campo fino alla fine dell’estate,” aveva aggiunto Chirone. “Nella casa di Ermes avranno sicuramente un sacco a pelo per te.”
I fratelli Stoll avevano guardata Rachel con un sorriso e le avevano fatto l’occhiolino.
Quando Rachel mi riconobbe arrossì e si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“Ehi, Percy,” abbozzò un sorriso.
“Come stai? Va tutto bene?”
“Oh sì,” disse. “Ogni tanto faccio qualche sogno strano, ma credo sia nella norma.”
Sorrisi, di sogni strani ne sapevo qualcosa.
“Come va con la nuova scuola?”
Rachel mi disse che era stata dura abituarsi alle divise e a tutte quelle lezioni sul come essere una signora, ma confessò anche che, alla fine, non era poi così male come aveva pensato.
“Sei con qualcuno?” le chiesi.
Per un momento scorsi un brillio nei suo occhi e annuì.
“Sono con alcune compagne di scuola,” spiegò. “E tu?”
Mi voltai e intravidi Annabeth che mi aspettava vicino ad uno dei cartelloni pubblicitari che sponsorizzavano i nuovi film.
Sorrisi. “Sì, Annabeth mi sta aspettando.”
“Oh.”
“Vuoi venire a salutarla?”
Rachel annuì e mi seguì tra la folla.
Quando Annabeth mi vide arrivare con Rachel pensai che avrebbe tirato fuori il suo nuovo pugnale (quando Luke aveva usato quello che le aveva regalato anni prima per uccidersi, Annabeth l’aveva gettato tra le fiamme insieme al drappo funebre del ragazzo) e che l’avrebbe accoltellata nel bel mezzo del cinema.  
Non capivo perché, ma a Annabeth non era mai andata a genio Rachel. Anche l’anno prima, quando ci aveva aiutati ad orientarci nel Labirinto di Dedalo, si era dimostrata un po’ ostile nei suoi confronti.
“Ciao Annabeth,” disse Rachel, sventolando la mano in direzione della ragazza.
“Dare.”
Io cercai di abbozzare un sorriso, ma gli occhi di Annabeth lanciavano saette e Rachel sembrava talmente affranta da non avere il coraggio di rispondere alle sue occhiatacce.
“Sarà meglio che vada,” esordì Rachel, dopo qualche minuto di silenzio. “Ci vediamo Percy.”
Prima di tornare dalle sue amiche mi baciò una guancia. Annabeth la guardò come se volesse strozzarla.
“Andiamo,” grugnì, afferrandomi la mano e trascinandomi verso le sale.
Alla fine, riuscii a impedire che Annabeth distruggesse l’intero cinema e il film si rivelò non essere poi tanto male.
Quando la riaccompagnai a casa era già buio. Il signor Chase aveva comprato ad Annabeth un appartamento vicino alla scuola che frequentava. Non era molto grande ma era abbastanza per una sola persona.
Avevo proposto ad Annabeth centinaia di volte di venire a stare da me – l’idea che sene stesse da sola in quell’appartamento un po’ mi preoccupava – ma lei diceva che la solitudine non le dispiaceva e che suo padre si fidava a lasciarla vivere da sola perché sapeva che Atena teneva sempre un occhio su di lei.
Annabeth ed io avevamo la stessa età, ma lei aveva il cervello di sua madre, perciò sapevo benissimo che se c’era una persona al mondo che fosse abbastanza affidabile per vivere da sola in un appartamento di New York era lei. Forse avrei solo voluto una scusa per vederla più spesso.
“Mi aspetti fuori da scuola domani?” mi chiese con un sorriso.
“Non hai delle colonne da progettare domani?”
“Ahimè, ho mandato i progetti per le colonne sull’Olimpo l’altro ieri,” disse. “Temo che dovrai litigare con me nei prossimi giorni, Testa d’Alghe.”
Le avvolsi la vita con le braccia e l’avvicinai a me.
“Non chiedo altro.”
La baciai e lei mi sfiorò i capelli con le dita. La striatura grigia – un ricordino di quando avevo sostenuto il cielo un paio d’anni prima – ormai si confondeva con e le altre ciocche di capelli.
“Ci vediamo domani,” sussurrò, allontanandosi.
“A domani.”
Le rivolsi un ultimo cenno di saluto con la mano prima che sparisse oltre il portone del palazzo, e poi mi avviai a casa. 


-
Ehm, salve. 
Non so da dove sia nata questa storia, forse da un idea matta che mi è venuta di notte o da qualche meandro del mio cervello. In qualunque caso, adesso è qui.
Non sono esperta del fandom di Percy Jackson, perciò mi perdonerete se i personaggi non sono perfettamente IC. 
Proprio per la mia scarsa esperienza mi farebbe piacere avere delle opinioni da chi scrive in questo fandom da più tempo di me, quindi anche le critiche (soprattutto le critiche!) sono be accette :)
Be', spero che questa nuova avventura di Percy vi piaccia. A presto con il prossimo capitolo, 
Emily. 
   
 
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